La questione della casa è uscita dall'agenda politica. I frutti avvelenati di questa scelta sciagurata, a Roma, sono molto evidenti. Numeri e raffronti con altre capitali ci aiutano a capire come stanno le cose. Il manifesto
, 10 settembre 2017. (m.b.)
A Roma l'amministrazione capitolina assegna 490 case popolari all'anno: al ritmo attuale ci vorrebbero circa 35 anni per smaltire i 16.000 nuclei in lista che nel frattempo continuerebbero a crescere in modo esponenziale. Cerchiamo di capire la natura di questo blocco, senza risolvere il quale è impossibile ogni politica per la casa. Vanno analizzate le ragioni dello stallo della macchina politico-amministrativa rispetto alla gestione delle case popolari. A questo scopo risulta utile fare un confronto con il modello tedesco operante a Berlino e con quello francese funzionante a Parigi. Emerge così che, senza un sistema integrato di servizi sociali e senza l'azzeramento dell'evasione fiscale, il welfare non funziona, quindi non può garantire diritti.
Nella Capitale ci sono circa un milione e duecentomila abitazioni. Oltre il 70% dei romani è proprietario dell'alloggio in cui vive, in linea con il livello nazionale. Il mercato immobiliare dell'affitto è composto da circa 200.000 case e il pubblico detiene un terzo dell'intero mercato, ovvero 74.000 alloggi tra Ater (Azienda territoriale per l'edilizia residenziale pubblica) e Comune di Roma. Dunque un peso notevole, un po' come se la Coca-Cola non fosse leader nel settore delle bevande gassate.
I nodi critici
Nelle case popolari ci sono 10.000 occupanti abusivi più altri 5.000 nuclei già decaduti per superamento dei limiti di reddito (in media 55.200 euro annui secondo la determinazione commissariale Ater n. 3 del 17/9/2013). Per riportare la legalità ci vorrebbero 42 anni alla media di uno sgombero al giorno. Ma chi sono i decaduti? È gente che, se fosse sfrattata avrebbe bisogno di aiuto? Contemporaneamente, ogni anno ci sono mille nuove occupazioni di case popolari. Quindi, se lo Stato facesse uno sgombero al giorno, si ritroverebbe con due nuovi appartamenti occupati perché mancano i controlli, come vedremo nella seconda parte dedicata alle proposte. Ma i paradossi non finiscono qui. Abusivi e decaduti, cioè il 12% del totale di quelli che vivono in una casa popolare (15.000 persone) contribuiscono per il 48% al totale degli affitti, anche perché gli abusivi pagano un canone sanzionatorio (che non gli da però il diritto a restare). Dunque, se lo Stato li cacciasse gli enti gestori fallirebbero, perché l'Ater ha l'obbligo di pareggio di bilancio. A queste situazioni incredibili si aggiunga che l'Italia ha i canoni per le case popolari più bassi d'Europa. Vale la pena dunque dare uno sguardo alle politiche europee sulla casa. Un'analisi comparativa degli strumenti usati nei vari Paesi UE sul tema casa è difficile perché in Europa le politiche di welfare (abitative, lavorative, sostegno al reddito, inclusione sociale), sono interconnesse. E poi perché ogni Stato, anzi ogni territorio, ha il suo approccio al tema. In Europa esistono due macro-modelli per garantire il diritto alla casa. Il primo è quello universalistico diffuso in Danimarca, Svezia e Paesi Bassi, il secondo quello selettivo riservato ad alcune categorie disagiate, diffuso nel resto della UE.
