La boutique di Banana Republic si affaccia su Main street, il “corso” di Crocker Park, che ora profuma di Natale, con addobbi fluorescenti e renne dipinte di neve, lucine e musiche sacre. Nello stesso isolato, Gap si presenta in varie incarnazioni (kids, baby), mentre le vetrine di Victoria’s Secret espongono mannequin in lingerie super-sexy.
Come si arriva nel cuore “ neo-con” (che in questo caso sta per neo-consumista) di questo angolo opulento dell’America? Con una passeggiata che, superata la fontana al di là del parcheggio, costeggia il parco degli Scacchi e prosegue lungo i marciapiedi di sei metri costruiti con pietre riciclate, non in cemento, per creare un’atmosfera di autenticità. Anche i lampioni di ghisa stile Ottocento servono a diffondere un clima d’altri tempi e d’altri luoghi. Chi non ha mai viaggiato all’estero - e qui sono in tanti - potrebbe credere di essere stato catapultato in un’elegante cittadina della provincia italiana.
“Ogni dettaglio è importante, perché non vogliamo che i nostri clienti si sentano come in uno dei tanti mall commerciali che già esistono in America”. spiega Paul Deutsch, dello studio di architettura Bialosky, che ha firmato il progetto di questo centro sorto pochi anni fa alle porte di Cleveland, nell’Ohio.
Fino al 1992 Crocker Park era una immensa azienda agricola specializzata nella produzione di granturco; adesso è uno dei 120 lifestyle centers nati in ogni angolo degli Stati Uniti per rispondere alle nuove tipologie del consumo. In questo pezzetto di Ohio, una volta, ruggivano trattori e mietitrebbia; adesso, di notte, arrivano i camion che scaricano tonnellate di abiti all’ultima moda (fabbricati in Cina), gamberetti e rucola per i ristoranti chic, bestellers di Patricia Cornwell e CD di 50 cents.
I lifestyle centers sono una delle ultime follie dell’America nell’era Bush. La terminologia non è ancora di uso comune, ma per sociologi e architetti, investitori immobiliari e capi del marketing identifica la risposta ai vecchi mall cioè ai mega centri commerciali che negli anni Ottanta-Novanta hanno invaso i suburbs con costruzioni orribili. a forma di scatola. La nuova generazione cambia impostazione: si avvicina di più al centro città - in alcuni casi, torna a farne parte - apre i tetti, raddoppia le passerelle, aggiunge piazze, parcheggi “integrati” e non più relegati sull’esterno: insomma, pur restando spazi privati, i nuovi centri per lo shopping stanno cercando di somigliare sempre di più a luoghi pubblici. Intendiamoci: i mall non sono ancora morti, anche se Roger Blackwell, professore di marketing alla Ohio State University, ne annuncia il tramonto. Sparsi negli States, ne esistono 1130 secondo le statistiche dell’International Council of Shopping Centers, l’organizzazione di categoria che ha sede a Manhattan. Ed è lì, nei mall, che l’americano medio sfoga il suo istinto al consumo, riportandosi a casa ogni sabato sera, con il fuoristrada Ford, o magari lo Humvie, centinaia di dollari di vestiti, elettronica, regali per i suoceri e vasi di cristallo.
Basta andare al Mall of the America, il più grande centro commerciale del Minnesota, degli Stati Uniti e del mondo, per rendersi conto che la “cultura del mall” non è ancora sepolta del tutto. A cinque minuti dall’aeroporto di Minneapolis, in mezzo ad autostrade a sei corsie e parcheggi chilometrici, ubriaca ogni settimana un milione di pellegrini con i suoi 520 negozi, 22 ristoranti, 27 fast-food, 14 cinema e 8 nightclub.
Ma quel modello di consumo - avverte Richard Feinberg, che alla università Purdue insegna un’insolita materia, “management degli esercizi commerciali” - sta cambiando velocemente, mettendo in crisi i mall tradizionali. All’origine della rivoluzione c’è l’uso crescente di Internet. La quota di compravendite nazionali on-line è passata dal 2, 7 per cento dell’ultimo trimestre 2003 al 3,1 degli ultimi tre mesi del 2004. E l’incidenza aumenta. Non solo basta un clic sul computer di casa per farsi arrivare in salotto, comodamente, in pochi giorni, l’ultimo oggetto del desiderio; molti consumatori, prima di andare al mall, paragonano sul web prezzi e qualità. Risultato: il tempo medio di permanenza al mega centro commerciale si è ridotto drasticamente, con contraccolpi sui volumi delle vendite.
La seconda ragione del declino del mall tradizionale è legata al costo del petrolio. L’impennata si è fatta sentire nei bilanci delle famiglie americane. E anche se la benzina continua a costare molto meno che in Europa, gli aumenti scoraggiano le gite al mall, che spesso, viste le distanze americane, richiedono un’ora di viaggio. Senza contare che le auto di Detroit non badano al risparmio energetico. Un terzo motivo di difficoltà è legato al successo della Wal-Mart. Fondata da Sam Walton in Arkansas nel 1962, la catena di ipermercati non solo è diventata la più grande società americana (1,6 milioni di dipendenti, 3700 punti vendita in Usa, 285 miliardi di fatturato), non solo è tra i primi partners commerciali della Cina (se fosse un paese la Wal-Mart verrebbe subito dopo la Germania nella lista dell’interscambio commerciale con Pechino), ma rappresenta anche la fonte di rifornimento base delle famiglie degli States. E quando l’amministratore delegato della Wal-Mart, Lee Scott, dice, come ha fatto a metà novembre, che il Natale 2005 promette bene, gli americani, da George Bush all’ultimo sfollato di New Orleans; si sono sentiti sollevati (un terzo delle vendite al dettaglio annuali si concentra a fine anno).
A questi mutamenti sociologici del consumatore d’oltreatlantico, le imprese rispondono ora con i lifestyle centers. L’obiettivo è attrarre gli acquirenti con la promessa di un’esperienza meno alienante, e più umana, divertente, che non quella di un banale ipermercato. A Green Valley Ranch, per esempio, alle porte di Las Vegas, c’è persino un casinò. A Glen Town, costruito su una ex base dell’Air Force, è stato mantenuto in piedi il radar: un tocco anticonformista. Tutti i nuovi lifestyle centers cercano ovviamente di avvicinarsi al modello tradizionale - e idealizzato -dell’elegante cittadina medievale, piena di negozi a gestione familiare: tavoli all’aperto e ombrelloni, come nelle piazze italiane. È un’illusione, naturalmente. A Crocker Park, tranne due boutique di commercianti locali, tutte le altre appartengono a catene nazionali e multinazionali. E i ristoranti non fanno eccezione.
Eppure gli esperimenti del neoconsumismo attraggono, al tempo stesso, acquirenti e investitori. Si calcola che mentre il fatturato medio annuo di un mall è di 3450 dollari a metro quadro, quello dei lifestyle centers raggiunge facilmente i 5 mila dollari. Un segno della maggiore propensione di chi li frequenta ad aprire il portafoglio. Gli operatori immobiliari lo hanno capito e non perdono tempo. L’anno scorso sono stati ultimati solo nove mall tradizionali, mentre sono nati 20 centri “ neo-con” e altrettanti ne sorgeranno quest’anno, non solo nelle periferie anonime delle città dell’Ohio, ma anche nell’aristocratico New England e persino alle porte di New York. A Yonkers, il Comune che confina con la Grande Mela e ne vive in simbiosi, la Forest City Ratner Company , il gruppo già impegnato nella costruzione del grattacielo del New York Times progettato da Renzo Piano, inaugurerà l’anno prossimo un lifestyle center chiamato Ridge Hill Village. Accanto a 130 mila metri quadri di negozi, cinema, ristoranti, alberghi e uffici, saranno messi in vendita mille appartamenti, con effetti economici e di costume che si faranno sentire al di là dell’East River. Cioè a New York. Negli ultimi mesi, del resto, le grandi catene di distribuzione, che nel passato non osavano mettere piede a Manhattan, hanno invaso l’isola. Home Depot, il gigante del fai-da-te, secondo gruppo della distribuzione in Usa, ha creato due punti vendita nel cuore della città. A Columbus Circle, nelle nuove torri di Time Warner, il più grande gruppo multimediale del mondo, vi è ormai un centro commerciale impreziosito da due statue di Botero. Per i newyorchesi doc il cambiamento ha un aspetto melanconico. Manhattan si era sempre vantata di essere autoreferenziale per gusti, stile, acquisti. Il rischio? Che d’ora in poi assomigli sempre più a un lifestyle center dell’Ohio.
Nota: molti altri articoli soprattutto internazionali sul tema, sia qui in MALL/Spazi del Consumo, che in Eddyburg/Territorio del Commercio (f.b.)
L’inverno del nostro scontento si fa gloriosa estate sotto questo (palliduccio) sole di Santhià, dove dopo un’attesa di anni e continui rinvii si inaugura, tra le brine e i capannoni della zona industriale Moleto, il Glam Mall progettato da Pierpaolo Maggiora. Come già annunciato lo scorso luglio, il nuovo villaggio della moda cambia nome e ragion d’essere: non più factory outlet, secondo la formula sperimentata in tutta Italia dell’offerta di capi firmati a prezzi ridotti, in un ambiente (interno) molto curato. Il Glam Mall è invece in tutto e per tutto uno spazio virtualmente parallelo a quello downtown, anche dal punto di vista dei negozi e dei prezzi, che saranno pieni. Non si tratta di una differenza di poco conto, e non solo per i nostri o altrui portafogli.
La nuova specie immobiliar-commerciale nasce infatti (come potrebbe essere altrimenti?) da un doppio processo evolutivo e di selezione: da un lato quello interno, della concorrenza fra vari soggetti e proposte di spazi, servizi e prodotti; dall’altro – più importante a parere del sottoscritto – l’evoluzione del contesto sociale e insediativo entro cui questi (tutto sommato piccoli) spazi si inseriscono. Sono soprattutto le modalità di inserimento nel territorio, a costituire il coefficiente di moltiplicazione della loro importanza.
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Forse alcuni tra i più assidui frequentatori di Eddyburg rammenteranno il ricorrere della zona industriale Moleto di Santhià, in varie panoramiche sull’evoluzione degli spazi commerciali detti factory outlet village. Qui doveva nascere, più o meno in contemporanea con gli altri tre “Cugini di Campagna”, il quarto polo dell’operazione Fashion District, descritta nel caso di Bagnolo San Vito, a ridosso del casello dell’Autobrennero. Qui si combatteva la battaglia a colpi di carte bollate con le sponde novaresi della Sesia, dove la multinazionale Neinver con un’interpretazione creativa delle norme regionali aveva concordato con l’amministrazione comunale l’ outlet di Vicolungo, che da un anno è meta abituale di folle nei fine settimana, fra le ex risaie all’incrocio di due Corridoi europei.
Ma tante altre cose cambiavano, nel frattempo. Prima fra tutte la velocità con cui quelle che Dolores Hayden chiama le “ growth machines” facevano girare i loro ingranaggi tritatutto. Il sistema TAV-Autostrada, solo per fare l’esempio più vistoso, qui a Moleto ha trasformato un’ex fascia verde tra le ultime frange dell’abitato e i confini della zona collinare verso il biellese, in un compatto mondo di rampe, rotatorie, superfici asfaltate e pareti precompresse. Insomma la versione “esterna” del paesaggio di viadotti infiniti e strisce di fango che appare dall’interno del tracciato autostradale, da Torino a Milano (per adesso). Non si tratta di sole infrastrutture: la famosa antica teoria secondo cui il casello autostradale genera “sviluppo”, da un certo punto di vista è sacrosanta, soprattutto se lo si traduce in development, nel senso di qualsivoglia urbanizzazione. E qui c’è ben più di un casello autostradale.
Come si premura di ricordarci il recentissimo Piano Territoriale della Provincia di Vercelli, siamo nel bel mezzo di un “ ambito di potenziamento e riordino del sistema produttivo e terziario” nel quadro del “ corridoio nazionale est-ovest comprendente l’autostrada Milano-Torino e la linea dell’Alta Capacità ferroviaria con l’interconnessione di quest’ultima con la linea ferroviaria storica nel tratto compreso fra Livorno Ferraris e Santhià”. Da qui l’opportunità di “ sviluppo del ruolo di polo logistico di Santhià” e conseguente “ potenziamento dei collegamenti veicolari con le province limitrofe mediante la formazione del peduncolo autostradale Biella-Autostrada To-Mi nei pressi di Santhià”.
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Dal punto di vista dello sviluppo socioeconomico indotto nel “nodo” territoriale storico, uno studio di Andrea Bertolino di qualche anno fa osservava come “ la presenza del factory outlet center ... da una parte tende a monopolizzare la domanda relativa a beni durevoli di alta gamma, dall’altra apre il mercato dell'intrattenimento e dei servizi alla persona a nuove iniziative imprenditoriali” stimolando quindi in generale innovazione nel settore del commercio locale. E sul versante del rapporto fra queste evoluzioni e l’uso dello spazio urbano si osservava come “ con una modificazione della fisionomia commerciale urbana, ... e la necessità di offrire nuovi servizi ai flussi di visitatori, si potrebbe assistere ad una mutazione dell’uso sociale del centro storico”. Ovvero, quanto già verificato anche nello studio dell’Osservatorio Regionale nel caso analogo di Serravalle Scrivia-Novi Ligure, o in altri assimilabili.
La questione non è però di sola rilevanza locale, ma come già detto assume le dimensioni dei bacini di utenza che i promotori propongono ai finanziatori, e che sono sostenute dalla componente infrastrutturale della “ growth machine”: una scala interregionale, che sin dall’inizio si incrocia e scontra con i due livelli della pianificazione territoriale, provinciale e comunale. Travolgendoli. Perché come già raccontato il nodo di Santhià, con tutte le aspettative di crescita attorno agli investimenti infrastrutturali e di concentrazione di attività, si trova a una decina di minuti d’auto dall’altro nodo, pure grondante di aspettative speculari, di Vicolungo. In mezzo, il corso del fiume Sesia segna il confine della pianificazione provinciale, e basta scorrere il corrispondente documento novarese per trovare medesime intenzioni, in parte già concretate, di sviluppo produttivo, commerciale, per il tempo libero, ecc. attorno al proprio casello autostradale di riferimento.
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Il medesimo studio di Bertolino, concluso quando il complesso Nassica-Vicolungo progettato da William Taylor era ancora un cantiere abbandonato fra le sterpaglie, tentava un’analisi di tipo SWOT sugli effetti combinati dei due villaggi della moda, secondo tre scenari: la realizzazione del solo polo di Santhià, quella di entrambi i progetti, o del solo complesso di Vicolungo. Visti i risultati finali della “contesa”, pare ovvio col mesto senno di poi tornare sul solo scenario (B). Fra gli elementi positivi un aumento generalizzato dei flussi di visitatori, e le nuove relative possibilità di occupazione nei nuovi esercizi nati rivolgendosi a questo mercato, con un aumento delle sinergie anche non strettamente locali. Fra gli effetti negativi, il sovraccarico del traffico (e aggiungerei io, una nuova domanda di infrastrutture), i contraccolpi sul sistema socioeconomico-spaziale del centro storico. Bertolino collocava qui fra gli elementi di forza anche la “ spinta al marketing territoriale ed alla riqualificazione urbana”, e qui mi sia permesso di dissentire almeno parzialmente.
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Come mi ha chiarito lo stesso Autore dello studio, la prospettiva degli scenari SWOT era sostanzialmente santhiatese, e quindi in parte era piuttosto consequenziale il giudizio positivo sull’intensificarsi della spinta al marketing territoriale. Le cose cambiano se però da un lato si considera un bacino territoriale coerente a quello di promotori e investitori (le isocrone dei previsti flussi di popolazione armata di carte di credito), dall’altro e soprattutto si osservano concretamente le forme assunte a Vicolungo dalla promozione del territorio. Qui si verifica, in uno stadio ormai avanzato e tangibile di realizzazione, un processo che si potrebbe definire “ sprawl da manuale”: le grandi linee infrastrutturali alimentano un sistema insediativo in cui le componenti commerciali, per il tempo libero, produttive e infine residenziali diffuse si sommano, saldando l’una all’altra le pur legittime aspettative di sviluppo locale, in un continuum piuttosto inquietante. Continuum che certo non appare sostenibile come modello generalizzato, ma che non trova a quanto pare nella discontinuità delle scelte di piano alcuna risposta adeguata: sul versante delle coerenze e delle dimensioni.
Restano così gli eleganti spazi del Glam Mall, visibili per ora solo dall’esterno lungo la Statale Vercellese all’estremità nord-ovest del “nodo” di Santhià. Non c’è motivo di dubitare che l’interno del grande passeggio del lusso sarà ancora più attraente. Sul versante dell’organizzazione locale degli spazi e degli accessi si nota un’evoluzione piuttosto significativa: il rapporto ombelicale esplicito con Mamma Autostrada. Un tentativo certo intuibile in altri casi di villaggi della moda italiani, ma che qui è riuscito molto meglio, ovvero la realizzazione del sogno anni ’20 dell’avvocato newyorkese Edward Basset (inventore dello zoning moderno). L’ambientalista Benton MacKaye definiva a quel tempo “tugurio stradale” i margini delle highways malamente colonizzati da stazioni di servizio, piazzali di sosta, proto-scatoloni commerciali. La pianificazione urbanistica, si sosteneva, avrebbe dovuto governare questa terra di nessuno, favorendone un’integrazione effettiva col territorio locale. Basset, molto più sensibile alle sirene del mercato, suggerì invece un approccio opposto: il nastro stradale avrebbe avocato anche fisicamente a sé gli spazi dei servizi che generava al suo passaggio. Nasceva così il freeway business center, nelle sue varie declinazioni, tra i cui discendenti figura anche il nostrano autogrill. Ed è evidente a quale opzione si ispirano sia il villaggio commerciale di Vicolungo, sia il più compatto passeggio di Santhià, sia almeno nelle intenzioni tutti gli altri nuovi insediamenti di questa generazione: il cordone ombelicale con l’autostrada, nei fatti mai reciso, qui resta anche come segno e simbolo di un rapporto privilegiato. Con buona pace dello “sviluppo locale”.
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Anche dal punto di vista dei rapporti socio-spaziali, il Glam Mall è segno più esplicito e deciso di una tendenza già rilevata, e lo è esattamente nella scelta dell’offerta commerciale, che sembrerebbe tutto sommato solo un espediente per aggirare la concorrenza dell’ outlet di Vicolungo: il prezzo pieno, anziché scontato, che si applica sugli articoli.
A dirla col promotore dell’iniziativa, Massimo Sandretto Locanin, “l’intento è quello di creare un vero e proprio mall del lusso in provincia che, si sa, è un po’ invidiosa delle grandi metropoli”. Ma basta sovrapporre idealmente questa bella frase alle più prosaiche ma verificabili isocrone di potenziale clientela, per vedere come dentro al bacino di pescaggio portafogli a cui attinge il Glamour di Santhià ce ne stiano varie, di “metropoli”, la cui popolazione non avrebbe quindi alcun serio motivo di rodersi dall’invidia e correre a frequentare il prestigioso passeggio. Qui, come direbbe un politico, il problema è un altro, ovvero che si è individuato un corposo segmento di consumatori che uniscono redditi e propensione al consumo di carattere “urbano”, ma che urbani non sono affatto nelle frequentazioni quotidiane e nell’immaginario, né hanno alcuna intenzione di diventarlo. Per loro basta e avanza, come interfaccia fra sé e l’agognato consumo di merci di lusso, la vetrina, e/o al massimo una striscia di marciapiede tirata a lucido da cui inquadrarla a dovere. Non è un caso, se l’aggettivo “urbano” da un po’ di tempo in qua si spreca a descrivere spazi ed esperienze sospese nel nulla di megaplex e corridoi commerciali di aperta campagna, dove le insegne luminose si riflettono su chilometri di campi arati, bruscamente interrotti dalle quattro corsie che evidentemente transustanziano qualunque cosa.
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E quindi eccolo qui, il consumatore-tipo: una specie di McFantozzi che ha avuto l’aumento, ma che non ama la complessità urbana, coi suoi chiaroscuri ben percepibili anche se la città la attraversi blindato nel fuoristrada, aprendo il finestrino solo per imprecare contro i lavavetri. Il nuovo Montenapoleone sottovuoto offre a McFantozzi un’ottima occasione per farsi sparare direttamente dal soggiorno della villetta suburbana, via autostrada, in un clone migliore dell’originale. Non ci sono gli svincoli tra i quartieri popolari, i passanti occasionali malvestiti, il problema del parcheggio. C’è invece quello che conta, ovvero allestimenti di gran classe, personale premuroso, qualche scorcio prospettico raffinato. Insomma, una specie di “ Colazione da Tiffany” senza tutte quelle inutili scene di dialogo ...
Sarà davvero così? Non saprei per certo, visto che il Glam Mall mentre scrivo queste note è ancora solo un cantiere attivissimo nell’area industriale Moleto sud, vicino al casello autostradale di Santhià. È ovviamente vuoto, operai al lavoro a parte, ma dovrebbe aprire fra poche ore, e già si indovinano le prime luci accese all’interno. L’inaugurazione, che dovrebbe corrispondere alla riapertura del casello autostradale (chiuso da molte settimane) al traffico, sarà certamente un evento mondano locale. In questi giorni il comune ha conferito la cittadinanza onoraria al presentatore televisivo Massimo Giletti, e una cosa del genere da sola è sintomo di movimento sul versante dell’immagine, della promozione, del marketing locale. Vedremo cosa ci riserverà la società dello spettacolo, nei prossimi giorni.
Qualche minuto di automobile a est di Moleto, al km 67 della Padana Superiore, sul muro di Cascine Stra campeggia cubitale una vecchia, leggibilissima scritta: Il destino dei popoli che si sono inurbati ed hanno abbandonato la terra è storicamente segnato: è la decadenza, che li attende. Mussolini. In un certo senso, aveva pure ragione. Solo in un certo senso.
Poscritto del 4 dicembre 2005: l'inaugurazione annunciata l'1 dicembre non c'è stata, e il cantiere è ancora buio, al momento coperto di neve. Se qualcuno per caso passa di là e vede tracce di vita umana "glamour" (che di solito si distinguono anche a distanza dai comuni mortali), magari mi avvisi via
e-mail. Grazie
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Nota: l’immagine usata per il titolo è quella di Robert De Niro/Al Capone nel film Gli Intoccabili di Brian De Palma, dove pronuncia la celebre frase: “ You’re nothing but a lot of talk and a badge/Non sei niente, solo chiacchiere e distintivo”. Le fonti delle altre immagini sono citate nelle didascalie che si leggono cliccandoci sopra per lo zoom (le foto di Moleto sono tutte mie). I testi citati nell’articolo sono, di seguito:
Provincia di Vercelli, Piano Territoriale di Coordinamento, 2005, Relazione, par. 2.2.4, Assetto insediativo infrastrutturale, p. 28; par. 3.1.5, Gli obiettivi specifici relativi agli ambiti territoriali, p. 36)
Andrea Bertolino, La tipologia commerciale dei factory outlet centres : il caso Fashion district Santhià, Tesi di Laurea, Università degli Studi del Piemonte Orientale, Facoltà di Economia, aprile 2003, Relatore: Cesare Emanuel; Il nuovo scenario commerciale santhiatese, pp. 181-182; Tabella B, Il “duello” non ha vincitori: presenza congiunta del “Fashion District -Santhià” e del Parco Urbano Commerciale “Nassica” di Vicolungo, p. 202)
La dichiarazione del promotore è tratta da: Pier Antonio Gasparri, Glam Mall. Parte il nuovo retail, Moda Online, 18 luglio 2005
Qualche in formazione in più sul caso di Santhià anche nei due precedenti articoli per Eddyburg, “Cugini di Campagna”, “Giocattoli dimenticati in Corridoio” (entrambi nella sezione Territorio del Commercio/Archivio 2004), o in forma più “evoluta” nel capitolo centrale del mio libro Nuovi Territori del Commercio ; here an english version (f.b.)
NALGEP (National Association of Local Government Environmental Professionals), Smart Growth Leadership Institute, Smart Growth is Smart Business – Boosting the Bottom Line & Community Prosperity, 2004 – Estratti e traduzione per Eddyburg a cura di Fabrizio Bottini
[le parti scelte sono quelle generali e di sintesi, con l’esclusione dei capitoli dedicati ai singoli casi studio; il termine “smart growth” per evitare eccessive ripetizioni è stato a volte lasciato com’è, altre volte tradotto con “crescita sostenibile” o simili - f.b.]
Introduzione
In tutta l’America, le città si stanno misurando con gli effetti economici, ambientali, civili dello sprawl, ovvero la congestione da traffico, l’affollamento scolastico, l’inquinamento, la perdita di spazi aperti, il degrado delle infrastrutture. Il leaders locali e i funzionari pubblici da questo punto di vista sono in prima linea, nel tentare di gestire gli enormi cambiamenti dei propri centri. Molti funzionari hanno scoperto che una forte collaborazione col settore privato, in particolare con le imprese che sostengono una crescita sostenibile come alternativa allo sprawl, può essere cruciale nell’affrontare i problemi dell’insediamento diffuso.
La National Association of Local Government Environmental Professionals (NALGEP) e lo Smart Growth Leadership Institute si sono associati nella predisposizione di questo rapporto, Smart Growth is Smart Business. Il lavoro presenta 17 profili di imprese e gruppi di imprese che hanno attuato azioni smart growth nelle città di tutto il paese. Delinea le ragioni per cui queste imprese leader sostengono politiche e progetti di crescita sostenibile, e propone cinque possibili approcci chiave ad un’economia smart growth.
Smart Growth is Smart Business fa seguito ad un primo studio, pubblicato dalla NALGEP nel 1999, Profiles of Business Leadership on SmartGrowth: New Partnerships Demonstrate the Economic Benefits of Reducing Sprawl (vedi http://www.nalgep.org). Questo lavoro pioniere proponeva le linee secondo cui alcuni soggetti leader come Providence Energy, Greater Cleveland Growth Association, e il Commercial Club di Chicago, stavano cominciando a intraprendere iniziative nelle proprie città per contenere lo sprawl e promuovere una crescita sostenibile delle proprie comunità. Elencando i numerosi aspetti per cui lo sprawl limita la convenienza di alcune attività economiche e la competitività delle imprese, lo studio individuava l’inizio di un cambio di atteggiamento da parte della business community, lontano dalla semplice resistenza ai tentativi di controllo della crescita, e favorevole a sostenere iniziative per indirizzare modi e caratteristiche dellos viluppo economico locale. Lo studio individuava 19 esempi di attività nel paese che reagivano alle minacce dello sprawl, ed esaminava motivi e metodi dei sostegni locali alla smart growth. Veniva identificato un filo conduttore comune a tutti i casi studio: le imprese agivano a favore di una crescita sostenibile perché ciò faceva bene ai loro affari, ovvero al bilancio.
In questo nuovo studio, Smart Growth is Smart Business, NALGEP e Smart Growth Leadership Institute tentano di stabilire se il settore privato abbia aumentato il proprio interesse per la smart growth oppure se si trattasse di una semplice moda del momento. Volevamo capire se i leaders di impresa avrebbero continuato a promuovere una crescita sostenibile anche in tempi di crisi economica, profitti in calo, riduzione dei posti di lavoro. Abbiamo tentato di individuare nuove attività di successo e profitto in grado di portare vitalità e prosperità nel proprio territorio. Abbiamo ampliato il nostro Advisory Council di rappresentanti di impresa e governi locali. Abbiamo condotto ricerche ad identificare nuove attività impegnate in progetti smart growth, e intervistato un ampio campione di leaders economici: industriali, costruttori, commercianti, operatori immobiliari, imprese di servizi, istituzioni finanziarie.
Abbiamo scoperto che:
La qualità della vita è un elemento cruciale per le attività economiche– I rappresentanti dell’impresa sottolineano ripetutamente come la qualità della vita interessi direttamente i propri bilanci e come lo sprawl diminuisca la qualità della vita dei dipendenti. Per esempio il Silicon Valley Manufacturing Group e la BellSouth si sono impegnate in strategie smart growth ad offrire opportunità residenziali e di trasporto ai propri impiegati, consapevoli di dover migliorare la qualità locale di vita per attirare e trattenere una forza lavoro di alto profilo. “Per noi affari e questione ambientale vanno mano nella mano. Ci interessiamo alla tutela dell’ambiente perché questa qualità interessa direttamente la vita dei nostri collaboratori, dei clienti, delle comunità”, afferma Kenneth Lewis, presidente e CEO della Bank of America.
Reinvestire sul territorio ha un senso anche economico-produttivo– Le imprese promuovono il reinvestimento di parte dei profitti nelle città e infrastrutture esistenti, in alternativa ai costosi progetti di nuove zone di crescita e nuovi servizi. Questi investimenti riducono i costi e fanno impennare i profitti, sul breve e lungo periodo. Per esempio, la New Jersey Natural Gas sta collaborando con il comune di Asbury Park e lo Stato del New Jersey a sostenere la rivitalizzazione di vecchi centri urbani e suburbani, creando nuovi modelli di miglioramento delle infrastrutture esistenti.
La Smart Growth è un’occasione emergente di mercato– Commercianti, costruttori e altri operatori stanno approfittando delle opportunità di mercato offerte dalla smart growth per guadagnarsi un vantaggio competitivo, rispondere alla nuova domanda della clientela, aumentare i profitti. La catena di distribuzione alimentare Whole Foods Market ha impostato una aggressiva strategia di localizzazione dei punti vendita, verso quartieri in via di rivitalizzazione. Specializzandosi in riuso dei siti industriali, insediamenti ad aumento di densità locale e legati al trasporto pubblico, e altre strategie di crescita sostenibile per il riuso di zone e immobili storici, la Struever Bros. Eccles & Rouse, Inc. è cresciuta da piccola compagnia a impresa immobiliare da 150 milioni di dollari, con grandi commesse e classificata fra le cinque principali di Baltimora.
Le imprese più avanzate sostengono un governo della crescita nelle proprie regioni di riferimento – I leaders di impresa si uniscono a municipalità, stati e organizzazioni di base per sostenere una pianificazione e gestione di tipo smart growth. La Wisconsin Realtors Association, ad esempio, sostiene attivamente la legge urbanistica statale del 1999, perché come sostiene il suo rappresentante Tom Larson “nessuno ha più interessi in gioco nella qualità della vita, né maggior consapevolezza di quello che sta succedendo nelle città, degli operatori immobiliari”.
La Smart Growth conviene sia nei cicli di espansione economica che di crisi– Le imprese stanno facendo investimenti di lungo termine sullo sviluppo sostenibile perché la smart growth funziona in entrambi i sensi, nei momenti di crescita come in quelli di relativo rallentamento o declino. I progetti di tipo sostenibile sono spesso stabili, i servizi si vendono bene, le politiche pubbliche aiutano a evitare costi e inefficienze dello sprawl. Nonostante il rallentamento dell’economia negli anni recenti, la Bank of America ha ampliato il proprio impegno verso i progetti smart growth, investendo 350 miliardi in interventi urbani su un periodo di dieci anni. Allo stesso modo, 275 datori di lavoro nella San Francisco Bay Area hanno raccolto più di 150 milioni da investire in riurbanizzazione di siti ex industriali, case a buon mercato e altri progetti di crescita sostenibile. Quando NALGEP pubblicò il rapporto Profiles of Business Leadership on Smart Growth nel 1999, l’economia americana toccava punte di crescita straordinarie. L’economia e il paese sono cambiati radicalmente da allora. Il paese sta lottando per riprendersi dalla crisi. Stati e governi locali affrontano un gettito fiscale in diminuzione, e una domanda di servizi in crescita. Le imprese hanno ridotto i posti di lavoro e i fatturati. E pure, la smart growth è forte quanto prima. Le attività di impresa di cui si sono ricostruiti i profili nel primo rapporto si sono mantenute, o ampliate. Molte altre compagnie e interi settori si impegnano ira in questa direzione. I leaders economici iniziano a raccogliere i frutti delle strategie smart growth.
Il presente rapporto, Smart Growth is Smart Business, mostra come costruire un territorio migliore miglior anche i bilanci. Ci aspettiamo che il movimento per la crescita sostenibile continui a crescere, e che rappresentanti del settore privato come quelli presentati qui aiutino a rendere la smart growth il modo corrente per le attività economiche nelle comunità di tutta l’America.
I costi dello sprawl
In sempre più città americane la gente sperimenta lo sprawl quotidianamente: le strutture commerciali sono collocate a chilometri dai clienti che servono, le residenze sono separate dagli spazi per il tempo libero, i luoghi di lavoro lontani dai lavoratori. Con la netta distinzione negli usi del suolo, lo sprawl fa crescere la straripante dipendenza da automobili e SUV, dato che l’auto è di solito l’unico mezzo per andare da casa al lavoro, a scuola, al negozio alimentare.
Persone e imprese si spostano sempre più lontane dal centro urbano, abbandonano le città e i sobborghi più vecchi, spostando gli investimenti verso fasce metropolitane sempre più esterne. Tutti gli interventi per migliorare la qualità dell’aria a livello nazionale sono stati vanificati dalle modalità di sviluppo insediativo diffuso, che determinano un aumento degli spostamenti veicolari e relativo inquinamento. Gli incrementi nel dilavaggio da strade, parcheggi, tetti e altre superfici impermeabilizzate minacciano le risorse idriche. È difficile trovare case a prezzi ragionevoli vicino a strutture commerciali e posti di lavoro. Le scuole sono affollate e servizi e infrastrutture urbane sovraccariche.
