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A fronte dei disastri dell'urbanizzazione scema, uno dei tanti motivi per cui non costruire ovunque è un nuovo modello socioeconomico, oggi. La Repubblica Milano, 14 novembre 2012 (f.b.)

Il CHILOMETRO zero funziona. Cresce il fatturato, sale l’occupazione e aumenta anche la percezione di un fenomeno in grado di rilanciare il settore agroalimentare. Nonostante la crisi, in Lombardia il 56 per cento delle aziende aderenti al progetto Campagna Amica della Coldiretti dichiara un fatturato in crescita, il 39 per cento è stabile e solo il 5 per cento perde soldi. Un miracolo, in tempi come questi, a cui se ne aggiunge un altro: la crescita dell’occupazione. I lavoratori impiegati in questo settore nel 2010 erano 505, nel 2011 sono saliti a 894 e a ottobre di quest’anno sono arrivati a quota 1.100.
Vendere direttamente al consumatore — bypassando la filiera della distribuzione che comporta prima di tutto un aumento del prezzo per il cliente finale — sembra essere un affare. E chi lavora bene la crisi non la sente. Dal 2008 le aperture di farmer’s market aderenti alla rete sono in crescita costante e i nuovi punti vendita saltano fuori come funghi: dal 2010 al 2011 sono cresciuti del 77 per cento, mentre dal 2011 al 2012 del 32 per cento.

Questi dati sono ancora più significativi se messi a confronto con altri settori. Secondo i dati della Coldiretti, dal 2009 il commercio è in grande sofferenza, con una punta negativa fra il 2011 e il 2012 quando ha fatto registrare un calo complessivo del fatturato intorno al 24 per cento. Per questo l’agroalimentare a chilometro zero con i suoi grafici in salita si candida a essere uno dei settori trainanti dell’economia locale. Ettore Prandini, presidente della Coldiretti Lombardia, lo spiega con un aneddoto: «Qualche giorno fa ho incontrato uno studente della Bocconi vicino alla laurea. Mi ha raccontato che dopo aver discusso la tesi, sarebbe andato in Val Brembana per aprire un agriturismo e un allevamento con un punto vendita di prodotti alimentari. Ecco, una cosa del genere fino a qualche anno fa era impensabile: oggi è un’idea vincente». Se un giovane bocconiano decide di investire tempo e conoscenze economiche in questo modo significa che è un settore di successo. Ma probabilmente c’entra anche la crisi. «Il disastro che ha colpito l’economia mondiale — aggiunge Prandini — ci ha fatto riscoprire i valori del lavoro agricolo. Forse tutto questo potrà esserci di ispirazione per cambiare le nostre abitudini ed essere una guida per le nuove generazioni».

La distorsione del nostro modello di sviluppo e il consumo di suolo discussi dall’INU a Urbanpromo. L’Unità, 11 novembre 2012, postilla (f.b.)

Un paesaggio apocalittico come quello raccontato da Alessandro Coppola nel suo viaggio attraverso le città deindustrializzate degli Stati Uniti in Apocalypse Town (Laterza), con la natura che si vendica, spacca il cemento e penetra nelle cattedrali ormai deserte della società del benessere: altoforni spenti e capannoni abbandonati, centri commerciali in surplus e svincoli autostradali che si sono divorati vigne, olivi e giardini di agrumi. Milioni di case nuove e invendute, mentre le banche entrano in possesso degli appartamenti di chi non riesce a pagare il mutuo, mentre affittuari morosi vengono sfrattati.

Un paesaggio italiano: basta fare una passeggiata a Bagnoli o a Sesto San Giovanni, nella provincia di Rimini dove il 40% del territorio è cementificato, o in Calabria dove fabbriche mai entrate in funzione sono diventate ostello di braccianti immigrati, in Molise, in Basilicata. La crisi esplosa a causa di una bolla immobiliare planetaria rende esplicito il paradosso di un modello di sviluppo fondato sulla espansione edilizia, ogni italiano – dice il dossier preparato dal Wwf per la campagna «RiutilizziAmo l’Italia» – ha triplicato in 50 anni il suo gruzzolo di cemento, abbiamo 290 metri quadri a testa. Ma la crisi dice anche che nulla sarà come prima e il problema del consumo di suolo è finalmente entrato nella agenda politica: bisogna trovare gli strumenti più adatti a riqualificare, rigenerare l’esistente, fermando lo sperpero di un bene comune – la terra – che non è rinnovabile, che per rigenerarsi ci mette dai 50 ai 1000 anni, dice Cinzia Morsani (Wwf Emilia Romagna).

Anche se l’umanità dimentica presto e il ciclo edilizio è considerato un volano della ripresa economica, difficilmente – quando la crisi sarà superata – tutto tornerà come prima: i valori immobiliari in caduta libera potrebbero tornare a crescere ma lo choc da subprime difficilmente consentirà di riaprire le borse del credito. Il consumo del suolo lo possiamo misurare come fa Stefano Agostoni (conferenza Stato-Regioni) con il Co2: è come se il parco macchine della Lombardia fosse aumentato del 12 % in 10 anni, «esistono norme sulla qualità dell'aria mentre non ne esistono per il suolo». Oppure c’è la cartina d'Italia mostrata da Alessandra Ferrara ricercatrice dell'Istat: sulla costa dal Veneto all'Abruzzo non c’è soluzione di continuità, è praticamente tutto costruito. Abbiamo cementificato 3 milioni di ettari di territorio fra il 1996 e il 2005, ogni anno l’incremento è di 8,5 ettari pari a 1600 chilometri quadrati.

Poi c'è il paradosso messo in luce da Damiano De Simine, Legambiente Lombardia: «In Molise la popolazione decresce ma il consumo di suolo cresce al sostenuto ritmo del 20 per cento annuo». Racconta Stefano Leoni (presidente Wwf Italia): «Se mettiamo insieme i capannoni sparsi per l'Italia, fanno 2000 chilometri quadrati, molti ormai abbandonati. La gente, giustamente, si indigna per le città sporche. Bisogna imparare ad indignarsi anche per questa sporcizia sparsa nella natura». La cementificazione estensiva del Belpaese è stata uno dei temi su cui si è misurata l'edizione di quest'anno di Urbanpromo, organizzata dall'Inu (Istituto nazionale di urbanistica) a Bologna, in collaborazione con Legambiente, il confronto ha visto la partecipazione di assessori di città, province, Regioni fra cui Emilia Romagna, Lombardia, Toscana, Marche, Liguria.

Il coordinamento del gruppo di lavoro è di Damiano di Simine e di Andrea Arcidiacono (Politecnico di Milano). In Italia non esiste una legge sul suolo, non ci sono gli strumenti per misurarne il consumo, l'Istat lamenta un quadro normativo confuso, anche se – dice Alessandra Ferrara – «ci stiamo attrezzando». Però qualcosa si muove, c'è un Ddl del ministro dell' Agricoltura Catania nato dall'esigenza di salvaguardare i terreni agricoli. Nel confronto con la conferenza Stato Regioni, la salvaguardia si è allargata fino a tutto il suolo libero, ma si dovrebbero coinvolgere altri soggetti, a cominciare dal ministero delle infrastrutture. Il progetto del ministro dell'Agricoltura ha, secondo Federico Oliva, presidente dell'Inu, alcuni aspetti molto positivi, soprattutto cancella la possibilità di far finire nelle casse del bilancio comunale il 75% degli oneri edificatori, «è stato l'incentivo più potente per i comuni poveri in canna a consumare suolo, ora si dovrà trovare il modo di compensarli per la perdita di finanziamenti, visto che sono il soggetto principale di governo del territorio ».

Insieme alle cose buone, aggiunge Oliva, «ci sono le debolezze», la principale è che «stabilito un consumo nazionale massimo, si affida alla pianificazione degli enti locali la ripartizione delle quote». Ma la pianificazione è gestione politica ed è chiaro ai tecnici come agli assessori – fra questi Patrizia Gabellini, assessore all' ambiente del comune di Bologna - che sugli amministratori si esercitano le pressioni di chi vuole costruire o impiantare una attività, mentre il problema è l’ecosistema che lasceremo in eredità alle generazioni future. «La pianificazione non è affidabile - dice Federico Oliva -. In questi anni sono state utilizzate premialità in volumi e compensazioni per supplire a strumenti che non funzionano». «Il fisco e la protezione della natura si sono dimostrati i mezzi più efficaci dove sono state fatte politiche di contenimento del consumo».

La rendita è il motore principale del consumo di suolo e costruire il nuovo costa infinitamente di meno, è la leva fiscale che deve correggere questa tendenza. L’altra cosa che manca, dice ancora Federico Oliva, è «una legge nazionale che detti i principi fondamentali a cui gli enti locali devono ispirarsi». Legambiente Lombardia si è fatta promotrice di una legge di iniziativa popolare, spiega Damiano Di Simine: «Abbiamo capito che non basta la denuncia di un ecomostro dopo l'altro, ci vuole un salto culturale». Il suolo, la terra su cui camminiamo, è un bene comune come l’acqua e l’aria, la differenza è la proprietà privata. Però, «se il privato è irresponsabile devono esserci dei limiti prescrittivi».

postilla
Senza prendersela né con Jolanda Bufalini che ha scritto il suo resoconto, né con gli urbanisti dell'INU che hanno tenuto le loro ottime e legittime relazioni al convegno, l'articolo può anche essere l'occasione per tornare un istante sul rapporto fra conoscenze scientifiche, consapevolezza sociale e comunicazione. L'occasione forse, in un contesto di maggiore maturità da questo punto di vista (e riguarda tutti, in qualche modo si tratta anche di un'autocritica), avrebbe meritato, che so, un comunicato di sintesi per la stampa. A prevenire se possibile che l'elenco degli interventi, unito a quell'incipit un po' incongruamente preso a prestito dal best-seller di settore del momento, finisse per apparire magari assai leggibile, marginalmente utile alla vanità dei nomi citati, ma complessivamente poco consono agli obiettivi culturali allargati dell'assise: denunciare problemi e indicare soluzioni, anche a livello politico-legislativo.
Ammucchiare così, senza soluzioni di continuità diverse da qualche frase di circostanza, cose come la rustbelt americana in crisi industriale cronica, il consumo di suoli agricoli da urbanizzazione dispersa, le emissioni di gas serra eccetera, che pure in qualche modo convergono in cose come le alluvioni di questi giorni, confonde il lettore medio. E come insegna il recente caso "Galileo" aquilano, c'è qualcosa di importante da ripensare, non solo specialisticamente e settorialmente, nei rapporti fra sapere e società (f.b.)

Ancora sulla sacralità della giornata di riposo per i lavoratori del commercio, ma stavolta la prospettiva è chiara, perché è quella della chiesa. La Repubblica 10 novembre 2012, postilla (f.b.)

IL SETTIMO giorno Dio si riposò. L’uomo invece andò a fare shopping. «Ma guardali. Al sabato dicono “oh finalmente domani mi riposo”, e poi eccoli lì al centro commerciale. Non capiscono che è un altro lavoro, il lavoro del consumatore? Non capiscono che ci stanno rubando la domenica?
Padova, parrocchia del Buon Pastore, quartiere Arcella, zona difficile. In canonica Rita, catechista con grinta, fotocopia i “moduli di boicottaggio” da far firmare ai parrocchiani, domenica prossima, all’uscita da messa. C’è scritto: «Mi impegno a non andare a fare la spesa di domenica, per non sostenere con i miei consumi l’apertura dei centri commerciali nei giorni festivi». Scusa Rita, e se mi manca il burro? «Bussa alla porta del vicino. Così magari ti fai anche un amico».

La sfida è partita. Un’intera diocesi, una delle più grandi d’Italia e forse la più solida, quella di Padova, la città del Santo, si mette in marcia contro il furto del giorno del Signore. Con la benedizione del vescovo Antonio Mattiazzo. E senza timore di usare quella parola così forte: boicottaggio. Sette mesi di campagna all’insegna delle «tre R: Relazioni, Riposo, Risorto», tutte le parrocchie e le associazioni mobilitate.

Non è più la solita predica. Fin dal Vaticano Secondo la protesta della Chiesa contro il lavoro domenicale non necessario è severa, non c’è Papa che non l’abbia ribadita dal più alto soglio, ma questa volta si passa dalle parole anche illustri ai fatti, minuti e probabilmente efficaci. La raccolta di impegni individuali firmati di boicottaggio è solo il primo. Poi le parrocchie compileranno “liste bianche” di negozi che rispettano la festa, le affiggeranno sui sagrati, le pubblicheranno nei bollettini, le contrassegneranno con adesivi da esporre in vetrina invitando i fedeli a fare spesa solo lì. Poi le cattedrali della fede beffeggeranno le cattedrali dei consumo esponendo sulla facciata lo striscione polemico: “Questa chiesa è aperta anche alla domenica”. Poi i giornali diocesani, con un certo sacrificio economico, rifiuteranno inserzioni pubblicitarie di negozi che non rispettano il riposo domenicale. «La cosa più difficile sarà convincere il rettore del santuario di Sant’Antonio a chiudere il negozio di souvenir alla domenica, ma se non diamo noi il buon esempio... », sorride padre Adriano Sella sulla soglia della cappellina di san Giuseppe Lavoratore, in piena zona industriale.

Ex missionario in Brasile, tornato in Veneto perché «ormai la terra di missione è qui», direttore della “Commissione diocesana per i nuovo stili di vita”, padre Adriano è l’uomo che ha ideato e coordina la mite ma decisa offensiva. «Non è una crociata contro i supermercati. È la riscoperta del valore del tempo del riposo, della famiglia, delle relazioni umane. La domenica non è l’ultimo giorno del weekend, e non è neanche soltanto il giorno del Signore, anche noi, Chiesa, dobbiamo evitare di riempirla di riti e cerimonie. Il giorno senza lavoro è una necessità primordiale, antropologica dell’uomo, non solo un comandamento del credente. Il riposo infrasettimanale non compensa nulla, perché ciascuno ha un giorno diverso e non ci si incontra più: mentre la domenica è della comunità, è di tutti ed è assieme», spiega mentre guida sulle strade della provincia a distribuire il vedemecum di 24 pagine con le istruzioni dettagliate per la campagna e a incoraggiare le sue truppe disarmate.

Nell’anno 304 ad Abitène, oggi in Tunisia, 304 cristiani affrontarono il martirio al grido di «senza domenica non possiamo vivere!». Ai boicottatori dello shopping, padre Adriano chiede molto meno sacrificio ma più fantasia. E la trova. A Due Carrare Caterina, responsabile del patronato di San Giorgio, ha coinvolto l’amica professoressa Anna Chiara, e domenica si porta tutto il paese a passeggio tra le sconosciute memorie storiche della zona, l’abbazia di Santo Stefano, il ponte romano, la villa veneziana: «La gente scappa nei centri commerciali perché ha paura del vuoto della domenica. Bisogna offrire alternative ». A Cazzago Gianni Simonato, tecnico informatico, sta ridipingendo il vecchio circolo Acli: «Offriremo il caffè dopo la messa, per continuare a stare insieme », come si fa in certe chiese anglicane. In sala biliardi un monitor sempre acceso pubblicizza il boicottaggio. Qui la minaccia è seria, si chiama Veneto City, progetto di megacentro commerciale in piena campagna, «già adesso la domenica il paese si svuota, vanno tutti a Padova o a Mestre a fare spese, figuriamoci dopo». A Maserà, nella sua curiosa chiesa-pagoda, don Francesco Fabris è preoccupato: «Vengono le mamme commesse di negozio a chiedermi aiuto, “fate qualcosa voi, il sindacato ha già firmato l’accordo per il lavoro domenicale”, cosa posso fare per queste persone?». Il 4 marzo scorso a Padova le commesse sfilarono per strada con il codice a barre appuntato sui grembiuli per dire “la domenica non ha prezzo”. Bene, don Francesco farà qualcosa: domenica 18 metterà una tenda davanti alla chiesa per pubblicizzare il boicottaggio. Antonio fa il cassiere in un ipermercato di un grosso centro della provincia, «tre domeniche al mese obbligatorie, sto per sposarmi, penso ai miei figli: potrò stare con loro solo un giorno al mese?», allora ha organizzato un boicottaggio privato e controllato: ha imposto a parenti e amici di non farsi vedere
da lui in negozio alla domenica, «qualcuno poi passa lo stesso, arrossisce e mi chiede scusa... «.

Battaglia difficile, Rita la catechista lo sa. «Vanno a fare shopping perché così anche la domenica possono evitare di parlare con altri esseri umani: parlano solo con le scatolette di pomodoro». Don Vlastio, il suo parroco, cerca di contenerla un po’: «Non dobbiamo colpevolizzare nessuno... ». Ma a sorpresa, la campagna che sta per partire conta già un convertito eccellente, nientemeno che il comandante del campo avverso, il presidente dell’Ascom di Padova Fernando Zilio, lui che per un anno ha bisticciato sui giornali locali con il vescovo proprio per le aperture domenicali, ma che si è ricreduto quando, con le liberalizzazioni del governo Monti, ha visto la potenza di fuoco delle grandi catene dell’“aperto ogni domenica!” abbattersi disastrosamente sul fatturato dei suoi “piccoli”, i negozi a conduzione familiare: «Aveva ragione monsignor Mattiazzo, ha visto più avanti di me. Qualche negozio nei centri storici, per il turismo, può anche aprire alla domenica, ma questo sistema non è giusto, e forse non rende neppure». Padre Adriano si attende molti altri folgorati sulla via dello shopping.

postilla
Se non altro stavolta le cose sono chiarissime: la contrarietà all’apertura domenicale dei negozi arriva dall’unica direzione in qualche modo autorizzata, ovvero quella del sacro. E non, per esempio, da quella parecchio fuorviante della tutela dei diritti dei lavoratori, che spesso accampa purtroppo argomentazioni troppo simili, perdendo di vista la luna per guardare troppo attentamente il dito. Ha senso, nel ventunesimo secolo, imporre per legge a tutti quanti di starsene per una giornata a contemplare l’infinito o quel che si preferisce? Ha senso, imporre per legge che una giornata, la stessa giornata per tutti intendo, sia interamente sottratta allo spazio-tempo della contemporaneità, obbligando giovani, vecchi, lavoratori e pensionati, studenti, e chissà quante altre categorie sociologiche si possono evocare, al momentino di riflessione obbligatorio? No, che non ha senso, perché come ci insegnerebbe lo storico Jacques Le Goff esiste un tempo del sacro e un tempo del terreno, che con tanta fatica abbiamo cominciato goffamente a distinguere quando nella teocrazia medievale qualche inventore cominciò a pasticciare seriamente con gli orologi. Per scoprire che l’eternità poteva essere fatta a fettine precise, magari pure capita meglio, lasciando anche all’adorazione più spazio specifico, e all’uomo momenti adeguatamente ritagliati per pensare alle proprie terrene faccende. Il primo simbolo delle città, svettante sull’aria libera che vi si iniziava a respirare, furono le torri dell’orologio. Il fatto che poi quegli orologi fossero montati sui campanili, vicino alle campane che scandivano le ore, anche quelle dedicate al sacro, è solo un caso. Non confondiamo le cose, per favore, anche con le migliori intenzioni progressiste (f.b.)

