loader
menu
© 2025 Eddyburg

Un rapporto Eurispes presentato a CityTech fotografa la dipendenza del nostro sistema territoriale e sociale dal trasporto individuabile (il dominio del dio Automobile), Le ricette sono individuate da decenni, ma non sono praticate vere strategie alternative. Dal sito Omniauto, 28 ottobre 2013

L'Italia è alle prese con lo Urban Sprawl ovvero con la rapida e disordinata crescita delle città. Negli anni la popolazione è aumentata e si è spostata dai centri abitati nelle province alle periferie e ai territori ex agricoli. "Questa nuova distribuzione ha aumentato la domanda di trasporto e reso inadeguata l'offerta tradizionale", spiega il Direttore del Comitato Libro Bianco, Luca Masciola. Il Libro Bianco sulla Mobilità ed i Trasporti in Italia dell'Eurispes ogni anno fotografa la mobilità ed il trasporto in Italia e verrà presentato in primavera per offrere un dettagliato quadro su temi sociali, infrastrutturali, commerciali e tecnologici legati ai trasporti. Una breve anteprima è stata appena data a Milano in occasione di Citytech dal Direttore dell’Osservatorio dell'Eurispes, Carlo Tosti.

PROBLEMI SOMMATI A PROBLEMI
Nel corso del suo intervento a Citytech, alla presenza del Ministro ai Trasporti, Maurizio Lupi, del Sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, del Presidente della Provincia di Milano, Guido Podestà, Tosti ha approfondito i macrotemi affrontati nel Libro Bianco: l'urbanizzazione e l'accesso ai servizi di trasporto; le infrastrutture critiche, i parcheggi di scambio, le linee tranviarie, le infrastrutture tecnologiche, l’infomobilità e bigliettazione integrata, l'intermodalità, il trasporto turistico, il trasporto merci, il ruolo e l'efficacia delle normative.

"Inquinamento atmosferico e acustico, congestione, occupazione del territorio, inefficiente utilizzo del fattore tempo - ha detto il Direttore dell’Osservatorio Eurispes sulla Mobilità e Trasporti - costituiscono indicatori cui sia le persone che le imprese pongono rilevante e crescente attenzione. Queste problematiche vengono avvertite con più forza nell’ambito urbano, dove c’è ovviamente maggiore concentrazione di popolazione, produzione e distribuzione delle merci. E proprio l’utilizzo esclusivo del trasporto stradale per quanto riguarda le merci crea le maggiori problematiche, non solo dal punto di vista ambientale. L’Italia poi assomma a questa predilezione stradale in ambito urbano una vocazione per la gomma anche nel trasporto merci in medie e lunghe percorrenze. Questo significa che a problemi si sommano problemi". Il Direttore ha quindi ricordato come le Amministrazioni pubbliche locali stiano intervenendo per regolare il trasporto merci in città.

SEMPRE PIU' ABITANTI, TRAFFICO E CITTA'
Oltre a Tosti è intervenuto nel corso della sessione istituzionale, anche il Direttore del Comitato Libro Bianco, Luca Masciola. "Nel decennio tra i due ultimi censimenti in Italia abbiamo registrato una crescita del 9% dei territori abitati (con punte del 19% in Basilicata, del 17% in Molise del 13% in Piemonte e Marche). Il fenomeno è ancor più evidente nelle dieci aree metropolitane nazionali che da sole rappresentano il 30% della popolazione e l'11% del territorio. È in queste aree che lo urban sprawl esprime tutti i caratteri di criticità", ha detto citando due indicatori per tutti: le 600 auto private per mille abitanti (con punte superiori alle settecento su Roma e Firenze), l’altissima percentuale di trasporto merci conto proprio per tragitti inferiore ai 50 km (anche per questo possiamo dire che la merce più trasportata nelle grandi città sia l’aria, ovvero il mancato carico dei mezzi i movimento). Gli effetti sono traffico, congestione, elevati costi diretti, elevatissimi costi indiretti (inquinamento, deturpamento del territorio, incidentalità, ecc.).

"Le ricette sono condivise da larga parte degli analisti del fenomeno: integrazione modale, infrastrutturazione fisica e tecnologica, individuazione di un nuovo e più sostenibile rapporto tra mobilità privata collettiva e dolce - ha detto -. Ma le ricette devono essere adeguate al malato e ciò è possibile solo al termine di un’analisi attenta delle variabili demografiche economiche e di urbanizzazioni delle diverse aree metropolitane".

Che fa il Mercato (la divinità che, secondo i suoi sacerdoti, ha come fine il raggiungimento dell’interesse collettivo) quando vuole aumentare il prezzo di una bene? Ne distrugge una parte. E’ il capitalismo, baby. La Repubblica, “Economia e finanze”, 23 ottobre 2013

Non riusciamo a vendere le case? Non ci sono problemi: abbattiamole. Svolta a Madrid per cercare di far ripartire il mercato immobiliare: stanziati 103 milioni di euro per iniziare la demolizione di parte delle 800mila case vuote nel paese. L'obiettivo? Risparmiare sulle spese di gestione e far risalire il valore degli altri edifici in vendita per rilanciare l'economia

La Spagna, travolta cinque anni fa dalla Burbuja del ladrillo (la bolla del mattone) e sommersa da uno stock di 800mila case invendute, ha scelto la linea dura: il Sareb, la banca pubblica che ha ereditato il patrimonio immobiliare dalle banche per salvare gli istituti di credito, ha stanziato in bilancio una cifra di 103 milioni di euro per procedere alla demolizione di un pezzo del suo tesoretto edilizio.

La recente ripresa economica non è ancora riuscita a rilanciare il mercato: nel secondo trimestre di quest'anno sono stati venduti solo 80mila appartamenti circa - ha certificato il ministero del Commercio - il 2,3% in meno dell'anno prima e lontanissimi dai 250mila circa che venivano acquistati nello stesso arco di tempo negli anni d'oro. E allora, dopo aver fatto fare i calcoli ai suoi economisti, il Sareb ha rotto gli indugi: meglio radere al suolo le proprietà che ancora non sono state terminate. Non solo perchè non ci sono i soldi per finire i lavori, ma soprattutto per evitare le spese di gestione e per provare a dare un piccolo elettrochoc al mercato, visto che i prezzi - malgrado un crollo del 40% dal 2008 - stanno continuando a calare mettendo a rischio gli stessi conti del Sareb.

La decisione, come ovvio, ha scatenato polemiche a Madrid. La Plataforma de Afectados por la Hipoteca, l'associazione che rappresenta le migliaia di famiglie sfrattate nel paese, ha attaccato il "Banco malo", come lo chiamano in Spagna, chiedendo piuttosto di assegnare gli appartamenti a chi è in difficoltà e non ha un tetto sulla testa. E il Sareb ha tenuto a precisare che il progetto di demolizione partirà in modo graduale e riguarderà solo edifici fantasma allo stato del tutto inutilizzabili. Nello stesso tempo però ha provato a spiegare le ragioni della sua scelta: in Irlanda, altro Paese alle prese con una pesante crisi del mattone che ha lasciato 300mila case vuote, il governo ha già provveduto a radere al suolo diversi complessi arrivando così a generare in modo artificioso un timido rialzo dei prezzi.

La mossa della cassaforte immobiliare iberica (che ha tempo 18 anni per liquidare i suoi assett) ha in realtà un obiettivo preciso: ridare un po' di fiato alle banche del Paese, che malgrado i 40 miliardi di aiuti internazionali faticano ancora a far quadrare i loro conti. La ripresa del Pil non si è ancora tradotta in un miglioramento delle condizioni di vita nella quotidianità. E il numero di persone che faticano a far tornare i conti di casa è in costante aumento: i prestiti in sofferenza del settore creditizio, per dire, sono arrivati alla stratosferica quota dell'11,8%, pari a circa 180 miliardi di euro. E in vista delle nuove regole patrimoniali per le banche una piccola ripresa dei prezzi di mercato potrebbe aiutarle a rispettare i paletti della Bce. Si vedrà. Ruspe e gru sono in agguato. Questa volta non per far ripartire la bolla del ladrillo. Ma per cancellarne il ricordo.

La città contemporanea e i cittadini che la pensano e la vivono sono succubi della logica automobilistica, : fermiamoci a riflettere su alcuni portati della cultura razionalista novecentesca, e ad alcuni sviluppi perversi della separazione fra ambiti e funzioni diverse. Postilla di e.s.

C'è gente che proprio non vuole capire certe regole del vivere civile: quando è rosso ti fermi, quando c'è il verde passi, ci vuole tanto a ficcarselo in testa? Questo in buona sostanza il tono dominante delle reazioni, ancora assai vive, all'incidente stradale di Milano che ha coinvolto una mamma e due bambini, falciati in centro alla carreggiata in una maledetta sera di pioggia. Lasciamo qui perdere, deliberatamente, tutti i commenti della pancia sociale scatenati sui social network, che si riassumono eufemisticamente in: la poveraccia era un'immigrata da poco, non aveva evidentemente chiari alcuni comportamenti che a noi cittadini metropolitani vengono spontanei.

Chi mai si metterebbe ad attraversare la strada in quel modo, quando c'è un comodo sottopassaggio? Pare più o meno il pensiero di tutti quelli che pensano qualcosa a riguardo. Colpisce però che anche i sedicenti esperti e operatori di settore, intervistati dalla stampa, non si discostino gran che da una posizione del genere, nel senso di girare in tondo attorno a cose quali i limiti di velocità, i semafori, le strisce pedonali, i sottopassaggi ecc. Perché, magari si chiederà qualcuno adesso, cosa c'è ancora? Cosa manca dall'equazione? Facile: nell'incidente sono stati coinvolti direttamente quattro cittadini, e nell'equazione manca lei, la città. Ne ho ritagliato un pezzettino da Google Earth, che provo a descrivere di seguito.
Il punto dell'incidente è evidenziato in verde brillante sull'asse di via Famagosta, in corrispondenza al punto in cui termina fisicamente il sistema dello svincolo, ovvero risale a livello la rampa di uscita dal sottopassaggio. La fermata dell'autobus si trova sul lato opposto rispetto al sistema della fermata della metropolitana e autosilo, per chi è diretto in direzione verso la sinistra dell'immagine. Il concetto di quartiere "razionalista" qui non riguarda tanto le forme architettoniche

Quello che si vede nella prospettiva dall'alto che ho provato a inquadrare, è il quartiere che fabbrica massacri così, perché pare costruito apposta per fabbricarli. Ho aggiustato un po' l'inquadratura per mettere in risalto certi elementi: lo svincolo su tre livelli, la bretella autostradale che lo alimenta (l'asse sud-nord che qui vedete in orizzontale), la circonvallazione esterna di Milano nel tratto iniziale in senso orario fra Naviglio Pavese e Naviglio Grande, che dallo svincolo puntando in alto verso sinistra è denominata via Famagosta. Toponimi a parte, come credo capiscano in molti, potemmo essere in una città qualsiasi, perché in qualsiasi città sull'arco dell'ultimi secolo urbanisti e amministratori hanno perseguito in varia misura e forme specifiche quel modello di sviluppo.

In buona sostanza, si tratta dell'ideale razionalista tradotto in realtà: a ogni spazio una funzione, una rete di circolazione gerarchizzata, e gli interfaccia gestiti con strumenti tecnici, di cui i più comuni sono sovrappassi, sottopassi, incroci a livello semaforizzati. Una macchina perfetta, che magari funzionerebbe benissimo se contenesse altre macchine perfette. Purtroppo contiene noialtri, imperfetto coacervo composto sia di impeccabili ragionieri comportamentali consapevoli delle regole, che povere mamme immigrate ignare di questa attitudine razionale-blasé.
E se invece avessero ragione proprio i cosiddetti ignari delle regole? Se fossero loro, forma estrema di imperfezione meccanica, bambini, immigrati recenti, popolazioni marginali in genere, a fare da cartina di tornasole degli errori macroscopici in cui ci siamo cacciati fino all'inverosimile, al punto di non vederli più? E anzi, a considerare errori noi stessi, quando invece non esprimiamo altro che un anelito a vivere la città in modo coerente? Riguardiamo l'immagine: non si intravede una città inutilmente squartata da un paio di rigacce che paiono cascate lì dalla squadra di un disegnatore sadico?
Via Famagosta, con le sue sei corsie, e i tre soli punti di attraversamento, è stata artificiosamente allargata sulla spinta teorica dello svincolo, il quale a sua volta esiste perché smista il traffico sparato lì direttamente dall'anello autostradale. C'è un altro grosso settore urbano, quello sulla sinistra dello svincolo, inghiottito dal vistoso parcheggio di corrispondenza multi-livello, e relative corsie di avvicinamento. In buona sostanza a ridosso del centro città, con la solita scusa di “facilitare la circolazione” si è lasciato incistare un automobilistan rigido ed escludente, che non solo sottrae superfici enormi all'abitabilità, ma tende ad allargare all'infinito la propria sfera di influenza. Del resto su scala minore lo sanno benissimo tutti coloro che hanno avuto a che fare con gli autosilos in centro: lungi dall'eliminare il problema sosta, producono nuova congestione che chiede nuovi spazi … ad libitum.

Dal punto di vista concettuale, è la segregazione funzionale che ha raggiunto vette sublimi, trasformandosi in una sorta di cessione di sovranità, di servitù militare dell'automobile (di solito giustificata dalla nostra sicurezza). Accade da molti decenni, e come ho già scritto parecchie volte anche le formalizzazioni della neighborhood unit contemporanea (che nella zona di via Famagosta vede ad esempio una sua impeccabile applicazione coerente nel quartiere San'Ambrogio, che si intravede a sinistra nell'immagine) accettano la grande arteria come margine di definizione del proprio territorio di competenza.
Ma questa apparente applicazione in positivo delle formazioni spaziali (margini, nodi, quartieri, percorsi) definite da Kevin Lynch, nasconde ancora una cessione di sovranità: tutto equilibrato dentro al quartiere, ma poi ogni cosa si arresta ai sacri confini, gli ormai classici terrapieni a verde che immettono nel sovrappasso o svincolo o che altro. Insomma, mai come oggi salta all'occhio quanto l'aggettivo organico, sparso a piene mani per decenni dalla critica a connotare l'approccio ad architetture ed altri spazi urbani, altro non sia che non una sovrastruttura ideologica a una concezione tradizionalmente meccanica della città.

