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Marvi Maggio
Il programma “20.000 case in affitto” come modello? Rischio da sventare e politiche da promuovere.
1 Gennaio 2007
Abitare è difficile
Critica alla politica della casa che sembra prevalere in Toscana, e proposte sensate per la “città come bene comune”. Pervenuto il 29 dicembre 2007

La critica al programma 20.000 case in affitto in corso di realizzazione nel Comune di Firenze [1]è diventata pienamente attuale per due motivi. Il primo è che il TAR ha bloccato uno dei cantieri, quello di via Arnoldi, dando ragione ai residenti e dimostrando che se le amministrazioni pubbliche e le sovrintendenze non sanno difendere gli interessi collettivi e i beni comuni, quando la misura è colma si trovano inaspettate tutele. Il secondo è che la Regione Toscana intende assumere come modello per rispondere alla questione abitativa, il tipo di partnership pubblico privato promosso con il programma in questione, di cui abbiamo puntualmente descritto i risultati nell’articolo citato[2]. La sua critica assume così un valore non solo contingente ma strutturale.

Dopo l’approvazione definitiva e l’inizio dei lavori nelle aree fiorentine del programma 20.000 case in affitto, è stato attivato un altro programma con modalità del tutto simili. Si tratta del “Programma integrato di intervento per l’incremento e diversificazione dell’offerta di abitazioni in locazione” facente anch’esso parte del “Programma regionale di edilizia residenziale pubblica 2003-2005” della Regione Toscana. Anche in questo caso al bando regionale indirizzato ai comuni toscani ha risposto il Comune di Firenze che ha predisposto un proprio avviso pubblico rivolto ai privati per selezionare proposte di intervento. Fra le proposte avanzate l’unica “proposta ammissibile” è stata quella presentata dalla Società Affitto Firenze riguardante l’area Canova Giuntoli nella quale è prevista la realizzazione di 20 alloggi di edilizia residenziale agevolata (20 alloggi, 1.700 mq. di superficie complessiva, contributo richiesto 948.600 euro su un costo complessivo di 2.108.000 euro); 24 alloggi di edilizia residenziale non agevolata, cioè privata (alloggi di 97 mq. medi e costo complessivo di 4.656.000 euro) e un intervento commerciale e servizi alla persona (150 mq. con costo complessivo 300.000 euro), il tutto attuato da Affitto Firenze. Il programma prevede anche la realizzazione di 20 alloggi da parte del Comune e un centro sociale di quartiere. Come d’uso il programma “risulta in contrasto con le previsioni del vigente PRG” e “pertanto la sua realizzazione richiede una apposita variante al PRG”. L’avvio del procedimento della variante è del 11/7/2006. Le destinazioni delle aree coinvolte nel PRG vigente erano “sottozona G2 con simbolo attrezzatura pubblica amministrativa di progetto”, “sottozona G1 con simbolo verde pubblico di progetto”, porzione di “area classe 9: verde privato e aree di pertinenza di edifici pubblici e privati” e parte di viabilità esistente. Con la variante l’area diventa “zona omogenea C sottozona C1.2 – di nuovo impianto a bassa densità all’interno di un piano urbanistico esecutivo di iniziativa pubblica con conseguente spostamento del perimetro del centro storico minore all’interno del quale, attualmente si trova l’area destinata a classe 9”. In questo caso con la giustificazione delle case da costruire, oltre all’usuale eliminazione delle aree destinate a servizi da standard obbligatori (aree G), si arriva anche a modificare il limite del centro storico: in effetti una volta distrutto quello che ne faceva parte il limite sarà effettivamente quello proposto. Da rilevare che questo progetto ha ricevuto l’approvazione della Regione Toscana e l’ammissione al finanziamento è stata approvata con deliberazione giunta regionale n. 851/1075 del 6/12/2005 e con decreto dirigenziale regionale n. 1479 del 27/3/2006.

La Regione Toscana sta preparando lo “Statuto dell’edilizia sociale” e il modello a cui dare sistematicità è quello del Programma regionale 2003-2005 di cui fanno parte le “20.000 case in affitto” e le case in affitto “calmierato”.