L’implicita inefficienza dello sprawl minaccia l’efficienza fiscale di città, suburbi, imprese private. Si devono realizzare nuove stradee svincoli autostradali. Scuole, caserme dei pompieri e di polizia devono essere costruite, ed occorre assumere personale. La crescita diffusa richiede anche la costosa estensione di servizi e infrastrutture verso nuove aree, che toglie risorse alla manutenzione di quelle esistenti e invecchiate.
Le comunità si impegnano a sostenere questi costi aggiuntivi, e le tasse aumentano sia per gli abitante che per le imprese. Lo Urban Land Institute (ULI) ha esaminato i costi per il contribuente relativi alla fornitura di nuove (o allargate) strade, servizi, scuole per nuove aree urbanizzate. Ne è emerso che un’abitazione media a 15 chilometri dal centro su un lotto di 1.500 metri quadrati costa al contribuente 69.000 dollari. Una casa vicina al centro su un lotto compatto ne costa 34.500: la metà dell’altra.Nella Loudoun County, Virginia, un sobborgo di Washington, DC, in grande crescita, le tasse sugli immobili sono aumentate di 764 dollari per abitazione fra il 2001 e il 2003 solo per coprire i costi delle infrastrutture connesse alle nuove urbanizzazioni, compreso un debito crescente per la contea.
Altri costi per le imprese comprendono le strade intasate, che riducono affidamento e produttività dei dipendenti. Secondo il Texas Transportation Institute (2003 Urban Mobility Study) il 59% delle principali strade risultava congestionato nel 2001. Lo studio ha rilevato che la congestione stradale è costata al paese 69,5 miliardi di dollari in sprechi di carburante e perdite di tempo, lo scorso anno: 4,5 miliardi in più dell’anno precedente. Le compagnie di trasporto merci che utilizzano le strade nazionali più affollate stanno pure perdendo in produttività dato che le arterie intasate limitano il numero delle consegne possibili. L’efficienza dell’intero sistema di distribuzione è diminuita, con costi più alti per le imprese e i loro clienti.
La crescita mal gestita aumenta i livelli di inquinamento, che si traducono in costi di regolazione e carichi per le imprese. Una bassa qualità dell’aria influisce sulla produttività, perché i lavoratori si assentano per cure a sé o ai bambini, affetti da problemi come l’asma. In alcuni casi una cattiva qualità dell’aria prolungata a lungo nel tempo può tradursi nella perdita dei finanziamenti federali per i trasporti.
Nelle aree di insediamento diffuso, di solito esistono poche opportunità di raggiungere la propria destinazione a piedi, il che limita la scelta dei dipendenti di mantenersi in forma attraverso questa routine quotidiana. Una crescita mal pensata diminuisce la capacità dei cittadini di mantenersi in buona salute camminando, il che aumenta l’assenteismo e diminuisce la produttività.
Queste tendenze stanno spingendo alcune città a prendere misure drastiche per limitare l’espansione a largo raggio e i relativi costi. In alcuni casi, costi e impatti dello sprawl possono portare le autorità ad adottare regolamenti restrittivi o addirittura moratorie sulla crescita. Il sobborgo in rapido sviluppo di Carroll County, Maryland, per esempio, ha di recente adottato una moratoria su tutte le nuove costruzioni.
Nessuno di questi fatti gioca a favore del successo economico. Per fortuna, le imprese stanno scoprendo che esistono metodi migliori per gestire la crescita, abbassare i costi, e le comunità di tutto il paese si stanno sforzando di sostenere uno sviluppo più sostenibile.
Nota: il documento integrale e originale (PDF 72 pp.) è disponibile al sito Smart Growth Leadership Institute (f.b.)
Lo chiamano "serpentone". Ma se fosse davvero un serpentone, l´edificio di Corviale sarebbe una rarità zoologica, il primo serpente che, vivo, se ne starebbe rigido e perfettamente lineare sdraiato come una stecca sul dorso di una collina. I serpenti sono flessuosi e invece Corviale si trascina questa analogia da quando è stato costruito, segno di quanto la sua percezione sia deformata (i lavori iniziarono esattamente trent´anni fa, nelle ultime settimane del 1975: è a suo modo anche questo un anniversario). Eretto a emblema dell´orrore metropolitano, il grande complesso ha l´onore di essere effigiato ogni volta che si parla di periferie. Un duplice delitto a Rozzano, periferia milanese? La rivolta nelle banlieues parigine? Ecco che sui giornali e in tv scorre la sagoma di Corviale.
Eppure Corviale non è un universo condannato a un infernale immobilismo, sul quale incomba solo una nube malavitosa. O un incubatore di ribelli. Sono sorti, negli ultimi tempi, una biblioteca comunale, un centro anziani, una palestra. Da qualche anno, poi, Corviale è un laboratorio di progetti urbanistici e architettonici che dovrebbero disegnare un futuro diverso dal degrado e dalle soluzioni estreme, sintetizzate nell´invocazione: «Abbattiamolo». Secondo qualcuno, i progetti sono finanche troppi. Uno lo hanno elaborato gli uffici del Comune di Roma nell´ambito dei cosiddetti Contratti di quartiere (ne è responsabile l´architetto Mauro Martini). Un altro lo sta avviando in questi giorni un professore dell´Università Roma 3, Pietro Ranucci, su incarico dell´Ater (l´ex Iacp, Istituto autonomo case popolari, proprietario dell´edificio). Lo stesso Campidoglio ha poi affidato alla Fondazione Adriano Olivetti e all´Osservatorio Nomade un altro progetto ancora, quello forse più innovativo, scritto insieme agli abitanti di Corviale. Gli elaborati sono arrivati a un punto di maturazione e nei primi mesi del prossimo anno verranno esposti in una mostra (ma non in Italia, in Olanda). Al lavoro svolto dedica un ampio servizio il nuovo numero della rivista Domus, introdotto da un articolo dell´architetto Franco Purini.
Nel frattempo si annuncia l´arrivo di molti soldi, 34 milioni di euro, che dovrebbero interessare tutto il quartiere del Portuense, e non solo Corviale. Provengono dai Pru, Programmi di recupero urbano, nei quali il Comune confida molto, ma che sono oggetto anche di tante discussioni. I Pru sono alimentati in parte con soldi pubblici, ma soprattutto con soldi privati: il Comune autorizza la costruzione di case o di edifici commerciali e, oltre ai normali oneri pagati per le concessioni edilizie, si fa versare altre somme di danaro che servono a finanziare opere pubbliche nelle zone periferiche. È un meccanismo regolato da una legge nazionale. Il Campidoglio ne ha fatto un punto di forza dell´intera sua strategia urbanistica (il nuovo piano regolatore adotta i Pru come un proprio pilastro politico-culturale). Ma in molti quartieri sorgono comitati che protestano: è possibile, si domandano, che il solo modo per avere buoni servizi sia quello di veder crescere altre costruzioni, realizzate dai privati e quindi a costi molto elevati e inaccessibili a chi ha davvero bisogno di una casa?
Corviale è una barra lunga poco meno di un chilometro. Avrebbe dovuto raggiungere la cifra tonda, ma lo impedirono alcuni pali della luce. Si stende su 60 ettari e ospita oltre 6 mila persone. Non è solo un grande edificio di abitazioni. È il frammento di una città lineare che doveva comprendere asili, scuole, negozi, impianti sportivi, bar, ristoranti, un teatro all´aperto sul modello della unité d´habitation immaginata da Le Corbusier e dal grande architetto anche realizzata (a Marsiglia, per esempio). L´edificio sorge isolato su un colle ed è avvolto dal verde della campagna romana, punteggiata di orti. Nelle intenzioni dei progettisti che assecondavano i dettati del piano regolatore, lì avrebbe dovuto fermarsi la città delle palazzine, dell´abusivismo e della speculazione e Corviale sarebbe stato il bastione di Roma, affacciato verso l´agro romano e verso il mare, come le mura ciclopiche di un comune medioevale.
Qualcuno ha fatto notare che la data di nascita di Corviale coincide con quella in cui muore Pier Paolo Pasolini, segnando simbolicamente la fine di una fase epica della periferia romana. L´idea di Mario Fiorentino, l´architetto che dal 1972 al 1974 guidò la schiera di giovani e meno giovani progettisti di Corviale (la realizzazione fu completata nel 1982, l´anno in cui Fiorentino morì), era che l´imponenza fosse il prodotto necessario di un rapporto fra la città e l´immenso spazio della campagna che si spalancava davanti. Il monumentalismo rispondeva anche a un bisogno di case - e di case popolari in particolare - che nei primi anni Settanta era acuto. Corviale è uno dei più importanti prodotti dell´edilizia pubblica avviati a Roma con la legge 167 del 1962. Le previsioni del Comune erano imponenti: un piano varato nel 1964 prevedeva di acquisire quasi cinquemiladuecento ettari di suolo per costruire case che avrebbero ospitato 712 mila abitanti. Uno sforzo enorme per dare case a chi non le aveva, che poi si ridimensionò molto nel corso degli anni e che non si sarebbe mai più ripetuto, lasciando Roma e anche l´Italia senza un patrimonio di abitazioni pubbliche degno di altri paesi europei.
Le dimensioni di Corviale, in specie la quantità enorme di aree comuni che avevano necessità di continue manutenzioni, furono però anche il germe della sua crisi. Contenevano, secondo i suoi critici, la premonizione di un edificio ossessivo, fuori da ogni tessuto urbano, che trasformava la razionalità del suo impianto nell´incubo di un complesso che mirava a essere autosufficiente, coi suoi negozi e le scuole, ma che in fondo era carcerario. Una specie di "istituzione totale". Inoltre, si è detto, Corviale nasceva vecchio, sia dal punto di vista tecnologico, sia perché l´idea di collettività che quell´edificio proponeva stava tramontando proprio allora, mentre si aprivano gli anni Ottanta.
Fiorentino è stato uno dei grandi protagonisti dell´architettura romana del Novecento. Lavorò a molti quartieri Ina-Casa e realizzò il Monumento ai Caduti delle Fosse Ardeatine. Per Corviale, secondo Purini, «si ispirò al movimento moderno, ma anche agli edifici a ballatoio di San Lorenzo, oppure ai grandi complessi di edilizia popolare di via Andrea Doria o di via Sabotino, nel quartiere Prati, o a certo scenografismo alla Giovan Battista Piranesi. Lui aveva una concezione dell´abitare come movimento eroico, voleva che il suo edificio fosse soprattutto una dimostrazione teorica, che non concedeva nulla alla privatezza o all´agio». Corviale presupponeva una specie di comunità che si sarebbe autoregolata, che avrebbe fatto prevalere su quelli individuali gli interessi collettivi. «Ma Fiorentino arrivò fuori tempo massimo», spiega Purini: Corviale fu completato proprio mentre in architettura e altrove si imponeva il postmoderno, che faceva perno sull´individuo e i suoi bisogni.
Corviale è diviso in due corpi che corrono paralleli. Il primo di quattro piani, il secondo di undici. Il quarto piano dell´edificio più alto doveva contenere il suo cuore, la materia collettiva, le sale di riunione, i servizi, ma fu il primo anello che saltò nella catena del progetto. Fu infatti occupato da famiglie che trasformarono abusivamente gli spazi in appartamenti. Cominciarono ex baraccati, sfrattati provenienti dalle borgate più vicine, ma poi si aggiunsero i figli degli assegnatari che crescevano e mettevano su famiglia. Attualmente sono centoventi le famiglie che si sono ritagliate il loro appartamento nei vuoti del quarto piano.
Rotto il primo anello tutto l´impianto prese a degradarsi. Le zone comuni erano vissute come zona di nessuno, quindi luogo di accaparramento per i più forti. Si spacciava, si ricoveravano i motorini rubati. Ma poi la microcriminalità si è assestata sulla media degli altri quartieri di Roma, né più né meno (più alta della media è invece la disoccupazione: quasi il 30 per cento). Come molti edifici di edilizia popolare, Corviale fu costruito con rigide tecniche industriali. Niente tramezzi, ogni stanza è un blocco compatto, prefabbricato, dove già è realizzato lo spazio per la porta e per la finestra. Si dipingeva direttamente sulle pareti, senza intonaco, con scarsissima resistenza al freddo e al caldo. E materiali così hanno iniziato a deperire quasi subito.
Il progetto della Fondazione Olivetti e dell´Osservatorio Nomade arriva dopo anni di dibattiti su cosa farci con questo imponente edificio che pare uscito da un frammento di Metropolis. Cominciò lo stesso Fiorentino, che prima ancora che Corviale fosse terminato restò come spaventato e provò a ingentilirlo. Poi arrivarono le proposte drastiche: buttiamolo giù, gridarono in tempi diversi Paolo Portoghesi e Massimiliano Fuksas. Il Comune si è sempre opposto e il sindaco Walter Veltroni reagì con durezza quando, un anno fa, fu il ministero per i Beni Culturali a inserire Corviale in un elenco di "ecomostri" da demolire.
L´Osservatorio Nomade ha avviato il lavoro due anni fa, con un finanziamento di 33 mila euro. Ha affittato un appartamento nell´edificio e alcuni architetti ci si sono installati per osservare da dentro come era fatto e come gli abitanti lo avevano nel tempo trasformato, piegando l´incombente rigidità delle sue forme. Hanno indagato, per esempio, nel mistero dei settantaquattro ascensori, la gran parte dei quali rotti e per riparare i quali era necessario chiamare la ditta di manutenzione che aveva sede a Salerno. Quando qualcuno restava chiuso dentro, arrivavano i vigili del fuoco e per liberarlo scassavano le porte che nessuno aggiustava.
L´idea che ha animato il progetto è stata quella di non precipitare dall´alto una fredda ristrutturazione architettonica, ma di ridisegnare gli spazi insieme a chi li abita. «Corviale è una grande macchina di cui nessuno possiede il libretto di istruzioni», spiega Lorenzo Romito, architetto che insegna a Venezia, fra gli animatori dell´Osservatorio Nomade. Una delle prime iniziative è stata TeleCorviale, una tv di condominio che tutti i giorni trasmette una piccola striscia di informazioni da e per gli abitanti, quasi si volesse scardinare il marchio di irrimediabile marginalità costruito intorno a loro. Poi sono arrivati artisti, installatori, musicisti.
Fra le soluzioni architettoniche, il progetto prevede di trasformare in abitazioni regolari le abitazioni occupate, colorando d´arancione, di blu, di verde e di bianco tutta la fascia esterna del quarto piano. Verrebbe poi adattata una vecchia idea dell´Ater, quella di dividere verticalmente Corviale, in maniera da avere tanti condomini e non più un unico, continuo spazio orizzontale. Si dovrebbe intervenire sui ballatoi, che corrono lungo tutto l´edificio e sul quale si affacciano gli ingressi. In molti punti sono stati chiusi con cancellate dagli stessi abitanti, un po´ per proteggersi un po´ per custodire un minimo di privacy, e così questo grande percorso ha perso il carattere di luogo collettivo che era invece nelle intenzioni di Fiorentino. Secondo i progettisti molte di queste divisioni possono essere conservate, ma anche trasformate in giardini pensili. Un intervento è previsto all´esterno degli edifici, sulla lunga striscia di orti che hanno addomesticato la campagna e che potrebbero essere distribuiti meglio, consentendo il passaggio fra l´uno e l´altro.
Aggiustamenti, dunque, niente che sconvolga la struttura. Un lavoro di cuci e scuci, molto rispettoso di cosa Corviale nel frattempo è diventato. Ma che non soddisfa un architetto come Purini, per il quale Corviale «è l´opera più importante realizzata a Roma in tutti gli anni Settanta e una delle architetture più significative della produzione mondiale di quegli anni». Per Purini i progettisti dell´Osservatorio Nomade avrebbero puntato «su un´estetica del degrado». Corviale, secondo Purini, ha un solo problema: quello di essere portato a termine, seguendo le indicazioni di Fiorentino. Vale a dire liberare il quarto piano da coloro che lo occupano e installare lì i servizi che l´idea originaria prevedeva. Non solo abitazioni, quindi: «Oggi ci vedrei case dello studente, residenze per anziani, uffici pubblici, sedi universitarie, persino centri sociali», prosegue l´architetto.
Il lungo lavoro di ascolto, come lo chiamano all´Osservatorio Nomade, è concluso. E anche se continuano le discussioni su cosa diventerà Corviale, il pallino torna nelle mani di chi deve investire sul futuro di quello che Purini chiama «un gigantesco transatlantico orientato tra le ondulazioni del suolo romano, come il resto di una scenografia felliniana».
Non basta che l’opposizione condanni le violenze poliziesche a Venaus. Se veramente vuole riaprire un dialogo serio con le popolazioni e i sindaci che le guidano è necessario fare un passo indietro vero, uscendo dallo schema in cui fino ad ora la discussione è stata incanalata: da una parte del tavolo i portatori degli interessi generali, cioè i sostenitori della Tav, e dall’altra una popolazione che guarda solo ai propri interessi corporativi. Proseguire su questa strada porta solo allo scontro e alla esasperazione degli animi. Le motivazioni di chi vuole l’opera sono note: servirà al benessere del paese e ci aiuterà a proteggere l’ambiente perché trasferirà su treno persone emerci. Non tutto è limpido nello schieramento di chi vuole la Tav. In esso convivono sostenitori convinti e disinteressati della grande opera ferroviaria, ma anche tanti che sono attirati solo dai grandi affari. Con i primi si può e si deve discutere, con i secondi no. Il monito di isolare i violenti - quelli che Berlusconi e Lunardi non vedono l’ora di vedere in azione - che spesso viene rivolto ai pacifici abitanti della val di Susa deve più propriamente essere esteso ai sostenitori disinteressati dell’opera, affinché isolino speculatori emestatori presenti in gran numero fra le loro file. Se veramente si vuole riaprire un dialogo, bisogna in primo luogo che i sostenitori della Tav riconoscano a chi si oppone la volontà di trasferire le merci sul treno, anche se con un altro progetto, cioè con interventi di potenziamento dell’attuale linea ferroviaria. Entrambe le proposte rispondono agli interessi generali del paese, e nessuno vuole isolare l’Italia dall’Europa.
Fatta questa premessa di metodo, sono molte le ragioni a sostegno della proposta dei sindaci e dei loro cittadini della val di Susa. In primo luogo quella dei tempi. Non ha francamente molto senso sostenere che effetto serra e polmoni dei cittadini rendono urgente trasferire sui treni il trasporto delle merci e delle persone e poi pensare di realizzare quest’ambizioso e necessario obiettivo con un’opera che, se tutto va bene, toglierà dalla strada il primo chilogrammo di merci fra quindici anni. Molto meglio potenziare la linea esistente che in pochi anni può togliere dalla strada molti camion e numerose macchine. Inoltre, investire sulla linea esistente è molto meno costoso. Essendo tutti i costi a carico della collettività, non c’è dubbio che quanto alla fine si spende per la Tav o per il potenziamento dell’attuale linea è una cartina di tornasole molto attendibile di quale delle due opere fa meglio gli interessi generali del paese. Le cifre sono note. Il progetto dell’alta velocità, con i relativi tunnel, costerà alla collettività dai 15 ai 18 miliardi di euro, mentre aprire il corridoio 5, attraverso il potenziamento della linea attuale, può al massimo costare uno duemiliardi di euro.
Perché, ci si chiederà, se costa meno e richiede tempi assai più brevi per essere realizzato si scarta questo progetto? In realtà, non potendo smentire queste considerazioni e questi numeri, per sostenere la Tav e i sospirati tunnel si dice che il potenziamento della linea esistente non sarà in grado di soddisfare la costante crescita della domanda di trasporto di merci e passeggeri che, proprio grazie all’apertura del corridoio 5 si realizzerà. Molto spesso questa obiezione è avanzata da persone che quasi sempre hanno sbagliato conti e previsioni, come ad esempio nel caso del tunnel sotto la Manica, fallito già due volte permancanza di traffico. La sensazione è che spesso si sparano numeri e si fanno previsioni funzionali solo all ‘approvazione del progetto e naturalmente ad intascare i relativi enormi profitti che la sua realizzazione porterà. Tanto nessuno pagherà dopo quindici anni per le previsioni sbagliate o per il denaro pubblico gettato per realizzare un’opera inutile. La proposta del potenziamento della linea attuale è motivata anche da un’analisi dell’attuale e del prevedibile volume di traffici. In buona sostanza ciò che emerge è che l’offerta di trasporto merci che la Tav realizzerà è sovradimensionata rispetto a una domanda che dal 2000 è in calo costante. Si prevede infatti che con la realizzazione dell’alta capacità si potrà trasportare su rotaia fino a 40 milioni di tonnellate all’anno. Più o meno su quella linea ogni quattro minuti dovrebbe circolare un treno merci ad una velocità di 120 kmall’ora.
Attualmente circolano dal Frejus appena 7 milioni di tonnellate all’anno - erano dieci nel ‘97 - e gli scambi tra Francia e Italia sono da tempo consolidati. Il potenziamento della linea esistente, in pochi anni e non fra quindici, avrà una capacità di trasporto fino a ventimilioni di tonnellate, cioè un obiettivo che se realizzato trasferirà moltissimo dalla gomma alla rotaia.
Le motivazioni ambientali per cui si rifiuta l’opera sono note: la possibilità che gli scavi per realizzare i tunnel liberino nell’aria uranio e amianto è molto consistente e quindi non c’è compensazione possibile che giustifichi la decisione di voler correre questo pericolo. Moratoria e smilitarizzazione della valle sono le premesse per riaprire un confronto. La decisione sul che fare e quale delle due opere realizzare la si prenderà solo dopo un ampio confronto sui progetti nel quale vanno coinvolte anche le istituzioni europee. Un confronto che per iniziare ha bisogno di un ripristino delle libertà in val di Susa, ritirando le forze dell’ordine.
Aperta ieri con cinque anni di ritardo la prima delle «sue» due gallerie sull'Autosole di Nazzano, che doveva esser pronta nell'ottobre 2000 per il Giubileo, il ministro Pietro Lunardi ha accelerato nell'alta velocità prediletta: quella di parola. E facendo invelenire Beppe Pisanu, che ha subito fatto sapere d'essere «fortemente irritato» con lui, ha liquidato lo scontro sociale, politico e culturale sulla Tav in Val di Susa nello stile di un colonnello sudamericano: «È ormai un problema di ordine pubblico, non riguarda il mio dicastero».
Parole incaute in bocca a ogni ministro d'un governo occidentale che sia conscio delle difficoltà di ammanettare, insieme coi no-global, anarchici e attaccabrighe, anche sindaci e commercianti, artigiani e casalinghe. Ma ancora di più in bocca a lui, invischiato nella controversa faccenda non solo come responsabile delle Infrastrutture ma anche come ingegnere, fondatore, progettista e uomo simbolo della «Rocksoil», la maggiore delle società italiane specializzate nei tunnel, che come è noto ha ceduto a moglie e figli per aggirare la grana del conflitto d'interessi. Proprio perché, come ha ricordato Carlo Azeglio Ciampi, non è ammissibile che i campanilismi di una contrada, gli umori dei «signornò» o le beghe di bottega blocchino grandi opere di interesse collettivo, queste opere devono essere progettate, spiegate, appaltate e fatte nella massima trasparenza. Senza il minimo sospetto di qualche dettaglio occultato e men che meno di qualche interesse personale. Ed è qui che i conti lunardiani non tornano.
Passi l'abolizione, decisa appena dopo aver giurato in Quirinale, del divieto firmato dal predecessore Nerio Nesi (in linea con le scelte europee) di costruire ancora tunnel a una canna e due sensi di marcia, divieto che toccava anche un suo progetto abolito (e da lui ripristinato) in Val Trompia. Passi l'assunzione come capo della segreteria di Giuseppe Calcerano, cioè del dirigente delle Autostrade che, come denunciò Alessandro Sortino de «Le Iene», era addetto alla supervisione di quelle gallerie di Nazzano il cui progetto firmato nel 1997 da Lunardi nelle vesti di ingegnere era stato rifatto dopo la scoperta di una falda che, stando alla bacchettata, «si sarebbe dovuta prevedere nella fase progettuale». Passi l'appalto, smascherato da MF, ottenuto dall'azienda di famiglia (nonostante avesse giurato davanti alle telecamere: «I miei figli lavoreranno solo all'estero») per «la progettazione esecutiva e costruttiva registrate nel bilancio 2004 di una galleria del collegamento ferroviario Milano-Malpensa», collegamento gestito dalle Ferrovie Nord, controllate dalla Regione Lombardia. Fin qui siamo dentro il cattivo gusto, l'indifferenza al senso di opportunità, la violazione di quei codici etici, scritti o non scritti, che spingono i cittadini a rispettare uno Stato serio.
In Val di Susa c'è di più. I pareri sulla bontà o meno della scelta di bucar le montagne esattamente lì, come è noto, sono discordi. Succede, che gli specialisti litighino dando più peso a questo o a quel punto. E succede spesso. Da una parte all'altra del pianeta. Nel caso specifico, però, c'è una storia che val la pena di raccontare. Quella di due tunnel paralleli per l'acqua, 4,75 metri di diametro esterno e una decina di chilometri di lunghezza, iniziati una decina di anni fa, proprio in quella zona, per conto dell'Aem, l'azienda municipale di Torino. Nel patto dei costruttori erano in quattro: l'Astaldi (capofila), la francese Eiffage, un'impresa del Mezzogiorno poi finita nei guai finanziari, e la Selmer (Nocon), una grossa società norvegese con diecimila dipendenti (allora: oggi ha capitali svedesi e i dipendenti sono saliti a quindicimila) che lavora spesso in coppia con la Norconsult, specializzata in gallerie.
Un patto destinato a durare poco: a metà galleria, la Selmer decise infatti di sfilarsi. Ed è qui che si affacciano un mucchio di domande. È vero che la società scandinava prese la decisione di uscire dopo l'ennesimo incidente, che aveva visto una frana seppellire una costosissima talpa americana di marca Robbins? È vero che i norvegesi si lamentarono degli studi che accompagnavano il progetto dicendo che i calcoli geologici erano inesatti? È vero che la montagna venne allora definita «una gran brutta montagna» segnata da fenomeni carsici, fiumi sotterranei, temperature qua e là molto alte e presenza di amianto? È vero che la faccenda finì in mano agli avvocati finché la Selmer-Nocon non se ne andò dopo avere ottenuto una buonuscita? Domande non secondarie. Perché, se fosse vero («Mai saputo niente: a noi dissero solo che c'erano stati dei problemini», dice il sindaco di Venaus, Nilo Durbiano), le perplessità di chi si oppone non sarebbero ancor più «solo un problema di ordine pubblico».
Tanto più che, a leggere le cronache di questi giorni, anche la francese Eiffage si ritirò per «difficoltà» nel 2004 da un altro cantiere, sul versante francese. Quello che prevedeva la costruzione di una galleria di 2 chilometri che doveva servire a saggiare le condizioni di scavo. Galleria che vedeva impegnata, fra gli altri, anche la Rocksoil di Pietro Lunardi. La quale, come spiegava una dettagliata interrogazione dei senatori verdi Anna Donati e Giampaolo Zancan sulla base del bilancio 2002, era stata incaricata della progettazione del tunnel «attraverso una cascata di sub-incarichi e consulenze». La committente era la società francese Ltf, controllata alla pari dalla francese Rff e dall'italiana Rfi, che gestiscono le reti ferroviarie francese e italiana. Col risultato che a pagare una parte dei lavori, stando al cartello filmato ancora da Alessandro Sortino, c'erano il governo italiano e le nostre Ferrovie dello Stato.
Gian Antonio Stella / corriere della sera / 08 dicembre 2005
Personne, à Freedom Park, ne prononce jamais le mot "prostitution". Pourtant, dans cet immense bidonville, ce "camp de squatteurs" selon la terminologie locale, des centaines de femmes se vendent pour trois fois rien. Les clients, pudiquement appelés "boyfriends", petits amis d'une heure, d'une nuit ou d'un mois, sont des mineurs d'Impala Platinium, l'un des plus grandes mines de platine du pays. La mine, situé dans la Northern Province, à quelque 200 km au nord de Johannesburg, a attiré des milliers de ruraux, venant de toute l'Afrique du Sud et des pays voisins. Aujourd'hui, à Freedom Park, il y a environ 5 000 " shacks", des baraques de tôles alignées à perte de vue, peintes en rouge vif, jaune ou bleu, des couleurs pour cacher la misère.
La plupart des 20 000 habitants du bidonville sont sans emploi. Ici, il y a quelques hommes, en attente d'un job à la mine, et des femmes vivant de la "générosité" des mineurs. Les liaisons ne sont jamais qu'éphémères. Le mineur cherche une femme pour une heure, une soirée, parfois pour plus longtemps, mais un jour il repart dans son village, laissant derrière lui ses amours illégitimes. Environ 40 % des femmes de Freedom park sont séropositives.
Boniwe avait un "boyfriend", qui veillait sur elle depuis plusieurs années. Quand il est mort, sa femme est venue vider la maison. Dans son shack, il n'y a plus rien qu'un lit, une petite table et quelques écuelles. Elle vit là avec ses quatre enfants, parmi lesquels des jumeaux de 11 mois. L'un des deux est séropositif. Comme plus de 500 personnes, essentiellement des femmes, Boniwe a pu avoir accès à un traitement gratuit dans la clinique du bidonville. Mais ce matin, elle n'a pas pris ses médicaments. "Je n'avais rien à manger. Et on peut pas les prendre le ventre vide", explique-t-elle.
La clinique, qui existe grâce à des dons privés et à un fonds américain, a été créée par l'association Tapologo de Mgr Kevin Dowlings, archevêque de Rustenburg, la grande ville voisine. Il est le seul évêque catholique du pays à avoir préconisé publiquement l'usage du préservatif.
PAS D'EAU COURANTE
Selina a été l'une des premières à bénéficier de la distribution d'antirétroviraux. "Avant, c'était facile de trouver un boyfriend capable de payer jusqu'à 1000 rands (125 euros) pour une passe. Les types qui étaient virés avec une prime, ou les retraités, ils dépensaient beaucoup d'argent avant de retourner chez eux. Maintenant, tu peux difficilement avoir plus de 100 rands (12,5 euros)", explique-t-elle. "Et si tu demandes qu'ils portent un préservatif, c'est moins encore", poursuit-elle. En réalité, la passe se négocie souvent à 20 rands, à peine 2,50 euros.
Il n'y a rien ici, pas d'eau courante, pas de robinet public. Des camions passent chaque jour pour vendre de l'eau. Pourtant, il y a des citernes un peu partout. "Ils viennent les remplir avant les élections : après, c'est fini", raconte Batsesana, qui dirige l'équipe de bénévoles.
Tout, ici, est provisoire. Même la clinique, faite de quelques containers, est prête à être déplacée. Les Sud-Africains peuvent prétendre à l'une des petites maisons que l'Etat bâtit non loin de là. Les étrangers, eux, n'ont droit à rien. A terme, l'objectif de la municipalité est de raser Freedom Park, d'effacer à coups de bulldozer la misère et ses prostituées.
Nota: su un tema parallelo, in Eddyburg l'articolo sul rinnovo urbano" in Zimbabwe
Si può trascurare l´appello di un capo dello Stato, tanto più quando si chiama Carlo Azeglio Ciampi, a non isolare l´Italia dalle grandi reti europee? Si può dare torto a chi sostiene l´alta velocità come scelta strategica per ammodernare i collegamenti ferroviari e spostare una quota significativa di traffico – e in particolare di trasporto merci – dalla strada alla rotaia?
si possono ignorare, infine, le preoccupazioni e le proteste di un´intera comunità locale che si mobilita per difendere l´ambiente e la salute, cioè la propria sopravvivenza?
La chiave per risolvere il rebus della Val di Susa sta nella capacità di comporre tutte queste diverse ragioni, in una sintesi che spetta alla funzione e alla responsabilità della politica ai suoi vari livelli: regionale, nazionale e internazionale. E dipende anche dalla possibilità di conciliare legittime aspettative ed esigenze reali, al di là di impostazioni ideologiche, atteggiamenti estremistici e demagogici. Ma tutto ciò si può e si deve fare nell´ottica dell´interesse generale, di quel "bene comune" che supera appunto gli interessi di parte, verificando gli aspetti economici, ambientali e sociali secondo una gerarchia di valori più che un presunto ordine di priorità.
Può risultare un paradosso, una delle tante ironie che la storia spesso riserva, la circostanza che una tale esplosione di "localismo populistico" – com´è stato definito – coincida con l´avvento del federalismo imposto a colpi di maggioranza dal centrodestra: auguriamoci che, almeno in questo caso, la devolution alla fine non faccia rima con revolution. Fatto sta che il fenomeno rivela e denota un deficit di autorità, una carenza di legittimazione politica, che si rovescia in primo luogo sul governo in carica. E per quanto riguarda il tunnel della Val di Susa, tocca direttamente un ministro delle Infrastrutture che controlla attraverso i suoi parenti più stretti un´azienda di perforazioni coinvolta nel progetto ed è dunque viziato da un palese conflitto di interessi.
