milleniourbano, 10 ottobre 2017« Jane Jacobs dedicò alla funzione dei marciapiedi in Vita e morte delle grandi città uno riguarda «l’assimilazione dei ragazzi» nella vita collettiva». (c.m.c.)
Una foto di Helen Levitt, tra le grandi street photographer del secolo scorso, ritrae una indicazione tracciata da qualche bambino con un gessetto su una pietra del rivestimento di un palazzo: tre cerchi concentrici e la scritta BUTTON TO SECRET PASSAGE PRESS. Nel labirinto urbano dei marciapiedi, delle scale, dei portoni, dei vicoli, degli spazi pieni di detriti tra un edificio in rovina e l’altro, sui rami di uno striminzito albero solitario, i bambini fotografati da Levitt sanno trovare il passaggio segreto per i loro giochi.
Le sue fotografie, dalla fine degli anni Trenta fino agli inizi degli anni Novanta hanno ritratto nelle strade di New York le attività infantili e quelle quotidiane degli adulti di ogni età, etnia e condizione sociale. Ma sono in particolare i bambini e l’uso della strada come scenario della loro immaginazione i protagonisti per Levitt di ciò che Doris Lessing ha definito il «grande teatro» della città, dove si può stare seduti «per ore in un caffè o su una panchina, solo per guardare»[1]
In un suo racconto la scrittrice newyorchese Grace Paley racconta così la vita della strada «Una volta, non troppo tempo fa, gli appartamenti erano punteggiati fino al quinto piano da donne come me, una finestra ogni tre, che chiamavano i bambini dai giochi per dar loro ordini e direttive». Paley ha dichiarato che per lei «vivere con i bambini era una continuazione della vita della strada. Ne ero affascinata. Sono qui venticinque, trent’anni dopo, e ancora non riesco a dimenticare come è stato interessante vivere con loro»[2]. Questa fiducia in ciò che Walter Benjamin definiva la dimora della collettività si infrange verso la fine degli anni Sessanta. Nel 1968, all’età di otto anni, Jean-Michel Basquiat fu travolto e quasi ucciso da un’auto mentre giocava per strada a New York e ciò segnò simbolicamente il definitivo trionfo dell’auto sul pedone nella vita della strada oltre, naturalmente, all’esistenza dell’artista afro-americano.
L’idea della strada come luogo pericoloso si affaccia in quello stesso racconto di Grace Paley prima citato. «O-op, urlano i bambini e i padri strillano hii hii, come fanno i cavalli. I bambini danno calci sui toraci equini dei padri, gridando O-op o-op e galoppando sfrenatamente verso ovest. Mi sporgo per gridare ancora una volta, Attenti! Ferma! Ma sono già lontani. Oh chiunque amerebbe essere un cavallo libero e fiero e portare un adorato piccolo cavaliere, ma stanno galoppando verso uno degli angoli più pericolosi del mondo. E forse vivono dall’altra parte dell’incrocio, oltre altre pericolose strade. Così devo chiudere la finestra dopo affettuosi colpetti alla tagete col suo rugginoso odor d’estate ravvivata dall’aprile. Poi mi siedo nella bella luce e mi chiedo come essere sicura che galoppino senza correre rischi verso casa attraverso i fantasiosi spaventosi sogni degli scienziati e i voluminosi sogni dei fabbricanti d’auto»[3].
Dei tre capitoli che Jane Jacobs dedicò alla funzione dei marciapiedi in Vita e morte delle grandi città uno riguarda «l’assimilazione dei ragazzi» nella vita collettiva. Jacobs affermava che insegnare ai ragazzi come farne parte è un compito che spetta agli abitanti della città nel loro complesso. «L’educazione alla responsabilità sociale deve venire dalla società stessa; nell’ambiente urbano, essa si svolge quasi unicamente nelle ore che i ragazzi trascorrono giocando liberamente sui marciapiedi».
E’ una responsabilità che deve essere ripartita tra tutto il corpo sociale e non svolgersi «sotto il segno del matriarcato», dando per scontato che l’assimilazione dei ragazzi nella vita collettiva sia un compito esclusivamente femminile. Quale dimostrazione di quanto sia decisivo che i ragazzi partecipino alla vita della strada, Jacobs decise di inserire nel suo libro la paradigmatica affermazione di uno dei suoi figli: «Conosco il Greenwich Village come le mie tasche». E così dicendo egli la condusse «a vedere il passaggio segreto da lui scoperto sotto una strada, tra due rampe di scale della metropolitana, e il nascondiglio tra due edifici, largo una ventina di centimetri, dove deposita i tesori che racimola tra i rifiuti mentre si reca a scuola, per poi recuperarli tornando a casa»
A differenza dei padri del racconto di Paley, che riportano a casa da scuola i loro bambini issandoli sulle spalle e galoppando senza paura «verso uno degli angoli più pericolosi del mondo», l’urbanistica che ha determinato la vittoria dell’auto sul pedone non prevede, secondo Jacobs, il contributo maschile alla assimilazione dei ragazzi nella vita collettiva. «Benché la maggior parte degli urbanisti e degli architetti urbani siano uomini, i loro piani e i loro progetti sembrano fatti per escludere gli uomini come personaggi della normale vita diurna. I bisogni quotidiani che essi si preoccupano di soddisfare nei loro progetti di ambienti residenziali sono i bisogni presuntivi di una popolazione di massaie assolutamente insignificanti e di bambini di età prescolare; in poche parole essi lavorano esclusivamente per una società matriarcale».
L’urbanistica concepita degli uomini sotto il segno del matriarcato è quella che situa «le attività produttive e commerciali nei pressi delle abitazioni ma isolandole da queste» e ponendole «a distanza di chilometri dai luoghi di lavoro e dagli uomini che lavorano». E’ l’urbanistica antiurbana che traspone il modello insediativo suburbano dentro la città, quello descritto in Revolutionary Road di Richard Yates e denunciato da Betty Friedan in The Feminine Mystique: le donne a casa a curare i figli, i quali non giocano più nelle pericolose strade dominate dalle auto ma negli spazi verdi di pertinenza delle residenze o nelle aree a loro dedicate nei parchi pubblici.
Questo tipo di urbanistica, nel caso degli insediamenti di edilizia popolare, è diventata anche strumento di segregazione sociale ed etnica . All’interno dei confini, segnati da tre strade e dall’Harlem River, entro i quali James Baldwin aveva trascorso la sua infanzia newyorchese, sono poi sorti ciò che nel gergo odierno delle gang si chiamerebbe “il territorio”[4]., ovvero il turf, che rappresenta anche i tappeti erbosi sui quali si innestano le caserme multipiano dell’edilizia popolare.
La sostituzione della strada con lo spazio verde recintato è uno dei principi dell’urbanistica moderna maggiormente criticati da Jacobs, in quanto i progetti di ristrutturazione delle aree degradate per ambiti territorialmente separati finiva per favorire da una parte la possibilità che le bande criminali giovanili si identificassero su base territorialmente delimitata e dall’altra che i complessi residenziali avessero bisogno di accrescere la propria sicurezza con barriere sempre più invalicabili. La «barbarie dei turf» sopprime una delle «funzioni essenziali della strada urbana», quella di garantire la libertà di movimento e l’assimilazione sociale dei cittadini, a cominciare dai ragazzi che nella strada imparano ad essere tali.[5]
Se ci guardiamo intorno vediamo che la città contemporanea, pur con tutte le diversità rispetto a quella descritta da Jacobs a distanza di quasi sessant’anni, non ha affatto risolto il problema dell’integrazione dei ragazzi nella collettività. Quanto ha che fare la segregazione nelle periferie, dentro e fuori la città, e nei turf dei complessi residenziali in genere con ciò che, con espressione semplicistica, si definisce “disagio giovanile”? L’urbanistica ha ancora molto da interrogarsi e da riflettere a questo riguardo.
Riferimenti
La foto di copertina è tratta da Helen Levitt, Lírica Urbana, Madrid, La Fábrica Editorial, 2010, p.39.
Note
[1] Doris Lessing, Temporali, in Racconti londinesi, Milano, Feltrinelli, 1993-2008, p.116.
[2] Fernanda Pivano, Introduzione a Grace Paley, Più tardi nel pomeriggio Milano, La Tartaruga, 1996, p.19.
[3] Grace Paley, Ansietà, in Più tardi nel pomeriggio, cit., pp.100-102.
[4]Cfr. James Baldwin, Fifth Avenue, Uptown, in Esquire, luglio 1960, disponibile all’indirizzo web: www.esquire.com/news-politics/a3638/fifth-avenue-uptown/. La frase in corsivo è stata tradotta dall’autrice dell’articolo.
[5] Jane Jacobs, Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane, Torino, Einaudi, 1969, pp.46-78.
Non è vero che per riparare i danni dei terremoti si possa intervenire soltanto dopo. Se chi comanda sapesse vedere appena un po' più in la del suo naso (e della crescita del Pil, e degli affari). L'analisi sconvolgente di un esperto, un grave atto d'accusa.
Dopo i terremoti devastanti, superato il primo drammatico impatto, i governi di ogni stagione hanno dovuto sempre recuperare una condizione penalizzante: l’esito troppo severo, un lutto immenso, la penosa desolazione dell’impotenza manifesta nel dare protezione. Si cerca di rendere accettabile ciò che non lo è, le giustificazioni sono espresse al superlativo: il disastro è sempre enorme, l’evento di inaudita potenza, l’esito assolutamente imprevedibile. Un attimo dopo interviene l’impegno perentorio: il governo si mobiliterà affinché queste cose non capitino più. Anzi si promette qualcosa anche di più ambizioso: la messa in sicurezza del territorio, espressione priva di senso compiuto, senza forse rendersi conto dell’irraggiungibilità di quell’obiettivo nel paese dei tanti rischi.
E’ l’impegno del giorno dopo, mosso da un bel po’ di coscienza opaca per avere già tradito quello della penultima volta; è la reiterata promessa che vuol avere un’azione tranquillizzante, sedativa nei confronti delle reazioni, delle polemiche montanti sulle macerie. Si cerca di chi è la colpa, si denuncia la lentezza dei soccorsi, il collasso inaspettato di edifici che non dovrebbero subirlo: di scuole, di ospedali, di caserme, dei luoghi da cui dovrebbe muoversi chi soccorre piuttosto di esser loro stessi soccorsi. Il mancato allarme, il “si poteva prevedere”, spunta quasi sempre, e qualche volta anche a ragione, soprattutto se il segno sulle carte del rischio aveva un colore rosso scuro e se un raro terremoto ha lanciato qualche segnale premonitore del suo arrivo che non si è voluto riconoscere.
Tutto è consentito per rassicurare quando il terremoto, nella consapevolezza collettiva, nella percezione delle dimensioni del rischio incombente, diviene un evento minaccioso il cui effetto distruttivo sembra non poter essere contrastato. Proprio come sta accadendo in quest’inizio di secolo, cominciato piuttosto male: nel 2002 a San Giuliano di Puglia, un piccolo terremoto che fa cadere una scuola su una scolaresca; ancora nel 2009, centouno anni dopo Messina e Reggio Calabria, un altro capoluogo, di regione, L’Aquila, viene sconquassata da un terremoto che non è nemmeno il suo massimo storico. Passano altri quattro anni, nel 2012 una scossa molto violenta colpisce l’Emilia mettendo a terra intere filiere produttive tanto ricche quanto incredibilmente fragili. Poi, nel 2016 accade che Amatrice, sulla quale la protezione della normativa sismica operava da quasi un secolo, viene polverizzata da una scossa di magnitudo 6.0, e deve piangere 298 vittime.
Poco dopo, invece, Norcia, con una magnitudo superiore di 6.5 non ha nessuna vittima e solo danni relativamente consistenti. Ma Norcia era stata già ricostruita due volte nel ‘79 e nel ‘97 del secolo scorso dopo altrettanti terremoti, e quindi una considerazione raggelante: essere stati rassicurati a lungo dalla nostra prevenzione, come ad Amatrice, non serve; piuttosto è necessario essere sopravvissuti a due terremoti distruttivi ed esser stati poi gratificati da altrettante ricostruzioni oneste e qualificate come a Norcia. Ulteriore riscontro, quindi, alla conclamata insufficienza dell’azione di prevenzione durata più di un secolo, attraverso il lentissimo procedere della classificazione sismica del territorio e l’applicazione, nei comuni via via classificati, della normativa tecnica ma solo per le nuove costruzioni.
D’altronde nessuno può far finta di non sapere da sempre che l’azione di prevenzione inaugurata dal terremoto di Reggio e Messina nel 1908, ad un secolo di distanza non ha dato quello che per altro non aveva mai potuto promettere: la protezione del patrimonio edilizio più antico e nemmeno di quello recente dove la classificazione era arrivata tardi. Insomma, che la prevenzione fosse una coperta corta era cosa nota, ma forse si è a lungo sperato che fosse almeno un po’ più pesante. Il patrimonio edilizio più antico così è diventato lo zoccolo duro del problema, mentre nuove fragilità si sono aggiunte. Come a Casamicciola, già rasa al suolo nel 1883, dove l’ultimo terremoto del ’17 ha riproposto il tema dell’abusivismo, dell’impressionante quantità di edilizia illegale che ha devastato l’isola verde, come veniva chiamata Ischia, determinando nuove tragiche vulnerabilità.
Inizio secolo, quindi, preoccupante nei numeri: circa 650 vittime, un cinquantina di miliardi il costo dei terremoti, delle ricostruzioni. Impegni di spesa che si protrarranno sul bilancio per i prossimi vent’anni, sommandosi al mutuo contratto per cinquantuno anni per la riparazione del Belice colpito nel ‘68; per quarantatre anni, fino al 2023, per l’Irpinia; fino al 2024 per il terremoto del ’97 in Umbria e Marche. Per la ricostruzione di L’Aquila si finirà invece di pagare nel 2034. E così via. Ogni anno lo Stato è chiamato a impegnare 3-4 miliardi per le rate dei tanti debiti contratti. Più di 200 miliardi spesi in 70 anni nelle ricostruzioni post terremoto, quasi quattro volte quelli necessari per intervenire sulle alluvioni di questo paese; il numero di vittime poi è inconfrontabile.
In questa contabilità, è inaccettabile la distanza tra quanto speso per ripristinare, per ricostruire e quanto destinato alla difesa dai terremoti. La prevenzione fondata sulla classificazione sismica del territorio, durata per tutto lo scorso secolo e ancora in esercizio, è stata a costo zero, tutta a carico dei cittadini. Poi, in questi ultimi decenni, avare politiche di piccolo cabotaggio, varate, come si è detto, subito dopo l’ultimo terremoto. Un esempio per tutti, nel 2009, la legge n.77, con cui il Governo avviava la tribolata ricostruzione di L’Aquila, prendeva un impegno ambizioso già nel titolo dell’art.11: “Piano nazionale di riduzione del Rischio sismico”. Fu ancora una volta un provvedimento tampone, il tentativo imbarazzante di riparare all’evidente sottovalutazione del rischio a cui era esposta una città. Quell’articolo contemplava un finanziamento per l’intero paese di 965 milioni di Euro, spalmato in sette annualità. A conti fatti, a ciascuno dei 2893 comuni individuati come a maggior rischio -se questi fossero stati scelti come destinatari dei finanziamenti- sarebbero toccati complessivamente 330mila Euro, l’incredibile cifra di 43mila Euro l’anno.
Nonostante la sua obiettiva inconsistenza, quell’intervento legislativo venne fortemente propagandato come l’avvio di un nuovo corso. D’altronde si annaspava allora tra le macerie non rimosse di L’Aquila e il Governo per più di una ragione si trovava sotto pressione per la gestione dell’immediato dopo terremoto ed in particolare per la scelta delle 19 new town, alternative all’idea di dar luogo ad una celere e determinata azione di ricostruzione della città. Di quel Piano non si è saputo più nulla, nessun documento, nessun atto, nessun seguito. Otto anni dopo ad Amatrice di quell’ambizioso impegno di ridurre il rischio sismico non se ne è ricordato più nessuno, nemmeno al Dipartimento di protezione civile presso cui era incardinato, così il Presidente del Consiglio ne ha proposto uno tutto nuovo, dentro un più complicato impianto di problemi di varia natura. Nel progetto del Presidente Renzi, illustrato in un’intervista all’agenzia Askanews il 29.08.’16, veniva esplicitato l’intento di dar corso all’ “adeguamento antisismico ma anche gli investimenti sulle scuole, sulle periferie, sul dissesto idrogeologico, sulle bonifiche e sui depuratori, sulle strade e sulle ferrovie, sulle dighe, sulle case popolari, sugli impianti sportivi e la banda larga, sull'efficientamento energetico, sulle manutenzioni, sui beni culturali e sui simboli della nostra comunità”.
Venivano così elencati i numerosi e disomogenei obiettivi dell’iniziativa di governo, messi tutt’insieme per essere spalmati in un arco temporale lunghissimo, durante il quale tre o quattro generazioni si sarebbero dovute impegnare per risolverli; più o meno un secolo per spendere una quantità enorme anche se indefinita di risorse mai individuate.