Viene da chiedersi come sia possibile utilizzare lo slogan “C’è del nuovo nella politica della casa”, per l’ennesima riproposizione del vecchio, almeno di 20 anni, e ormai comunemente ritenuto fallimentare intervento in “partenership pubblico privato”. Fallimentare non per il privato, che ottiene tutte le facilitazioni di un intervento pubblico per realizzare il suo profitto/rendita immobiliare, ma per il bene pubblico, per quello che si ottiene per i bisogni sociali. A dircelo è per esempio Susan Fainstein, esperta di fama mondiale, che ha analizzato i risultati di questo connubio negli anni 80 nei paesi che per primi se ne sono fatti promotori: il Regno Unito e USA[3]. Susan Fainstein sulla base di una indagine su una serie di casi sottolinea come questo tipo di programmi, che possono consentire concessioni edilizie in deroga alla zonizzazione vigente, o un aumento di densità edificatorie, o sgravi fiscali per gli operatori privati in cambio della realizzazione di abitazioni sociali e servizi pubblici siano risultati poco redditizi per la collettività. (Susan Fainstein, Promoting economic development. Urban planning in the United States and Great Britain, APA Journal, n.22 1991 e Smith 1989). Analogo il giudizio di Smith in merito alle politiche promosse da alcune città californiane (M.P. Smith, “The use of linked development policies in U.S. Cities”, in N. Parkinson, B. Foley, D.R. Judd (editor) Regenerating the Cities. The UK Crisis and the US Experience, Scott Foresmann, Glenview, 1989).

In tema di partnership pubblico privato va poi rilevato un trucco che rischia di inficiare molti calcoli economici di fattibilità finanziaria e di distribuzione di oneri e compiti fra pubblico e privato. Troppo spesso i calcoli delle imprese all’interno delle “partnership pubblico privato” invece di assumere il prezzo delle aree (la rendita urbana) come un guadagno, lo assumono come un costo inficiando tutti i calcoli. Infatti furbescamente le imprese immobiliari considerano solo la fase finale del processo, quella di edificazione, come se l’impresa promotrice comprasse i terreni a valori corrispondenti alla destinazione a nuova costruzione. Al contrario il processo decisionale e realizzativo inizia con l’idea del progetto e spesso l’area è comperata prima di ottenere la variante e l’uso del suolo desiderato ed è quindi il proponente/costruttore ad appropriarsi della rendita e non il proprietario iniziale. Oppure l’area è stata comperata molto tempo prima a prezzi agricoli e poi quando è il momento, ottenendo le destinazioni d’uso più lucrose si incamera la rendita. Inoltre le imprese ascrivono fra i costi gli interessi per i prestiti presso le banche, mentre siccome di prassi vendono le case prima di costruirle, i costi per gli interessi li pagano i compratori e non loro. Costi gonfiati che fanno sì che il prof Roberto Camagni (professore ordinario di Economia urbana al Politecnico di Milano) in una recente conferenza abbia parlato di un profitto del 9% denunciato dai costruttori dei programmi integrati a Milano contro uno reale del 97%.

I rischio è che la politica abitativa proposta dalla Regione Toscana rafforzi la segregazione sociale dove c’è e la crei dove non c’è ancora. Infatti le finalità dello statuto dell’edilizia sociale [4] sono:

- le soluzioni al disagio abitativo vanno individuate “secondo articolazioni di area vasta”, a prima vista sembra positivo perché appare che il problema venga affrontato alla scala appropriata, purtroppo è solo un escamotage, infatti nel concreto vuole dire che nell’area vasta il problema potrà essere “risolto”, guarda caso, nelle aree più periferiche o comunque meno pregiate per il mercato;

- valorizzare il ruolo dell’associazionismo, del volontariato e “di tutti i soggetti in grado di concorrere alla ricerca di soluzioni alloggiative per situazioni di maggiore gravità e urgenza”, che possono comprendere l’accompagnamento sociale: questa scelta comporta una grave segregazione sociale e un trattamento da minorati per persone che invece sono semplicemente (e drammaticamente) prive di reddito, di proprietà e/o di un lavoro congruamente retribuito;

- sollecitare e orientare “la partecipazione dei privati nella realizzazione di programmi integrati di riqualificazione urbana finalizzati all’incremento e alla diversificazione dell’offerta di abitazioni a canone calmierato”; per sollecitare e orientare le amministrazioni pattuiscono scambi ineguali e cessione gratuita di beni comuni;