La giusta indignazione per una politica che per tanti anni ha sostenuto e alimentato l'abusivismo edilizio, e un'idea diversa di sviluppo. Il Fatto quotidiano, 2 novembre 2012 (f.b.)

Sono indignata, si mi indigno perché pare non esserci limite al peggio.
L’ultimo colpo di coda tentato dal Pdl in fatto di condono edilizio ha dell’incredibile, dell’irrimediabile. Nonostante il caos in cui versa il partito e il fatto che il suo consenso in Italia stia segnando un’emorragia costante pure il Pdl con rinuncia ad essere il tutore dell’illegittimità, dell’illegalità.
O forse è proprio per recuperare qualche consenso che sprezzante e a muso duro il Senatore Francesco Nitto Palma ha provato ancora una volta, la diciassettesima, a riproporre lo strumento tombale di ogni scempio: il condono edilizio.

Condoni fiscali, edilizi, scudi…. Quante ne abbiamo viste e deglutite dal ’94 ad oggi di queste trovate? Tutte leggi urgenti, inserite in contesti improbabili come finanziarie o altre norme, solo utili a sanare situazioni incresciose promosse da cittadini disonesti.
Leggi per loro, per quella parte di Italia che non rinuncia a sperare nella politica come rimedio a posteriore ad un danno prodotto. Leggi per furbi e disonesti. Leggi coperta, leggi tutela….
Il Pdl in questi vent’anni si è specializzato in colpi di spugna, al punto da renderli parte integrante, anzi caratterizzante del suo programma elettorale, proponendo a ritmi costanti ora l’uno ora l’altro.

Un’immobiliare costruiva in riva la mare o nel cuore verde di un’area protetta… qualcuno gli garantiva che prima o poi “Papi” avrebbe sanato per ricominciare altrove. Come si spiegherebbero altrimenti i milioni di tonnellate di cemento frutto del lavoro delle fiorenti ecomafie ripuliti nei decenni scorsi? Come si spiegano i numeri da capogiro che interessano la sola Campania oggi:70mila possibili demolizioni, con ripercussioni per circa 300mila, a volte solo sprovvedute, persone?
L’ex ministro della Giustizia Nitto Palma ha spiegato che il provvedimento, cancellato grazie all’azione di Pd, Udc, Idv e Lega, mirava “a riaprire i termini del condono del 2003 non per l’intero territorio nazionale ma soltanto per la Campania, che non ne ha potuto usufruire a seguito delle leggi regionali dell’allora giunta Bassolino, poi dichiarate incostituzionali dalla Consulta”. La verità è un altra, che una norma come questa non poteva essere “ad regionem” e sarebbe stata estesa a tutto il territorio nazionale.

Di fatto quest’azione dei senatori campani, che oggi minacciano di togliere la fiducia al governo, si configura come un bel regalo all’illegalità e all’ecomafia, fortunatamente respinto a pochi mesi dalle elezioni.
In questi anni i cittadini onesti che regolarmente chiedono i permessi per fare le case, pagano le relative imposte, si assoggettano ai tempi lunghi della burocrazia, non importano cemento abusivo ed esportano capitali e così via hanno subito fin troppo e troppo a lungo. L’Italia non può continuare ad essere il Paese dei furbi.
A spiegare che accade quando si governa così sono i numeri che Legambiente ha messo in fila nelrapporto Ecomafia 2012: 25.800 gli abusi edilizi nel 2011 mentre il solo “effetto annuncio” ha prodotto, nel caso del condono del 2003, 40 mila nuovi edifici illegali. Sappiamo cosa hanno prodotto gli interventi in aree a rischio o inadeguate.

Ci ricordiamo del dissesto idro-geologico in cui versa la penisola solo quando frana una montagna o straripa un fiume. Ma sono le azioni fatte a monte di quei tristi eventi a generarli e lacementificazione è uno di questi ed è forse la maggiore responsabile di morti e danni. Come denunciato dalla CIA ( confederazione italiana agricoltori) , in occasione della discussione in Cdm della bozza del ddl contro il consumo di suolo agricolo presentato dal ministro alle Politiche agricole Mario Catania, il settore primario ha dovuto rinunciare solo negli ultimi dieci anni a quasi 2 milioni di ettari, una superficie pari all’intera regione del Veneto. Terra che assorbiva acqua piovana che oggi scivola invece veloce su km di asfalto e cemento, per poi fermarsi da qualche parte con un urto tremendo e produrre disastri.

Se si continua a costruire ai ritmi odierni tra vent’anni faremo i conti con un consumo di suolo superiore ai 70 ettari al giorno, mettendo a rischio un patrimonio paesaggistico di inestimabile valore e rischiando la non autosufficienza alimentare.
E’ tempo di invertire la rotta e non concepire più il condono come via d’uscita postuma al disprezzo di piani regolatori e leggi.
E’ ora di dire basta a tutto questo.
” Zero metri cubi” questa e’ la nostra proposta, c’è tanto patrimonio da recuperare e da restaurare ed è bene che si inizi a farlo, ora, è tempo di salvare l’Italia, il brand più famoso al mondo.

Millet, l'Angelus, 1857

Iniziativa europea per sostenere tutte le pratiche di coltura rispettose del territorio dell'ambiente e della salute. Corriere della Sera 30 ottobre 2012 (f.b.)

ROMA — Ci vuole un'altra agricoltura per l'Europa. E bisogna far presto perché il consumo del suolo, alle attuali condizioni, «non è più sostenibile». Anche in tempo di crisi, bisogna puntare non più sulle colture intensive ma su quelle piccole, di qualità, e comunque rispettose dell'ambiente. Insomma, sul cosiddetto greening. E su quegli imprenditori agricoli, anche piccoli, che, per fare un esempio, «lasciano la siepe — dice Patrizia Rossi, responsabile agricoltura Lipu Birdlife Italia —, che non la tagliano per ottenere più fondi dall'Europa, e che proprio per questo vanno ricompensati in quanto agricoltori virtuosi».

È la politica agricola che va cambiata, aggiunge la presidente onoraria del Fai, Giulia Maria Crespi. «L'agricoltura sostenibile — dice — è cibo buono per gli uomini ma è anche filiera corta, blocco del dissesto idrogeologico, difesa del paesaggio che porta sviluppo turistico, salvaguardia dell'ambiente per ridurre la portata dei cambiamenti climatici negativi per la stessa agricoltura. L'Europa deve premiare le imprese agricole multifunzionali e il biologico deve poter accedere di più ai finanziamenti comunitari». È proprio per cambiare la politica agricola che tredici associazioni ambientaliste e animaliste, dal Fai al Wwf, da Italia nostra alla Lipu, da Federbio a Legambiente, hanno scritto tutte insieme al presidente Monti e alle Regioni e chiesto apertamente al Parlamento europeo, in vista dell'importante riforma della Politica agricola comune (Pac) per il 2014-2020, di puntare alla qualità e alla sostenibilità ambientale.

In Italia, «i dati sul consumo di suolo agricolo negli ultimi sessant'anni, un milione e mezzo di ettari dei terreni più fertili, mettono a rischio la sicurezza alimentare». E nonostante lo sviluppo intensivo, «negli ultimi 10 anni si è registrata la perdita del 32,2 per cento delle aziende (in Europa la perdita è stata del 25 per cento)». Ecco perché le associazioni chiedono «una riforma verde della Pac» che «fronteggi la crisi economica ed ecologica, dirottando i finanziamenti dalle produzioni intensive ad alto impatto ambientale alle piccole aziende agricole multifunzionali». I soldi della Pac, continuano, sono «soldi pubblici, e vanno spesi non più secondo la logica del dare di più a chi produce di più ma del dare a chi lavora bene, per la propria impresa ma anche per il bene comune».

Il nuovo condono edilizio rischia di diventare una realtà nove anni dopo l’ultima maxi sanatoria degli abusi varata da Berlusconi. Domani l’aula del Senato, in seguito ad una procedura insolitamente veloce, ha posto all’ordine del giorno il disegno di legge di iniziativa parlamentare che porta la firma di Francesco Nitto Palma del Popolo della libertà. Il testo è, singolarmente e in modo un po’ oscuro, intitolato «Disposizioni volte a garantire la parità di trattamento dei cittadini della Repubblica in ordine ai benefici» del condono edilizio del 2004.

Il progetto, un solo scarno articolo, prevede la riapertura dei termini del condono edilizio Berlusconi- Tremonti del 2003-2004 che consentì di incassare più di 3 miliardi. La vecchia sanatoria edilizia stabiliva che si potesse aderire entro il 10 dicembre del 2004 e che i «manufatti» condonabili dovevano essere stati realizzati prima del 31 marzo del 2003. Il nuovo testo proposto da Nitto Palma lascia inalterata la data entro la quale è stato effettuato l’abuso sanabile, anche seriesce difficile verificare il mese o all’anno di una costruzione o di una modifica ad una abitazione o ad una villetta allargando a dismisura la platea dei possibili beneficiari della sanatoria. Ma il punto centrale è che il ddl riapre per circa otto anni i termini per aderire alla sanatoria portandoli fino al 31 dicembre del 2012.

Il richiamo del titolo della legge alla «parità di trattamento» è un riferimento agli abusivi della Campania che, dopo una serie di pronunciamenti della Corte costituzionale, hanno visto negate o ridotte le possibilità di aderire al condono del 2003-2004. Ma sebbene l’involucro normativo prenda spunto dalla Campania il ddl Nitto Palma vale per tutto il territorio nazionale.

Protestano le associazioni ambientaliste e anche Repubblica.it ha promosso una raccolta di firme per bloccare la pericolosa sanatoria. Gli ecodem Della Seta e Ferrante parlano di «intento criminogeno », Realacci (Pd) invita a «bloccare il condono». Qualunque sarà l’esito dell’esame che parte domani al Senato, a Montecitorio sono già pronte le barricate: «Penso che si stia tentando di rimettere in movimento il ciclo dell’edilizia di natura abusiva. D’altra parte il condono è un qualcosa che ha un ciclo quasi matematico di nove anni: primo condono nel 1985, secondo nel 1994, terzo nel 2003 e ora siamo nel 2012», osserva Roberto Morassut, responsabile urbanistica del Pd.

Sorpresa anche per l’iter-fantasma del provvedimento: fu presentato

il 2 febbraio di quest’anno, sommariamente esaminato in tre sedute in Commissione Ambiente al Senato, annunciato a sorpresa il 23 ottobre dopo un blitz della conferenza dei capigruppo che lo ha posto all’ordinedel giorno dell’aula per domani.

Infine c’è il rischio del tana libera tutti per i tre vecchi condoni, oltre che il nuovo. Solo nel Comune di Roma ci sono dal 1985 giacenti 300 mila domande e di queste circa 3.000 sono al vaglio delle Soprintendenze. Nitto Palma tende a depotenziare il ruolo delle Soprintendenze, anche se non traduce questo atteggiamento in legge, ma le nuove norme proposte dal ddl del governo sulle semplificazioni, che introducono il silenzio-assenso di 45 giorni, potrebbero combinarsi negativamente con il nuovo condono 2012 e portare ad una approvazione indiscriminata di tutte

le domande.

Colpa delle elezioni troppo vicine? Anche. Non è un caso che di questi tempi ogni iniziativa del governo tecnico di Mario Monti sia destinata a trasformarsi in un Calvario. Tanto più se tocca le Regioni, come si è visto con la clamorosa bocciatura del decreto sui costi della politica. Ma nel tentativo, ormai smaccato, di far arenare il disegno di legge presentato dal ministro Mario Catania per frenare lo scellerato consumo del suolo e la distruzione del paesaggio e dell'agricoltura, c'è qualcosa di più. Troppo grossi gli interessi in gioco per accontentarsi delle giustificazioni con cui le Regioni hanno trasformato il cammino di quel provvedimento in un percorso di guerra.

L'ultima mina: una telefonata di Vasco Errani, con la quale il presidente della conferenza delle Regioni ha comunicato al ministro dell'Agricoltura che senza il via libera degli urbanisti non si va avanti. La melina dunque ricomincia. Non stiamo affermando che manchi la sensibilità, sia chiaro. Errani è lo stesso che durante l'ultima campagna elettorale per le regionali proclamava nei suoi comizi: «Dobbiamo fare una scelta radicale, ma dobbiamo farla. Basta consumare territorio in questa regione, investire sulla qualificazione urbana, sul recupero degli spazi, ma il territorio è una risorsa finita». Salvo poi, qualche mese più tardi, sostenere pubblicamente: «Noi abbiamo detto che vogliamo fermare, e lo ribadisco, il consumo del territorio. Pensate che possiamo farlo, semplicemente con una legge? No, è impossibile farlo con una legge, dobbiamo essere realisti». Di quel «realismo» ne sa qualcosa. Da ben tredici anni Errani è governatore di una Regione, l'Emilia-Romagna, che secondo Legambiente ha conquistato il quinto posto nella poco invidiabile classifica della cementificazione dopo Lombardia, Veneto, Campania e Friuli-Venezia Giulia, con quasi il 9 per cento di territorio non più naturale. Una graduatoria scalata a morsi, invadendo la pianura padana di enormi e talvolta inutili capannoni industriali. Senza nemmeno troppe precauzioni, come ha dimostrato il terremoto di maggio.

E i numeri certo dicono più di tante parole.

Dicono, per esempio, che il Paese più fragile d'Europa, cioè il nostro, ha la minore crescita demografica del continente e il maggiore consumo di suolo. Dal 1950 la popolazione è aumentata del 28 per cento, mentre la cementificazione è progredita del 166 per cento. Ogni giorno, informa uno studio dell'Istituto superiore per la ricerca ambientale, vanno in fumo cento ettari, ovvero dieci metri quadrati al secondo. In un solo anno il cemento impermeabilizza una superficie pari al doppio della città di Milano. A scapito, sì, del nostro meraviglioso paesaggio, dell'ambiente, delle risorse turistiche e dell'assetto idrogeologico, ma anche dell'agricoltura, cui sono stati sottratti in quarant'anni cinque milioni di ettari, facendo dell'Italia una nazione in fortissimo deficit alimentare: se fossimo costretti per qualche ragione a chiudere improvvisamente le frontiere non avremmo di che sfamare un quarto della popolazione. E le palazzine orrende che dilagano nelle periferie e nelle campagne, restando spesso senza acquirenti né occupanti, non si possono certo mangiare.

I numeri dicono, ancora, che il 7,3 per cento del territorio italiano, una superficie grande come la Toscana, è ormai cementificato. Per giunta sono dati vecchi di due anni: di questo passo avremmo già quasi doppiato la media europea di consumo del suolo, pari al 4,3 per cento.

L'offensiva è particolarmente violenta al Nord. Il 16,4 per cento della pianura padana, una delle aree agricole un tempo più vaste e produttive del continente, è coperta da costruzioni. La Provincia più cementificata d'Italia è Monza, dove il 54 per cento del territorio è artificiale. Segue quella di Napoli, con il 43 per cento. Ma subito dietro c'è Milano, con il 37 per cento: quasi il doppio rispetto a Roma, attestata sul 20. E poi Varese (29), Trieste (28), Padova (23), Como (19), Treviso (19), Prato (18)...

Siamo un Paese popoloso con un Nord molto industrializzato, certo. Ma lo è anche la Germania, dove abitano 229 persone al chilometro quadrato contro le 200 dell'Italia e c'è una industria ancora più sviluppata. Di più: il 35,2 per cento del territorio tedesco non è, come quello italiano, di montagna. Eppure la Germania ha consumato il 6,8 per cento del suo territorio contro il nostro 7,3. Realizzando pure le infrastrutture che noi non abbiamo fatto.

Un processo guidato dalla speculazione, ancor più dell'abusivismo, le cui responsabilità maggiori ricadono proprio su chi detiene le competenze nella gestione del territorio. In primo luogo, proprio le Regioni.

Chi si meraviglia delle difficoltà che sta incontrando ora la legge proposta da Catania farebbe bene a ricordare quello che accadde a Fiorentino Sullo mezzo secolo fa. Quando l'allora astro nascente della Democrazia cristiana commise l'imprudenza di proporre una legge urbanistica che avrebbe reso più difficile la speculazione edilizia: il provvedimento non passò e lui scomparve dalla scena politica.

Altri tempi, naturalmente. Ma la storia sembra ripetersi.

Non appena Catania gli sottopone il testo, le Regioni eccepiscono: così non va. Da destra e da sinistra. Il coordinatore degli assessori regionali all'Agricoltura Dario Stefano, esponente di Sinistra, ecologia e libertà, dichiara che c'è «una montagna di problemi» che lo rende «inapplicabile». Primo: lo Stato non può prendere decisioni che invece spettano a Regioni ed enti locali, come appunto il consumo del suolo. Secondo: «la terminologia». La terminologia? Sì, le parole. Non sono quelle adatte.

Ecco allora che il 10 ottobre, tre settimane dopo il varo della legge da parte del consiglio dei ministri, Regioni, Province e Comuni si riuniscono ed emettono la sentenza: «il testo va completamente riscritto insieme a noi». Ci si mette al lavoro, con la promessa di rispettare tassativamente la scadenza del 18 ottobre per far approdare la legge in Parlamento. Anche perché il tempo stringe. Qualcuno arriva a ventilare perfino l'ipotesi di un decreto legge: non era stato forse lo stesso Mario Monti a dire «avremmo dovuto mettere queste norme nel decreto Salva Italia»? Ma è un gioco delle parti. Il 18 passa inutilmente, mentre si prepara la mossa successiva. Il 25 ottobre l'assessore all'urbanistica della rossissima Regione Toscana, Anna Marson, demolisce dalle fondamenta la legge sul Corriere Fiorentino. Argomenta che oltre a essere inutile e verticistico, il provvedimento potrebbe ottenere persino l'effetto contrario. Il giorno prima, mentre il suo intervento va in stampa, Errani telefona a Catania spiegando la novità. Ovvero, che adesso è necessario il placet degli urbanisti. E se il biglietto da visita è quell'articolo...

Nota: ho già espresso il mio punto di vista nella postilla all'articolo di Settis da la Repubblica Lo confermo. (es)

Anna Marson, Il Corriere Fiorentino, 24 ottobre 2012

La fretta (e l'errore) di Roma

Aveva ottenuto il plauso di tutti noi, il ministro delle politiche agricole Catania, quando nel luglio scorso lanciò l’iniziativa di un provvedimento capace di ridurre, se non bloccare, il “consumo” di suoli agricoli fertili a causa delle nuove urbanizzazioni.