Allo stesso tempo, però, la querelle sulla Tav chiama in causa anche l´opposizione, lo schieramento di centrosinistra che si candida alla guida del Paese e naturalmente il suo leader, forte di un´investitura popolare come quella ricevuta nelle primarie. Qual è la linea dell´Unione sulla ferrovia ad alta velocità Torino-Lione? Quella del presidente della Regione Piemonte, Mercedes Bresso, prima decisa ad andare avanti a ogni costo e ora più propensa a verificare tutti gli aspetti della questione, a cominciare dall´impatto ambientale? Quella dei Ds che hanno a cuore le cooperative, anche loro interessate ai lavori, o quella dei Verdi di Pecoraro Scanio e dei rossi di Bertinotti? Quella della sinistra cosiddetta "sviluppista" o di quella riformista o ambientalista? E soprattutto, qual è esattamente l´opinione di Romano Prodi su questa vicenda?
Nella confusione e nella contrapposizione a volte caricaturale delle idee, un dato intanto appare chiaro: non si può risolvere il problema, né qui né altrove, con la militarizzazione del territorio. Le "grandi opere" non si realizzano con un presidio di polizia 24 ore su 24, per 365 giorni all´anno e per diversi anni a seguire. Non solo perché ciò minaccia di produrre una restrizione intollerabile della democrazia, dalla libertà di circolare a quella di manifestare. Ma anche perché in questo modo i tempi inevitabilmente si allungano, i costi crescono e soprattutto aumentano i rischi sociali: tanto più in una regione che si appresta a ospitare, fra poche settimane, un evento globale come le Olimpiadi invernali.
La verità, piaccia o non piaccia, convenga o non convenga a questo o a quello, è che il caso della Val di Susa rappresenta il paradigma di una politica nazionale contro l´ambiente e contro il territorio, introdotta dal centrodestra in nome di una malintesa deregulation, in funzione di interessi che non sempre corrispondono a quello collettivo e spesso anzi lo danneggiano. Dalla Legge Obiettivo censurata dalla Corte dei Conti fino alla legge delega ambientale, per la quale l´Italia è stata già sottoposta a una procedura d´infrazione da parte di Bruxelles, tutta la normativa di questa legislatura in materia è un´eresia che va contro le direttive e le procedure europee.
Da qui, da questo peccato originale, discende - come denuncia il Wwf in un´ampia e documentata memoria appena consegnata al Parlamento di Strasburgo - una serie di vizi che inficiano anche il progetto della Torino-Lione, sia sotto il profilo ambientale sia nel rapporto tra costi e benefici. E gli argomenti non mancano. L´opera, secondo l´associazione ambientalista e secondo numerosi esperti esterni, non è stata sottoposta nella sua completezza alla procedura di "Via" (valutazione di impatto ambientale) né è stata avviata una procedura internazionale coordinata, dopo una pubblica consultazione nei due Paesi interessati. Il progetto non avrebbe perciò i requisiti indicati dalla stessa Ue per rientrare nella lista prioritaria delle reti transeuropee di trasporto.
Se ora da Bruxelles la coordinatrice Loyola de Palacio non intende accordare la "tregua olimpica" proposta saggiamente dalla presidente Bresso, se ne assume – per la sua parte – le responsabilità. Ma in attesa che la questione venga rimessa a due tecnici stranieri, uno esperto di trasporti e l´altro di sicurezza e salute, non può essere la Regione Piemonte a decidere da sola. E´ la politica nazionale, il governo da una parte e l´opposizione dall´altra, che devono dare una risposta chiara e tempestiva sull´ipotesi di una moratoria che a questo punto appare quanto mai opportuna.
Luciano Gallino Le domande senza risposta
La TAV in Val di Susa fa discutere. Speriamo che la discussione continui, e risponda positivamente a tutte le esigenze. Da la Repubblica del 30 novembre 2005
Sono tendenzialmente favorevole a un rilevante trasferimento del traffico merci dalla strada alla rotaia. Potrei quindi essere etichettato come un potenziale pro Tav, per inclinazione e per gli studi fatti sulle conseguenze dello sviluppo industriale. La massa delle merci in viaggio per l’Europa è formata in effetti o da materie prime o semilavorati o componenti destinati all’industria, oppure da beni prodotti dall’industria. Il mezzo più efficiente per trasportarli, dal punto di vista energetico, e il meno oneroso per l’ambiente, è certo la ferrovia. Ben vengano dunque i progetti intesi a trasferire sui treni alcuni milioni di tonnellate di merci l’anno.
Nel caso della Val di Susa, in quanto tendenziale pro Tav, sono rimasto però – almeno fino ad ora – alquanto deluso. Mi attendevo che i politici, gli amministratori, i dirigenti d’impresa, gli esperti rispondessero con argomenti circostanziati alle perplessità di ordine tecnico ed economico sollevate da varie parti sulla grande opera che dovrebbe attraversare, per il lungo, tutta la valle. Ora è certo possibile che mi sia perso qualche articolo o discorso super-documentato. Resta il fatto che gli argomenti pro Tav in Val di Susa avanzati negli ultimi mesi mi paiono rientrare prevalentemente nella categoria "ce lo chiede l’Europa", ovvero "non si può bloccare il progresso", o, ancora, "non si può cedere alla demagogia". Un po’ poco, per uno che è sì pro Tav, ma che vorrebbe vedere la sua causa difesa con ragioni compiutamente argomentate. Proverò a riassumere in alcuni punti le domande che mi pare non abbiano ricevuto finora, dal fronte pro Tav, risposte approfondite.
1) Sarebbe utile sapere quali analisi economiche sono state fatte, ovvero quali strumenti legislativi si pensa di introdurre, per assicurare che una volta compiuta la grande opera il traffico merci si sposti realmente, in misura tale da giustificare i costi economici e sociali dell’opera, dalla strada alla rotaia. Tale quesito è stato sollevato da un economista liberale, Mario Deaglio (La Stampa, 11/11/2005). I binari non sono dotati di un’attrazione magnetica tale per cui si possa essere certi che, una volta posati, fiumi di merci lasceranno la strada per affluire su di essi. Sarebbe drammatico se, dopo 15-20 venti di lavoro, trasformazioni radicali, sociali economiche e ambientali, di un’intera valle, e 15 miliardi di euro (che potrebbero facilmente diventare 18 o 20) le merci continuassero a correre sui tir.
2) Altri studiosi di economia, nemmeno essi estremisti, hanno osservato che il potenziamento della linea esistente, quella del Frejus, e una appropriata politica tariffaria pro-ferrovia e moderatamente anti-Tir, la domanda ferroviaria per Modane potrebbe arrivare a quasi 17 milioni di tonnellate/anno. Con la realizzazione della Tav in Val di Susa la domanda potrebbe arrivare – ma non è certo, perché la composizione delle merci cambia – a poco più di 21 milioni di tonnellate l’anno (Andrea Boitani, la voce.info, 23/11/2005). Su un piatto, dunque, ci sono forse quattro milioni di tonnellate in più sui treni; sull’altro, un traforo di 52,7 chilometri, più uno di dieci, con 15 miliardi di spesa e oltre. Sarebbe gratificante, per chi crede nell’importanza del passaggio alla rotaia, capire come si pensa di equilibrare i due piatti della bilancia.
3) Gli svizzeri sono molto avanti con il raddoppio del Gottardo ferroviario e con la costruzione del nuovo tunnel del Loethchberg, dalle parti del Sempione. Pare ovvio che nei prossimi anni gran parte del traffico merci del milanese e di gran parte della Lombardia prenderà tale direttrice per andare sia a Nord che a Nord-Ovest. E’ possibile vedere, e serenamente discutere, qualche studio che mostri in qual modo tale novità, che diventerà operativa molto prima dell’eventuale Tav in Val di Susa, verrà ad incidere sulla convenienza di quest’ultima opera? Se mai un simile studio fosse in giro, un pro Tav tendenziale come chi scrive lo vedrebbe volentieri accompagnato da qualche studio comparato che dimostrasse razionalmente la convenienza, a livello nazionale, dell’opera valsusina rispetto a varie alternative. Quali, ad esempio, il raddoppio del Brennero, o il potenziamento della linea da Torino a Nizza, o della stessa linea preesistente del Frejus.
Ho lasciato da ultimo, ovviamente, la domanda delle domande. Anche nel caso in cui si dimostrasse con cifre e argomenti ben fondati che la Tav in Val di Susa è, dal punto di visto economico, e a lungo termine, superiore a tutte le alternative possibili, e garantisce con elevata probabilità il passaggio di grandi volumi di merci dalla gomma alla ferrovia, bisogna chiedersi come si pensa di mantenere in valle un megacantiere della durata di 15-20 anni, che produrrà e dovrà poi trattare e trasportare alcuni milioni di tonnellate di materiali di scavo, contro la volontà di tutta una popolazione. Certo, impiegando un paio di migliaia di poliziotti e carabinieri al giorno, per tutto quel periodo, si potrebbe anche farcela. Ma con costi sociali e politici sin troppo facilmente immaginabili.
A questo punto la domanda non può che essere girata a Romano Prodi. Perché come economista che punta al governo, ha certamente le carte in regola per chiedere che, prima di avviare i macchinari degli scavi, i pro Tav della regione e del paese diano risposte tecnicamente esaurienti alle osservazioni critiche sollevate finora. Ma soprattutto perché la questione è diventata per intero politica, come sono tutte le grandi questioni economiche non appena si scavi un poco sotto le loro apparenze tecniche. La loro sostanza è sempre la stessa: si tratta di distribuire con equità i costi e i benefici tra le popolazioni, gli strati sociali e i territori coinvolti in innovazioni radicali. Nella vicenda della Val di Susa parrebbe, al momento, che i costi gravino prevalentemente su una parte sola. Vorremmo capire come Prodi pensa di ridurre tale squilibrio, o magari se non medita di impostare uno scenario affatto inedito, che preveda più benefici che costi per tutti gli interessati.
Richard Carson, La dittatura della Maggioranza Urbana, Planum, ottobre 2005; Titolo originale: Tyranny of the Urban Majority– Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Sono stato di recente a un incontro pubblico dove un consigliere eletto poneva a un gruppo di urbanisti una domanda retorica: “Cos’è lo sprawl?”. La risposta di uno degli urbanisti è stata che lo sprawl si verifica quando una zona rurale viene suddivisa in lotti di grandi dimensioni per realizzare le cosiddette “ McMansions”. La replica del consigliere è stata: “Sareste più contenti se la gente invece mettesse lì case mobili per abitazioni a basso reddito?”.
Il dialogo mi ha turbato. Perché gli animatori delle tendenze urbanistiche più recenti – come la smart growth e il New Urbanism – per attirarsi sostegni finanziari e sostegno degli elettori, usano etichette denigratorie come sprawl, big-box, o McMansion. Per demonizzare lo sprawl c’è bisogno di un demonio. Coltivatori di campi e boschi non possono essere denigrati, perché si suppone che i pianificatori conservino queste risorse per il loro uso. E non è politically correct parlar male delle famiglie a basso reddito che vivono in case mobili. E così, chi si trova come capro espiatorio? I ricchi e McDonald’s sono obiettivi facili, e allora: Ricchi + McDonald’s = McMansion.
Questo doppio senso orwelliano è stato utilizzato dai suoi inventori per diffondere un programma politico che attacca un’istituzione tradizionale americana: lo schema insediativo di una cultura dominata dall’automobile e dalle lottizzazioni edilizie a basso costo del dopoguerra. La loro agenda sociale sfrutta paura e classismo per sostenere la causa: a spese delle convinzioni socioeconomiche e del benessere di altri.
Un pregiudizio schizofrenico
In America, termini come sprawl o McMansion risuonano tra noi almeno in parte a causa dei nostri schizofrenici pregiudizi personali: vogliamo essere ricchi ma non possiamo perché non riusciamo a smettere di comprare cose; beviamo, fumiamo, mangiamo porcherie, ma sappiamo che ci fa male. Ci sentiamo in colpa per il nostro spudorato, ossessivo consumismo. Ci sentiamo indifesi e usati dai volponi di Wall Street e Madison Avenue. E abbiamo la sensazione di aver venduto l’anima (e la libertà) al migliore offerente.
Peraltro, sospettiamo esistano persone che non hanno venduto l’anima, e anche questo ci scoccia. Fra questi, ci sono agricoltori indipendenti e forestali, che vivono della terra. Gli abitanti delle città nel loro subconscio sono irritati da questa apparente libertà.
E questa mancanza di empatia ha portato ad una nuova “dittatura della maggioranza” degli interessi non-rurali. I nostri meccanismi costituzionali di controllo ed equilibrio non sono riusciti a proteggere il proprietario di terreni rurali. Le iniziative connesse alla smart growth hanno tracciato margini di sviluppo urbano [ urban-growth boundaries] e poi ridotto le possibilità insediative delle proprietà rurali. Queste misure sono intese a contenere lo sprawl, ci hanno detto, ma esse aiutano anche a creare “riserve” urbane, che impediscono alla popolazione così addensata di distruggere l’ambiente naturale.
Avidità e risarcimenti
Quando gli urbani – no, gli urbanisti – si scontrano coi proprietari rurali, il risultato è sempre lo stesso: la gente di campagna perde. Tornati a casa, gli urbanisti vogliono i loro bar col caffè espresso, le boutiques, i drive-throughs, ma vogliono che le zone rurali restino un museo di terre pastorali, a conservarsi per le loro visite sui fuoristrada.
Il fatto è che gli urbanisti sono implicati nell’eliminazione di molte più specie della controparte rurale, a causa della loro avidità. Visto che l’80% dell’America abita nelle aree metropolitane, non sono colpevoli almeno all’80%? Non dovrebbero, gli urbanisti, rimediare a questa ingiustizia economica, e ripagare in dollari? Sì, perché altri – specificamente: proprietari rurali, costruttori, grandi operatori – devono pagare per i loro spropositati appetiti urbani.
Se volgiamo davvero migliorare la qualità della vita sia all’umanità che agli animali, cerchiamo di essere intellettualmente onesti sui costi sociali per tutti i cittadini: non di usare la propaganda partigiana degli urbanisti contro una minoranza di cittadini. È tempo che la maggioranza urbana paghi la sua parte. O almeno che discuta di come risarcire economicamente l’America rurale.
Nota: il testo originale al sito di Planum (f.b.)
I disordini a Parigi hanno una causa ben precisa. E il nome e il cognome di questa causa è Jacques Chirac. È questo il parere di Sir Peter Hall, esperto di sviluppo urbano dell'University College di Londra. A Berna, dove gli è stato conferito il prestigioso Premio Balzan 2005 dalla omonima Fondazione italo-svizzera, ha cercato di spiegare che cosa sta succedendo alle periferie francesi in rivolta. Il premio, di 650mila euro, andrà metà al ricercatore e metà a nuovi progetti di ricerca che sta mettendo in atto. Oltre a Hall, sono stati premiati anche Peter e Rosemary Grant per i loro studi sull'evoluzione, Lothar Ledderose, storico dell'arte cinese e giapponese, e Russel J. Hemley e Ho kwang Mao per lo studio della fisica dei minerali.
Professor Hall, perché Parigi è in fiamme?
«Il problema affonda le sue radici negli anni Settanta, quando Jacques Chirac era il sindaco della capitale francese. In quel periodo, è stata seguita una politica in un certo senso opposta alla linea di sviluppo delle metropoli. Grazie alla rivoluzione nei trasporti le città si sono infatti diffuse sul territorio. E non necessariamente i sobborghi o le periferie sono diventate aree depresse, basti pensare a quanto successo ai sobborghi delle città americane diventati dimora della classe media. Le politiche messe in atto da Chirac invece hanno concentrato nei quartieri centrali di Parigi la classe media, respingendo in casermoni progettati negli anni Sessanta gli immigrati».
Si tratta di una politica che è stata seguita anche da altri paesi?
«In un certo senso sì e questo mi preoccupa un po'. In molte città europee, o quasi in tutte, si assiste a questo processo di “centrificazione”, cioè di concentrazione nei cuori urbani storici delle classi medie o di quelle a reddito più elevato. Del resto, molti amministratori hanno investito sul miglioramento dei centri storici, lasciando da parte le periferie. E questo, ripeto, andando contro un trend di sviluppo delle città che a partire dalla rivoluzione industriale punta decisamente a ridurre la loro densità abitativa, determinando una diffusione della popolazione su un vasto territorio».
Ritiene che questo possa essere anche un problema italiano?
«Per rispondere a questa domanda devo anzitutto premettere che non ho affrontato specificatamente lo studio dell'evoluzione delle città italiane, per quanto me ne dispiaccia molto. Però credo che quanto successo in Francia possa diventare un problema un po' dappertutto. E il motivo è molto semplice: si tratta di un problema di integrazione delle popolazioni immigrate che in gran parte sono di religione islamica. Si tratta di persone che generalmente hanno un background culturale di tipo contadino e quindi integrarle in città è particolarmente difficile. Il problema poi è di matrice socio-economica. Queste persone hanno la capacità di svolgere dei lavori dove è richiesto un basso livello di istruzione, lavori che possiamo definire in un certo senso muscolari. Un po' come quando gli immigrati italiani andavano in America e lavoravano alla costruzione delle infrastrutture. Buona parte della metropolitana di New York è stata scavata da loro. Oggi però nelle economie post-industriali questo tipo di lavoro trova sempre meno sbocchi. Viviamo in una società dominata dall'informazione. Quindi i muscoli contano meno di quello che contavano una volta e il lavoro di queste persone non solo conta poco, ma anche trova ben pochi sbocchi. Mentre gli immigrati di seconda generazione potrebbero autoghettizzarsi, visto che vivere in centro è spesso al di sopra delle loro possibilità. Si tratta di un problema anche italiano».
Quindi come possiamo risolvere il problema della loro integrazione?
«Molto semplicemente attraverso l'istruzione. Si tratta di un'arma molto potente che consentirebbe a questi immigrati di acquisire le capacità necessarie per inserirsi a pieno titolo nella nostra società. E chiaramente bisogna evitare di ghettizzarli in certe zone urbane specifiche».
Che cosa c'è nel futuro delle città europee?
«È quello che voglio studiare con i soldi del premio Balzan. C'è soprattutto un punto che intendo esplorare a fondo e cioè perché alcune città diventano motore di sviluppo per un'intera regione urbana (ad esempio Londra nel Sud Est dell'Inghilterra) e perché altre, come Parigi, si chiudono su loro stesse. Credo che il futuro delle città europee possa andare nella direzione di Londra, ma sto cercando ancora di capire quali possano essere i meccanismi che favoriscono un tipo di evoluzione piuttosto che un altro».
Il tema della logistica non è solo un problema di traffico o di ambiente, ma di gestione di un sistema socio-economico complesso che va affrontato coinvolgendo le parti interessate: produttori, importatori, esporta tori e; operatori specializzati del settore.
Il trasporto, fattore base dell’economia, aggiunge ai prodotti un’utilità di tempo e di luogo oltre a rendere possibile la competizione. Nessuna città può, infatti, vivere senza un trasporto merci e la sua competitività è legata anche al costo di far arrivare le merci ai punti di consumo urbani e far uscire ciò che essa produce.
Il commercio e i trasporti rendono disponibili i beni nel luogo e nel mo mento in cui il cliente li richiede. Il prodotto viene fabbricato con la sua funzione d’uso e di forma solitamente in un luogo e tempo diversi da quello che vuole il consumatore finale. La logistica è il processo che conferisce al prodotto un ulteriore valore attraverso due operazioni: il magazzinaggio che lo rende fruibile in un tempo diverso da quello di produzione e il trasporto, che lo rende utilizzabile in un luogo diverso da quello della produzione.
Il valore complessivo della logistica si attesta oggi sui 180 miliardi di euro (circa 1’11-12% del Pil). Il processo comprende lo spostamento delle merci da miniere e fabbriche fino ad arrivare ai magazzini dove si accumulano i prodotti finiti, da dove ripartono per raggiungere i consumatori. In Italia per ogni giorno e per ogni cittadino vengono trasportati su terra circa 60 chilogrammi di merce, se consideriamo che un cittadino medio consuma dai 6 agli 8 chilogrammi al giorno (che vuole trovare in tanti punti diversi: negozi, edicole, supermarket distributori di benzina, presso la sua abitazione, ecc.) significa che la merce viene trasportata quasi 10 volte e questo è dovuto a fattori consolidati della nostra economia, come la specializzazione delle unità produttive, le economie di scala e la struttura della distribuzione fisica. Il processo comincia dalle risorse naturali, che in un primo stabilimento diventano materie prime e in altri diventano parti, gruppi e semilavorati che confluiscono poi nell’assemblaggio del prodotto finito. La fabbrica alimenta un magazzino centrale che può consegnare ai punti di resa sia direttamente che attraverso dei depositi locali. Dai punti di consumo (casa, ristorante, ecc.) escono solo “rifiuti”o prodotti a fine vita che però in futuro rappresenteranno una “miniera” per la produzione di nuovi prodotti o energia.
”Mentre il trasporto dei passeggeri cresce meno del Pil anche per i fattori che riducono la mobilità (come il telelavoro), per quanto riguarda il traffico merci” ci racconta Giovanni Leonida, ingegnere, presidente Centro Studi Confetra e vice presidente Assologistica “la dematerializzazione interessa pochi prodotti (come biglietteria, musica, video) e il trasporto dei beni fisici aumenta in misura maggiore del Pil (1-1/7% più del Pil) per vari motivi:
l. La specializzazione delle fabbriche: prima in un’azienda si passava dalle materie prime a] prodotto finito, ora si effettua il solo assemblaggio finale, facendo arrivare il componenti/gruppi da tante altre fabbriche anche lontane e distribuendo poi il prodotto in tutto il mondo.
2. La riduzione del costo dei prodotti che ha portato a un maggior consumo di beni fisici.
3. La delocalizzazione di alcuni segmenti della produzione (soprattutto verso paesi dell’Est) che ha portato a trasportare su strada ciò che prima si trasportava da un reparto all’altro di una fabbrica.
4. La trasformazione dei gusti dei consumatori più orientato al consumo di prodotti “esotici” o comunque “fuori stagione” (uva a Natale, che arriva dal Cile; pere in primavera, che arrivano dall’Argentina, ecc.).
5. La riduzione del costo del trasporto (marittimo e aereo) che è rimasto uguale a 30 anni fa.
6. La globalizzazione che ha portato sempre più a un unico mercato con l’abbattimento delle barriere doganali e quote d’importazione.
In quest’ottica il trasporto aumenta e dovrà aumentare ancora di più, nono stante gli ambientalisti siano nemici dei trasporti. Con le nuove direttive UE sui prodotti a fine vita molte cose che oggi buttiamo in discarica dovranno essere raccolte ordinatamente e trasportate anche lontano per smontarle e recuperare materiali/parti/gruppi coi quali costruire nuovi prodotti. Dunque per far bene all’ambiente bi sogna trasportare di più”.
Gli USA che parrebbero il paese più automobilista del mondo trasportano per ferrovia il 43% in peso delle merci (disponendo di treni lenti, lunghi e a due piani) su strada il 30%, per fiume/canale il 10%, per oleodotto il 17%.
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Quali rischi per la mancanza di una pianificazione logistica
In Italia la mancanza di una pianificazione logistica seria fa sì che i magazzini vengano ubicati senza seguire un vero criterio funzionale (generalmente le città non vogliono sacrificare il territorio a favore di una pianificazione logistica) con la conseguenza che le non scelte urbanistiche pesano sulla pianificazione dei flussi delle merci. Spesso i magazzini si costruiscono in zone lontane e poco abitate, dove il costo del terreno è basso, col risultato di intasare ancora di più le tangenziali e le strade di accesso, situazione già critica per effetto del trasporto di persone.
”Far arrivare in città le merci per il consumo e farne uscire i manufatti costituisce da sempre un problema” sostiene Giovanni Leonida “che però viene spesso posto in modo errato. In fatti non ci si dovrebbe domandare “ come possiamo limitare il traffico merci in città?” ma piuttosto “dato che la città per vivere ha bisogno di un certo flusso di beni fisici in ingresso e in uscita, qual è il modo migliore per realizzarlo sotto il profilo economico e ambientale?”.
Il traffico in città è invece destinato ad aumentare per effetto delle normative sull’ambiente di cui si è già detto: le città sono dei grandi produttori di “beni a fine vita”, dagli elettrodomestici della casa alle apparecchiature d’ufficio. Molti prodotti, che oggi so no catalogati genericamente come “rifiuti”, dovranno essere raccolti con molta cura e trasportati più lontano, in centri specializzati per lo smontaggio ed il recupero di gruppi e parti funzionali. Anche il riutilizzo degli imballi porta vantaggi ambientali enormi. Una città è un ecosistema che dipende dall’esterno per la sua sopravvivenza e ha bisogno di un flusso costante di merci in ingresso e in uscita, non può vivere di sole informazioni e non può gestire la sua logistica senza la collaborazione del suo hinterland. Qualunque intervento che penalizzi questo flusso ha ripercussioni sulla sua competitività e vivibilità. Trattare la distribuzione come un puro problema di traffico o un tema isolabile dal contesto socioeconomico è di fatto ignorare la realtà. “Il nostro gap infrastrutturale, soprattutto strade e autostrade, è enorme: negli ultimi 30 anni siamo rimasti fermi mentre la media UE è aumentata di oltre il 50%”. Ci informa l’ingegner Leonida. “L’operatore logistico ha poi bisogno di suoi nodi (magazzini) la cui collocazione ideale dipende dal tipo di lavoro, ma la soluzione ideale consiste nel dedicare alle merci una zona specifica, sacrificando una parte di territorio per realizzare un interporto o piattaforma logistica o meglio una zona logistica periurbana nella quale si possono localizzare tutti gli operatori”. Se la localizzazione è buona, gli operatori vi si insediano, con vantaggi economici ed ambientali. Si tratta della strada maestra, che minimizza sia il costo per gli operatori che l’impatto ambientale, ma perseguibile solo con una pianificazione del territorio che tenga conto davvero delle esigenze della logistica. La mancanza di una politica seria per la localizzazione delle attività logistiche fa sì che gli impianti nascano un po’ ovunque, senza nessuna razionalità apparente. Considerando che i grandi flussi di accesso alla città dei mezzi commerciali dipendono dalla localizzazione degli impianti, si perde l’occasione di indirizzarli sulle vie di penetrazione meno usate dal traffico passeggeri.
Quasi nessuno dei piani regionali affronta il tema delle merci in modo integrato e si limita a cercare di modificare gli effetti senza intervenire sulle cause. Non ci sono alternative, nella misura in cui si sacrifica in modo pianificato una parte del territorio per qualunque infrastruttura occorre sacrificarne una parte per gli impianti delle merci. In assenza di pianificazione si avrà maggior consumo di territorio ed un traffico più elevato e meno governabile. Una corretta politica per gli insediamenti logistici avrebbe effetti rapidi, vista la tendenza attuale degli operatori a spostarsi in strutture nuove e razionali. La produttività dei mezzi in distribuzione urbana è molto bassa, ma si tratta di una media che ha poco significato perché è prevalente il conto proprio, i professionisti hanno già una produttività molto elevata.
L’introduzione di una piattaforma urbana per la distribuzione congiunta fra più operatori salvo eccezioni non è una soluzione praticabile perché non cambia questa situazione e introduce costi e complessità inutili.
Una volta, all’inizio, la città era un dispositivo simbolico che serviva a tenere insieme il cielo e la terra, a proiettare la regola celeste su quella terrestre, e i suoi abitanti potevano sentirsi intimamente inseriti nel cosmo, perché sempre in grado di decifrarne il significato: gli antichi latini ancora orientavano ad esempio le due principali vie urbane, fra loro ortogonali, in modo da essere parallele l’una all’asse intorno a cui ruotava il sole e l’altra al cammino di quest’ultimo, sicché passeggiando ne seguivano il corso, ne riprendevano consapevolmente il moto. Così la città, prodotto del rito, traduceva il metafisico in fisico, e poiché la sua struttura era il riflesso di qualcosa che la sovrastava, la distinzione tra centro e periferia era assolutamente secondaria e riguardava il suo funzionamento, non la coscienza di chi la popolava. La religione (che appunto significa tenere insieme) agiva in senso orizzontale oltre che verticale, assicurando solidarietà all’intero corpo urbano. Tale città non esiste più da un pezzo, e proprio mentre nei giorni scorsi Parigi andava a fuoco, a Ginevra (e non si tratta di un caso) l’Unione Internazionale delle Comunicazioni discuteva se voltare definitivamente le spalle al cosmo e al suo ordine, se passare dal tempo astronomico a quello atomico, se cioè continuare a scandire il tempo in base alla rotazione terrestre oppure in base alle più precise ma molto più astratte frenetiche vibrazioni degli atomi del cesio, seguendo le quali tra due o tre migliaia d’anni potremmo vedere il sole tramontare quando adesso è mezzogiorno. Difficile immaginare un cambiamento più letteralmente epocale di quello appena richiamato. Per chi (come i giovani delle banlieues) non è direttamente coinvolto nello sviluppo delle telecomunicazioni e dei satelliti, nella crescita delle transazioni finanziarie e delle reti energetiche, esso si configura come un autentico esproprio del tempo e del fondamentale rapporto con tutto quel che ci circonda: una sorta di alienazione antropologica primaria, sulle cui conseguenze nessuno è in grado di avanzare previsioni, ma il cui inconsapevole riflesso è forse già presente in quel che sta accadendo, nella violenza di cui le città sono attualmente teatro.
Alla città del sole succede quella degli uomini, che dal VI secolo a. C. in poi inizia ad organizzarsi secondo la geometria, in funzione di un’unica interna misura, al cui orizzonte si staglia l’equivalenza tra città e immagine cartografica della città. Per Platone la città giusta è quella che realizza il modello dell’uguaglianza geometrica, in cui le abitazioni e i campi di ogni singolo cittadino sono complessivamente disposti in maniera da trovarsi esattamente alla stessa distanza media dal centro rispetto a quella delle abitazioni e dei campi di tutti gli altri. Attenti: la giustizia qui ha un significato politico, non sociale. La società, con tutte le due diseguaglianze, restava quella che era: le donne, gli schiavi, gli stranieri erano esclusi dall’assemblea degli uguali, dei detentori dei diritti politici. Ma accanto alla società nasceva un altro livello, ad essa sovrapposto, al cui interno la dipendenza dai vincoli sociali era eliminata, e i nobili e i semplici cittadini (maschi ed abbienti) erano per la prima volta tutti uguali, a dispetto della loro diseguaglianza. Come ha spiegato Hannah Arendt, nel recarsi dalla propria abitazione alla piazza, luogo dell’esercizio dei diritti connessi alla cittadinanza, gli ateniesi dovevano ogni volta valicare un abisso, sebbene il cammino fosse assolutamente piano: essi dovevano in realtà salire e ridiscendere, pur restando la stessa persona, l’incolmabile dislivello tra differenza sociale e uguaglianza politica. Da Aristotele, allievo di Platone, fino a Giovanni Botero che nel 1588 avvia la moderna riflessione teorica sulla natura urbana, la città resta comunque, con le parole di quest’ultimo, «una ragunanza di huomini, ridotti insieme per vivere felicemente»: essa non è mai considerata una cosa ma un complesso di relazioni interpersonali indirizzate verso un fine collettivamente condiviso, ed è proprio tale generale condivisione a garantirne l’omogeneità.
Tra Sei e Settecento il senso dell’apparato cittadino però cambia, e alla città degli uomini succede fino in fondo quella della mappa. Si apra l’ Encyclopédie degli illuministi: la città è definita come un «insieme di più case disposte lungo le strade e circondate da un elemento comune che di norma sono mura e fossati», anzi essa è, più precisamente, «una cinta muraria che racchiude quartieri, strade, piazze pubbliche e altri edifici». Per la prima volta la città diventa per tal verso una cosa, composta da un complesso di oggetti: gli abitanti spariscono, come se evacuati, ed essa si riduce soltanto a quel che di essa può rappresentarsi su una carta geografica, a ciò che di essa resta come immagine topografica. Ne consegue che il principio dell’uguaglianza geometrica diventa al suo interno onnipervasivo, sicché non riguarda più soltanto il piano politico, come già nella polis classica, ma si estende (in forma di rivoluzione) anche a quello sociale. Insomma: l’ egalité dei cittadini rivendicata a suo tempo con la presa della Bastiglia è esattamente quella dei punti all’interno di una estensione geometrica, deriva da essa.
È proprio la rivendicazione di tale uguaglianza ad infiammare adesso i sobborghi delle città francesi, assumendo la forma geometrica dell’opposizione tra centro e periferia, la stessa indotta dalla moderna riduzione della formazione urbana (e del suo concetto) a puro meccanismo spaziale, regolato cioè soltanto da una logica metrica lineare standard. Già Gramsci spiegava, dal carcere, come il fordismo si fondasse sull’inclusione della città, e in particolare del suo sistema di trasporti, all’interno della produzione stessa. E più di recente David Harvey ha mostrato come difficilmente nel dopoguerra il capitalismo avrebbe potuto sopravvivere senza l’intervento dello stato nella gestione delle politiche fiscali e monetarie in grado di incentivare l’urbanizzazione dal lato della domanda, e risolvere così il problema della disoccupazione. Di qui la smisurata crescita delle periferie, che ha trasformato la costruzione della città in un gigantesco artefatto per la redistribuzione dei redditi. A farvi caso spazio e moneta agiscono alla stessa maniera: ambedue funzionano come un’astrazione concreta, impongono esterne e omogenee misure di valore su tutti gli aspetti della vita umana, riducono l’infinita diversità del reale ad un’unica comparabile dimensione e mascherano la natura soggettiva delle relazioni umane con l’oggettività delle leggi (di mercato la moneta, geometriche lo spazio). Lo spazio è perciò la forma territoriale della moneta, e i recentissimi tumulti francesi proprio questo alla fine segnalano: la crisi della spazializzazione del territorio, delle politiche di gestione fondate sulla riduzione dei valori locali sotto il segno dell’equivalenza generale. È esattamente questo, a farvi caso, il significato autentico dell’utopia di Moro: il sogno di un paese in cui tra luogo e spazio sia possibile la conciliazione, la coesistenza, e in cui perciò il contrasto tra periferia e centro non si conosce.