- riferire “la fissazione dei requisiti per l’accesso e la permanenza nel patrimonio residenziale pubblico ai caratteri quali-quantitativi e localizzativi dei diversi segmenti dell’offerta di edilizia sociale e in ragione delle condizioni familiari, economiche e alloggiative dei richiedenti, da parametrarsi in modo uniforme su tutto il territorio regionale”; di fatto si tratta di un ingresso trionfale delle ragioni e dei criteri del mercato immobiliare nell’edilizia residenziale pubblica. In parole semplici significa estorcere quanto più possibile dall’inquilino e legare ogni qualità a un prezzo;

- “articolare l’offerta di abitazioni in locazione a canoni regolati in ragione dei diversi segmenti della domanda sociale, in funzione di una più equa e razionale utilizzazione dell’edilizia residenziale pubblica…[5], ma in una intervista [6] l’assessore regionale Conti è ancora più esplicito: invocando “una politica legata a un’idea di città che sia strumento di attuazione delle strategie, non di svalutazione delle aree, come accadeva in molti casi per i PEEP” (ndr piani di edilizia economica e popolare) afferma che “questo è possibile attraverso un ampliamento e una diversificazione dell’offerta pubblica di abitazioni che è la condizione per una più equa e dinamica utilizzazione del patrimonio a canone sociale e un modo per favorire l’uscita dall’Erp di chi pur non avendo più i requisiti di reddito non è comunque in grado di accedere al mercato privato”. Vuole dire lasciare nelle case a canone sociale (di proprietà di Casa Spa) solo le persone che hanno un reddito inferiore al massimo consentito (13.000 euro annue, somma dei redditi di tutti i conviventi, computati al 60 % per lavoratori dipendenti e pensionati). Apparentemente giusto in realtà crea ghettizzazione e non certo integrazione: nelle case a canone sociale dovranno abitare solo casi di povertà estremi.

L’unico vero vincolo per gli interventi di edilizia residenziale pubblica (ERP) è l’immediata cantierabilità, tempi certi per inizio e ultimazione dei lavori.

L’assessore regionale Conti nell’intervista citata[7] indica come positivo il fatto che il Comune di Firenze abbia introdotto la norma che in ogni nuovo insediamento il 20% sia destinato a Edilizia residenziale pubblica. Ma vediamo di che 20% si tratta. Nel caso dell’area Belfiore su via Benedetto Marcelli, ex Fiat, gestita dalla Società Belfiore Spa (posseduta al 100% da Fidia SPA, il cui presidente Riccardo Fusi è il presidente della Baldassini, Tognozzi e Pontello) destinata ad albergo, il 23/2/2005 (DGC 2005/G/00966 – 2005/01145) un accordo fra società Belfiore spa e Comune prevede di riservare alla “residenza, nella forma della locazione abitativa temporanea (ndr. per 10 anni), una quota pari al 20% della superficie utile lorda complessiva dell’intervento come individuato nelle tavole… del piano di recupero”. Ma prevede di realizzare gli alloggi in affitto temporaneo non nell’area Belfiore, ma “in altro complesso immobiliare in corso di costruzione posto in Firenze tra via Toscanini e la via Respighi..e precisamente negli alloggi… di proprietà Società parco delle cascine spa con sede in Firenze via Baracca 9”.

Va aperta una parentesi sull’uso dei termini che talvolta rende poco chiaro il bilancio fra edilizia davvero sociale, a canone sociale in affitto, ed edilizia in vendita costruita da cooperative ed imprese con finanziamenti pubblici. L’edilizia residenziale pubblica comprende edilizia sovvenzionata, cioè quella con i canoni sociali, ma anche l’edilizia agevolata e convenzionata (entrambe il più delle volte case da cedere in proprietà costruite da parte di cooperative ed imprese con finanziamenti pubblici). La terminologia più antica che data 1919[8] prevede la distinzione fra le case economiche e quelle popolari. Le prime erano le case di proprietà del Comune o degli IACP, assegnate in locazione, destinate agli operai. Le case popolari, destinate agli impiegati, erano costruite da cooperative e assegnate ai soci in proprietà anche individuale (oppure erano assegnate in affitto nel caso di cooperative a proprietà indivisa). Un po’ di confusione ha creato il fatto che ci sono case sovvenzionate (cioè con pesanti sovvenzioni pubbliche a fondo perduto) che sono cedute in proprietà. Ora si è aggiunto il termine housing sociale con il quale talvolta si designano le case da affittare a canone calmierato, costruite da imprese e cooperative con finanziamenti pubblici e facilitazioni di vario tipo. Quindi quando si leggono i dati sull’edilizia residenziale pubblica bisogna considerare che comprendono anche la costruzione sussidiata di case da vendere a prezzi un po’ inferiori a quelli di mercato e che poi, dopo 5 anni possono essere vendute sul libero mercato, con qualche vantaggio individuale, ma anche con un costo sociale che non contribuisce certo a risolvere la questione abitativa..