Così il Governo Gentiloni ha trovato nella legge di stabilità 2017 un posto per la prevenzione del millennio appena iniziato, ha ipotizzato una soluzione per il gigantesco problema sismico del paese, il “sisma bonus”. Tutto molto semplice: il cittadino virtuoso che percepisce il rischio di vivere in una casa non protetta chiede allo Stato un contributo per migliorarne la resistenza al sisma. Nulla di nuovo in realtà; dalla seconda metà degli anni ’90, con qualche discontinuità, si concedono bonus per ridurre il rischio sismico, senza tuttavia aver riscosso un grande successo. Ma questa volta l’impegno finanziario è smisurato e si è deciso di regolare solo minimamente il processo. Per farlo due sole cose: delle Linee guida di natura tecnica predisposte dal Consiglio superiore dei Lavori pubblici ed un decreto approvativo del Ministro delle infrastrutture. Così il mandato della legge di stabilità prende direttamente il via.
Una straordinaria facilità di accesso al bonus, un brevissimo percorso tra la Stato dispensatore delle risorse ed il cittadino, nessun filtro e nessuna verifica. Ci si aspettava, invece, che quanto messo in campo fosse davvero “un progetto”, che la sua applicazione fosse regolata, pianificata. Le Linee guida riguardano esclusivamente le modalità con cui ciascun edificio potrà essere valutato all’inizio in termini di rischio e verificato, alla fine dell’intervento, all’interno in un apposita graduatoria articolata tra la lettera A+ e la lettera G. Allo scopo si riempiono due schede di valutazione e le Linee guida spiegano anche come si procede nell’istruttoria fino al raggiungimento del risultato finale che consta nel miglioramento sismico della strutture. Se si riesce a far muovere l’edificio di due lettere di quella graduatoria si può ottenere il massimo contributo al costo dei lavori di ogni tipo necessari, l’80 percento. Ma se anche non si riesce a ottenere un incremento di sicurezza, o anche solo per il fatto di aver operato una verifica sismica dell’edificio, si ottiene un contributo del 50% della spesa sostenuta.
In qualsiasi prospettiva si operi è fissato comunque un tetto di 96mila Euro per ciascuna unità immobiliare. Il contributo viene erogato sotto forma di credito d’imposta, spalmato su cinque anni, a chi abbia un qualche titolo, anche non di proprietà, su prime o seconde case. Enorme è l’estensione del progetto, la platea di potenziali adesioni all’iniziativa, circa il 60% del territorio nazionale. In tale dimensione sono racchiusi i 706 comuni in Zona A (alta sismicità), i 2187 comuni in Zona B (media sismicità) e, davvero sorprendentemente, i 2866 comuni in Zona C a bassa sismicità. In tutto 5.759 comuni nei quali i titolari di qualsiasi diritto sull’immobile, proprietari ma anche affittuari, potranno rivolgere le richieste del contributo al Ministero dell’economia e finanze. La durata è stata prudentemente prevista in cinque anni, ma l’iniziativa si prefigura come un intervento strutturale al quale affidare il compito di portare a compimento la tante volte richiamata ma indefinita “messa in sicurezza del territorio”, in un tempo anch’esso indefinito ma certamente secolare.
Insomma, in un ambito dove lo squilibrio esistente tra le risorse disponibili e quelle necessarie per fare prevenzione è gigantesco, si rinuncia a qualsiasi distinzione, a ogni considerazione fondata su un esame di priorità, mettendo insieme territori ad alto rischio, dove sistematicamente gli ultimi terremoti hanno compiuto enormi disastri, con quelli a bassa sismicità dove la probabilità di collasso di un edificio, obiettivo perseguito dall’azione di prevenzione, è estremamente limitata. Insomma gli abitanti di Amatrice o della Calabria tutta ad alto rischio, avranno le stesse possibilità di accesso alle risorse di prevenzione di quelli di Roma o Trento. Le macroscopiche differenze tra diversi contesti, la necessità di attribuire ovvie priorità, non conta nell’astratta atmosfera in cui sembra muoversi l’accesso al bonus senza distinzioni.
Le prospettive, quindi, per un’operazione a pioggia che sembra indirizzata ad ottenere il più largo consenso popolare, sono molto incerte. Per il momento ha riscosso il plauso incondizionato delle professioni coinvolte, delle imprese, degli amministratori pubblici, tutti terminali di un intervento di Stato che semplicemente promette risorse. Ma il tema da affrontare era quello di alleviare la drammatica pressione del rischio sismico sulla popolazione, o piuttosto contribuire a rilanciare l’edilizia in periodo di crisi? Niente di male se così fosse, ma è essenziale la chiarezza d’intenti. Proprio per far chiarezza, allora, è bene proporre alcune considerazioni sulle dimensioni finanziarie dell’iniziativa, sulle difficoltà concrete che i virtuosi cittadini dovranno affrontare, ma soprattutto sugli effetti collaterali che potrà avere sul territorio.
Il “sisma bonus”, come tutti i progetti fondati sulla spontanea adesione degli aventi diritto, ha un campo di variabilità compreso tra zero e il 100%. Quest’ultima ipotesi, o comunque un’altissima adesione, non è nemmeno ipotizzabile per l’impegno di risorse che determinerebbe. E’ necessario allora attestarsi su una dimensione plausibile; fare l’ipotesi, per esempio, che solo il 30% degli aventi diritto presenti nei 2893 comuni a rischio sismico più elevato -escludendone così poco meno della metà, quei 2866 della Zona 3 a bassa sismicità- vogliano aderire all’iniziativa e che ottengano solo il 50% dell’agevolazione massima concedibile, cioè 43.000 Euro. Sotto queste condizioni estremamente conservative il fabbisogno sarebbe di circa 176 miliardi di Euro[1].
Quindi circa 1.8 miliardi l’anno per un secolo o poco meno di 6 miliardi l’anno per 30 anni. Tanti soldi da investire dove nessuna risorsa significativa è stata mai messa, troppa generosità per essere credibile di questi tempi. Ma comunque nessuna paura di tracollo finanziario, il rubinetto è nelle mani del Ministero economia e finanze che attraverso ogni la legge di stabilità potrà decidere quante risorse rendere disponibili ogni anno. Per esempio pare ci siano appena 300 milioni di Euro per il 2017.
Comunque, si tratta forse di cent’anni e oltre 176 miliardi per proteggere nella migliore delle ipotesi il 30% di ciò che è vulnerabile, che non è davvero tutto ciò che incide sull’obiettivo “messa in sicurezza del territorio”, che è cosa ben diversa. Interventi sparsi chissà dove in più di mezza Italia, senza alcuna priorità davvero dettata dalla ricorrenza e severità degli eventi, né dalla vulnerabilità del contesto. Insomma, non una strategia ma piuttosto un’iniziativa poco mirata, affatto selettiva, sulla quale è stata riversata la minima quantità immaginabile di scienza e conoscenza, del cui poco uso proprio in prevenzione, da sempre, ci si lamenta. Si stabilisce semplicemente un canale diretto tra Stato che rende disponibili risorse e il cittadino che tende la mano; nessun livello intermedio di controllo, di verifica, nessun elemento di pianificazione; salta qualsiasi livello di sussidiarietà, qualsiasi possibilità di guardare dalla prossimità gli aspetti salienti della questione, di fare sintesi tra la sicurezza sismica ed i tanti altri problemi di qualità, tutela e precauzione che affliggono il territorio.
La promessa di tante risorse da spargere come capita, da spendere sulla base dell’inerzia di un volano regolato solo dalla quantità di soldi che si fanno cadere nei suoi ingranaggi. E’ previsto un monitoraggio -che vuol dire che forse a posteriori si saprà dove quei soldi sono caduti- ma nessuno strumento per determinare a priori dove potranno andare a cadere. Altro che riqualificazione delle aree urbane, altro che ricucitura delle periferie, altro che battaglie per la “messa in sicurezza del territorio dai vari rischi che lo affliggono”, piuttosto un intervento a pioggia in cui è messo al centro del problema solo l’edificio, alcuni edifici.
Per capire di che si tratta basta immaginare il paesaggio del degrado infinito di molte periferie, case e palazzotti fatti di blocchetti, senza intonaco e con i ferri d’attesa sempre protesi verso il cielo, dove magari l’iniziativa del Governo andrà benissimo. E Casamicciola di agosto 2017, e la crudezza della vista dal cielo di Ischia con la sua urbanizzazione selvaggia, con i suoi 28.000 condoni? In che modo si relazionano questi scenari con il “sisma bonus” nei termini della qualità delle soluzioni praticabili? Il deprecato abusivismo dalle dimensioni enormi che affligge il paese, magari legalizzato ma che è rimasto certamente insicuro, potrà avere l’agevolazione promessa. E poi c‘è da considerare che per 1000 metri quadri fatti di 10 abitazioni da 80 metri quadri e 200 di parti comuni si può arrivare ad un contributo di oltre un milione di Euro. In certi contesti ci si costruisce il nuovo. Si stenta a credere davvero che questa sia la soluzione senza conoscenza, senza guida che si propone per quasi l’intero meridione.
Ma ci si spinge anche oltre il degradato, guardando in giro si intravedono alberghi che sbarrano valli montane dove, se nevica moltissimo, può succedere che viene giù anche una valanga mostruosa. E poi ancora, in qualche posto si cova la speranza che magari, prima o poi, almeno qualche migliaio di metri cubi da un’area esondabile, da una golena potrà essere delocalizzato; che un po’ di urbanizzato, a suo tempo magari abusivo, lo si possa un giorno riqualificare non dal solo punto di vista edilizio e della sicurezza. Tutto questo, invece, in assenza di una valutazione di prossimità, potrà essere per sempre asseverato; perderà la possibilità di venire per altre ragioni sanato, diventerà forse meno vulnerabile ai terremoti ma resterà per altre mille cause a rischio.
Così, il “sisma bonus” crea l’incredibile imbarazzo di fornire riflessioni sufficienti per sperare che un’iniziativa indirizzata alla prevenzione, ma così discutibilmente confezionata, non abbia nemmeno il modesto successo a cui può aspirare. Nel tempo secolare di attesa che l’iniziativa abbia un successo limitato ed affatto mirato, un'altra decina di terremoti distruttivi avrà colpito il paese nei medesimi posti dove ripetutamente si era già proposto con forza. Dopo cento anni alle spalle di risultati modestissimi, dominati dal binomio classificazione/normativa, sul piano della prevenzione si propone un altro strumento inefficace accompagnato da tante controindicazioni, da tanti effetti collaterali. Certo non si può pensare di poter raccontare, alle nuove vittime e superstiti dei terremoti che verranno, che null’altro si sarebbe potuto fare di meglio di un non progetto lungo cent’anni, molto costoso, distribuito sul territorio di mezz’Italia con la visione strategica del “si salvi chi può”.
[1] Calcolo effettuato in base ai dati desunti dal rapporto ANCE/CRESME – 2012 “Lo stato del territorio italiano” relativamente ai soli 2.893 comuni a maggior rischio (non temendo conto dei 2003 comuni a basso rischio sismico pur inclusi nell’iniziativa) nei quali sono presenti 11.700.000 abitazioni, 395.000 edifici non residenziali, 95.000 capannoni industriali, 79.000 edifici commerciali. Ciascuno di essi è stato ritenuto soggetto abilitato (abitazioni e edifici produttivi) a richiedere l’agevolazione per un totale di 12.270.000 unità. L’adesione è stata ridotta al 30%, quindi 4.090.000 unità per le quali è stato cautelativamente stimato un importo dell’agevolazione concessa al 50% del massimo erogabile, pari a € 43.000. Il fabbisogno necessario ad esaudire tale ipotesi è di circa 176 miliardi di Euro.
il Fatto Quotidiano, 13 ottobre 2017. Si piange ancora sulla lunga paralisi parlamentare della legge cosiddetta "contro il cnsumo di suolo". Ma pochi hanno capito che quella legge non servirebbe a niente. Anzi. Lo abbiamo detto e ripetuto, guardate la postilla.
postilla
I parlamentari poco furbi o molto complici dei consumatori di suolo e i giornalisti disinformati, come quelli del Fatto Quotidiano non hanno capito che la legge "contro il consumo di suolo" che giace in parlamento, se verrà approvata non servirà assolutamente a nulla. Lo abbiamo scritto ripetutamente su questo sito. L'argomento è stato trattato su eddyburg con numerosi articoli. Si vedano tra l'altro, i seguenti: gli articoli di Vezio De Lucia del giugno 2013 (Consumo di suolo a un passo dal baratro) e del febbraio 2015 (A partire dalle buone intenzioni del ministro il Parlamento approda a una legge inservibile), di Cristina Gibelli, 20 gennaio 2015 (Neologismi in libertà: «compendi neorurali periurbani), di Eddyburg, febbraio 2015 (Eddyburg e il consumo di suolo), di Ilaria Agostini del maggio 2015 (Due leggi per il suolo), nonché l'eddytoriale n. 169 dell'11 dicembre 2015. E leggete anche la proposta di eddyburg, del 3 giugno 2015.
il manifesto, 12 ottobre 2017 Torino. Via libera del consiglio comunale alla delibera che toglie ai privati le gestione del servizio idrico. Contrari Pd, Forza Italia e Lega (c.m.c.)
Con solo sei anni di ritardo sull’esito referendario, il Consiglio comunale di Torino delibera che il gestore del servizio idrico, Smat Spa, non può essere una società per azioni con finalità lucrative. Il voto favorevole è stato espresso da M5s, Torino in Comune (Sinistra Italiana) e Direzione Italia. Contrari Partito Democratico, Forza Italia e Lega Nord.
Se questo percorso giungerà a buon esito, Smat verrà trasformata in un’azienda di diritto pubblico: l’acqua di Torino e provincia non produrrà più profitto e non sarà più contendibile sul mercato.
Al momento Smat è un soggetto di diritto privato, il cui azionariato è composto solo da istituzioni pubbliche. «Un meccanismo che funziona, dato che le quote azionarie sono in mano ad enti pubblici, e genera utili che poi vengono investiti» sostiene chi si è opposto alla delibera. «Che però non esclude scalate da parti di privati» risponde chi in questi anni si è battuto perché l’esito referendario fosse applicato alla lettera. Si tratta quindi di un passo dovuto: Torino è, dopo Napoli, la seconda città in Italia che avvia un percorso per togliere dal mercato l’acqua.
Una scelta maturata in un clima di crescente ostilità da parte di chi sei anni fa era al governo e oggi, dall’opposizione, ha deciso di fare guerra a 27 milioni di cittadini che hanno votato nella convinzione di affermare che l’acqua non è una merce.
Mariangela Rosolen, storica rappresentante della sinistra torinese e italiana, da tempo anima del Comitato Acqua Pubblica Torino, commenta: «E’ solo il primo passo, ma è importante. Questo voto si muove ancora su un piano culturale, dove era fondamentale mantenere la barra diritta nonostante le difficoltà crescenti. Con stupore, e rammarico, devo dire che non è la cosiddetta sinistra di governo a ottenere questo risultato».
Le difficoltà a cui si riferisce Mariangela Rosolen, hanno scandito il burrascoso primo anno a cinque stelle torinese. Nel luglio del 2016, come primo atto, giunse inaspettato il «no» dell’intero gruppo pentastellato alla mozione di Eleonora Artesio, Sinistra italiana, che proponeva quanto ieri è stato approvato. Nei mesi successivi, schiacciata dal debito della città, la sindaca Appendino faceva un passo ancora più duro, pescando soldi tra gli utili di Smat per far quadrare il bilancio. Ovvero quanto il referendum del 2011 voleva vietare: l’estrazione di valore da parte di chiunque. A maggior ragione se questo valore, come nel caso di Torino, deve poi coprire buchi di bilancio scaturenti da tagli agli enti locali e interessi sul debito.
Fu un gesto eclatante quello del M5s, perché contrario a quanto scritto nel programma elettorale. Poi un lento percorso di riavvicinamento, che ha portato la consigliera Daniela Albano a presentare la proposta di delibera. Astrofisica, sindacalista di base, commenta: «Finalmente la Città di Torino si appresta a riempire di contenuti l’articolo 80 del proprio statuto che afferma che la Città si impegna per garantire che la gestione del servizio idrico integrato sia operata senza scopo di lucro».
La tenacia sfinente del Comitato per l’acqua pubblica, nonché un sempre più palese malumore dei vari comitati in città che non tollerano le capriole sul programma, hanno portato ad un ripensamento. Manovra utile, anche, per fare pace con la base, nel momento in cui il sempre gagliardo «Sistema Torino» rialza la testa e indica alla sindaca la porta d’uscita dalle confortevoli stanze del potere.
Lo Statuto di Smat prevede che il 75% dell’azionariato si dichiari favorevole alla trasformazione. Il Comune, anche grazie ad un holding direttamente controllata, detiene il 64% delle azioni. La restante parte è in mano ad altri 290 comuni della cintura riconducibili al Partito Democratico, e quindi scarsamente interessati a portare a buon fine l’operazione. Diverse cittadine, e anche molti piccoli paesi, hanno già espresso la volontà di trasformare Smat.