Utopia è rimasta un sogno ma, come su questo giornale l’altro giorno spiegava Peter Hall, le periferie non sono tutte uguali. Cominciamo dunque a riconoscerle, a tentare di spiegarne le differenze, a distinguerle e a dar loro un senso autentico, come verso la fine della sua vita Foucault voleva. Trent’anni fa Henri Lefebvre ha spiegato La produzione sociale dello spazio. Si tratta adesso di fare i conti con la produzione spaziale della società.
Berlusconi e la casa Da Fanfani a Milano Quattro
A volte negli articoli sui problemi di oggi c’è la consapevolezza dello spessore dei problemi. Come in questo, da il manifesto del 13 novembre 2005
Zero virgola due. La nuova linea ridens del «più case per tutti» si infrange subito su un numero piccolo, piccolissimo: 0,2%, la percentuale sul Pil della spesa pubblica italiana per gli alloggi sociali. La media europea è del 3,8 per cento. Ma a Berlusconi i parametri europei, si sa, non piacciono molto. Meglio allora fare il confronto con quelli dell'amico Blair: 7%. I dati non sono però recentissimi. Risalgono al '99, piena era dell'Ulivo, e vengono da lontano. Così come sono storici i dati dell'altra anomalia italiana: 71,4 famiglie su 100 proprietarie della casa in cui vivono contro 28,6 in affitto «o altro». Che lo slogan di Berlusconi - «diventa anche tu proprietario» - sia stato di fatto il pilastro della non-politica della casa in Italia dagli anni Ottanta è questione vecchia. La novità, fiutata da Berlusconi che ci si è fiondato sopra con l'abituale mix di populismo e marketing, è che quel 28-30% di «affitto o altro» non ce la fa più. Sta per esplodere, e proprio sotto elezioni. Il boom dei valori immobiliari, quello delle nuove famiglie, gli arrivi dall'estero, i cambiamenti delle città stanno creando un mix insostenibile. I segnali della tempesta imminente vengono da ogni dove: dal presidente dell'XI Municipio di Roma, il nostro Sandro Medici, che avvia le requisizioni delle case sfitte come dalle pagine confindustriali del Sole 24 ore, dove è apparsa un'evocazione-rimpianto del piano-case di Fanfani, a firma dello storico Valerio Castronovo.
Dunque, in archivio il «meno tasse», arriva il «più case». Come, quando, perché e per chi, (non) ce lo diranno i prossimi mesi. I cinquantadue mesi di governo Berlusconi già passati invece ci possono dire cosa è stato fatto finora.
Nei primi cento giorni del governo Berlusconi II, oltre alle urgenze personali (rogatorie, falsi in bilancio, etc), qualcosa sulla casa c'è. Da un lato, le case che sono nei grandi patrimoni che passano da una generazione all'altra vengono - insieme a tutti gli altri elementi del grande patrimonio - esentate da quel piccolo residuo di imposta di successione che c'era. Dall'altro, si avvia la grande cartolarizzazione degli immobili degli enti previdenziali pubblici: 27.251 unità immobiliari subito con Scip 1, più altre 62.880 che arriveranno poi con Scip 2. La vendita delle case degli enti continua nel solco della politica «tutti proprietari» (anche se parecchi degli inquilini non possono permettersi di diventarlo e migliaia di famiglie entrano in emergenza) e riduce ulteriormente il patrimonio abitativo pubblico, che già dal '91 al 2001 era sceso da 1.135.000 a 973.000 unità. Non parliamo di quello dell'edilizia sociale e popolare - gli ex-Iacp - anch'essa in crollo; ma di quello delle case che gli enti pubblici dovevano detenere come riserva tecnica di garanzia e che davano in affitto a prezzi più o meno calmierati, con procedure più o meno trasparenti. Insomma, un piccolo cuscinetto d'affitto che adesso è spezzettato in tante proprietà individuali. Nel frattempo sono arrivate sul mercato della proprietà anche altre migliaia di abitazioni in affitto: quelle delle assicurazioni, delle banche, di casse di categoria, con gli inquilini ancor meno garantiti di quelli della Scip.
Negli stessi anni, altra traccia di politica per la casa non c'è, se si toglie il graduale e crescente taglio delle risorse ai comuni, in virtù del quale le grandi città hanno a loro volta tagliato i fondi di sostegno alle famiglie in affitto. Ma nel mondo e in Europa si gonfia la bolla immobiliare, che da noi non ha niente da invidiare agli altri: 69% di aumento di valori (reali) immobiliari in sette anni, compravendite che marciano a passo di carica (erano 690mila all'anno nel 2000, sono state 804mila nel 2004, solo per il settore residenziale). Comprano e vendono tutti, in molti indebitandosi fino al collo: già al settembre 2003 l'importo dei mutui-casa concessi dalle banche è a 151.721 milioni di euro, a metà 2004 è di 176.000 e rotti. L'Europa dà una mano: con il calo dei tassi di interesse, pochissimo usato dalle imprese per investire ma moltissimo usato (da famiglie e imprese) per comprare immobili. E Tremonti dà un'altra mano, con lo scudo fiscale che fa rientrare i capitali illecitamente detenuti all'estero, la gran parte dei quali va a finire nel mattone.
Una redistribuzione imponente avviene in Italia, mentre il parlamento esamina una riforma urbanistica che dà ai proprietari fondiari e ai palazzinari il diritto di sedersi al tavolo dove si scrivono i piani regolatori delle città. Sul trionfo della rendita emerge anche una nuova classe, diciamo così, «dirigente», la punta dell'iceberg dei miracolati del mattone: sono i nuovi poteri, che si mettono poi nei guai con le note vicende delle scalate a banche e assicurazioni e giornali. Ma questa è un'altra storia, che con Berlusconi non c'entra niente (se non per il tramite di Livolsi, suo grand commis). Mentre quel che resta della bolla sono i prezzi: delle case in proprietà, inaccessibili per «i poveri», ossia chi vive solo del suo normale reddito e non ha patrimoni alle spalle; e di quelle in affitto, altrettanto inaccessibili. Ma restano anche fior di patrimoni accumulati in cerca di nuovi affari: magari una Milano Quattro per poveracci, una bella banlieue.
Nota: questo testo è la versione pubblicata nel volume collettivo La Grande Ricostruzione, Donzelli 2001, a cura di Paola Di Biagi. Una versione più lunga, che copre anche alcuni temi del secondo settennio del Piano, è stata pubblicata su Storia Urbana, n. 90, 2000. Qui, per ovvi motivi di spazio, ho omesso note e riferimenti bibliografici (f.b.)
Origini
Nel 1930 un gruppo di studenti di economia dell’Università Cattolica di Milano sta sperimentando un curioso metodo di ricerca sul campo, che coniuga felicemente carità cristiana e rigore scientifico. Coordinati da un assistente poco più anziano di loro, i giovani visitano le abitazioni dei poveri assistiti dall’opera San Vincenzo De’ Paoli, e oltre ad offrire aiuto chiedono informazioni sulla famiglia, il reddito, la salute, lo stato dell’abitazione, l’affollamento delle stanze. E’ un’indagine questionaria accurata, e i dati raccolti ed elaborati saranno presentati l’anno successivo come relazione al Congresso internazionale di demografia di Roma. Il relatore è l’appena ventitreenne assistente della Cattolica che aveva coordinato la ricerca: Amintore Fanfani. I risultati dello studio indicano che “causa precipua dell'affollamento è la miseria, la quale deriva dalla sproporzione fra entrate familiari - sia pure integrate dal periodico soccorso delle Opere di Carità - ed uscite, sulle quali non poco gravano la pigione di casa e le malattie”.
Studi come questo si collocano coerentemente nel dibattito degli anni trenta sulla casa economica e le politiche sociali. Anche se la produzione di case è ben al di sotto del fabbisogno, si sta instaurando un circolo virtuoso tra la cultura degli architetti e l’azione degli Istituti case popolari, presieduti spesso da personalità di grande rilievo politico e culturale, come Giuseppe Gorla a Milano, o Alberto Calza Bini a Roma. Sarà proprio Calza Bini, dopo l’approvazione del Testo Unico sull’edilizia popolare del 1938, a proporre una sostanziale innovazione nel settore, considerando “ormai maturo l’intervento delle classi lavoratrici e dei datori di lavoro per il finanziamento della casa popolare”. E’, in nuce, il principio alla base del piano Ina-Casa.
Ormai affermato professore di economia, nel 1942 Amintore Fanfani pubblica un volumetto di riflessioni sul problema della povertà, dove torna la centralità della questione abitativa: come momento di riconoscibilità del nucleo familiare, come potenziale luogo di letizia e fede, pronto però a trasformarsi in focolaio di malattie e immoralità quando la miseria irrompe nella vita quotidiana. Che fare? Fanfani non ha dubbi: la carità cristiana dovrà sempre essere alla base di qualunque azione, individuale o sociale, ma può essere molto aiutata da grandi piani di azione, che sappiano ad esempio coniugare interventi sul reddito, sulla salute, sulla casa: “Quando osservo le belle case moderne tutte dotate di servizi meravigliosi, spesso doppi e tripli [...] vedo in ciò un progresso che mi piacerebbe universalizzato; ma non posso restare dal domandarmi se chi ha pensato tanto bene ai propri comodi ha in parte provveduto [[...]] alle necessità di chi non ha casa”.
Il tema della casa popolare è, ancora al centro del dibattito al Convegno nazionale sulla ricostruzione edilizia nel 1945 come intreccio di: carenza di vani pregressa; arretratezza del settore edilizio; stasi della produzione; edifici distrutti dai bombardamenti; carenza di materie prime; crisi economica. Un piano di edilizia sociale dovrebbe programmare la costruzione di 18.000.000 di vani all’interno di un piano economico, urbanistico e in definitiva di una grande scelta di mutamento politico, che comprenda decisioni ad esempio sulla questione dei suoli, o della politica industriale.
Piero Bottoni presenta un piano per dare La casa a chi lavora, superando la logica degli Istituti delle case popolari di epoca fascista, in un quadro di nazionalizzazione e collettivizzazione: “come i lavoratori tendono a diventare compartecipi degli utili, ma non comproprietari delle aziende nazionalizzate, così essi devono divenire utenti, ma non proprietari delle case socializzate”. Dal punto di vista economico, il piano dovrebbe poggiare su un Istituto di Assicurazione sociale per la casa; ogni lavoratore vedrebbe costituita una assicurazione per la casa, con un contributo analogo a quella per gli infortuni; organizzativamente, la struttura dovrebbe basarsi su una entità centrale gestore dei fondi, e su strutture tecniche decentrate per la progettazione e realizzazione.
Oltre la questione edilizia, emerge anche quella urbanistica. Francesco Vito, economista cattolico, maestro e collega all’Università di Amintore Fanfani, interviene sul tema della demanializzazione delle aree fabbricabili. In dissenso con alcune ipotesi “di sinistra”, Vito si propone però come possibile mediatore verso le posizioni più radicalmente liberiste: “la demanializzazione di tutte le aree fabbricabili deve essere eliminata, anzi deve al più presto essere assicurato il pubblico che a piani di questo genere non si vuole pensare, d’altra parte [...] Io vorrei invitare i sostenitori dell’iniziativa privata [...] a non voler irrigidirsi nella loro posizione, ed a voler riconoscere la necessità dell’orientamento sociale”.
Dopo le elezioni del 18 aprile 1948, Amintore Fanfani è confermato Ministro del lavoro nel terzo governo De Gasperi. Le elezioni non erano state vinte con un programma semplicemente conservatore, e “le riforme rimasero un momento fondamentale del dibattito politico”. Per Fanfani questo clima è ideale per lanciare il suo piano: “non una politica del lavoro di ampio respiro, [...] ma perlomeno una iniziativa concreta: un piano per la costruzione di case per i lavoratori”. A poche settimane dalla vittoria elettorale si avviano parallelamente l’ iter parlamentare di quello che è già il più visibile dei progetti governativi.
Nella seduta del 12 luglio alla Camera, Fanfani presenta i Provvedimenti per incrementare l’occupazione operaia, agevolando la costruzione di case per i lavoratori, un programma settennale in cui si legano interventi atti a una politica di piena occupazione, interventi tesi ad alleviare la crisi degli alloggi, e contemporaneamente a rivitalizzare per un certo periodo e con continuità l’intero sistema economico nazionale. Dato che solo una piccola parte dei lavoratori beneficerà degli alloggi così realizzati, si prevede allo scadere del settennio un piano venticinquennale di restituzione dei buoni-casa ai non assegnatari. All’articolo 10 il disegno di legge recita “Le estrazioni avranno luogo [...] nella ricorrenza della festa del lavoro. La consegna degli alloggi avverrà normalmente nella ricorrenza della festa della Repubblica”.
Proprio sul criterio di sorteggio, si focalizza subito il dibattito in Commissione, con il relatore di maggioranza Mariano Rumor favorevole, contrapposto al relatore di minoranza, Giuseppe Di Vittorio. L’opposizione ritiene anche che debbano essere cercate fonti di finanziamento alternative a quella della trattenuta obbligatoria, ma soprattutto chiede una assegnazione “ secondo criteri valutativi delle condizioni del bisogno familiare”. Nel passaggio al Senato, dicembre 1948, sarà abolita la logica del sorteggio, e si ridurrà al 50% la quota degli alloggi da assegnare in proprietà.
Parallelamente all’ iter istituzionale, sul Piano Fanfani si sviluppa un ampio dibattito. Favorevole naturalmente il mondo vicino alla Democrazia cristiana, come “Operare”, rivista dei quadri dirigenti e imprenditoriali cattolici, che sostiene l’inserimento del piano in un più vasto programma di rilancio industriale, e curiosamente suggerisce di “iniziare la costruzione delle case prima della raccolta dei contributi, per creare in anticipo una atmosfera di maggior consenso e fiducia”. Emerge, evidente, la questione dell’immagine, del consenso, del forte ruolo di azione dimostrativa già assunto dal piano in fase di elaborazione. Del resto anche dai commenti favorevoli emerge l’obiettiva inadeguatezza del programma ad avviare davvero a soluzione i problemi dell’occupazione e della casa: bene il piano Fanfani, ma “non si devono ad oggi escludere altre forme di intervento statale dirette ad affrontare il problema della casa con visione realistica e con mezzi adeguati”.
Ci si chiede anche quale possa essere la reazione di un lavoratore che vede il proprio magro salario sottoposto a prelievo forzoso, con la prospettiva nel migliore dei casi “di riscuoterne il cumulo forsanche a sessantatre anni o dal miraggio di diventare, tra sessantatre e settanta anni, proprietario d’un ignoto alloggio a Girgenti mentr’egli vive a Torino”. Continuerà, questo lavoratore, a sostenere il governo e le sue politiche? Forse sarebbe meglio lasciare la costruzione di case all’iniziativa privata, con un risparmio non più forzoso ma volontario, tenendo conto anche del fatto che alla nuova occupazione creata dalle trattenute, si contrapporrebbe comunque la nuova disoccupazione generata dalla conseguente contrazione dei consumi. In definitiva “non è col piano Fanfani che viene risolta la suprema esigenza postulata da milioni e milioni di italiani, che anelano quattro mura proprie per sottrarsi a speculazioni ignobili e ritrovare la pace e la serenità domestica”, ma attraverso un intervento dello Stato che metta in condizione la libera impresa e il libero risparmio di realizzare abitazioni a prezzo accessibile. In conclusione “ognuno dovrebbe sentire la dignità e l’orgoglio di provvedere alla costruzione della propria casa [...] senza pretendere a aspettare interventi governativi, che applicati alla generalità sarebbero disastrosi per le finanze dello Stato”.
Padre Agostino Gemelli invita a pregare per la riuscita del piano, e Francesco Vito più concretamente liquida le proposte alternative della sinistra, per una ricostruzione programmata: “piuttosto che baloccarsi con progetti utopistici, meglio valeva affrontare subito il problema, incoraggiando in tutti i modi le costruzioni”.
Sarcastico il commento dell’opposizione comunista di fronte all’“incredibile parto della fantasia del prof. Fanfani”. Fingere di promuovere l’occupazione e la costruzione di case è operazione “socialdemagogica”, che produrrà al massimo un “grosso e dispendiosissimo carrozzone parastatale finanziato dal risparmio forzoso dei lavoratori”.
Nel febbraio del 1949 il piano conclude l’ iter parlamentare, con tre importanti modifiche rispetto al progetto originario: la quota del 50% di alloggi in affitto; il criterio di assegnazione non più a sorteggio ma secondo graduatorie di merito; il piano di finanziamento e le relative quote di contributi. L’opposizione riconosce i miglioramenti, ma richiede alcune modifiche strutturali, comunque respinte. Il tono del dibattito è ben riassunto da una battuta: “Questo disegno di legge [...] è controproducente; viene ad interferire come un corpo estraneo in tutto il problema delle costruzioni edilizie [...] Di rospi ve ne sono di due categorie: vi sono quelli che si mettono verticalmente - e sono facili ad ingoiare - e vi sono quelli che si mettono di traverso nell’esofago, sicché diventa una cosa impossibile trangugiarli. Il piano in esame è di questa seconda categoria: è un rospo difficilmente trangugiabile! Una voce al centro. Ma noi abbiamo lo stomaco buono!”. Il relatore di maggioranza, Mariano Rumor, ricorda a chi non se ne fosse accorto che la fine di febbraio è anche la fine dell’inverno: “Ormai la stagione delle costruzioni è alle porte, il bisogno c’è [[...]] E’ per questo che noi invitiamo l’opposizione a farsi comprensiva e ad aiutarci a fare di questa legge uno strumento di lavoro per i lavoratori italiani ( applausi al centro e a destra)”.
Operatività
La “macchina” del piano Fanfani inizia subito a marciare a pieno regime. In poche settimane, dopo l’approvazione, si costituiscono i due enti deliberante ed operativo - Il Comitato di attuazione e la Gestione Ina-Casa - si emanano i regolamenti, si articolano i rapporti con le stazioni appaltanti e con il mondo professionale preposto alla redazione dei progetti. Il primo cartello segnalante l’apertura di un cantiere Ina-Casa, con un investimento di 36 milioni per 18 alloggi, è alzato a Colleferro, in provincia di Roma, già nel luglio 1949: è solo la punta di un iceberg programmatorio e attuativo, che a partire da una struttura centrale leggera riesce a coordinare il sistema a rete decentrato, sfruttando al meglio le peculiarità italiane dell’impresa artigianale, dello studio professionale, anziché creare ex novo grandi apparati. Riemergono elementi alla base delle riflessioni di Fanfani nei Colloqui sui poveri: piani tecnicamente ineccepibili, ma nello stesso tempo in grado di dialogare personalmente con tutti i soggetti coinvolti. Gli architetti chiamati a redigere i progetti dovranno soddisfare i “bisogni spirituali e materiali dell’uomo, dell’uomo reale e non di un essere astratto: dell’uomo, cioè, che non ama e non comprende le ripetizioni infinite e monotone dello stesso tipo di abitazione fra le quali non distingue la propria”. E’ l’esatto opposto di quanto l’immaginario collettivo identifica nell’accezione di “casa popolare”: un oggetto d’uso, un servizio, ma sempre molto lontano da qualcosa in cui la famiglia italiana, di radice e cultura contadina, possa identificarsi. Nemmeno le opinioni correnti dei ceti medi e della borghesia (il cui consenso pure è ricercato da Fanfani) sembrano scostarsi molto da questa idea. Ne L’Orologio di Carlo Levi, il quartiere Garbatella è descritto come “architettura [...] fatta con boria e disprezzo, per un popolo considerato inferiore [[...] perché ci viva dentro tutte le sue povere ore, nel modo più scomodo e doloroso”. A ricomporre questa frattura tra architetti e immaginario collettivo, i progettisti dell’Ina-Casa sono invitati implicitamente ad un approccio, per dirla con il Fanfani del 1942, di Colloquio con la committenza.
I critici individuano abbastanza chiaramente come il piano somigli molto ad un puro programma di creazione del consenso, di cui l’enorme aspettativa di proprietà della casa costituiscono il cuore, e l’incremento occupazionale, e la costruzione di case, solo la facciata. Di più. Il governo si sta creando con il denaro di tutti i contribuenti una base di piccoli proprietari: “ La metà del piano Fanfani, così come stato approvato, costituisce un fortissimo regalo non necessario fatto a una minoranza, e non la più bisognosa, coi denari di tutti, e quindi con danno della generalità”.
Anche commentatori non pregiudizialmente critici iniziano a porsi alcune questioni sulla sua natura e i suoi obiettivi reali: ha al centro l’occupazione, oppure la costruzione di case? “combattere la disoccupazione costruendo case là dove queste sono meno necessarie [...] avrebbe sì risolto la crisi delle abitazioni in alcuni comuni, ma avrebbe ritardato la risoluzione del problema in tutto il paese. La lotta quindi alla disoccupazione [...] non costituisce il motivo principale del piano ma piuttosto una sua conseguenza. Se così è, la finalità principale del piano è la costruzione di case”. Si stigmatizza come la portata del piano sia stata gonfiata nel periodo antecedente l’approvazione, sia sul versante dei posti di lavoro che su quello della costruzione di case, mettendo in ombra l’attività del Ministero dei Lavori pubblici, sede competente per gli interventi nel settore. Dal canto suo l’opposizione di sinistra, ottenendo il 50% degli alloggi in locazione, non riesce a modificare l’idea di fondo della legge, e la sua capacità di entrare in sinergia con le aspettative della maggioranza dei lavoratori italiani, e men che meno “ad inquadrare l’intervento dell’Ina-Casa in un processo di programmazione dell’offerta pubblica e di controllo dell’espansione urbana”. Il piano si inserisce nei programmi governativi: riforma agraria, provvedimenti per il Mezzogiorno, vari interventi di tipo sociale “per la verità assai frammentari, ma legati ad una dimensione ben presente nell’ideologia democratico-cristiana - il solidarismo - che ispirò quei provvedimenti e altri presi successivamente”. L’Ina-Casa, coinvolge ampi strati di borghesia legata alle professioni. Inizia, soprattutto al sud, l’epoca in cui all’ombra degli investimenti pubblici “Ingegneri, architetti, avvocati e ragionieri, purchè collegati ai nuovi padrini delle città, poterono guardare con gioia ad anni di attività lucrose e di posizioni influenti [...] Per la classe operaia la storia fu naturalmente abbastanza diversa”. Inizia, anche, il “miracolo” italiano, con i suoi costi in termini di migrazioni, squilibri, crisi dell’agricoltura, congestione, sottrazione di risorse ai servizi per investimenti in autostrade. In questo complesso, il piano Fanfani si inserisce senza problemi, con le sue dichiarazioni di praticato localismo, centralità della famiglia e della comunità, di valorizzazione dell’impresa artigiana e dello studio professionale contro la tipizzazione dell’industria e dei think tanks.
Amintore Fanfani, anche se ha quasi subito abbandonato il Ministero del lavoro per altri incarichi, continua a pensare al piano come ad una propria creatura, foriera di immagine pubblica e di consenso. Per la Pasqua dell’Anno Santo 1950, gli viene affidata una “conversazione” radiofonica sul tema quaresimale Opere di misericordia corporale, e ci si può immaginare che molti dei possessori di apparecchi radiofonici, quella sera siano in ascolto, se non altro in assenza di meglio. Il tema scelto da Fanfani è Alloggiare i pellegrini, e dopo qualche divagazione storica, quasi fatalmente, il ministro proponente il piano Ina-Casa si chiede davanti alla vasta platea: chi sono, i pellegrini di oggi? Risposta: i senza casa, le vittime del sovraffollamento, delle distruzioni belliche, della promiscuità forzata. Opera di misericordia corporale, nella società contemporanea, è di conseguenza contribuire all’attuazione del piano Ina-Casa, la cui “idea ispiratrice [...] ed il modo con il quale da tutti sono versati i fondi [...] consente di dire che esso fa accogliere dalla comunità italiana nel suo complesso l’invito cristiano di alloggiare i pellegrini”. Si ricordino allora, che “son [...] avvisati del merito soprannaturale ed aggiuntivo che possono procurarsi ideatori, amministratori, architetti, ingegneri, operai, contribuenti che collaborano alla riuscita di questo piano”. Non è la certezza del Paradiso, ma ci manca poco.
Ancora nel 1950 Fanfani tratta su Operare il tema del rapporto fra disoccupazione, stabilità sociale, intervento pubblico nell’economia. Emerge, l’idea che la lotta alla disoccupazione non possa essere affrontata con politiche di lavori pubblici tradizionali, se essi non sono tesi a ricostruire un tessuto senza il quale “il disoccupato fatalmente è candidato alla sovversione. Fatalmente”. Tra i vari rimedi citati a questo proposito dal professor Fanfani, quello sperimentato in una impresa privata, che con incentivi economici convince le lavoratrici a tornare casalinghe, liberando posti di lavoro che saranno occupati da capifamiglia maschi. Come non paragonare, questo singolare esempio di incremento occupazione operaia maschile e rafforzamento del focolare domestico, con il circuito virtuoso lavoro-casa-famiglia-società alla base del piano Ina-Casa?
Un circuito virtuoso che, anche cifre alla mano, sembra funzionare: nel dicembre 1949, a soli sei mesi dall’approvazione della legge, inizia a scendere il numero dei disoccupati, da 2.226.290 a 2.055.606. Una variazione lieve, ma a parere di alcuni commentatori significativa dell’inversione di tendenza indotta.
Di diverso avviso l’opposizione di sinistra, che con il Piano del lavoro proposto nel 1950 dalla Cgil indica di nuovo i limiti “strategici” del Piano incremento occupazione operaia: essere un’azione in qualche modo positiva, ma non commisurata alla portata dei problemi aperti, e votata più alla visibilità che alla sostanza. La relazione sul tema specifico della casa nel quadro del Piano del lavoro, è affidata a Irenio Diotallevi e Franco Marescotti, che sin dagli anni trenta con Ordine e destino della casa popolare, si erano imposti come punta avanzata della ricerca e della divulgazione in materia di edilizia economica. L’architettura della loro proposta prende il via dalle considerazioni statistiche di un dei più benevoli critici dell’Ina-Casa, e inquadra i temi del fabbisogno generale, pregresso e futuro definendo una struttura organizzativa entro cui “vengono chiamati direttamente in causa lo Stato, per l’impegno finanziario, la Regione, come specifico organo direttivo, e l’Ente locale come proprietario ed esecutore dei lavori: organismi che per la loro natura ed importanza, si possono considerare come i più atti ad impossessarsi del problema ed a risolverlo, a dare cioè ad ogni famiglia italiana una casa conforme ai suoi bisogni ed al suo libero e pacifico sviluppo”.
E’, quello della Cgil, un ambizioso programma di politica economica per conseguire la piena occupazione, lasciando i ricchi un po’ meno ricchi ma ancora decisamente ricchi, come conclude tra le risate dei presenti Giuseppe Di Vittorio: tanto più ambizioso quanto irrealizzabile, portatore di un progetto di società ben diverso da quello incarnato da Fanfani. Più che un “contropiano”, dunque, un manifesto, un tentativo della sinistra di uscire dall’isolamento politico dopo la sconfitta del 1948.
Alle grandi affermazioni di principio del Piano del lavoro, si contrappone la concretezza e visibilità dell’ormai avviatissimo piano Fanfani: alloggi consegnati, quartieri terminati, e avvio della riflessione da parte degli architetti. Il giudizio dei progettisti in questa prima fase sembra orientato all’ottimismo, e Renato Bonelli si fa portavoce di questo clima sostenendo la scelta del Comitato di attuazione di evitare la progettazione d’ufficio, rivolgendosi alla libera professione, più attenta alle particolarità locali e ai bisogni delle famiglie: “ciò rappresenta [...] rivalutazione della loro figura professionale sotto l’aspetto sociale e tecnico”. Saverio Muratori sottolinea invece la capacità del piano di utilizzare al meglio le potenzialità della cultura architettonica italiana, sia dal punto di vista tecnico-progettuale che nell’organizzazione produttiva e articolazione territoriale. Da un lato, quindi, la Gestione Ina-Casa come organo di coordinamento, garanzia, controllo, stimolo e divulgazione. Dall’altra la rete della libera professione, con la sua capacità di fungere da tramite fra bisogni reali della società e organi istituzionali. In più, “è merito della Gestione avere, contro il malinteso industrialismo del nostro tempo esaltante l’aspetto quantitativo su quello qualitativo”. In definitiva, il ricorso ai liberi professionisti ha portato nei progetti Ina-Casa “elementi che sono essenziali del nostro spirito latino, ossia l’impronta personale del progettista in ogni fabbricato e il carattere ambientale”.
Al 1951 è stata avviata la costruzione di 96.000 alloggi, di cui il 30% terminati, e la metà di questi già abitati, distribuiti in quasi 2.500 comuni, molti di piccole dimensioni, con una capillarità di presenza mai riscontrata in Italia. Questa diluizione territoriale delle realizzazioni, insieme al loro essere un “manifesto” del nuovo modo di abitare, ne enfatizza la visibilità: tutti iniziano a conoscere e riconoscere le "case Fanfani", il loro modo di “offrire ai lavoratori le condizioni per sentirsi veramente a casa propria”. Anche gli emigrati in Europa o in America, sul periodico a loro dedicato, “Italiani nel mondo”, possono leggere di una nazione molto diversa da quella che hanno forzatamente abbandonato, dove ora si può vivere in abitazioni “con caratteristiche architettoniche e funzionali di tono elevato, tali da favorire un elevamento del livello sociale dei locatari”. Oltre le celebrazioni, parlano comunque le cifre. Solo nel 1950-51 cantieri Ina-Casa hanno assorbito 10 milioni di giornate lavorative, corrispondenti in media all’occupazione continuativa di 50.000 operai. Ancora più ragguardevole, anche se difficile da stimare, l’effetto sull’occupazione delle industrie correlate.
Ma ci sono altre cifre. Al 1951 risultano in Italia 10.630.000 abitazioni, occupate da 11.374.000 famiglie, di cui 219.000 “improprie”: grotte, baracche, barche, botteghe e magazzini. Con questi presupposti, si chiede qualcuno, ha senso investire risorse in direzione della casa da cedere in proprietà, come nel caso del Piano Fanfani? L’investimento pubblico in questa direzione “congela” risorse edilizie, anziché metterle a disposizione di chi è effettivamente bisognoso. In altre parole alla cessazione dello stato di bisogno dovrebbe cessare il beneficio della casa a buon mercato, e ciò non è certo possibile cedendo in proprietà gli alloggi. Un altro fronte aperto è la riduzione dei costi attraverso studi e ricerche che dovranno comprendere tutto il ciclo dall’identificazione dei bisogni, alla progettazione urbanistica e reperimento delle aree, alla sperimentazione di nuove tecniche costruttive, di organizzazione del cantiere e degli studi di progettazione. Si indica il prototipo di questa sperimentazione nel QT8 di Milano e in parte, a livello nazionale, negli alti standards residenziali perseguiti dalle case Fanfani, con tipologie che “hanno incontrato il favore del pubblico e si vanno ora diffondendo ad opera dell’iniziativa privata”.
Un’occasione per riflettere sui temi sociali e progettuali del piano, è il volume in occasione del Congresso dell'Istituto nazionale di urbanistica di Venezia del 1952, che ne presenta le realizzazioni. Adriano Olivetti nella prefazione loda la scelta di realizzare quartieri, anziché interventi singoli. Bruno Zevi ne ripercorre le vicende, a partire dal febbraio 1949, in cui con l’approvazione della legge finiva “un inverno duro per gli architetti e nebbioso per le prospettive edilizie. [...] Gli architetti, nella nuova società democratica che emergeva dalle immani distruzioni belliche [...] erano alla ricerca di una nuova clientela, più vasta della precedente che era allora economicamente sconfitta”. Ancora il ruolo chiave della libera professione, dunque, che però Zevi declina secondo modalità nuove, indicando nell’Ina-Casa il trait d‘union fra i lavoratori e gli architetti, forze sociali vive, complementari, ma sinora estranee. Per mantenere e rinsaldare questo nuovo patto occorre mantenere vivo lo spirito iniziale, evitando la burocratizzazione organizzativa e l’appiattimento tecnico, per realizzare “nuove abitazioni veramente capaci di contribuire ad elevare il tono di vita materiale e morale della classi lavoratrici”.