E tutto, concettualmente, inizia proprio con quella benintenzionata idea di separare e specializzare gli spazi. Forse non è un caso che il primissimo modello di baraccone insediativo in stile automobilistan si debba a un avvocato, e non a un ingegnere o architetto. Ma di avvocato sperimentatamente abilissimo a difendere l'idea di proprietà privata e la concezione meccanica di città che questa si porta dietro: Edward Murray Bassett, estensore della prima famosa ordinanza di zoning esclusionista adottata da New York nel 1916, nonché ideatore di un meno noto ma altrettanto significativo freeway business center, negli anni '30 delle prime arterie veloci urbane a molte corsie. Gli storici dell'architettura collocano questo aggeggio fra gli antenati del centro commerciale contemporaneo, per la sua capacità di proporre negozi servizi e parcheggi in forma integrata, facendo in sostanza evolvere l'ambiente della pompa di benzina.
Io, da italiano, ci vedo anche l'antenato del nostro cosiddetto Autogrill a ponte, quella caratteristica struttura a cavallo dell'autostrada che unisce un nulla a un altro nulla. Ecco, l'impressione è che proseguendo concettualmente sulla strada della “gestione del traffico” e della cessione di sovranità da parte dell'urbanistica, finiremo per rinunciare in modo definitivo alla città, trasformandola in una specie di grande Autogrill, a carico del contribuente. Altro che povera immigrata che non conosce le regole del vivere moderno.

postilla

Osservazioni giuste. Il fatto è che la città che conosciamo non è quella dei modelli proposti dagli urbanisti, ma quella costruita da tre attori fondamentali: la cattiva amministrazione, gli architetti vanitosi e la rendita fondiaria. Basterebbe confrontare tra loro alcune immagini per comprendere che la colpa non è degli urbanisti che hanno introdotto la razionalità e il funzionalismo nei modelli di città proposti a chi doveva costruirla, ma di quei tre attori. Suggerisco alcuni confronti illuminanti. La Barcellona disegnata da Ildefonso Cerda (i grandi isolati di 100 metri per lato, edificati solo sui lati e sistemati a verde all'interno) e quella di oggi (i quadrati quasi interamente riempiti da edifici). Oppure i disegni in cui Le Corbusier illustra la sua Ville Radieuse (pochi grandi edifici disseminati un un'ampia regione urbana dominata dal verde) e la rappresentazione del pezzo di Milano illustrata da Bottini. E basterebbe visitare, forse ancora oggi, i grandi quartieri di edilizia popolare progettati da Bruno Taut e realizzati dalle amministrazioni socialdemocratiche delle città tedesche prima del Nazismo, per rendersi conto che, accanto alla visione di città e al suo progetto, occorre anche una buona struttura tecnica, una buona politica e architetti che ricordino che prima dell'oggetto che loro disegneranno viene la città. Dimenticare il legame tra razionalità del disegno, subordinazione della proprietà immobiliare agli interessi comuni, e qualità dell'amministrazione pubblica, conduce alla città devastata che provoca il disagio dei suoi abitanti, soprattutto dei gruppi più deboli. Sembra che anche molti urbanisti lo abbiano dimenticato, a partire dall'Inu; la politica, e gran parte dell'intellettualità, sembra che non l'abbiano nemmeno mai saputo (e.s.)

Proprio nel momento in cui i movimenti sociali italiani per la casa incontrano un ministro da sempre sostenitore del ruolo dominante dei privati, una rassegna di problemi dalle esperienze in corso a Londra: recinti nei recinti per dividere chi ha da chi non ha. The Guardian, 22 ottobre 2013 (f.b.)

Titolo originale: Unsocial housing? Gates within gates divide the 'haves' and 'have-nots' – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Le inserzioni pubblicitarie dello High Point Village, intervento di 600 alloggi a Hayes, fascia esterna occidentale londinese, parlano di “moderno accostamento di case economiche e di lusso, perfettamente progettate e attrezzate, che offre un'oasi di tranquillità nel nostro mondo frenetico e programmato, per garantire agli abitanti un ambiente davvero di comunità, del tipo che manca nella metropoli anonima”. Ecco, non è esattamente quello che hanno scoperto gli inquilini della parte “economica” del quartiere. Chi abita le case pubbliche o di edilizia convenzionata, afferma di essere considerato un cittadino di serie B, come nel caso delle cancellate interne che li dividono dai vicini della parte “lusso”. C'è addirittura una divisione nel parcheggio per le auto, fra quelle della zona economica e le altre.

Audrey Verma, abitante in un o dei complessi economici, spiega come High Point Village sia “una specie di gated community dentro cui esistono altri cancelli per separare gli abitanti delle case pubbliche da quelli delle private”. Ci sono addirittura delle carte dove le aree più di lusso sono divisa da specifici nomi, mentre i due isolati delle case economiche restano anonimi. Il massimo della tensione si è raggiunto in agosto, quando si è rotta una condotta d'acqua che ha lasciato a secco la parte economica per quasi due giorni. Alcuni abitati hanno scoperto un rubinetto d'emergenza destinato alla sezione privata, ma hanno appreso contemporaneamente che non era possibile usarlo ad alimentare le loro case. Per trovarsi costretti a riempire bottiglie ad una fontanella decorativa all'ingresso della zona lusso.

“Molti si sono trattenuti dal parlare in passato temendo effetti sulle valutazioni immobiliari, ma quanto successo con l'impianto dell'acqua va oltre ogni limite” continua Verma. “Non si può neppure usare un rubinetto con la canna. Le cancellate sono da sempre un problema, a dividere chi ha da chi non ha, ma non poter neppure usare provvisoriamente l'acqua con un tubo è troppo”. Situazione addirittura peggiorata dopo che qualcuno è stato sospeso da una pagina Facebook dedicata agli abitanti di High Point Village, per aver sollevato la questione.

Gli interventi residenziali misti, una scelta molto sollecitata dai governi laburisti, non sono nuovi a polemiche. Si accusano i costruttori di usare tattiche di divisione sociale, ad esempio inserendo per la parte non di lusso esclusivamente tagli piccoli, monolocali. Il parlamentare eletto nella circoscrizione di Hayes e Harlington, il laburista John McDonnell, racconta che l'idea originale di High Point Village era di quartiere misto con una serie di servizi disponibili a tutti. “Ma nell'attuazione pratica è diventato un classico esempio di realizzazione in cui si isola la parte economica e convenzionata in un angolo, separato da recinzioni. Quello del guasto alla condotta d'acqua è solo l'ultimo esempio di un'idea generale tesa solo ad aumentare al massimo il profitto vendendo gli appartamenti a mercato libero”.

Sarah Blandy, professore di diritto all'Università di Sheffield ed esperta di gated communities, spiega come ai costruttori venga spesso imposto, se vogliono ottenere l'autorizzazione a un progetto, di inserire una quota di case economiche o convenzionate. “Quella quota poi viene spesso segregata da quella privata, e vistosamente diversa. Le cancellate poi rendono il tutto più esplicito. La divisione all'interno di una altra divisione, de resto, non è cosa rara, spesso ufficialmente per motivi di sicurezza, a prevenire ingressi sgraditi o fughe troppo facili di malintenzionati”.

I lavori dello High Point Village li ha iniziati nel 2007 il Ballymore Group, già importante protagonista dell'intervento londinese dei Docklands.
La Thames Valley Housing (TVH), responsabile della gestione del complesso, sostiene che “Il guasto alla rete idrica dello High Point Village evidenzia le difficoltà di funzionamento di un progetto misto, ma non abbiamo avuto proteste dagli abitanti. Abbiamo previsto un incontro di responsabili per discutere questo incidente con TVH Ballymore e altri interessati, per far sì che il servizio sia garantito a tutti indistintamente”. Secondo Ballymore occorre prestare grande attenzione “a tutte le componenti di una situazione mista di case economiche e di libero mercato nel medesimo contesto, specie in un contesto come High Point Village con edifici autosufficienti per motivi economici e di gestione”. Si aggiunge, che la sezione case economiche è dotata di giardini recintati e campi da gioco, e che la piscina del complesso è disponibile per tutti gli abitanti.

Adrian Gill, presidente della High Point Village Residents Association, spiega che certo il suo gruppo rappresenta esclusivamente gli abitanti di tre isolati, ma che non si tratta si esclusione sociale: sono le leggi che governano questo tipo di rappresentanza. “Le difficoltà che incontriamo credo siano conseguenza di insediamenti sempre più densi – resi indispensabili dalla forte crescita di popolazione nell'area di Londra – e da politiche delle amministrazioni locali semplicistiche e ingenue. Dobbiamo lavorare a rimuovere gli ostacoli materiali che segregano gli abitanti di fasce di reddito e godimento dell'alloggio diverse, e che oggi ne stigmatizzano socialmente la condizione”.

Pareva superata, la faccenda delle vittime collettivamente accettate da pagare ahimè al progresso, invece con le reazioni all'incidente di via Famagosta a Milano ci siamo ancora dentro fino al collo, grazie all'invasione concettuale del modello di autostrada urbana, contro lo spazio condiviso

Questo è il genere di intervento che non vorrei scrivere, anzi che non voglio scrivere e infatti mi sono inventato una variante ad hoc, su cui tornerò poi. Non voglio parlare (solo) del motivo per cui accadono gli incidenti stradali, e che continua a sfuggire più o meno al 100% dei commentatori sulla stampa: la durissima carrozzeria di un'auto che in media a 70-90 all'ora pesta sul morbido corpo, più o meno fermo, di un pedone, con risultati tragici e noti a tutti. Dato che questi risultati tragici sono noti a tutti, anche nel recentissimo caso della mamma con due bambini falciata da un coetaneo in uno stradone periferico di Milano, via Famagosta, pare che i commenti evitino di andare al sodo, divagando sulla biografia dei personaggi principali anziché sui presupposti immediati del loro inopinato incontro: uno che arriva a settanta all'ora foderato di lamiera, gli altri nudi e inermi, immobili sulla sua traiettoria. Perché si trovavano in queste condizioni?

Per lo stesso motivo che, di passaggio, notano inconsapevolmente sui giornali anche alcuni commentatori: c'è un'autostrada in città, e le due cose non ci azzeccano l'una con l'altra. Per chiarire meglio il concetto, vorrei usare un'immagine coniata da un gruppo di opposizione locale conservazionista a uno dei tanti sventramenti a cavallo fra XIX e XX secolo, del tipo di solito giustificato da motivazioni igieniche e di efficienza: “il nuovo viale della Stazione è come una freccia puntata al cuore della città”. Naturalmente quegli antichi cultori dell'arte con “cuore della città” intendevano il patrimonio monumentale del centro storico, ma basta riflettere solo qualche istante, col senno di poi, per capire che l'arma di questi tecnocratici ispettori Callahan puntata verso la città minaccia proprio la sua essenza di città. Sventra qui, sventra là, il ventre non c'è più, al suo posto una meravigliosa (almeno per certi elettrotecnici dell'urbanistica) distesa di parcheggi, collegati da stradoni multicorsia, su cui incombono palazzoni a pareti cieche almeno fino al terzo piano. Per andare dall'uno all'altro, nei casi migliori, qualche passerella sospesa, del tipo che già si intravedeva negli schizzi leonardeschi, la faceva da padrone in Metropolis di Fritz Lang (1927), ma ancora certi idioti ci presentano oggi chissà perché come “futuristica”.

Queste immagini di città ad ambienti ermeticamente segregati, le abbiamo mille volte intraviste negli schizzi razionalisti novecenteschi, quando l'idea schematica che a ogni specifica funzione dovesse corrispondere uno specifico spazio andava per la maggiore. Il coronamento del concetto però si deve allo scenografo Norman Bel Geddes, autore del padiglione Futurama alla fiera mondiale di New York 1939 finanziato dalla General Motors, nonché vera e propria eminenza grigia della trasformazione progressiva dell'autostrada da infrastruttura relativamente eccezionale a dogma indiscutibile della vita contemporanea, anche nella sua versione più assurda in ambiente urbano, appunto a trasformare gli ex quartieri in una sorta di castello assediato da forze amiche. E forse è anche il caso di ricordare come l'unità di vicinato, nell'elaborazione originaria congiunta del sociologo Clarence Perry e degli urbanisti di matrice prevalentemente razionalista, aderisca in pieno a questa matrice: il quartiere, con tutte le sue qualità quantità e caratteri, è sempre definito dal margine di una autostrada urbana o assimilata. Non a caso agli schemi viari a cul-de-sac si sommano sempre i percorsi pedonali e ciclabili convergenti verso gli attraversamenti in quota di quel margine stradale, unico sbocco delle Little Big Horn residenziali in cui l'ubiqua cultura modernista-automobilistica vorrebbe ritagliare la città.

Naturalmente le cose non sono andate così lisce per quel modello di sviluppo meccanico e astruso. La maggior parte delle città, specie quelle con una notevole sedimentazione storica, provano se non altro a reagire a quell'arma puntata al proprio cuore identitario, fatto di impasti complessi di spazi e persone, non certo di ingranaggi alimentati a benzina. Ma la spinta a quel genere di trasformazioni è gigantesca, e l'autostrada (o qualcosa che le assomiglia parecchio) diventa sempre più invadente. Nel caso specifico di cui parlano a sproposito le cronache di questi giorni, il perverso sistema si compone di una bretella ad accesso riservato che collega le Tangenziali a una circonvallazione più interna, di uno svincolo piuttosto complesso su vari livelli, della via Famagosta propriamente detta che taglia due quartieri con le sue rigide corsie scandite da cordoli New Jersey, interrotte solo in corrispondenza dei semafori. In buona sostanza, il viale (termine corrente quanto mai improprio per queste arterie) organizzato per corsie centrali veloci e controviali laterali di servizio è il classico pessimo ibrido fra un'autostrada urbana vera e propria, e una via con case, negozi, affacci, insomma la vita, no?