Come dargli torto? I dati dei censimenti dell’agricoltura degli ultimi decenni parlano chiaro, registrando due grandi derive: da un lato l’abbandono dei terreni più impervi e la loro conquista da parte del bosco, dall’altro l’avanzata apparentemente inesorabile delle aree urbanizzate. Visto che continuando così le aree agricole sono destinate comunque a sparire, perché non promuovere una politica capace di affrontare il problema?

Altri paesi, prima del nostro, avevano affrontato la questione del consumo di suolo. La Germania ai tempi di Angela Merkel ministra dell’ambiente, dopo aver monitorato con precisione le quantità di suoli consumati quotidianamente nei diversi Laender, aveva definito obiettivi quantitativi specifici di riduzione del consumo in atto.

Il nostro ministro dell’agricoltura però vuole fare presto, non ha tempo per andare a vedere quali dati sul consumo di suolo siano effettivamente disponibili in Italia, e considerare le varie alternative d’azione utili e possibili rispetto alle conoscenze e procedure in atto. Apprendiamo così dalla stampa che il Consiglio dei ministri lo scorso 14 settembre ha approvato in via preliminare lo schema di Disegno di legge quadro. Il testo, trasmesso nei giorni successivi alla Conferenza delle regioni, ha contenuti radicalmente diversi da quelli a suo tempo annunciati alla stampa.

Il Disegno di legge prevede infatti che per decreto venga definita la quantità di suoli agricoli urbanizzabili a livello nazionale, da ripartirsi successivamente fra le regioni. Una sorta di ‘quote di nuove urbanizzazioni’ sul modello delle ‘quote latte’.

Anche a prescindere dal fatto che la materia in questione è quella del governo del territorio e non della sola agricoltura, con competenze quindi concorrenti fra Stato e regioni, un simile dispositivo rischia di produrre l’effetto opposto di quello dichiarato, ovvero la corsa alle urbanizzazioni già previste e fatte salve dal provvedimento, nonché a quelle nuove. Soprattutto con una legge urbanistica nazionale che risale al 1942, e con le diverse regioni che di fatto sono state le uniche istituzioni a legiferare in modo organico in materia negli ultimi trent’anni.

Prendiamo il caso della Regione Toscana. Con una legislazione regionale più volte rinnovata a partire dal 1995 che, almeno in linea di principio, scoraggia l’ulteriore consumo di suolo e richiede una valutazione puntuale di tutte le previsioni pregresse, e con le condizioni di mercato attuali che vedono gran parte degli investitori muoversi con grande cautela, che cosa potrebbe succedere se le fossero assegnate delle quote di nuovo consumo di suolo da distribuire? Un parapiglia fra Comuni per aggiudicarsele, senza dubbio. Con quali destinazioni d’uso? Con quali progetti?

Le scarse risorse pubbliche e private disponibili nel contesto attuale richiedono a mio avviso di essere impiegate nella manutenzione e nel recupero di ciò che già c’è, e ha necessità di essere rigenerato garantendo investimenti, funzioni e prestazioni nuove: nella riqualificazione delle periferie, dei volumi e delle aree dismesse, ottenendo maggior efficienza energetica, miglior qualità estetica e ambientale, trasporti e connessioni civili.

Il ruolo del governo nazionale nel sostenere la promozione di politiche più virtuose al riguardo sarebbe assai importante, ma richiede il riconoscimento dell’innovazione prodotta in questi anni dalle Regioni anche in campo legislativo, per poter compiere significativi passi avanti, non indietro.

La via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni. Questo viene in mente leggendo il disegno di legge del ministro Catania sulle aree agricole. Le buone intenzioni dichiarate all’inizio sono state accolte con approvazione da Carlo Petrini e da altri (fra cui anch’io); ma il ddl, nella forma in cui è stato varato dal Consiglio dei ministri, porta dritto all’inferno.

Due gli intenti dichiarati: arginare il consumo dei suoli agricoli e abolire la norma che consente ai Comuni di dirottare sulla spesa corrente gli oneri di urbanizzazione anziché usarli per opere infrastrutturali, com’era invece nella legge Bucalossi. Belle idee, buoni principi. Ma il dispositivo della legge va in tutt’altra direzione. Proclamando di voler «contenere il consumo di suolo» e «tutelare i terreni agricoli», inciampa sin dall’art. 1 nell’infortunio di definire come terreni agricoli «quelli che sono qualificati tali in base a strumenti urbanistici vigenti».

Si consacrano in tal modo piani regolatori comunali spesso revisionati al ribasso per rendere edificabili le aree agricole, anzi si invitano i Comuni a intensificare l’urbanizzazione. La norma identifica la causa del guasto ma anziché sgominarla la consolida assecondando le decisioni di ogni Comune, come se non sapessimo che il maggior nemico del paesaggio non è più l’abusivismo, bensì una forma più cinica di devastazione, che segmenta all’infinito le norme subdelegando ai Comuni decisioni essenziali, e in tal modo rende “legittima” ogni nefandezza, anche contro la Costituzione.

Ancor più preoccupante è l’art. 2 del ddl, dove si prevede un meccanismo “a cascata” per cui il ministro dell’Agricoltura «determina l’estensione massima di superficie agricola edificabile sul territorio nazionale», che poi viene «ripartita tra le diverse Regioni», che a loro volta ripartiscono le quote fra i Comuni. In tal modo, anche un Comune dove nessuno avesse l’intenzione di edificare su suoli agricoli si vedrà recapitare il boccone avvelenato di un tot di suolo, con l’invito a renderlo edificabile anche se così non è nel piano regolatore né nelle intenzioni; anche una Regione virtuosa (se ce ne sono) si troverà sul piatto il dubbio regalo di una “quota” di terreni agricoli da edificare. La distribuzione di ulteriori quote di suolo edificabile verrà accolta dai peggiori Comuni come un dono impensato, ma creerà difficoltà e susciterà cupidigie anche nei Comuni più virtuosi. L’esito finale non fa dubbio: meno tutela dei suoli, più cementificazione.

Il «minor consumo di suolo» è già previsto dal Codice dei beni culturali (art. 135), che lo lega strettamente alla «salvaguardia delle caratteristiche paesaggistiche ». Il nuovo ddl invece, pur citando questo articolo, perverte la pianificazione paesaggistica, non più intesa come rilevazione tecnica delle vocazioni dei territori e loro difesa, ma come obiettivo politico-economico di redistribuzione dei suoli agricoli per uso edilizio, la cui preminenza è considerata quasi una legge di natura. Lo conferma l’art. 4, che concede aiuti e privilegi ai Comuni che vogliano procedere alla «ristrutturazione » dei fabbricati rurali, evidentemente considerati in blocco non meritevoli ditutela: poiché ristrutturare può comportare demolizioni e ricostruzioni a parità d’ingombro, questo è un durissimo colpo alla conservazione del patrimonio edilizio rurale minore in mattoni o pietra a vista che ancora (per poco?) punteggia il nostro paesaggio agricolo.

Quanto alla destinazione degli oneri di urbanizzazione, è da temere che il ddl resti lettera morta o abbia effetti opposti a quelli voluti. Infatti, se i Comuni stanno svendendo il proprio territorio pur di incassare gli oneri di urbanizzazione non è solo per questa norma, ma anche per la cronica mancanza di liquidità, dovuta al drastico taglio dei finanziamenti statali. Venendo a mancare gli oneri di urbanizzazione senza alcuna compensazione, a che cosa ricorreranno i Comuni? Sapranno resistere alla tentazione di utilizzare le “quote edificabili” di terreni agricoli ricevute in dono per spremerne qualche nuovo introito?

Per giunta, intervenendo a gamba tesa sul territorio, il ministro dell’Agricoltura avoca a sé funzioni che la Costituzione (art. 117) assegna alle Regioni. Il ddl accresce così il caos terminologico che risulta, per sommatoria delle norme, dal sovrapporsi di tre parole-chiave: “paesaggio”, “territorio”, “ambiente”. Nel nostro ordinamento, la tutela del “paesaggio” è affidata alla tutela dello Stato (art. 9 Cost.), e in particolare al ministero dei Beni culturali, mentre la gestione del “territorio” spetta alle Regioni e l’“ambiente” è di competenza mista, e comunque a livello dello Stato centrale se ne occupa il ministero dell’Ambiente. È come se l’Italia si fosse moltiplicata per tre, generando conflitti di competenza e un’incertezza della norma che contribuisce al degrado dei paesaggi e della cultura giuridica. A queste “tre Italie” il nuovo ddl ne aggiunge una quarta, quella dei suoli agricoli: un ulteriore moltiplicatore dei conflitti. Ma al di là di questa giungla di parole, può mai esistere un territorio senza paesaggio, senza agricoltura e senza ambiente? O un ambiente senza territorio, senza agricoltura e senza paesaggio? Un paesaggio senza territorio, senza agricoltura e senza ambiente? Un’agricoltura senza ambiente, senza paesaggio e senza territorio?

Nel nostro paese, terreno di caccia per gli speculatori e per gli investimenti in edilizia delle mafie (ne ha scritto in queste pagine Roberto Saviano), non serve moltiplicare le istanze e i conflitti, ma ricomporre in unità una normativa stratificata, dispersiva, incoerente. Nulla difende il paesaggio e l’ambiente quanto un’agricoltura di qualità. Una porzione vastissima del territorio nazionale è paesaggio agrario, segnato da una millenaria civiltà contadina, che si intreccia in modo inestricabile con la cultura delle élite: il paesaggio plasmato dalla vanga è lo stesso che fu rappresentato dai pittori ed esaltato nel Grand Tour. L’intima fusione di paesaggio e patrimonio storico-artistico ha proprio nell’uso agrario dei suoli il suo specifico punto di sutura, in un equilibrio armonico che fece dell’Italia il giardino d’Europa. Come ha scritto Andrea Zanzotto, «dopo i campi di sterminio stiamo assistendo allo sterminio dei campi». Non è questo che gli italiani si aspettano da chi ci governa.

Postilla

Altre valutazioni critiche (pur rispettose delle ottime intenzioni) le trovate in questa cartella. Ci limitiamo per conto nostro a tre considerazioni:
(1) Il territorio è una realtà complessa, impiegata dall’uomo per molteplici esigenze, spesso potenzialmente in conflitto tra loro: molte meritevoli di essere soddisfatte trovando un equilibrio tra loro (come quelle di alimentarsi, di abitare, di muoversi, di curarsi, di apprendere, di godere), altre discutibili e. secondo alcuni, meno o per nulla meritevoli (come quella di adoiperare il suolo come occasione per arricchirsi sfruttando un patrimonio costruito dalla natrura e dalla storia di tutti. Anche le prime possono essere soddisfatte in modo diverso, e divenire più compatibili con le altre. Una legge che vogli affrontare uno degli aspetti del territorio (e delle esigenze che esso deve soddisfare) non può prescindere delle interrelazioni con gli altri dispositivi che regolano l’uso del territorio.
(2) In particolare, in Italia è dominante (nell’attuale sistema economico e nel sistema giuridico) il peso della proprietà privata e la “propensione” del territorio a essere fonte di rendite private crescenti. Una legge che voglia privilegiare un aspetto ( ed esigenze) alternativi deve essere rigorosissima sul piano della forza giuridica della sua lettera. Perciò è giusto – come suggerisce Settis assumere come punto di forza e principale ancoraggio il principio della tutela del paesaggio come responsabilità nazionale, introdotto dalla costituzione e sviluppato nei suoi strumenti applicativi da Giuseppe Galasso, e poi dal Codice del paesaggio. Ricorderò che una proposta di Luigi Scano, ripresa nella cosiddetta “ legge di eddyburg”, era proprio quella di inserire, tra i beni pasaggistici vincolati ope legis, anche le aree rurali (oltre ai boschi e i fiumi, i laghi e le coste, le aree archeologiche e i vulcani).
(3) Occorre affermare con forza alcuni principi che dovrebbero assumere valore costituzionale: (a) la terra biologicamente attiva (non laterizzata) è un valore in sé; (b) ne può essere sottratta ai ritmi della natura un’ulteriore porzione solo se questo serve (e là dove serve)per altre esigenze socialmente rilevanti, non soddisfacibili in altro modo; (c) la sottrazione di terra libera al ciclo biologico deve comunque avvenire in modo trasparente e secondo criteri inoppugnabili, quindi mediante i metodi e gli strumenti della pianificazione della città e del territorio.

Demotorizzazione nelle scelte dei consumatori, forse ricerca di un rapporto diverso con la mobilità. Corriere della Sera 27 ottobre 2012, con postilla.
La Grande Crisi sta cambiando il rapporto tra gli italiani e l'autostrada. La causa prima è rintracciabile nell'abnorme aumento del prezzo della benzina (+17,7% dal settembre 2011 a quello 2012) ma più in generale il reddito disponibile cala e nelle strategie di adattamento rientra anche la mobilità. Il fenomeno riguarda sia il Nord sia il Sud con il divario che cresce ulteriormente perché la caduta nel Mezzogiorno è più larga di 2-3 punti.Una cartina di tornasole di questi mutamenti la si può rintracciare nelle gare bandite per aprire nuovi punti ristoro nelle aree di servizio. Nel 2012 sono state ben 8 quelle per le quali non è stata presentata nessun offerta. È vero che quattro aree sono in Sicilia e il Sud se la passa malissimo ma altrettante sono ubicate a Nord, tre in Piemonte sulla Asti-Cuneo e una sulla Brebemi a Caravaggio in Lombardia.

Gli italiani sono dunque meno disposti di ieri a viaggiare per tempo libero e consumare in autostrada. Le stime aggregate del traffico nelle regioni del Nord nei primi sette mesi del 2012 parlano di un calo tra il 6-7% e la novità è che diminuisce più il traffico leggero di quello pesante, la mobilità delle persone più dei Tir. Una novità assoluta perché finora aveva tenuto e comunque erano almeno 30 anni che il traffico leggero cresceva. Meno movimento vuol dire meno clienti nei ristoranti, si comprano meno sigarette, giornali, libri e persino biglietti della lotteria che pure avevano conosciuto fino al 2011 un piccolo boom. Quanto al carburante nel primo semestre 2012 le vendite di benzina sono crollate del 27,1% e di gasolio del 19,1%.

Gli storici si potranno sbizzarrire a tentare paragoni con il dopo-crisi petroliera del 1973 che comportò il fallimento di Motta, Alemagna e Pavesi e il loro passaggio all'Iri. I cronisti annotano l'andamento nelle singole tratte del Nord (dati Aiscat): sull'autostrada della Cisa da gennaio a luglio 2012 il traffico leggero è sceso del 10%, sulla Torino-Bardonecchia il calo è stato dell'11,9%, sulla Torino-Piacenza -9,5%, sull'Autostrada dei Fiori -8,4%, sulla Brescia-Padova -6,2% e sulla Piacenza-Brescia -7,1%. Secondo Carlo Carminucci, direttore per le ricerche sulla mobilità di Isfort, la discesa del traffico leggero era stata significativa già nel 2011 ma oggi siamo di fronte «a un rinserramento psicologico degli italiani» e la diminuzione per gli spostamenti del tempo libero accelera anche in regioni come al Nord che pure vantano un cartellone di iniziative (fiere, festival, partite di calcio, manifestazioni politiche) più che ampio. «È ancora troppo presto per dire che siamo di fronte a una modifica strutturale dei comportamenti ma l'inversione di tendenza c'è». Ci si sposta meno perché c'è meno disponibilità di reddito per il tempo libero e anche nei weekend il paesaggio automobilistico è cambiato di molto.

Le code non ci sono più o almeno sono circoscritte alla domenica pomeriggio e agli automobilisti pigri che si mettono in strada all'ora canonica per tornare a casa e vedere in tv il posticipo del calcio di serie A. È vero che la riduzione degli accodamenti è dovuta ad alcuni ampliamenti realizzati dai vari gestori ma complessivamente si stima che nei weekend il calo del traffico leggero sia più sensibile che nei giorni feriali con punte del 30% in meno. Se all'Isfort sono prudenti, il responsabile delle relazioni istituzionali della società Autogrill, Giuseppe Cerroni, è pessimista. Racconta come una volta si prendesse l'autostrada in automatico, senza pensieri, mentre oggi si entra e si esce. La rete seguiva l'orografia del Paese con un'offerta di servizi ravvicinati tra loro, un'area di servizio ogni venti chilometri. Ora invece tutto ciò vacilla. Per effetto del calo dei veicoli leggeri e di quelli pesanti le vendite di benzina sono crollate del 27% e lo scontrino medio negli autogrill, che era il più alto d'Europa, oggi è sceso di brutto.

L'acquisto di generi vari in autostrada è diminuito più del traffico: -10%. Ai ristoranti Ciao i clienti prendono o il primo o il secondo e non più entrambi. Contorno e dolce manco a parlarne. Solo i panini tengono, e anzi aumentano le vendite, ma la selezione è attenta. I clienti disposti a spendere di più si orientano verso il panino farcito con culatello mentre quelli più orientati al risparmio si accontentano del classico pane con mortadella. «La correlazione tra traffico autostradale e Pil è strettissima ma il calo del traffico leggero fa riflettere. Le famiglie stringono la cinghia più delle aziende. Cambiano il proprio modello di consumo e sostituiscono il percorso in autostrada magari con il treno o usando di più il telefono» commenta il professor Andrea Boitani, esperto di economia dei trasporti.

Per avere un'idea della discontinuità vale la pena ricordare come fino a qualche anno fa si discutesse di costruire nelle aree di servizio addirittura degli shopping mall dove trovare di tutto, dal divano al computer fino all'abito formale. Oggi le gare per nuovi spazi commerciali vanno deserte ma si parla di chiudere la notte o durante la settimana alcuni punti ristoro. Chi viaggerà dopo cena dovrà programmare le soste o accontentarsi dei distributori automatici. Chiuderanno i bar laddove in una sola area ce n'è più di uno. Contraddicendo il governo Monti che liberalizzando ha concesso ai benzinai di aprire bar e ristorante accanto alla pompa.

Ovviamente segna il passo anche il traffico pesante direttamente legato alla contrazione dell'economia reale e la cosa «si vede ad occhio nudo» sostiene Veniero Rosetti, imprenditore e dirigente della Cna-Fita, una delle organizzazioni dei padroncini. «Sulle autostrade del Nord ma persino sull'Appennino tosco-emiliano l'incolonnamento di Tir è diventato un'eccezione». Rosetti racconta come almeno il 60% dei viaggi oggi sia sottocosto («il mercato non ci riconosce l'aumento del gasolio») e come abbiano chiuso già 1.300 ditte. I padroncini, a suo dire, riescono a comprimere all'osso i margini di profitto e si accontentano di vivere con 16-17 mila euro l'anno, chi invece ha alle proprie dipendenze autisti contrattualizzati incontra maggiori difficoltà. Le piazzole che conoscevamo erano sempre intasate di Tir, ora accade all'ora di pranzo e alle 20 di sera quando gli autisti si concedono la meritata pausa pasto. Complessivamente il traffico di Tir nella rete di Autostrade per l'Italia è sceso nel periodo gennaio-luglio 2012 dell'8% ma ad aggravare il risultato pesa il calo (maggiore) del Sud. Comunque sulla Piacenza-Brescia si registra un -6,9%, sulla Brescia-Padova -5,6%, sull'Autostrada dei Fiori -7,6%, sull'Autostrada della Cisa -7,3% e sulla Torino-Piacenza -8,4%.