Ora il consiglio d’amministrazione della Smat riceverà mandato dal Comune di Torino di avviare uno studio di fattibilità, per comprendere in quali termini l’operazione sarà possibile.
la Republica online, 9 ottobre 2017.«Nel Rajasthan la protesta non violenta per fermare un piano di espansione che prevede la costruzione di alloggi su terreni occupati da 2.500 famiglie. L'organizzatore: "Se vogliono rubarci le nostre terre, dovranno passare con i bulldozer sopra le nostre teste"» (p.s.)
Immersi fino al collo nel terreno. Solo le teste rimangono fuori dalla sabbia, quasi sembrano boccheggiare. Pochi respiri ancora prima d’essere sradicati: la protesta dei coltivatori di Nindar, villaggio a una manciata di chilometri dal centro di Jaipur, nell’India nord-occidentale, è un atto estremo di resistenza. Un modo per dimostrare quanto siano aggrappati al loro bene più prezioso. Da giorni un manipolo di coltivatori dello stato desertico di Rajasthan manifesta contro la Jaipur Development Authority in difesa di 540 acri che dovrebbero far posto a 10mila alloggi in un progetto d’espansione della vicina città turistica.
«Dal 2 ottobre, compleanno del Mahatma Gandhi, abbiamo iniziato la zaamen samadhi satyagraha (la protesta della sepoltura), in segno di profondo attaccamento alla nostra terra: è un atto di forza morale non violento. Satyagraha significa infatti richiesta di ascolto della verità. Chi manifesta ha perso o sta perdendo i propri terreni a causa dei piani del governo, che colpiscono oltre 2.500 famiglie nell’area, 18 colonie residenzialie 20 dhani (piccoli conglomerati di case, ndr)», spiega a la Repubblica Nagendra Singh Shekhawat, leader del Nandeer Movement e coordinatore della protesta: «Crediamo che l’acquisizione non sia avvenuta con metodi democratici: oltre l’80 per cento delle parti coinvolte non ha ceduto le proprie terre. E anche quanti l’hanno fatto, in cambio di compensazioni non adeguate, vogliono riaverle: sostengono che la Jda abbia usato diversi metodi di pressione per ottenerle».
L’eco del millantato sviluppo, da queste parti, ha in effetti un nome ben preciso: “landgrabbing”, accaparramento della terra. A farne le spese, migliaia di piccoli agricoltori, che quei terreni occupano e di quei terreni vivono da generazioni. Un fenomeno cresciuto del mille per cento nel Sud del mondo dopo la crisi finanziaria del 2008 e che interessa larghe porzioni di terre concesse a terzi o acquisite da governi e autorità: si cercano spazi per la produzione di cibo o materie prime a basso costo per alimentare mercati ricchi in beni di consumo e combustibili vegetali, o per costruire infrastrutture e centri turistici, espandere le aree urbane, occupare militarmente un territorio. Un processo speculativo che galvanizza le multinazionali e spesso implica la violazione di diritti umani, studi non adeguati sull’impatto ambientale, sociale ed economico degli investimenti, ma anche una mancata partecipazione democratica delle comunità interessate e l’assenza di un loro consenso preventivo, libero e consapevole.
Proprio quanto contestano i coltivatori di Nindar. Del 2010, la pubblicazione della prima notifica di
acquisizione della Jda, poche settimane fa il via ai lavori: negli ultimi sette anni le comunità locali hanno provato a esprimere il loro dissenso, rimanendo però inascoltate. Fino alla settimana scorsa, quando hanno scelto di seppellirsi per attirare l’attenzione. Dal 7 ottobre hanno anche iniziato lo sciopero della fame. Tra le decine di manifestanti, in prima fila, ci sono soprattutto donne, principale forza motrice dell’agricoltura in India, da cui dipende oltre il 60 per cento della popolazione.
«Chiediamo di fermare il processo in corso: il diritto dei contadini a rimanere per la sussistenza dovrebbe essere fondamentale, inviolabile: serve una nuova indagine sulle terre», afferma Singh. Sebbene infatti nel 2013 il governo abbia emanato un nuovo Land Acquisition Act, che prevede un’equa compensazione e maggiore trasparenza nell’acquisizione della terra, il leader della protesta spiega che la Jaipur Development Authority ha applicato una legge del 1894, ossia dell’epoca coloniale britannica, che ovviamente non salvaguarda le persone sfrattate.
«La domanda più importante da porsi è: progresso verso cosa e per chi? Creare infrastrutture unicamente a beneficio di altri e a spese delle comunità locali non è sviluppo, ma sfruttamento», aggiunge Singh, che ritiene fondamentale il ruolo dellacomunità internazionale e vede nella globalizzazione una sfida complessa, ma anche un’opportunità per diffondere maggiore consapevolezza sui diritti dei popoli. Quanto alla protesta, all’alba del terzo giorno senza cibo, si mostra fiducioso: «È una lotta dura, sfiancante. Ma le persone non hanno perso la speranza. Il governo parrebbe aprirsi alla negoziazione di fronte all’attenzione dei media», conclude, precisando: «Se vogliono rubarci le nostre terre, dovranno passare coi bulldozer sopra le nostre teste. Siamo pronti a morire per non cederle. Speriamo di riuscire a scuoterne le coscienze».
la Repubblica, 3 ottobre 2017. Contrordine del Pd: stop al ddl Falanga che rinvia all'infinito le demolizioni delle case fuorilegge. Gli ambientalisti sconfiggono così la proposta voluta da molti parlamentari del Sud». (c.m.c.)
C’è voluto l’intervento discreto ma deciso di due ministri, Graziano Delrio e Dario Franceschini, per indirizzare su un binario morto il ddl Falanga che regola (per alcuni in maniera poco incisiva) le demolizioni degli edifici abusivi.
A un passo dall’approvazione, i due esponenti del governo, titolari di Infrastrutture e Beni culturali, hanno raccolto il grido d’allarme delle associazioni ambientaliste che, da Legambiente al Wwf, segnalano da tempo le storture di un provvedimento che, di fatto, mira a sanare quello che è stato definito “abusivismo di necessità”. Così, nel giro di tre giorni, è cambiata la linea del Pd che finora aveva votato e sostenuto il disegno di legge che porta il nome dell’onorevole Ciro Falanga, deputato ex Forza Italia, passato poi al gruppo Ala di Denis Verdini. Oggi, nella conferenza dei capigruppo convocata a Montecitorio, i Dem proporranno una modifica al calendario dei lavori della Camera, scambiando la discussione del ddl Falanga con quella sull’Agenzia del farmaco o sul ddl sulla cannabis terapeutica (come propone Sinistra Italiana).
Un rinvio sine die che in pratica affossa una legge criticata ancor di più dopo il terremoto di agosto a Ischia e dopo le polemiche estive sull’abusivismo in Sicilia. Alla fine il Pd resta diviso: da una parte il fronte più sensibile alle tematiche ambientaliste, rappresentato da Ermete Realacci, presidente della commissione Ambiente alla Camera, che l’altro ieri ha esplicitato il cambio di passo: «Dubito che il ddl Falanga andrà al voto così com’è». Dall’altro uno schieramento composito, formato per lo più da parlamentari eletti in Sicilia, Calabria e Campania, regioni dove, dati Istat alla mano, i manufatti abusivi superano largamente il 50% del patrimonio edilizio.
A far pendere la bilancia verso i contrari alla norma (attesa dalla quarta lettura alla Camera) l’intervento di Delrio e Franceschini, contrari al ddl che, sostiene il leader dei Verdi Angelo Bonelli, «premia sia chi ha messo su ville abusive sia chi è intenzionato a costruirle adesso, andando in più a imbrigliare il lavoro delle procure». A preoccupare è il comma 6bis del primo articolo secondo il quale, nella lista di priorità delle demolizioni, va data precedenza agli immobili «in corso di costruzione o comunque non ultimati alla data della sentenza di primo grado». Ma, sottolinea ancora Bonelli (che stamattina, in segno di protesta, costruirà una casetta abusiva davanti alla Camera), «conoscendo i tempi dei tribunali per una condanna, è una furbata».
Schierati contro il ddl Falanga ci sono anche i 5 Stelle che lo considerano «una legge dannosa che distrugge il Paese». Di «ecomostro » parla Pippo Civati, segretario di Possibile, con Sinistra Italiana che invece giudica la norma «una sanatoria mascherata». Difficile che prevalga la posizione di chi in queste ore cerca di evidenziare i miglioramenti al testo intervenuti nelle varie letture tra Camera e Senato. Tra loro c’è proprio il deputato che dà il nome alla legge: «In Campania — afferma Falanga — ci sono un milione di persone interessate alla norma. Il Pd dovrebbe ricordare che se c’è un clima di collaborazione, la collaborazione è su tutto. Ricordo che c’è in discussione una legge elettorale che nasce dall’intesa tra Forza Italia e Pd. Lo dicessero a Fi che non approvano la mia legge».
la Repubblica online, 2 ottobre 2017. E' incredibile che personaggi che hanno fondato associazioni ambientaliste e altri che hanno scelto di lavorare nella Commissione ambiente siano così tiepidi nei confronti del decreto "premiabusivisti".
Roma - Il ddl Falanga che regola le demolizioni degli edifici abusivi approda oggi in aula alla Camera per essere varato in via definitiva in settimana. Ma la sua approvazione non è così scontata: «Vediamo, ci rifletteremo», taglia corto il capogruppo del Pd alla Camera, Ettore Rosato, instillando il dubbio. E a conferma dell'esistenza di qualche crepa fra i democratici ci sono anche le parole del presidente della commissione Ambiente, Ermete Realacci: «Non credo che si siano le condizioni per andare al voto così com'è».
In ballo dal 2014 e al suo quarto e ultimo passaggio parlamentare, dopo una lunga navetta tra Montecitorio e Palazzo Madama, il ddl Falanga - dal nome di Ciro Falanga, senatore proponente prima in Forza Italia e poi passato con Denis Verdini in Ala - è stato modificato e per certi versi anche migliorato, come ammette Realacci: «Sono state disinnescate quelle parti che lo rendevano rischioso. Al momento della sua presentazione la proposta di legge si configurava come un segnale di tolleranza verso l'abusivismo edilizio. Tuttavia l'impegno delle commissioni Giustizia e Ambiente della Camera ha consentito di invertire la direzione, tanto da provocare l'ira di Falanga che in aula al Senato è arrivato al punto di minacciarmi violenza fisica».
Ma il testo, sebbene depotenziato, non convince gli ambientalisti né le opposizioni come il M5s, che ribadisce la sua contrarietà: «È più pericoloso di un condono - dice Massimo De Rosa, deputato pentastellato della commissione Ambiente - si rischia che questa legge blocchi la demolizione degli edifici individuati, causando al tempo stesso ricorsi e lungaggini burocratiche». Certo è che sul piano politico con l'ok al provvedimento il Pd corre il rischio di dare un segnale negativo e contrario rispetto alla linea del governo, che ha recentemente impugnato una legge in Campania che di fatto salva tutte le prime abitazioni abusive. Ma è pur vero che, se il Pd decidesse di presentare nuove modifiche al testo, ne sancirebbe l'affossamento. Lo stesso avverrebbe nel caso di un rinvio in commissione.
«Nella sua prima versione la legge era una vera e propria sanatoria degli abusi - spiega Stefano Ciafani, direttore generale di Legambiente - ma l'impianto, sebbene depotenziato, ha conservato un punto debole: fissa infatti un ordine di priorità degli abbattimenti in cui le case abusive abitate sono messe all'ultimo posto, dando precedenza a quelle in corso di costruzione e non abitate. Un modo per lasciare in piedi, con la scusante dell'abusivismo di necessità, edifici spesso pericolosi, come si è visto recentemente nel caso del terremoto di Ischia. Per noi il ddl Falanga è un disastro e va fermato».
Insomma i criteri di necessità potrebbero trasformarsi nelle mani degli avvocati in un grimaldello per bloccare le azioni di demolizione. Per l'associazione ambientalista l'unico modo per combattere veramente l'abusivismo edilizio è quello di togliere ai Comuni le competenze sugli abbattimenti: «Vanno centralizzate, affidandole alle prefetture, per toglierle dal ricatto elettorale», aggiunge Ciafani. Ma oltre a semplificare l'iter delle demolizioni, l'altra strada su cui «la maggioranza dovrebbe battere è quella di fermare il consumo di suolo», conclude il direttore di Legambiente. La legge sul consumo di suolo, però, approvata lo scorso anno alla Camera, si è arenata al Senato e molto difficilmente riuscirà a vedere la luce entro questa legislatura.
il Fatto Quotidiano, 2 ottobre 2017. «dopo 6 anni il cantiere è ancora militarizzato: già scavati sette km di galleria esplorativa. il no-tav qui è ancora molto forte, anche se in italia se ne parla assai meno» (p.d.)
Nella piuttosto patetica confusione terminologica sulle parole della città, si è da tempo infiltrata tra le altre cose la surreale equazione piste ciclabili = gentrification. Che si unisce del resto ad altre stravaganze, tutte tese a scambiare qualche curioso sintomo collaterale per la malattia, vuoi male informati da una stampa superficiale (che da anni sul tema specifico confonde le acque in modo a dir poco sospetto), vuoi spaventatissimi da qualunque cambiamento anche in cose come il consumo di yogurt o cibi biologici, diventato in alcuni casi segnale certo che bisogna iniziare a scendere in piazza per scongiurare deportazioni di massa dai quartieri ex popolari. Ma la pista ciclabile probabilmente unisce diversi spunti, sia simbolici che tangibili, di quello che a torto o a ragione è considerato un attacco diretto alla propria esistenza, in quanto individui e comunità che condivide certi «valori». Esagerato? Parrebbe proprio di no, se guardiamo ai fatti.
Lo raccontano ormai infinite cronache locali, di vere e proprie barricate contro la realizzazione di percorsi dedicati o rastrelliere del bike-sharing a postazione fissa, anche e soprattutto da parte di quelli che potrebbero (dovrebbero) apparentemente essere i primi ad avvantaggiarsi, di una mobilità locale più comoda, capillare, economica, sana, addirittura esteticamente meno invasiva rispetto al tradizionale automobilismo tritatutto. E invece sono proprio i poveracci delle case popolari, gli esercenti delle botteghe che tirano avanti alla giornata, i padroncini di qualche bar o chiosco coi tavolini di formica e le sedie di plastica, i più feroci oppositori di tutto quanto evoca il pedalare. Perché? Escluso che qualcuno manovri in qualche modo tutte queste comunità (qui la pur assai in voga ipotesi di complotto mondiale, e neppure cittadino, suona particolarmente ridicola) indipendenti, prende corpo l'idea che in un modo o nell'altro l'universo pervasivo automobilistico sia sul serio percepito, e in modo universalmente condiviso, come «valore». Un valore addirittura identitario, qualcosa di quasi indiscutibile, che si è disposti a difendere con le unghie e coi denti. Nel caso delle comunità residenti nei classici complessi popolari novecenteschi, stiamo parlando di quartieri nati e conformati quando l'auto era il simbolo del progresso sociale ed economico, la tappa ineludibile del passaggio dall'adolescenza alla vita adulta, e in senso più allargato il nucleo centrale della vita urbana, attorno a cui tutto si piegava.
Se nel quartiere popolare per esempio addirittura appare vistosa, la differenza qualitativa tra gli spazi accessibili in auto e quelli che non lo sono (meglio tenuti i primi, mediamente, dei secondi), anche più in generale nella città pare diffusissima questa idea che accedere, fruire di uno spazio, di un servizio, conferire qualità attraverso la presenza umana, coincida con la circolazione e sosta automobilistica. Lo testimonia la stessa esistenza delle norme sugli standard a parcheggio minimi, e lo confermano se necessario gli infiniti casi in cui si sacrifica anche l'ultima briciola di buon senso su quell'altare della «fruizione della città», vuoi per tutti, vuoi in una accezione limitata per i privati proprietari. Un luogo non è tale a pieno titolo se non con la sua appendice automobilistica: si vedano quei giganteschi box singoli o doppi ricavati – in modo perfettamente legale «a regola d'arte» - in posizioni assurde, dentro il cuore profondo di spazi verdi naturali o angusti budelli monumentali, per il solo motivo di non separare fisicamente neppure di un solo metro in più il veicolo dal suo proprietario seduto in soggiorno o sdraiato in un letto. E naturalmente c'è tutto il resto dell'esistenza a far da contorno: benessere, vita, relazioni, pratiche sessuali, consumi, tutto là dentro e nelle immediate vicinanze. Pare quasi scontato, che mettere in discussione un caposaldo esistenziale del genere possa risultare sconvolgente, ben oltre le intenzioni di chi non l'aveva ben colto.