Sempre secondo l'automatica vulgata novecentesca tradotta in regole e codici, l'ambiente automobilistico dedicato autostradale qui dovrebbe essere addomesticato e metabolizzato da alcuni espedienti tecnici: il limite di velocità (i perentori surreali cartelli 50, su un'arteria che arriva sparata da uno svincolo!), i citati controviali e i semafori con strisce di attraversamento, un sottopassaggio pedonale in corrispondenza della fermata della metropolitana. Funziona? Nemmeno per sogno, come hanno scoperto bontà loro i commentatori facendosi un giro da quelle parti, e come sanno benissimo i frequentatori abituali che in buona sostanza ignorano le regole ufficiali. La città, qualunque città, non funziona come il circuito elettrico con cui ci riassumono le fermate della sotterranea, strisce colorate separate da cui si entra ed esce solo in corrispondenza dei pallini scuri. Un noto urbanista internazionale l'ha pure inconsapevolmente usato poco tempo fa, lo slogan Ville Poreuse, a definire questa organicità metropolitana, del resto già stigmatizzata un secolo fa da Patrick Geddes, e per nulla riconducibile alle scatole incomunicanti del modello modernista.

Quello che non funziona, dettagli a parte, è escludere artificiosamente, concettualmente, e poi ragionare e comportarsi come se questa esclusione fosse effettiva. Nei territori extraurbani qualche volta, e con risultati altrettanto tragici, il mondo reale fa il suo ingresso coi famigerati sassi dal cavalcavia. Negli spazi metropolitani densi, invece dei sassi arrivano persone in carne ed ossa, ma il risultato è analogo. Città è condivisione, shared space, spiegatelo al vostro assessore che magari ai convegni parla di mobilità sostenibile, e poi davanti a casi come quello della signora incinta falciata insieme al figlio che teneva per mano, non sa fare altro che togliersi il cappello al funerale, e poi mettere un altro semaforo, o cartello lampeggiante. La forma urbana, assessore, è quella la leva su cui intervenire, al resto ci pensiamo noi coi nostri comportamenti, dettati da un'intelligenza media del tutto paragonabile a quella sua e degli altri amministratori.

Purtroppo il problema non finisce qui, cioè non finisce al limite delle competenze del nostro magari ricettivo assessore alla mobilità sostenibile. Perché nei territori dell'area metropolitana (di tutte le future città metropolitane potenzialmente dotate di assessore alla mobilità metropolitana sostenibile) si nota non da oggi una perniciosa tendenza a fissare un modello stradale esattamente identico a quello descritto sinora, forse anche peggio. Infiniti rettifili chiusi da guard rail zincato doppio, canna di fucile claustrofobica che spara veicoli da un mini-svincolo in area semirurale all'altro. Invece di semafori e strisce pedonali, molto più radi interventi tecnici di attraversamento sopra o sotto le multi-corsie. Come ammettono gli interessati (nel senso di stakeholders vari) la logica di queste arterie stradali metropolitane è perfettamente autostradale, ivi compresa la possibilità non troppo teorica di imporre un pedaggio per l'uso dell'infrastruttura. E, qui concludo, la possibilità di infiniti, desolati e surreali commenti sui giornali, a proposito del tragico destino di quel ragazzo che chissà come per andare a trovare la fidanzata che abita a cento metri in linea d'aria, non trovava logico passare dal comodo sottopasso a cinque chilometri di distanza. Prepariamoci, o magari proviamo a pensare e prevenire: città, coraggio, non farti ammazzare così!

Qui la seconda parte di Futurama, quella dedicata alla città del futuro: vera e propria profezia che si vuole autoavverare, al netto dei morti sulle strade e della qualità abitativa sotto zero

Una nota sulla manifestazione di sabato 19 ottobre scorso, per la casa e il lavoro, il diritto alla città e contro le Grandi opere inutili, nel ricordo di un’altra manifestazione che tentò di cambiare la nostra storia ma fu arrestata dal terrorismo dei “servizi deviati” dello Stato

Sono stati migliaia i corpi che, attraverso un lungo serpentone colorato, sabato 19 ottobre, hanno assediato tre specifici edifici statali che molto a che fare hanno avuto e dovrebbero avere con la “casa”: il Ministero dell’ Economia che dovrebbe pensare alle risorse con cui rendere possibili programmi abitativi; il Ministero delle Infrastrutture che questi programmi dovrebbe progettare e rendere realizzabili; la Cassa Depositi e Prestiti, oggi usata come un bancomat per far tornare il bilancio dello stato ricorrendo alla dismissione di quell’ingente patrimonio pubblico che potrebbe, anche se usato solo in piccola parte, risolvere il problema dell’emergenza abitativa.

I luoghi ministeriali di Roma sono la precisa traduzione in pietra del modello proprio alla costruzione capitalistica dello spazio della città. Tre edifici ben piantati nel’asse “direzionale” di cui, dopo il 1870, il nuovo stato italiano si era voluto dotare aprendo, a partire dal Quirinale, lal via del proprio apparato: il ministero della Guerra, dell’Agricoltura, delle Finanze e, subito dopo la Porta, quelle dei lavori Pubblici. Terreni a ridosso della zona in cui, solo qualche anno più tardi (1883) con la lottizzazione Ludovisi, la rendita immobiliare si esibirà nei primi devastanti esercizi di rendita.

Il corteo, quasi un paradosso per i tanti oggi esclusi dal diritto all’abitare, ha toccato così, nel suo dipanarsi, le case che quei ministeri, atterrando da Torino con l’unità d’Italia, si portarono appresso, circondando i massicci ingombri volumetrici degli uffici con le altrettante massicce volumetrie residenziali. I “casermoni” (con questo termine fu ribattezzata dai romani quella tipologia a loro estranea) possenti, con il cortile interno, dove alloggiare il personale chiamato a dar vita alla macchina amministrativa del nuovo Stato. pUna macchina cresciuta su se stessa che ha barattato, da allora, la propria espansione priva di regole e la conseguente rendita dei proprietari di terreni e edifici da riconvertire, con la rinuncia a quell’ipotesi di delocalizzazione dei ministeri che, “pensata” nella seconda metà del 900, con la realizzazione di un sistema esterno al centro storico (S.D.O.), avrebbe interrotto quella bulimia espansionistica e la conseguente scomparsa, dalla parte antica della città, di un sempre più massiccio numero di abitanti. pLa giornata del 19 ottobre, ma anche quella del giorno prima con la manifestazione del sindacalismo di base, si è mossa a partire dalle sofferenze dell’abitare nella crisi alimentata giorno dopo giorno dal dominio del capitale finanziario. Per questo il corteo radicale, ma certo non violento, capace anzi come si è visto di auto tutelarsi, ha detto chiaramente che le risorse per l’abitare non possono essere sottratte e indirizzate alle banche. Questo chiede il popolo delle occupazioni che a macchia d’olio si stanno espandendo nel paese. Ovunque nascono numeri di una strana urbanistica .

Le oltre diecimila persone che vivono nelle 60 occupazioni romane (abitative e culturali) per esempio, sono in realtà gli abitanti di un quartiere che non c’è, ma che è capace spandendosi nel costruito del corpo della città, di porre una richiesta di partecipazione, che nasce dalle forme precarie di vita in cui si costretti a vivere, per un’idea di città diversa. Non è un caso che la forte presenza al corteo dei migranti (significativo il cartello innalzato da molti di loro: ci dispiace non siamo affogati!) ha significato proprio che occupare non è solo una forma di risarcimento, ma piuttosto una riappropriazione per tendere con una nuova forma di welfare al diritto alla città. Accanto a loro la miriade di reti sociali dove questo già avviene, e i tantissimi lavoratori precari: nei servizi, nel commercio che, con il diritto all’abitare intendono dire no alle politiche di austerità che si intende costruire intorno alla vita di tutti noi.

Martedì prossimo questo movimento incontrerà insieme ai Sindaci delle città dove più forte è l’emergenza abitativa, il ministro Lupi che intanto, ha trovato il modo di mettere in pratica il suo ben noto credo urbanistico consegnando ad un super fondo pubblico un consistente pacchetto di “immobili di stato” per far cassa e ridurre così il debito pubblico. Una devastante risposta che vede i “ragionieri” contabilizzare in sei miliardi di euro entro il 2017 i possibili incassi, ma a non considerare che cosa accadrà nelle nostre città e nei nostri territori pAncora una volta i tre edifici di cui sopra hanno deciso di non parlare tra loro anche se sarebbe sufficiente, data la loro ubicazione, farlo aprendo le finestre . A nessuno di loro è venuto in mente che questi immobili liberati e consegnati al mercato avranno l’effetto devastante di altrettante bombe, minando con gli altrettanti cambi di destinazione d’uso che chi compra vorrà vedersi assicurato, la definitiva possibilità di poter parlar ancora di una città pubblica. E’da questi palazzi consegnati al capitale finanziario che verrà l’assedio alla nostra vita. pLa manifestazione del 19 ottobre ha voluto dare anche questo segnale richiedendo, insieme al blocco degli sfratti, l’interruzione del piano di dismissione di questo patrimonio e della sua riconversione residenziale esprimendo un diritto di cittadinanza che è il diritto alla città. A farla finita con il rincorrere il mito delle grandi opere come hanno gridato i tanti NOTAV presenti, a non cedere la sovranità del nostro territorio agli americani per trasformarlo in casa del loro grande orecchio indagatore, come ha gridato lo spezzone del corteo dei NO.Muos .

I più anziani tra noi sabato pomeriggio si sono commossi. Non certo per i lacrimogeni che non ci sono stati, ma ripensando che proprio una manifestazione come questa, nel 1969 aveva dato vita con primo sciopero generale sulla casa a un movimento capace di togliere dalle città l’infamia delle abitazioni precarie (baracche), aprire una stagione di edilizia popolare, a parlare di abitare prima di parlare di costruire.

Siamo stati capaci, allora, di rompere l’assedio del “blocco edilizio” riusciremo, oggi, a fare altrettanto con quello del blocco “ finanziario immobiliare”.

Era quasi prevedibile, anche se naturalmente per nulla auspicabile: la mobilità dolce rivendica centralità urbana? Arrivano archimedi conformisti e elettrotecnici vari a tentare di levargliela subito, perché mai e poi mai si deve mettere in dubbio il dogma di una città organizzata attorno all'automobile. La Repubblica 20 ottobre 2013, postilla (f.b.)

Era il 1982. Cinque ragazzini scapparono dalla polizia volando sulle loro biciclette: riportavano a casa un extraterrestre con la fissa del telefono. Ma era solo un film. Poi sono arrivate le green cities,i dibattiti sulla mobilità sostenibile e soprattutto milioni di novelli ciclisti metropolitani. E così, architetti, designer e ingegneri si sono messi al lavoro: tutti a progettare città in cui saranno proprio i ciclisti a farla da padroni. Il film è diventato realtà, e trent’anni dopo ETlebici volanti esistono davvero. O quasi. Il prototipo è nato nella Repubblica Ceca. Si chiama Design Your Dreams Flying Bike. Si tratta di una bici elettrica a cui hanno lavorato tre aziende e a godersi il primo volo è stato un manichino pilotato da remoto.

«L’ispirazione ci è venuta dalla letteratura» spiega Ales Kobylik, ad di Technodat, «siamo cresciuti con i romanzi di Jules Verne e con le macchine volanti che compaiono nelle sue avventure». Tuttavia, nonostante sia in fase di studio un prototipo che possa essere pilotato da un essere umano,gli scenari allaET restano ancora lontani dalla vita di tutti i giorni. «Non abbiamo nessuno scopo commerciale per la Flying bike — continua Kobylik — per ora l’abbiamo presa come una sfida». In attesa che qualcuno la raccolga, per i ciclisti del 2050 le alternative non mancano: forse non potranno decollare, ma ci andranno vicino. Un esperimento arriva dalla Nuova Zelanda. Si chiama Shweeb, è un circuito sopraelevato lungo il quale scorrono delle cabine e a muoverle sono gli stessi passeggeri che pedalano all’interno. L’idea è di Geoff Barnett, ciclista australiano: nel 2007 il suo progetto è diventato un prototipo vero e proprio, composto da due monorotaie costruite a sei metri d’altezza, lungo le quali si muovono delle capsule. Ognuna di queste prevede un passeggero, che pedala in posizione reclinata per ridurre l’attrito con l’aria. I vantaggi sono molteplici: si riduce il rischio di incidenti, non si occupano porzioni di terreno, non si emette Co2. Costruito all’interno di un parco divertimenti a Rotorua (Nuova Zelanda), il prototipo di Barnett non è uno scherzo.

E infatti nel 2010 ha attirato l’attenzione di Google che ha promosso un investimento da un milione di dollari. L’obiettivo è studiare le possibili applicazioni in un contesto urbano vero e proprio, facendolo diventare un mezzo di trasporto a tutti gli effetti. «Abbiamo sviluppato una partnership con un’azienda canadese e una olandese — spiega Peter Cossey, ceo della Shweeb Monorail Technology — probabilmente ci vorranno ancora un paio d’anni prima di riuscire ad avere un prototipo del mezzo di trasporto vero e proprio». Ma intanto a Sofia un architetto ha avuto un’idea simile: meno futuristica, certo più funambolica. Si chiama Martin Angelov, e il suo progetto Kolelinia. Bisogna immaginarselo come una sorta di minuscolo canale sospeso a mezz’aria, sostenuto da una serie di piloni. Parallelo a questo, scorre un po’ più in alto un cavo: l’ardito ciclista dovrà fissare il manubrio al cavo e lanciarsi con la sua bici lungo il canale. C’è chi l’ha già fatto. Lo stesso Angelov non nasconde un certo ottimismo: «Al momento stiamo sviluppando Kolelinia come un’attrazione perturisti. Io e i miei collaboratori stiamo effettuando una serie di test all’interno di parchi naturali, utilizzando gli alberi come piloni. Se la cosa avrà successo, pianificheremo lo step successivo, la sperimentazione in ambito urbano».