Evoluzione
Con il consolidamento e l’inizio di evoluzione del piano nei primi anni cinquanta, si dileguano definitivamente le perplessità sul prelievo forzoso, che nelle discussioni parlamentari aveva suscitato tante polemiche: l’avvio della ripresa economica rende accettabile l’idea di perdere lo 0,6% del proprio stipendio. Risolta la questione del prelievo obbligatorio, ne restano aperte molte altre, tra cui quella dei criteri di assegnazione: situazioni di emergenza abitativa create ad hoc per guadagnare punti, corrispondente esclusione di famiglie aventi diritto, ed infine collocazione “fuori mercato” dei fitti e delle quote di riscatto (anche rispetto all’edilizia popolare non Ina-Casa), rendono improcrastinabile una riforma dei criteri di assegnazione. Mentre si intravede la certezza di proroga dell’Ina-Casa per un secondo settennio, le proposte di riforma riguardano un maggior legame con il territorio (più lunga presenza in loco del lavoratore contribuente/assegnatario), e con il piano (più lunga serie di trattenute, invece dell’unica mensilità richiesta dal programma originario). Altro miglioramento auspicato, è quello del rapporto tra Ina-Casa ed enti locali, che l’evoluzione materiale del programma in direzione della “politica dei quartieri” aveva di fatto reso molto più stretto: “Il piano [...] ha dovuto riconoscere il quartiere come elemento ultimo per il suo investimento: non la casa singola. Ed è per questo che il piano ha avuto bisogno del comune, per concretarsi, e ha finito per potenziarne la funzione urbanistica. E’ probabilmente lungo questa direttrice che bisognerà progredire”.
Al tema del quartiere si lega strettamente l’indagine campionaria sulle preferenze degli assegnatari, con l’esordio degli assistenti/animatori sociali. Recuperando lo spirito con cui nel 1930 il giovane Fanfani entrava nelle case dei poveri, ora i nuovi operatori verificano quanto il trait d’union teorizzato da Bruno Zevi sia effettivamente operante. Il rapporto finale della ricerca si focalizza su due punti: il piano dove è collocato l’alloggio, e il ruolo della cucina nel contesto dell’abitazione. In sintesi, l’insieme delle risposte si riassume in un atteggiamento ostile alla maggior parte delle innovazioni introdotte dai progettisti, e delinea aspirazioni a una vita familiare vicina nell’immaginario collettivo a quella borghese, quanto lontana dalle promiscuità popolaresche dei quartieri storici e dell’edilizia rurale che avevano influenzato parte della ricerca progettuale. Un conservatorismo degli assegnatari che ben si coniuga con l’idea - forte e vincente - del piano come veicolo di graduale modernizzazione senza fratture della società italiana, in grado di mettere in comunicazione l’ambiente culturale delle città e delle professioni, con quello diffuso delle campagne e dei notabili locali. Il tutto, con un’attenzione particolare alla massima attenuazione dei conflitti: da quelli sull’entità del prelievo forzoso, a quelli sull’inaccettabilità socio-familiare dell’alloggio.
Non è certo un caso se, alla vigilia di scadenza del primo settennio, viene attivato il Servizio sociale, a riempire un vuoto che la politica in tema di case popolari del fascismo aveva totalmente trascurato: l’enorme iato tra individuo/famiglia di tradizione contadina e società complessa nel quadro dell’insediamento urbano. L’attivazione del servizio sociale, di fatto, sanziona il passaggio dal progetto al processo: gli spazi di alloggio e di quartiere non saranno più terreno di caccia esclusivo per architetti e/o burocrati, ma luogo di interazione e partecipazione. Il percorso è lungo, e di fatto attraverserà un importante periodo della storia italiana recente, ma un dato è incontestabile: la creazione dei nuovi alloggi e quartieri finanziati dal piano Ina-Casa, con il coinvolgimento di molte forze sociali e professionali, rappresenta un percorso di modernizzazione organico.
In questo, oltre le idee di società solidale cattolica alla base del piano, sta la forza di un programma i cui risultati sono ancora visibili ed eloquenti. Anche al turista più distratto appena uscito dal centro storico.
Titolo originale:The Case for Paleo-Urbanism– Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Circa venticinque anni fa, un costruttore e una coppia di architetti decisero di mettersi insieme per realizzare una cittadina che avrebbe radicalmente messo in discussione il senso comune dei costruttori contemporanei, e violato le convenzionali norme di zoning della maggior parte delle città del Nord America. A differenza di qualunque altro insediamento di quell’anno, pensarono lo spazio pubblico di quella città mettendo prima di tutto al centro il verde, da cui si irraggiavano le strade, culminanti in punti focali di interesse architettonico. Erano strade strette e fiancheggiate da ampi marciapiedi, a dimostrare che i pedoni avevano tanto diritto di star lì quanto le auto. Le case erano costruite vicine le une alle altre, e abbastanza vicino al marciapiede da poter tenere una conversazione dal portico con chi passava senza alzare la voce. Invece del solito mare di saracinesche da garage, sul fronte delle case c’erano basse recinzioni e porte per esseri umani a dare il benvenuto. Non era proibito l’accesso alle auto, ma si richiedeva si usare per tutte le case un vicolo sul retro per entrare nei garages. Anche se si trattava di un complesso di soli tre ettari, esso comprendeva una serie di funzioni (commercio, edifici pubblici, residenza) e insieme una miscela di tipi di abitazioni (casette isolate, appartamenti, abitazioni sopra i negozi).
A parte la rete irraggiante di strade, questa nuova cittadina “rivoluzionaria” non era tanto diversa dal tipo di piccolo centro o quartiere che si era costruito per decenni in tutto il Nord America sino a prima della seconda guerra mondiale. Ma nonostante ciò, la maggior parte degli operatori del settore pensavano che Seaside, Florida, avrebbe fallito. Non andò così. A dire il vero ebbe tanto successo che i valori immobiliari lì superarono quelli degli altri complessi nella zona dieci a uno. Negli anni seguenti, furono iniziati parecchi complessi di questo tipo “neo-tradizionale”. Undici anni dopo, architetti e costruttori di questi complessi collaborarono alla nascita del movimento diventato noto come New Urbanism. Ora esistono circa 650 insediamenti New Urbanist in vari stadi di sviluppo in tutto il Nord America. La maggior parte funziona molto bene nel libero mercato. Negli ambienti governativi ai vari livelli, molti urbanisti che dieci anni fa avrebbero solo visto una trasgressione alle norme di zoning, in queste strade strette e quartieri a funzioni miste, sono fra i più decisi sostenitori del New Urbanism o del suo movimento parallelo, la Smart Growth.
Non tutti sono convinti del successo economico dei New Urbanists e della loro accettazione da parte della gilda dei pianificatori. Il geografo David Harvey vede il pericolo che essi compiano alcuni degli stessi errori dei modernisti che criticano. Una delle preoccupazioni sollevate da Harvey nel suo articolo “The New Urbanism and the Communitarian Trap” (Harvard Design Magazine, 1997: 1- disponibile anche qui su Eddyburg), è la questione implicita in tutte le forme di utopismo. Precisamente, Harvey mette in guardia riguardo alla convinzione che cambiando l’ambiente si cambiano i comportamenti: “il movimento non riconosce che le difficoltà fondamentale col modernismo era la sua persistente abitudine di privilegiare le forme spaziali rispetto ai processi sociali”. Anche se si tratta di un avvertimento legittimo per qualunque movimento che si concentri sull’ambiente costruito, questo non è necessariamente il fato del New Urbanism. Chi sta al di fuori vede i piani di queste nuove città, ma quello che non vede è il processo a molti strati che sta dietro ai piani. I nuovi urbanisti hanno messo a punto un processo di charrette in cui i soggetti interessati, gli esperti, e in generale la comunità si riuniscono per fissare priorità e stendere i progetti. A differenza della classica “assemblea pubblica” che è di solito concepita per sciogliere critiche e resistenze rispetto a un progetto già esistente, in una charrette i partecipanti costruiscono il piano dalle fondamenta, e vedono le proprie idee messe in pratica.
Un’altra critica nei confronti del New Urbanism è il suo sottile storicismo e pervasiva qualità nostalgica. Dopo l’invito del governatore del Mississippi che chiamava 100 personalità New Urbanist a un consulto sulla ricostruzione delle città costiere distrutte dall’uragano Katrina, Eric Owen Moss, Direttore del Southern California Institute of Architecture, ha commentato che i nuovi urbanisti avrebbero offerto una “soluzione in scatola” per ricostruire la costa del Mississippi. Che la loro progettazione tradizionale avrebbe ricordato “un tipo di Mississippi anacronistico che anela ai bei vecchi giorni dello Old South tanto lenti ed equilibrati, piacevoli e ariosi, quando ogni persona sapeva stare al proprio posto” (Blair Kamin, “Mississippi Rocks the Boat with Bold Coastal Designs”, Chicago Tribune, 18 ottobre 2005). Se molti costruttori dell’area New Urbanist sono caduti nell’abitudine di offrire ai propri clienti una scelta piuttosto ristretta di tipologie storiche fra cui scegliere, si tratta di una risposta diretta a una domanda di mercato, e non di una base del movimento. I critici dell’architettura di solito mancano di comprendere l’importante distinzione fra architettura e urbanistica quando sparano certe bordate ai tentativi New Urbanist. I nuovi urbanisti sono molto più preoccupati di fare buona urbanistica – come gli edifici si rapportano con la strada e l’uno con l’altro, come funziona l’ambiente pubblico – di quanto non si interessino a qualunque particolare stile architettonico. Anche il paradigmatico intervento di Seaside contiene di tutto, dal colonial all’avanguardia, nella progettazione architettonica.
E infine, il New Urbanism è accusato di servire una specifica ed esclusiva categoria demografica: “Il new urbanism è essenzialmente un movimento bianco ed elitario - sostiene il teologo Glenn Smith, professore di teologia urbana alla McGill University di Montreal” (K. Connie Kang, “New Urban Model Becomes Article of Faith”, Los Angeles Times, 25 giugno 2005 - disponibile anche su Eddyburg). Non conta che la stessa accusa possa essere rivolta – come raramente avviene – anche contro il movimento ambientalista. Una critica del genere rappresenta una sfida significativa al senso di lungo termine del New Urbanism. Non credo che elitarismo e esclusività stiano nelle intenzioni dei sostenitori del movimento, ma i New Urbanists sono diventati vittime del proprio stesso successo. Ci sono così tante brutte, convenzionali, lottizzazioni suburbane che si costruiscono e, per contro, tanti pochi interventi realizzati con un po’ di buona urbanistica, che la domanda per una buona pianificazione tende a scappare verso i quartieri New Urbanist appena si rendono disponibili sul mercato.
Comunque, anche se il mercato inizia a correggersi e le abitazioni in un complesso New Urban diventano competitive con quelle in una lottizzazione suburbana, il problema dell’esclusività non è stato affrontato adeguatamente. Solo una piccola percentuale della popolazione nordamericana ricade nella categoria del nuovo acquirente di case. In più, molti americani vivono in appartamenti o case nelle parti vecchie delle città. Per la maggior parte di queste persone la percentuale di nuove case orientate al New Urbanism e lontane dal modo suburbano avrà pochi effetti sulla qualità della vita. Per fortuna, parecchi dei vecchi quartieri e centri urbani, dove vivono molte persone, hanno carattere urbano tradizionale anziché suburbano.
Questi quartieri sotto osservazione nelle città e cittadine costituiscono la scorta paleo-urbanistica del nord America. Sono stato introdotto al termine “ paleo-urbanistico” con Howard Ahmanson durante un convegno a Seaside, Florida, nel 2002. Molti di questi quartieri hanno bisogno di investimenti privati, aggiustamenti delle infrastrutture, scuole migliori. Ma hanno “buone ossa” in una prospettiva urbanistica. Il successo del New Urbanism si misurerà non da quanti nuovi interventi si riusciranno a realizzare entro un particolare periodo, ma da come la spinta generata da questi interventi saprà diffondersi nel tessuto urbano esistente del Nord America. D’altra parte, l’esperienza urbana collettiva di chi vive e forma questi insediamenti storici conferisce legittimità a progetti New Urban vulnerabili alle accuse di utopismo e nostalgia. Col paleo-urbanism che comincia ad apparire più nuovo e il new urbanism che inizia a mostrarsi un po’ più vecchio, credo si possa recuperare il senso positivo della forza vitale della buona urbanistica.
Come pastore, mi piace paragonare questo processo al ruolo dei movimenti di riforma interni alla chiesa. Sono il primo ad ammettere che la chiesa locale solidamente radicata nella tradizione storica sia piuttosto lontana dall’essere perfetta. Cosa più importante, queste chiese sono spesso sorde alle critiche e lente a cambiare. È raro che un vero cambiamento avvenga dall’interno della chiesa. Ma, nel corso della storia, sono emersi movimenti di riforma contro questi limiti. Molti dall’interno vedevano i movimento come una minaccia e li criticavano aspramente di voler togliere fedeli alla chiesa. Ma in generale vedo in questi movimenti un aiuto profetico alle chiese per riconoscere i propri limiti e operare i necessari cambiamenti. Nonostante questo giudizio positivo generale, riconosco anche che questi movimenti aiutano le riforme, ma non sostituiscono il ministero della chiesa locale.
Lo stesso mi pare per il New Urbanism nei confronti delle comunità paleo-urbanist. Le città, cittadine e quartieri con radici storiche costituiscono le forme e ambienti specifici dove devono essere vissute le nostre esistenze collettive. Fra cinquant’anni, qualche complesso New Urbanist diverrà storicamente radicato. Per adesso, li si comprende meglio in quanto movimenti di riforma. Il loro successo deve essere valutato non in base al mercato o al numero delle realizzazioni, ma piuttosto su come la loro esistenza migliora la qualità degli ambienti urbani tradizionali. Possiamo già dire che il loro effetto è stato positivo. In molte vecchie città, cittadine e quartieri si ripensano le norme di zoning, le larghezze stradali, gli standards dei parcheggi, secondo modalità New Urbanist. E vediamo tornare l’ambiente pubblico in molte comunità urbane. Nella misura in cui di queste trasformazioni si debba dar credito ai pionieri del New Urbanism, io applaudo i New Urbanists. Senza un collegamento vitale con la vita civica in senso ampio, il movimento potrebbe davvero essere a rischio di utopismo, nostalgia, ed elitarismo. Se il New Urbanism vuole evitare questo destino, deve considerare seriamente prospettive ed esperienze di chi vive negli ambienti paleo-urbani.
Nota: il testo originale di questo assai più originale, stravagante, assertivo articolo al sito di Comment Magazine ; forse a qualcuno potrà anche interessare la mia recensione del libro di Jacobsen, I Marciapiedi del Cielo (f.b.)
Nel lunghissimo elenco delle grandi opere del Cavaliere è esattamente definita “asse viario Marche Umbria e quadrilatero di penetrazione interna”. Il valore complessivo messo in gara è di 2.094 milioni di euro. Per la sua realizzazione, ci saranno due contraenti generali per la scelta dei quali sono in corso le gare: una con un importo di 1.296 milioni e una di 798. È stata la prima grande opera presentata, come “progetto pilota”, con una conferenza stampa, addirittura prima dell’emanazione del decreto legislativo 190 del 2002 con il quale si è data attuazione alla cosiddetta legge obiettivo (443/2001).
Il quadrilatero è però una grande opera solo dal punto di vista virtuale. Si compone in realtà di una serie di strade umbro-marchigiane sulle quali sono previsti interventi di completamento, integrazione e riqualificazione. Quella sulla quale è previsto l'intervento di riqualificazione più lungo, 42 chilometri, è la SS 77 che collega Foligno a Civitanova Marche. Nel programma delle due regioni interessate le priorità erano altre, ma proprio questa è la strada che attraversa il collegio elettorale nel quale è stato candidato il viceministro dell’economia Mario Baldassarri. Il secondo intervento, parallelo al primo, è quello sull’asse Perugia-Ancona (SS 76 E SS 318) con lavori per una lunghezza di 31 chilometri. Oltre che su questi due assi paralleli sono previsti un’altra decina di piccoli interventi, fra i quali due collegamenti trasversali che vanno a comporre una sorta di quadrilatero. Dunque l’esigenza era molto semplice: riqualificare e completare strade, e solo strade, per uno sviluppo complessivo di 158,50 km. Eppure su questa semplice esigenza si è costruita un’architettura contrattuale e finanziaria che solo la mente contorta di qualche cultore della complicazione poteva immaginare. Lo studio prevede un finanziamento diretto dello Stato, e in parte delle Regioni Umbria e Marche, che dovrebbe coprire circa l’84 per cento del costo. La “novità finanziaria” della Public-Private Partnership dovrebbe garantire il restante 16 per cento, composto da circa il 15 per cento di apporto in termini di equity (capitale di rischio della società incaricata della realizzazione) e per l’11 per cento dalla “cattura del valore” prodotto sul territorio dagli interventi. A gestire il tutto sarà un soggetto unico che, come per il Ponte sullo Stretto e come per l’alta velocità, sarà una società di diritto privato, una Spa, denominata “Quadrilatero Marche-Umbria Spa”, con capitale posseduto tutto e solo da soci pubblici: 51 per cento Anas Spa, il 49 per cento da Sviluppo Italia Spa.
Il soggetto attuatore, oltre a realizzare le strade con i contraenti generali, gestirà per trent’anni un “Piano di area vasta” (Pav) del quadrilatero con il quale dovrebbe garantire appunto i cosiddetti “ricavi da cattura del valore”. Il Pav coinvolge ben 58 comuni, sul territorio dei quali verranno individuate le “aree leader” (previste dallo studio in numero di sette per una superficie complessiva di 700-800mila metri quadri e per un volume edificabile di 1,9-2 milioni di metri cubi) e le “aree produttive industriali, artigianali e terziarie” interessate e valorizzate dalle nuove infrastrutture. I ricavi provenienti dalla “cattura del valore” dovrebbero essere prodotti da due azioni distinte. Una è la realizzazione delle “aree leader”, l’altra, coinvolge in modo diffuso tutto il territorio ed è quella che dovrebbe catturare ed attualizzare il “valore futuro” prodotto dalle nuove infrastrutture. L’apporto finanziario derivante da un complicato ed oneroso impegno dei comuni e delle camere di commercio (ergo dei cittadini attraverso l’Ici e delle piccole imprese locali per la maggiorazione della tassa di iscrizione), potrebbe però diventare addirittura insignificante. La percentuale dell’11 per cento, derivante dalla cattura del valore, è stata calcolata in base ad uno studio di fattibilità del 2001 che stimava il costo complessivo in 1.399 milioni di euro. Il costo stimato per le stesse opere dal governo, con il Dpef 2003-2005, era di 1.808 milioni. Con la delibera del Cipe del dicembre 2003 il costo è salito ancora fino a toccare i 2.157 milioni. Con il Dpef 2005-2008 il costo è stimato in 2.322 milioni di euro. E i cantieri ancora devono essere aperti. Quadrilatero Spa, con l’affidamento della progettazione e la realizzazione delle opere ai contraenti generali, assumerà degli impegni contrattuali sulla base di progetti non esecutivi e con una relazione contrattuale che produrrà una inevitabile lievitazione dei costi, come dimostra la storia ultradecennale della Tav, e che porterà la cosiddetta cattura del valore a coprire al massimo il 3-4 per cento dei costi. Un risultato davvero straordinario per un “progetto pilota” di finanza di progetto innovativa.
E che dire dell’impatto sulla struttura imprenditoriale locale? Che senso ha fare due maxi-gare, aggregando artificiosamente degli interventi su tratti di strade distinti e di dimensioni limitate (fra i quali, due di 3 km, uno di 8 km), in due regioni prive di grandi imprese, anzi caratterizzate da un tessuto di piccole e medie? Perché intervenire con due maxi-gare per i pochissimi e noti contraenti generali, anziché con più gare di appalto alle quali potrebbero partecipare centinaia di imprese anche umbro-marchigiane? E che dire del significato dirompente del Pav nei confronti della pianificazione urbanistica e territoriale degli enti locali, del ribaltamento dei ruoli tra amministrazioni pubbliche – garanti dell’interesse comune – esautorate della loro potestà pianificatoria, che viene data in mano ad una società di diritto privato, che ha il solo compito di garantire un’architettura finanziaria fatta tutta e solo di risorse pubbliche dirette e indirette? Vale la pena il “sacco” del territorio delle due regioni in cambio di ulteriori e certi debiti futuri?
La risposta è anche in una domanda, posta ai ministri competenti con una interpellanza, dai senatori Anna Donati, Paolo Brutti e Tana De Zulueta, nella quale rilevavano che “il vice ministro Mario Baldassarri è stato candidato alle elezioni politiche del 2001 nel collegio n° 4 di Macerata, senza essere stato eletto deputato; tale collegio è interessato dalla infrastruttura denominata Quadrilatero”, e chiedevano “se non ritengano che il vice ministro Mario Baldassarri utilizzi il suo ruolo di segretario del Cipe per servirsi della promozione del progetto Quadrilatero come propaganda elettorale a fini personali e di parte”.
A Roma, nella periferia sud, in fondo a via Gerocarne, oltre gli argini del Tevere, nel canneto una donna e un uomo abitano insieme. Vengono dalla Romania. Poco lontano, stesi sul prato, ci sono i loro vestiti ad asciugare. La riva del fiume è lì davanti, un passo oltre e sei nell’acqua. Pochi metri più in là, un sentiero tra la vegetazione rivela una roulotte, una tettoia, qualche sedia, una doccia arrangiata con il bidone in alto. Tra le canne, una sedia bianca in plastica, opportunamente modificata, è il bagno. Ancora oltre, fili per stendere i panni rivelano altre presenze umane. Presenze precarie ma anche luoghi “arredati” in un modo che ti sorprende, nel senso che non ci avresti mai pensato che si poteva ri-dare senso a tante di quelle cose che buttiamo.
Poco prima, proprio sull’argine del fiume, Giorgio, rumeno anche lui, ha messo insieme una roulotte, qualche tettoia, divani, mobili, sedie, ha anche un letto per il figlio che la domenica lo viene a trovare. Non ha mai parlato con la donna e con l’uomo rumeni che vivono nel canneto. Lui non si nasconde anzi, la sua baracca è visibile da tutti e lui vede la borgata ex abusiva, gli abitanti lo conoscono e ha un buon rapporto con loro. Una baracca sull’argine del fiume, una bicicletta per muoversi sono molto meglio di quell’appartamento a Ostia vicino al Todis dove abitavano in ventuno con un solo bagno. Qui lui ha anche la doccia.
Se si risale verso Magliana, dove il fiume piega un po’, si trova una vera e propria baraccopoli come quelle delle metropoli dell’altro mondo, ma anche come i tuguri degli anni ’60. Anche qui rumeni, qualche giorno fa un incendio, per il momento solo una baracca bruciata. Risali il fiume e in centro, in pieno centro, sotto i ponti e lungo le sponde del Tevere una presenza continua e diffusa di un abitare precario che va avanti da tempo. Più a nord, verso Tor di Quinto e, ancora, nella zona oltre l’aeroporto dell’urbe altre presenze di un abitare sul “bordo”.
Che tipo di periferia è questa che attraversa il centro e che ci sta davanti mentre svolgiamo le nostre attività quotidiane? O, piuttosto, di che “cosa” è periferia? Cos’è quello che sta attorno a quello che semplicemente indichiamo come periferia? Dov'è il centro di questa periferia, quel luogo da cui secondo un movimento centrifugo giungono fino a qui queste tracce?
La periferia messa a fuoco e fiamme non illumina il degrado sociale e fisico dei quartieri ma tradisce la rimozione di un pensiero sulla città, su cosa è diventata la città, sulle disuguaglianze prodotte, qui e altrove, dal modello economico neoliberista.
E’ vero o non è vero che da tempo le città non sono più nell’agenda politica pubblica? E’ vero o non è vero che la sicurezza urbana è il modo, ormai prevalente, con cui le città entrano nei dibattiti, nelle agende della politica (ma ne escono presto, quanti si ricordano ancora oggi delle polemiche estive del 2003 attorno agli omicidi avvenuti nella periferia Milanese, a Rozzano?).
Si può cambiare rotta? Possiamo tornare a guardare le città come a luoghi dell’innovazione, della crescita e della giustizia sociale? La risposta deve essere si, e bisogna fare in modo che le città (non solo le periferie) tornino ad essere un tema centrale nel momento in cui ci si appresta a formulare il programma di governo.
I dati positivi sulla crescita del Pil, come dei posti di lavoro, registrati dalle principali città italiane, non bastano e, anzi, ci nascondono una crisi che si trascina, si radicalizza e che modifica strutturalmente il carattere delle città. La crescita degli indicatori economici, registrata dalle statistiche, non ci dice nulla sulle persone che sono dovute andare via dalla città, in provincia, in cerca di casa, su dove portano i figli a scuola, su dove trovano spazi di socialità e di solidarietà. L’emergenza ambientale registrata nelle grandi città italiane è solo la manifestazione ultima di una sofferenza sociale, di disagi di uomini, di donne, di ragazzi e ragazze, di bambini e anziani. La manifestazione del bisogno di spazi dell’abitare, di possibilità di spostamento, di cultura e di opportunità di socialità. Per questo non basta la tecnologia pulita applicata all’automobile, il problema è di natura diversa. Oggi, spostarsi dentro le città è più difficile di ieri, lo si fa più lentamente. Le proteste dei pendolari che viaggiano sui treni regionali sono la spia accesa sulla carenza dei treni ma, anche, sulla difficoltà più generale di vivere e lavorare in città. Non sono anche queste storie di periferia?
Le periferie di Parigi sono a fuoco e fiamme ma in pochi hanno accennato qualche perché, qualche ragione. Pare che anche in questo caso si avanzi la giustificazione di rito, l’integralismo islamico, e si costruisce così il velo che nasconde le nostre contraddizioni. Ad esempio, c’entra o non c’entra l’emergenza casa? C’entra o non c’entra che anche in Francia non si costruiscono più case popolari e che i municipi quelle che hanno le vendono? C’entra o non c’entra che non ti basta uno stipendio per avere in affitto un bilocale? C’entra o non c’entra che su 340 mila richiedenti un alloggio nell’area parigina non c’è alcuna disponibilità di alloggi? C’entra o non c’entra la corsa senza fine del mercato immobiliare, canoni e valori degli immobili cresciuti a dismisura. Il più lungo ciclo immobiliare di segno positivo, cominciato già nel 1996, molto prima della bolla della new economy e delle torri gemelle. C’entra o non c’entra la redistribuzione della ricchezza che sta producendo una sempre più accentuata polarizzazione tra ricchi e poveri. C’entra o non c’entra che circa 6 milioni di persone in Francia sono relegati in quartieri-ghetto delle grandi città dalle quali sono stati esclusi fisicamente e socialmente. Siamo sicuri che non c'entra nulla il nostro passato e come nell’ultimo film di Haneke non abbiamo “Niente da nascondere”?
Il problema non è nel degrado delle periferie, nei bassi livelli di vita e di vivibilità dei quartieri, questi sono solo i risultati più evidenti di un malessere.
Solidarietà e partecipazione si stanno diffondendo e attraversano le città non solo più nelle periferie. In molti casi queste forme rappresentano l’unico modo per soddisfare bisogni essenziali: realizzare un parco, costruire un asilo, una casa o una struttura per ospitare gli immigrati. Le esperienze cooperative e del volontariato sono oggi una risorsa importante per rispondere nei contesti urbani ai bisogni primari (forse è anche per questo che da noi la situazione è meno incandescente). Ma sono anche la misura della febbre del crescente disagio sociale provocato dall’arretramento delle politiche pubbliche di welfare.
E’ per questo che sempre più forte e urgente si fa il bisogno di un nuovo progetto politico con valenza strategica e di interesse nazionale che colga la sfida di collegare lo sviluppo economico e le aree urbane secondo principi di equità e di giustizia. Per questo il soggetto pubblico deve recuperare autorevolezza e tornare a fare la regia dei processi di trasformazione urbana. Non si può essere fraintesi se si afferma che oggi la carenza principale del soggetto pubblico non sta nelle risorse economiche ma nella capacità di formulare con chiarezza politiche pubbliche. Abbiamo bisogno di più mercato ma il mercato ha bisogno di più pubblico, e se guardiamo alle città comprendiamo quanto questa esigenza non si possa più rinviare oltre.
Le città sono cresciute, la campagna si è fatta metropoli senza passare per la città. Ciò che abbiamo davanti non è stabile, non è definitivo è, ancora, “disordine, precarietà tanto più grave e pericoloso perché si presenta sotto forma di agio, di meno peggio – mentre tutto, invece, sarebbe ancora da cominciare”. Cominciare, appunto, chiedendosi: Periferie si, ma di cosa?
Uno dei cardini del programma dell'attuale governo sono stati, e sono tuttora, i grandi progetti infrastrutturali, quasi tutti di trasporto. Per accelerarne l'iter, è poi stata varata la "Legge Obiettivo".
Grandi, costose e inutili
Le risorse finanziarie pubbliche disponibili sono apparse da subito largamente insufficienti, quindi si è molto puntato sul ruolo dei privati ("Project Financing"). Ma anche su questo versante sono sorti immediatamente gravi problemi, poiché i traffici (reali) previsti sono risultati modesti.
Si è ricorso allora a "privati" che tali non sono, come Fs o Fintecna, e ad ampie garanzie pubbliche per gli investitori, garanzie che di fatto rappresentano una spesa pubblica "mascherata". Oppure si sono tassati in modo occulto tutti gli utenti, come nel caso degli investimenti di Autostrade per l'Italia, attraverso il rialzo generalizzato delle tariffe su tutta la rete.
Che in tutto il mondo i "grandi progetti" cari ai politici abbiano generato risultati economici generalmente disastrosi, è d'altronde cosa nota agli studiosi del settore. (1)
Tuttavia, nessuno nel governo ha preso spunto da queste vicende per mettere in dubbio la necessità di molte di queste opere (pur essendo lo scarso traffico un forte segnale in tal senso). Gianfranco Miccichè, viceministro per il Mezzogiorno, è stato l'eccezione quando ha dichiarato alla stampa che "(...) il ponte sullo stretto di Messina non è prioritario (…)", ma solo per il breve spazio di un mattino.
Alcune Regioni, come Umbria e Toscana, non vogliono le opere che le riguardano, perché le giudicano inutili. Le ferrovie hanno tentato invano di proporre al Cipe una soluzione meno costosa del prolungamento dell'alta velocità fino alla Sicilia, perché ritengono che non ci sarà mai abbastanza domanda.
I francesi hanno acconsentito a partecipare alla linea alta velocità Torino-Lione solo dopo che l'Italia, molto generosamente, si è accollata il 63 per cento dei costi (hanno valutato insufficiente il traffico). L'Europa ha accettato di includere il ponte sullo Stretto tra le opere prioritarie solo dopo straordinarie pressioni politiche. Il motivo del diniego era ancora una volta il traffico insufficiente.
Alcuni studi indipendenti fatti dal Politecnico e dall'Università Cattolica hanno dimostrato che per molte opere il rapporto tra costi e benefici è fortemente negativo. Una recente indagine tra gli imprenditori del Mezzogiorno ha confermato il loro scarso interesse per le grandi infrastrutture.
Negli ultimi tempi, però, al governo si è affiancata Confindustria, richiedendo che per le grandi opere non valgano i vincoli di Maastricht (la cosiddetta "golden rule"). Incredibilmente anche l'Ulivo si è unito al coro: per bocca dell'ex ministro dei Trasporti, Pier Luigi Bersani, ha tacciato di inefficienza il governo, e ha promesso molte più grandi opere in caso di vittoria.
Una tentazione irresistibile
La tentazione del cemento si dimostra irresistibile non solo in Italia: la Commissione Van Miert ha presentato uno studio "rigoroso", da cui risulta che qualsiasi opera è giustificata purché piaccia ai promotori politici.
Perché la tentazione del cemento è così irresistibile? Cerchiamo di capirlo.
· Nessuno saprà che l'opera è uno spreco di preziose risorse: ci vogliono anni a finirla, poi si inaugurerà, e qualcuno la userà (magari il governo è cambiato eccetera). Cioè: visibilità politica immediata, e problemi di efficienza occultati o comunque dilazionati nel tempo. Basta definire "strategica" qualsiasi sciocchezza tecnica.
· Anche i politici locali in genere son contenti (le eccezioni citate confermano la regola). E così le banche che costruiscono i programmi finanziari garantiti, e ovviamente le imprese di costruzione, spesso "vicine" ai politici locali (il settore non è "foot loose", non si possono acquistare ferrovie o strade già pronte).
· Gli utenti sono comunque contenti (anche se sono troppo pochi per giustificare la spesa).
· Il settore è uno dei pochissimi rimasti in cui si possono spendere molti soldi per il consenso politico, senza incappare in quei noiosi vincoli europei agli aiuti di Stato.
Ma è poi così grave costruire un po' di opere di dubbia utilità? Prima o poi serviranno comunque. Non sarebbe grave se i soldi pubblici fossero abbondanti, o non vi fossero destinazioni alternative della spesa. O se questa spesa avesse un importante impatto anticiclico, oppure incentivasse straordinariamente il progresso tecnologico del paese, o ne valorizzasse le preziose risorse ambientali.
Ma non esiste nessuna di queste condizioni. I soldi sono scarsissimi, le destinazioni alternative molto più promettenti anche in termini strettamente economici (ricerca, patrimonio artistico-ambientale, e così via). I "picchi" di spesa e di occupazione arriveranno tra molti anni (quando, si spera, il ciclo non continuerà a essere negativo). Il settore delle opere civili è tecnologicamente maturo, molte grandi opere hanno impatti ambientali perlomeno discutibili.
C'è infine il rischio di cantieri aperti con fondi insufficienti a finire le opere con devastanti "stop and go" (cantieri chiusi e riaperti) per anni a venire.
La distruzione di ricchezza realizzata da opere di scarsa utilità economica vanifica ogni contenuto reale di eventuali ricorsi alla "golden rule".