E arrivano così, tra capo e collo, quelle gioiose e un po' fessacchiotte (perché spessissimo lo sono, così concepite) pensate di benintenzionati amministratori per i loro microsventramenti virtuali dei quartieri, popolari o borghesi che siano, a colpi di vernice rossa, qualche decina di metri di a volte evitabile orrido cordolo, catarifrangenti, lampioncini finto liberty o design postmoderno, arredi urbani di contorno e raccordo. Che
Milano Gratosoglio - foto F. Bottini |
sarebbero davvero carini, o per meglio dire «sostenibili», come recita il termine in voga tra gli svagati proponenti e le volenterose associazioni di settore, se qualcuno si prendesse la briga di contestualizzarli sul serio, ovvero rendere edotte le vittime (perché di vittime si tratta) dei vantaggi immediati e futuri di questa autotomia, praticata con le dovute cautele, e nel quadro di un luminoso verificabile futuro.
E figuriamoci quando, sempre di punto in bianco e senza pensare ad altro se non alla «applicazione tecnica del progetto», a qualcuno viene in mente di fare cose contronatura, che neanche i matrimoni tra gente dello stesso sesso in un villaggio contadino ottocentesco: il Senso Unico Eccetto Bici, inaudito, eresia! L'uomo della strada, predicatore di Codice o no, si sente davvero sottoposto ad apartheid da questi sventratori virtuali della sua città ideale tanto faticosamente costruita nei decenni del progresso. E bisogna dargli retta, perché non ha mica tutti i torti, a ben vedere: lo si sta emarginando sul serio impedendogli di fruire della città, di esercitare quello che a ragione o a torto percepisce come diritto umano e civile. Se gli leviamo qualcosa, dobbiamo prima sostituirlo con qualcos'altro, e la bicicletta feticcio dei fresconi Haussmann a propria insaputa è a mille miglia dal possedere (e per puri motivi storico-culturali) la medesima pervasività esistenziale dell'auto. Chi inizia a pensare a queste «politiche urbane», in definitiva, dovrebbe sempre ricordarsi appunto che sta facendo «politiche», è un amministratore eletto, non un gestore di risorse economiche da suddividere equamente tra questa e quella lobby di interessi, a seconda di chi gli sta più simpatica. O almeno provarci, e raccontarci pazientemente quale dovrebbe essere lo scenario finale. È chiedere troppo?
il manifesto, 30 settembre 2017. Il dramma umano degli sfratti visto dalla parte di chi dovrebbe sfrattare. «A Roma sono 10 mila gli abusivi nei 74 mila alloggi popolari: 50 anni per sgomberarli tutti». E le case vuote delle immobiliari rimangono vuote: toccarle non si può, sono private
L’episodio del Trullo, l’ultimo di una serie, riporta in auge il tema casa che sembra legato a doppia maglia a quello della legalità. Ma se qualche mese fa abbiamo assistito all’ efficientissimo sgombero di Piazza Indipendenza, che il Prefetto ha definito operazione di «cleaning», ieri al Trullo lo Stato ha dovuto inesorabilmente retrocedere di fronte ad un gruppo di facinorosi. E a una ragazza madre che da poco occupava un appartamento rimasto vuoto dopo lo sgombero, un anno fa, dei precedenti abusivi.
A volte si ha l'impressione di un’applicazione selettiva o parziale e distratta della legalità, cosa che i dati confermano. All’interno dei 74.000 alloggi popolari i nuclei abusivi sono circa 10.000. Il fenomeno è talmente complesso che nei report degli enti gestori, Ater e Patrimonio di Roma Capitale, gli “abusivi” vengono classificati in 9 categorie: occupante con sentenza definitiva, sanatoria senza requisiti, utente abusivo, utente con domanda di voltura non accolta, utente con domanda di sanatoria incompleta, utente revocato e utente con domanda di sanatoria non accolta. Un fenomeno assai complesso che richiede per il suo contrasto una strategia articolata.
Organizzare uno sgombero di per sé è cosa complicata e costosa, servono almeno due pattuglie della Polizia Locale, un fabbro autorizzato, una ditta di traslochi, un medico e a volte l’ausilio della Polizia di Stato. Con le attuali capacità si possono organizzare circa 200 sgomberi all’anno, pertanto se decidessimo di sgomberare tutti i 10.000 in preda ad un fervore di legalità impiegheremmo circa 50 anni senza contare che dovremmo spostare una popolazione di 30.000 persone, come tre medi quartieri della Capitale. Inoltre l’affare si complica se teniamo conto che questi sono solo gli abusivi storici, infatti a Roma circa 1.000 alloggi popolari vengono occupati ogni anno.
Ergo, qualora anche implementassimo a 365 gli sgomberi all’anno avremmo un risultato finale deludente: per ogni alloggio sgomberato ne avremmo almeno tre occupati lo stesso giorno. Sembra qui riprodursi il paradosso di Zenone, quello in cui Achille non riesce mai a raggiungere la tartaruga. Quindi che fare? È del tutto evidente che se non si blocca l’emorragia di alloggi è inutile eseguire vecchi sgomberi che assumono solo una valenza simbolica, certamente giusti, ma non risolutivi.
Con la Giunta Marino si era tentato di dare un riassetto organico alla materia attraverso una azione articolata. Per fare questo si è costituito, attraverso la delibera 368/13, un gruppo di Polizia Locale altamente specializzato, Gruppo di Supporto delle Politiche Abitative, che concentra la maggior parte degli sforzi investigativi nell’impedire le occupazioni e a debellare i racket. Inoltre attraverso un Protocollo di Intesa con la Guardia di Finanza, ancora attivo ma siglato nel 2014, si procedeva a verifiche patrimoniali molto più accurate rispetto a quelle che vengono svolte attraverso l’interrogazione della Agenzia delle Entrate. In ultimo, anche questo ancora attivo, si è istituito un numero di emergenza, Casa Sicura 06671073551, a cui ci si può rivolgere in caso di occupazione coatta. L’ultimo punto, che avrebbe rappresentato la quadratura del cerchio, era l’istituzione di un data base comune su cui fare le verifiche.
È importante spiegare che per svolgere le verifiche sulle case popolari, cosa di competenza del Dipartimento Politiche Abitative del Comune, si interrogano diversi database. Qualora l’immobile sia del Comune, che detiene circa 28.000 alloggi, bisogna rivolgersi al Dipartimento del Patrimonio che a sua volta ha delegato la gestione a una società esterna, se invece l’immobile appartiene all’Ater, che ne ha circa 45.000, bisogna rivolgersi a quest’ente. Poi bisogna consultare l’Anagrafico del Comune, per capire chi vi risiede, l’Agenzia delle Entrate per determinare i redditi, e l’Agenzia del Territorio per capire se si hanno altre proprietà immobiliari. Insomma un meccanismo alquanto farraginoso.
Ora considerando che tutti questi enti sono Pubblici basterebbe un semplice protocollo di intesa e un programma che, consultando in automatico i dati, segnali qualsiasi anomalia, eccesso di reddito, un nuovo inquilino, l’acquisto di un immobile, in modo da far partire le verifiche mirate con notevole risparmio di tempo e di risorse. La potenza di calcolo di un simile computer? Oggi lo può fare un qualsiasi smartphone che abbiamo in tasca.
Purtroppo mentre si stava lavorando a questo progetto l’esperienza della Giunta Marino è tragicamente finita. Un progetto che spero qualcuno voglia riprendere e implementare poiché da solo consentirebbe di triplicare le assegnazioni di alloggi popolari, che passerebbero da 500 a 1500 all’anno e forse anche la ragazza che ha occupato l’alloggio del Trullo si convincerebbe che partecipare al Bando per l’assegnazione di case popolari ha un senso.
il Fatto Quotidiano, 30 settembre 2017. «A un mese dal sisma (e dai crolli) di Ischia le norme che ostacolano le demolizioni arrivano in aula alla Camera per essere approvate entro venerdì: le Procure in rivolta», con postilla
Il calendario dei lavori dell’aula di Montecitorio per la prossima settimana, deciso dalla riunione dei capigruppo di martedì, rivela una di quelle spiacevoli sorprese tipiche di fine legislatura: il cosiddetto “ddl Falanga”, dal nome del senatore verdiniano che lo ha proposto, viene scongelato e arriva all’esame dell’Assemblea lunedì per essere approvato entro venerdì (anche in notturna, se del caso, specifica l’ordine del giorno sul sito della Camera). E cosa prevede il ddl Falanga? Una serie di norme che mirano, sia detto brutalmente, a condonare gli abusi edilizi in essere finendo per incentivare anche quelli a venire. Questa, dunque, è la risposta che il Parlamento fornisce al Paese passato un mese dal terremoto, dai crolli e dai morti di Casamicciola, a Ischia, con relative polemiche attorno all’ “isola abusiva”.
Sarà contento il senatore campano Ciro Falanga, che minacciava le dimissioni in caso di mancata approvazione del ddl. E sarà contento l’uomo che lo ha accolto nel suo gruppo: Denis Verdini. Siamo ai saldi di fine stagione parlamentare, in cui si ammicca ai molti consensi che la vicenda attira nel Sud (Campania e Sicilia soprattutto) e anche a quello dei migranti politici raccolti dall’uomo che incarna il Patto del Nazareno nel gruppo Ala. Questa settimana, infatti, Camera e Senato dovranno votare pure la nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza, che ha bisogno – visto che modifica i saldi di finanza pubblica – di un sì a maggioranza assoluta: in Senato, però, i bersaniani di Mdp hanno già votato contro il Def in commissione Lavoro e minacciano defezioni pure in aula; il voto dei 14 verdiniani, dunque, potrebbe risultare fondamentale per arrivare ai 161 sì di cui hanno bisogno Gentiloni e Padoan.
E qui si torna al ddl Falanga, già approvato due volte in Senato e una alla Camera: per diventare legge basta un piccolo voto sulla parte modificata da Palazzo Madama in seconda lettura, una normetta finanziaria che i nemici del testo speravano potesse bloccarlo per sempre a Montecitorio. Non è stato così e ora la leggina pro-abusivi corre veloce verso l’approvazione definitiva.
Nel merito, gran parte del ddl, spacciato per una grande riforma da alcuni dei suoi imbarazzati sostenitori del Pd, è una presa in giro: ad esempio istituisce un fondo nazionale per le demolizione dei manufatti abusivi da 10 milioni l’anno, sufficienti – dicono serie storiche ed esperti – a finanziare al massimo 140 interventi in un Paese che ha 70 mila abusi nella sola Campania.
La ratio ideologica del provvedimento è un’altra: usare la vaga formula “abusivismo di necessità” per bloccare le ruspe dei giudici quando i Comuni sono inadempienti (cioè quasi sempre). L’ex magistrato, ex ministro della Giustizia e oggi senatore di Forza Italia Nitto Palma, promotore di una sorta di condono nella scorsa legislatura, la declina così: “Il disegno di legge è volto a salvare dagli abbattimenti le abitazioni delle persone che vivono in Campania con un reddito assai modesto e non già i grandi gruppi alberghieri o i faccendieri della Costiera sorrentina”. Più o meno i toni che usano Vincenzo De Luca, governatore della regione, e altri pasdaran dei “poveri cristi” con casa abusiva.
In realtà all’interno del testo c’è un punto che va assai al di là dell’ideologia ed è una sorta di incentivo all’abuso edilizio persino nelle zone sotto tutela: l’articolo 1 del ddl, al comma 6 bis, dispone infatti che in caso di edifici abusivi costruiti in aree sottoposte a vincolo, si proceda a demolire prima quelli non ultimati alla data delle sentenza di primo grado. Calcolando i 12-16 mesi per arrivare a una sentenza di primo grado, una sorta di invito a darsi da fare per finire il manufatto illegale.
Non che gli “abusivisti” aspettino quello: già oggi la cementificazione illegale avanza a colpi di 20 mila immobili l’anno. Per il coordinatore dei Verdi, Angelo Bonelli, “così si legalizza l’abusivismo in modo surrettizio e, non essendoci un limite di tempo nell’applicazione delle norme, una volta trasformato in legge ci sarà la corsa a costruire abusivamente perché l’impunità sarà garantita. Uno schiaffo agli italiani che hanno rispettato la legge, pagano l’affitto o un mutuo e saranno costretti a pagare con le loro tasse le opere di urbanizzazione di chi ha edificato abusivamente”
postilla
Del resto, un Parlamento istituzionalmente abusivo come quello in carica non può non riconoscersi complice degli abusivisti sul territorio. Sull'ignobile testo del senatore verdiniano Falanga, che con il gioco delle tre carte finge di colpire l'abusivismo e invece sana i vecchi abusivi e rilancia l'abusivismo garantendogli l'impunità vedi gli articoli e le dichiarazioni riportate qui su eddyburg.
La Nuova Sardegna, 19 settembre 2017. Una sofferta riflessione, con un incipit utilmente autobiografico, sul turismo balneare che, scongiurato nel 2006 dal piano paesaggistico rischia, adesso di riprendere lo sfruttamento e il degrado.
Molti si interrogano sul modello di accoglienza turistica più conveniente per la Sardegna. Stringi stringi è la questione al centro del dibattito sul DdiL del governo regionale in materia urbanistica.
Alle mie deduzioni sono arrivato passando per varie tappe, due essenziali che richiamo per spiegare l'evoluzione dei punti di vista sul tema. La prima tappa: da consigliere comunale di Sorso (debutto a 25 anni). Irresistibile l'appello di Enrico Berlinguer, il partito preso senza dubbi (quando ero ancora incerto se amare più i Beatles o i Rolling Stones). La voglia di mettere i piedi in terra, in testa suggestive lezioni di pianificazione territoriale e l'impegno della sinistra sull'urbanistica in città del centro Italia.
L'attività di amministratore prolungata (un'infatuazione Sturm und Drang) mi ha consentito di seguire da vicino il corso del dibattito di quegli anni. E di convincermi: nel territorio costiero meglio non costruire nulla tranne i servizi connessi alla balneazione. Per conservare i paesaggi costieri, ma pure per la sconvenienza delle comunità insediate più o meno vicino al mare. Impedire l'ospitalità sparsa nella linea di costa a vantaggio di chi abita a 3 km. Ragionevole utilizzare le urbanizzazioni di un paese, i servizi e pure le dignitose case disabitate. I turisti mischiati ai residenti. Possibile con qualche accorgimento. Senza complessi d'inferiorità perché i villaggi turistici offrono meno opportunità ai vacanzieri sempre più interessati a conoscere la Sardegna che esiste pure d'inverno.
Difficile da proporre: l'offerta ricettiva in un centro di origini contadine in alternativa alle proposte glamour di Club Med o Valtur, ma pure alle sciatte iniziative immobiliari sulla spiaggia.
Scontati gli insuccessi come documentano i suburbi di Platamona (non saranno molti a difenderli). E dai dai la lezione di quegli errori è rimasta nello sfondo, e oggi la costa di Sorso è integra per circa il 70%.
Tutt'altro che scontato. La politica isolana schierata al tempo per fare case ovunque e una legislazione lasca. Qualche sussulto grazie a Luigi Cogodi in un Pci- Pds sviluppista poco propenso a dargli retta. Così le scorrerie non avrebbero avuto veri ostacoli fino all'imprevisto Ppr 2006 ( due anni dopo, le dimissioni di Soru, mai spiegate, raccontano l'ostilità a quella scelta di un pezzo del PD sardo con ciò che consegue).
La seconda tappa in questa temperie: l'impegno nella redazione del PUC di Orosei, antico centro a un paio di km dal mare; paesaggio articolato, montagna- campagna-mare e il Cedrino, confine pacificatore tra la terra dei pastori e quella dei contadini. Molta natura superstite, l'incanto di Biderrosa superstar, e le ferite come altrove.
La maggioranza al governo d'accordo con l'orizzonte indicato dal PPR, la minoranza non del tutto ostile a quella visione. Una trentina di affollati confronti dopo il 2008, il piano adottato dal Consiglio nel 2010. Una sollecitudine che certifica una sostanziale adesione della popolazione al progetto.
Anche in questo caso è servita la percezione del pericolo e quindi l'accoglimento dell'idea di fondo nel PPR: impedire le trasformazioni nei litorali e facilitare l'accoglienza nelle aree urbane. Un'altro modello di sviluppo. Condiviso da tanti comuni con sbocco a mare: vicini al mare come Sorso e Orosei, o anche lontani come Villanova Monteleone.
È sempre più vasto il consenso delle comunità locali al disegno di tutela, in crescita la diffidenza verso le promesse di occupazione, più volume = più turisti: non ci crede nessuno. La sfida quell'altra: estendere gli effetti del turismo nello spazio (oltre le coste) e nel tempo ( non solo in agosto), come ripetono con molta passione alcuni sindaci non di mare (come Daniela Falconi di Fonni e Angelo Sini di Pattada). Appunto per concorrere a frenare lo spopolamento, più intenso in aree distanti dalle rive. Tutti d' accordo per impedire lo squilibrio territoriale, pure il governo regionale che parla bene ma non è conseguente com'è evidente in alcuni articoli del Ddl Erriu.