Che siano cabine, o cavi sospesi nel vuoto, lo scopo di questi progetti resta uno solo: potersi muovere nelle grandi metropoli (e non) nella maniera più rapida ed efficace possibile. Sganciarsi dalle code, dai parcheggi che non si trovano e dal blocco delle auto quando i livelli di Co2 raggiungono il limite del tollerabile. Lo sforzo allora è concepire centri urbani in cui i mezzi alternativi siano veramente tali, e ci permettano di arrivare ovunque.

Al lavoro, al centro commerciale, allo stadio: ma parcheggiando sulle tribune, mica fuori. Quentin Perchet e GabrielScerri sono due architetti francesi, ideatori di Bike the Floating Stadium. Sta già tutto nel nome: si tratta di uno stadio galleggiante, al quale si accede in bici mediante una serie di rampe. «Un aspetto interessante della bicicletta — spiegano — è che ti permette di arrivare molto vicino alla tua destinazione, perché è facile da parcheggiare. Uno stadio è una struttura che richiede molto spazio da riservare ai parcheggi e che prevede accessi multipli, così da smaltire l’afflusso di tante persone contemporaneamente. Da qui, l’idea della bici».

E se il bello delle due ruote è che si parcheggiano ovunque, uno studio di New York ha pensato di sfruttare le facciate degli edifici. L’idea è di Jeeyong An, che alla Seoul Cycle Design Competition ha presentato il progetto Bike Hanger. Al solito, serve uno sforzo di immaginazione: un gigantesco ingranaggio messo in movimento da una bici (ma va?) posizionata a terra. Pedalando, si fanno scorrere le biciclette fissate lungo la ruota, finché la propria non torna al livello del terreno, pronta per ripartire. In volo, sospesa lungo una fune, o chissà.

postilla
Tutte le volte che leggo articoli del genere di questo, su biciclette volanti o automobili con annesso ristorante e piscina olimpionica, mi torna in mente quel povero bambino rincoglionito a sua insaputa, appena sceso dall'utilitaria di famiglia al lunare parcheggio del Tronchetto, inopinatamente piazzato in mezzo alla Laguna Veneta: “Papà, ma qui a Venezia la gente parcheggia la barca sotto casa come facciamo noi con la macchina?”. Non so cosa esattamente gli abbia risposto quel padre, ma temo una sostanziale conferma dell'idea del pupo. Del resto la media dei cittadini di solito non ha letto quella scheda dedicata da sir Colin Buchanan alla straordinaria particolarità del centro lagunare nel suo Traffic in Town (1963). Dove in pratica ringraziava la storia e la geografia per aver consentito lo sviluppo di uno spazio urbano in cui la scatoletta a motore novecentesca non era perversamente riuscita a modellare tutto quanto attorno a sé stessa, compreso il cervello dei cittadini. Un cervello ormai cotto al punto da non capire che non esiste proprio, una bicicletta più o meno svolazzante del futuro, ma eventualmente un rapporto futuro auspicabile fra l'evoluzione tecnologica della bicicletta, quella urbanistica e comportamentale, e dulcis in fundo quella piuttosto improbabile (in tempi brevi) dei sederi che alla bici stanno appoggiati sopra. Sederi che però a quanto pare qualcuno continua a usare, inopinatamente, al posto del cervello, per propinarci idee assurde e strampalate sull'ennesima “città del futuro” (f.b.)

Per capirci meglio, ecco qui da Eddyburg Archivio (inserimento a.d. 2005) l'estratto dal Rapporto Buchanan da condividere nel metodo e nel merito, salvo forse nelle conclusioni - ma siamo nel 1963 - che promuovono segregazione modale, vagamente analoga a quella delle bici volanti

Ottime intenzioni, scarsissima efficacia. Che cosa invece si potrebbe fare se davvero si volesse arrestare il consumo di suolo, scritto per eddyburg il 10 ottobre 2013
Il disegno di legge sul contenimento del consumo di suolo agricolo, trasmesso alla conferenza unificata Stato Regioni, è del tutto condivisibile nelle sue finalità. Tuttavia, destano alcune perplessità gli strumenti indicati dalla legge per perseguire l’obiettivo di riduzione del consumo di suolo.

In particolare, ci si riferisce all’ipotesi, formulata all’articolo 3, di stabilire l’estensione massima di superficie agricola “consumabile” nel territorio nazionale in un decennio. Per svolgere questo compito, occorre passare attraverso due decreti attuativi, una serie di deliberazioni della conferenza unificata e l’istituzione di un comitato pletorico, composto di diciassette membri.Le Regioni, a loro volta, dovrebbero ripartire la superficie consumabile alla scala provinciale e dettare criteri alla pianificazione territoriale degli enti locali. Si tratta di un percorso lungo, complicato e foriero di potenziali conflitti nei rapporti tra Stato, regioni e comuni.

In alternativa, molto più semplicemente, la legge potrebbe stabilire che la pianificazione comunale, salvo motivate eccezioni, non può prevedere espansioni dei centri abitati, se non nell’ambito del coordinamento di area vasta, previa approvazione (o parere vincolante) della Regione. Il divieto potrebbe essere pressoché assoluto per gli usi residenziali (è noto a tutti che i fabbisogni possono essere soddisfatti all’interno del territorio urbanizzato) e temperato per le funzioni produttive, di servizio e infrastrutturali, con particolare riferimento a esigenze di area vasta.

Un secondo punto critico riguarda le previsioni dei piani vigenti. La proposta introduce una salvaguardia della durata massima di tre anni, dalla quale sono esclusi i soli interventi “già autorizzati e previsti dai piani vigenti”. È lecito dubitare che tale periodo sia sufficiente per svolgere tutti gli adempimenti previsti e per adeguare, in riduzione, le previsioni dei PRG e dei piani strutturali e operativi.

Al posto di questo congelamento temporaneo, sarebbe preferibile stabilire in modo permanente che - dopo un quinquennio dall’approvazione – perdano efficacia le previsioni dei piani urbanistici comportanti espansioni del centro abitato, se non sono stati conseguiti i relativi titoli abilitativi o approvati i piani attuativi, in analogia con i vincoli espropriativi. A quel punto, l’eventuale riproposizione sarebbe subordinata alle verifiche indicate dalla legge (cfr. art. 1 e art. 4) e richiederebbe sia una specifica motivazione, sia l’assenso di Regione e Provincia.
(Roma, 10 ottobre 2013)

Per far esplodere la guerra civile bisogna essere in due. Da soli non bastano né i terroristi né i fanatici della Grande opera inutile e dannosa. La Repubblica, 20 settembre 2013

CHIOMONTE (TORINO)
E chissà, forse ai sostenitori della Grande Opera potrebbe far comodo ridimensionare a controparte irresponsabile quello che è stato indubbiamente un movimento di popolo No Tav, talmente vasto da avere regalato al Movimento 5Stelle percentuali di voto superiori al 40% perfino in comuni moderati come Susa. Al cantiere di Chiomonte provano la soddisfazione del fatto compiuto: nessuno la fermerà più, la talpa, immenso
trapano teleguidato da una cabina di comando degna di un’astronave. Nel giro di due anni sarà completato il tunnel geognostico che poi dovrebbe diventare una galleria d’emergenza perpendicolare al colosso: il tunnel profondo di 12 km in territorio italiano, sui 54 km totali necessari alla Torino-Lione per correre sotto le Alpi.
Manteniamo il condizionale, dovrebbe, perché nonostante la sicurezza manifestata dal capoprogetto, Mario Virano, c’è chi immagina che la Tav possa finire come il Ponte sullo Stretto di Messina. Cioè che tra qualche anno a Roma il governo accampi ragioni di forza maggiore –la crisi si prolunga, i soldi non ci sonoper dire che non se ne fa più nulla. «Impensabile — replica Virano — siamo confermati fra le priorità della Ue. E la linea ferroviaria attuale andrà comunque a morire, se non la rifacciamo con standard adeguati».
Virano oggi si compiace: i No
Tav non sono riusciti a replicare al cantiere di Chiomonte la spallata riuscita nel 2005 a Venaus, dove le recinzioni furono travolte da una grande manifestazione popolare e i lavori non ebbero mai inizio. Ma resta da chiedersi, mentre la talpa scava, se potrà andare liscia pure a Susa quando, fra non molto, verranno espropriate le aree su cui deve sorgere la stazione dell’Alta Velocità. Per garantire i lavori qui si sono dovuti cintare 7 ettari di vigneto in cui si produce l’ottimo rosso Avanà: le forze dell’ordine filtreranno chiunque partecipi anche alla prossima vendemmia. Tanto basta perché fra i No Tav prenda piede
la tentazione di radicalizzare le forme di lotta. La parola che fa paura, perché ciascuno la intende a modo suo, è: sabotaggio.


Scena seconda, in un appartamento
di Bussoleno.
Beviamo un tè a casa di Valerio Colombaroli a Bussoleno con un gruppo di attempati militanti, quelli che 22 anni fa diedero vita al movimento No Tav, ne hanno allargato le prospettive culturali fino a farne una visione del mondo alternativa e, chissà, forse ora se lo vedono sfuggire di mano. Nel tinello si aggira il cane lupo involontario protagonista di un allarme, lassù alla rete di Chiomonte, dove Valerio lo portava a passeggio. La povera bestia era saltata nel cantiere per far festa a una persona che conosceva bene, il signor Benente, cognato di Valerio e titolare della Geomont, incaricato dei primi sondaggi del terreno. Gran confusione, chiarito l’equivoco. Fatto sta che mentre noi discutiamo le ragioni di un movimento alle prese
con gli ultimi episodi di intimidazione violenta, giù al piano di sotto il fratello della moglie di Valerio conta i danni subiti: la distruzione notturna di due compressori e una trivella.

Lacerazione familiare, se ne contano molte, in valle. Benente subisce accuse di tradimento per il fatto di lavorare alla Tav, il clima si è fatto pesante.
Chiara Sasso, Claudio Giorlo e gli altri “saggi” che hanno costruito il consenso popolare No Tav, definiscono “esagerato” l’allarme del giudice Caselli. Guardano con sospetto alla vicenda del costruttore Fernando Lazzaro, quello che denunciò il clima intimidatorio in tv e la notte stessa subì un attentato. Non aiuta il ricordo degli episodi di 15 anni fa, falsi attentati No Tav dietro cui la magistratura riconobbe l’azione di personaggi legati ai servizi e alle mafie. Non dimenticano che Bardonecchia, qui vicino, è stato il primo comune del Nord sciolto per ’ndrangheta.
Condannare i violenti, oppure limitarsi a denunciare la provocazione come “opera di infiltrati”? Eterno dilemma dei movimenti alle prese con la degenerazione delle forme di lotta. I vecchi No Tav rivendicano di ispirarsi alla nonviolenza di Alexander Langer, ma anche loro declinano quella parola minacciosa, sabotaggio, di cui lo scrittore Erri De Luca s’è vantato solo per il fatto di aver partecipato a un blocco autostradale.


«Sabotaggi popolari notturni ce ne sono stati», spiega Chiara Sasso. «Vi parteciparono una quarantina di persone, tutti dai 50 anni in su. Fu messa fuori uso una torrefaro, tagliate delle reti. Nessun attacco alle persone. Poi si sono innescati episodi più pesanti, come il compressore bruciato dentro il cantiere. Francamente nessuno di noi, e neanche dei centri sociali torinesi, riesce a capire chi possa essere stato».Il sindaco di Avigliana, Angelo Patrizio, e il presidente della Comunità montana, Sandro Plano, sono No Tav moderati, che non esitano a dissociarsi dai violenti, ma aggiungono: «Se qualche ragazzo in vena di teppismo si lascia andare a comportamenti ingiustificabili, potrà magari far comodo a chi addita perfino noi come pericolosi estremisti. Ma il primo blocco da rimuovere è la sordità opposta alle ragioni dei valligiani. Perché abbiamo a che fare con personaggi come Stefano Esposito, deputato del Pd, cui pare
redditizio trasformarci in estremisti ideologi dell’Alta Velocità».


La novità politica è che in Parlamento siede ormai una rappresentanza numerosa di oppositori dell’Alta Velocità. La vedremo in azione fra pochi mesi, quando dovrà essere ratificato il trattato italofrancese senza cui non può costituirsi la società che deve (dovrebbe) avviare i lavori del lungo tunnel-base. Solo allora il braccio di ferro esercitatosi finora intorno a un’opera secondaria come il tunnel geo-gnostico, potrebbe dirsi concluso. Per questo i No Tav guardano con fiducia al loro senatore grillino di Bussoleno, Marco Scibona, che a febbraio ha strappato il seggio a Angelo Napoli del Pdl. Il passaggio attuale è delicatissimo, giacché prima di allora la leader-ship del movimento potrebbe essere spintonata di lato dagli antagonisti che agiscono nell’ombra. E l’accusa di terrorismo, in un drammatico revival delle dinamiche degli anni di piombo, precipiterebbe su tutti loro. Esacerbato da questa manovra, di cui attribuisce la responsabilità a una cricca di politici, imprenditori chiacchierati e mass media, finora il portavoce più
noto dei No Tav, l’ex bancario Alberto Perino, lancia proclami di combattimento ma non accenna dissociazioni nette. Col rischio che a intimidirsi sia la popolazione della Val di Susa: «Se io fossi un Pro Tav, questi terroristi li pagherei», dice il sociologo Bruno Manghi, che resta scettico sulla realizzabilità dell’opera. «Il risultato è che già oggi nel conflitto sono coinvolte in
tutto 500 persone, portate alla ribalta dai giornali e dalla televisione. Passa in secondo piano il sottobosco mafioso affaristico che pure c’è, e che in passato aveva praticato l’incendio delle macchine».