In Germania l'accesso all'edilizia pubblica dipende da soglie di reddito che variano in ogni città: a Berlino la soglia è di 16.500 euro per una famiglia con un componente, 25,200 euro per due, con un incremento di 5.740 euro per ogni componente aggiuntivo. Invece a Roma bisogna avere un reddito inferiore a circa 20.000 euro e, questa la prima differenza con il sistema tedesco, esiste un limite per perdere il diritto che è fissato intorno ai 30.000 euro. Mentre da noi i canoni degli alloggi popolari sono determinati in base a scaglioni di reddito, in Germania, grazie ad una poderosa rete di sussidi integrativi (di disoccupazione, al reddito, all'affitto e, in alcuni casi, al pagamento del canone di locazione), hanno un costo fisso al metro quadro di 5 euro, cioè il minimo stimato per poter garantire la copertura delle spese gestionali, il personale amministrativo e la manutenzione. Ma, a differenza dell'Italia, in Germania esiste un robusto sistema di verifica fiscale. A Roma i fondi destinati al sussidio all'affitto (L 431/95) non hanno mai coperto tutto il fabbisogno. Il tempo medio per ottenere un sussidio in Germania è di una settimana, a Roma di tre mesi, intervallo in cui i nuclei in difficoltà possono accumulare morosità importanti. Il sistema dei sussidi, sebbene appaia contorto in quanto lo Stato prima eroga i fondi alle famiglie e poi li richiede per l'affitto dell'alloggio, ha il vantaggio di non scaricare i costi sociali ed economia sugli enti gestori di edilizia residenziale pubblica (ERP). A Roma il deficit manutentivo del solo patrimonio comunale è stimato in 260 milioni di euro e questo dipende soprattutto dai bassi canoni di locazione che non permettono investimenti. Agli enti tedeschi invece è garantito il minimo gestionale per ottemperare al fabbisogno manutentivo degli immobili. Questo ha consentito l'ingresso nel mercato degli alloggi pubblici anche a operatori privati che costruiscono e gestiscono alloggi con convenzioni ventennali, ovvero il tempo stimato affinché un nucleo disagiato possa risollevarsi dopo di che il vincolo si esaurisce e i proprietari privati rientrano nella disponibilità degli alloggi.
In Italia il sistema dell’edilizia residenziale pubblica è sostenuto con fondi pubblici (edilizia sovvenzionata) per la costruzione di alloggi popolari poi assegnati con un bando, ma con lo scioglimento della Gescal non c'è più certezza ne continuità dei fondi, quindi le realizzazioni sono quasi inesistenti. Gli enti tedeschi, forti di bilanci in attivo, sono molto competitivi e, tra le nuove realizzazioni, una parte degli alloggi sono destinati sia al mercato privato della vendita per rifinanziare l'investimento iniziale, sia all'edilizia pubblica. Questa modalità consente di realizzare senza gravare sulla collettività garantendo il giusto mix sociale per evitare fenomeni di ghettizzazione. Il sistema italiano invece prevede lo stanziamento di fondi pubblici per la costruzione di soli alloggi popolari locati esclusivamente agli assegnatari di bando, quindi a redditi omogenei tendenti al basso. Oltre al rischio ghetto, in Italia i fondi non sono in grado di rigenerarsi e il patrimonio si depaupera per scarsità di manutenzione. Nel modello francese la distinzione fra alloggi sociali e popolari è ancora più labile poiché il sistema opera attraverso soglie per l'affitto scaglionate per fasce di reddito. Gli utenti sono suddivisi in tre fasce secondo le capacità contributive. La definizione delle fasce di reddito varia a seconda di indicatori locali.
Nell'area di Parigi, il reddito imponibile di una famiglia di due componenti non deve superare i 21.120 euro per un alloggio in regime Piai (Prêt Locatif Aidé d'Intégration) rivolto ai più disagiati, i 35.200 euro per un alloggio in Plus (Prêt Locatif à Usage Social) e i 45.760 euro per una casa in Pis (Prêts Locatif Social) rivolto a per chi, pur con un reddito medio, non trova un appartamento in locazione (cioè, parte di quelli che oggi a Roma hanno sforato il tetto per la permanenza in una casa popolare, ma avrebbero comunque bisogno di aiuti). Anche in Francia il canone è determinato in base ai metri quadri dell'alloggio per poter garantire una corretta gestione e manutenzione degli immobili.
Dalla breve carrellata sul modello tedesco e su quello francese, emerge con chiarezza l'esigenza di ripensare in blocco l'intero sistema di welfare italiano. Tuttavia ci sono delle situazioni come quella romana che hanno bisogno di un intervento immediato per scongiurare ulteriori peggioramenti. Nella prossima puntata vedremo come.