C'è speranza di invertire la tendenza solo se si andrà senza indugi oltre su connottu: il programma predatorio, dissipatore e inopportuno che conosciamo da secoli. E poi la Sardegna, si sa, non è in crisi perché scarseggiano residenze stagionali e alberghi. E comunque occorre cautela con l'edilizia nei litorali. C'è il rischio che si riduca l'attrazione dell'isola, come ammoniva il prof. Francesco Pigliaru nei suoi libri: “ogni investimento effettuato per aumentare il grado di sfruttamento turistico della risorsa (strutture ricettive, per esempio), ne determina un 'consumo' irreversibile”. Meglio non azzardare!
Vediamo allora qual è il costo dell'emergenza cronica e come una politica miope sta alimentando la formazione di quartieri ghetto. Il 66% della domanda abitativa (42.000 famiglie) proviene da chi ha un alloggio ma non riesce a fronteggiare l'affitto o il mutuo. Un'amministrazione seria dovrebbe intervenire in via preventiva per evitare che i nuclei sulla soglia di povertà finiscano nei CAAT (centri di assistenza alloggiativa temporanea, detti residence) che prosciugano le casse pubbliche. Il costo medio di un appartamento in un residence oggi è di 1.700 euro mensili per una spesa di 32 milioni di euro all'anno: per questo l'amministrazione Marino cercò di chiudere i residence attraverso il «buono casa» (dgc. 368/2013), un sussidio dato ai nuclei in attesa di un alloggio popolare. La diffusione dei CAAT segue la distribuzione degli alloggi popolari: i residence non solo concentrano il disagio all'interno delle loro strutture pensate appunto per accogliere persone in condizione di marginalità urbana, ma lo fanno in zone della città già molto critiche. Eppure una regola basilare di ogni politica urbana è di evitare la concentrazione del disagio, cioè la formazione di ghetti. Invece, negli ultimi venticinque anni, i reietti della città, per dirla con Loïc Wacquant, sono stati relegati in case popolari oggi degradate - perché, come abbiamo visto nella precedente puntata, l'Ater non ha i soldi per la manutenzione -, nei residence e nelle occupazioni, ma anche nei centri di accoglienza per stranieri, nei campi rom e nelle nuove baraccopoli. Molte delle cento occupazioni romane si sviluppano nelle ex aree industriali in disuso oppure in spazi di risulta di insediamenti residenziali pubblici, locali commerciali e scuole, tutti servizi mai utilizzati che nel tempo sono stati occupati. In altre parole in questi venticinque anni sono state create le premesse per la nascita delle prime banlieues capitoline. Una terza fotografia rivela che attualmente sono 8.406 i nuclei (circa 20.000 persone) privi di alloggio o in sistemazioni precarie, tra ospiti dei residence, occupazioni e sfrattati.
E allora, quali sono le proposte per uscire dalla logica dell'emergenza? Per invertire questa rotta servirebbe un imponente sforzo pubblico sia per riformare alla radice il welfare italiano, sia per intervenire sulle periferie romane perché, come abbiamo visto, le misure fin qui adottate sono insufficienti per qualità dell'offerta e inadeguatezza dei finanziamenti. Tuttavia, a livello cittadino la giunta attuale potrebbe intervenire. Dalla vendita già avviata del patrimonio pubblico si stima infatti un ricavo di 360 milioni di euro, soldi che non dovrebbero confluire nel bilancio ordinario ma essere destinati interamente alla casa. Poi ci sono i 197 milioni di euro stanziati dalla Regione Lazio nel 2016 per il contrasto dell'emergenza abitativa con l'acquisto di alloggi popolari e per operazioni di rigenerazione urbana. Parte di questi soldi dovrebbero essere investiti anche per la prevenzione. Ci sono infatti 7.000 nuclei in affanno con il pagamento delle rate dei mutui e spesso basta un piccolo contributo per evitare di accumulare morosità con il rischio di perdere l'immobile (dopo 18 rate non pagate la banca può pignorare l'immobile). Inoltre, è necessario finanziare la Delibera 154/97 di contributo al reddito per garantire quei nuclei che per impoverimento non riescono più a pagare la pigione. Infine si dovrebbe modificare la delibera comunale che assegna fondi per la morosità incolpevole oggi troppo restrittiva perché i soldi ci sono ma il blocco politico-amministrativo di cui parlavamo nella parte precedente dell'inchiesta non consente di spenderli. Per capirci, a fronte di 10.000 richieste di esecuzione sfratti, nel 2015 sono stati erogati appena 33 contributi. Ma, per uscire dalla logica dell'emergenza, occorre chiudere i residence, per esempio implementando il «buono casa» e combinandolo con il sussidio al reddito per i casi di maggiore fragilità. Poiché la maggior parte dei nuclei nei residence sono in attesa di un alloggio popolare, è fondamentale aumentare il numero delle assegnazioni, che si possono raddoppiare arrivando a quota mille attraverso l'acquisto di nuovi alloggi, la razionalizzazione del patrimonio esistente (qui servirebbe un articolo dedicato) e la lotta all'abusivismo.
Come abbiamo visto nella prima parte, ogni anno ci sono mille occupazioni abusive di alloggi pubblici per un danno stimato di 250 milioni di euro. Si potrebbe aumentare da subito l'organico della task force della Polizia Locale che controlla le case popolari (appena 25 agenti per 74.000 alloggi); mettere in rete le banche dati di Agenzia delle Entrate, Anagrafe, Ater e Patrimonio con un datamatching che segnali le verifiche da compiere; rinnovare il protocollo tra il comune di Roma e la Guardia di Finanza per incrociare i dati su residenze, redditi e patrimonio degli assegnatari e su quelle degli ospiti.
Premesso che una parte dei fondi per queste azioni ci sono, servirebbe volontà politica, capacità e coraggio. Purtroppo il bando appena pubblicato dalla Giunta Raggi impegna 12 milioni di euro per cambiare nome ai residence, non si chiameranno più CAAT ma SASSAT (come quando Veltroni passò dai campi rom ai Villaggi della Solidarietà), sancendo così la continuità segregazionista del modello Roma. Con questo bando infatti, il Comune di Roma chiede ai proprietari di mettere a disposizione 800 alloggi, anche cielo terra, da un minimo di 10 fino a un massimo di 50 appartamenti arredati e in un solo municipio. L'affitto sarà deciso al massimo costo del listino dell'osservatorio immobiliare (ossia a prezzo di mercato), quindi il colpo di grazia al canone concordato e la fine del «buono casa» che, essendo rivolto ai piccoli proprietari, da un lato faceva sì che il disagio sociale non si concentrasse in un unico luogo, dall'altro stabiliva un prezzo massimo di 800 euro ad alloggio, adesso invece innalzato a 1.250.
Di fatto l'amministrazione comunale apre ai costruttori con invenduto, drogando ulteriormente il mercato immobiliare.
In conclusione, a prescindere dal modello, universalistico o selettivo, la differenza sostanziale è tra una politica per la casa e una per cronicizzare l'emergenza abitativa, ossia nascondere la polvere sotto il tappeto e rimandare la soluzione all'infinito. Con il rischio di focolai di rivolta nelle periferie in ebollizione.
Riferimenti
In eddyburg potete leggere la prima parte di questa riflessione, pubblicata su il manifesto il 10 settembre scorso, e un'ampia rassegna sul tema in questa cartella
Articoli di Giacomo Talignani e Paolo Rumiz, la Repubblica, 17 settembre 2017. Emilia e Lombardia separate, code di tir, pendolari esasperati “Vecchi e fragili il governo ci aiuti". (c.m.c)
la Repubblica 17 settembre 2017
I PONTI MALATI SUL PO
COSÌ IL GRANDE FIUME TORNA
A DIVIDERE L'ITALIA
di Giacomo Talignani
Parma.Separati dal grande fiume, isolati e colpiti da un’economia in sofferenza. Tra l’Emilia e la Lombardia migliaia di cittadini stanno soffrendo le pene di quella che era un’emergenza annunciata da tempo: i ponti di confine fra le province sono “malati” e sul Po non si passa più. Quello principale, fra Parma e Casalmaggiore, è stato chiuso a inizio settembre a tempo indeterminato per lesioni.
Con gli altri attraversamenti a mezzo servizio, un’itera area nel cuore della food valley è finita così in ginocchio. «Nessuno ha voluto curarli per tempo e questi sono risultati» dicono pendolari e residenti a cui è cambiata la vita. Il caos, a cavallo di tre province (Parma, Cremona, Mantova), è esploso a fine agosto quando un agricoltore, mentre lavorava sotto il ponte che collega Colorno a Casalmaggiore, ha notato problemi alle travi: dopo i primi rilievi il ponte è stato chiuso a data da destinarsi. Delle 156 travi, 93 sono risultate lesionate. Era una sorta di autostrada alternativa fra le strade della Bassa: lì passavano ogni giorno 25mila veicoli, per lo più tir che attraversavano le due regioni (anche per raggiungere il Brennero) e lavoratori “frontalieri”. Dalle mamme costrette ad allungare di un’ora il tragitto per portare i figli a scuola, ai pendolari senza più alternative, sino ai commercianti che hanno perso «il 90% dei clienti», riuscire ad arrivare “al di la dell’acqua” è diventata un’impresa.
Anche perché gli altri ponti, vecchi di 50 anni, soffrono tutti. Ci sono i cantieri sul viadotto della A21 nel cremonese. Il Ponte Verdi, a corsia alternata fra Ragazzola e San Daniele Po, vede code infinite nelle ore di punta e sull’unica alternativa senza lavori, Viadana-Boretto, si riversano migliaia di mezzi. I sindaci, precisando di «non avere soldi per intervenire», hanno definito la situazione «molto seria» e dopo una riunione d’urgenza delle Province hanno chiesto l’intervento del ministro Graziano Delrio e fondi governativi «immediati ». Come tampone all’emergenza, c’è chi propone perfino battelli mobili per le merci. Sono talmente esasperati, gli esercenti dell’Asolana, che nei bar a ridosso del grande ponte ormai gli affari si misurano in brioches.
«Quando funzionava a quest’ora del mattino ne vendevo almeno 100. Sa quante ne hanno mangiate oggi? Otto», si lamenta Luigi Dabellani del ristorante Il Lido, sul versante parmense. «Abbiamo perso il 90% dei clienti. Ieri ho tenuto aperto il ristorante da solo. I miei dipendenti vengono in treno e non sanno se faranno in tempo a tornare». Poco più in là, al ristorante Bello Carico, la titolare dice: «Dal 2000 il ponte l’hanno già chiuso tre volte. Ora non sanno nemmeno dirci quando riaprirà».
Le aziende agroalimentari sono costrette a far passare i camion più a ovest, tra Ragazzola e San Daniele Po, ma non va meglio. «Ieri c’erano chilometri di coda. Ho contato 17 tir fermi qui davanti», dicono dalla stazione di rifornimento sulla sponda lombarda. Il ponte è a una sola corsia e «si può stare in coda anche 40 minuti ». Su quello che va da Viadana a Boretto, il serpentone di veicoli si snoda a rilento in direzione Parma. Sul ponticello dell’affluente Enza, «si è passati all’improvviso da 20mila a 40mila mezzi », nota il sindaco. Uno di quei tir, pochi giorni fa, ha investito un’anziana uccidendola, forse la prima vittima di una «disastro che si poteva evitare».
la Repubblica 17 settembre 2017
QUEI SIMBOLI
DEL NUOVO MEDIOEVO
di Paolo Rumiz
I nostri ponti? Simbolo perfetto di un Paese fondato sull’incuria. Per capire, non devi guardarli da terra. Devi passarci sotto, con la corrente. Vedere i piloni circondati da una corona di spine di tronchi sospesi a mezz’aria; il segno del livello delle ultime piene. Li ho visti, scendendo in barca il fiume d’Italia, ed è sempre la stessa storia. Foreste intere di alberi morti sotto le campate, ai quali nessuno sembra prestare attenzione.
Per anni nessuno ci pensa, perché levare quella ramaglia è un affare costoso e complicato. Ma chiunque ha dimestichezza con l’acqua sa che, alla prima grande pioggia, quella foresta aggrappata alla pietra genererà sulla struttura una pressione intollerabile. Decine di ponti sono venuti giù, negli ultimi trent’anni, per questo unico motivo. Gli alvei troppo stretti, troppo veloci e troppo ingombri di materiali che vanno ad accumularsi attorno al primo pilone.
Oh certo, abbiamo le autostrade, il calcestruzzo, le grandi gallerie transalpine e transappenniniche, le ardite campate dei viadotti. Ma i ponti sfuggono allo sguardo di una nazione che ha perso dimestichezza con l’acqua al punto da diventare idrofoba. Quando andai a monitorare la scomparsa dei torrenti nel Mugello a causa del traforo ferroviario Bologna- Firenze, constatai che in alcuni Comuni i pubblici amministratori non s’erano nemmeno accorti che, sotto i loro ponti, i letti dei corsi d’acqua erano all’asciutto. Ora, attorno a Piacenza, Emilia e Lombardia, nuovamente separate del fiume, si ritrovano a scoprire la corretta etimologia della parola “rivale”, cioè “colui che, stando sull’altra riva del fiume, può essermi in qualche modo ostile se non nemico”. I ponti non sono soltanto realizzazioni ingegneristiche ma simboli di unità di un territorio altrimenti governato da antagonismi di campanile. I ponti hanno un’anima e chi li costruisce compie un sortilegio, da cui la parola “pontefice”.
Dopo duemila anni abbiamo ponti romani ancora in piedi. Alcuni esempi: il Pont du Gard nel Sud della Francia, e il Pont Saint Martin all’uscita del Lys sulla Dora Baltea in Valle d’Aosta. Sulla via Appia, molto di essi hanno funzionato ininterrottamente fino al 1944, quando i Tedeschi, ritirandosi a Nord, non li hanno fatti saltare. Ma la loro potenza è ancora visibile.
Giganteschi conci di pietra intatti nelle campate sopravvissute alla dinamite. La storia insegna. La fine della Romanità fu segnata dall’insicurezza delle strade. Dal crollo della loro manutenzione. E allora ci si chiede se non tocchi anche a noi tornare ai guadi. Ai santi traghettatori, tipo quello sul “Transitus Padi” del vescovo Sigerico, che qualcuno, forse per lungimiranza, ha rimesso in esercizio a Sud di Milano per via dei pellegrini della Francigena. In un Paese dove i Comuni in bolletta si svendono all’eolico o alla speculazione idroelettrica dei privati, la crisi dei ponti può avvertirci di un nuovo medioevo.
«La Regione non avrà più poteri sulle demolizioni: tutti a favore, dal Pd al M5S». il Fatto Quotidiano, 12 settembre 2017 (p.d.)
Un apparente controsenso perché sindaco, Giunta e consiglio comunale non hanno alcuna competenza formale nel dare il via libera alle demolizioni, compito che tocca appunto alla burocrazia, adesso del tutto de-responsabilizzata da quelle poche righe su un tema che infiamma la campagna elettorale nell’isola con lo scontro tra Pd e 5 Stelle sul cosiddetto “abusivismo di necessità”: protetto dai grillini e consacrato nel regolamento del sindaco di Bagheria, Patrizio Cinque, indicato come modello dal candidato governatore Giancarlo Cancelleri.
Nell’isola degli abusivi, in cui l’80 per cento dei Comuni è inadempiente, con migliaia di ordinanze di demolizione ineseguite, a “salvare” i funzionari regionali e comunali dall’onere dei controlli (e delle responsabilità) ci ha pensato l’assessore regionale al Territorio e ambiente Maurizio Croce, che il 27 giugno scorso ha presentato (e illustrato) l’emendamento 73 R ai sette deputati della IV commissione Territorio e Ambiente dell’Ars che lo hanno votato all’unanimità: sono la presidente Mariella Maggio (Ex Pd, ora Mdp) Giuseppe Laccoto e Valeria Sudano (Pd) Pietro Alongi (Alternativa Popolare di Alfano), Totò Lentini (Gruppo Misto) e i due 5 Stelle, Gianina Ciancio e Stefano Zito.
Stranamente, o forse no, la norma non è poi finita nel fascicolo degli emendamenti ma è stata presentata “sotto traccia” direttamente nell’aula dell’Assemblea regionale siciliana e votata in un paio di minuti durante una maratona da 48 ore di votazioni continue col resto del “Collegato” alla Finanziaria regionale lo scorso 9 agosto, peraltro con una bizzarra tecnica di voto (detta per “alzata”, ci torneremo). E così il segnale agostano arrivato dall’Ars, nascosto tra le righe di un emendamento sconosciuto persino ai deputati più attenti, è stato quello di una “via di fuga” dalle responsabilità di vigilanza sulle demolizioni scaricate così sulle spalle delle Procure.
Dal 25 agosto, data della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Regione Siciliana dell’articolo 49 del provvedimento, se entro 90 giorni il proprietario di un immobile abusivo non obbedisce, demolendo, all’ordine della Procura, la palla passa al Comune e poi torna all’ufficio del Pm: zero competenze per la burocrazia regionale, prima obbligata a mandare i “commissari ad acta”. “È una disposizione che indebolisce i poteri di vigilanza – dice Giuseppe La Greca, magistrato del Tar ed esperto di normativa edilizia – Non mi sembra che la Sicilia ne avesse bisogno”.