Scena terza, all’Hotel Napoléon
di Susa.
La serata fresca preannuncia l’autunno e, per fortuna, sembra
tranquilla. I poliziotti fuori turno hanno dismesso la divisa e passeggiano in tuta fra il ponte sulla Dora Riparia e l’Hotel Napoléon che li ospita. Ma restano guardinghi perché nel luglio scorso a più riprese i campeggiatori No Tav convenuti da tutta Europa si dilettavano a radunarsi di fronte all’albergo, nel cuore della notte, producendo frastuono per impedire loro di dormire.
«Ci ha fatto male riconoscere fra gli urlatori anche dei nostri paesani», racconta il signor Vanara, titolare da più di 40 anni dell’albergo. «Noi possiamo dire solo meno male che c’è la Tav, perché le fabbriche hanno chiuso e il lavoro altrimenti non ci sarebbe. Ma nel paese si è prodotta una lacerazione dolorosa da cui non so se ci riprenderemo». Gli altri, quelli del movimento, ricordano che apparteneva alla famiglia Vanara un parroco coraggioso partigiano, detto Don Dinamite, e accusano i valligiani che lavorano per il cantiere di intelligenza col nemico. Risuona la stupida accusa di tradimento. La sindaca di Susa è schierata a favore della Tav, ma il quartiere che dovrà subire degli espropri per allestire il terrapieno su cui sorgerà la grande stazione intermedia della Torino-Lione, ha molte bandiere con il treno sbarrato esposte sui balconi.
Riaffiorano vecchie divisioni sul territorio che rischia la militarizzazione già vissute altrove, dall’Alto Adige alla Barbagia all’Aspromonte. «Bastano poche persone a rovinare tutto», si preoccupa Bruno Manghi. «Il barista che rifiuta il caffè al carabiniere. L’imprenditore e il sindaco Pro Tav intimiditi come capitava ai capireparto della Magneti Marelli negli anni Settanta. E, dall’altra parte, le buone ragioni della popolazione schiacciate dall’avanguardismo
estremista».
La Val di Susa è lunga. È già stata traforata da grandi opere che hanno avvantaggiato solo delle
minoranze, creando disagi pesanti. In alto ci sono i paesi benestanti del turismo invernale come Sestrière. discendendo da Susa, dove la presenza operaia e la Resistenza hanno impresso un forte segno rosso nelle comunità, il fondovalle si rivela un’estensione periferica della grande Torino.


Così avverto la strana impressione di una lotta politica, simulacro della vecchia lotta di classe, che da Torino si ritira e si contrae nella retrovia della valle. Con i suoi detriti ideologici, i suoi antichi conti da regolare. C’è chi ricorda la filiera di terroristi di Prima Linea cresciuti a Bussoleno; e chi denuncia improbabili complicità fra i No Tav e la società autostradale Sitaf, che dalla ferrovia veloce sarebbe danneggiata. La dietrologia
impazza. Anche gli apparati repressivi rivivono la stagione in cui dalla Val di Susa transitavano i fuggiaschi che volevano espatriare in Francia. Un sottobosco che ha alimentato settori di imprenditoria malavitosa ingolositi dal nuovo business.

«Lei sbaglia se ci riporta agli anni della sua gioventù », replica Claudio Giorlo. «Qui in oltre vent’anni di lotta è cresciuto davvero un fenomeno nuovo, la cultura dell’economia sostenibile, la democrazia partecipata, la critica feconda del sistema giunto al collasso». Sarà. Purché la valle da cui transitarono le armate di Annibale, Carlo Magno e Napoleone, scavata ora da una talpa d’acciaio che non ha nulla a che fare con quella di Karl Marx, sappia liberarsi dall’invasione straniera dei violenti in cerca di rivoluzione.

Incredibili i nomi delle persone indagate. Speriamo che non sia vero. «Coinvolte le coop rosse. Reati ipotizzati: truffa allo stato, corruzione, frode e associazione a delinquere. 31 indagati». Il Fatto Quotidiano, 18 settembre 2013

Secondo i carabinieri e la Procura di Firenze le gallerie dell’Alta velocità ferroviaria in costruzione a Firenze da parte del general contractor, Nodavia (il cui socio principale è la Coopsette di Reggio Emilia) sono rivestite con materiali che mettono a rischio la sicurezza dei passeggeri dei treni in caso di incendio. Oltre a essere fatti male i lavori del Tav sono pagati troppo perché i costi sono stati gonfiati.

Il costo del passante di Firenze, infatti, è lievitato da 500 milioni a 800 milioni di euro grazie alle riserve, cioè il meccanismo inventato dai grandi appaltatori per sollevare problemi imprevedibili al momento della gara. Fondamentale il ruolo di Maria Rita Lorenzetti. Presidente dell’Umbria per il Pd fino al 2010 è indagata per associazione a delinquere, abuso di ufficio e corruzione in qualità di presidente della società pubblica Italferr. Doveva controllare la Coopsette e invece avrebbe svolto il suo ruolo nell’interesse proprio, della sua famiglia e della coop rossa legata al suo partito. Indagato anche Lorenzo Brioni, responsabile relazioni istituzionali di Coopsette e marito dell’ex sottosegretario e deputato Pd, Elena Montecchi.

Lorenzetti, per i pm, ha agito “nell’interesse e a vantaggio della controparte Nodavia e Coopsette” e ha messo “a disposizione dell’associazione a delinquere le proprie conoscenze personali, i propri contatti politici”. L’ex presidente umbra è indagata anche perché avrebbe conseguito “incarichi professionali nella ricostruzione del terremoto in Emilia in favore del di lei coniuge”, un architetto. Fortunatamente, di fronte a un manager pubblico come la Lorenzetti che fa i suoi interessi e quelli della Coop rossa, interviene l’Autorità il Garante dei lavori pubblici. A favore della stessa coop rossa però. Il membro dell’Autorità di Vigilanza dei Lavori Pubblici in carica, Piero Calandra, scrive un bel parere per favorire la Coopsette permettendole di ottenere il pagamento delle riserve per centinaia di milioni di euro, nonostante la legge del 2011. Piccolo particolare: anche Calandra, ex collaboratore di Cesare Salvi al ministero, è considerato di area Pd. Non basta. Per i pm lo scavo si svolge sotto una scuola in funzione determinando “crepe evidenti che hanno concretamente reso possibile distacchi di intonaco o di parti vetrate che avrebbero potuto seriamente mettere in pericolo la incolumità delle centinaia di persone che frequentavano la scuola, ragazzi e insegnanti”. Per completare il quadro non poteva mancare la criminalità: centinaia di migliaia di tonnellate di rifiuti sono stati smaltiti illegalmente da un’azienda vicina alla camorra.

Eccola qui l’alta velocità all’italiana secondo i pm di Firenze Giulio Monferini e Gianni Tei che coordinano l’indagine del Ros dei carabinieri su 36 persone per associazione a delinquere e altri reati, dalla truffa alla corruzione, dal traffico illecito di rifiuti alla violazione delle norme paesaggistiche.

Prima di approvare a occhi chiusi il Tav in Val di Susa, dove i lavori sono stati affidati con il plauso del Pd a un’altra cooperativa rossa di Ravenna (che certamente userà metodi diversi dalla Coopsette di Reggio Emilia) sarebbe il caso di dare un’occhiata all’inchiesta sul passante di Firenze. Una brutta tegola per il partito di Bersani alla vigilia delle elezioni . Anche se nessun dirigente è indagato, sono decine le telefonate di politici intercettate nel corso dell’indagine e dall’area Pd provengono molti soggetti coinvolti, con l’eccezione rilevante di Ercole Incalza, il “rieccolo” delle indagini sull’alta velocità. Amministratore del Tav, all’epoca di Lorenzo Necci, dal 1991, uscito indenne da una dozzina di indagini, Incalza è stato tirato fuori dalla naftalina da Pietro Lunardi e confermato al ministero da destra e sinistra e infine dai tecnici fino a tutto il 2013 (nonostante il suo nome fosse uscito sui giornali nel 2010 per i rapporti con Diego Anemone) a capo della Struttura tecnica di missione del ministero. Incalza è indagato per associazione a delinquere perché avrebbe favorito la Nodavia di Coopsette insieme a un architetto della sua unità di missione del ministero, Giuseppe Mele, “a cui insistentemente , viene chiesto di firmare una attestazione, preparata dagli stessi uffici di Italferr, in cui falsamente si attesta che i lavori dell’opera sono iniziati entro i cinque anni e che la autorizzazione ambientale e paesaggistica non è scaduta”. La questione più impressionante però è quella del rischio incendio. Scrivono i pm: “la legislazione comunitaria, per prevenire disastri quali quelli avvenuti nella galleria del Monte Bianco, ha imposto specifiche tecniche di resistenza al fuoco e al calore dei materiali di rivestimento”. I quantitativi di materiale ignifugo invece sono “dolosamente ridimensionati... e il risultato non è solo un risparmio economico illecito per il subappaltatore, ma la fornitura di un prodotto concretamente pericoloso”. I manager delle società, compresa quella pubblica che dovrebbe controllare, sono consapevoli del rischio: “come risulta dalle prove a cui i conci (il rivestimento del tunnel, ndr) sono stati sottoposti in laboratori sia in Germania che in Italia. Dai test ripetuti si è manifestato evidente il fenomeno dello spalling, ossia di un collassamento della struttura dovuto al calore e al fuoco”. Per i pm non solo i manager del subappaltatore, Seli, sapevano. I rischi erano noti “anche a Morandini di Italferr”. Tutti però “hanno trovato una compiacente copertura in relazioni tecniche del professor Meda Alberto, leggendo le quali non è dato ricavare l’esito sostanzialmente negativo delle prove eseguite”

«Per OGNI famiglia Che Vedrà legalizzato un Abuso, Una famiglia Che avrebbe invece diritto all'abitazione Secondo Le regole e le graduatorie Perdera la casa». Corriere della Sera, 13 settembre 2013
Circola in Italia strana Una idea di legalità. I Suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare Il Ruolo improprio di «controllori» ma non Appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per Calcolo elettorale. E Il Caso di Napoli, città-faro del Movimento giustizialista Visto Che ha Eletto sindaco un pm, colomba has been Appena approvata, Praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle casi comunali. Nel capoluogo partenopeo si Tratta di un Fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le Domande di condono Giunte al Comune per altrettanti Alloggi. Per OGNI famiglia Che Vedrà legalizzato un Abuso, Una famiglia Che avrebbe invece diritto all'abitazione Secondo Le regole e le graduatorie Perdera la casa. NON C'E Modo Migliore di sancire la legge del Più forte, del Più Illegale; e di Invitare Altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare Alloggi Destinati: ai bisognosi.

Ma Nelle PARTICOLARI Condizioni di Napoli la sanatoria Non E assolo iniqua; E Anche un premio alla Camorra Organizzata. E Stato infatti provato da Inchieste giornalistiche e Giudiziarie Che «l'Occupazione abusiva di caso è i clan per la Modalità Privilegiata di Occupazione del territorio», vieni ah Detto un Pubblico Ministero. In rioni diventati tristemente famosi, un Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per Mettere al posto Loro Gli Affiliati oi clientes della famiglia camorristica e Il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le Strutture architettoniche dell'Edilizia popolare per Creazione e veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di Blocco, Praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga.

Non Che tutto this non lo Sappia il sindaco de Magistris, il Che a Napoli ha Fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la Responsabilità of this Scelta. L'ha però lasciata tariffa al Consiglio Comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non e Una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa ». E in Effetti e Una delibera Che riconosce il diritto alla casa a chi Già ce l'ha, avendola Occupata con la forza o l'astuzia.

This Genere di arretramento del diritto, dettato da interesse politico, populismo sociale o connivenza vera e propria, ha Fatto di Napoli la città sregolata e dolente Che ë. QUANDO una New York si decise di applicare la teoria della «tolleranza zero", si Comincio con il controllare Quelli che viaggiavano Sulla metropolitana senza biglietto. La Polizia Municipale fu stupita di Scoprire Che la Maggioranza dei Fermati era ricercata Dalla Giustizia per Altre Ragioni. Se de Magistris volesse osare un colpo serio alla Criminalità Organizzata Nella SUA città, potrebbe forse cominciare col GUARDARE nell'elenco di occupanti abusivi Che il Suo Comune ha Appena DECISO di legalizzare.

Infrastrutture a casaccio, inseguendo gli affari anziché la programmazione, come si fa in Europa ma non in Italia per «scellerate politiche di deregulation che hanno cancellato i pochi strumenti di pianificazione dei trasporti che si era data con fatica». Il manifesto, 13 settembre 2013

Un Paese che guarda al futuro deve avere una struttura di programmazione pubblica in grado di avere il controllo del quadro complessivo delle opere da realizzare in coerenza con l'Europa. E al variare dei parametri in gioco questa struttura dovrebbe essere in grado di compiere scelte nell'interesse generale.

Ritorna dunque il nodo scorsoio cui l'Italia è stata appesa dalle scellerate politiche di deregulation che hanno cancellato i pochi strumenti di pianificazione dei trasporti che l'Italia si era data con molta fatica. Era infatti costata venti anni di discussione l'approvazione nel gennaio 2001 del Piano generale dei trasporti e della logistica, un quadro certo imperfetto, ma simile a quelli in uso negli altri paesi europei, e cioè una bussola per orientare il sistema paese. Nel dicembre dello stesso anno nasce la cultura delle «grandi opere» senza alcuna coerenza tra loro ma guidate dagli appetiti delle lobby: Con il secondo trionfo elettorale berlusconiano nasce la legge Obiettivo (443 - dicembre 2001). Con la consueta bravura mediatica subito amplificata dalla disinformazione imperante, quella decisione fu descritta come il passaggio da una "visione burocratica" alla modernità. In realtà era il contrario: si colpiva al cuore la già debole funzione pubblica e ci allontanavamo dai paesi che conservano gli strumenti programmatori.