Ma nessuno lo saprà. L'opposizione apra almeno un confronto serio sulle priorità di spesa e sui modi per valutarle, invece di riproporsi in sciagurati "inseguimenti".
(1) Vedi per esempio due recenti ricerche, una tedesca di Werner Rothengatter e una americana di Alan Altshuler. Ma le stesse traversie finanziarie del tunnel della Manica, fallito di fatto due volte per traffico insufficiente, sono un caso emblematico
Dal dossier Il tunnel della discordia del sito lavoce.info
Titolo originale: Rethinking the Urban Speedway – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
Per decenni gli ingegneri stradali si sono concentrati sulla progettazione di strade più larghe, dritte, veloci. Ora il solo movimento rapido del traffico non è più l’unico obiettivo.
Provate ad attraversare Trenton insieme a Gary Toth e Yosry Bekhiet: potreste concluderne che questi due ingegneri stradali sono gli ultimi due automobilisti del New Jersey che rispettano scrupolosamente i limiti di velocità. Bekhiet, dietro al volante di una Chevy Cavalier di proprietà statale, accelera sulla rampa di ingresso alla superstrada veloce urbana, e poi si tiene fisso sulla corsia di destra, esattamente a settanta all’ora. Toth, sul sedile del passeggero, indica la cupola dorata dello state capitol mentre le altre sfilano via la bianca Chevy. “Vado su questa strada a 70,” dice Toth, “e la gente mi sorpassa a cento”.
La State Route 29, attraverso Trenton, è stata costruita come tutte le altre strade degli Stati Uniti, per la velocità. Gli ingegneri che l’hanno progettata negli anni ’50 hanno intuito che gli automobilisti avrebbero potuto correre un po’ troppo. E così per motivi di sicurezza hanno fatto la strada un po’ più dritta e le corsie un tantino più larghe di quanto il limite di velocità rendeva necessario. All’epoca si credeva che questo fosse un tipo di progettazione prudente: e molti dei contemporanei anche oggi confermerebbero questa idea. Per la maggior parte della propria carriera dentro al Department of Transportation del New Jersey, è la cosa che hanno creduto anche Toth e Bekhiet.
Ma negli ultimi tempi i due ingegneri si sono convinti che questa Route 29 fuori misura fosse solo più pericolosa. L’averla progettata per i guidatori più veloci, pensano oggi, ha semplicemente incoraggiato la gente ad andare ancora più in fretta. Notano che di recente gli incidenti in un breve tratto hanno ucciso sei persone. “La soluzione ingegneristica tradizionale ai problemi stradali è di rendere la strada più larga, più dritta, più veloce” dice Toth. “Beh, più larga, più dritta e più veloce non significa sempre migliore”.
Toth e Bekhiet hanno sviluppato altre critiche alla progettazione della Route 29. La prima è un problema di flusso del traffico. Ci sono solo alcuni punti in cui gli automobilisti possono uscire dalla superstrada. Questo vuol dire che sulle spalle della Route 29 pesa quasi tutto il carico delle auto che si spostano attraverso Trenton. Quando la strada si intasa nelle ore di punta o dopo una partita di baseball delle divisioni minori, le auto non hanno altra scelta se non aspettare di uscire dall’ingorgo. La seconda critica riguarda la posizione della Route 29. Sta in rilevato lungo il Delaware River, tagliando fuori completamente il centro di Trenton dalle rive. Migliaia di dipendenti statali lavorano in un edificio a un tiro di sasso dal fiume, ma tutto quello che vedono sono cemento e guard-rail. “Il Delaware River potrebbe anche stare a centinaia di chilometri di distanza” dice Bekhiet.
Nessuna delle critiche degli ingegneri alla Route 29 è nuova. Per vent’anni, la municipalità di Trenton ha implorato il Department of Transportation (DOT) di smantellare questa strada a scorrimento veloce. “È come essere alla 500 miglia di Indianapolis, là fuori” racconta il sindaco Douglas Palmer. La cosa nuova, e del tutto stupefacente per chiunque abbia familiarità con le politiche dei trasporti, è che sono gli stessi ingegneri – alla fine – a dirlo.
Ed è sorprendente, perché gli ingegneri stradali hanno sempre avuto una meritata e famigerata reputazione di dogmatica inflessibilità. Per mezzo secolo, hanno teso ad applicare la formula del più-grande-è-meglio-è a qualunque strada su cui lavoravano, alla ricerca di un fine monodimensionale: muovere quante più auto possibile nel modo più rapido e sicuro possibile. Lungo il percorso, il DOT ha estirpato quartieri, danneggiato strade commerciali e distrutto qualunque paesaggio, tipicamente imponendo alla collettività i propri progetti e priorità, senza cercare alcun riscontro da parte del pubblico. Amministratori locali, attivisti di comitati, e addirittura alcuni degli stessi ingeneri, sono arrivati a definire questa mentalità con una frase significativa: “Design and defend.”
Ma negli ultimi cinque anni, più o meno, il clero degli ingegneri stradali ha cominciato a convertirsi ad un’altra religione. Tendono sempre più a prendere in considerazione un tipo di progetto che rallenti le auto. Stanno imparando a prestare attenzione ai pedoni, ai ciclisti, a tutti quanti condividono la strada con le automobili. E stanno iniziando ad ascoltare il pubblico prima, e non dopo, la redazione dei loro disegni. Il design and defend è finito. La nuova frase alla moda è “context sensitivity”.
La Route 29 a Trenton è un buon esempio del nuovo atteggiamento mentale. Gli ingegneri statali nel passato prendevano in giro l’idea dell’amministrazione municipale di buttar via la superstrada veloce e rimpiazzarla con un viale urbano a traffico più lento. Ora Toth, a capo del settore pianificazione del DOT, e Bekhiet, ingegnere responsabile per questo progetto, dedicano notevoli energie alla sua riuscita. Le ultime ipotesi prevedono che la nuova strada venga immersa entro una densa trama di nuove vie centrali. Ci saranno parecchi semafori, che consentano ai pedoni di attraversare dalla città verso il fiume. Ad essere sinceri, guidare attraverso Trenton prenderà più tempo: uno o due minuti in più, secondo i modelli del traffico. Ma c’è anche un rovescio della medaglia: Trenton riavrà il suo waterfront, oltre a una decina di ettari di superfici liberate per realizzare un quartiere di uffici e condomini che favoriscano camminare anziché guidare.
Al DOT si stanno smuovendo le burocrazie, e nel profondo c’è ancora resistenza a questa filosofia. Il progetto per Trenton, racconta Toth, è più controverso all’interno di quell’ufficio di 4.000 persone, che non all’esterno. “C’è gente che dice: Cosa? Strappare su un’autostrada per costruire un pezzo di città? Siete usciti di senno?”.
Ma di questi tempi un numero crescente di ingegneri si sta immergendo in un radicale dilemma, che contraddice tutta la loro formazione e l’esperienza di tutta una carriera. L’idea è questa: in alcuni casi, l’obiettivo è quello di spostare meno auto, non di più. “Non ci avevo pensato, nei miei primi venticinque anni qui” dice Toth, veterano che lavora al DOT da 32 anni. “La nostra missione era di costruire strade. Perché le costruivamo? Perché la gente deve andare a lavorare, a far spese, a ballare. Ma cosa succederebbe se non riuscissimo più a costruire strade abbastanza veloci?”.
LA REGOLA DEL RICETTARIO
L’emergere si questo punto di vista si lega al completamento dello Interstate Highway System. Costruire una rete stradale nazionale negli anni seguenti alla seconda guerra mondiale richiedeva che gli stati utilizzassero rigorosamente una progettazione uniforme. Chiuso quel lavoro nei primi anni ’90, i Dipartimenti ai Trasporti rivolsero la propria attenzione a sistemare a ampliare le strade statali.
Si tratta di arterie che attraversano contesti molto diversi da quelli del sistema Interstate: ad esempio vie urbane principali sono tecnicamente strade statali. Ma gli ingegneri restavano attaccati ai propri calcoli da epoca Interstate, elencati in dettaglio in un tomo da oltre 900 pagine noto tra tutti i professionisti come il “Green Book”. Il Green Book a dire il vero consentiva un buon margine di flessibilità ai progetti. Ma gli ingegneri l’hanno sempre interpretato come se significasse solo chiedere corsie più ampie, margini più alti e ambienti ottimizzati per la guida veloce. “Avevamo letteralmente un esercito di migliaia di pianificatori, analisti ambientali, progettisti e ingegneri delle costruzioni che avevano realizzato per decenni il sistema Interstate, ed erano abituati a questo approccio standardizzato” racconta Hal Kassoff, consulente che ha lavorato come capo del DOT in Maryland dal 1984 al 1996. “Era una rotta di collisione”.
Sempre più spesso, i DOT si sono trovati a combattere contro amministrazioni locali, gruppi ambientalisti, di tutela storica, di quartiere. Il punto di rottura diventava via via caratteristicamente familiare. Gli ingegneri volevano allargare le strade, togliere gli alberi o i marciapiedi, ammassare nuovi ponti, mentre gli oppositori pensavano bastasse una semplice riasfaltatura o riparazione di ponte. Gradualmente i DOT hanno cominciato a capire che dovevano diventare più flessibili se volevano completare i progetti anziché impuntarsi. Scott Bradley, responsabile per la landscape architecture al DOT del Minnesota, la mette così: “Il vecchio metodo del ricettario, di usare alcune linee guida e inserirle nel computer per capire quale sarebbe stato l’aspetto fisico della strada, non funzionava più”.
La prima reazione interna all’ambiente degli ingegneri stradali inizia verso la fine degli anni ’90, col nome di “context-sensitive design”. I progettisti non potevano più pensare strade considerando solo la dimensione dell’asfalto. Ora, avrebbero dovuto tener conto anche del contesto. La strada attraversa un paesaggio? Un quartiere urbano? Una zona commerciale? L’ambiente conta. Anche i metodi contano: i DOT avrebbero chiesto agli interessati, ovvero di solito la gente che si era opposta ai progetti, come volevano fosse progettata la strada.
Improvvisamente, progetti stradali fermi da tempo iniziarono di nuovo ad avanzare. Il modello indicato da tutti gli ingegneri era quello della Paris Pike nel Kentucky rurale. La vecchia strada a due corsie correva attraverso un paesaggio storico di basse colline, muri di pietra e scuderie. Il Kentucky aveva da lungo tempo previsto di allargare e raddrizzare la Paris Pike in una fiammante freeway a quattro corsie. Gli attivisti della conservazione storica avevano costretto il progetto in tribunale per decenni. Poi venne il context-sensitive design, e gli ingegneri cominciarono improvvisamente a adattarsi ai propri rivali. Guidarono la Paris Pike a seguire il paesaggio collinare, anziché tagliare dritto nel mezzo. Le pareti in pietra che dovevano essere demolite sarebbero state ricostruite. Si realizzarono guard-rail di aspetto attraente in legno. Il prodotto finale, consegnato qualche anno fa, assomiglia più a una parkwaydegli anni ’20 che a una freeway dei ‘60.
Il context-sensitive design produceva spesso risultati migliori, ma il metodo era ancora incostante. I DOT continuavano a considerare i rapporti col pubblico come un elemento correttivo di seconda battuta. Quello che più conta, molti ingegneri iniziarono a pensare in termini di elementi superficiali – sottopassi ricoperti di mattoni o strisce centrali piantate a fiori – come specchietti per le allodole con cui conquistarsi l’opposizione locale. Gli ingegneri, preferivano concentrarsi su aspetti estetici anziché confrontarsi con i propri assunti di base riguardo alle strade.
Un recente progetto in Connecticut, sventolato come context-sensitive design, rappresenta un caso interessante. Il DOT statale ha costruito un ponte nel centro città di Willimantic gioiosamente presidiato da quattro statue giganti di rane: in omaggio alle rumorose rane-toro che sorpresero i primi coloni nel ‘700. Il “ponte delle rane” ora è una popolare attrazione locale. Ma non aspettatevi di vederci nessuno passare a piedi, dice Norman Garrick, professore di ingegneria all’Università del Connecticut. “Resta un ambiente ostile ai pedoni” nota. “I DOT nella maggior parte degli stati ritengono ancora che context-sensitive design abbia qualcosa a che fare con l’abbellimento della strada e gli espedienti estetici. Non affrontano il modo in cui le strade vengono progettate, come autostrade in mezzo alle città, a condizionarne il carattere urbano”.
Questo limite è quello a cui ora si rivolgono gli ingegneri. Ed è qui che comincia la vera rivoluzione di pensiero sulle strade. Il “context-sensitive design” si è evoluto in “context-sensitive solution”. La differenza è molto più che semantica. Il termine “design” presume, come hanno sempre fatto gli ingegneri, che i problemi del trasporto richiedano per essere risolti di qualche genere di costruzione. Il termine “solution” implica un punto di vista per obiettivi più ampi: un punto di vista che può anche risolversi in nessuna costruzione. Suggerisce, anche, che i rappresentanti della comunità locale possono avere idee migliori di quelle degli ingegneri, per affrontare il problema.
Consideriamo come sia cambiata la programmazione stradale in New Hampshire. L’ultima volta che lo stato ha prodotto un piano dei trasporti di lungo periodo dieci anni fa, sono stati gli ingegneri dell’ufficio a controllare l’agenda. “È stato un lavoro del tutto interno” racconta Ansel Sanborn, capo della programmazione al DOT. Ora è in corso di redazione un nuovo piano venticinquennale. Anziché stabilire direttamente e priorità, essenzialmente gli ingegneri si sono orientati verso un processo di coinvolgimento del pubblico, attraverso la ben nota New Hampshire Charitable Foundation. La fondazione, si conta, può far emergere un insieme di valori comunitari più ampio di quanto potrebbero mai gli ingegneri. “La gente dei trasporti è interessata a fare progetti di trasporti” spiega Sanborn. “La Charitable Foundation è interessata alle comunità”.
Una storia simile è accaduta nel vicino Vemont. Nel 1995, i gruppi della conservazione storica erano così stufi della Agency of Transportation statale che il Preservation Trust of Vermont pubblicò un intero libro su come opporsi alle decisioni dell’agenzia. Da allora questa ha trasformato il proprio approccio ai problemi. Sono stati riscritti i criteri di progettazione per adattarsi all’ambiente dei piccoli villaggi che caratterizza il Vermont. In più, i comitati consultivi cittadini ora giocano un ruolo più ampio nel decidere a quali progetti stradali dare priorità. Anche Paul Bruhn, direttore esecutivo del Preservation Trust, è colpito. “Ora abbiamo un’Agenzia molto più sensibile alle nostre preoccupazioni”.
INTERROMPERE UN CIRCOLO VIZIOSO
Il nuovo pensiero si sta infiltrando in quasi tutti i DOT, e anche negli studi di ingegneria che fungono da consulenti per stati e amministrazioni locali. Ma in nessun caso ha raggiunto il grado di complessità del New Jersey.
Ciò si deve in gran parte a Gary Toth, che sta riorientando i livelli intermedi degli uffici verso un nuovo atteggiamento. Toth ricorda di continuo ai suoi ingegneri che il Green Book a ben vedere è flessibile tanto quanto un piatto piccante: bisogna solo aver voglia di cucinare con ingredienti diversi. Circa 800 funzionari del DOT hanno frequentato corsi di formazione intensivi sulle context-sensitive solutions. Quando Toth si riunisce coi suoi responsabili di progetto, questi discutono gli uni con gli altri e si mettono insieme le idee, quasi come per un consulto medico. “È sorprendente” racconta David Burwell, consulente dei trasporti che ha collaborato col DOT del New Jersey e parecchi altri. “C’è molta più curiosità intellettuale per i modi di affrontare specifici problemi”.
Anche se Toth ha scoperto questa filosofia piuttosto avanti nella propria carriera, non prova alcun rimorso per il passato. Gli ingegneri sono problem-solvers, ama dire. Per la maggior parte della sua carriera lavorativa, da quelli come lui ci si aspettava che risolvessero i problemi dei trasporti entro un ambito ristretto di parametri auto-oriented. Ma anche gli ingegneri possono adeguarsi ai cambiamenti. “Gli ingegneri possono cambiare paradigma in fretta” continua Toth. “Bisogna, solo, dar loro un problema diverso da risolvere”.
Il nuovo problema di Toth è particolarmente intricato. Il suo capo, Commissario Jack Lettiere, è il principale seguace a livello nazionale di un’idea piuttosto radicale negli ambienti del trasporto: è possibile trovare una via d’uscita alla congestione da traffico. Ciò può essere particolarmente vero in New Jersey, più che in altre situazioni, e il New Jersey può anche rappresentare un caso pilota nazionale. I soldi per grandi progetti stradali scarseggiano perché lo stato, come altri, non ha aumentato le tasse sui carburanti da oltre dieci anni. Il New Jersey soffre anche, in certo modo, della propria maturità dal punto di vista dello sviluppo suburbano. Non è possibile allargare le arterie congestionate senza eliminare attività economiche, le cui corsie d’accesso e parcheggi sarebbero spazzati via.
Lettiere vuole che Toth e i suoi ingegneri interrompano questo circolo vizioso che è sfuggito dal controllo per anni. In passato, il DOT avrebbe verificato che una strada era congestionata, e poi l’avrebbe ampliata, o ne avrebbe costruita una nuova. Poi le amministrazioni locali, operando in modo indipendente, avrebbero approvato insediamenti residenziali o negozi big-box lungo queste strade. Presto le vie sarebbero state di nuovo congestionate e il ciclo sarebbe ricominciato. Il DOT sono sempre partiti dal presupposto che non c’era altra scelta se non di trovar posto a sempre più macchine. Ora, Lettiere crede nell’esatto contrario. “Per ridurre il traffico”, sostiene, “forse dovremmo ridurre il numero di spostamenti sulla strada”.
E per farlo, Toth è andato dove nessun DOT era mai andato prima. Ha fatto in modo che i suoi ingegneri fossero coinvolti nell’urbanistica locale. L’obiettivo è che gli insediamenti futuri favoriscano sia gli spostamenti a piedi che quelli in auto. È la verifica finale dell’atteggiamento context-sensitive solution. Il “contesto” di Toth è molto più ampio del solito: sono gli insediamenti residenziali, uffici e negozi collocati sulle ampie fasce delle statali.
Un esempio è la cittadina di Manalapan, nel New Jersey entrale. Ci passano attraverso due strade statali: la 9 e la 33. La prima è già affollata di negozi, parcheggi e traffico. La seconda, se non si interviene in qualche modo, probabilmente subirà lo stesso destino. Di recente, il sindaco di Manalapan ha chiesto aiuto a Lettiere per intervenire sulla Route 9. Quella battaglia è già persa in partenza, ha risposto Lettiere. Ma la Route 33 potrebbe ancora essere salvata.
Sinora, le idee di sviluppo si focalizzano in gran parte sulla proposta di un costruttore per realizzare un massiccio “lifestyle center” in un ex campo di soia. Il progetto comprende commercio, residenza, un cinema multisala, supermarket e campi sportivi. Si è scontrato con un muro di opposizione locale: soprattutto per il timore che il traffico intasi la Route 33. Il DOT ha organizzato un paio di laboratori partecipati per costruire idee alternative di progetto. Questi eventi hanno messo insieme il costruttore e funzionari locali dei trasporti e urbanistica, oltre a gruppi di cittadino, operatori economici e comitati di quartiere.
Dalle giornate di laboratorio, tenute in marzo e giugno, è emerso un conceptual plan rivisto. Il nuovo piano mette l’enfasi su ambienti stradali accoglienti per il pedone. Incoraggia anche le funzioni miste, in modo che la gente possa spostarsi da un negozio a un ristorante senza dover prendere la macchina. Toth fa notare che l’amministrazione di Manalapan ha chiesto al DOT di organizzare – e pagare – i laboratori.
Toth ha decine di altri progetti come questo in via di sviluppo. Sta emergendo un principio base, che infrange un’altra ortodossia del mondo ingegneristico. Per anni, si sono progettare reti stradali che funzionassero un po’ come sistemi sanguigni, con le strade più piccole ad alimentare le maggiori (e infatti il termine del Green Book per la grande strada è arterial). Toth è arrivato a credere che gli ingegneri stiano sottoponendo ad eccessiva pressione queste grandi strade. È convinto che funzionerebbe meglio un sistema a griglia più indifferenziata: in cui i guidatori hanno molte possibilità di scelta per muoversi, anziché una sola strada sovraccarica. “Abbiamo costruito una situazione dove chiunque esce a comprare un panino o il giornale deve imboccare la stessa via” dice Toth.
Questa teoria sta per essere verificata nella zona di Flemington. Le statali 202 e 31 sono le arterie principali attraverso il centro, entrambe fiancheggiate da fasce commerciali. Sopportano quasi tutto il traffico di attraversamento della zona, oltre a quello commerciale locale. Per vent’anni, il DOT ha avuto in progetto una circonvallazione. L’idea era di una freeway in sede separata con quattro corsie, costo previsto 150 milioni di dollari. Ora il DOT è troppo povero per questo genere di cose. E anche se l’ufficio avesse i soldi, Toth ritiene che una circonvallazione sarebbe uno spreco di risorse. Darebbe agli automobilisti solo un modo, anziché molti modi, per aggirare un ingorgo.
Attraverso un’altra serie di laboratori partecipati, il progetto è stato riesaminato. La circonvallazione è sparita. Al suo posto c’è un viale a due corsie che incrocia numerose strade laterali. Il DOT sosterrà anche le spese per il miglioramento di alcune strade secondarie per disperdere ulteriormente il traffico, e allentare il carico sulle statali 202 e 31. In tutto, il costo sarà la metà di quello originario. Mary Melfi, consigliera municipale a Flemington, apprezza il cambiamento. “Il New Jersey è tutta una strada” dice la signora Melfi. “Il DOT ha sempre voluto arterie a sei corsie, e ora non ne fanno più. Costruiranno venti chilometri di strade più piccole, anziché molti meno di vie più grandi”.
A dire il vero, in New Jersey si allargano ancora, le strade, quando la cosa ha senso e quando ci sono i soldi per sostenere le spese. “Non intendiamo arrenderci, in questi casi” dice Toth. “Ci interessa ancora il problema degli spostamenti motorizzati”. Ma il lavoro di progettazione delle strade non potrebbe essere più diverso rispetto a quando Toth è entrato al DOT 32 anni fa. Gli ingegneri non devono solo essere più carini e gentili. Devono diventare più creativi. “Se si legge un manuale, quella non è progettazione” conclude Toth. “È solo leggere un manuale”.
Nota: il testo originale al sito di Governing; per una comparazione con un caso (diverso ma simile) italiano, qui su Eddyburg la ACME Cremona-Mantova; scaricabile di seguito il file PDF di questa traduzione (f.b.)
Un Paese sull’orlo di una crisi di traffico
Per ricordare le cifre e i fatti della nostra follia, frutto di politiche cocciutamente sbagliatre. Da il Mulino, n. 5/2005
L’Italia, dove circolano circa trentacinque milioni di auto, detiene il primato mondiale della densità automobilistica: più di 600 automobili ogni 1.000 abitanti. Se questo è il prezzo da pagare per la libertà di movimento, è un prezzo insostenibile. Solo un ripensamento totale delle logiche che stanno alla base delle politiche dei trasporti e un’ampia programmazione possono rendere possibile l’uscita dall’ingorgo perenne.
Volevamo spaziare per il mondo e diventare un «popolo di navigatori, di trasmigratori». Non ce l’abbiamo fatta. Ci è invece riuscita un’impresa molto più esclusiva: quella di essere «il più grande popolo di automobilisti del mondo».
Il futuro è anticipato dalla capitale. Roma è arrivata a 932 auto ogni 1.000 abitanti, cioè più del doppio di Parigi, Londra e Madrid. Ma, in aggiunta alle auto, circolano oltre 560.000 fra motorini e scooter. Così si hanno più spostamenti in moto che su tutti i mezzi pubblici, autobus, tram e metropolitane. Anche questo è un primato mondiale assoluto. Altra notazione, non solo di colore, è che circolano più Smart a Roma che in tutta la Francia. Questa elevatissima densità di veicoli, più che fornire mobilità, genera traffico, cioè congestione, costi economici diretti e indiretti, danni alla salute e all’ambiente. Infine c’è un effetto boomerang, proprio sulla libertà personale: i romani possono permettersi poco più di 2 spostamenti al giorno, cioè casa e lavoro; a Parigi, a Londra, a Madrid si superano i 4 spostamenti, per fare anche altro, oltre il lavoro. Fra i costi indiretti, particolarmente pesanti sono quelli umani. Guardando la classifica Eurostat degli incidenti gravi causati dal traffico in 30 capitali europee, Roma è al vertice con 8,1 incidenti ogni 1.000 abitanti l’anno; ma se il primato era scontato, ciò che è davvero preoccupante è che Londra scende a 1/10 ed Helsinki addirittura a meno di 1/100 di Roma. Per sintetizzare in maniera efficace la situazione della capitale, basta riportare l’affermazione ripetuta sovente dal suo sindaco: «il problema dei problemi è il traffico».
Su scala nazionale, la Società Geografica Italiana ha calcolato che i danni del traffico bruciano il 20% del Pil. In particolare, gli incidenti stradali procurano, ogni anno, 6.500 morti e oltre 30.000 feriti. È come se pagassimo oltre tre volte i tributi umani che gli americani hanno finora lasciato in Iraq. Nonostante un leggero miglioramento apportato dalla patente a punti, non sembra esserci un cambiamento di tendenza. L’obiettivo fissato da Bruxelles di ridurre gli incidenti del 40% entro il 2010, peraltro ancora lontano per tutti i Paesi membri, da noi sembra una chimera. Il guaio è che, mentre la domanda di mobilità cresce a un ritmo superiore al 2% all’anno anche nell’attuale fase di stagnazione e, con un minimo di ripresa economica, ci può essere una crescita complessiva fino al 50% al 2020, la costruzione di nuove infrastrutture procede a passo di lumaca.
Questa situazione ha le sue radici nel dopoguerra, quando, in assenza di una qualsiasi programmazione nazionale, l’unica possibilità di muoversi per gli italiani fu quella di comprarsi l’auto. La soluzione, tutto sommato, ha funzionato, ma solo fintanto che è stato possibile utilizzare un immenso patrimonio storico, quello della rete stradale, locale e nazionale. Ma, quando si è raggiunta la saturazione, si è innescata una spirale perversa: sempre più auto e sempre meno mobilità. Ciò che è più grave è che ci siamo trovati completamente impreparati, senza idee e senza progetti.
Con un’unica eccezione. Agli inizi degli anni Novanta, Lorenzo Necci lanciò il progetto Tav (Treni ad alta velocità). L’obiettivo era non solo di far muovere meglio gli italiani, ma addirittura di modernizzare il Paese. Il modello era quello francese ma, purtroppo, la realizzazione è stata tutta italiana. Il risultato è che oggi, dopo quindici anni dall’apertura dei cantieri, non abbiamo ancora un solo metro di Tav in funzione. E quando finalmente qualche tratta comincerà a funzionare, non avremo la rete ferroviaria del futuro, ma solo qualche treno un po’ più veloce, con il dubbio che ci possa essere una reale sostenibilità economica. Ma una cosa è certa fin da ora: la Tav non ha alcuna possibilità di costituire un sistema di mobilità di massa alternativa all’auto in Italia. Dopo Necci, innovazione zero, neppure un’idea.
Anzi, Berlusconi ha rappresentato il ritorno al passato. Uno dei suoi principali cavalli di battaglia è stata la costruzione di strade e autostrade: Salerno-Reggio Calabria, Messina-Catania, Statale 106 Ionica, Livorno-Civitavecchia, Corridoio Tirrenico, Quadrilatero Umbria-Marche, Civitavecchia-Orte-Venezia, Pedemontana Veneta, Pedemontana Lombarda ecc. ecc. Si dirà che sono previste anche ferrovie, metropolitane, porti, aeroporti. Ma, a parte qualche intervento puntuale, le opere a carattere strategico sono solo ipotesi progettuali, a cominciare dall’Alta velocità Napoli-Reggio-Palermo e a finire ai grandi tunnel transalpini. Le ha tanto volute queste opere, Berlusconi, che con la Legge Obiettivo si è attribuito anche pieni poteri, così pieni da suscitare più di qualche perplessità a Bruxelles. Ma il fermo proposito di fare tanta strada è rimasto praticamente sulla carta, sia per i tempi sempre molto lenti sia per i costi sempre più elevati. E se non ci è riuscito Berlusconi, è impensabile che chiunque altro al suo posto trovi il tempo e i soldi per fare qualcosa come il 50% in più di strade e autostrade entro il 2020. È chiaro allora che se ci intestardiamo per questa via, andiamo a finire in un vicolo cieco. Che fare allora per superare quello che rappresenta un serio limite al nostro sviluppo?
Mobilità ed evoluzione
Innanzitutto, prima di cercare una soluzione, dobbiamo chiederci se lo sviluppo passa necessariamente per la mobilità. In alternativa, potremmo estendere il telelavoro e trovare nuovi svaghi navigando nelle realtà virtuali. Dopo tutto risparmieremmo tempo e danaro, ridurremmo gli incidenti, ci libereremmo dell’incubo dell’effetto serra. Basterebbe solo utilizzare di più la rete informatica. Questo scenario è possibile, anzi è già fra di noi. Ma non basta.
Il fatto è che la mobilità non è una nostra invenzione, ma viene davvero da molto lontano. Possiamo capirlo da una visione più completa di noi stessi e del mondo in cui viviamo che oggi stiamo costruendo. Eravamo convinti dell’essenzialità della materia e dell’energia. Ma, man mano che approfondiamo le nostre conoscenze, la realtà ci appare sempre più costruita su una più profonda e fondamentale componente: l’informazione. Questo cambia alla radice tutte le cose, perché l’informazione, a differenza della materia e dell’energia, non è «qualcosa», ma è una dinamica, anzi è un vero e proprio principio di creatività generale. Essa infatti non ha mai alcuna forma definitiva, però si conserva, si riproduce, si aggrega, si alimenta, si espande all’infinito. Cosicché, ogni entità di cui possiamo concepire l’esistenza, di qualsiasi grandezza essa sia, dalla particella elementare all’ammasso di galassie, e in qualsiasi natura possa presentarsi, dalla materia inerte al pensiero filosofico, risulta essere un sistema in grado di memorizzare, elaborare e scambiare informazioni con ogni altra entità e, infine, di svilupparsi e di generare, per interazione, sempre delle nuove entità. Ne risulta, in definitiva, un universo in evoluzione progressiva verso la complessità, cioè un universo fatto di creatività. Tutto questo iniziamo a intuirlo perché ora ne stiamo costruendo una pallidissima imitazione, che è il nostro infinitesimo, ma non meno creativo, universo informatico. E così, se prima dell’universo c’era lo zero, l’inizio della creazione è l’uno. Cioè il Big Bang è un bit, e non è quindi l’oggetto definito e definitivo della creazione, ma è l’inizio della creatività. E la mobilità ne è la prima immediata espressione. Attraverso di essa due informazione elementari convergono e si incontrano per generare un’informazione più complessa, in un processo che si autoalimenta.
In questo modo, la storia dell’universo si sviluppa progressivamente, prima con il mondo fisico, poi con il mondo biologico, infine con la specie umana. Ad ogni grado di evoluzione puntualmente si riscontra una mobilità con livelli crescenti di complessità. Essa è prima esclusivamente fisica, poi biologica e infine, grazie all’uomo, di natura progettuale.
La mobilità fisica nasce immediatamente a valle del Big Bang, e si realizza attraverso l’azione delle forze fondamentali. Sono esse che alimentano la crescente complessità della materia, fino alla soglia della vita. E con la vita emerge una nuova mobilità, non più azionata dalle forze esterne, ma generata autonomamente. Questa nuova mobilità sostiene efficacemente tutta l’evoluzione del processo della vita. Infatti si comincia con le piante, dove la mobilità, che è proprio allo stato nascente, riesce a svilupparsi solo nella parte più vitale ed evoluta di esse, cioè il seme. Con la comparsa degli animali, si ha un ulteriore salto perché ora è tutto l’organismo che si muove. I primi animali, tipo le spugne, sono poco più che un ammasso di cellule, organizzate in una semplice simmetria sferica. Tuttavia questa forma anatomica iniziale rende già possibile una mobilità indipendente, sia pure indistinta e casuale.
Poi anche la simmetria progredisce e diventa radiale, tipo le meduse. E di lì parte un salto di qualità che è la comparsa di un asse direzionale. Esso è talmente rilevante nell’organizzazione della vita che finisce col determinare la forma di tutto l’organismo. La rilevanza dell’asse direzionale è quella di generare una mobilità che non è più casuale, ma che ha definitivamente un senso: essa conduce sempre avanti nell’ambiente. Di conseguenza, come nel mondo fisico era emersa la freccia del tempo, ora nel mondo biologico emerge la freccia dello spazio. Questo fa sì che ora gli esseri viventi procedono più rapidamente verso l’evoluzione, essendone sospinti sia dalla irreversibilità del tempo che da quella dello spazio.
Si ha ora la differenziazione fra avanti e indietro, la duplicazione degli arti, soprattutto la formazione della testa con funzioni di coordinamento del movimento. Questa ultima anatomia diventa subito di grande successo e va quindi sempre più perfezionandosi, dai moscerini più elementari fino all’uomo.