Dove ancora invece si incontra traffico è nei raccordi autostradali vicini alle grandi città del Nord. Il fenomeno è monitorato relativamente da poco e non ci sono dati attendibili ma le città più interessate sono Milano, Genova e Venezia e il segmento Milano-Bergamo è quello considerato maggiormente «complesso». Come mai? L'intensità del traffico nelle tangenziali è dovuta a trasformazioni sociali di lungo periodo: il lavoro si è frantumato e non segue più itinerari e orari della grande fabbrica, consistenti fette di popolazione urbana si sono trasferite nell'hinterland e ogni mattina tornano nella metropoli per lavorare. E l'offerta di servizicar poolingper ora non ha sfondato (nel Milanese lo usano solo 2.500 persone).

Con le autostrade meno frequentate anche il dibattito sulle infrastrutture è destinato a cambiare. La società Autostrade ha confermato i suoi piani di investimento ma secondo l'amministratore delegato Giovanni Castellucci, «non ha senso ragionare oggi in una logica keynesiana, non tutte le infrastrutture creano nuovo sviluppo». È fondamentale, invece, «la capacità di selezionare gli investimenti puntando su quelli che migliorano la competitività perché supportano il turismo internazionale e aiutano la mobilità nei centri urbani». Chiosa il professor Boitani: «In passato si ragionava di nuove infrastrutture quasi a prescindere dai flussi. Oggi finalmente i dati dettano legge».

Postilla
La vera e propria valanga di (utilissimi) dati forniti dall’articolo forse distoglie rapidamente dalla tesi implicita nell’incipit, dandola poi per scontata: tutto è un problema congiunturale legato alla crisi. Peccato che una grande quantità di altri segnali, diretti e indiretti, stia a significare l’esatto contrario. Piaccia o non piaccia al 99% dei commentatori economici, tutte le volte che si affronta il tema automobilistico in termini esclusivamente quantitativi, evitando accuratamente qualunque altra ipotesi, si finisce per lasciare il lettore sospeso nel nulla, forse in attesa, insieme al giornalista, che ricominci il flusso normale delle cose, compreso il petrolio, le automobili, le famigliole in gita eccetera eccetera. Mentre invece (lo possiamo leggere facilmente tutti i giorni su altre pagine dei quotidiani) parrebbe proprio il modello sotteso all’infinito sviluppo autostradale ad essere in discussione, per il lento ma inesorabile mutamento di paradigma indotto dalle crisi ambientale ed energetica, e di cui quella economica rappresenta solo una gigantesca cartina di tornasole. Per citare un Autore abbastanza riassuntivo del tema, anche se non troppo noto nel nostro paese, è il modello prospettato dallo scenografo designer Norman Bel Geddes verso la metà del ‘900, con lo straordinario libro Magic Motorways e il paralleloo padiglione Futurama all’Expo universale di New York. Ovvero di un intero pianeta dove le corsie asfaltate costituiscono la rete che alimenta tutta l’attività economica e sociale, finendo in un modo o nell’altro per costituirsi come mondo a parte che dà senso a tutto il resto. Da qui nascono poi (lo sponsor di Bel Geddes è la General Motors) miti e realtà dominanti in gran parte del secolo breve, dalla dispersione urbana ai modelli di consumo di prodotti, spazio, tempo che tutti abbiamo considerato del tutto scontati per decenni. Adesso non più, e ci sarebbe da riflettere, magari senza cadere in orizzonti paranoici o inconsapevolmente reazionari. Ma questa è un’altra storia (f.b.)

Tecnicamente si chiama "morosità incolpevole" ed è alla base della stragrande maggioranza degli sfratti. Il rischio che diventi una vera bomba sociale. Anche perché sta crollando l'acquisto di immobili e crescendo sempre più la richiesta di affitti.

Nel 2011 in Italia sono stati ordinati 63mila sfratti di cui ben 56mila per morosità. Un dato impressionante se si pensa che oltre 28 mila di questi sono stati eseguiti dalle forze dell'ordine. Una "bomba sociale", come l'hanno definita i sindacati, che rischia di esplodere in un Paese già percorso da molte tensioni. E quelle relative alla casa possono diventare molto pericolose.

Il maggior numero di richieste di sfratto si verifica in Lombardia (12.922), il 20,2% del dato nazionale (dati del Ministero degli Interni). Seguono Lazio (7.625), Emilia Romagna (6.532) e Piemonte (6.208). Lazio a parte, ai primi posti tutte Regioni del Nord, quindi. E il dato preoccupa sempre di più perché dal 2010 al 2011 l'intervento delle forze dell'ordine è cresciuto dell'11%. Se pensiamo che il 90% degli sfratti avvengono per "morosità incolpevole", determinati cioè dal reddito insufficiente, significa che a fronteggiarsi nelle strade saranno sempre di più persone disperate contro polizia e carabinieri che eseguono ordini dati da istituzioni che non sanno come affrontare il problema. "È in questo momento che il Governo deve urgentemente intervenire, - dice Guido Piran, Segretario Generale del Sicet, Sindacato Inquilini Casa e Territorio -. E deve farlo prima della fine della legislatura, perché questa è una situazione che con la crisi economica e occupazionale si fa sempre più grave".

Le proposte da parte dei sindacati di settore, uniti nella stessa richiesta, sono precise: "Serve una sospensione degli sfratti dopo il 31 dicembre -, continua Piran -. Poi è necessario ampliare l'offerta di edilizia residenziale pubblica. La strada è l'immediata disponibilità per gli IACP (edilizia popolare) di 70 milioni di euro giacenti al Ministero delle Infrastrutture". Questi fondi sono messi a disposizione per emergenze abitative, in particolare volti al recupero di alloggi inagibili per i quali bastano interventi dal costo inferiore ai 30mila euro ciascuno. "Utilizzando questi fondi si potrebbero recuperare 3000 alloggi in tutta Italia da assegnare agli sfrattati. A questi immobili si aggiungerebbe la possibilità di poter usufruire delle detrazioni per le ristrutturazioni e l'efficientamento energetico. Questo per il pubblico. Sul versante degli affitti privati è necessario introdurre una fiscalità di vantaggio per i contratti concordati agendo sulla cedolare, abbassando l'aliquota dal 19 al 10% e sull'Imu con percentuali ridotte sulle locazioni". Anche l'evasione è particolarmente florida negli affitti: "I canoni devono essere pagati con mezzi tracciabili e l'inquilino deve avere delle detrazioni su una quota del canone come per i mutui".

Milano ha una delle situazioni peggiori per quanto riguarda gli sfratti e nel giro di pochi anni i dati sono peggiorati di molto: 10.372 sfratti emanati su 16.783 sentenze definitive. Il 30% delle esecuzioni presentate all'Ufficiale Giudiziario in tutta Italia arrivano dalla Lombardia e sono 4.731 quelle eseguite con la presenza dell'Ufficiale Giudiziario stesso. Ogni giorno, sono 25-30 le richieste di intervento delle forze dell'ordine, 4-5 le esecuzioni. "Nel 1983, nel capoluogo lombardo la percentuale dei morosi era il 10%", spiega Stefano Chiappelli, segretario del Sunia, Sindacato Unitario Nazionale Inquilini e Assegnatari. "Una delle motivazioni di questo aumento di morosità è sicuramente il caro affitti che ha segnato l'emigrazione di numerose famiglie verso città limitrofe, Novara su tutte. A Milano persino nelle periferie non si paga meno di mille euro al mese. Le fasce più deboli della popolazione, soprattutto giovani e studenti, trovano una sistemazione nella periferia della periferia".

Poi ci sono i tagli al Fondo sostegno affitti lombardo (che quest'anno cambia nome in Fondo sostegno disagio acuto). Per il 2012, la quota disponibile è di 12 milioni di euro. Nel 2011 il fondo contava su 40,8 milioni e addirittura per il 2013 non è previsto nessun contributo. Solo due domande di sostegno economico su dieci verranno soddisfatte. Tagli da parte dello Stato, ma anche dalla Regione e dai singoli Comuni. Il risultato: delle 65 mila domande di sostegno che mediamente si raccolgono ogni anno, ne saranno accolte solo 14 mila.

"Il problema non sono le case che mancano ma i prezzi inaccessibili per la cittadinanza", spiega Leo Spinelli del Sicet. Infatti sono 70mila gli alloggi sfitti a Milano e 4.500 gli occupanti abusivi sparsi in tutta la città. "È inutile fantasticare su ceti medi che non esistono", continua Spinelli. "Se si guardano i redditi delle 23mila famiglie che hanno fatto domanda per una casa popolare, ci si rende conto che per loro è impossibile pagare anche un affitto di 500 euro al mese. Sono circa 16mila, infatti, le persone con un reddito Isee inferiore ai 7.500 euro. Questi non pagheranno mai, hanno bisogno di tutele". Otto famiglie su dieci fanno fatica ad arrivare a fine mese ma il costo della vita aumenta e con questo anche l'affitto. Secondo l'Istat, dal 2002 ad oggi i salari medi annui sono diminuiti di 1500 euro pro capite, al contrario dei prezzi di mercato. "Vogliamo che siano estese le tutele di chi ha difficoltà a pagare un mutuo anche a chi fatica con l'affitto", riprende Chiappelli. "A questo si aggiunge la riforma nazionale della legge 431, ritornando all'affitto legato al reddito. La Regione invece dovrebbe aumentare la quota per il sostegno agli affitti, usando ad esempio i 6 milioni di euro destinati all'abbattimento degli interessi sui mutui".

L'affitto di abitazioni probabilmente modificherà il mercato immobiliare. La domanda di locazioni in affitto, come dimostrano i dati resi pubblici dal Sicet, cresce sempre di più: le transazioni relative all'acquisto della casa sono diminuite del 25% in pochi anni e i prestiti bancari del 50%, cioè si sono dimezzati. Nello stesso tempo la richiesta di alloggi in affitto è aumentata del 20%. Un trend che lo Stato non può più ignorare.

È record di case invendute. Intanto si continua a costruire

Seicentonovantaquattromila. A tanto ammontano gli alloggi invenduti in Italia secondo la società di studi economici Nomisma. Dall'altra parte, secondo Federcasa, ne servono 583mila per soddisfare l'esigenza di abitazioni popolari. Un conto che non torna. Ma non per l'Ance (Associazione nazionale dei costruttori edili) che persegue la costruzione di 328mila nuovi appartamenti ogni anno.

Intanto i redditi diminuiscono e i prezzi delle case non scendono creando le basi per una bolla immobiliare.Il rapporto "Abitare in Toscana" redatto dalla Regione Toscana riassume questa dicotomia in pochi e semplici numeri: da una parte ci sono 423mila immobili toscani non locati, dall'altra 24mila domande di alloggio popolare. L'idea, in tempi di crisi, che è venuta all'Assessore al Welfare Salvatore Allocca è stata quella di tassare gli immobili inutilizzati. Allocca ha proposto di istituire una tassa di scopo di 10 euro al mese su ogni immobili sfitto: già questo basterebbe per generare un introito di 50milioni di euro che potrebbero essere usati per garantire a chi subisce uno sfratto una sorta di sostentamento. Il contributo statale sugli affitti in Toscana è sceso da 8,6 milioni a 600mila euro: una riduzione del 93%.

Un'idea che potrebbe piacere a molti, al di fuori della Toscana. In particolare a chi ha trovato nell'occupazione l'unico modo per non rimanere senza casa: "Sono quindici anni che seguo casi di occupazione degli alloggi inabitati da parte di famiglie sfrattate" racconta Carlo Sottile. Sottile fa parte di un'associazione che si chiama Coordinamento Asti-Est. Negli ultimi anni sta coordinando la gestione di tre case occupate ad Asti. "Da una parte c'è gente che rischia o che ha perso la casa e dall'altra degli alloggi vuoti, sfitti o invenduti. Basta questo fenomeno, che negli anni si è aggravato, a giustificare le azioni di chi come noi contrasta gli sfratti e gestisce le occupazioni di alloggi altrimenti abbandonati all'incuria". L'occupazione più significativa dura dal 2010: si tratta di un edificio costituito da 6 alloggi di proprietà del Ministero della Difesa: "Ora è autogestito da altrettante famiglie: ci sono delle regole da rispettare, non è un bivacco ma un'abitazione a tutti gli effetti. Le famiglie versano un canone d'affitto simbolico all'associazione, canone misurato sul reddito e il salario dei lavoratori, come si faceva prima dell'introduzione della legge 431".

"La seconda occupazione riguarda degli ambulatori di proprietà dell'Asl, abbandonati anche questi, che abbiamo dovuto manutenere ricavandoci 11 unità abitative. Tra tutte le fatiche per allacciare la luce e l'acqua abbiamo ricavato un ottimo risultato abitativo, da prendere come esempio dato che sempre più la gente è costretta a pagare affitti esagerati per vere e proprie topaie. L'ultima occupazione invece era di una proprietà bancaria".

Ad Asti ci sono 700 richieste di alloggi popolari ma entro la fine dell'anno si prevede la costruzione di 18 alloggi nuovi più 30 nel 2013 "quando sarebbero disponibili 3000 alloggi residenziali vuoti e più di trenta edifici abbandonati. La logica delle amministrazioni è che tutto debba passare attraverso il libero mercato: ma queste famiglie sono fuori mercato, escluse dalle logiche immobiliari colpevoli di aver accumulato edifici senza funzioni e di aver fatto un uso disordinato del territorio. E come se non bastasse adesso si fanno affari con il social housing".

Già. Molte famiglie fanno richiesta di alloggi "sociali", a canoni convenzionati, ma finora l'edilizia non è stata particolarmente attenta a questa domanda. Secondo il Dipartimento di architettura e pianificazione del Politecnico di Milano il 75% della produzione edilizia tra il 2002 e il 2008 si è concentrata nell'edilizia libera e solo il 7,5% all'edilizia sociale nonostante il 42,5% della domanda faccia riferimento a quest'ultimo tipo di edilizia (e secondo le loro proiezioni nel 2018 ci saranno più di 367mila abitazioni vuote). Ma ora il trend sta cominciando a cambiare. Con l'aiuto dello Stato. Infatti CDP (Cassa depositi e prestiti) ha attivato un Fondo investimenti per l'abitare (Fia) che permetterà la costruzione di 15mila nuovi alloggi di housing sociale, nuove costruzioni ovviamente, di cui però il 65% verranno, secondo il Cresme (Centro Ricerche economiche sociali di mercato per l'edilizia e il territorio), affittate non a canone sociale ma venduti a prezzi convenzionati e affittati "con patto di futura vendita". Come dire alle aziende costruttrici: se il mercato edilizio libero è in crisi perché non vi buttate su quello sociale? Lo Stato ti dà una mano. Con soldi pubblici.

Sostegno alle famiglie? È un "diritto per tutti"

Così si chiama l'associazione, composta in larga parte da immigrati, che a Brescia aiuta le persone sotto sfratto. Il presidente del comitato Umberto Gobbi: "Le ordinanze non riguardano solo più immigrati, come molti credono, ma sempre più italiani".

Se una famiglia viene lasciata da sola il più delle volte non resiste a un'azione di sfratto e per cui deve lasciare l'abitazione. Ma se il giorno dello sfratto si presentassero decine e decine di persone le cose cambierebbero.

E così, attraverso la partecipazione, l'Associazione Diritti per Tutti da sostegno a centinaia di famiglie investite dalla valanga sfratti. Nata a Brescia due anni fa, l'Associazione Diritti per Tutti è un gruppo spontaneo autorganizzato composto in larga parte da immigrati. "Il nostro è un comitato nato non solo per sostenere le famiglie sotto sfratto" precisa Umberto Gobbi, portavoce dell'Associazione "ma anche per contrastare tutte quelle forme di razzismo istituzionale che stanno dilagando nel nostro Paese, vedi tutte quelle leggi fatte per escludere gli immigrati dalla società. Per quanto riguarda gli sfratti c'è da dire che le ordinanze non riguardano solo più famiglie di immigrati, come molti credono, ma riguardano sempre più anche famiglie autoctone. Direi che quelle italiane sono un buon 40%. Finora siamo riusciti a bloccare più di duecento sfratti in presenza degli Ufficiali giudiziari e delle Forze dell'Ordine in due anni. E questo grazie soprattutto alla partecipazione di molta gente sensibile al tema".

Il Comitato opera già da tempo perché gli enti locali mettano al centro delle proprie politiche la questione del diritto alla casa. Nel solo mese di settembre l'Associazione ha preso parte a oltre venti sfratti in presenza dell'Ufficiale Giudiziario. Sempre a settembre ha dato avvio alla campagna "Nessuna casa senza persone, nessuna persona senza casa". "La soluzione deve passare dalla moratoria e dalla requisizione di migliaia di edifici vuoti degli enti, società, banche, immobiliari e grandi proprietari. Vanno messi a disposizione delle famiglie sfrattate seguite dai Comuni e dai loro servizi sociali" chiosa Umberto. "Per gli immigrati, che fanno parte attivamente dell'Associazione, una casa non significa solo un'abitazione ma anche una residenza legale, usufruire dei servizi pubblici e anche iscriversi alle graduatorie per la domanda di un edificio popolare. La casa, da molti Comuni leghisti, viene ormai usata come strumento per discriminare ed escludere".

Bisogna finalmente far partire, in modo serio e pianificato, la ricostruzione, praticamente ferma a tre anni e mezzo dal sisma, del centro storico aquilano e dei borghi antichi del circondario. È stato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, a dire autorevolmente «basta con le New Town, occorre ricostruire L’Aquila». Una esortazione politica che va raccolta subito, riflettendo anche sulle cause di un così lungo stallo. Fu Berlusconi a chiamare New Town i costosissimi quartieri-satellite, dei ghetti in realtà, alzati senza alcun disegno urbanistico nella campagna. Nemmeno parenti delle vere New Town di marca laburista, città nuove, servite di tutto, destinate a decongestionare nel dopoguerra la «Great London».