Un solo esempio. Il primo programma delle infrastrutture strategiche del dicembre 2001 conteneva 115 opere mentre attualmente esse sono diventate 390: un gigantesco puzzle senza coerenza e efficacia. E mentre il primo fiume di soldi pubblici che doveva sostenere le opere spesso inutili era giustificato da segnali economici flebili ma positivi, dal 2008 siamo piombati nella più grave crisi economica mondiale. Eppure tutto continua peggio di prima: il primo programma prevedeva di 126 miliardi pubblici; oggi sono diventati 367. Contemporaneamente si continua a colpire senza pietà il welfare urbano e le reali condizioni di vita dei cittadini.

A causa della crisi economica mondiale, il 21 marzo 2012 il governo portoghese ha annunciato l'abbandono dell'alta velocità ferroviaria e sono note le disastrose condizioni dei paesi dell'Est europeo. La fantastica spina dorsale dell'Europa - così è stata descritta - Lisbona-Kiev si è ridotta alla modesta tratta Torino - Lione. E addirittura il 12 luglio di quest'anno il Sole24Ore riporta la seguente affermazione di Mario Virano, commissario di governo per l'opera: «La ratifica del trattato internazionale da parte di Francia e Italia e l'ok dell'Europa a garantire il 40% di copertura dell'opera» sono le condizioni per partire. Condizioni senza le quali, aggiunge il Sole, «probabilmente i francesi potrebbero tirarsi indietro forse anche prima degli italiani».

Dunque abbiamo una grande "operetta" inutile di fronte ad una prospettiva del corridoio del San Gottardo in grado di garantire l'ancoraggio tra nord e sud Europa entro pochi anni. Se avessimo quella struttura pubblica di controllo scientificamente competente e indipendente dalle lobby che fu cancellata dalla cultura berlusconiana ci sarebbero le condizioni per ripensare il sistema di trasporto transnazionale alla luce delle mutate condizioni. Non se ne vedono le condizioni. Il ministro Lupi presidia la cassaforte per le grandi opere e il governo pensa solo a misure di polizia contro la popolazione della Val di Susa. Ma non è con la criminalizzazione di tutte le persone che non sono d'accordo con i cacciatori di soldi pubblici che si risolvono i problemi di prospettiva del sistema Italia. Bisogna invece prendere atto che è la deregulation che ha dominato il paese negli ultimi 20 anni la causa principale della mancanza di un moderno sistema di infrastrutture e del fallimento economico in cui ci dibattiamo. E' questa l'unica prospettiva per uscire dal tunnel.

Il volto territoriale del capitalismo nell'età della globalizzazione. Per arricchire i potenti a spese dei posteri esportano su tutto il pianeta il modello distruttivo applicato nei "paesi sviluppati", e lo chiamano progresso. Il manifesto, 5 settembre 2013

La recessione continua e la «ripresina» ritarda? Torniamo a un sano interventismo degli stati, magari a partire dalle solite grandi opere. Sembra questo uno dei messaggi emerso dalla preparazione del G20 che si apre oggi a San Pietroburgo, sotto la presidenza della Russia. Riallacciando le discussioni avviate sin dal 2010 sul finanziamento delle infrastrutture nei paesi in via di sviluppo, oggi il G20 eleva questo tema a cardine delle nuove politiche per la crescita.

In realtà a inizio 2013 la presidenza russa aveva intavolato la questione in maniera molto più mirata e pro domo sua: il Cremlino voleva discutere come gestire l'accesso e il transito per nuovi e vecchi oleodotti e gasdotti ed eventualmente come finanziare opere internazionali strategiche nell'energia. Argomento alquanto spinoso, visto che la Russia si è sfilata anni fa dall'unico trattato multilaterale sugli investimenti in vigore, l'Energy Charter Treaty, promosso dalla Ue dopo la caduta della cortina di ferro. Così, per evitare troppi conflitti, il negoziato è stato allargato all'intera questione degli investimenti per le infrastrutture.

Dietro le apparenze, non si tratta affatto di un intervento pubblico «keynesiano». Dopo la privatizzazione delle grandi aziende di stato e delle reti infrastrutturali, le società privatizzate hanno avuto grandi difficoltà a finanziarsi i propri investimenti sul mercato. Da qui la necessità di promuovere partnership pubblico-privato, spesso finite malamente, lasciando un conto salato al pubblico e gran parte dei profitti ai privati. Oggi questo modello non è più possibile, vista l'austerità e i vincoli sui bilanci pubblici. La sfida è come garantire mercati di capitale privati e globalizzati capaci di investire in progetti infrastrutturali privati molto rischiosi nel lungo termine.

Come formulato da Goldman Sachs, la più influente banca d'affari Usa, nel suo rapporto 2010 «Costruire il mondo», lo stato dovrà avere ancor più un ruolo chiave nel creare mercati di capitale privati più estesi e «profondi» tramite cambiamenti nella regolamentazione finanziaria. In questo modo investitori istituzionali, quali i fondi pensione o le assicurazioni, potranno immettere denaro in opere rischiose, o ricevere ulteriori sgravi fiscali. Il tutto per rendere possibili opere gigantesche che oggi il mercato reputa finanziariamente ed economicamente non fattibili, quali la diga di Grand Inga nel bacino del Congo, mega gasdotti nel Centro Asia e connessioni elettriche che attraversano interi continenti. Si tratta di creare le condizioni per una privatizzazione perenne che risolva la crisi di accumulazione in cui versa l'economia mondiale, in presenza di una mole enorme di capitale privato che trova ben poche opportunità di investimento altamente profittevoli.

Lo scorso marzo, al vertice di Durban in Sud Africa, per finanziare solo infrastrutture i paesi Brics hanno addirittura proposto di creare una propria banca multilaterale. Però oggi sembrano rallentare e chiedono alle economie avanzate di cofinanziare un aumento di capitale delle banche internazionali esistenti, quali la Banca mondiale, per far sì che queste ultime sostengano i loro mega progetti. Ma questa volta i paesi «ricchi» non hanno risorse sotto la scure dell'austerità e per tale ragione propongono le alchimie dei mercati finanziari - quali l'ultima trovata dei project bond, già testati in Europa - per soddisfare i paesi emergenti e concedere nuovi extra profitti a Wall Street e alla City di Londra. Ringraziano anche Dubai, Hong Kong e Singapore, piazze del «Sud del mondo» sempre più integrate nella finanza globale predatrice di ricchezza.

Per curare il declino del comparto immobiliare si usano le stesse ricette che hanno portato al fallimento. Il manifesto, 21 agosto 2013, con postilla

Dall'azzardo berlusconiano al crollo delle quotazioni, e poi una tassa iniqua Si è costruito e si continua a costruire troppo. Aumenta la quota dell'invenduto. È un sogno la casa dell'ineffabile Roberto Carlino che da mesi incombe sugli schermi nazionali per reclamizzare le "sue" abitazioni. Niente di male: ognuno è libero di spendere i soldi guadagnati con i folli livelli delle quotazioni immobiliari come vuole. Soltanto che il nostro eroe esagera spudoratamente. Con inequivocabile accento all'amatriciana per invogliare all'acquisto afferma infatti che «...del resto la risalita del mattone è fenomeno inevitabile e fisiologico».

Scherza, il nostro, inducendo alla confusione tra un suo legittimo auspicio e un principio della fisica. Non è affatto detto che nel prossimo futuro sia inevitabile e fisiologica la crescita delle quotazioni immobiliari. Molti operatori di settore temono anzi un nuovo calo in autunno. Perché si è costruito troppo in questi anni di deregulation e la quota dell'invenduto continua ad aumentare perché nel frattempo si costruisce ancora molto.

Roberto Carlino ha avuto una fugace (per colpa di Renata Polverini) incursione nella politica regionale: è stato presidente della commissione urbanistica, eletto nel vasto arcipelago berlusconiano. Così dal sogno di una casa passiamo all'incubo che perseguita il leader della destra che proprio sul sogno di far arricchire tutti gli italiani con il mattone ha fondato molta parte delle sue fortune. Dal 1994 è iniziata l'offensiva condotta sulla parola d'ordine «padroni a casa propria»: legge dopo legge dalla semplificazione edilizia alla cancellazione del falso in bilancio - che c'entra molto con questa storia come ci insegna il caso Ligresti - i valori immobiliari sono saliti vertiginosamente per quindici anni. Molti italiani hanno continuato a dare a Berlusconi il loro consenso, nonostante il crescente disgusto, proprio perché anche il loro piccolo salvadanaio cresceva.

Dal 2008 quel castello di carte è stato spazzato via dal fallimento del neoliberismo e inizia la fase dell'inarrestabile caduta dei prezzi delle case. Ci sono famiglie che hanno acquistato dieci anni fa una casa che oggi vale dal 20 al 40% in meno di quanto l'hanno pagata. Il decremento non è omogeneo, è molto più accentuato al sud rispetto al nord; nelle aree interne rispetto alle grandi città; ma interessa tutti ad eccezione degli immobili di pregio dei centri storici accaparrati dai vampiri che dominano l'economia di rapina. Il sogno berlusconiano era dunque un azzardo: ha fatto credere in un paradiso per tutti e ha fatto arricchire senza misura solo pochissimi speculatori e immobiliaristi.

Il rischio della perdita del consenso era così evidente che Berlusconi ha giocato d'azzardo, strumento in cui eccelle anche perché l'opposizione parlamentare al suo ultimo governo fu talmente inesistente che il gioco gli è riuscito alla perfezione. All'inizio del 2009, pochi mesi dopo la crisi dei mutui subprime statunitensi, lancia il piano casa. Il mattone continuerà a girare, avrete una stanza in più e diventerete ancora più ricchi. Un flop miserevole, oggi ammesso da tutti. Allora tutti ci credettero, comprese le regioni guidate dal centro sinistra che con la loro dabbenaggine coprirono la finzione berlusconiana.

A volte, poi, il destino è imprevedibile e proprio nel momento in cui era chiaro il fallimento del piano casa ecco un vero amico, Supermario. E' il governo dei professori a togliere le castagne dal fuoco al centro destra imponendo una tassa immobiliare iniqua e contraria al criterio costituzionale della progressività che invece di tassare i grandi patrimoni immobiliari accumulati in venti anni ha colpito indiscriminatamente il ceto medio, spesso proprietario di un'unica abitazione. Il paradosso italiano è che la bandiera di questo grande segmento di società non è stata presa in mano dalla sinistra ma dalla stessa destra che con la sua follia cementizia ha posto le basi per la discesa dei valori immobiliari.

Il Pdl urla di togliere l'Imu. Per tutti, compresi i possessori di ville e di grandi patrimoni immobiliari. Pochi urlano più forte che essa va tolta solo ai piccoli proprietari e aumentata per tutti coloro che detengono la stragrande maggioranza del patrimonio immobiliare italiano. Del resto il governo Letta non ha mai affermato che ci sarà un provvedimento progressivo che rimetta un poco a posto la bilancia dell'equità. Ciò di cui si sente parlare in questo scorcio di agosto è una furbesca evoluzione dell'Imu, camuffata nella tassa sui marciapiedi e di altri servizi urbani.

Così la compagine berlusconiana si avvia a portare a casa qualche prezioso risultato per le lobby che la sostengono. A meno che il Parlamento abbia un sussulto e accenda i riflettori sulla folle politica che ha favorito il cemento negli ultimi venti anni. Non c'è da essere ottimisti. Del resto, e lo affronteremo in un prossimo articolo, nel decreto del "fare" strenuamente difeso dal Pd c'è un'ulteriore spinta alla deroga edilizia. Per curare il declino del comparto immobiliare si usano le stesse ricette che hanno portato al fallimento. Favorendo ancora la rendita e intaccando l'ultimo salvadanaio, la casa, delle famiglie italiane sempre più povere e senza rappresentanza.


Postilla
Ciò che a me stupisce di più è che tutti si affannino a battersi pro o contro il reddito percepito dal possesso di un immobile e nessuno si proponga di sottrarre ai proprietari di immobili il maggior valore che la loro proprietà ottiene grazie alle decisioni e agli investimenti dell'azione pubblica. Da Giovanni Giolitti ed Ernesto Nathan (per non parlare della borghesia post-risorgimentale), fino a Fiorentino Sullo e ad Aldo Natoli, liberali "veri" e sinistre si sono sempre proposti di restituire al pubblico ciò che è del pubblico: il maggior valore degli immobili nel momento del passaggio di proprietà.

Un corridoio autostradale lungo 400 km, con centinaia di cavalcavia e gallerie. Si tratta della più grande opera dopo il Ponte sullo Stretto. Aggirando il patto di stabilità grazie ai privati. La puntuale denuncia da parte di una rete di comitati e associazioni avvalendosi di saperi interdisciplinari. Il manifesto, 17 agosto 2013
La cupola delle grandi opere da realizzare in project financing ha da tempo programmato di sventrare l'Italia da Orte a Venezia con un nuovo corridoio autostradale lungo 396 chilometri, 139 dei quali in viadotti e ponti, 64 in galleria, con 246 tra cavalcavia e sottovie, 83 svincoli, aree di servizio ecc. ecc. Movimentazione di terra per 34 milioni di metri cubi prelevati fin dalla Puglia e - già che ci siamo - dal canale industriale del porto di Ravenna che ha bisogno di dragaggi. Lazio, Toscana, Umbria, Emilia, Veneto attraversate.

Aggrediti ventidue siti di interesse ambientale riconosciti dall'Europa comprese le valli di Comacchio, il parco del Delta del Po, la laguna sud di Venezia, la Riviera del Brenta, le valli del Mezzano e le Foreste Casentinesi negli Appennini Centrali. Anche se ancora poco conosciuta, si tratta della più grande grande opera, dopo il ponte sullo Stretto di Messina, compresa nell'elenco delle 390 «infrastrutture strategiche» dichiarate di «interesse pubblico» e inserite nella Legge Obiettivo in attesa di essere finanziata dal Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica). Peccato che la nuova autostrada non avrà mai i veicoli/giorno in transito minimi necessari (90 mila contro i soli 18 mila attualmente rilevati, ad esempio, nel tratto veneto) per ammortare i costi di realizzazione e sostenere le spese di gestione dell'opera. Ciò nonostante il progetto preliminare è stato approvato dall'Anas con tanto di attestato di Valutazione di Impatto Ambientale rilasciato dalla Commissione nazionale, che oramai non lo nega a nessuno, neppure a chi chiede di fare un parcheggio nel Colosseo.