Una mossa disperata, per la deputata regionale Claudia Mannino, grillina ora nel Gruppo Misto, dopo essere inciampata nell’inchiesta sulle “firme false”: “È una chiara risposta alla legge nazionale sulle demolizioni, che sta per essere approvata definitivamente dalla Camera dopo il passaggio in Senato del luglio scorso. La norma fa in modo che la Regione si lavi le mani, l’Ars non si può permettere di fare lo scarica barile sulle Procure, producendosi in un nuovo ‘aiutino’ per gli abusivi’’. Infine la stoccata agli ex compagni del Movimento: “Oltre all’attività pro-abusivi della maggioranza a sorprendere è anche la totale assenza di vigilanza da parte dell’opposizione, che col suo silenzio rinuncia a fare il suo mestiere”.
Questa leggina, peraltro, è come spesso capita senza padre: le uniche firme sono quelle del relatore Vincenzo Vinciullo (Ap), di Crocetta e dell’assessore al Bilancio Baccei in calce al testo pubblicato in Gazzetta Ufficiale. Si sa, lo dicono i resoconti, che l’emendamento arriva “dalla commissione Ambiente”, ma non si sa chi l’abbia votato. Il presidente Ardizzone l’ha messo in votazione in aula con questo metodo: “Chi è favorevole resti seduto; chi è contrario si alzi”. Risultato: “È approvato”.
A Roma l'amministrazione capitolina assegna 490 case popolari all'anno: al ritmo attuale ci vorrebbero circa 35 anni per smaltire i 16.000 nuclei in lista che nel frattempo continuerebbero a crescere in modo esponenziale. Cerchiamo di capire la natura di questo blocco, senza risolvere il quale è impossibile ogni politica per la casa. Vanno analizzate le ragioni dello stallo della macchina politico-amministrativa rispetto alla gestione delle case popolari. A questo scopo risulta utile fare un confronto con il modello tedesco operante a Berlino e con quello francese funzionante a Parigi. Emerge così che, senza un sistema integrato di servizi sociali e senza l'azzeramento dell'evasione fiscale, il welfare non funziona, quindi non può garantire diritti.
Nella Capitale ci sono circa un milione e duecentomila abitazioni. Oltre il 70% dei romani è proprietario dell'alloggio in cui vive, in linea con il livello nazionale. Il mercato immobiliare dell'affitto è composto da circa 200.000 case e il pubblico detiene un terzo dell'intero mercato, ovvero 74.000 alloggi tra Ater (Azienda territoriale per l'edilizia residenziale pubblica) e Comune di Roma. Dunque un peso notevole, un po' come se la Coca-Cola non fosse leader nel settore delle bevande gassate.
In Italia il sistema dell’edilizia residenziale pubblica è sostenuto con fondi pubblici (edilizia sovvenzionata) per la costruzione di alloggi popolari poi assegnati con un bando, ma con lo scioglimento della Gescal non c'è più certezza ne continuità dei fondi, quindi le realizzazioni sono quasi inesistenti. Gli enti tedeschi, forti di bilanci in attivo, sono molto competitivi e, tra le nuove realizzazioni, una parte degli alloggi sono destinati sia al mercato privato della vendita per rifinanziare l'investimento iniziale, sia all'edilizia pubblica. Questa modalità consente di realizzare senza gravare sulla collettività garantendo il giusto mix sociale per evitare fenomeni di ghettizzazione. Il sistema italiano invece prevede lo stanziamento di fondi pubblici per la costruzione di soli alloggi popolari locati esclusivamente agli assegnatari di bando, quindi a redditi omogenei tendenti al basso. Oltre al rischio ghetto, in Italia i fondi non sono in grado di rigenerarsi e il patrimonio si depaupera per scarsità di manutenzione. Nel modello francese la distinzione fra alloggi sociali e popolari è ancora più labile poiché il sistema opera attraverso soglie per l'affitto scaglionate per fasce di reddito. Gli utenti sono suddivisi in tre fasce secondo le capacità contributive. La definizione delle fasce di reddito varia a seconda di indicatori locali.
Tra il taglio indiscriminato dei paesaggi urbani formati degli alberi antichi in superfici e la macelleria trsforatrice delle inutili infrastruttura nel sottosuolo Firenzi si sta confermando come la capitale delle follìe urbane. la Città invisibile online, 6 settembre 2017 (c.m.c.)
Non si sa da dove cominciare per parlare del progetto TAV fiorentino, quei sette chilometri di doppio tunnel ferroviario e quella stazione sotterranea in cui praticamente non circoleranno treni.
Proviamo a partire degli ultimi sviluppi di una vicenda che ormai ha i toni dell’assurdo: dopo un dibattito che è sfociato perfino nella rissa politica (tra renziani e veterodiessini) l’accordo finale è difficile da spiegare perché non risponde ad alcuna ragione razionale, è completamente privo di logica.
Le ferrovie avrebbero deciso che i treni ad alta velocità continueranno a fermare alla stazione principale, Santa Maria Novella; alla nuova stazione si attesterebbero solo una ventina di treni al giorno per un numero di passeggeri che non arriva oggi a 2000. Nei tunnel sotto la città passerebbero, oltre quelli, i treni senza fermata in città, un numero esiguo.
Dunque si va avanti con un progetto miliardario per meno treni che in una linea secondaria? Anche i nostri “decisori” si sono resi conto dell’assurdità della cosa e allora cosa si è trovato di giustificazione alla grande opera? La mega stazione sotterranea diventerà la fermata dei bus extraurbani! No, non è uno scherzo: si vogliono costruire due tunnel in ambiente urbano e una stazione sotterranea per fare – in superficie – una fermata di autobus.
Chi scrive ancora si chiede se ha capito bene o se il caldo di questa estate gli ha ottenebrato la mente, ma pare sia proprio così: si costruisce una linea ferroviaria sotto terra per autobus in superficie. Forse i principi della logica che hanno accompagnato la cultura occidentale da Aristotele in qua sono stati abbandonati? Forse qualche mistica visione ha fatto sì che si decidesse di costruire un tempio agli dei sotterranei per metterli in contatto diretto con quelli celesti?
Non chiedete a noi, ma a questa classe politica e imprenditoriale che ormai ha preso il volo e staziona ad altezze così vertiginose da non essere più compresa dai comuni mortali (che comunque pagheranno devotamente tutto con i soldi delle loro tasse). Noi continuiamo a vivere vicino a terra, quella terra che verrà scavata dalle viscere di Firenze e si accumulerà, trasformata in fango, sulle rive del lago di Santa Barbara, vicino a Cavriglia, dove si vorrebbero conferire quelle terre inquinate per fare risanamento ambientale (sic).
E così, strisciando nei bassifondi della curiosità, continueremo a farci domande:
I grandi decisori (come il sindaco fiorentino Dario Nardella) hanno detto che è una grande idea quella di creare un “hub” tra ferrovia e gomma. Ma di che hub si parla? Cosa si metterà in collegamento se NON ci saranno treni?
Nella grande stazione interrata col tetto di vetro progettata da Norman Foster saranno trasferiti tutti i bus extraurbani che servono Firenze e quelli dei turisti che arrivano in città. Ma è stato fatto uno straccio di studio di fattibilità? Si sono verificate le conseguenze sul traffico e soprattutto sui pendolari che usano questo servizio? I turisti che arriveranno in bus come raggiungeranno il centro cittadino? Si è fatto uno studio per verificarne la sostenibilità? Se sì, dove sono questi documenti?
L’idea di trasformare una stazione ferroviaria in una stazione di autobus è una modifica sostanziale del progetto; questo richiederebbe una nuova VIA (valutazione di impatto ambientale). Come si pensa di fare? Far finta di nulla e andare avanti come si è fatto fin’ora, visto che NON ESISTE una VIA per la stazione Foster? Chi straparla di legalità chiude gli occhi davanti al più grande abuso edilizio in Toscana?
Il progetto TAV è stato interessato da due pesantissime inchieste della magistratura che hanno portato ad un processo che dovrebbe iniziare a breve: corruzione, traffico di rifiuti, truffa, associazione a delinquere, infiltrazioni della Camorra… un elenco lungo e vergognoso. Su questo si tace nelle dichiarazioni di politici e costruttori. Eppure una delle inchieste si chiamava “sistema”, proprio perché denunciava come esistesse una pianificazione, fin dal Ministero dei trasporti, nella distribuzione delle grandi opere inutili, con metodi corruttivi e con spaventosi sperperi di risorse pubbliche; compresa quella fiorentina. Possibile si sia dimenticato tutto questo?
I lavori di questo Passante ferroviario sono andati avanti a singhiozzo e molto lentamente non per lungaggini burocratiche, ma per i troppi errori progettuali. Il più evidente è quello che prevede l’utilizzo delle terre, ovviamente contaminate, per il risanamento ambientale a Santa Barbara, nel comune di Cavriglia. Già nel 2008, in un convegno, l’allora assessore ai trasporti Riccardo Conti chiese pubblicamente al ministro dell’Ambiente Altero Matteoli di modificare la normativa sulle terre di scavo, altrimenti “il sottoattraversamento fiorentino era irrealizzabile”.
http://www.nove.firenze.it/a807010031-tav-conti-i-senza-deroga-alle-norme-sullo-smaltimento-dello-smarino-il-sottoattraversamento-di-firenze-e-irrealizzabile-i.htm Il regolamento è stato modificato con mille forzature e adesso, secondo i fautori del TAV, sarebbe pronto lo scavo. Ma cambiare una legge rende più pulite quelle terre?
Il Comitato No Tunnel TAV, con i suoi tecnici, ha fatto un attento lavoro di studio del progetto ed ha verificato una miriade di criticità di cui continua a chiedere conto a Ministero, Regione, Comune, Osservatorio Ambientale (una delle istituzioni “foglia di fico” più inutili che si siano mai viste). Come è possibile che ancora non si sia data una risposta?
Ecco una breve selezione delle mancate risposte ai difetti ed errori del progetto:
-Si continua ad ignorare che i danni agli edifici sono stati tutti sottostimati in confronto con la letteratura scientifica al riguardo.
-Si è autorizzato, da parte dell’Osservatorio Ambientale, lo scavo con una sola fresa delle due gallerie. Con questa modalità i danni in superficie saranno superiori fino al 60%.
-La falda è impattata e sbilanciata in tutti i cantieri con paratie, le mitigazioni non funzionano, ma si continua a tranquillizzare dicendo che “si monitora con attenzione”; monitorare non vuol dire risolvere.
-Gli studi sismici sulla stazione Foster sono stati eseguiti in maniera sbagliata, considerando terreni lontani dal cantiere.
-I consolidamenti previsti sotto i bastioni della Fortezza non sono adatti ai terreni argillosi presenti e provocano essi stessi danni. Si sono già verificati nel caso della scuola Rosai, ma si fa finta di nulla.
-Sul tracciato delle gallerie insistono ben più dei 280 edifici dichiarati dai costruttori e in questi si trovano parecchie migliaia di appartamenti e negozi. Nessuna opera di prevenzione è prevista; i famosi “testimoniali di stato”, effettuati negli anni passati, non servono a prevenire i danni, ma per tutelare i costruttori nell’evidente esplosione del contenzioso che ne seguirà.
I molti errori progettuali hanno rallentato la realizzazione del poco costruito ed i costi stanno esplodendo: dai dati dichiarati qualche mese fa, davanti a lavori eseguiti per il solo Passante del valore di circa 250 milioni, i costruttori accampavano costi ulteriori di 528 milioni che parrebbero ridotti, con una trattativa, a 350.
Ma su tutto domina la profonda ed assoluta inutilità dell’opera, soprattutto adesso che le FS hanno deciso di non mandare i treni TAV alla stazione ai Macelli.
Da questo quadro non è possibile che prevedere sfaceli multipli: per i cittadini che saranno (e sono) danneggiati dai lavori, per tutti i cittadini che pagano l’opera, per le FS che gettano al vento enormi risorse, per la politica nazionale e locale che ne sta uscendo screditata, per i viaggiatori che vedranno peggiorate le loro condizioni. Gli unici vantaggi saranno per i costruttori e i loro “amici”; questi hanno un nome: Condotte SpA, cioè la famiglia Caltagirone, dopo che la cooperativa Coopsette, tanto cara alle maggioranze in Regione e a suo tempo vincitrice della gara di appalto, è ignominiosamente fallita rovinando migliaia di soci.
«La sua estrazione incontrollata per l'edilizia sta devastando la biodiversità. Uno studio, appena pubblicato, sulla rivista Science». il manifesto, 8 settembre 2017 (c.m.c)
Su alcune delle più belle spiagge del nostro paese negli ultimi anni sono comparsi buffi cartelli che recitano «Vietato rubare la sabbia». Non solo l’erosione sta infatti consumando le nostre coste, trasformando la sabbia in un bene sempre più prezioso. La sabbia fa gola ai bambini e alle loro palette, ma soprattutto all’edilizia, che solo in Italia ne consuma circa cento milioni di tonnellate l’anno. Secondo una ricerca pubblicata dalla rivista Science, il suo iper-sfruttamento rappresenta un’emergenza globale. Complice il massiccio spostamento delle popolazioni verso le città, il fabbisogno di materiale da costruzione è in vertiginoso aumento.
Per costruire un palazzo di medie dimensioni, occorrono tremila tonnellate di sabbia. Per un chilometro di autostrada, dieci volte di più. «Tra il 1900 e il 2010, il volume di risorse naturali sfruttate nell’edilizia e nelle infrastrutture dei trasporti è aumentato di ventitre volte. La sabbia e la ghiaia ne rappresentano la maggior parte (l’80% del totale, cioè 28,6 miliardi di tonnellate l’anno)», riportano Aurora Torres, Jodi Brandt, Kristen Lear e Jianguo Liu, i membri della collaborazione Germania-Usa che ha firmato la ricerca. Le conseguenze per l’ecosistema sono catastrofiche.
L’estrazione incontrollata della sabbia mette a rischio la biodiversità, causando l’estinzione di alcune specie, come una ormai rara popolazione di delfini fluviali in India, oppure la diffusione di specie invasive – se la «vongola asiatica» è ormai diffusa dal nordamerica ai fossi del bresciano, lo si deve alle navi che trasportano sabbia (vongole comprese) attraverso gli oceani. Inoltre, ed è un tema di strettissima attualità, le pozze d’acqua che rimangono nei fiumi devastati dall’estrazione della sabbia sono un bacino perfetto per le zanzare che trasmettono la malaria. In alcune regioni, dall’Iran all’Africa occidentale, la diffusione della malaria e di altre malattie e le attività di estrazione della sabbia appaiono strettamente correlate.
Anche il territorio, soprattutto in aree povere della terra, ne appare devastato. In Indonesia, una ventina di isole sono letteralmente sparite, scavate via per trasformarsi nelle nuove terre che la città-stato di Singapore si sta costruendo intorno. Persino nei paesi arabi la sabbia arriva dalle coste dell’oceano indiano, in quanto quella proveniente dal deserto non è adatta a trasformarsi in cemento. In totale, si tratta di un’industria globale da 70 miliardi di dollari l’anno. Secondo i ricercatori, stiamo assistendo a una nuova «tragedia dei beni comuni», una celebre espressione coniata da Garrett Hardin nel 1968 a proposito dei pascoli inglesi: senza una regolamentazione, un bene comune a completa disposizione degli interessi individuali si esaurisce rapidamente.
Estrarre sabbia da coste e fiumi per farne cemento è stato finora considerato il modo più facile ed economico per rifornirsi. È ormai urgente che i governi aprano gli occhi sul fenomeno e che noi tutti iniziamo a ripensare la sabbia, la più umile delle materie prime, come una risorsa scarsa. E a studiare le possibili alternative, come sta avvenendo con il carbone e il petrolio. Qualche governo, soprattutto nei paesi più avanzati, sta prendendo provvedimenti. Alla fine di luglio, lo stato della California ha deciso la chiusura dell’ultima miniera di sabbia rimasta sulle spiagge degli Stati Uniti, nella baia di Monterey.
La sabbia, però, è preda anche delle organizzazioni criminali. Le «sand mafia» si stanno diffondendo in tutto il mondo. Il fenomeno è radicato e pericoloso soprattutto in India. Le vittime della Sand Mafia indiana si contano a decine, tra affiliati e forze dell’ordine. Secondo i dati forniti dell’indiana Aunshul Rege e dell’italiana Anita Lavorgna, il business nel subcontinente vale 16 milioni di dollari al mese. Analoga è la situazione in altri paesi, come Cina, Kenya o Marocco. Anche in Italia questa particolare forma di ecomafia ha dimensioni ragguardevoli. Tuttavia, lamentano Rege e Lavorgna, non c’è una conoscenza quantitativa precisa sul traffico illegale di sabbia in Italia, strettamente controllato da camorra e ’ndrangheta.