Berlusconi combinò lo sbrigativo «ghe pensi mi» delle New Town col trasferimento di migliaia di persone negli alberghi della costa, per affermare, insieme all’allora capo della Protezione civile, Guido Bertolaso, un proprio «modello» che prescindesse anche dalle più riuscite esperienze di ricostruzione post-terremoto, come Friuli e Umbria-Marche. Esperienze, queste, condotte in porto sotto la regia delle Soprintendenze e del Ministero per i Beni Culturali in accordo con le comunità locali collocate in piccoli villaggi di prefabbricati in legno dotati di scuole e di altri servizi sociali, vicino ai centri colpiti. Il ministro era Walter Veltroni, il direttore generale, e commissario straordinario, l’indimenticabile Mario Serio che nominò suoi vice Antonio Paolucci per l’Umbria e Maria Luisa Polichetti per le Marche, con risultati eccellenti.

A L’Aquila invece la regia l’assunsero Berlusconi & Bertolaso. Nei confronti della loro politica si levarono allora poche voci critiche. Fra esse ci fu certamente l’Unità. Ci fu un gruppo di urbanisti (Edoardo Salzano, Vezio De Lucia, Georg Josef Frisch curatore del documento pamphlet L’Aquila, non si uccide così anche una città? , uscito nello stesso 2009). Berlusconi portò qua il G8 scippato alla Maddalena, mendicò adozioni internazionali, impegnò di suo pochi fondi – rispetto a quelli massicci investiti dal governo Prodi-Veltroni in Umbria-Marche – e soprattutto tagliò fuori Soprintendenze e tecnici di fama internazionale. Come Giuseppe Basile, rimandato a casa nonostante avesse coordinato i restauri della Basilica Superiore di Assisi, riconsegnata in totale sicurezza (stava crollando a valle) e restaurata in ogni centimetro, dopo soli due anni e due mesi. Si obietta: L’Aquila è molto più grande di Gemona o di Assisi. Ma nel secondo caso l’area terremotata andava da Assisi a Urbino (il Duomo subì gravi danni), e investiva tanti altri centri storici: Foligno, Gualdo Tadino, Nocera Inferiore, Tolentino, Camerino, Fabriano.

Il ministro Bondi risultò assente. Come ora lo è Ornaghi, purtroppo. Nel 1997, con Prodi, si erano mobilitati mezzi, energie, competenze per un piano serio di ricostruzione. Nel 2009 l’incolta sicumera del premier fece in realtà mancare una regia forte e un programma da subito orientato al restauro e al recupero. Nei quali noi italiani – ecco il grottesco – siamo maestri nel mondo: fra strutturisti, architetti, urbanisti, restauratori di ogni materiale, ecc. Da tre anni e mezzo il «provvisorio» impera e l’emergenza non tramonta mai.
Ora il ministro Fabrizio Barca annuncia l’arrivo di fondi Ue per la ricostruzione. Sulla base però del debole e arretrato, documento Ocse-Università di Groeningen, che, prescindendo dalle esperienze italiane più avanzate e ormai sedimentate (dalla Carta di Gubbio in qua), distingue ancora fra «monumenti» da conservare ed «edilizia minore» da demolire, proponendo (che innovazione) la conservazione delle sole facciate storiche dietro le quali costruire ex novo. Così regrediremmo di decenni.

Benissimo dunque il «basta con le New Town», basta col provvisorio. Bisogna andare avanti però con progetti seri e fondati di restauro-recupero, coinvolgendo competenze reali, locali e nazionali, facendo partecipare i comitati di cittadini, lasciando perdere i lustrini degli archistar e badando anzitutto agli abitanti che vendono e se ne vanno, disperati da tanta lentocrazia e insipienza.

Giuseppe Guzzetti cerca le parole giuste. «Il governo sta perdendo un'occasione incredibile. Potrebbe comunicare al Paese che si sta per realizzare nelle varie Regioni uno straordinario piano di edilizia sociale ma non lo fa. Ci vorrebbe una bella conferenza stampa! Ci sono almeno altri due miliardi di investimenti da qui al 2015 che aspettano solo di partire. Valgono tra i 20 e i 30 mila alloggi da offrire in affitto a prezzi vantaggiosi. E tutto ciò mentre metà delle imprese edili italiane rischia di chiudere per mancanza di lavoro. La nostra, poi, è un'edilizia di qualità perché oltre alla casa dà servizi, verde e risparmio energetico».

Guzzetti parla da presidente dell'Acri ma anche in virtù del fatto che ha seguito sin dal primo giorno dal suo ufficio in Fondazione Cariplo l'esperienza italiana dell'housing sociale, una formula che da noi ha una tradizione recente mentre in altri Paesi europei (Olanda e Inghilterra) vanta radici robuste. In Italia esiste un apposito Fondo nazionale, il Fia, che è partecipato dalla Cassa depositi e prestiti e dalle principali banche, assicurazioni ed enti previdenziali. In virtù del decreto emesso a luglio il Fia è stato dotato di maggiori spazi di intervento nelle realtà territoriali e potrà intervenire in misura più consistente nei singoli fondi locali. Ma purtroppo il decreto governativo da agosto a oggi non ha fatto un passo in avanti e non è stato ancora pubblicato inGazzetta Ufficiale. Le indiscrezioni di stampa parlano di dubbi avanzati da parte della Corte dei conti e la sensazione è che le burocrazie centrali non amino questa novità e in qualche modo non ne facilitino lo sviluppo. Guzzetti sogna una bella conferenza stampa nella quale l'esecutivo spieghi agli italiani che cosa è l'housing sociale e che straordinaria possibilità c'è di dare affitti alle giovani coppie, lavoro alle imprese e maggiore occupazione. È questo il motivo che ha visto impegnare negli anni le fondazioni di origine bancaria. Secondo le stime degli esperti si può costruire un'abitazione di classe A con un costo di costruzione di soli mille euro al metro quadro.

I tre miliardi di euro complessivamente disponibili (tra quelli che hanno già generato interventi edilizi e quelli fermi) possono determinare un volano di attività superiore di almeno tre volte e, pur senza risolvere i problemi strutturali dell'edilizia italiana, possono permettere a molte imprese di passare la nottata, tenere aperto in attesa della ripresa. E non è solo l'industria del mattone che guarda all'housing sociale ma anche l'arredamento. Da tempo le associazioni di categoria come la Federlegno sono attente a questo fenomeno e si sono attrezzate per fornire una sorta di catalogo del made in Italy democratico, divani e armadi di standard italiano a prezzi contenuti. Guzzetti ci tiene a spiegare che l'housing sociale non è «l'industria del mattone low cost» ma è legato e veicola un'idea di coesione sociale «che in un momento come quello che vive il Paese è particolarmente necessaria». Le giovani coppie e gli extracomunitari che vanno a vivere nelle nuove abitazioni sono coinvolti in progetti di solidarietà di vario tipo, dai gruppi di acquisto collettivo per risparmiare sul carrello della spesa alla banca del tempo per mettere a disposizione occasioni di lavoro e di assistenza alle persone. «Reinventiamo in un contesto nuovo i concetti della cooperazione e del mutuo soccorso. E il welfare di domani passa proprio per esperienze di questo tipo».

Tra i progetti che sono in attesa di partire ci sono interventi di riqualificazione urbana a Milano (via Voltri), a Figino sempre vicino Milano e a Verona. A Torino nella centrale via Milano è avanzato un progetto di recupero e rifunzionalizzazione del patrimonio edilizio esistente come ad Ascoli e a Milano in via Padova. Altri interventi in aree di completamento della città sono previsti sempre a Milano (via Cenni), Parma, Crema, Cremona e Senago ma sono in attesa anche progetti della Regione Sicilia, della Sardegna e della Provincia di Trento. Il governo sfrutterà quest'occasione per aiutare la crescita?

Postilla

Guzzetti parla di “un'edilizia di qualità perché oltre alla casa dà servizi, verde e risparmio energetico” e c’è probabilmente da crederci, soprattutto per ciò che non dice. Ovvero che da un lato la sua Fondazione Cariplo è quella che ha sostenuto e finanziato le ricerche sul consumo di suolo, contribuendo negli ultimi anni a costruire quel tipo di sensibilità che ha portato tra l’altro al disegno di legge ministeriale sulla tutela delle superfici agricole dallo sprawl urbano; dall’altro scorrendo gli esempi citati dall’articolo pare di individuare un filo rosso che indica recupero, riqualificazione, tutela dell’articolazione sociale di città e quartieri e quindi della loro vitalità. Insomma l’esatto contrario dell’idea speculativa, ideologica, insostenibile, che la parola edilizia ha finito per evocare negli ultimi anni. Se son rose fioriranno, e dopo la clamorosa sconfessione delle new town emergenziali appaltate agli amici degli amici su terreni extraurbani di altri amici, magari qualche speranza c’è (f.b.)

Quante facce ha un cubo? Quello progettato a L’Aquila da Renzo Piano come Auditorium del parco, almeno due. C’è la festa inaugurale di domenica scorsa, con uno splendido concerto dei solisti dell’Orchestra Mozart diretti da Claudio Abbado, alla presenza del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e di numerose autorità, dal sindaco Massimo Cialente, a Gianni Letta, Franco Marini, assessori e varia umanità fino a Fabio Roversi Monaco presidente della stessa Mozart nonché gran maestro della massoneria. C’è soprattutto la generosità e la solidarietà: della provincia di Trento, che ha voluto donare questo Auditorium a una città colpita dal terremoto il 6 aprile del 2009; di Piano, che ha regalato il bozzetto del progetto di questa costruzione, che Napolitano ha voluto definire «agile, armoniosa ed elegante».

C’è la festa andata avanti fino alle 3 di notte, e dopo Abbado ha visto protagoniste le istituzioni musicali aquilane. C’è un nuovo luogo che nelle intenzioni sarà dedicato alla cultura.

C’è infine un tenero tocco di comicità paesana con Napolitano e Abbado che non si mettono d’accordo sull’orario di inizio, così il presidente arriva a concerto da poco iniziato, il direttore artistico della Mozart cerca d’interrompere, e con un gesto Abbado lo allontana - così Napolitano

entra all’inizio del secondo brano. Tutto bene dunque? In realtà l’Auditorium del Parco ha destato e desta mugugni e perplessità: a quattro anni dal sisma è stata costruita una struttura ancora incompleta e definita provvisoria, in attesa di quella definitiva che chissà quando arriverà. Le associazioni ambientaliste hanno inizialmente strepitato contro la posizione sul limitare del Castello nel bel mezzo di un parco disegnato un secolo fa da Giulio Tian.

Il costo, quasi 7 milioni euro, danaro pubblico ancorché erogato dalla Provincia di Trento, è cifra non lieve per un prefabbricato di legno colorato, sembra fatto col lego, sedie da regista come poltrone e la scarsità di bagni, cronica nelle opere di Piano. Se il bozzetto è stato regalato

dall’architetto, la sua squadra, il Workshop Piano, avrebbe percepito circa 700mila euro (altra cifra non lieve) per lo sviluppo del progetto, come denunciato dai giornali aquilani.

NELLA CITTÀ FANTASMA

Si è parlato perfino di pianesca carità pelosa, ma la perplessità maggiore è altra: l’Auditorium è stato assegnato alla società concertistica Barattelli, che tra abbonati e affezionati ha un pubblico potenziale di circa 700 persone, ma la struttura conta 238 posti, di cui effettivi pare solo 187.

I dubbi sull’utilità dell’Auditorium del Parco nascono anche perché a l’Aquila nel frattempo, anzi in molto meno tempo, è stato costruito un altro auditorium con la firma del celeberrimo architetto nipponico Shigeru Ban: è quello del Conservatorio, per 218 posti ma dal costo molto inferiore, circa 700 mila euro - quanto il cachet del solo Workshop Piano - e di cui 500 mila donati dal Giappone. Una struttura pronta da gennaio scorso, ma la cui apertura è bloccata da cavillerie burocratiche: è opinione diffusa che ciò avvenga poiché l’Auditorium di Piano doveva avere la precedenza. Per soprammercato è stata bandita e assegnata una gara per il progetto di un ulteriore Auditorium, stavolta da 700 posti.

Tra qualche protesta e mugugno, a l’Aquila vige il motto: «Intanto prendiamoci questo», atteggiamento che confina con la rassegnazione. Un passante di fronte al nuovo manufatto ha esclamato: «Andiamoci a dormire dentro, sembra un Map! », cioè uno di quei prefabbricati anch’essi costosissimi e di legno che il governo Berlusconi ha destinato agli aquilani nel post terremoto. La pensa così anche un gruppo di intellettuali e storici dell’arte che ha lanciato un appello - tra i firmatari Marta Petrusewicz, Vittorio Emiliani, Pier Luigi Cervellati, Maria Pia Guermandi - dove si parla di irruzione «delle famigerate new town» nel centro storico del capoluogo abruzzese.

Tra costi e reale utilità l’operazione dell’Auditorium del Parco, aldilà delle intenzioni, rischia di apparire demagogica, anche perché avviene in una città fantasma, dove le ferite del terremoto sono ancora pressoché tutte aperte, e dove una seria ricostruzione non appare ancora avviata sul campo.

Le due facce del cubo di Piano sembrano specchiarsi nella musica di Johann Sebastian Bach diretta da Abbado, e percorsa da una forte irrequietezza. Malgrado gli strumenti e le tecniche esecutive antiche è un Bach modernissimo, veloce, tirato nei tempi, e che non perde la sua eleganza. Anche grazie a solisti come Isabelle Faust, violino, Jacques Zoom, flauto, Wolfram Christ, viola, Reinhold Friedrich, tromba.

Ad Abbado il grande merito di aver acceso questa musica con un impulso ritmico danzante a tratti travolgente, avvolgendola in una concertazione trasparente dove si staglia il florido rigore della costruzione e della polifonia di Bach. Che in questa occasione ci ricorda quanto siano difficili da raggiungere dall’agire umano.

«Sa cos' è oggi l' Aquila? Una periferia senza memoria. Le new town l' hanno rovinata, eppure dopo il terremoto del 2009 tutti erano d' accordo nel farle. Ormai il danno è fatto, ora bisogna concentrare tutti gli sforzi e i finanziamenti per ricostruire il centro storico. E l' Aquila si deve dotare al più presto di un nuovo piano regolatore». A parlare è Vezio De Lucia, decano degli urbanisti italiani.

Professore, dare un tetto agli sfollati dopo il sisma era la priorità. Quali altre soluzioni si potevano adottare?

«Sistemazioni provvisorie, moduli abitativi da smontare dopo 3-4 anni. Non certo quartieroni sconnessi l' uno dall' altro come sono oggi le new town, fatte oltretutto con un eccesso di misure antisismiche. Adesso sarà difficile recuperare una logica urbanistica unitaria della città».

Da cosa si ricomincia?

«Bisogna concentrare tutte le risorse, finanziarie e culturali, per mettere mano al centro storico. Adesso pare che ci siano le disponibilità finanziarie per farlo. Basta con la burocrazia, l' imperativo è ricostruire».

Come vede l' Aquila tra dieci anni?

«Io spero che il centro storico tornerà ad essere l' anima della città, anima culturale, intellettuale, commerciale e politica. E piano piano va risanato il disastro delle new town, che tra le altre cose hanno portato al caos della mobilità cittadina».

Bisognerà abbatterle, prima o poi?

«Sono costate troppo, lo stato ha pagato un prezzo tre volte superiore a quello dei moduli provvisori. È dura decidere di abbatterle. Ma di sicuro uno dei nodi da affrontare al più presto è l' adozione di un nuovo piano regolatore, che in tre anni e mezzo non è stato emanato».

A Milano ci parcheggiano le auto, a Roma ci pascolano i turisti; a Napoli sono una suggestione, una specie di ologramma sull'asfalto, un'idea buffa che fa ridere chi a Napoli non vive, e non pedala. Però la creatività napoletana nel non creare piste ciclabili — il «pacco» del disegnino è già popolarissimo, condiviso migliaia di volte sui social network dopo la pubblicazione sul Corriere del Mezzogiorno, anche se il sindaco de Magistris assicura la prossima costruzione di ciclabili vere — ci può aiutare a stimolare una discussione seria. Nelle tre principali città italiane, e oltre. Non è solo il Comune di Napoli — notoriamente squattrinato — a pretendere di venire incontro ai ciclisti con le «piste ciclabili potenziali». In tutte le grandi città — anche quando sono costosamente tracciate — le piste sono spesso piste fregatura, dette anche ciclabili interruptae.

Finiscono improvvisamente nel punto più pericoloso, in genere una piazza con multiple corsie di scorrimento. Si snodano pigramente per viali periferici dove i residenti non ciclisti le usano per lasciare la macchina. Si estendono brevemente in vie centrali dove però tracimano i pedoni («io a voi ciclisti vi odio, non vi sento quando arrivate», mi ha urlato una signora l'altro ieri, sgridandomi perché pedalavo su una ciclabile). Fino a poco tempo fa, però, gli interventi ipocriti degli amministratori locali venivano trattati come un peccato veniale. Ora non più. Basta scendere in strada e guardarsi in giro, in qualunque città tranne quelle molto molto ripide, per capire che sono/siamo un prossimo motivo di allarme sociale.

Perché — più del salutismo e dell'ambientalismo ha potuto il prezzo della benzina — nell'ultimo anno le bici si sono moltiplicate, ovunque. Le decine di migliaia di nuovi ciclisti si riconoscono subito, dalle ansie ai semafori, dalle esitazioni agli incroci, dalla nobile ostinazione a restare sulla carreggiata in vie dove per sopravvivere bisogna pedalare sui marciapiedi. E la frustrazione dei ciclisti di lungo corso aumenta: quasi ovunque in Occidente esistono ciclabili vere, utilizzabili dai cittadini per andare a lavorare, a fare spese, a divertirsi; lunghe chilometri, e protette. I nostri amministratori locali cerchiobottisti — in teoria entusiasti delle ciclabili, in pratica terrorizzati di perdere il voto di chi parcheggia — dicono privatamente che quelli delle bici non gli interessano; e si limitano a dichiarazioni e disegnini. Anche se, volendo, con la stessa spesa (quasi zero) e la stessa quantità di vernice, potrebbero intervenire.

Dove i marciapiedi sono larghi, dove le strade lo consentono, basterebbe (lo fanno a Parigi, lo fanno a Londra, lo fanno ovunque tranne che da noi dove disegnano opzionali pupazzetti; che diamine) tracciare due linee parallele e mettere l'iconcina della bici al centro. Per collegare ciclabili tronche e consentire di pedalare sicuri. Per convincere squattrinati timorosi e sovrappeso perplessi a scegliere la bici e vivere felici (va bene, è una rima patetica; ma si è davvero più felici se si gira in bici, e con più soldi, e più tonici; e se qualche garanzia di viaggiare sicuri sostituisse la certezza di essere presi per i sellini si starebbe ancora meglio, grazie).