L’evoluzione della testa come centro strategico della mobilità acquista alla fine una preponderanza decisiva. È per questo che alcune scimmie, assumendo l’andatura eretta, sugli altipiani africani conquistano un grande vantaggio di mobilità. Così nasce la specie umana, la quale grazie proprio alla sua maggiore mobilità, comincia una migrazione che la porterà a insediarsi stabilmente su tutto il pianeta.
Ciò che poi caratterizza lo sviluppo dell’uomo è che egli, fondendo insieme proprio le irreversibilità dello spazio e del tempo, ne fa la principale risorsa per progettare il proprio futuro, in cui, fra l’altro, c’è il suo originale contributo alla mobilità.
Così quando l’uomo acquista la libertà del cittadino, allora, simmetricamente, realizza una rete permanente di mobilità che di questa libertà garantisce l’uso. È ciò che fecero i Romani. Poi, quando il cittadino si espande verso una dimensione sociale, e nascono le democrazie sostanziali, allora si sviluppano i trasporti pubblici di massa; sono essi che rendono funzionali le società. Come hanno dimostrato i Paesi anglosassoni. E infine ora che l’uomo comincia a pensare allo sviluppo, non solo di sé stesso e della società, ma anche all’ambiente, allora la mobilità diventa sempre meno invasiva e sempre più integrata nella natura. Così, dopo la mobilità permanente e dopo la mobilità pubblica di massa, ora si sta sviluppando una mobilità fatta sempre meno di materia e di energia e sempre più di idee e informazioni, cioè una mobilità intelligente. Come dimostrano i Paesi oggi più avanzati, dove, fra l’altro, si è già consolidata un’attività industriale di avanguardia che viene denominata, appunto, «Intelligent Transportation System».
Le evidenze del sottosviluppo
L’Italia, che pur aveva contribuito allo sviluppo della creatività individuale, è poi rimasta indietro sia nell’attuazione di una democrazia sostanziale sia nell’avvio di uno sviluppo socio-ambientale. Non ci si può quindi sorprendere se ci siamo fermati all’auto personale e non abbiamo sviluppato un trasporto pubblico di massa e, tantomeno, abbiamo cominciato a pensare a una mobilità intelligente.
Il nostro ritardo ora è documentabile proprio con la sempre più evidente insufficienza del principale motore evolutivo delle società moderne, che è la capacità progettuale. Per fare un paragone a livello europeo, basta scorrere la Gazzetta ufficiale per le gare di progettazione delle opere pubbliche: l’Italia non solo è sistematicamente dietro alla Francia, alla Germania, alla Spagna, ma qualche volta è persino dietro a un Paese come la Lituania.
Diamo un’occhiata agli appalti pubblici: si resta quasi increduli nel constatare che i lavori vengono assegnati con ribassi astronomici. Nel 2003, il valore medio dei ribassi all’Anas è stato del 25,7%! Ciò vuol dire che al momento della gara il progetto è solo una finzione e che poi ciò che veramente si realizza non sarà un obiettivo generale di progresso per il Paese, ma sarà un interesse ristretto e non sempre trasparente di poche persone. Con la Legge-Obiettivo si è addirittura fatto un passo indietro, svalutando definitivamente la centralità del progetto e affidandone quel che resta alle cure, certamente non disinteressate, della stessa impresa di costruzione.
A scuotere questo persistente immobilismo, che fa molto comodo alla classe politica, arriva una sentenza di un tribunale amministrativo che fa il punto sul nostro ritardo e indica la direzione nella quale muoverci.
Il 12 maggio scorso, i giudici del Tar del Veneto, con sentenza n. 2234, hanno accolto le richieste di Italia Nostra, del Wwf e del Landmark Trust (un’associazione inglese presieduta da Carlo d’Inghilterra) e hanno azzerato le autorizzazioni per la costruzione dell’autostrada A31 Valdastico Sud (meglio nota come autostrada Pi.Ru.Bi. dal nome dei tre politici, Piccoli, Rumor, Bisaglia, che ne erano stati i promotori). La bocciatura del Tar è basata su tre punti: la mancanza di una visione strategica dello sviluppo da parte dei vertici politici; la incompletezza del progetto da parte della società concessionaria; l’esclusione dei cittadini nel processo decisionale. Per quanto riguarda il primo punto, la Corte scrive: «si impone una riconsiderazione della scelta di realizzare il tronco autostradale in questione nel contesto di una politica del territorio finora mancata, e di una valutazione critica di un modello economico di cui oggi emergono le connotazioni negative (legate essenzialmente allo spreco della risorsa-territorio)».
Per il secondo punto, secondo la Corte non è accettabile che la società concessionaria si sia limitata a presentare un progetto parziale e superficiale, senza inquadrarlo in uno studio completo della mobilità di tutta l’area, senza approfondire gli aspetti geologici, idrogeologici, paesaggistici, senza mettere a confronto le varianti e le alternative.
Infine, per il terzo punto la Corte stabilisce che «anche al cospetto del potere di vertice della pubblica amministrazione (Il Consiglio dei ministri) permane comunque la possibilità di contrasto e di tutela giurisdizionale da parte dei cittadini e delle associazioni». La sintesi più efficace e più preoccupante dei giudici di Venezia è riassunta nella dichiarazione che siamo di fronte a una «mancanza di democrazia sostanziale».
L’interesse della sentenza che abbiamo voluto citare sta nel fatto che tutte queste carenze derivano dall’inosservanza del quadro legislativo europeo. È proprio da qui che si potrebbe partire per far scoprire in Italia il ruolo centrale del progetto e la sua funzione trainante nel processo di sviluppo, soprattutto per quanto riguarda le infrastrutture di mobilità.
La centralità del progetto
Oggi ci sono due grandi opere, il Ponte di Messina e la Metro C di Roma, che stanno ancora per iniziare e che potrebbero fornire delle buone occasioni. Oltre trent’anni fa, la politica decide di fare «il Ponte più lungo del mondo», cioè un ponte sospeso a campata unica di 3.360 metri. E ciò indipendentemente dalle reali esigenze di traffico fra le due regioni da collegare e dalle effettive possibilità della tecnologia. Cioè, all’origine si parte senza un progetto; il risultato è che ancora oggi il progetto non c’è.
Il 1o agosto 2003 il Cipe dà il via alla gara di costruzione. In particolare, stabilisce che l’opera deve essere eseguita «con finanziamenti da reperire sui mercati internazionali senza garanzie da parte dello Stato». Ma, ancora una volta si tratta solo di una decisione politica, che copre un vero e proprio vuoto progettuale. Non a caso, infatti, nessuno dei tanto sbandierati finanziatori si presenta all’appello. Disinvoltamente, allora, il ministero delle Infrastrutture, sovvertendo la decisione del Cipe, in data 30 dicembre 2003, firma un nuovo contratto con la società concessionaria Stretto di Messina, per accollarsi, direttamente, il 50% dei costi preventivati e il resto, indirettamente, tramite le Ferrovie. Inoltre il ministero si fa carico del 100% dei costi imprevisti di costruzione e della totalità dei rischi di gestione. Il tutto senza alcun tetto di spesa e con l’accortezza di iscrivere le maggiori spese nel bilancio dello Stato a partire dall’anno 2041! E, naturalmente, senza darne alcuna informazione pubblica.
Ma c’è una seconda e più probante verifica della fragilità del progetto. Il 28 ottobre 2004 si chiude la gara di prequalificazione delle imprese di costruzione. Si presentano in tutto cinque imprese. Una viene scartata perché soggetta a indagine per mafia, un’altra perché non ha i requisiti tecnici. Delle tre imprese invitate, una poi dichiara di non essere più interessata. Ne rimangono alla fine soltanto due, entrambe italiane.
Quali possono essere stati i motivi di un simile disinteresse? La motivazione più plausibile è il rischio tecnologico. Per avere un’idea di come potranno andare a finire le cose, nella migliore delle ipotesi, si può fare riferimento al New Bay Bridge di San Francisco in California. Anche lì le autorità avevano puntato esplicitamente a costruire un ponte di rilevanza mondiale («signature bridge»); anche lì era stata scelta una struttura sospesa, di dimensioni eccezionali. Ma, dopo otto anni di progettazioni e riprogettazioni, resesi necessarie soprattutto per tenere conto dei sempre più stringenti requisiti di sicurezza imposti dall’alta sismicità della zona, e dopo che il costo era aumentato di oltre quattro volte, il progetto è stato abbandonato, in favore di una soluzione più efficiente e più economica.
Vediamo ora il caso del Ponte di Messina. L’impostazione strutturale, pensata oltre trent’anni fa, è ormai invecchiata, perché non incorpora nessun principio di antisismicità. Il recentissimo ponte sullo Stretto di Corinto, che si trova in un’area molto simile a quella dello Stretto di Messina, è stato progettato con concetti del tutto nuovi, non più per poter «sopravvivere» ai terremoti e agli scivolamenti delle placche tettoniche, ma per «poter convivere» tranquillamente con essi. Insomma, il progetto del Ponte di Messina finirà con l’essere sostanzialmente aggiornato, ma non si sa né come né quando si procederà, né, soprattutto, quale sarà l’esito finale.
Se le varianti in corso d’opera sono temute dalle imprese internazionali, al contrario sono una sorta di linfa vitale per il nostro mondo politico-imprenditoriale, spesso favorite dalla sovrapposizione dei ruoli fra controllore e controllato. Il che crea una rete diffusa e inestricabile di irresponsabilità.
Nel caso specifico del Ponte, il direttore del ministero, al momento in cui firma l’atto di concessione, è anche consigliere della società concessionaria. Oggi altri consiglieri e consulenti sono coinvolti a vario titolo in ambedue le società di costruzioni. A questo punto, l’attuale procedura d’appalto non sembra avere più nessuna credibilità. Allora, si avanza qui la proposta di avviare una nuova procedura, perfettamente inserita nel quadro legislativo europeo, che è quella dell’«appalto-concorso». Essa ha, innanzitutto, il pregio di mantenere fisso l’obiettivo, che è quello di realizzare un collegamento stabile fra la Sicilia e la Calabria; ma di non vincolarne a priori la soluzione strutturale. Così ogni impresa concorrente sceglie liberamente la soluzione che ritiene più idonea e più funzionale e si assume tutte le responsabilità di realizzarla con i tempi e con i costi previsti. Inoltre l’impresa garantisce in proprio il «project financing», che così viene sottratto alle irresponsabilità e ai gabellamenti della politica. Le proposte così elaborate possono poi essere presentate al pubblico, in modo che, finalmente, i cittadini ne siano informati e possano partecipare alle scelte. In un colpo solo si abbatte tutta l’incastellatura delle varianti in corso d’opera, nella cui ombra opaca spesso si incontrano affari e politica e si esce dalla palude delle irresponsabilità che tutto assorbe e tutto giustifica.
La metro C di Roma è un’opera vitale per la capitale. Anche qui manca il progetto, anzi ce ne sono due, fra di loro diametralmente opposti. Uno nasce da uno studio del Cnr e adotta la tecnologia più moderna dell’automazione integrale; l’altro è il progetto del Comune di Roma che si trascina dietro la vecchia tecnologia delle metropolitane pesanti a guida manuale, cioè quella delle due linee già esistenti, la A e la B.
Il primo progetto era stato già fatto proprio dal governo che, in occasione del Giubileo del 2000, lo offrì al Comune di Roma, dotandolo del finanziamento integrale. Ma l’allora sindaco Rutelli lasciò cadere l’offerta, senza mai fornire spiegazioni, a dimostrazione della forte resilienza del sistema ad ogni cambiamento. Pertanto non se ne fece nulla e Roma perse l’occasione di avere una moderna metropolitana, che avrebbe già potuto essere in funzione dall’anno 2000. Nel 2003, nel quadro della Legge-Obiettivo, la metro C è stata rifinanziata. Ma, ancora una volta, il comune di Roma, imperterrito, è rimasto fedele alla sua vecchia tecnologia.
Italia Nostra, preoccupata per i pesanti impatti sul patrimonio storico, urbanistico e ambientale e tuttavia favorevolissima a uno sviluppo del trasporto pubblico esteso fino all’intera pedonalizzazione del centro storico, ha ripreso la proposta basata sulla tecnologia avanzata che, non solo riduce drasticamente gli impatti, ma è anche meno costosa e più funzionale. Il Cipe ne ha riconosciuto la validità e ha prescritto al Comune di Roma di adottarla. L’incredibile risultato è stato che il Comune ha proceduto sì all’adozione formale della nuova tecnologia, ma non ha cambiato di una virgola i suoi vecchi elaborati tecnici.
Ora è andata in gara un’opera irrealizzabile, perché è all’avanguardia nell’ideazione progettuale, ma è archeologica nella esecuzione tecnica. In questa situazione il General Contractor troverà tutto lo spazio che vuole per le varianti in corso d’opera. Con le più consuete e prevedibili conseguenze.
Qui la richiesta di appalto concorso è stata ufficialmente avanzata da Italia Nostra, con la dimostrazione che il comune di Roma ha tutto da guadagnare e nulla da perdere. Ma come Rutelli non aveva risposto all’offerta della nuova tecnologia, così Veltroni ignora la richiesta e, senza imbarazzo, non ritiene di fornire ai cittadini alcuna spiegazione. Ma la vicenda è in corso e quindi c’è ancora spazio alla speranza.
L’ecosistema Mediterraneo
Per cominciare a pensare in termini di evoluzione socio-ambientale – nella speranza che intanto si cominci a instaurare una democrazia sostanziale – l’Italia ha necessità di pensare seriamente al Mediterraneo. Il punto di partenza è la questione ambientale, di cui siamo fra i primi al mondo a parlare ma fra gli ultimi ad agire. Eppure dobbiamo moltissimo al nostro ambiente, basti pensare all’inestimabile valore del prezioso clima mediterraneo. Ebbene, proprio questo clima oggi è in pericolo. I sempre più accentuati e frequenti sbalzi termici, la crescente riduzione ed erraticità delle precipitazioni, la più assidua ricorrenza degli eventi anomali, non sono più argomenti da scienziati, ma fanno ormai parte dell’esperienza quotidiana di ognuno di noi. Le cause di questi squilibri sono certamente di carattere planetario, ma c’è un’aggravante specifica tutta interna al bacino del Mediterraneo. È il processo rapidissimo di desertificazione della sponda sud. All’inizio ci sono state cause naturali. Non più di 4-5.000 anni fa, il Sahara era una rigogliosa savana. In pochissimi millenni, pari a un istante in termini geologici, è subentrato il deserto che si è esteso rapidamente fino alla costa, salvando solo la catena dell’Atlante, che va dal Marocco alla Tunisia. E così i Romani vi avevano potuto approvvigionarsi di legno per le loro navi e di leoni africani per gli spettacoli circensi. Fino a poco tempo fa, c’erano ancora lembi di foresta primaria. Ultimamente però l’uomo è intervenuto in maniera decisiva ed è stato non meno devastante della natura. In solo mezzo secolo, la forte esplosione demografica del Maghreb ha provocato il disboscamento di circa 30 milioni di ettari. L’intera fascia nordafricana è diventata una formidabile fornace di accumulo e di diffusione di calore, che finisce poi con l’irraggiarsi nell’intero bacino del Mediterraneo.
La conseguenza è che ora la linea di desertificazione ha raggiunto la sponda nord, dalla Spagna alla Grecia, con notevoli avanzamenti nelle nostre regioni meridionali. Ma più il deserto avanza più il delicato equilibrio del clima mediterraneo ne risente. È chiaro allora che non solo l’Italia, ma l’intero bacino del Mediterraneo, può avere un futuro solo in una più ampia e complessiva dimensione ecosistemica. In questo quadro c’è da compiere una grande impresa: un estesissimo programma prima di rivegetazione e poi di rinaturazione, per tentare di ricacciare indietro il deserto e ricostruire la ricchezza di uno straordinario sistema. Ma un impegno di questa portata richiede un coinvolgimento eccezionale di lavoro, di ricerca, di finanziamento, di cooperazione. Potrà essere un’occasione unica per trasformare in energie positive quelle tensioni che stanno ora dividendo e allontanando le sponde del Mediterraneo, ed ottenere così lavoro e imprenditorialità sulla sponda sud, ricerca e innovazione nella sponda nord, amalgamando culture e religioni in nuovi e condivisi ideali.
Questo ambizioso progetto deve poter contare su una capillare ed efficiente rete di mobilità, che deve però essere totalmente compatibile con la rivitalizzazione dell’ambiente. L’idea che gli obiettivi strategici debbano poter camminare su grandi strade non è poi del tutto nuova: era stata l’idea fondamentale dei Romani, proprio su scala euromediterranea. Allora la natura vi contribuì con la centralità dell’Italia nel Mediterraneo, ma i Romani vi aggiunsero l’idea della universitalità della civiltà. Il tutto si dimostrò vincente. Si può riprovare.
L’indirizzo generale è quello di accelerare decisamente verso la mobilità intelligente, e l’Unione europea sta apportando un contributo sostanziale col Progetto Galileo. Si tratta di una delle più grandi imprese tecnologiche che, con una rete planetaria di 30 satelliti, è destinata totalmente alla mobilità, per cielo, per terra, per mare. Galileo sarà pienamente operativo nel 2010 e per quella data ci saranno tutte le condizioni per una vera e propria rivoluzione dei trasporti. Il Progetto Galileo deve essere per l’Italia l’occasione storica. Va però tenuto presente che partiamo da zero, perché di Galileo, per ora, conosciamo sì e no il nome; a meno di cinque anni dal 2010 non ne abbiamo ancora prevista alcuna applicazione e non vi è traccia di alcun programma di ricerca, né al Cnr, né all’Enea. È quindi indispensabile un forte impegno programmatico da parte della classe politica, sin da ora.
Una reale volontà di procedere si deve manifestare da subito attraverso scelte realmente innovative. Innanzitutto, nel quadro di un’evoluzione creativa, dobbiamo essere convinti della validità del processo di dematerializzazione, che peraltro è già obiettivamente in atto. Se così è, si può decidere di abbandonare al loro destino i grandi trasporti merci, cioè i Tir, le navi container e le piattaforme logistiche. Ciò ci consente di pensare a tecnologie nuove, meno invasive, più efficienti e, comunque, molto più compatibile col nostro territorio.
Alleggerito così il problema, si può procedere alla ridefinizione del nostro ruolo internazionale. L’Italia può ancora mirare a valorizzare il sistema dei porti come linea di interscambio fra i flussi mediterranei e quelli europei, ma la condizione indispensabile è riuscire a ripensare i progetti attualmente in corso. Infatti l’Europa continentale si sta già dotando di un formidabile sistema di mobilità in grado di far fronte ai processi di globalizzazione, basato sulla modernizzazione e sul potenziamento dei grandi porti del mare del Nord e della loro messa a rete con i trasporti di terra. La diffusione dell’Alta Velocità, che dalla Francia ormai si ramifica sino al cuore dell’Unione, e la continua estensione della rete fluviale fanno il resto. Il risultato è che oggi le navi cinesi, piuttosto che fermarsi in Italia, scelgono di allungare la navigazione di tre o quattro giorni per raggiungere il porto di Rotterdam. Se si rimane in questo scenario, l’Italia non è e non sarà mai in grado di competere. Ma – e ci riallacciamo alle premesse fatte – con dematerializzazione e nuove tecnologie si possono aprire nuovi orizzonti. C’è l’occasione dell’avvio alla maturità commerciale dei treni superveloci a levitazione, che permette velocità di 500 chilometri all’ora, una tecnologia già stata realizzata con successo a Shangai e che sta per essere adottata dal Regno Unito per collegare da Nord a Sud tutto il Paese con una linea di 800 chilometri da Londra a Glasgow.
Con costi contenuti di investimento e gestione, con impatti ambientali molto più sostenibili e con tempi di costruzione di anni e non di decenni, è ipotizzabile la realizzazione di due linee costiere che colleghino rapidamente l’Italia con il centro dell’Europa. Una volta assicurato il collegamento continentale, diventa molto più realistico pensare di mettere l’Italia al centro di una rete di autostrade del mare, che, operata con traghetti veloci, assicuri il collegamento capillare con tutto il Mediterraneo, in una maniera tale che gli itinerari siano anche un viaggio attraverso la storia e la cultura.
Per quanto riguarda la mobilità interna del Paese, sia quella urbana che quella extraurbana, bisogna voltar pagina, ponendo fine alla ottusa stagione delle colate di cemento e di asfalto ed aprendo le nostre frontiere mentali alla crescente intelligenza trasportistica che già circola nel mondo. A cominciare proprio da quella che favorisce un migliore uso del mezzo prediletto dagli Italiani, cioè l’auto. E’ in corso una mutazione genetica che inizia a San Diego, in California , nel 1997. L’Università di Barkley crea dei nuovi veicoli, auto, bus, camion, che dispongono di embrionali organi di percezione, di elaborazione, di reazione. Innanzitutto viene realizzata la “visione radar”, simile a quella dei pipistrelli, che, in condizioni ambientali avverse, si dimostra più affidabile di quella umana. Viene poi aggiunto un sensore magnetico in grado di leggere, in anticipo e con precisione,le informazioni relative all’infrastruttura stradale, quali localizzazione del centro della corsia, curve e pendenze. Infine i veicoli vengono messi in grado di cooperare fra di loro, attraverso un collegamento radio; in questo modo i comandi del veicolo che precede, frenate, accelerate, sterzate, sono percepiti in tempo reale da tutti i veicoli che seguono. L’elaborazione dei dati è affidata ad un personal computer che, pur con una capacità di soli 144Mhz, dimostra una rapidità ed un’affidabilità di elaborazione ben superiori a quelle di cui noi siamo capaci. L’ulteriore innovazione è che gli attuatori, cioè il volante, il freno e l’acceleratore, non sono più meccanici ma sono “wired” e quindi sono in grado di reagire senza più inerzie ai comandi, compresi quelli provenienti dall’esterno.
Questi veicoli, che sono chiaramente i primi esemplari di una evoluzione della specie, vengono immessi nell’autostrada Interstate 15, in alcune predeterminate condizioni di traffico, ma svincolati da qualsiasi controllo umano. Ebbene, i nuovi veicoli dimostrano subito la loro superiorità, sfruttando meglio lo spazio a disposizione e garantendo una maggiore sicurezza complessiva. Così, dal laboratorio di San Diego,l’evoluzione della specie comincia a diffondersi sulle strade del mondo.
Sono da pochissimo entrate sul mercato alcune auto dotate di una visione radar di seconda generazione, con prestazioni davvero strabilianti: sia di notte che di giorno, con la pioggia e con la nebbia, su qualsiasi tipo di strada, l’auto si autoregola, accelerando o frenando, e riprendendo poi una velocità prefissata, in una gamma da 0 a200 Km/h. L’Unione Europea crede molto nella visione radar, al punto che le ha riservato la frequenza radio di 24GHz. Oltre ad imitare il pipistrello, l’auto comincia a comportarsi anche da felino, con una visione agli infrarossi, nonchè da delfino, con dei sensori agli ultrasuoni; senza contare i progressi nel campo della visione ottica, in diretta concorrenza, questa volta, con le nostre specifiche capacità.
Ma ora il contributo sostanziale viene dal sistema satellitare GPS che permette l’autolocalizzazione; è un primo passo verso l’acquisizione di un livello di autocoscienza. Proiettandosi in questa direzione evolutiva, la potente agenzia americana DARPA, Defence Advanced Research Projects Agency, ha lanciato la “Grand Challenge”, la sfida epocale, che vedrà come vincitore il veicolo che, cavandosela assolutamente da solo, ed utilizzando ogni sorta di tracciato, fra strade, autostrade, tratturi, deserti, corsi d’acqua e quant’altro, riuscirà per primo ad andare da Los Angeles a Las Vegas. L’esordio, lo scorso anno, ha visto il miglior veicolo non andare più in là di 7 miglia, ma quest’anno i concorrenti sono talmente numerosi da aver reso necessarie le eliminatorie.
Anche in Europa ci sono dei progressi, soprattutto nel campo della mobilità urbana. Nell’ambito del progetto europeo “cultural heritage and city of future”, lo scorso anno è stato portato a termine, a Cannes, uno straordinario esperimento: un bus a guida totalmente autonoma ha fatto la spola fra un parcheggio esterno di scambio ed il centro della città, senza far per nulla rimpiangere l’assenza della guida umana.
L’elaborazione delle Linee Guida del Piano dei Trasporti della Regione Lazio è stata l’occasione per una programmazione avanzata della mobilità intelligente, applicata alle nostre realtà. Il contributo originale è il Centro Unico di Mobilità: si tratta di una struttura informatica dove vengono riportati ed elaborati tutti i segnali d’intelligenza che provengono dai veicoli e dalle infrastrutture e che,fino ad oggi, svolgono solo una funzione individuale, ignorandosi l’un l’altro. Così, invece, si costituisce un vero e proprio sistema integrato di mobilità intelligente, di cui il Centro è la mente. La sua funzione è reale perché dispone di adeguati sistemi di percezione e di attuazione. Innanzitutto grazie a Galileo che, mettendo a disposizione una straordinaria precisione di localizzazione, apre la via al controllo a distanza dei veicoli. Ma grazie anche ad un altro fantastico passo nel futuro che sta per compiersi, ed è la connessione Wi Max. Si tratta di una connessione Internet veloce via radio, permanente ed in mobilità, che permette di raccogliere in ogni istante sia l’offerta complessiva di mobilità, data dai mezzi circolanti e dallo stato delle infrastrutture, sia la domanda cumulativa che viene dalla somma delle richieste di ogni singolo utente. In definitiva, il Centro assume il primo e fondamentale ruolo di “Gestore dello Spazio-Tempo. Esso permette di soddisfare al meglio ogni singola domanda di spostamento, con la garanzia di evitare che un qualsiasi veicolo si trovi nel posto sbagliato nel tempo sbagliato e con la potenzialità, invece, di evolversi verso l’utilizzazione ottimale dell’intero sistema. Il Centro è in grado di entrare in funzione nel 2008, in coincidenza con l’operatività del Progetto Galileo e del sistema Wi Max. Si andrà subito verso un salto di qualità, del tipo di quello compiuto dalla rete telefonica che, pur continuando ad utilizzare i vecchi fili di rame, è passata dal trasporto della sola voce alla fornitura anche di Internet veloce. Le strade e le autostrade diventeranno sempre più delle “autovie”, cioè delle vie di mobilità a gestione automatizzata. Sono state previste due applicazioni immediate. Una riguarda la mobilità privata extraurbana e l’altra la mobilità pubblica nell’area metropolitana.
Il Governo ha deciso di costruire una ulteriore autostrada di circa 400 Km., da Livorno a Formia, passando per Roma, per favorire il trasporto lungo la fascia tirrenica. Ma, a parte i costi astronomici, il tracciato attraverso tutta la Maremma e la Piana Pontina e va ad impattare pesantemente parchi naturali, siti archeologici, paesaggi storici e culturali. La proposta alternativa, cioè l’”Autovia Tirrenica”, rende superfluo questo intervento così invasivo e prevede, come infrastruttura materiale, esclusivamente l’adeguamento dei tratti interessati della Via Aurelia e della via Pontina. Il resto è costituito da strutture immateriali che si svilupperanno sulla rete stradale e sui veicoli e che saranno coordinate dal Centro. Il risultato sarà una mobilità crescente, con costi economici, umani ed ambientali decrescenti.
L’altra autovia riguarda la zona costiera dell’area metropolitana romana. da Ostia a Torvaianica. Attualmente il collegamento è soltanto stradale, ed è spesso alla paralisi. Inoltre, il progetto di una ferrovia sembra provocare impatti inaccettabili sulla zona delle dune, sulla tenuta presidenziale di Castel Porziano, su tutta l’antica via Severiana e i suoi tesori archeologici. La proposta “Autovia del Litorale” utilizza esclusivamente le infrastrutture esistenti ed usa dei veicoli derivati da quelli sperimentati a Cannes. Ma, con l’intervento del Centro, il trasporto pubblico acquisterà una gestione sempre più elastica, fino a fornire un servizio a domanda. A questo punto tutta l’area, che poi è quella del mitico percorso di Enea verso la fondazione di Roma, potrà essere pedonalizzata, per una totale fruizione culturale, ambientale ed economica. I nuovi modelli di mobilità potranno essere estesi a tutto il Mediterraneo.
Il grande contributo dell’Italia all’evoluzione dell’uomo si era esaurito con Galileo; da Galileo possiamo ripartire per dare ora un nostro apporto all’evoluzione socio-ambientale del Mediterraneo.
antoniotamburrino@tin.it
Titolo originale: New urbanists prepare to tackle Gulf Coast reconstruction plan – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini
La devastazione inflitta dall’uragano Katrina alla Louisiana, Mississippi, e Alabama lo scorso agosto ha stimolato il più ampio impegno mai intrapreso dai Nuovi Urbanisti nel campo della pianificazione.
Circa 100 fra architetti, urbanisti, esperti di trasporti e altre competenze, da tutti gli Stati Uniti si incontreranno dall’11 al 18 ottobre per contribuire all’enorme sforzo per la ricostruzione di almeno nove delle città costiere colpite dello stato, tra le quali Gulfport, Biloxi, e Pascagoula. Gli studi coinvolti lavoreranno per una quota ridotta della tariffa professionale abituale, e collaboreranno con architetti e urbanisti locali, come ha dichiarato l’architetto-urbanista di Miami Andres Duany, che coordina il programma per conto del Congress for the New Urbanism.
Il Governatore Haley Barbour ha incontrato Duany il 12 settembre, e il 20 dello stesso mese ha autorizzato i gruppi di lavoro a collaborare con le città maggiormente colpite lungo i quasi 200 chilometri di costa del Golfo in Mississippi. “È importante sottolineare che metodi di lavoro e progetto verranno resi disponibili agli interessati, ma non imposti”, ha dichiarato il presidente del CNU John Norquist in una lettera al governatore. “Sta a ciascuna comunità decidere cosa fare”. Norquist affiancherà Duany nella guida della iniziativa del CNU.
Indipendentemente dall’impegno del Congress for the New Urbanism, lo studio Dover, Kohl & Partners ha rapidamente completato i progetti per un nuovo insediamento di tipo new urbanist su 800 ettari vicino a Bay St. Louis, Mississippi, appena a est del confine con la Louisiana. In giugno, Dover Kohl, insieme a Zimmerman/Volk Associates, Gibbs Planning Group, e Hall Planning & Engineering, aveva sviluppato una charrette di nove giorni per il progetto di “un technology village, un centro urbano, e nove quartieri” nell’insediamento ancora senza nome, dice Milt Rhodes, direttore per il progetto di Dover Kohl. Dopo l’uragano, è diventato presto chiaro che il piano della Dover Kohl – il primo intervento a est dello Stennis Space Center della NASA – avrebbe dovuto essere incrementato, e i ritmi di realizzazione accelerati.
Con circa 7.000 alloggi danneggiati nell’area regionale di Bay St. Louis, di cui forse 3.000 impossibili da recuperare, il nuovo centro dovrà probabilmente trovare posto per un rapido accesso di sfollati. Alcune famiglie troveranno residenza permanente, altre probabilmente occuperanno alloggi temporanei offerti dalla Federal Emergency Management Agency (FEMA). Le abitazioni provvisorie potranno anche essere camper o roulottes.
I costruttori, un’impresa familiare chiamata Stennis Technology Park Inc., hanno chiesto alla Dover Kohl di terminare il piano generale e un documento di norme form-based [ le linee guida alla progettazione new urbanism n.d.T.] il più rapidamente possibile. “Il nostro codice si basa su tipi edilizi che dervano da uno studio compiuto nel mese di giugno su Biloxi, Gulfport, Pass Christian, e New Orleans” dice Rhodes. Localizzato in un’area della Hancock County non inclusa in alcuna circoscrizione municipale, il progetto può ospitare 3.500 o più case, oltre ad un contingente molto superiore di alloggi aggregati: townhouse, duplex, triplex, ecc.: più di quanti anticipati prima dell’uragano Katrina. “Abbiamo fatto ripetutamente presente al costruttore che non esiste un numero massimo di lotti” che debba essere specificato nel piano. Agiunge poi “Mi aspetto che [la preparazione dell’area, strade e servizi] parta molto rapidamente”.
A New Orleans, che ha subito il peggiore disastro che mai abbia colpito una città USA, le zone alluvionate comprendono anche New Desire HOPE VI, un nuovo quartiere a nord est del French Quarter. La Urban Design Associates ha redatto il piano generale di New Desire, e per più di tre anni lo studio Torti Gallas & Partners ha progettato gli edifici e diretto i lavori di costruzione. Torti Gallas si è sforzata di progettare gli alloggi – in massima parte case abbinate a coppie – secondo modi tradizionali, e il risultato ora è che alcune di esse ricordano gli stretti edifici detti “ shotgun” per cui New Orleans è famosa. “Stiamo ancora aspettando di conoscere il destino di quella parte di città” dice Loreen Arnold, architetto responsabile del progetto per la Torti Gallas.
Gli argini hanno ceduto su due lati dell’insediamento, e l’acqua è salita di due metri e mezzo sopra le fondamenta dei 107 che erano stati completati e occupati. L’alluvione ha anche inondato il lotto finale del progetto, 318 abitazioni terminate al 40%. “È desolante vedere il lavoro di tre anni disfatto in un giorno, specialmente alla luce di quanto sia difficile riuscire e costruire case economiche in genere” si lamenta Arnold.