«Allo studio del governo la cancellazione di Tasi e Imu e la detrazione delle spese da Irpef e Irap. Oggi 3,2 milioni di italiani nelle aree a rischio di frane e alluvioni». la Repubblica, 29 agosto 2017 (c.m.c)
Quando quindici anni fa la Regione Campania cercò di convincere parte degli 800 mila abitanti delle zone vesuviane ad alto rischio vulcanico a trasferirsi con una serie di incentivi fuori dalla “zona rossa”, consentendo l’abbattimento delle vecchie case, accadde che molte famiglie incassarono l’incentivo e poi affittarono quelle case ad altre persone. Risultato: addio demolizione. Il rischio fu semplicemente trasferito da un gruppo di famiglie a un altro. E anzi da allora il numero dei Comuni in pericolo salì da 18 a 25.
Nelle duecento pagine del rapporto della Struttura di missione “Casa Italia”, che da Palazzo Chigi ha il compito di preparare un piano pluriennale per la messa in sicurezza delle nostre case, bastano quelle poche righe sui falliti tentativi di trasferire chi abita sulle pendici del Vesuvio, per far capire come la politica di delocalizzazione della popolazione minacciata da disastri naturali verso zone più sicure sia rimasta in tutta Italia lettera morta, soprattutto per la scarsa determinazione delle amministrazioni locali. Ma a fallire non sono solo i piani di demolizione e ricostruzione degli edifici abusivi esistenti in zone al alto rischio di eruzioni vulcaniche, frane o alluvioni. I poteri locali – dice il rapporto – non sono riusciti neppure a evitare che in quelle zone si costruissero nuove case. Il 10% dei Comuni tra il 2005 e il 2015 ha continuato a edificare e urbanizzare vicino ai letti di fiumi e torrenti o sotto i terreni franosi.
Questa inerzia più o meno compiacente di molte amministrazioni, che hanno chiuso un occhio in tutti questi anni di fronte al volto peggiore dell’abusivismo edilizio (quello che mette a repentaglio migliaia di vite umane), non scoraggia tuttavia i 17 esperti di Casa Italia. Che trovano nel Comune di Messina un prezioso alleato: quella amministrazione, infatti, sta predisponendo proprio in questi giorni un piano per trasferire con tanto di incentivi gli abitanti delle zone più esposte ad alluvioni e frane verso zone più sicure.
Un ripensamento a 180 gradi rispetto agli scandalosi e ripetuti insediamenti di case lungo i 70 torrenti della provincia siciliana. Messina diventa così una specie di progetto pilota anti-abusivismo che se andrà in porto, potrà costituire un esempio per il resto d’Italia. Un’operazione che tuttavia avrà bisogno di incentivi sia urbanistici che fiscali. Ecco perché in uno schema di proposta legislativa, gli esperti insediati a Palazzo Chigi invitano il governo a cancellare per 5 anni in tutta Italia, nelle operazioni di demolizione e ricostruzione, Tasi e Imu, e a detrarre le spese da Irpef e Irap.
Il governo, che ha già avuto una serie di incontri con i tecnici di Casa Italia, sta valutando la proposta. Se ne parlerà probabilmente già oggi in Consiglio dei ministri, così come si valuterà l’idea, che non dispiace al viceministro delle Infrastrutture Riccardo Nencini, di un potere sostitutivo dello Stato nei confronti di quei Comuni che rifiutano di rendere operative le ordinanze definitive di demolizione degli edifici abusivi più a rischio. Oggi – dice il rapporto – un milione e 200 mila italiani vivono sotto il pericolo di frane e quasi due milioni sono a rischio- alluvioni.
Ma la lotta all’abusivismo edilizio è solo una delle sfide che si è posto il team di Casa Italia. Le altre due sono da una parte la riduzione dei rischi idrogeologici, e dall’altra il tentativo di rendere meno vulnerabili gli edifici nelle zone più esposte ai terremoti. Sul primo punto, sono già stati stanziati quasi dieci miliardi in otto anni, ma secondo le Regioni ne servirebbero ventidue. Sul secondo, gli esperti hanno cominciato a tracciare una prima mappa, andando a vedere nelle zone a maggior rischio di terremoti quanti sono gli edifici abitativi meno resistenti, ossia quelli in muratura portante o quelli in calcestruzzo armato ma costruiti prima del 1970, quando non c’erano ancora norme anti-sismiche. Sono quasi 570 mila, posizionati in 643 Comuni, e concentrati per quasi il 60% in due sole regioni: Calabria e Sicilia.
A questo punto, la proposta di Casa Italia, fatta propria dal governo e già finanziata con cento milioni, prevede l’invio di tecnici sul posto per verificare il grado di vulnerabilità di quegli edifici, comunicarlo ai proprietari e renderli consapevoli dei rischi che corrono. In questo modo si spera di poterli convincere a utilizzare il “sisma-bonus”, già in funzione ma finora non molto usato: si tratta di una detrazione fiscale che arriva fino all’85% delle spese necessarie per rendere più sicura la propria abitazione.
Se i proprietari di tutti i 570 mila edifici a rischio vi ricorressero, la spesa di sarebbe di 46 miliardi. Nella prossima legge di Bilancio il governo ha intenzione di estendere quel bonus anche alle ex case popolari: su 2.760 edifici in zona sismica, 1.100 hanno infatti bisogno di miglioramenti urgenti. Il costo aggiuntivo per lo Stato sarebbe di circa 400 milioni. L’esecutivo potrebbe anche introdurre il “certificato di stabilità” limitatamente, per ora, alle sole nuove costruzioni, ma con l’intenzione di estenderla a tutti i nuovi contratti di affitto e di compravendita.
«C’è un altro aspetto che viene ignorato ed è quello del danno economico causato dagli immobili non in regola». la Repubblica, 27 agosto 2017 (c.m.c.)
E sempre accade in occasione di un terremoto o di un’altra calamità naturale, l’Italia scopre di avere un assetto idrogeologico deplorevole, che la gran parte dei propri immobili non a norma rispetto alle regole di costruzione antisismiche ed una fetta notevole di case, villette, palazzetti sono abusivi.
Ischia, che ha subito danni superiori a quelli che sarebbe stato lecito aspettarsi per una scossa di valore 4 della scala Richter, risulta essere una sorta di paradiso del mattone illegale. Su una popolazione di 65mila abitanti ci sono 27mila domande di condono ed è probabile che vi siano altri abusi edilizi del tutto sommersi. I numeri dell’illegalità immobiliare italiana sono impressionanti e sono stati già ricordati da numerosi quotidiani. Basti qui ricordare il dato generale di 1.200.000 immobili abusivi e la perdurante capacità dei palazzinari di costruirne migliaia ogni anno.
Naturalmente, come su ogni argomento, si contrappongono varie fazioni. Quella “ impresentabile”, chiamiamola così, sotto più o meno mentite spoglie propone un bel condono generalizzato e chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto. Ci sono poi gli “ equilibristi” che parlano di abusi di necessità, sanatorie condizionate a ristrutturazioni, un ecomostro abbattuto di qui, una villetta perdonata di là. Non mancano i rigoristi che vorrebbero procedere con le ruspe ad ogni violazione del piano regolatore.
I guai dell’abusivismo sono di varia natura: paesaggistica, idrogeologica, di sicurezza, ecologica. C’è un altro aspetto, tuttavia, che viene ignorato ed è quello del danno economico causato dagli immobili non in regola. Non si tratta solo dell’evasione fiscale ( su cui torneremo) ma della vera e propria sottrazione di ricchezza all’intera economia.
Andiamo con ordine. Nel 2000 l’economista peruviano Hernando de Soto pubblicò un libro che ebbe e continua ad avere risonanza mondiale,
The Mystery of Capital. La tesi fondamentale del libro, che riprendeva precedenti scritti dello studioso, era che l’Occidente era diventato prosperoso grazie alla Rule of Law, il principio di legalità o, se preferite, lo Stato di diritto. Un aspetto particolare della Rule of Law è stato l’emersione della proprietà immobiliare e l’accatastamento in pubblici registri di case e terreni. Perché questa certezza della proprietà era importante? Perché faceva emergere e quindi immetteva nel circuito economico dei beni altrimenti invisibili. Gli esempi, riferiti al suo Perù, erano semplici e convincenti: non si poteva dire che i milioni di casette e palazzine abusive in cui vivevano i peruviani non avessero valore economico, ma esse erano inutilizzabili.
Ad esempio, se qualcuno voleva iniziare un’attività imprenditoriale non avrebbe mai potuto ottenere un prestito da una banca dando in garanzia un’abitazione legalmente inesistente. Gli scambi stessi erano insicuri: come succede anche in Italia, le compravendite di immobili non accatastati sono nulle e quindi il passaggio di mano diventa difficoltoso, con alti costi di transazione per ottenere garanzie informali e, ovviamente, senza poter far ricorso a mutui ipotecari. Servitù, usufrutto, uso: tutti i diritti reali che sono conosciuti ed utilizzati fin dai tempi dei praetores romani, non sono a disposizione in tali situazioni.
Nei frangenti più complessi l’illegalità violenta approfitta dell’illegalità documentale, con occupazioni ed espropri che non possono essere impediti dall’ordinamento giuridico.
Inoltre, l’inesistenza giuridica degli immobili priva il proprietario di allacciamenti alle reti idriche o elettriche, con rimedi che vanno dal semplice furto al fai- da- te, a rischio di pompare acqua inquinata per il rubinetto di casa.
Il furto si accompagna al problema dell’evasione fiscale generata sia in fase di edificazione ( difficilmente geometri e imprese edilizie faranno fattura per abitazioni abusive ed in più non vengono pagati gli oneri di costruzione) che successivamente rispetto al pagamento di tasse comunali. Ora, conosco bene l’obiezione che viene sollevata rispetto a questa “ evasione di necessità”: se lo Stato prendesse quei soldi li utilizzerebbe peggio dei privati e non diminuirebbe le altre imposte, ma aumenterebbe la spesa. C’è del vero, così come è molto probabile che alcune violazioni siano incoraggiate da regolamenti urbanistici assurdamente restrittivi ( di qui il successo del famoso slogan elettorale “ padroni a casa nostra”). Inoltre è veramente difficile fidarsi anche dei proclami di un governo che prometta di restituire automaticamente in minori tasse quanto viene recuperato: promessa già fatta e non mantenuta.
Quindi, dato per acquisito che il problema dell’abusivismo dovrebbe essere messo in cima all’agenda di politica economica, cominciando ad esempio a rendere chiaro al paese che danni provocati da cataclismi naturali ad immobili illegali non verranno mai risarciti dallo Stato, d’altra parte il primo passo, rappresentato da una riduzione fiscale generalizzata preventiva e non solo eventuale, deve essere compiuto dal governo. I mezzi tecnologici per scoprire case e capannoni fantasmi ci sono; le ruspe per abbattere eco- mostri e mostriciattoli che violano le regole paesaggistiche, di prevenzione idrogeologica o di preservazione dei beni culturali, si possono azionare. Ma un modo affinché questo patrimonio nascosto del paese non solo non venga aumentato, ma possa entrare nel circuito legale dell’economia, bisogna trovarlo.La prosperità dell’Occidente è stata alimentata dalle leggi sugli immobili La questione deve essere in cima all’agenda politica
Tante buone intenzioni. Efficacia prevista: poco. Bisognerebbe liberare la testa degli italiani dai virus diffusi almeno da Berlusconi in poi. la Repubblica, 26 agosto 2017
«Stop agli abusi, investiamo sulla trasformazione edilizia risparmiando il territorio già martoriato». Quanto agli abusi già perpetrati il ministro della Giustizia Andrea Orlando boccia «qualsiasi forma di condono ».
In Italia si muore sotto le case abusive. Di chi è la colpa: governo, Comuni o Regioni?
«L’attuale sistema che regola gli abbattimenti non funziona. La legge assegna un ruolo centrale ai Comuni. Che però sono condizionati dalla ricerca del consenso. Ampi settori dell’elettorato tifano contro chi vuole fare gli abbattimenti. Un argomento usato dai Comuni è sempre stato quello delle scarse risorse finanziarie a disposizione. Ma, su una mia proposta del 2013, da ministro dell’Ambiente, abbiamo creato un fondo per fare gli abbattimenti. Ma ecco la sorpresa: nel 2016 hanno fatto domanda solo tre Comuni e non è stato speso un euro».
Quindi la colpa è degli enti locali?
«Il governo deve sottrarre a Comuni e Regioni questa materia e affrontarla in modo pragmatico. Non si tratta di abbattere tutto, ma di rendere certo il percorso degli abbattimenti partendo dagli abusi che rappresentano pericoli per la pubblica incolumità. Bisogna rompere il fronte tra abusi totali, abusi parziali, piccole realizzazioni e veri e propri ecomostri, un fronte al quale i Comuni e le Regioni raramente riescono a sottrarsi».
Condivide la proposta del presidente dell’Anac Raffaele Cantone illustrata su “Repubblica”?
«Sono d’accordo con lui su un piano nazionale di abbattimenti e anche con le modalità da lui indicate, di confische degli abusi che non creano pericoli, al limite laddove risolvono problemi abitativi, mettendoli nella disponibilità di chi li utilizza. Però questo piano dovrebbe inserirsi in un quadro urbanistico diverso. Non solo gli abusi costituiscono un rischio, anche l’edilizia di scarsa qualità, legittimamente autorizzata ».
Lei cosa propone?
«Sempre da ministro dell’Ambiente ho proposto un ddl sul consumo del suolo, approvato dalla Camera e fermo al Senato, che autorizza i Comuni a pianificare nuove costruzioni solo dopo il riuso di quelle già esistenti. Bisogna riorientare l’attività edilizia. Perché non ci sono solo gli abusi, c’è anche la cattiva urbanistica che ha prodotto molte più stanze del fabbisogno reale del Paese, per cui calano gli abitanti e irresponsabilmente si continua a consumare suolo».
Perché ha fatto spedire alla Consulta la legge regionale della Campania?
«Si trattava di un tentativo di sanatoria. Le sanatorie sono pericolose non solo perché non puniscono gli abusi, ma anche perché generano nuovi abusi. Chi costruisce senza permesso, pensa che prima o poi arriverà una sanatoria, come è sempre avvenuto in passato ».
Però il governatore De Luca propone due anni di carcere contro chi fa abusi...
«Il carcere sono le lacrime di coccodrillo. È inutile prevederlo per il futuro e lasciare impunito chi ha ignorato i piani regolatori, chi non li ha fatti, chi non ha proceduto con gli abbattimenti, chi ha speculato. Il carcere rischia di essere solo la foglia di fico su un corposo sistema di interessi. Chi realizza un manufatto da un milione di euro può mettere anche nel conto qualche mese di carcere. Credo che sarebbe assai più spaventato dalla certezza dell’abbattimento. E poi è inutile introdurre nuovi reati e allo stesso tempo proporre leggi assai tolleranti con l’abusivismo».
Perché oltre quella bocciata da lei, De Luca e la Campania sono recidivi?
«C’è una legge proprio di questa Regione, attualmente al vaglio del governo, che vorrebbe consentire la costruzione di piccoli manufatti in zona sismica senza dare preavviso all’Ufficio regionale competente. Va fermata ».
Sì, ma dopo Ischia il governo che fa?
«Deve lavorare sulla realizzazione di Casa Italia, il piano di trasformazione edilizia contenuto nell’ultima legge di stabilità. Un’impresa immane. Parliamo di trasformare 40 milioni di vani e 8 milioni di case che non sarebbero adeguate alle norme antisismiche».
Ma la legislatura sta per finire. Le sembra un obiettivo realistico?
«Va considerata non solo un’emergenza legata alla sicurezza e all’ambiente, ma anche una grande leva per la ripresa economica. Per questo insisto che Casa Italia dev’essere accompagnata da una legge, in dirittura di arrivo, che dica: trasformiamo l’esistente, adeguandolo dal punto di vista sismico, termico, idrogeologico e paesaggistico e non costruiamo nuove case dove non è necessario sprecando ulteriori parti del territorio».
I sindaci avrebbero gli strumenti per verificare che le costruzioni non crollino come castelli di carte al primo soffio di vento, ma non sanno o non vogliono adoperarli. Del resto, quando il numero degli abusivi si avvicina a quello degli elettori... Emergenza cultura online, 24 agosto 2017
Il sindaco di Casamicciola lamenta che il piano paesistico vigente impedisce la demolizione e ricostruzione degli edifici precedenti al 1945, così impedendo che l’isola possa avere un’edilizia “di qualità”. Certo il sindaco ignora secoli di pagine di storia del suo comune e dell’isola d’Ischia, ignorando che non sono soltanto i paesaggi naturali ad attirare i turisti dal mondo intero, ma pure ignora che “adeguare” sismicamente un edificio significa adeguarlo non necessariamente demolirlo, ignora che l’edilizia - tutta post bellica - del cemento armato da ferri “da calza” e povera polvere cementizia quali sono i materiali tipici dell’abusivismo, è quella che in ogni parte d’Italia genera le cosiddette “vittime degli eventi naturali” ed è quella che più opportunamente va demolita. Aggiungo che alle domande di condono è normalmente allegato il prescritto “certificato di idoneità statica a firma di tecnico abilitato” che generalmente sbriga in poche righe, quanto invece più corposamente e matematicamente verificato e calcolato per le nuove opere - legittime - in riferimento alle vigenti normative antisismiche.