Postilla

L’autrice dell’articolo, da scafata ciclista urbana evidentemente, coglie un punto che pare sempre sfuggire ai nostri strateghi della ciclabilità: benissimo le strategie, figuriamoci, ma c’è anche un percorso inverso che si chiama domanda/offerta, indispensabile specie in momenti di crisi come questo, che pure sarebbe ideale. La grande scoperta sarebbe capire che si tratta di consentire una specie di percorso continuo, e che tale percorso continuo dovrebbe nascere tendenzialmente da quelli “storici” esistenti, mescolandosi e fondendosi poi (in modo programmato e governato) con eventuali grandi schemi. Cosa che non accade mai. La nostra cultura predilige invece ancora, a quanto pare, un approccio “infrastrutturale” tradizionale, con relativa necessità, anche qualora il progetto non facesse una grinza, di disponibilità economiche, invece di una virtuosa politica dei due forni: da un lato favorire spostamenti sicuri e continui lungo le direttrici forti attuali, dall’altro programmare e realizzare gradualmente altre tratte, nodi, punti di intermodalità ecc. Certo poi i conflitti sono inevitabili. Il New York Times ha dedicato per mesi intere gustosissime pagine di cronaca locale alle interviste ad abitanti e negozianti inferociti per una pista ciclabile che passava allegra nei posti più impensati. Ma lì ha aiutato molto il fatto che a coordinare il grande schema ci fosse il danese Jan Gehl, che non solo viene da un posto dove in bicicletta ci si va davvero, ma oltre a studiare architettura si è pure sposato una psicologa. Evidentemente ci vogliono competenze specifiche, a spiegare a chi di dovere certi dettagli: la domanda, anche quella di mobilità ciclabile, a furia di essere presa in giro sparisce, e con quella il consenso. Meditate (f.b.)

L'Aquila apre il suo Auditorium con AbbadoMa un gruppo di intellettuali contesta l'opera: è uno spreco per la cittàP er una volta, la musica anziché unire divide. Oggi all'Aquila si apre il nuovo «Auditorium del Parco». C'è il prestigio di Claudio Abbado che sottolinea «la valenza simbolica»; c'è il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Dopo il terremoto del 2009 è il primo nuovo edificio che sorge nel centro storico. Ma a un gruppo di intellettuali non piace. Sono ventotto, tra urbanisti, storici e critici d'arte (Vittorio e Andrea Emiliani, Carlo Ginzburg, Matteo Ceriana, Vezio De Lucia, Pier Luigi Cervellati, Luisa Ciammitti, Tomaso Montanari...) che la ritengono «uno spreco, una nuova offesa per la città abruzzese. Invece di restaurare l'antico Teatro Comunale, o l'ex Oratorio di San Filippo, o l'Auditorium all'interno dello stesso Castello, se ne progetta uno nuovo che allontana nel tempo il recupero del centro storico. La sua posizione altera la sistemazione del verde disegnato da Giulio Tian un secolo fa, ponendosi in contrasto con il codice dei Beni Culturali e del paesaggio. Una grande baita, in un luogo che ha nella pietra la sua tradizione». E poi «la pretesa transitorietà» in un'Italia «piena di manufatti temporanei perenni». Dall'Università di New York, si unisce la docente Marta Petrusewicz: «Mi ricorda i villaggi di Potemkin, le facciate che il ministro di Caterina II faceva erigere per creare l'impressione che qualcosa si stesse facendo. Come il teatrino dell'Aquila».

Sul teatrino (almeno per le dimensioni) tutti d'accordo: si tratta di tre cubi di legno, quello centrale può ospitare 238 spettatori e un'orchestra di 40 elementi; una struttura polifunzionale, costruita con i soldi (6 milioni) e gli abeti rossi del Trentino, materiale con «ottime qualità acustiche e antisismiche e che permette un elevato grado di prefabbricazione», dice l'architetto Renzo Piano. Il quale rileva due aspetti: per l'Aquila è un regalo; è una struttura effimera e rimovibile. Sorprende che i 28 firmatari, non assimilabili al centrodestra, critichino Abbado (a lui si deve l'idea), Piano e il sindaco del Pd Massimo Cialente, che dice: «Quei signori non sanno di cosa parlano, ignorano che al massimo nel 2015 riavremo il Teatro Comunale, così come il San Filippo e il cinema Massimo. Stiamo privilegiando gli edifici a funzione culturale. Allora nemmeno le scuole temporanee si dovevano fare, dal momento che impiegheremo tre anni per quelle nuove, gli studenti sarebbero rimasti sei anni senza andare a scuola. In una città paralizzata, dove la ricostruzione non è partita, l'Auditorium nasce dall'esigenza di mantenere vivo il centro storico. Lavorerà tutti i giorni, solo gli esponenti del centrodestra si sono opposti». In realtà non è così. Vincenzo Vittorini (ex candidato sindaco con una lista civica, che nel terremoto perse la moglie) ha condotto la crociata anti-Auditorium, trascinando l'opposizione di centrodestra che ha devoluto i biglietti del concerto di oggi ai disabili. Ma anche parte della città ha manifestato la sua contrarietà sostenendo che prima bisognava pensare alle case.

Guido Barbieri è il direttore artistico della «Barattelli», la società che gestirà l'Auditorium, 67 anni di concerti alle spalle, all'Aquila ha fatto conoscere pianisti come Richter e Benedetti Michelangeli: «Per noi è un risarcimento. Le polemiche sono strumentali». Con la sua Orchestra «Mozart», Abbado oggi interpreterà un programma interamente dedicato a Bach, il compositore a ridosso di Dio, la musica della spiritualità e della pace.

L’Auditorium che si inaugura domenica,regalato dalla Provincia di Trento e dal progettista, è uno spreco e un danno per la città storica.

Invece di restaurare l’antico Teatro Comunale o l’ex oratorio di San Filippo o l’auditorium all’interno dello stesso Castello, se ne progetta uno nuovo (187 posti) che allontana nel tempo il recupero del centro storico. La sua posizione altera la sistemazione del verde disegnato da Giulio Tian un secolo fa e obliterauna precisa valenza scenografica, ponendosi in evidente contrasto con il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio.

Alla sottrazione di spazi verdi, in un’area centrale congestionata, si aggiunge l’inaccessibilità per ovvia mancanza di parcheggi (che magari si deciderà di realizzare ancora una volta in danno del verde e della sua fruibilità). Questa grande baita, in un luogo che ha nella pietra la sua tradizionale espressione costruttiva e la sua identità, si conforma così alle famigerate “new town” e alle “casette alpine” (anch’esse provvisorie).

Per questi motivi i firmatari ribadiscono la loro critica più forte nei confronti dell’Auditorium la cui pretesa transitorietà, oltre ad essere facilmente contestabile (l’Italia è piena di manufatti “temporanei” perenni) rende ancor più incomprensibile, in un momento come questo, lo spreco di risorse che meglio avrebbero potuto essere utilizzate per il recupero del centro storico in agonia.

Paolo Berdini, Francesco Caglioti, Maria Luisa Catoni, Silvia Camerini Maj, Lorenzo Carletti, Matteo Ceriana, Pier Luigi Cervellati, Giandomenico Cifani, Luisa Ciammitti, Nino Criscenti, Michele D’Annibale, Vezio De Lucia, Paola D’Alconzo, Andrea Emiliani, Vittorio Emiliani, Marina Foschi, Carlo Ginzburg, Maria Pia Guermandi, Denise La Monica, Donata Levi, Maria Teresa Lippolis, Giovanni Losavio, Tomaso Montanari, Anita Morselli, Oriana Orsi, Antonio Perrotti, Marta Petrusewicz, Gianandrea Piccioli, Marinella Pigozzi, Simona Rinaldi, Edoardo Salzano, Maria Michela Sassi, Andrea Ginzburg, Gianni Sofri, Sauro Turroni, Gianni Venturi, Rosa Vergara.

ROMA— S’avanza in Italia un consumatore sobrio, perché più povero ma pure più consapevole, e a chilometro zero. Attratto dai luoghi commerciali dove si offre o prepara cibo, meno dai maxi-televisori al plasma. La crisi economica, arrivata alla sesta stagione, sta cambiando ilmoodcommerciale degli italiani e piallando il mausoleo moderno del consumo di massa: l’ipermercato.Alla fine del 2012 in Italia ci saranno dieci ipermercati — aree di commercio superiori ai 4.500 metri quadrati — nuovi, quando quattro anni fa ne furono inaugurati trentasette. Ma solo la Coop ne sta rottamando sei in Toscana, togliendo la scritta iper dalle insegne di Montecatini e Montevarchi, Sesto Fiorentino e Arezzo, Lastra a Signa e Navacchio. Sta progettando, quindi, di trasformare gli ipermercati in superstore in Sicilia, in Puglia e in Campania, «regione dove il commercioè fortemente irregolare». La Conad, ancora, ha cambiato anima al suo negozio extra large di Rimini e i francesi di Carrefour sono usciti con il loro marchio dagli “iper” della Puglia e della Basilicata.

Ci sono dati facilmente leggibili a dimostrare la tendenza: per la prima volta quest’anno le superfici di vendita degli ipermercati non sono praticamente cresciute (+ 0,3per cento) quando nei sei anni precedenti erano salite del 32 per cento. E a fronte di superstore (più piccoli, più centrali, con ilfoodcome merce d’attrazione) che crescono, i volumi di vendita nei 450 “iper” italiani si contraggono (-1,4 per cento) e così i fatturati (-2,4 per cento). È la prima volta dalla loro nascita. La novità, economica e antropologica, si racconta meglio spiegando come le piastre commerciali da un ettaro approdarono in Italia a metà degli anni ’80: si iniziò in Lombardia (che oggi ha 236 ipermercati, quasi uno ogni tre) e il fenomeno portò con sé un’idea di consumo ipertrofico, «un eccesso di spesa», sostiene l’ultimo report della Coop azzardando un rapporto tra la bulimia dell’acquisto e il debito pubblico.

Si poteva trovare ogni cosa, in un “iper”. E le economie di scala consentivano di abbassare i prezzi. Tutto e conveniente. Il problema, trent’anni dopo, si è scoperto duplice: l’aumento del costo della benzina ha tolto all’ipermercato, situato in aree periferiche, la sua fetta di convenienza sicura. E poi sta cambiando l’uomo italiano, che i suoi duemila euro al mese in media non li vuole più buttare in grandi confezioni, ma preferisce usare più a lungo e destinareil welfare personale al cibo di qualità, spesso bio, spesso etnico, e alla conoscenza (tablet e iPhone). Il resto dei consumi, oggi, è crollato.

«Il modello ipermercato fuori dai centri urbani è in difficoltà in tutta Europa», dice Francesco Cecere, direttore marketing della Coop. «In Toscana abbiamo scelto di toglierespazio all’extra alimentare per concentrarci sul cibo, settore che da noi non declina. Non abbiamo messo la parola fine agli ipermercati, ma le nuove iniziative oggi si concentrano su metrature contenute, la vicinanza a città e paesi, la prossimità ai quartieri. Stiamo aprendo un superstore a Mulinella, sedicimila abitanti vicino a Bologna, e strutture simili a Mestre. In Italia si sonoinaugurati troppi ipermercati e in alcune aree si sta tornando indietro». Intrattenimento e convivialità, risparmio e sostenibilità, visto che l’acquisto massificato di prodotti non tira. I duemila metri quadrati che saranno tolti a ogni “iper” in Toscana (due, in realtà, saranno dimezzati) serviranno per allargare l’area cibo, creare gallerie commerciali, librerie e - novità - ristoranti. In una grande distribuzione che per sopravvivere si ibrida, ecco che all’ex cinema Ambasciatori di Bologna la cucina di Eataly è entrata in un superstore Coop.

Carrefour conferma: stiamo ragionando su una riduzione degli spazi di vendita e ripensando il prodotto. Pino Zuliani, direttore marketing della Conad: «La crisi vera è sugli iper di grandi dimensioni». Auchan, che comunque ha battezzato l’ultima delle sue 58 strutture oltre due anni fa, assicura che la voce “iper” per loro resta il futuro: «Puntiamo a essere i migliori d’Italia». La Methos, ricerche di mercato, dettaglia la situazione nel Lazio, 50 centri: «I grandi scatoloni a trenta chilometri dal Raccordo non incontrano più i favori del pubblico».

Postilla

Brevemente quanto decisamente, come si addice ai commenti sommari sui massimi sistemi: al ragionamento dell’articolo mancano (quasi ovviamente) almeno due aspetti, cioè l’avvenuta mutazione del mercato locale e le modalità dell’urbanizzazione globale. Che paiono appunto fumosi massimi sistemi finché non li si definisce un po’ meglio.

Primo, i bacini territoriali locali del nostro paese hanno tutti ormai subito la frattura dell’ingresso, piuttosto deciso e ingombrante, della grande distribuzione organizzata, che è lì per restare, e stabilire i termini della concorrenza. Non è la fine dell’invasione semplicemente perché l’invasione è già finita da un pezzo, con la vittoria soverchiante degli invasori, oggi legittimi abitanti e parte condivisa dell’identità regionale. La frattura, per usare un termine sociologico anni ’70, ce la siamo lasciata alle spalle, gli iper hanno fatto il loro mestiere e adesso la rete cambia pelle, ma rimane tale in quanto nuovo organismo, al tempo stesso assai diverso dall’antico sistema delle botteghe e via via lontano dal modello della fabbrica centralizzata novecentesca, a cui afferisce l’ipermercato.

Secondo, l’urbanizzazione contemporanea nei paesi ex industrializzati occidentali sta assumendo – per fortuna e per forza - caratteri via via più sostenibili e legati alla dimensione locale, a una certa efficienza e risparmio, si allontana almeno tendenzialmente dalla centralità automobilistica e dalla pura crescita quantitativa. Uno dei segnali vistosi di questo processo è la migrazione verso la densità urbana dei grandi contenitori e reti, che restano tali ma si smaterializzano, diluendosi nello spazio, ma (attenzione) restando grandi nella capacità di condizionamento. Sta alla società e alle istituzioni che la rappresentano il compito di “metabolizzare” dentro il contesto ambientale e di relazioni della città e del territorio i nuovi venuti, addomesticandoli per quanto possibile e facendoli almeno assomigliare a cittadini integrati che danno il proprio contributo come tutti gli altri.

Il resto, è solo pubblicità e autopromozione. Qualche dettaglio in più sui vari percorsi della nuova migrazione urbana del commercio negli ultimi interventi miei in Mall Spazi del Consumo (f.b.)

La prima impressione dell’Aquila, a mille giorni dal terremoto, è che sia perduta per sempre. Una fitta all’anima pensando quanto era bella, quante altre volte ci saresti potuto tornare. Le macerie che l’illusionismo di Berlusconi aveva fatto sparire dalla vista degli italiani pochi giorni dopo il sisma, sono ancora là dove le aveva lasciate la scossa del 6 aprile 2009. Dello splendore di una città è rimasto il fantasma e quasi nulla d’altro, non le antiche strade e i palazzi, chiusi dai lucchetti, non gli archi e i portici, l’armonia medievale che ogni anno gli orgogliosi cittadini accarezzavano con il corteo della Perdonanza. C’è ancora soltanto questo di vivo, il desiderio della città. Verso sera decine, centinaia di giovani popolano i corsi, la piazza, si addensano nei pochi bar e ristoranti aperti, bevono, discutono, suonano, cantano, come se la città intorno esistesse ancora. Molti sono studenti, L’Aquila ne aveva trentamila prima del terremoto, su settantamila abitanti, ora sono ventimila. Da domenica avranno un altro luogo dove incontrarsi, il primo sorto nel cuore della città, fra la zona rossa e il Castello, il nuovo auditorium di Renzo Piano. «Una sera in corso Vittorio passeggiavo e gli studentimi hanno riconosciuto», racconta l’architetto «Mi hanno chiesto aiuto, perché li volevano cacciare di nuovo, chiudere il centro. Ho capito che dovevo fare qualcosa. La presenza di questi ragazzi è l’unica speranza di veder risorgere L’Aquila. I vecchi ormai sono rassegnati a non tornarci più, ma i giovani ci credono, vigilano e lottano».

La prima ipotesi di intervento a L’Aquila di Renzo Piano era di offrirsi per il restauro della città, sotto l’egida dell’Unesco, di cui l’architetto è ambasciatore. «L’idea era di ricostruire il centro storico come avevo fatto negli anni Ottanta, sempre per l’Unesco, con Otranto. Un restauro tollerante, come si dice, cercando di non demolire gli edifici pericolanti, ma di metterli in sicurezza e consentire nel frattempo una vita cittadina. Costa molto meno e mantiene viva la città. Molti palazzi dell’Aquila chiusi sono in realtà meno lesionati di quanto abbiano stabilito. Il restauro è come la medicina, se sbagli la diagnosi poi rischi di sbagliare l’operazione. A parte questo, un centro storico è fatto di pietre e di persone. Non puoi restaurare le pietre mandando via le persone, con lo sfollamento una città la ammazzi per decenni». Naturalmente l’offerta di uno dei maggiori architetti del mondo, per giunta gratuita, fu respinta al volo dalla banda Bertolaso e

Balducci e Anemone, che avevano ben altri progetti e interessi, come testimoniano le intercettazioni con le risate degli sciacalli al telefono.

«Allora Bertolaso era dio in terra, un eroe nazionale. Gli aquilani si alzavano in piedi ad applaudire quando entrava in un cinema. Vinse la sua idea di mandare via tutti dalla zona rossa e militarizzare la ricostruzione. Non si poteva avvicinare nessuno. Poi arrivò Berlusconi con le sue trovate, il G8, una bella vetrina, e le new town che spostavano l’attenzione dell’audience televisiva dalle macerie del centro ai cantieri delle casette. Una cosa pazzesca. La reinvenzione della periferia. In tutto il mondo stiamo cercando di cancellarla, di rimediare a errori e orrori del recente passato. E qui si è pensato a trasformare una città bellissima in una brutta periferia.

«Avevo mandato sul posto Paolo Colonna del mio studio e ne era venuto fuori che gli unici con cui si poteva fare un discorso serio erano quelli della provincia di Trento. Avevano fatto la sola cosa decente, regalare delle case in legno, al costo di 700 euro al metro quadro, un quarto delle casette di Berlusconi pagate coi soldi pubblici, in modo da poter essere smontate dopo la rico-

struzione. Nel frattempo Claudio Abbado, era tornato dall’Aquila con l’idea di fare un nuovo auditorium temporaneo, vista l’impraticabilità della vecchia sala da concerti del Castello. E da quello siamo partiti».

Ed eccolo l’auditoriumdi Piano, in cima al corso, sulla strada del Castello.Una macchia di colore nel buio di una città lasciata morire, un luogo allegro nella tristezza diuna storia sbagliata. Domenica ci sarà anche il presidente Napolitano al concerto di Abbado, per inaugurare il primo luogo aquilano tornato alla vita. Ma costruirlo non è stato facile, fra mille intralci burocrati, le solite polemiche. «Ci si è messa anche Italia Nostra, con tutto quello che succede all’ambiente all’Aquila e nel resto d’Italia, ma poi ci si è capiti. Poi altri a dire che prima

dell’auditorium alla città serviva ben altro. Come se fosse colpa nostra aver finito prima di altri. E poi in tutto il mondo investono in luoghi di cultura, costruisco musei e auditorium da Oslo a Los Angeles, perché mai nella terra per eccellenza della cultura e del turismo, l’Italia, ogni volta bisogna fare le battaglie?»