Mentre New Urban News andava in stampa, alcune parti di New Orleans erano ancora sommerse, e alcune persone apparentemente informate temevano che i suoli della città fossero tanto contaminati dalle fognature, prodotti chimici e metalli pesanti che sarebbe stato difficile rendere sicura la residenza umana stabile per un certo periodo di tempo. Si è anche detto che, visto l’alto costo di bonifica dei suoli, poteva anche aver senso realizzare una città nuova fuori da New Orleans e lasciare che molti evacuati vivessero lì: anche se molte più persone insistevano che una città tanto amata come New Orleans dovesse essere recuperata. Al momento della stampa, New Urban News non era a conoscenza di alcun impegno concreto, e sicuramente non di new urbanists, per la ricostruzione di New Orleans
LA “MEGA-CHARRETTE” IN MISSISSIPPI
Se paragonato alle altre regioni degli USA, il Sud è particolarmente ricettivo rispetto al New Urbanism. Di conseguenza, dopo pochi giorni dal colpo di Katrina, nuovi urbanisti come Nathan Norris in Alabama hanno iniziato a proporre di costruire un impegno del movimento, perché le competenze urbanistiche fossero massicciamente orientate alla sfida della ricostruzione. Sulla lista di discussione NewUrb, Norris, collaboratore di PlaceMakers, ha scritto, “Capiamo le correlazioni fra trasporti, pianificazione regionale, quartieri, politiche energetiche ... abbiamo tra noi gente che può mettere in collegamento i singoli aspetti”. Ha concluso “Qui, nella terra degli uragani, è difficile trovare oppositori alle nostre idee”.
Duany è diventato il leader naturale di questo impegno, assistito da Steve Mouzon di PlaceMaker, che ha già collaborato a parecchie charrettes [ laboratorio collettivo di progettazione n.d.T.] tenute dallo studio Duany Plater-Zyberk & Co. (DPZ), come quella per il progetto di Lost Rabbit nella Madison County, Mississippi. “Il governatore Barbour ha visto i progetti di DPZ [per Lost Rabbit] ed è rimasto colpito” dice Mouzon. “A quanto pare Barbour apprezza ciò che ha visto del New Urbanism, e ha fiducia nel lavoro che si potrebbe fare lungo tutta la costa dello stato”. La DPZ ha anche lavorato su due progetti in Louisiana, il complesso residenziale Naval a Belle Chasse, e un piano per il centro di Baton Rouge, oltre a cinque insediamenti a Greenfield in Alabama. Anche con tempi limitati, Duany aveva il vantaggio di poter scegliere in fretta i partecipanti, cosa che sarebbe stata difficile per una organizzazione come il Congress for the New Urbanism. È stato stabilito che nessuno studio avrebbe potuto mandare più di tre rappresentanti, a quella che è stata chiamata la “ mega-charrette” del Mississippi.
I nuovi urbanisti sembrano aver sostenitori in entrambi i partiti. Ann Daigle, urbanista originaria della Louisiana, dice che il senatore democratico Mary Landrieu della Louisiana “è una fervente sostenitrice della Smart Growth e del movimento nuovi urbanisti”. Barbour è ex presidente del Comitato Nazionale repubblicano. Ma parecchie delle decisioni verranno prese a livello di città e contea, dove sono stati consentiti nel passato parecchi insediamenti convenzionali di tipo diffuso.
Norquist coordinerà i rapporti con le varie amministrazioni, Duany con gli studi professionali per il CNU, e Michael Barranco con quelli locali del Mississippi. Un gruppo coordinato da Mouzon rivolgterà l’attenzione a problemi architettonici come l’altezza degli edifici da terra (tre metri o più, come sarà necessario in alcune zone), o sulla necessità di evitare ambienti urbani ostili ai pedoni. Agli architetti sarà anche chiesto di riprogettare le case mobili, quelle componibili della FEMA, e di scegliere prodotti fra quelli offerti a livello nazionale. Ci saranno gruppi di lavoro sui trasporti, le infrastrutture, il verde, questioni sociali e ambientali, e altri aspetti della ricostruzione.
“La costa del Mississippi è stata completamente devastata” ha scritto Duany in una e-mail ai partecipanti. “Gli edifici non ci sono più, ma il terreno è asciutto e le infrastrutture a posto”. La regione costiera, ha aggiunto, “quindi sarà la prima su cui intervenire”. “Ci saranno poi altre charrettes per i centri dell’interno del Mississippi, forse anche Baton Rouge, e magari pure New Orleans”.
LAVORARE PER IL FUTURO
A ciascuno dei centri verrà assegnato un gruppo di lavoro di esperti new urbanists e altrettanti professionisti locali. Duany dice che i nuovi urbanisti “lavoreranno a tariffa ridotta”, una piccola parte di quella abituale degli studi. “È necessario distinguersi dai soliti arraffoni, che poi danneggiano se stessi” ha aggiunto. La charrette avrà luogo in una struttura centrale, probabilmente il Casino Hotel di Biloxi. I partecipanti alterneranno giornate di incontri centralizzati ad altre di visita ai centri colpiti, dove si incontreranno gli abitanti e si osserverà la situazione. Duany ha posto l’accento sul fatto che oltre a coinvolgere le amministrazioni locali, si dovrà far partecipare alla charrette anche “ogni tipo di interesse”, dai poveri ai proprietari di casino.
Dopo che i partecipanti esterni alla charrette saranno ripartiti, il 18 ottobre, uno studio assumerà la guida per il completamento del lavoro, entro tre settimane. Tutte le operazioni successive saranno svolte dai gruppi locali che hanno lavorato coi new urbanists. Se alcuni tra questi ultimi desiderano continuare la collaborazione, possono stipulare contratti di collaborazione con le amministrazioni locali. “Non c’è il rischio di produrre qualcosa di standardizzato” nota Duany. Presumibilmente, i piano saranno parecchio diversi da una città all’altra. Jim Barksdale, uomo d’affari e filantropo nominato dal governatore Barbour a capo della commissione statale per la ripresa, e Leland Speed, direttore della Mississippi Development Authority, rappresenteranno il governo. Hank Dittmar rappresenterà la Foundation for the Built Environment del Principe di Galles.
Oltre alla charrette del Congress for the New Urbanism, la Knight Foundation di Miami si è rivolta a Charles Bohl, direttore dello Knight Program in Community Building all’Università di Miami, per un progetto di aiuto alla ricostruzione a Biloxi. Inoltre, Norquist ha dichiarato che ci sarebbero risorse per tenere un Consiglio del CNU e New Orleans, forse addirittura entro ottobre. Una iniziativa del genere senza dubbio porterebbe un numero consistente di new urbanists in città, e potrebbe influenzare i modi in cui New Orleans prepara la propria rinascita, ha concluso il presidente CNU.
Nota: il testo originale di questo articolo (certamente “lobbistico” per quanto animato da lodevoli intenzioni) al sito di New Urban News; oltre all'assalto dei professionisti ce ne sono anche altri, meno virtuosi, come riferisce anche Mike Davis in un articolo da il manifesto riportato qui su Eddyburg (f.b.)
Kane County (Illinois), 2030 Land Resource Management Plan, 2004 – Estratti e traduzione per Eddyburg a cura di Fabrizio Bottini
IL GOVERNO DEGLI INSEDIAMENTI COMMERCIALI E LA LORO PROGETTAZIONE
Obiettivi
1. provvedere un’adeguata offerta di prodotti commerciali e servizi in tutta la Kane County
2. sostenere le attività connesse all’agricoltura nelle zone rurali
3. incoraggiare un tipo di insediamento commerciale che sia compatibile con gli usi dello spazio circostanti, e che sia funzionale, sicuro, ben progettato
4. sostenere il riuso di centri e strutture commerciali esistenti
5. promuovere i principi generali che contribuiscono a realizzare luoghi di incontro, simboli della comunità, identità dei luoghi
6. eliminare dalla pianificazione di contea tutte le destinazioni commerciali isolate che non siano state ancora utilizzate
7. incoraggiare l’uso dei principi di progettazione e delle tecniche smart growth nella pianificazione comunale e di contea all’interno della Critical Growth Area, come alternativa all’insediamento commerciale convenzionale.
Oggetto del presente Capitolo
L’insediamento commerciale offre posti di lavoro, gettito fiscale, e beni e servizi alla popolazione in crescita della contea. Storicamente, la gran parte del commercio nell’area si è localizzata nei centri urbani lungo il Fox River. Questa collocazione di funzioni commerciali concentrata nelle municipalità era adeguata, perché era lì che si trovavano la popolazione e le strutture di trasporto a sostegno del commercio. In tempi più recenti, le tendenze di crescita e localizzative, in particolare per i servizi e il commercio al dettaglio, hanno spostato gli investimenti verso ovest, verso il corridoio di Randall Road. Questo spostamento dell’insediamento commerciale crea crescenti problemi alle municipalità, di rafforzamento delle zone commerciali tradizionali. Un esame dell’evoluzione nelle preferenze e stili di vita degli abitanti e di chi lavora nella zona servita dal commercio, può rivitalizzare le zone di insediamento tradizionale. È possibile usare tecniche di progetto per realizzare una identità inconfondibile, e che assicuri anche compatibilità con le zone circostanti.
È essenziale anche sostenere la zona Agricola e dei Villaggi Rurali. A questo scopo sono state predisposte apposite categorie e localizzazioni commerciali, per lo agribusiness e gli insediamenti ai nodi stradali.
Questo capitolo prenderà in esame:
● L’insediamento commerciale
● La progettazione degli spazi commerciali
Più dell’80% degli spazi commerciali della Kane County si trova nell’area della Fox Valley, principalmente entro le circoscrizioni comunali. Essi si presentano in varie forme: centri città tradizionali, mall regionali, centri commerciali di dimensione inferiore, fasce stradali commerciali e piccoli complessi di quartiere. Nella contea ci sono due mall regionali che coprono complessivamente una superficie di circa 100.000 metri quadrati: lo Spring Hill Mall a West Dundee e Carpentersville, e il Charlestowne Mall a St. Charles. Le cittadine sono una localizzazione adeguata per le funzioni commerciali intensive, a causa della presenza di popolazione e infrastrutture. Le amministrazioni favoriscono questo uso dello spazio anche perché genera gettito fiscale, e senza un parallelo incremento della popolazione scolastica. La contea continuerà a orientare gli usi commerciali intensivi verso queste aree. La Randall Road, che taglia l’intero territorio di contea da nord a sud, è uno dei corridoi commerciali principali e in crescita più rapida della regione.
Nel territorio non incorporato in nessuna municipalità e amministrato direttamente dalla Kane County, il totale delle funzioni commerciali è solo del 5% pari a circa 500 ettari di superficie nel 2001, localizzato in modo predominante nei villaggi della zona centrale. Questa quantità relativamente piccola di commercio si deve al fatto che l’amministrazione di contea abitualmente indirizza lo sviluppo commercial verso città e centri minori, là dove appare più appropriato. In più, nelle zone non incluse nelle circoscrizioni municipali dove la destinazione ad usi commerciali è inadeguata o superata, la contea ha intrapreso azioni per revocare ed eliminare questo tipo di azzonamento puntuale. Da non confondersi con la destinazione agribusiness nei centri e villaggi centro-occidentali, che serve la comunità delle aree agricole.
La Kane County individua sette tipologie di uso commerciale, che svolgono varie funzioni:
1) Centri urbani
2) Arterie urbane commerciali
3) Aree commerciali in ambito rurale
4) Centri di quartiere
5) Aree commerciali nei nodi di viabilità
6) Agricultural Business
7) Aree per uffici, attività di ricerca e industria
1 - Centri urbani
I nuclei centrali tradizionali delle città e villaggi della Kane County sono indispensabili all’economia e vitalità, dei singoli comuni come dell’intero territorio. Questi spazi downtown contengono molti bei vecchi edifici con significato storico, validi dal punto di vista architettonico. Molti di questi spazi sono collegati al Fox River da percorsi pedonali e greenways. La Kane County continuerà a sostenerne la rivitalizzazione attraverso programmi di tipo main street o di altro genere conservativo, orientati a edificare secondo la struttura esistente e costruire una forte identità spaziale.
2 -Arterie urbane commerciali
Le arterie urbane commerciali rappresentano un elemento importante nella Fox Valley. Il commercio sulle fasce offre una grande varietà di prodotti e servizi, ospitando la maggioranza dei nuovi insediamenti collocati entro le circoscrizioni comunali della Kane County. Questo tipo di localizzazione si deve alla vicinanza alle reti idriche e fognarie, a nuclei di popolazione residente, a strade di grande percorrenza e traffico. Esempi di questo tipo di insediamento sono: il Meadowdale Shopping Center di Carpentersville; il Charlestowne Centre di St. Charles; il Windmill Place a Batavia e il Geneva Commons. Le funzioni commerciali in zone urbane si concentrano in particolare su fasce della Randall Road e Orchard Road. La pressione per nuovi insediamenti in queste zone è destinata a continuare nel futuro.
La Kane County continuerà invece a scoraggiare gli insediamenti nei tratti delle medesime strade non inclusi in circoscrizioni comunali. Le sole funzioni commerciali prese in considerazione saranno quelle in località dove già esiste accesso ai servizi comunali, oltre ad una coerenza con gli strumenti urbanistici municipali. Questi nuovi eventuali interventi dovranno coordinarsi con le linee generali di contea per quanto riguarda gli accessi stradali. Per l’approvazione dei progetti verranno considerati elementi chiave sia la compatibilità ed estetica generale degli edifici e arredi a verde, sia l’organizzazione del traffico. Verranno fortemente scoraggiate fasce commerciali mal progettate.
La Kane County insieme alle amministrazioni municipali limiterà l’espansione degli insediamenti commerciali verso ovest e la Critical Growth Area. Le funzioni commerciali entro la Critical Growth Area verranno utilizzate a servizio dello sviluppo dei quartieri. I nuovi complessi verranno orientati invece verso il Corridoio Urbano o i nuclei centrali. Le opportunità di insediamento nel Corridoio Urbano sosterranno la modernizzazione dei complessi esistenti, e insieme la rinascita del commercio nelle zone centrali.
3 – Aree commerciali in ambito rurale
Con la crescita della popolazione, aumenterà anche la pressione verso uno sviluppo commerciale sparso, nella parte centrale e occidentale della Kane County. La contea continuerà a incoraggiare e orientare le funzioni commerciali verso zone con tale destinazione localizzate nei villaggi, dove si collocano storicamente e dove esistono o sono previste le necessarie infrastrutture. I villaggi di questa area comprendono: Big Rock, Burlington, Elburn, Hampshire, Kaneville, La Fox, Lily Lake, Maple Park, Pingree Grove, Plato Center, Udina, Virgil, Wasco.
Lo Historic Preservation Plan della Kane County afferma che le nuove attività debbano utilizzare ovunque possibile le strutture già esistenti, e che i nuovi edifici devono adeguarsi al carattere storico di ciascun centro rurale. La contea intende evitare gli effetti di degrado degli insediamenti commerciali non compatibili, pur sostenendo i villaggi rurali nel mantenimento e sviluppo delle funzioni commerciali.
4 – Centri di quartiere
Sono centri commerciali di quartiere quelli di dimensione contenuta, localizzati principalmente entro le zone residenziali della Critical Growth Area. Lo sviluppo residenziale della zona aumenterà il bisogno di beni e servizi. A tale necessità è possibile rispondere anche senza le abituali fasce commerciali o concentrazioni agli incroci stradali. Centri di quartiere come quello per il villaggio di Mill Creek, sono un modo di offrire merci e servizi compatibilmente a dimensioni e caratteristiche tipiche della zona. Questi centri sono un’alternativa al solito sprawl suburbano, e svolgono molteplici funzioni: acquisti, servizi, luoghi di incontro, e inoltre contribuiscono a conferire una identità spaziale ai luoghi. Devono essere progettati come parte integrante dell’insediamento residenziale. Le caratteristiche generali devono essere quelle di insediamento compatto, buona organizzazione degli accessi e del traffico, parcheggi ben concepiti, elementi pedestrian friendly. I centri di quartiere rappresentano un avanzamento anche in termini ambientali, riducendo al dipendenza dall’automobile.
5 – Aree commerciali nei nodi di viabilità
Le funzioni commerciali crossroad sono previste negli incroci strategici, ad offrire un servizio a chi si sposta in automobile, e coerentemente a localizzazione, modi e volumi di traffico, accessibilità, usi attuali dello spazio. Eesempi di questo tipo comprendono l’incrocio della Illinois Route 47 con la Jericho Road, o ancora Illinois Routes 47 e Plank Road. La funzione generale di questi insediamenti è di offrire strutture automobile-oriented, come stazioni di servizio o mini-maket, secondo modalità efficienti, sicure, esteticamente piacevoli. Le costruzioni dovranno essere di dimensioni limitate, e le funzioni contenute.
Si scoraggiano servizi organizzati sulle fasce laterali, ad evitare la concorrenza con quelli delle vicine città o villaggi, oltre che la tendenza allo sprawl. Per ottenere spazi legati all’uso dell’auto che siano funzionali e attraenti, vanno predisposte adeguate corsie di accesso e uscita, arretramenti, segnaletica e arredo a verde. È altamente raccomandato un controllo sui progetti, perché tendano a realizzare un carattere rurale e ad adeguarsi all’ambiente circostante.
6 - Agricultural Business
Scopo di questa categoria di funzione commerciale è quello di offrire spazi alla localizzazione e sviluppo di attività legate alla zona agricola. Si tratta di funzioni che svolgono un ruolo vitale nel sostenere l’economia della Kane County, e offrono occasione di stabilità e crescita ai villaggi occidentali. Queste attività comprendono servizi, commercio, produzione, ricerche, magazzini, mercati e usi correlati, tutti dipendenti o strettamente legati alle attività agricole. Le zone agricultural business sono in genere localizzate nelle fasce centrali e occidentali, e si incoraggia per queste funzioni il riuso degli edifici esistenti, o il collocarsi come estensione dei villaggi. L’agricoltura anche nel futuro offrirà grandi vantaggi economici alla Kane County. Incoraggiare la crescita e lo sviluppo delle zone agribusiness entro spazi adeguati contribuirà alla vitalità economica dei nuclei centrali e occidentali.
7 - Aree per uffici, attività di ricerca e industria
Nella Kane County si sono iniziati ai sviluppare grossi complessi per uffici ed attività di ricerca, nei corridoi delle autostrade a pedaggio, Aurora e Elgin: la East-West Tollway (I-88) e Northwest Tollway (I-90). Alcuni di questi esempi sono la Matsushita Electronics e First Card a Elgin, o la Toyota e Farmers Insurance a Aurora. Questo tipo di complessi nell’area di Aurora rappresenta il proseguimento di quanto già accaduto nella DuPage County, fra Oak Brook e Naperville, a partire dagli anni ‘60. Nello stesso modo, gli insediamenti per uffici e ricerca lungo la Northwest Tollway nell’area di Elgin, proseguono l’analoga crescita di quelli simili nella Cook County, fra l’aeroporto O’Hare, Schaumburg, e Hoffman Estates.
Esistono poi spazi industriali nella maggior parte delle municipalità della Kane County, destinati alle varie attività produttive. I principali complessi sono a Aurora, Elgin, Montgomery, e St. Charles. L’indagine svolta dalla contea nel 2001 sull’uso del suolo ha rilevato circa 300 ettari destinati a funzioni industriali. Questa quantità relativamente bassa di superfici dimostra come la maggior parte degli impianti sia collocata nei pressi dei centri, dove sono disponibili reti idriche, fognarie, elettriche. Sugar Grove e Hampshire prevedono ora per funzioni industriali e a uffici aree di dimensioni significative.
LA PROGETTAZIONE DEGLI SPAZI COMMERCIALI
I modi della progettazione commerciale contribuiscono a comunicare un’immagine, e a rendere desiderabili gli spazi. I criteri di approvazione dei progetti sono il modo più efficace per le municipalità e la contea, per orientare l’edificazione a comunicare un’idea di vivibilità e vivacità economica. La progettazione deve superare la sola osservanza delle tradizionali regole di zoning e orientarsi ai dettagli, che costruiscono luoghi di incontro, spazi simbolici, identità locale.
Nel suo libro City Comforts, David Sucher fornisce alcuni esempi di “… piccole cose che rendono piacevole la vita urbana: luoghi dove le persone possano incontrarsi, metodi per contenere l’invadenza delle automobili e fare degli edifici dei buoni vicini. Molti di questi piccoli dettagli sono talmente ovvi da risultare invisibili”. Dettagli che possono migliorare le zone commerciali e al tempo stesso attirare il la clientela per acquisti e sosta in un’atmosfera piacevole. Questi dettagli comprendono:
● spazi pubblici dotati di posti per sedersi
● spazi da gioco interni a quelli commerciali
● svolgere una funzione di “portale” per i quartieri
● attutire l’effetto dell’edificato attraverso l’uso del verde
● personalizzare gli spazi con l’uso di opere d’arte
● attirare il traffico pedonale con fronti commerciali interessanti
● realizzare spazi destinati alla musica
● incoraggiare i rapporti sociali con strutture come i tavoli per giocare a scacchi
● utilizzare la vegetazione locale
● consentire la presenza di negozi “d’angolo” locali
● offrire rastrelliere per le biciclette
● avvicinare gli edifici alla linea del marciapiede
● rendere visibili gli spazi di lavoro
● uso di vari strumenti (come i giochi d’acqua) per consentire la conversazione
Sempre di più, nei centri commerciali di grande e piccola dimensione si trovano caratteristici ristoranti fast-food, stazioni di servizio, supermercati, mini-malls, motel, lavaggio auto, e altre funzioni immediatamente riconoscibili si trovano nelle fasce stradali o nei centri dei quartieri. È la strategia di mercato delle grandi compagnie, per essere facilmente identificate e offrire al cliente un senso di familiarità attraverso la ripetizione delle immagini standardizzate del marchio. L’uso di edifici e segnaletica standardizzata ha evidentemente un impatto sulle città dotate di una propria identità storica, e può danneggiare il lavoro delle comunità per ottenere un caratteristico ambiente locale. La predisposizione e attuazione di linee guida per il progetto, e relative norme, può aiutare le amministrazioni a adattare i dettagli progettuali ai propri caratteristici orientamenti. Kenneth Hall e Gerald Porterfield, nel loro Community by Design dimostrano l’importanza dei percorsi pedonali, dei margini, distretti, nodi, punti focali, nelle linee guida per il progetto.
Una certa cura per gli arredi a verde, l’illuminazione, stili architettonici, particolari, materiali, rappresenta una distinzione in positivo, nell’adeguamento ai caratteri locali. Gli edifici delle grandi catene che riflettano anche caratteri locali contribuiscono a creare una certa identità del quartiere e un senso di appartenenza, aiutano anche a definire spazi commerciali distinguibili, aumentando i clienti e i profitti delle imprese, oltre ad offrire possibilità di adattamento futuro degli edifici a usi diversi.
Politiche
1. Collaborare coi gruppi locali e regionali, e con le Camere di Commercio per sostenere uno sviluppo pianificato delle attività commerciali che vada incontro ai bisogni delle città.
2. Incoraggiare e promuovere le varie attività legate all’agricoltura nelle zone rurali della Kane County, come la produzione, vendita e ricerca relativa a beni e servizi per queste zone.
3. Sostenere alti livelli di progettazione, in particolare per quanto riguarda glia ccessi stradali, gli arredi a verde, la segnaletica, l’estetica, per le zone commerciali sia all’interno dei confini municipali, sia nelle zone amministrate dalla sola contea.
4. Richiedere che gli insediamenti commerciali mantengano e migliorino caratteristiche naturali come la vegetazione, la fauna, i corsi d’acqua, le zone umide, pendenze e vedute.
5. Impedire una localizzazione sparsa delle funzioni commerciali non legate all’agricoltura nelle aree rurali esterne ai municipi.
6. Sostenere le cittadine e i villaggi nella conservazione e rivitalizzazione dei propri centri, riutilizzando ovunque possibile le parti storiche.
7. Coordinare l’insediamento commerciale con eventi locali, informazioni ai visitatori, possibilità di sviluppo turistico.
8. Incoraggiare linee guida per la progettazione di centri di quartiere integrati nei piani per le zone residenziali.
9. Sostenere linee guida progettuali per le aree commerciali negli incroci stradali a ciò destinati, in particolare per quanto riguarda parcheggi, accessi, illuminazione e segnaletica.
La rinascita del Corridoio Urbano: riuso delle fasce commerciali stradali
L’aggiornamento [retrofit] dei centri commerciali sulle fasce stradali attraverso una riprogettazione attuata per fasi successive, può trasformare gradualmente queste zone in aree a funzioni miste. Il successo di una operazione può fungere da spinta per l’azione in altri corridoi. Quelli che seguono sono alcuni strumenti di intervento sulle fasce commerciali:
1. Mantenere lo sviluppo longitudinale dei distretti commerciali esistenti al di sotto degli ottocento metri;
2. Realizzare davanti ai grandi piazzali a parcheggio un fronte commerciale compatto o continuo, che definisca la strada, coi parcheggi collocati sul retro;
3. Collocare lungo i fronti edifici con architetture attraenti, insegne e organizzazione dei marciapiedi, invece di parcheggi e segnaletica su pali;
4. Unificare gli ingressi dalla strada entro poche corsie comuni, con strade di servizio interne organizzate in base agli isolati, che colleghino le varie attività;
5. Contribuire a rendere unico l’ambiente stradale e migliorare l’aspetto dei percorsi pubblici con alberature stradali laterali e centrali, alta qualità degli arredi a verde, pavimentazioni decorative, arredi stradali (panchine, cestini dei rifiuti), illuminazione.
6. Realizzare marciapiedi e percorsi di attraversamento in tutta l’area per creare connessioni coi parcheggi comuni, i trasporti pubblici, i collegamenti fra i vari negozi e con le zone residenziali;
7. Incoraggiare una mescolanza di abitazioni e altre funzioni con quelle commerciali, come primo passo verso quartieri percorribili a piedi, anziché ambienti strettamente commerciali e orientati all’auto.
(Fonti: “Tools for Improving Strip Commercial Corridors”, Georgia Department of Community Affairs; “Commercial Strip Redevelopment”, Dutchess County Planning and Development, New York, 2003).
La valutazione dei progetti di nuove costruzioni, o di trasformazione dei complessi esistenti, deve tenere in conto:
Localizzazione: quanto è adeguato, il sito prescelto, alla città nel suo insieme? Si tratta di un progetto fattibile, dal punto di vista funzionale e localizzativo? Si aggiunge coerentemente alle strutture commerciali esistenti? Contiene elementi progettuali che completano e arricchiscono l’area circostante?
Tempi: questo progetto commerciale, si inserisce coerentemente nelle attività diurne e notturne dell’area circostante, e nelle eventuali variazioni stagionali? Offre un senso di continuità all’interno della zona?
Movimento: si tratta di uno spazio accessibili agli utenti del trasporto pubblico, ai pedoni, agli automobilisti?
Compatibilità: si valuti il progetto, usando linee guida che considerino: inclinazione dei tetti, distanze fra gli edifici, altezza e sviluppo degli edifici, altezza delle finestre, fronte strada, caratteri architettonici, massa, materiali. L’illuminazione è coordinata con le insegne, gli impianti tecnici, le alberature stradali, la collocazione dei parcheggi e corsie di accesso?
(Fonte: “Building a foundation to assess the broader social, economic and environmental issues of development”, Kinnelon Commons, New Jersey, 2001).
“Progettare in modo adatto ad un particolare ambiente locale è semplicemente un buon affare. È interesse dei commercianti conformarsi agli standard cittadini così come sono stati fissati. L’idea di commercio per le esigenze quotidiane, o per le stazioni di servizio, è fondamentalmente una questione locale; la maggior parte della clientela viene da un raggio di cinque chilometri. È vitale tener conto dei desideri della comunità. La media delle persone reagisce positivamente a una buona progettazione. In 35 anni di commercio, non ricordo di aver subito alcun svantaggio di rilievo nell’aver rispettato le norme cittadine”. (Robert Rosenburg, ex presidente e CEO della Dunkin Donuts, da: Saving Face, APA Planning Advisory Service, Ronald Lee Fleming, 2002).
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Nota: qui il sito della Kane County, Department of Development, con tutta la documentazione dei piani di contea; per un quadro più generale, qui su Eddyburg, il Piano 2040per la regione di Chicago; di seguito il PDF scaricabile di questa traduzione, con la land use map del piano per la Kane County (f.b.)
L'articolo di Roberta Carlini sul manifesto del 18.9.2005 riporta un fatto non nuovo, l’uso della rigida legislazione di derivazione pattizia fra Stato e Chiesa per violare la legge italiana ed operare, da parte di soggetti in vario modo legati alla Chiesa cattolica, in condizioni di impunità.
Un precedente ancor più clamoroso di edificio di culto cattolico realizzato abusivamente si ebbe con la chiesa del Centro direzionale di Napoli, realizzata dalla Mededil e non da enti della Chiesa, ma destinata al culto pubblico cattolico e quindi all’assegnazione (in proprietà ?) all’autorità ecclesiastica (art. 57 della legge 865 del 1971) come opera di urbanizzazione secondaria (attrezzatura religiosa), ai sensi degli art. 41 e 44 della legge 865 del 1971, modificativa degli art. 1 e 4 della legge 847 del 1964.
Segnalai il fatto in un mio lavoro (Gli edifici di culto nel sistema giuridico italiano, Edisud, Salerno, 1991), evidenziando che il Papa in persona era venuto ad inaugurare l’avveniristica chiesa, con tanto di guglia di architettura qualificata, ma l’edificio non solo era stato realizzato senza alcuna concessione amministrativa, addirittura non era stato ancora approvato lo strumento urbanistico che avrebbe potuto consentire il rilascio della concessione edilizia per realizzare l’opera.
La Mededil, secondo una prassi in voga negli allegri anni ottanta, aveva anticipato la realizzazione di un’attrezzatura urbana, per metterla sul piatto della trattativa con l’Amministrazione comunale, onde spuntare maggiori vantaggi per la sua speculazione in termini di cubature o di omissione di controlli.
Nel caso di Pescasseroli, oltre all’allegro utilizzo del territorio demaniale, oltre alla violazione dei vincoli derivanti dagli usi civici, oltre alla realizzazione del manufatto edilizio senza alcuna autorizzazione ad edificare, ci si imbatte in una astuta e violenta prevaricazione da parte dell’ente religioso, che evidenzia una delle più gravi incostituzionalità del concordato di Craxi del 1984 (che ha avuto esecuzione in Italia con la legge 121 del 1985).
In base ad un articolo del codice civile del 1942, l’art. 831 comma 2°, gli edifici aperti al culto pubblico cattolico non possono essere sottratti alla loro destinazione, nemmeno per effetto di alienazione, finché la stessa non sia cessata in conformità alle leggi che li riguardano. La prassi interpretativa, più che il testo letterale di questa norma, ritiene che il richiamo alle …leggi che li riguardano…, implichi l’efficacia civile delle norme del codice di diritto canonico (un ordinamento straniero rispetto a quello italiano) che regolano la destinazione al culto pubblico.
Sommessamente, invece, segnalai che poteva al più rimandarsi agli artt. 10 e 11 del vecchio concordato del 1929, e che era comunque impensabile che l’autorità ecclesiastica, appartenente ad un ordinamento diverso da quello italiano, potesse autonomamente imporre un vincolo destinativo perenne (servitù di uso pubblico soggetta alla giurisdizione della autorità straniera) senza il consenso della proprietà. Regola che dovrebbe almeno valere per la nuova edilizia di culto, vista la tutela costituzionale del diritto di proprietà (art.42 Cost.).
La revisione del concordato lateranense del 1929, operata dal Governo Craxi nel 1984, ha fra l’altro prodotto l’art.5 invocato dalle suore di Pescasseroli, che vieta l’esercizio di ogni manifestazione della potestà ablativa dello Stato sugli edifici aperti al culto pubblico cattolico se non previo concordamento con l’autorità ecclesiastica.
In nome di una pretesa difesa della libertà della Chiesa e dell’interventismo in favore dei (supposti) bisogni religiosi della popolazione, si è sancita una sorta di extra-territorialità, come per una sede diplomatica, per cui anche se l’edificio di culto sta crollando, o minaccia la pubblica incolumità, senza autorizzazione ecclesiastica i pompieri non possono intervenire.
Si noti che quella che gli amministrativisti chiamano potestà ablativa (requisizione, espropriazione, demolizione) riguarda sempre ipotesi di pubblica utilità che, dinanzi all’art. 5 del concordato, deve soccombere, perché l’autorità ecclesiastica non risponde alla lealtà costituzionale italiana, ma alla sovranità della S.Sede.
Per chi non sia del mestiere, voglio anche evidenziare che la norma concordataria non può essere rimossa con una legge ordinaria, ma richiede una revisione contrattata con la Chiesa, o un procedimento di revisione costituzionale (art.138 cost.) e che la stessa Corte costituzionale può tentare di dichiarane la incostituzionalità (abrogandola) solo comparandola con i supremi principi dell’ordinamento costituzionale, categoria di fonti inventata dalla Corte stessa, ma non enucleabile che da lei.
Le suore di Pescasseroli, quindi, hanno imposto un vincolo destinativo illegale, senza consenso della proprietà, peraltro su un edificio illegittimo (corpo di reato), cercando di avvalersi di una copertura di tipo internazionalistico, illecitamente creata dal concordato craxiano.
Quando troveremo un giudice dello Stato disposto a sollevare la questione di incostituzionalità dell’art. 5 ?