A questo punto risulta chiaro che, al bisogno di residenze per gli abusivi ad Ischia debbano provvedere i comuni con la pianificazione urbanistica di dettaglio che la legge nazionale imponeva sin dal 1985 e fino al 2003, e che la pianificazione paesaggistica ancora impone dal 1999.
Specificamente ne deriva che proprio nelle zone tartassate dall’edilizia selvaggia né i sindaci e nemmeno la Regione Campania -che aveva l’obbligo (ex art. 29 l. 47/85) di esercitare i poteri sostitutivi- hanno mai provveduto, dal 1985, a redigere il Piano di dettaglio delle opere abusive
e che né il disastrato Ministero BBCC assieme ai Comuni hanno mai provveduto, dal 1985 ad oggi, a redigere il Piano di dettaglio delle opere abusive.
Il problema di oggi sembra essere il terremoto (oggi blando, nonostante i suoi pur gravi effetti). Ma il vero problema è l’abusivismo che, quando sarà associato a un più forte sisma (il terremoto del 1883 fece 2.300 morti) o ad altri fenomeni “naturali” di carattere idrogeologico, ci costringerà a ben altre “conte”. L’Autorità di Bacino regionale che governa il corretto uso del territorio sotto l’aspetto idrogeologico disciplinandone le trasformazioni attraverso il “Piano di assetto idrogeologico”, si è chiamata fuori dal problema. Nelle norme del Piano l’Autorità dispone che siano i comuni a pronunciarsi sugli immobili ricadenti nella zone di rischio. Ad alcuni comuni (Napoli, ad esempio), l’Autorità regionale ha precisato la propria incompetenza ad esprimersi sulle domande di condono, ma ha pure ricordato che nelle zone di rischio “elevato” e “molto elevato” (indicate come R3 e R4) non sia compatibile alcuna nuova edificazione, ancorché quelle abusivamente realizzate.
24 agosto 2017
«La proposta di Raffaele Cantone. La politica abbia il coraggio di agire: perderà qualche voto ma restituirà fiducia ai cittadini onesti». la Repubblica, 25 agosto 2017 (c.m.c)
Caro direttore, partendo dal terremoto di Ischia, in questi giorni si è aperto un dibattito, più o meno a proposito, sull’abusivismo edilizio su cui vorrei provare anche io a dare un piccolo contributo. Vorrei farlo più che come Presidente dell’Autorità anticorruzione o come magistrato, come abitante da sempre di un Comune del Napoletano, Giugliano.
Un paese con litorale marino lunghissimo, con una macchia mediterranea ed una pineta stupefacenti (almeno in passato); uno splendido lago vulcanico (il lago Patria) con sbocco diretto al mare; i resti di una villa romana con anfiteatro che la tradizione dice di essere stata di Scipione l’Africano, ingiustamente esiliato da Roma. Grandi opportunità, quindi, che purtroppo hanno prodotto molto poco sul piano economico e specialmente turistico mentre, al contrario, si è fortemente imposta l’immagine (solo in parte meritata) di un Comune ad altra densità camorristica, confermata anche dallo scioglimento dell’amministrazione, qualche anno fa, per infiltrazioni mafiose.
Il paese ha purtroppo avuto un enorme sviluppo urbanistico e demografico; ha triplicato gli abitanti in poco meno di trent’anni giungendo a quota centoventimila, più di molti capoluoghi di regione e di provincia, senza, però, adeguate infrastrutture e servizi. Questo sviluppo disordinato e sconsiderato è stato causato proprio dall’abusivismo edilizio, che si è manifestato con forme più variegate di quelle in questi giorni descritte; accanto alle tantissime case totalmente abusive (alcune costruite persino su terreni demaniali!) ce ne sono tante altre con concessioni irregolari, date per realizzare improbabili uffici e locali commerciali, o costruite con lottizzazioni abusive.
Non molti anni fa, fra l’altro, una meritoria indagine della magistratura napoletana scoprì un’organizzazione criminale che, all’interno del comando dei vigili urbani “gestiva” (esautorando i tanti vigili onesti) di fatto l’abusivismo, consentendo il completamento di case a singoli cittadini e grosse speculazioni a rampanti imprenditori della camorra, con tanto di tariffario corruttivo: ogni tipo di pratica illecita aveva un prezzo.
Come a Ischia, anche qui sono numerose le richieste di condono edilizio, persino del 1985, che devono essere esaminate mentre gli abbattimenti degli immobili abusivi si contano sulle dita di una mano ed hanno riguardato soprattutto qualche edificio simbolo, come uno tirato su all’ingresso del foro romano. E questo andazzo non è stato radicalmente invertito nemmeno dai pur volenterosi commissari nominati con lo scioglimento del municipio per mafia.
Ho descritto la situazione di Giugliano perché so che non è purtroppo affatto peculiare ed anzi si ripresenta, in forme ovviamente diverse, in altri Comuni campani. Alcuni forse ricorderanno il caso, pochi anni orsono, di un Comune del Napoletano in cui venne “scoperto” un quartiere di palazzi tutti abusivi, cresciuti nella distrazione totale di tutti i controllori o quello, meno recente, di una cittadina completamente abusiva sul litorale domizio con costruzioni persino sulla spiagge.
È paradossalmente facile individuare le responsabilità di tutto ciò, anche perché esse sono ampiamente spalmabili su molti protagonisti: una camorra vorace che ha messo il cemento al primo posto dei suoi affari; un pezzo di imprenditoria collusa; una politica locale che non ha pianificato ma ha guardato al territorio in una logica di sfruttamento miope ed affaristico; una politica nazionale che ha sfornato leggi criminali e criminogene (come i condoni) o di rara durezza astratta ma in concreto solo “grida manzoniane” (gli abbattimenti previsti sono difficilissimi da attuare); una cittadinanza in parte distratta, in parte egoisticamente convinta che a casa propria si può fare tutto; un ambientalismo debole e in qualche caso più interessato alle carriere politiche di singoli esponenti e persino una magistratura con picchi di grande impegno ma anche di poco comprensibili distrazioni. È molto più difficile, invece, tentare di trovare soluzioni giuste e concretamente perseguibili.
Non sembrano tali, nelle loro opposte radicalità, quelle indicate, anche in questi giorni, sia da chi dice “abbattiamo tutti gli immobili abusivi” (ci vorrebbero anni e la militarizzazione del territorio) sia da chi propugna provvedimenti legislativi di più o meno mascherata sanatoria (e sono tali quelli che individuano criteri di priorità negli abbattimenti o prevedono acquisizioni al patrimonio); entrambi finiscono, forse loro malgrado, per rinviare il problema alle future generazioni, lasciando una situazione (anche) di irregolarità di un vasto patrimonio immobiliare che rende persino incerti i rapporti giuridici.
E nemmeno pare accettabile la posizione di chi invoca la tutela degli abusi di necessità, termine dietro il quale si può nascondere di tutto; nel corso di un incontro pubblico un cittadino rivendicò il suo abuso di necessità, costituito da una villa quadrifamiliare in cui ogni appartamento era di 200 metri quadrati che aveva fatto per sé ed i suoi figli, fra gli applausi scroscianti di quasi tutti i presenti.
Sarebbe invece utile pensare ad una soluzione definitiva del problema e predisporre un piano straordinario che, coinvolgendo anche le realtà locali, ridisegni con chiarezza la geografia urbanistica dei territori; verifichi la recuperabilità di quegli immobili che sono inseriti in contesti ormai urbanizzati, prevedendo in parte l’acquisizione degli stessi al patrimonio pubblico, in parte la possibilità, per quelli più modesti, di riacquisto da parte dei costruttori, previo pagamento di oneri che consentano di fornire servizi adeguati e l’abbattimento, senza alcuna remora, da parte del Genio militare di quelli costruiti in zone vincolate o su terreni demaniali. Il tutto modificando contestualmente la normativa sugli illeciti edilizi in modo da rendere certi e spediti i futuri abbattimenti ed evitando si riparta punto e daccapo.
È evidente che una scelta del genere richiederebbe grande coraggio (ma non sarebbe questo il compito della Politica?) e forse nel breve periodo farebbe perdere qualche voto ma certamente restituirebbe un po’ di fiducia ai cittadini onesti, che sono tanti, ed al territorio. Se questo - come è probabile - non accadrà, attenderemo la prossima tragedia (annunciata), per risentire inutili e sterili giaculatorie.
Per ricordare meglio una storia dolorosa, alcune pagine dalle Memorie di un urbanista, sui contrastati rapporti tra comunisti e abusivismo all'interno del Partito comunista italiano degli anni Ottanta.
Edoardo Salzano, Memorie di un urbanista, l'Italia che ho vissuto, Corte del fòntego, Venezia 2010, pp.119-123
Intanto, sull’abusivismo
All’inizio del 1984 il Parlamento inizia la discussione della conversione in legge di un decreto del governo che, nel dichiarato intento di raggranellare un po’ di entrate, condona a pagamento l’abusivismo edilizio. Si apre un lungo dibattito, nel quale emerge con chiarezza che il Pci (la cui politica del territorio è guidata dal nuovo responsabile del settore Infrastrutture, casa e trasporti, Lucio Libertini) è favorevole al condono, motivando il fenomeno del mancato rispetto delle regole urbanistiche con la loro rigidezza, astrattezza, incuranza delle esigenze della gente.
Le vicende parlamentari sono attentamente seguite dall’Inu e dalla sua rivista. Gli organi dell’istituto esprimono sistematicamente le loro censure. Un articolo di Luigi Scano su Urbanistica informazioni[1] critica in particolare un emendamento, proposto da Franco Bassanini e altri deputati indipendenti di sinistra, pienamente appoggiato dal Pci, che prende pretesto dal condono per liberalizzare, rispetto alle previsioni dei piani urbanistici, i cambiamenti di destinazioni d’uso e allargare il campo del silenzio-assenso.
La tesi del gruppo dirigente dell’Inu era che, se le regole dell’azione pubblica non vanno bene, allora si cambiano con altre regole, non si cancellano. Lo ribadivo nell’editoriale del n 75 di “Urbanistica informazioni”: “Il problema non è quello della deregulation, ma è quello delle nuove regole da costruire. Il problema non è quello di smantellare gli strumenti attraverso i quali oggi si attua il governo pubblico delle trasformazioni urbane e territoriali, ma è quello di rinnovarli, di adeguarli alle nuove esigenze, ai nuovi problemi, alle nuove possibilità tecniche”.
Inizia un mio carteggio (ero allora presidente nazionale dell’Inu), con Lucio Libertini e altri esponenti della Direzione del Pci, che proseguirà per qualche anno. La critica principale che gli urbanisti, pienamente rappresentati allora dell’Inu, facevano alla legge e all’atteggiamento del Pci era di aver completamente invertito il processo logico che si sarebbe dovuto seguire. Secondo noi si sarebbe prima dovuto rafforzare le norme capaci di arrestare l’abusivismo, poi provvedere a redigere piani urbanistici volti a recuperare gli insediamenti abusivi conferendo loro la necessaria dignità umana, e solo dopo provvedere al condono delle diverse situazioni soggettive, senza però accrescere l’iniquità tra chi aveva costruito abusivamente e chi, pur avendo la stessa necessità, la legge aveva rispettato. La legge, secondo un percorso tollerato dal Pci, partiva dalla coda: ciò che interessava era il condono, per ragioni di cassa (il governo) o per ragioni di demagogia (Libertini).
Lo scontro raggiunse livelli acuti, sia dentro che fuori il Pci. Libertini scrive che “si è manifestata nell’opinione pubblica, anche di sinistra, una reazione di rigetto verso la pianificazione urbanistica, identificata in forme perverse di oppressione burocratica” (Libertini, 1984), e su questa base attribuisce legittimità alle norme regolative, noi rivendichiamo la necessità di fondare in Italia una “nuova cultura della pianificazione” e di affrontare con coerenza l’insieme delle questioni del governo del territorio.
Le elezioni amministrative segnano un notevole arretramento del Pci. In una lettera al segretario generale del Pci (Alessandro Natta), e ai capigruppo della Camera (Giorgio Napolitano) e del Senato (Gerardo Chiaromonte) quaranta urbanisti esprimono le loro critiche[2].
«Dobbiamo dire innanzitutto che - come urbanisti - fin dalle prime battute dello scontro elettorale ci ha preoccupati la debolezza delle posizioni, e della propaganda, del Partito sui temi della qualità urbane e dell'ambiente. E i risultati hanno non solo confermato, ma accentuato le nostre preoccupazioni.
Chiedevamo «una riflessione profonda, e a un dibattito aperto e impietoso» poiché siamo stati colpiti proprio sul punto su cui avremmo potuto essere più forti: sui temi che ci hanno storicamente visti come protagonisti, e per i quali regioni e comuni amministrati da noi sono stati proposti e riconosciuti come modelli, all'Italia e all'estero». A nostro parere, avevamo perso perché non vi era stata «un'adeguata direzione nazionale, o quanto meno un efficace coordinamento, del Partito sulle questioni urbanistiche e territoriali. Di queste ci si è occupati a pezzi, a spezzoni, a settori, dimenticando, o ignorando, che ciò che è essenziale è una visione unitaria dei problemi del territorio, che un governo pubblico delle trasformazioni urbane e territoriali ha il suo metodo e strumento irrinunciabile nella pianificazione urbanistica e territoriale, e che infine consolidare nel paese una cultura e una prassi della pianificazione esige uno sforzo determinato, tenace, continuo, di lunga durata».
Alla lettera non ricevemmo risposta da parte dei destinatari; ci rispose invece, su loro mandato, Libertini, dichiarando che il Pci voleva superare il “giacobinismo illuminista”, colpevole del distacco tra movimento riformatore e masse popolari. La risposta ai 40 urbanisti era stata preceduta da una lettera dello stesso Libertini a tutti segretari regionali e provinciali e alla commissione casa e infrastrutture del Pci, in cui, difendendo il comportamento del Pci sull’abusivismo, respingeva le critiche delle “associazioni che difendono l’ambiente e il territorio” attribuendole “ai legami intensi che tutte queste associazioni hanno con i partiti di governo”[3].
Il Pci alla testa del movimento degli abusivisti
Un ulteriore picco del dissenso si ebbe quando, il 17 febbraio 1987, il Pci appoggiò platealmente una manifestazione di piccoli costruttori abusivi, accompagnati da numerosi sindaci: quarantamila persone erano venute a Roma, in larghissima prevalenza dal Mezzogiorno, guidati dal sindaco comunista Paolo Monello, sindaco del comune di Vittoria (Ragusa), per chiedere un’ampia estensione dell’abusivismo e l’abolizione della tassa per il condono.
Case abusive tasse esose, Rabbia e protesta dal Sud, era il titolo sparato in apertura della prima pagina de “l’Unità”, su cinque colonne. Nelle pagine interne altri articoli commentavano la manifestazione e raccontavano del fruttuoso incontro dei sindaci leader del movimento con un’autorevole delegazione di senatori comunisti. Il giorno dopo continuano le cronache del movimento degli abusivisti, e un corsivo di Emanuele Macaluso prosegue la giustificazione degli abusi commessi. “Si vuole che chi doveva finalmente costruire una casa […]avrebbe dovuto farlo con i bolli. E dove erano i bolli? E chi li metteva questi bolli? Ed in quali aree fabbricabili si sarebbe potuto costruire?”[4]
Naturalmente la polemica divampò. Su Urbanistica informazioni raccogliemmo gli articoli fortemente critici di Antonio Cederna (la Repubblica, 19 febbraio), Giovanni Russo e Cesare De Seta (Corriere della sera, 9 febbraio), Filippo Ciccone ed Enrico Testa (il manifesto, 20 febbraio), Fabrizio Giovenale (Paese sera, 22 febbraio), Vezio De Lucia (l’Unità, 23 febbraio), Giulio Di Donato (Avanti!”, 6 marzo), Edoardo Salzano (Rinascita”, 24 febbraio), Pierluigi Cervellati (La Nazione, 28 febbraio), Carlo Melograni (l’Unità 6 marzo). Le posizioni del Pci erano state difese da Emanuele Macaluso (l’Unità, 20 febbraio) e Lucio Libertini (la Repubblica, 21 febbraio), mentre Guido Alborghetti, parlamentare del Pci, aveva preso le distanze dal sostegno al movimento degli abusivi pur tentando di mediare tra le opposte posizioni (Rinascita, 24 febbraio).
Nei mesi successivi ulteriori tentativi furono compiuti dagli urbanisti vicini all’Inu per convincere i dirigenti del Pci a mutare registro. La risposta del Pci venne sempre da Libertini, e non cambiò di tono. Finalmente il 22 ottobre 1988 diedi le dimissioni dalla commissione casa, infrastrutture e trasporti. La mia battaglia proseguiva all’interno dell’Inu, dove le cose non andavano bene. La svolta era arrivata anche lì.