Dell’Auditorium di Roma è stato scritto che sarebbe stato inutile, uno spreco. È il secondo centro culturale per incassi d’Europa. «L’Aquila è una città della musica, ha un conservatorio prestigioso, orchestre e gruppi, tre o quattro società musicali di livello, a partire dalla Barattelli, una tradizione di concerti favolosa. Qui sono venuti tutti, da Rubinstein a Benedetti Michelangeli, da Oistrack a Pollini».

La cosa più bella dell’auditorium è l’interno della sala, sembra di entrare in una cassa armonica. «Abbiamo usato l’abete rosso della Val di Fiemme nel Trentino, il legno preferito dai grandi liutai dai tempi degli Stradivari. Tutti e tre i blocchi dell’auditorium, sala concerto, sala prove e ristorante, sono in legno. In modo da poter essere smontati e ricostruiti altrove. non Mi sono ispirato ai molti edifici e templi in legno costruiti in Giappone, il paese più sismico del mondo ». Qualcuno l’ha trovato troppo bello e si è domandato quanto è costato ai contribuenti. «Niente, Non abbiamo usato un euro dei soldi della ricostruzione, che per inciso stanno per arrivare a montagne. L’auditorium è interamente finanziato dalla Provincia di Trento ed è costato 4,8 milioni, molto poco per un edificio di questo genere. Claudio Abbado si è impegnato gratis e così pure il mio studio e i venti giovani ingegneri dell’università dell’Aquila che ci hanno messo una passione straordinaria. Senza la loro voglia di fare, di combattere la burocrazia, saremmo mai riusciti. È insomma un regalo alla città. E se posso

dirlo, è venuto bene».

Nel disperato tentativo di sfilarsi dal baratro morale che si era aperto sotto la sua ferrea regia, durante la rabbiosa conferenza stampa di commiato Renata Polverini aveva tentato di accreditare la favola di una giunta regionale efficiente e virtuosa danneggiata da consiglieri regionali crapuloni e corrotti. A 48 ore di distanza questa linea difensiva è diventata la disfatta di Caporetto.

Il governo ha infatti impugnato di fronte alla Corte costituzionale la riscrittura del «Piano casa» regionale. E non è, per sventura della ex presidente, la prima volta. Il 24 ottobre dello scorso anno un precedente articolato era stato impugnato da un governo «amico».  Era stato infatti l'ex ministro Galan a esprimere giudizi feroci sulla legge impugnandola e ottenendo la sua cancellazione.

La giunta regionale avrebbe dunque potuto fare tesoro dell'accaduto e invece nulla: ha licenziato un testo che era ancora più confuso e più derogatorio rispetto al precedente.

Sarà stato l'effetto delle feste o delle ostriche, ma la legge si beffava delle norme di tutela del paesaggio. Lo staff tecnico del ministro per i Beni culturali Ornaghi aveva censurato la legge perché ad esempio consentiva di costruire infrastrutture sciistiche anche in zone vincolate o di realizzare lungo i 360 chilometri di costa laziale tutte le 60 richieste di realizzazione di nuovi porti o di ampliamento di quelli esistenti, porti canale, turistici e marine presentate in questi ultimi anni. Consentiva cioè di realizzare un porto ogni sei chilometri di costa: uno scempio inaudito che non teneva conto che il Codice dei Beni culturali vincola le aree costiere italiane.

La regione Lazio attraverso il piano casa affidava a se stessa il potere di deroga: il federalismo fai da te, come l'abnorme rigonfiamento delle spese di rappresentanza votate a ripetizione. Ecco dunque la rotta di caporetto: non è vero che esisteva una giunta virtuosa e un consiglio di reprobi. Se i consiglieri regionali sperperavano il denaro pubblico nel modo che abbiamo conosciuto, i membri della giunta - pur potendo disporre di eccellenti giuristi in house - lo gettavano al vento per pagare profumatamente consulenti giuridici che, a giudicare dai risultati, forse non erano così brillanti. Si pensi che la precedente legge del 2011 era talmente confusa che la giunta regionale ha dovuto approvare dopo pochi mesi una «circolare esplicativa» di ben 20 pagine!

Ma al di là delle questioni istituzionali, i piani casa regionali dimostrano ancora una volta la loro incapacità ad affrontare le cause dalla crisi economica. Prendiamo i citati 60 porti su cui si voleva basare il rilancio degli investimenti. Era stato denunciato che non era attraverso la cementificazione delle coste che si poteva sperare in un futuro migliore, ma l'arroganza del potere ha voluto approvare lo stesso la norma. Il 25 settembre scorso, il Sole 24 Ore pubblica la denuncia effettuata da Assomarinas, e cioè l'associazione che raggruppa i porti italiani della nautica, che afferma che a causa delle crisi economica il quadro di riferimento è completamente cambiato. In una lettera al governo e ai presidenti della Regioni il presidente di Assomarinas dice che «la crisi del settore della nautica da diporto sta assumendo carattere strutturale con la tendenza a protrarsi per almeno 15 anni».

Bene ha fatto dunque il ministro Ornaghi ad impugnare una legge inutile e devastante: insieme alla Polverini e al consiglio regionale bisogna mandare in soffitta anche il piano casa regionale perchè era basato su una filosofia rozza e

Piano casa per le aree degradate: ondata di ritocchi dalle Regioni

Maria Chiara Voci

In attesa della nuova raffica di leggi con cui le Regioni dovrebbero recepire le novità introdotte dal decreto sviluppo sul «piano casa per le aree degradate» - per il quale da oggi i proprietari possono far domanda, ammesso che siano chiari a tutti i contenuti del Dl 70 -, non si arresta nei territori locali l'ondata di riforma delle vecchie leggi, quelle che scaturiscono dall'accordo Stato-Regioni del 1° aprile 2009 e che consentono ampliamenti o sostituzioni di edifici, in deroga ai piani regolatori e con premi volumetrici.

I ritocchi derivano in parte da promesse di campagna elettorale: la revisione del piano casa è stata per il centrodestra una delle teste d'ariete usate per convincere gli elettori. Quasi ovunque è stata inoltre forte la necessità di dare un senso, tardivo, a un provvedimento che è andato spesso “deserto” (pochissime le domande presentate dai cittadini, con le sole eccezioni di Veneto, Sardegna e Valle d'Aosta). Le modifiche però hanno come effetto quello di pasticciare testi normativi che, già per loro natura, contenevano e contengono diversi punti controversi.

Le uniche Regioni che, esaurita la prima legge, hanno deciso di non rinnovare sono state Lombardia ed Emilia Romagna. Qui i termini per presentare domanda di ampliamento o sostituzione sono da tempo scaduti senza proroghe o modifiche. Diversa la scelta degli altri governatori.

In alcune Regioni, come la Calabria, il Piemonte, l'Umbria e la Campania, la revisione del piano casa, più che a piccole modifiche, ha portato alla riscrittura di intere porzioni di legge. A seconda dei casi, si è estesa la possibilità di intervenire anche sugli immobili industriali e produttivi (i grandi esclusi nelle prime versioni legislative), è arrivato il semaforo verde per agire in zone agricole o su porzioni dei centri storici, sono aumentate le percentuali dei bonus di cubatura o sono decaduti alcuni paletti, che limitavano la possibilità di mettere mano al patrimonio edilizio esistente.

Di grande sostanza anche la riforma del Lazio, dove è arrivato il via libera agli interventi in zona agricola, su edifici oltre i mille metri cubi, sulle ville a schiera e nei centri storici, purché ci sia il via libera della Soprintendenza.

L'amministrazione Polverini, però, è già dovuta intervenire con una rettifica quando la nuova legge non era ancora pubblicata in Bur (è sul supplemento n. 160 al Bollettino 30 del 27 agosto) e ha inserito nell'assestamento di bilancio la possibilità di autorizzare da subito i piccoli interventi di ampliamento degli edifici, in attesa che i Comuni si esprimano sul resto della legge (per delimitarne gli ambiti di applicazione) entro il 31 gennaio del 2012.

Prima dell'estate è arrivato l'atteso restyling della disciplina del Veneto: forte di uno dei rari casi di successo della norma, con oltre 23mila domande depositate, la Giunta Zaia ha prorogato la legge 14/2009 fino al 30 novembre 2013, ha aperto alla possibilità di intervenire su immobili inseriti nei centri storici e ha inserito un bonus aggiuntivo del 15% (in aggiunta al 20% di base + 10% per utilizzo di fonti rinnovabili) per chi, nell'ampliare, consegue la certificazione in classe B.

Già modificate da tempo le norme della Liguria (che pur è rimasta restrittiva) e delle Marche. Altre Regioni, come lo stesso Lazio, ma anche Puglia, Toscana, Valle d'Aosta e Molise hanno agganciato ai provvedimenti di revisione del vecchio piano casa, tutti approvati a ridosso dell'estate, il recepimento delle previsioni del nuovo piano casa del Dl sviluppo, per il recupero delle aree degradate.

Via libera al cambio di destinazione d'uso

Guido A. Inzaghi

L'ultima versione del piano casa punta sulla «riqualificazione incentivata delle aree urbane». La legge 106/2011 di conversione del Dl Sviluppo(70/2011) consente infatti la realizzazione di volumetrie aggiuntive in deroga al piano regolatore, il mutamento delle destinazioni d'uso in atto, la demolizione e la ricostruzione degli edifici dismessi anche con modifica della sagoma.

Le disposizioni trovano tendenzialmente applicazione diretta qualora le Regioni non provvedano ad assumere le norme che il decreto riserva alla loro competenza.

L'articolo 5, comma 9, del decreto sviluppo assegna così alle regioni il termine fisso di 60 giorni dalla sua conversione (vale a dire fino a ieri, domenica 11 settembre) per approvare leggi che agevolino la riqualificazione di aree urbane degradate con presenza di funzioni eterogenee e tessuti edilizi disorganici o incompiuti, nonché di edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione o da rilocalizzare. Il tutto attraverso:

a) il riconoscimento di una volumetria aggiuntiva rispetto a quella preesistente come misura premiale;

b) la delocalizzazione delle relative volumetrie in area o aree diverse;

c) l'ammissibilità delle modifiche di destinazione d'uso, purché si tratti di destinazioni tra loro compatibili o complementari;

d) le modifiche della sagoma necessarie per l'armonizzazione architettonica con gli organismi edilizi esistenti.

Resta fermo che tutti gli interventi non possono riferirsi ad edifici abusivi (salvo che oggetto di sanatoria) o siti nei centri storici o in aree a inedificabilità assoluta.

A partire di fatto da oggi - lunedì 12 settembre - e fino all'entrata in vigore della normativa regionale, agli interventi descritti in precedenza si applica l'articolo 14 del Dpr 380/2001, anche per il mutamento delle destinazioni d'uso. Quindi la realizzazione degli interventi di riqualificazione potrà avvenire in deroga alla strumentazione urbanistica ed edilizia locale (ma non alla leggi statali e regionali di settore), con un meccanismo però tutt'altro che spedito e che prevede il passaggio in consiglio comunale per raccogliere l'assenso politico, e dunque discrezionale, al superamento della disciplina del Prg e del regolamento edilizio. Il consiglio comunale dovrà determinare anche la percentuale di ampliamento consentita.

Resta inoltre fermo il rispetto degli standard urbanistici, delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia e in particolare delle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie, di quelle relative all'efficienza energetica, di quelle relative alla tutela dell'ambiente e dell'ecosistema, nonché delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio.

Dal prossimo 10 novembre, gli interventi di ampliamento - sempre nei limiti finora individuati - potranno essere realizzati anche senza avvalersi del permesso di costruire in deroga e, quindi, anche attraverso Dia o Scia a seconda dei casi e della legge regionale applicabile. Fino all'approvazione delle leggi regionali, la volumetria aggiuntiva è realizzata in misura non superiore complessivamente al 20% del volume dell'edificio se destinato a uso residenziale, o al 10% della superficie coperta per gli altri usi.

“Romilia”, con nuovo nome, “centro sportivo dedicato ai giovani “, però con gli stessi contenuti poco attinenti allo sport e ai giovani, si sposta di qualche chilometro –da Budrio a Granarolo- e si attacca al famigerato “Passante Nord”, ridotto ad “Asse Intermedio di Pianura”, più corto e ancor più vicino alla Tangenziale, non meno inquinante e devastante l’orditura agricola della pianura. Budrio si consola con un doppio mastodontico gassificatore di bio masse a ridosso di una stupenda “zona umida”, ultimo residuo di valli e bassure, ricco di fauna e avio fauna e di alberi secolari. Un luogo spettacolare che per far funzionare il gassificatore sarà soffocato dalla mono cultura del mais e dal puzzo della sua fermentazione (con il timore che possa anche scoppiare).

Gli amministratori provinciali e comunali non avevano sempre sostenuto:mai più consumo del suolo, solo mobilità sostenibile e difesa del paesaggio e della campagna?

Con il centro sportivo /direzionale/ di servizio / di “accoglienza e di supporto”, con alloggi di vario tipo e “spazi polivalenti”, la speculazione non la faranno solo i proprietari del terreno e i costruttori, sarà lo stesso Comune di Granarolo che lottizzerà il vecchio campo sportivo. Il nuovo centro occupa 22 ettari di area agricola, più altri saranno consumati per il “passantino nord” (studiato con un’uscita in concomitanza con il nuovo progetto) al fine di favorire lo sviluppo del cemento. L’intervento è inserito in un tessuto rurale di grande qualità, lontano da infrastrutture di trasporto pubblico, in una ambiente in cui le propaggini urbanizzate della città sono ancora relativamente lontane. Comune di Granarolo e Provincia di Bologna hanno scelto di procedere con una variante urbanistica in deroga alla sola strumentazione comunale –senza interessare il Piano Territoriale Provinciale- tramite un Accordo di Programma, il cui iter è già stato avviato e si concluderà –nella sua fase preliminare– in questo mese di Settembre.

Una “procedura lampo” che “valorizza” non una delle tante zone industriali abbandonate , una zona collocata coerentemente rispetto al sistema metropolitano, ma un’area di proprietà pare degli stessi soci del Bologna Football Club e del suo stesso Presidente (o di società a lui riconducibili) i quali sarebbero proprietari, come risulta dagli organi di stampa, anche di altri terreni contigui all’area di progetto.

In un momento nel quale tutte le risorse ed energie dovrebbero essere concentrate sulla ricostruzione dei centri storici colpiti dal terremoto e nella riqualificazione - antisismica, energetica – dei nostri centri urbani investiti da un degrado progressivo, con sprezzo della coerenza e con un’operazione da manuale della speculazione edilizia, la Provincia di Bologna e gli amministratori locali decidono di investire su opere (stadio e passante nord) non solo inutili, ma gravemente dannose nel loro impatto territoriale e ambientale e nella loro sostenibilità economica.

Italia Nostra, da sempre contraria al passante nord, richiede l’immediata sospensione di tale progetto.

Italia Nostra chiede inoltre un incontro urgente – e pubblico – con l’Assessore alla Provincia Giacomo Venturi e i sindaci dei comuni interessati per una discussione trasparente ed allargata sul progetto del nuovo stadio: i suoi obiettivi, il suo impatto in termini ambientali, finanziari e sociali.

Il disegno di legge sullo «Stop al consumo del territorio» che il ministro per le politiche agricole Mario Catania ha portato all'approvazione del Consiglio dei ministri è un provvedimento di straordinaria importanza che segnerà il dibattito sulle città nei prossimi decenni. Non è azzardato affermare che il ministro ha segnato una data storica e gliene va dato merito. Nel periodo del secondo governo Prodi (2006-2008) la sinistra (Rifondazione e Verdi) avevano tentato di far approvare un provvedimento simile, ma il predominio culturale del Pd lo impedì. Erano i tempi del "modello Roma", e cioè della convinzione che sul mattone e sul cemento si potesse basare il futuro di un paese. Bastava guardare la realtà dei fatti, e cioè alla grande quantità di alloggi invenduti o di uffici vuoti che già allora caratterizzavano le nostre città. Oppure essere meno provinciali e guardare ad esempio alla Germania che da tempo aveva approvato una legge che poneva progressivamente fine all'espansione urbana. Ma i meriti del governo dei banchieri finiscono qui. Il cipiglio decisionista sfoderato attraverso la decretazione d'urgenza quando c'è stato da colpire i diritti dei lavoratori, quando c'è stato da rinviare di anni l'età pensionabile o quando c'è stato da aumentare oltre misura il carico fiscale, ha sobriamente lasciato il posto a un disegno di legge. Ora non ci vuole l'intelligenza dei professori per comprendere che non se ne farà nulla.

La decretazione d'urgenza era invece indispensabile per lo stato delle nostre città. Agli inizi di quest'anno il supplemento settimanale del Sol e 24 Ore dedicava un preoccupato articolo a una ricerca svolta dall'università di Milano da cui emergeva che se tutte le previsioni edificatorie conquistate con tutte le deroghe imposte dall'economia liberista si concretizzassero, città come Brescia o Bergamo avrebbero al 2020 una quantità di case invendute pari alla popolazione residente. Città fantasma che nessuno abiterà mai! Rispetto a questi segnali altro che disegno di legge: ci voleva il coraggio di concludere una fase speculativa che dura da venti anni. Ma qui arriva la vera natura del governo Monti che non è certo rappresentata dal ministro Catania quanto dall'affiatato tandem Passera-Ciaccia. Coppia inseparabile dai tempi della Banca Intesa che sul mattone qualche cosa conosce. Soprattutto conoscono che molti istituti di credito sono esposti per cifre importanti in folli proposte urbanistiche che sarebbero saltate se si fosse percorsa la strada della decretazione d'urgenza. Alcuni esempi: i 30 milioni di metri cubi decisi prima di Pisapia a Milano o i quaranta milioni che devono ancora essere costruiti a Roma grazie al piano regolatore di Veltroni. O, ancora, le cinque ignobili città "tematiche" decise dalla Regione Veneto che cancelleranno centinaia di ettari di territorio agricolo. Dietro a queste speculazioni ci sono gli istituti bancari e Passera-Ciaccia sono lì per vigilare. Del provvedimento sul consumo di suolo se ne parlerà negli anni prossimi. Fin d'ora, però, è indispensabile che la sinistra elaborasse una sua proposta per il recupero e la riqualificazione delle periferie. L'associazione dei costruttori ha da tempo calato le carte: libertà di demolire e ricostruire senza limiti di aumento delle volumetrie: deve decidere solo la convenienza economica. Il primo tentativo in atto è quello in corso a Roma guidato da Abete per trasformare Cinecittà da luogo di produzione a luogo di speculazione edilizia. Chi è convinto che bisogna costruire l'alternativa alla nefasta fase dell'economia liberista deve urgentemente manifestare un differente progetto.