Nei discorsi sulla casa da un po’ la Regione si è accorta che ci sono “fasce sociali sin qui escluse da ogni provvedimento perché collocate appena al di sopra delle soglie minime per l’accesso agli alloggi di edilizia sociale ma impossibilitate a muoversi nel libero mercato con i prezzi inaccessibili che esso propone”. Per questa fascia di popolazione prevede gli alloggi a costo intermedio del tipo delle 20.000 case in affitto: edilizia agevolata cioè con finanziamenti pubblici e prezzi di affitto controllato, che risultano comunque troppo alti e ben al di sopra di quelli della vecchia “sovvenzionata”.

Se numerosi gruppi sociali che non possono accedere al mercato non sono ammessi neppure all’edilizia a canone sociale ci sono due semplici soluzioni che agiscono su questi due supposti vincoli che una Regione ha tutto il potere di correggere, visto che ha competenze nella programmazione delle risorse destinate al settore dell’edilizia residenziale pubblica; nella gestione ed attuazione degli interventi, nell’assegnazione degli alloggi e la determinazione dei relativi canoni:

- uno è modificare le regole di accesso all’edilizia a canone sociale, elevando il livello massimo di reddito consentito e ammettendo a pieno titolo anche i singoli, i giovani, gli anziani, le coppie senza figli e altri tipi di convivenza anche in gruppo. La logica democristiana e buonista ha sempre dato la precedenza a chi aveva numerosi figli, più erano meglio era, e alla povertà (chi non era abbastanza povero doveva/poteva comprasi la casa con i mutui agevolati). Ma anche chi non ha figli e ha redditi bassi non può accedere al mercato. O meglio può accedere al mercato a patto di comprimere la qualità dell’abitare attraverso il sovraffollamento (5/10 in un alloggio), o comunque attraverso la coabitazione forzata con familiari o amici, o attraverso l’utilizzo di locali che non sono o non dovrebbero essere abitabili (cantine, soffitte etc).

- regolare gli affitti (tutti) e imporre che non superino un tetto dipendente dalla qualità dell’alloggio (che dipende dal costo di produzione dell’alloggio) e non dalla localizzazione il cui prezzo dipende da una qualità prodotta (e pagata) collettivamente e non dal costruttore. La regolazione degli affitti nei Paesi Bassi dall’inizio del XX secolo ha seguito questa strada e ha permesso un vasto accesso alla casa in affitto a prezzi veramente accessibili. Contemporaneamente, visto che sembrano mancare, è necessario varare apposite leggi e regolamenti che puniscano duramente (con l’esproprio a costo zero) chi affitta locali non abitabili, assegnando la responsabilità dell’uso reale di quanto viene affittato ai proprietari e non agli inquilini. Recentemente abbiamo letto che famiglie vivevano in cantine pagandole 600 euro al mese. Fatti di questo genere non devono essere tollerati (ricordate, la legalità?).

Contemporaneamente è ovviamente necessario realizzare edilizia in proprietà pubblica da affittare a canoni sociali in quantità sufficiente a risolvere la domanda, come si propone nella parte conclusiva del saggio già citato nella nota 1.

Alcuni dati: a Londra il 50% delle nuove costruzioni devono essere “affordable housing” (case a prezzi accessibili). In Francia l’obiettivo è che il 20% dello stock abitativo debba essere sociale (non si adotta la percentuale solo per la nuova costruzione, ma la percentuale da raggiungere è sullo stock complessivo esistente). In Catalogna lo standard prescrive che dal 20 al 30% dello stock debba essere di edilizia sociale. Insomma in Italia per raggiungere un tale standard dovremmo avvertire BTP, Coop. Unica, Lorenzo Giudici, Fratini, Ligresti, Coppola, che da ora in poi, ci dispiace ma si possono costruire solo case di edilizia sociale in affitto a canone sociale.

La percentuale di alloggi di edilizia sociale in rapporto al totale di alloggi esistenti è:

in Olanda il 35%; in Danimarca il 19%, in Francia il 16% e in Italia in 4%.