Qualche dubbio sembra averlo avuto nel passato governo solo l'ex ministro Barca. Per esplicita ammissione dei proponenti, infatti, il piano economico e finanziario del progetto (ancora riservato) non sta in piedi. Per la precisione, non sarebbe "bancabile". Per esserlo lo Stato italiano dovrebbe impegnarsi a: 1) versare direttamente un generoso contributo a fondo perduto di 1,4 miliardi di euro; 2) detassare le imprese costruttrici rinunciando ad altri 1,5 miliardi di entrate; 3) autorizzare l'emissione di project bond sul mercato finanziario da parte delle imprese, garantiti però dalla Cassa Depositi e Prestiti (con i soldi dei correntisti postali) e assicurati dalla Sace; 4) affidare l'opera in gestione con un contratto che garantisca un minimo di proventi tariffari e, soprattutto, le autorità statali concessionarie dovrebbe fingere di credere che l'opera venga a costare davvero "solo" 10 miliardi di euro.

Insomma, come è stato detto a un recente convegno organizzato a Ravenna dalla rete ambientalista Stop Orte-Mestre (www.stoporme.org), la nuova autostrada è un mostro che dorme sornione, pronto a mettersi in moto al segnale del nuovo, arrembante ministro Maurizio Lupi.

Chi invece non dorme affatto sono i cittadini dei 48 comuni che saranno investiti dai cantieri. Sono questi i veri instancabili presidi democratici a difesa del territorio e dei denari pubblici che da più di dieci anni si battono a mani nude per denunciare la follia di questa grande opera inutile e devastante. Decine di comitati locali sorti un po' per volta, con un passaparola iniziato dal comitato Opzione Zero della Riviera del Brenta. Comune per comune lungo il tracciato, hanno prima conquistato l'appoggio delle grandi associazioni quali Legambiente, Wwf, Lipu, Mountain Wilderness e Pro Natura, poi hanno dato vita ad un coordinamento e alla rete Stop Or Me con la campagna Salviamo il Paesaggio e i gruppi politici che ci sono stati: Movimento 5 Stelle e Alba.

I comitati avrebbero potuto limitarsi a denunciare l'insostenibilità di alcuni impatti quali l'attraversamento dello storico canale navigabile Brenta, in mezzo al paesaggio palladiano delle ville venete, o i viadotti sulle Valli di Comacchio, o le "varianti di valico" sulle Foreste Casentinesi, e sarebbero stati nel giusto. Hanno invece preferito affrontare un lungo percorso di studi multidisciplinari (trasportistici, economici, ambientali, paesaggistici, giuridici) e di autoformazione, scoprendo quanto solitamente non viene detto dai grandi organi di informazione e, tantomeno, divulgato dalle istituzioni politiche. Ad esempio, che promotrice del progetto è la Gefip Holdin, il gruppo di famiglia di Vito Bonsignore, europarlamentare del Pdl, che nel 2003 comprò per 4,5 milioni di euro la prima società promotrice del progetto, la Newco Nuova Romea SpA presenti le maggiori coop rosse Cmc e Ccc. Che, a sua volta, nacque per concretizzare l'indicazione della Associazione Nuova Romea Commerciale, il cui presidente era niente meno che Pierluigi Bersani. Quel che si dice grandi e losche intese!

Grazie al lavoro dei comitati scopriamo che il vice-presidente della allora NewCo, Lino Brentan, e l'amministratore delegato (ora dimissionario) della Mantovani, una delle principali imprese della associazione di imprese promotrici, l'ing. Baita, sono agli arresti per corruzione, associazione a delinquere e frode fiscale. Scopriamo che in realtà le società di progetto sono scatole vuote create dagli intermediari finanziari per farci affluire i finanziamenti bancari. Scopriamo che la finanziarizzazione dell'economia - tanto deprecata a parole - in realtà nasce per mano e per volere dello stato attraverso il meccanismo truffaldino del project financing.

Come non si stanca di spiegare l'ingegnere Ivan Cicconi, la finanza di progetto, figlia della Legge Obiettivo, serve a bypassare i patti di stabilità (che comporterebbero il blocco degli investimenti) concedendo a società di diritto privato la realizzazione e la gestione delle opere (così da evitare persino di cadere nelle maglie dei reati di corruzione) ma pur sempre scaricando, alla fine e tramite i contratti di concessione dell'opera, sulla spesa pubblica allargata i costi della realizzazione e gestione dell'infrastruttura che non dovessero essere coperti dai pedaggi, dalle royalties, dai canoni degli autogrill o delle pompe di benzina... In barba al rischio di impresa! Un keynesismo alla rovescia che gonfia i costi di realizzazione e moltiplica le intermediazioni finanziarie.
Con molto meno si potrebbero realizzare molti più interventi puntuali, a portata del sistema delle piccole imprese, creando lavoro per più persone. Come, ad esempio, mettere in sicurezza le strade esistenti, diversificare il traffico pesante, attrezzare i porti come scali delle autostrade del mare e collegandoli con la rete ferroviarie. La differenza sta tutta nell'obiettivo che ci si pone: aumentare il flusso di denari gestito dal sistema finanziario o migliore la mobilità del maggior numero di persone e la quantità delle merci trasportare per mare e per treno?

Si amplia quantitativamente e si articola qualitativamente la rete del governo del traffico metropolitano, a delineare un piano che va ben oltre il progetto di area C. Corriere della Sera Milano, 17 agosto 2013
Venti nuovi «cancelli» ai confini della città. Varchi con telecamere per controllare l'ingresso dei camion. Il modello della futura politica ambientale del Comune resta Londra: la congestion charge in centro, la tassa sul traffico, e cioè Area C, c'è già. L'evoluzione sarà una «zona a bassa emissione», come nella capitale del Regno Unito. Un territorio molto più ampio, che grosso modo coincide con i confini di Milano, nel quale cercare di ridurre lo smog prodotto dai mezzi pesanti o mezzi da cantiere.

Dai camion, alle betoniere: poco meno di 25 mila mezzi, ma molto vecchi e molto inquinanti, che da soli producono un quarto delle polveri sottili scaricate ogni giorno nell'aria di Milano. Il documento firmato lo scorso 7 agosto dalla Direzione centrale mobilità del Comune (a seguito di una delibera di giugno) è l'atto amministrativo che apre il percorso per la low emission zone milanese. Con l'autunno partirà la gara d'appalto per comprare le prime telecamere e montarle sulle strade.

La seconda «cintura»

Si parte dalle localizzazioni: viale Forlanini, via Gallarate, viale Fulvio Testi, via Ripamonti e altre grandi arterie di accesso in città. I primi varchi saranno 20 e verranno installati molto vicini ai confini di Milano e alle tangenziali. Nel suo sviluppo finale, il progetto prevede 106 telecamere. Solo a quel punto l'intero territorio milanese sarà «blindato» e tutte le strade di ingresso saranno «sotto osservazione». Vista dall'alto, Milano avrà così due cinture di controllo del traffico: quella interna di Area C e quella esterna sui confini. Ma come saranno utilizzate?

La prima fase coinciderà con lo studio della mobilità milanese.

Sarà una fase di conoscenza: l'Agenzia per la mobilità e l'ambiente (a cui il 7 agosto sono stati affidati 352 mila euro per l'avanzamento del progetto) dovrà elaborare tutti i dati raccolti dalle telecamere per capire nel dettaglio quanti mezzi pesanti circolano, quanto impiegano a spostarsi, per quanto tempo restano in marcia ogni giorno. L'obiettivo è avere una conoscenza approfondita della frazione più inquinante del traffico milanese (i mezzi pesanti sono quasi tutti a gasolio e molto vecchi).

Le nuove telecamere potrebbero però essere usate anche per un secondo scopo: controllare il rispetto dei divieti di circolazione per le auto più inquinanti durante l'inverno, tra ottobre e aprile. Quella misura antismog è tra le meno rispettate perché i controlli delle pattuglie in strada sono pochissimi. Il Comune di Milano, stando al progetto, dovrebbe invece cominciare a usare le nuove telecamere anche per i controlli e le multe. L'evoluzione finale è la creazione di una low emission zone vera e propria, con divieti di circolazione o il pagamento di un ticket per i camion.

Grande fratello

I documenti tecnici parlano di «sistemi di tracciamento». I mezzi pesanti che devono entrare a Milano saranno dotati di grossi bollini di riconoscimento (vetrofanie), di diversi colori in base a quanto il mezzo è vecchio e inquinante. Questo è l'aspetto «esteriore» del progetto, che sarà poi alla base delle nuove regole quando il Comune approverà un sistema di regole per ridurre l'inquinamento da mezzi pesanti. Finestre di accesso e tariffe di pagamento saranno infatti legate al tipo di mezzo, che sarà riconoscibile a vista dai vigili proprio grazie alle vetrofanie. Allo stesso tempo, nelle vetrofanie ci sarà anche una sorta di piccolo sistema radio o Gps.

È in base a questi segnalatori, e incrociando i dati delle due «cinture» di telecamere, che i tecnici dell'Amat saranno in grado di elaborare i dati per avere un quadro realistico e dettagliato dei flussi del traffico in città. Una parte di fondi per avviare il progetto, poco più di un milione, arriverà dal ministero. Si tratta di risorse vincolate a progetti sperimentali sulla mobilità. Altri finanziamenti spettano a Comune (1,7 milioni) e Regione (1,5).

Berlusconi e il problema della casa (tanto per sorridere, nel solleone). «Siamo un popolo di proprietari, quando torna lo spirito dell'immobiliarista è tempo di elezioni», il manifesto, 10 agosto 2013

Siamo un popolo di proprietari, quando torna lo spirito dell'immobiliarista è tempo di elezioni. Da casa la prima volta, sulla casa tutte le altre. Cominciano così le campagne elettorali di Silvio Berlusconi, dalla videocassetta del 1994 registrata tra le mura domestiche di villa San Martino, Arcore, alla propaganda sulle abitazioni degli altri, di cui negli anni ha promesso la costruzione, l'estensione e soprattutto la detassazione. Così quando il cavaliere torna a parlare di casa, specie della prima casa «che è sacra» (lui ne ha altre venti profane) non si sbaglia: c'è aria di elezioni.

Partito come imprenditore immobiliare, Berlusconi ha detto più volte che vorrebbe essere ricordato come colui che ha dato una casa a chi non ce l'aveva. «Sogno un paese di proprietari di casa» risale alla campagna elettorale del 2006. Non essendoci riuscito, anche perché l'Italia era già e resta almeno all'ottanta percento un paese di proprietari di casa, ha fatto sogni diversi. Siamo nel 2009: «Una mattina mi sono svegliato e ho detto, ecco qua, cementifichiamo l'Italia. Scherzo, non c'è nessuna cementificazione, le famiglie potranno fare qualcosa che renderà più bella e più preziosa la propria abitazione. Siccome l'ho sognata io, Tremonti e Ghedini la chiamano lex Silvia». È il piano casa. Quello che doveva consentire ai proprietari di ampliarsi in libertà, fino al 30%, rilanciando così l'edilizia - che da sola «cambia il corso della politica economica», questa è di ieri - senza controlli, nel paese degli abusi e dei terremoti.

La casa. Niente che tocchi di più gli italiani. Wikipedia conta una cinquantina di proverbi sul tema, tra i quali quello che assegna al mattone anche il derby con la religione: «È buona cosa la messa udire, ma è meglio la casa custodire». Per lanciare il piano casa Berlusconi scelse un altro motto: «Padroni in casa nostra». Poi disinvoltamente esteso dai muri perimetrali alle frontiere blindate. E tale era l'identificazione del leader col popolo che tra le prime richieste di applicazione del piano casa ci fu quella della Idra immobiliare per la realizzazione di alcuni bungalow all'interno di villa Certosa in Sardegna. Ad altri lavorucci domestici tipo la costruzione di un tunnel a mare per le imbarcazioni e un laghetto artificiale si preferì ovviare con il segreto di stato.

Con la testa nel mattone, quando ha dovuto aiutare qualche amico in difficoltà Berlusconi gli ha comprato casa. Lo ha fatto con Dell'Utri, l'ha fatto con un certo numero di ragazze poi conosciute come «olgettine» (dall'indirizzo del condominio di Milano 2 dove veniva gratuitamente ospitate), l'ha fatto persino con il pianista delle notti di Arcore. E si capisce quanto gli sia spiaciuta la curiosità dei magistrati per quelle cena eleganti, anche se indotta da un'errata strategia difensiva. Sono state così violate tutte le stanze, la tavernetta della lap dance, la camera del lettone di Putin, persino il bagno fotografato da un'ospite infedele.

Tutto il circuito «padronale» delle mura domestiche della villa di Arcore da privato è diventato pubblico. Quella villa il cui acquisto è all'origine di uno degli incontri più importanti nel destino del cavaliere, quello con l'avvocato Cesare Previti curatore degli interessi della marchesina Anna Maria Casati passato rapidamente dalla parte del cavaliere acquirente. L'affare fu concluso, si stima, per un quarto del valore reale dell'immobile e dei suoi arredi. E si sa che il primo gesto d'amore per una casa consiste nell'ottenere uno sconto sull'acquisto. Certo non a tutti capita come a Berlusconi di trovare all'interno quadri e libri di valore compresi nel prezzo, ma col tempo abbiamo scoperto che il cavaliere non è solo un costruttore, è anche un arredatore. Come aveva già avvertito Giuliano Ferrara nel volume agiografico del 2001 spedito per posta agli italiani: «Arredare le case è un suo hobby, cura ogni particolare, dalle foto in cornice ai fiori, alle luci studiate in un certo modo». La prova sta nelle immagini che accompagnavano Una storia italiana, perché quelle stanze furono presentate al pubblico molti anni prima che ci ficcassero il naso i pubblici ministeri. E quasi a concludere il ciclo, Natale 2011, in pieno Ruby-gate, ecco il desco di Arcore che splende di rosso e oro nel paginone centrale di Chi. Trentacinque a tavola, accanto a Berlusconi un prete (cugino).