Sull'argomento vedi anche qui e la relativa postilla

La Repubblica

Lo storico stop al cemento selvaggio: “Così salveremo l’Italia che vale”

di Antonio Cianciullo,

ROMA— Il governo sposa la difesa del paesaggio. Il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge che pone un limite all’avanzata del cemento e protegge l’agricoltura come elemento della cornice ambientale che si è formata nei secoli diventando parte essenziale dell’appeal italiano.«Forse questa misura andava inserita nel primo provvedimento, il decreto Salva Italia, perché ha molto a che vedere con la salvezza dell’Italia concreta», ha commentato il presidente del Consiglio Mario Monti, con una punta di rimpianto per il tempo che stringe e rende difficile la trasformazione del ddl in legge entro la legislatura.

Il segnale politico in ogni caso è chiaro e i numeri pure. In 40 anni il terreno agricolo ha subito una drastica dieta dimagrante: ha perso 5 milioni di ettari, l’equivalente alla somma di Lombardia, Emilia Romagna e Liguria. Oltre il 70 per cento di questa superficie è stato abbandonato e, salvo i casi delle colture di pregio, il bilancio non è necessariamente negativo perché spesso il bosco ha riguadagnato terreno.

Ma a creare allarme è la quota rimanente: parliamo di un milione e mezzo di ettari (un’area grande quanto la Calabria) che, dagli anni Cinquanta ad oggi, sono stati sepolti da villette, capannoni, strade, svincoli, tralicci, discariche. In questo modo si è prodotta una catena di danni: il ciclo idrico è stato alterato rendendo meno governabili i fiumi: terreni già franosi sono stati resi ancora più instabili; il paesaggio è stato sfregiato; la macchina turistica indebolita; la possibilità di catturare anidride carbonica menomata.

Tutti i rapporti confermano l’allarme. L’Istat quest’anno segnalache le superfici edificate coprono il 6,7 per cento del territorio nazionale (in pianura padana si arriva al 16,4 per cento). E il ritmo sta accelerando: ogni giorno, aggiunge l’Ispra, vengono impermeabilizzati 100 ettari di terreni naturali, 10 metri quadrati al secondo.Come fermare questa valanga di asfalto e cemento? Il disegno di legge proposto dal ministero dellePolitiche agricole propone di eliminare le cause che hanno facilitato l’aggressione. La prima è la molla economica. Finora più i Comuni massacravano il loro territorio scambiando aree verdi con periferie disordinate più venivano premiati grazie agli oneri di urbanizzazione che riempivano le loro casse: il ddl sancisce l’eliminazione della possibilità di utilizzare impropriamente questifondi per la copertura delle spese correnti del Municipio.

Inoltre l’articolo 4 del provvedimento prevede che si dia priorità, per la concessione di finanziamenti, al «recupero dei nuclei abitati rurali mediante manutenzione, ristrutturazione, restauro, risanamento conservativo di edifici esistenti e alla conservazione ambientale del territorio ». E l’articolo 3 blocca per 5 anni il cambio di destinazione d’uso per i terreni agricoli che hanno ricevuto aiuto di Stato o comunitari.«È un provvedimento che mira a garantire l’equilibrio tra i terreni agricoli e le zone edificate o edificabili, ponendo un limite massimo al consumo di suolo e stimolando il riutilizzo delle zone già urbanizzate», ha sintetizzato Monti.

Corriere della Sera

Se l'agricoltura perde 100 ettari al giorno

di Lorenzo Salvia

Un'Italia troppo costruita. E il governo dei tecnici sceglie di dire basta. «Negli ultimi 40 anni è stata cementificata un'area pari a Lombardia, Liguria ed Emilia Romagna» è l'allarme lanciato dal premier Monti. Così il Consiglio dei ministri ha varato un disegno di legge per porre un tetto alla cementificazione. Secondo l'Ispra (Istituto superiore per la ricerca ambientale) ogni giorno sono strappati alla natura 100 ettari.

Forse immaginando le possibili resistenze, il ministro delle Politiche agricole Mario Catania lo dice senza aspettare la domanda: «Non è un provvedimento contro l'edilizia». E il premier Mario Monti lo difende fin da adesso, dicendo che «forse andava inserito del decreto salva Italia» visto che «negli ultimi 40 anni è stata cementificata un'area pari alla grandezza di Lombardia, Liguria ed Emilia Romagna». Le norme per la «valorizzazione delle aree agricole e il contenimento del consumo di suolo» sono state approvate dal Consiglio dei ministri seguendo il percorso normale, quello del disegno di legge.

Niente decreto legge, subito in vigore, come pure si era pensato visto il poco tempo che resta prima della fine della legislatura. Con il risultato che l'approvazione finale sarà possibile, riconosce lo stesso Catania, «solo con l'esame in sede deliberante» cioè direttamente in commissione e senza passare dall'Aula. Un'ipotesi tutt'altro che scontata. Ma al di là dei tempi le norme sono importanti, anche coraggiose. Per la prima volta viene fissato un limite di legge alla cementificazione. Seguendo il modello della Germania, ogni dieci anni un decreto fisserà «l'estensione massima di superficie agricola edificabile nazionale», cioè la quantità di terreno coltivabile che può essere cementificata. Viene poi introdotto il divieto di mutamento di destinazione: i campi per i quali sono stati concessi aiuti di Stato o europei non possono essere usati in modo diverso per cinque anni. Un passaggio ammorbidito rispetto alla formulazione originaria. Non solo perché gli anni di divieto erano dieci ma perché nella prima versione non erano permesse nemmeno le attività parallele, come la produzione e la vendita dei prodotti agricoli, adesso consentite.

Il terzo punto è il più tecnico ma anche il più importante. Viene cancellata la possibilità di utilizzare i cosiddetti oneri di urbanizzazione per le spese correnti degli enti locali. Cosa vuol dire? Fino a qualche anno fa, quando un Comune rilasciava un'autorizzazione a costruire, l'impresa edile doveva pagare una somma che il Comune poteva usare solo per portare in quella zona i servizi, come la luce o i trasporti. Nel 2007 la norma è stata cambiata, consentendo ai sindaci di usare quei soldi anche per le spese correnti. Così, volontariamente oppure no, è stato costruito un formidabile incentivo al rilascio delle licenze edilizie, e gli oneri sono diventati un modo per fare cassa o almeno per rispondere ai tagli dei trasferimenti dallo Stato. Il disegno di legge del governo torna all'antico: quei soldi vanno usati solo e soltanto per portare i servizi nei nuovi quartieri.

L'Anci — l'associazione dei Comuni — condivide l'obbiettivo ma si lamenta del metodo: «Siamo stanchi — dice Alessandro Cosimi, sindaco di Livorno — di leggere proposte che riguardano i nostri bilanci senza essere consultati».«Siamo d'accordo sull'obiettivo ma — dice Antonio Saitta, vice presidente dell'Unione delle province — anche dopo laspending reviewla competenza sulla pianificazione territoriale resta a noi. Siamo forse all'abrogazione di fatto?». Per il resto i commenti sono tutti positivi. Il Fai, il Fondo per l'ambiente italiano, e il Wwf parlano di «coraggio e lungimiranza politica». In attesa dell'esame in Parlamento, naturalmente. E delle poche settimane che rimangono per trasformare queste proposte in legge.

E per tagliare i debiti i Comuni vendono le terre e moltiplicano i permessi

ROMA — «Comprate terreno perché non ne fabbricano più», diceva Mark Twain. Ed è proprio così che è andata, in Italia più che nel resto del mondo. Terreni abbandonati perché l'agricoltura dà da mangiare agli altri ma non a chi la fa. E campi invasi dalle ruspe anche se proprio lì a fianco ci sarebbe un capannone che sta cadendo a pezzi e si potrebbe recuperare. Per capire cosa vuol dire, più che guardare la storia conviene usare il cronometro. In un secondo vengono cementificati 10 metri quadri di quello che ci ostiniamo a chiamare il Bel Paese. Lo dice l'Ispra, l'Istituto superiore per la ricerca ambientale che in un solo giorno calcola 100 ettari strappati alla natura. Più di 100 campi da calcio. Come è stato possibile?

Certo, abbiamo attraversato «un'epoca di bassa marea morale», come diceva Italo Calvino in uno dei suoi libri più amari, «La speculazione edilizia». Ma ci siamo inventati anche qualche meccanismo per aiutare chi non aveva bisogno di aiuto. Non solo i condoni, l'eterna tentazione della politica italiana da Franco Nicolazzi in poi. Ma anche la possibilità di utilizzare i cosiddetti oneri di urbanizzazione, una specie di tassa sui costruttori, non solo per portare i servizi nei nuovi quartieri ma anche per le spese correnti dei Comuni. Così le nuove autorizzazioni sono diventate una tentazione forte per i sindaci, che in cassa hanno sempre meno soldi. Tra il 1995 e il 2009 i Comuni italiani hanno rilasciato permessi per costruire 3,8 miliardi di metri cubi. E più dell'80% delle autorizzazioni riguardava proprio nuovi edifici. È anche così che dal 1971 ad oggi ci siamo mangiati più di un quarto del nostro terreno agricolo, quella superficie grande come Lombardia, Liguria ed Emilia Romagna di cui ha parlato lo stesso Mario Monti.

E non è solo un problema di tutela del paesaggio, di lotta alla speculazione o di modello di sviluppo. Ma anche di sopravvivenza. Suona strano nell'epoca dell'abbondanza e invece è proprio così. Sul nostro territorio riusciamo a produrre solo l'80% del cibo necessario per chi vive nel nostro Paese. Un italiano su cinque vive di import, anche a tavola. E non pensate al sushi o al caviale. Non siamo autosufficienti per i cereali, per il latte, per la carne, nemmeno per l'olio d'oliva che pure ci rende famosi nel mondo. E la cementificazione certo non aiuta. Tanto più che il progresso tecnologico è ormai arrivato al limite e non permette più di migliorare le rese. Per coprire tutti i consumi della nostra popolazione, a tecnologie costanti, ci servirebbero altri 49 milioni di ettari di terreno, rispetto ai miseri 12 che ci sono rimasti.

Per «deficit di suolo agricolo», l'hanno chiamato proprio così, siamo il terzo Paese d'Europa dopo la Germania e il Regno Unito. Ma non è solo un problema di cemento. «Il 70% del terreno agricolo che perdiamo ogni anno viene semplicemente abbandonato e poi coperto dal bosco», dice Mauro Agnoletti, professore di Pianificazione del paesaggio all'Università di Firenze. Fino a poco tempo fa, per legge, la campagna abbandonata e invasa dagli alberi non poteva tornare campagna, perché i boschi sono tutelati sempre e comunque. «Un'assurdità», dice il professore, che è stata eliminata con la legge sulle semplificazioni. «Non dimentichiamo che in Italia il paesaggio è quello creato dall'uomo. Da Goethe e Montesquieu, tutti i grandi intellettuali hanno parlato dell'Italia come giardino d'Europa. E il giardino è bello quando si cura, non quando viene abbandonato». Non solo se arriva il cemento.

Fermare la Cementificazione dei Suoli primo Passo con la «Legge Catania»

di Fulco Pratesi

Riuscirà il disegno di legge Catania a fermare l'«incendio grigio» che produce danni irreversibili e perpetui al nostro territorio ben diversamente da quello «rosso» dei fuochi che hanno infuriato quest'estate? Forse no. È comunque un primo lodevole passo, commentano Fai e Wwf, le due associazioni che avevano consegnato al ministro delle Politiche agricole a febbraio il dossierTerra rubata, un documento contro l'alluvione di cemento e asfalto che divora ogni giorno 75 ettari di terra coltivabile e di ambienti naturali, imbrattando con costruzioni, spesso abusive, i paesaggi più belli.

Ma a questo primo passo — che prevede innanzitutto la fissazione di un tetto all'estensione massima di superficie agricola edificabile, poi l'esclusione dell'utilizzo da parte dei Comuni degli oneri di urbanizzazione per le spese correnti, e infine il vincolo decennale di destinazione d'uso per i terreni agricoli fruitori di contributi statali e comunitari — dovranno seguirne altri che investano la generalità del nostro territorio.

Innanzitutto, chiedono il Fai e il Wwf, sarebbe importante un accordo tra i vari ministeri che riesca ad armonizzare l'esigenza della tutela dei suoli agricoli — prevista dal decreto del Consiglio dei ministri — con quelle della pianificazione paesaggistica come disegnata dal Codice dei Beni culturali e del paesaggio del 2004. Un coordinamento che servirebbe anche a garantire l'equilibrata difesa dell'ambiente e della natura.

Ancora, l'introduzione di adeguati strumenti fiscali per disincentivare il consumo di suolo e favorire il riuso di terreni e volumi già edificati e non utilizzati, come prevede il progetto «RiutilizziAMO l'Italia» del Wwf, teso alla riduzione della forbice ancora troppo alta nel nostro Paese tra la rendita fondiaria e i costi della produzione edilizia.In conclusione, è forse possibile sperare che siano poste le basi per una politica che dia direttive per un razionale sviluppo che non pregiudichi il futuro della sua agricoltura e dei suoi paesaggi, non solo rurali, in favore del quali Giulia Maria Crespi, storico presidente onorario del Fai, si batte da sempre.

Consumo del suolo, Catania: con ddl approvato in CdM

vogliamo cambiare modello di sviluppo del Paese


(comunicato stampa del Ministero delle politiche agricole14/09/2012)

"Grazie alle misure contenute nel disegno di legge contro il consumo del suolo, approvato oggi dal Consiglio dei Ministri, facciamo un decisivo passo in avanti per raggiungere l'obiettivo di limitare la cementificazione sui terreni agricoli, in modo da porre fine a un trend pericoloso per il Paese. Questo provvedimento tocca temi molto sensibili, come l'uso del territorio e la sua corretta gestione, ma coinvolge anche la vita delle imprese agricole e l'aspetto paesaggistico dell'Italia. Riguarda il modello di sviluppo che vogliamo proporre e immaginare per questo Paese, anche negli anni a venire".

Lo ha detto ilMinistro delle politiche agricole alimentari e forestali, Mario Catania, intervenendo nel corso della conferenza stampa che si è tenuta a Palazzo Chigi - alla presenza del presidente Mario Monti - al termine del Consiglio dei Ministri, durante il quale è stato approvato il disegno di legge quadro in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo del suolo."Abbiamo introdotto - ha spiegato Catania - un sistema che sostanzialmente prevede di determinare l'estensione massima di superficie agricole edificabile sul territorio nazionale. Questa quota, quindi, viene ripartita tra le Regioni le quali, a caduta, la distribuiscono ai Comuni. In questo modo otterremo un sistema che vincola l'ammontare massimo di terreno agricolo cementificabile distribuendolo armonicamente su tutto il territorio nazionale".

"Vogliamo - ha aggiunto Catania - interdire i cambiamenti di destinazione d'uso dei terreni che hanno ricevuto i fondi dall'Unione Europea, infatti abbiamo previsto che queste superfici restino vincolate per 5 anni. Inoltre, il provvedimento interviene sul sistema degli oneri di urbanizzazione dei Comuni. Nella normativa attualmente in vigore è previsto che le amministrazioni possono destinare parte dei contributi di costruzione alla copertura delle spese comunali correnti, distogliendoli dalla loro naturale finalità, cioè il finanziamento delle opere di urbanizzazione primaria e secondaria. Questo fa sì che si crei una tendenza naturale delle amministrazioni e dei privati a dare il via libera per cementificare nuove aree agricole anche quando è possibile utilizzare strutture già esistenti. Le nuove norme avranno sicuramente un impatto su questo fenomeno".Di seguito, in sintesi, i punti principali del provvedimento:

1. Vengono definiti "terreni agricoli" tutti quelli che, sulla base degli strumenti urbanistici in vigore, hanno destinazione agricola, indipendentemente dal fatto che vengano utilizzati a questo scopo;

2. Si introduce un meccanismo di identificazione, a livello nazionale, dell'estensione massima di terreni agricoli edificabili (ossia di quei terreni la cui destinazione d'uso può essere modificata dagli strumenti urbanistici). Lo scopo è quello di garantire uno sviluppo equilibrato dell'assetto territoriale e una ripartizione calibrata tra zona suscettibili di utilizzazione agricola e zone edificate/edificabili;

3. Si introduce il divieto di cambiare la destinazione d'uso dei terreni agricoli che hanno usufruito di aiuto di Stato o di aiuti comunitari. Nell'ottica di disincentivare il dissennato consumo di suolo la misura evita che i terreni che hanno usufruito di misure a sostegno dell'attività agricola subiscano un mutamento di destinazione e siano investiti dal processo di urbanizzazione;

4. Viene incentivato il recupero del patrimonio edilizio rurale per favorire l'attività di manutenzione, ristrutturazione e restauro degli edifici esistenti, anziché l'attività di edificazione e costruzione di nuove linee urbane.

5. Si istituisce un registro presso il Ministero delle politiche agricole in cui i Comuni interessati, i cui strumenti urbanistici non prevedono l'aumento di aree edificabili o un aumento inferiore al limite fissato, possono chiedere di essere inseriti.

6. Si abroga la norma che consente che i contributi di costruzione siano parzialmente distolti dalla loro naturale finalità - consistente nel concorrere alle spese per le opere di urbanizzazione primaria e secondaria - e siano destinati alla copertura delle spese correnti da parte dell'Ente locale.

Postilla

Nel presentare l’anticipazione del provvedimento legislativo offerta su La Repubblica da uno dei suoi promotori, Carlo Petrini, esprimevamo, il 25 luglio scorso, questo sintetico commento: "ottime intenzioni e proposte finalmente nella direzione giusta, ma per contrastare con efficacia il dominio degli affari nell'uso del territorio occorrono strumenti più solidi. Non possiamo che confermarlo oggi, che il provvedimento è approdato al Consiglio dei ministri. E’ certamente positiva e coraggiosa la decisione di cancellare l’infame modifica apportata da Bassanini e Lunardi alle legge Bucalossi e di ripristinare la destinazione originaria degli oneri di concessione (strumento per la trasformazione degli standard urbanistici in aree edifici e servizi pubblici. Ma sono deboli, contraddittori, inefficaci ed elusive altre parti del provvedimento. Esprimeremo il nostro parere quando avremo esaminato con la necessaria attenzione il testo, ripartendo dalle proposte che abbiamo a suo tempo avanzate (ai tempi del governo Prodi) e che giacciono tra gli atti ufficiali del Parlamento, lì presentate dai gruppi della sinistra oggi assenti dalle sedi legislative (vedi tra le proposte raccolte nella cartella di eddyburg, in particolare quelle presentate dagli on.li Sodano e altri e Migliore e altri.

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