In ultima istanza si tratta di liberare spazio a

LA CITTÀ IN COMUNE

La qualità del vivere la città, il diritto alla città, è composta da una pluralità di caratteristiche e di possibilità, di fruizioni, funzioni e di invenzioni. Non può essercene una senza le altre. Ci vogliono tutte insieme, ed è la loro contemporanea presenza che ci dà il senso di cosa significhi vivere in modo soddisfacente in una città o di cosa dovrebbe e potrebbe significare: la casa ma anche i servizi, ma anche il tessuto connettivo, la qualità dell’aria e dell’acqua, del suolo, di tutto l’ambiente, i luoghi di incontro e di apprendimento, di cultura e d’arte, la creatività e la capacità di imparare. Tutti necessari come non si può dire che basti l’acqua o il cibo o la felicità da sole a farci vivere, sono tutte necessarie.

Purtroppo nella vita di tutti noi c’è l’esperienza simile seppur diversa di porte chiuse, giardini recintati, spazi e accessi negati: per proprietà, per prepotenza. Eppure la città nasce per la presenza di spazi comuni di scambio, di incontro. Senza quelli non ha senso avere una città.

“…la città è una proprietà comune dei suoi abitanti. E’, in senso economico, un bene pubblico… il valore astronomico assegnato al centro della città emerge solamente dal fatto che è al centro delle attività di milioni di persone. Loro, non i proprietari, hanno creato questi valori, che evidentemente appartengono ai cittadini” (Colin Ward)

Nei percorsi fra la ricerca di tutto quello di cui avremmo bisogno e il suo ottenimento, individuale o collettivo, ci imbattiamo nella privatizzazione di quelli che rivendichiamo come beni comuni. E’ l’accumulazione da espropriazione che significa espropriare qualcuno dei suoi beni o dei suoi diritti per l’accrescimento del capitale privato. I diritti che tradizionalmente sono stati proprietà comune vengono espropriati attraverso la privatizzazione. La privatizzazione dell’acqua impone che la si paghi a chi se ne è appropriato, e ora ne è proprietario o gestore, mentre tutti dovrebbero avere accesso a questo bene comune. Quando i settori pubblici, come la scuola o la sanità, si vedono sottratti i finanziamenti pubblici, sempre più persone devono rivolgersi al settore privato. E anche in questo caso qualcuno accumula grazie a questa privatizzazione. La proprietà privata della terra, la cui privatizzazione ha una lunga storia, da sempre ostacola la risposta universale ai più elementari bisogni di alloggio e di spazio sociale e pubblico. Ma blocca anche qualsiasi tentativo di salvaguardare e di proteggere l’interesse collettivo, in modo efficace e definitivo, dalla voracità insaziabile dei grandi proprietari e delle imprese immobiliari, che talvolta la pianificazione territoriale pubblica ha cercato di proporre. Anche l’inquinamento dell’aria e dell’acqua si configura come una privatizzazione, perché ci viene sottratta aria ed acqua di qualità da chi usa e deteriora questo patrimonio comune per il proprio vantaggio economico; basti pensare alle industrie che inquinano per risparmiare sui depuratori o per non spendere su innovazioni che permettano produzioni davvero pulite. L’accumulazione da espropriazione comporta la sottrazione di diritti universali, e la loro privatizzazione in modo che diventino una responsabilità individuale, invece che responsabilità sociale.

C’è più che un filo che lega la questione del diritto alla città e all'accesso alla terra (casa, servizi sociali, spazi pubblici e di comunicazione, spazi sociali e culturali) e le questioni degli elementi e dei processi naturali (acqua, suolo, aria, flora e fauna, ambiente, loro qualità e lotta agli inquinamenti, compresa la questione dei rifiuti e delle nocività), dei servizi a rete privatizzati o in via di privatizzazione (acqua, energia, trasporto pubblico, rifiuti, telefoni..). C’è la nostra vita a legarli e una domanda che li vede come premesse minime tutte necessarie e irrinunciabili.

Noi diciamo che sono beni comuni (in forma di risposte ai bisogni e in forma di qualità del vivere), ma c'è chi li vede e li tratta come risorse da sfruttare e come merci. E questo ci impone di affrontare anche le ragioni economiche della loro sottrazione: rendita fondiaria, profitto, tipo di produzione delle merci (cosa, quanto, per chi) in generale e la connessa generazione abnorme di rifiuti, questione nocività e tariffe, la produzione dell’ambiente costruito. E ci impone anche di affrontare chi e quali imprese, talvolta multinazionali, sono gli attori, i promotori di questi investimenti e gli accaparratori di profitti e rendite. E il ruolo della pubbliche amministrazioni in questo gioco. La centralità della rendita fondiaria nell'analisi del territorio risiede nel suo ruolo strutturale nel localizzare (o situare) le attività (e le classi sociali, gruppi sociali) sul territorio. Con tendenza alla segregazione sociale e funzionale.

In questi anni abbiamo visto nascere e crescere lotte per l’accesso alla casa e ai servizi pubblici, contro gli sfratti e gli sgomberi, per spazi sociali e collettivi, contro le innumerevoli speculazioni immobiliari volte a costruire a spese di tutti per il vantaggio di pochi, contro gli inceneritori, i rigassificatori, contro l’inquinamento dell’aria, dell’acqua, della terra, contro l’elettrosmog, per la salvaguardia della nostra salute e della qualità dell’ambiente in cui viviamo e di cui facciamo parte, per la qualità del servizio e per i diritti dei lavoratori del trasporto pubblico locale, per la proprietà comune e la gestione pubblica di tutti i servizi: gas, elettricità, acqua, trasporto pubblico…ma anche dell’intero territorio..

Che cosa hanno in comune?

Invece della città per pochi e della città divisa…

LA CITTÀ IN COMUNE

È fatta di infinite proposte possibili, ma anche di principi inviolabili e irrinunciabili:

- uguaglianza nella diversità, impedendo che presunte differenze escludano dai diritti;

- nessun diritto individuale o collettivo può comprendere diritti su altre persone (per esempio sulle donne), tali da pregiudicarne il diritto all’autodeterminazione;

- non è ammessa nessuna giustificazione alla violenza sulle donne e alla sottrazione del diritto di tutte all’autodeterminazione. Tre principi fondamentali: integrità fisica (del corpo femminile) come bene indisponibile; inviolabilità del corpo (femminile); autodeterminazione (delle donne);

- integrità fisica, inviolabilità del corpo (nessuna ammissibilità a nessuna forma di tortura), autodeterminazione per tutti (abbiamo sottolineato in particolare questi stessi diritti per le donne perché sono sotto attacco);

- non ammissibilità dello sfruttamento delle persone (nessun diritto individuale o collettivo può comprendere il diritto di sfruttamento di altre persone);

- non ammissibilità della distruzione e dello sfruttamento della natura e promozione di usi degli elementi naturali che garantiscano la loro riproduzione e così facendo la nostra stessa salute e benessere;

- uso comune dei beni e servizi territoriali senza che nessuno ne possa pregiudicare l’uso e la fruizione da parte degli altri attraverso la proprietà privata, la dissipazione, la distruzione o l’inquinamento;

- nessun confine per le persone; libertà di circolazione e di movimento per tutte;

- reddito (e servizi sociali, compresi casa e diritto alla città) per tutti.

La città come bene comune è

LA CITTÀ IN COMUNE

[1] Una circostanziata critica alla realizzazione fiorentina del “Programma 20000 case in affitto” si trova nell’articolo pubblicato sul sito eddyburg: Marvi Maggio, “La casa a Firenze. Alloggi in affitto a che prezzo?”

[2] Ibidem.

[3] Gibelli, M.C., “Tre famiglie di piani strategici: verso un modello reticolare e visionario” in Curti F., Gibelli M.C. (editor), Pianificazione strategica e gestione dello sviluppo urbano, Alinea, Firenze, 1996.

[4] Regione Toscana, Giunta Regionale, Direzione generale delle politiche territoriali ambientali, Settore politiche abitative e riqualificazione degli insediamenti - edilizia residenziale pubblica, Verso lo statuto dell’edilizia sociale, settembre 2006.

[5] Ibidem, pag.9.

[6], “Intervista a Riccardo Conti, Assessore al territorio ed alle infrastrutture della Regione Toscana, di Leonardo Rignanese”, Urbanistica Informazioni, n.2007, maggio-giugno 2006, pag,69.

[7] Ibidem, pag.69.

[8] Vedi Lodovico Meneghetti, “La casa della città pubblica” in http://eddyburg.it.

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