Quando negli affari ha comprato una catena di negozi l'ha chiamata «la casa degli italiani», quando in politica ha fondato una coalizione «la casa delle libertà», quando ha voluto distruggere un avversario politico si è concentrato su una casa (di Montecarlo), quando si è messo a risolvere il problema dei rifiuti ha detto ai napoletani di «considerare le strade come le vostre case», quando si è dedicato ai terremotati dell'Aquila ha spianato le colline per impiantarci le C.A.S.E (complessi antisismici sostenibili ecocompatibili) e poi è andato ad accogliere i terremotati in diretta tv con lo spumante nel frigo: «Le donne cadono nelle mie braccia incredule». Quando, in quella che sembra la fine di tutto, ha pianto sulle sue sorti di condannato, l'ha fatto da un palchetto costruito - pare abusivamente - davanti al portone di casa, rientrandoci poi svelto con fidanzata e cagnolino. E se saranno arresti saranno arresti domiciliari.

Inserto del giovedì sul manifesto, "L'Italia che va" 8 agosto 2013. Il problema della casa, irrisolto per i deboli numerosi dopo decenni di lotta per un diritto. Soluzioni che aprono speranze per una città più equa. Articoli di D. Chanaz, S, Medici, D. Bevilacqua, E. Scandurra, G. Salvetti

Spazi di libertà
di Dafne Chanaz

Dagli squat urbani agli ecovillaggi, l'abitare diventa un atto rivoluzionario, antiliberista ed ecologista. Le nuove parole d'ordine sono cohousing, autorecupero, autocostruzione. Mentre si riscopre il mutuo soccorso ottocentesco e le nuove Comuni ricordano il '68

«L'ecovillaggio è la cellula del futuro corpo sociale, trasformazione in atto - o se volete "rivoluzione" - dal basso, non violenta e silenziosa, che ha dimensione mondiale e prefigura una fuoriuscita radicale dal sistema. In Italia (...) il raddoppio in pochi anni del numero degli ecovillaggi costituiti e dei progetti in fase di realizzazione mette in luce un nuovo corso, esistenziale e politico, soprattutto tra le giovani generazioni». Una tale affermazione può sembrare forte a chi non abbia fatto esperienza diretta di queste forme di vita comunitaria che partono dal rapporto con gli ecosistemi per costruire modelli relazionali più equi, conviviali e soddisfacenti. Può sembrare ottimista a chi non abbia visto fiorire la Rete Italiana dei Villaggi Ecologici, anno dopo anno, fino all'ultimo incontro di fine luglio 2013, gremito di giovani e ricco di così tante nuove esperienze. Versione italiana del Global Ecovillage Network, la Rive si è formalizzata nel 2007 - grazie anche all'iniziativa del mensile Terranuova , che funge da organo ufficioso della rete - ed è già un punto di riferimento e d'ispirazione per moltissimi. Chi erano gli oltre 500 partecipanti al raduno di quest'anno e cos'è un ecovillaggio? Gran parte erano giovani romani, ma anche persone provenienti da tutte le regioni d'Italia e dall'estero (Spagna, Slovenia, Brasile) interessati alle conferenze ed ai workshop offerti (bioedilizia, cesteria...) e ad apprendere qualche cosa circa alternative di vita concrete ed accessibili, lontane dalla nevrosi urbana e dal precariato. Poi c'erano una trentina di volontari che avevano allestito il campo e coordinavano le operazioni. Ed infine un centinaio erano rappresentanti degli oltre 20 ecovillaggi toscani, milanesi, bresciani, padovani, vicentini, siciliani, calabresi...

NUOVI IMMAGINARI
Sperimentiamo l'autogoverno
di Sandro Medici

La devastante spinta edilizia favorita e coltivata dall'urbanistica deregolata di fine secolo, quel voluminoso flusso di cemento che ha rovinosamente impattato su città e territori, sta ormai consumando i suoi ultimi cantieri. È il tramonto di una parabola che ha tuttavia alterato e deformato interi paesaggi, lasciando nelle pianure piantagioni di prefabbricati industriali vuoti e abbandonati, quartierini di affettate palazzine dai tristi balconcini ai bordi delle città, malinconici villaggi finto-leziosi sulle coste e nelle valli e perfino sui monti. Ora non si costruisce più, nel nostro paese. Finalmente. Ma non grazie a quell'auspicato rinsavimento invocato per decenni dalla cultura del limite, dalla critica al produttivismo, dalle tante soggettività indignate per i danni alla natura e le ferite alla bellezza. Quanto, più crudamente, per l'esaurirsi di profitti e rendite nel mercato immobiliare. Uno dei più vistosi effetti, quest'ultimo, della crisi economica in corso. Gli stabilimenti chiudono, le case non si vendono, le attività commerciali languono. Le banche non finanziano più iniziative imprenditoriali e progettazioni espansive, né, ancor meno, assicurano mutui alle famiglie. E sono ormai migliaia e migliaia le concessioni edilizie, un tempo spasmodicamente agognate, che si accumulano nei cassetti degli uffici tecnici comunali. È l'esito di un processo che fin dal suo esordio conteneva un inganno, oltreché un errore strutturale. Ritenere cioè che, in forza delle sue esclusive dinamiche, il mercato avrebbe riequilibrato il settore edilizio componendo con efficacia sviluppo immobiliare e fabbisogno alloggiativo. Una scelta socialmente rovinosa, che nel corso dell'ultimo ventennio ha finito per sovrabbondare l'offerta ma non per questo soddisfare la domanda. Una domanda che è sensibilmente cresciuta, perché a quella cronicamente inevasa si è aggiunta nell'ultimo scorcio quella degli esodati, affittuari morosi e quindi sfrattati, piccoli proprietari inadempienti a cui le banche pignorano casa, oltre ai tantissimi giovani che restano in famiglia, respinti dai costi eccessivi delle nuove abitazioni. Il panorama immobiliare italiano in questo momento è dunque gravemente scompensato: un paradosso che né favorisce gli affari né soddisfa le necessità. È aumentata la disponibilità e nel contempo si è ampliato il bisogno. Affidarsi alle ritmiche del mercato, a quella logica d'impresa che avrebbe dovuto far felicemente incontrare offerta patrimoniale e domanda sociale, s'è rivelato tanto illusorio quanto tragicamente fallace. E così, oggi, c'è sempre più gente senza casa e sempre più edilizia invenduta. Non c'è che dire, un vero capolavoro di idiozia economica e ferocia sociale. Reso possibile da norme urbanistiche sempre più permissive e compiacenti, attraverso generose concessioni per valorizzare, ristrutturare, razionalizzare (leggi: sfruttare), facilitazioni nei cambiamenti di destinazione d'uso di suoli e fabbricati, affidamento commerciale di beni demaniali e perfino culturali. E poi con la cartolarizzazione e la privatizzazione del patrimonio abitativo pubblico, insieme alla definitiva rinuncia a realizzare nuova edilizia popolare.

L'intero pacchetto, insomma, delle scelte politiche che hanno accomunato negli ultimi decenni centrosinistra e centrodestra, entrambi penosamente travolti da quei furori liberisti che inevitabilmente hanno generato disagio, esclusione, collera, conflitto.Quei sentimenti che stanno oggi animando una reattività sociale sempre più estesa e combattiva. E che si deposita nelle centinaia di occupazioni che si susseguono nelle nostre città. Effetto inevitabile di una situazione completamente chiusa e bloccata. Con un mercato immobiliare inaccessibile perché totalmente gestito dai privati, società d'impresa o finanziarie che siano, in assenza di alternative di edilizia sociale o comunque calmierata, senza alcuna offerta alloggiativa pubblica perché ormai estinta, cosa volete che facciano tutte quelle persone che si ritrovano in mezzo a una strada, che vivono nelle auto, che s'affollano da amici e parenti, che s'accampano nei parchi o sugli argini dei fiumi, tutto quel popolo nomade per necessità, se non per destino? Dunque ci si sistema laddove ci sono spazi inutilizzati, nei fabbricati abbandonati o nelle palazzine invendute, nelle fabbriche dismesse o nelle scuole svuotate, in tutta quella volumetria residuale che giace malinconica agli angoli delle città. In natura, così come in politica, il vuoto non esiste: prima o poi viene riempito. E torna a vivere. Sono quasi commoventi le facce speranzose di chi di chi per la prima volta si ritrova con un tetto sulla testa, con un bagno dove lavarsi, con un letto solo suo, con una stanza dove appendere una vecchia fotografia. C'è gente, in questi edifici recuperati, in questi nuovi falansteri, che prima d'ora non aveva abitato da nessuna parte. Ma le occupazioni non solo soltanto abitative. Si occupa anche per avviare un'attività produttiva, per inventarsi un lavoro, per riconvertire un impianto e rimetterlo in moto, per sviluppare un progetto collettivo, per riattivare un vecchio teatro, un cinema abbandonato, accendere insomma una speranza culturale. E anche in questo caso, avviene per quell'impellente necessità di dare senso a un luogo, a uno spazio, oltreché a se stessi. Quanti ragazzi, quante ragazze nelle nostre città hanno bisogno di lavorare o anche soltanto di esprimersi, di mettere a disposizione la propria passione, la propria creatività? Chi raccoglie queste aspirazioni, quando, al contrario, si fa di tutto per comprimerle e marginalizzarle? Allora succede che ci si organizza e ci si riappropria di ciò di cui si ha diritto. E sapete come va a finire? Be', c'è da restarci davvero sorpresi. Perché in queste occupazioni di nuovo conio si sviluppano attività "utili", soprattutto alla città e ai cittadini: si avviano progetti, si realizzano servizi, si organizzano mercati, si allestiscono spettacoli, ci si diverte, si sta bene, arriva gente, si chiacchiera, si sta insieme. Si fanno tutte quelle cose che andrebbero fatte ma che nessuno più fa. Quelle cose insomma che rispondono ai bisogni di quartieri e territori: case-famiglia, palestre, centri anti-violenza, biblioteche, spazi espositivi, sportelli d'ascolto, laboratori culturali, saleprova, osterie sociali,attività per l'infanzia. Soddisfano esigenze diffuse e in più che creano quella preziosa qualità immateriale, fatta di socialità, relazioni umane, solidarietà, allegria e piacere. Non ci si crederà, ma producono anche economie e redditi: di sussistenza, certo, ma quel tanto o poco che comunque consente di gestire al meglio l'occupazione. Se è proprio necessario definirlo, questo modello si chiama autogoverno. E l'impressione è che si tratta di un processo destinato a estendersi. È una risposta sociale e culturale alla crisi dell'economia e all'opacità della politica.

ROMA
Gli invisibili della Capitale
di Dario Bevilacqua

Gli scrittori a Communia, il mercatino Terra Terra al Forte Prenestino, il jazz all'ex Snia, le palestre popolari e le ciclofficine. Ecco dove batte il cuore della Roma alternativa

All'inizio di giugno, presso il centro sociale Communia, nel quartiere romano di San Lorenzo, si è tenuto il festival Letteraria , con dibattiti, reading , rappresentazioni teatrali e conferenze che hanno coinvolto, tra gli altri, anche Carlo Lucarelli e il Collettivo Wu Ming. Ogni prima e terza domenica del mese, nel centro sociale Forte Prenestino, a Roma, si tiene il mercato Terra terra che mira a consentire, come fanno ogni settimana i tantissimi Gruppi di Acquisto Solidale (Gas) diffusi sul territorio, l'accesso a prodotti buoni, puliti e giusti, riducendo i passaggi della catena distributiva degli alimenti. All'Esc Atelier, spazio occupato nel cuore di San Lorenzo, sono attivi sportelli legali per i diritti di cittadinanza e di tutela del lavoro precario. Oltre a concerti, rassegne e iniziative serali, Esc ospita gli incontri della Lum - Libera Università Metropolitana - un esperimento di autoformazione e laboratorio che organizza, inter alia , seminari e ricerche. Al centro sociale Strike, a Portonaccio, dal martedì al venerdì è aperta la cucina sociale "Strkitchen Stirkespa", che presenta ogni giorno un menu diverso di ottima qualità, a prezzi modici. In via delle Isole Curzolane, nel quartiere Tufello, la Palestra popolare Valerio Verbano organizza corsi di Ginnastica Artistica, Boxe, Kick Boxing, Ginnastica posturale, Karate e Fung Fu, a prezzi accessibili. A Casal Bertone, il Centro sociale La Torre mette in piedi una serie di attività di vario tipo, dal bioristoro e forno della Riserva della Valle dell'Aniene La Trattoriola, alla Palestra Popolare Corpi Pazzi, passando per il laboratorio informatico Bugslab e il progetto MediaMemoria, che lavora alla costruzione di laboratori di ricerca storica nelle scuole medie e si attiva per restituire vive le memorie della Resistenza partigiana al nazifascismo. Infine, presso il Centro sociale Ex Snia, dal 14 giugno, per 5 venerdì consecutivi, si tengono i concerti di Jazz al Popolo, con concerti e iniziative musicali, che quest'anno confluiscono nell'alveo di Artindipendenti 2013, un'ecofesta che intende convogliare differenti arti per promuovere la cultura. Sono solo alcune delle numerosissime attività e iniziative messe in piedi dai vari spazi occupati e autogestititi che popolano la capitale.

Cosa vuol dire centro sociale? Quale modello di centralità propongono questi luoghi? E perché sono tenuti ai margini dell'ufficialità? Poiché molti di questi luoghi sono occupati illegalmente - anche se in tal modo sottratti all'abbandono e riqualificati dalle persone che li gestiscono - i centri sociali sono mal visti dalle amministrazioni e molti sono sotto sfratto o a rischio sgombero. C'è un'ufficialità che non digerisce certe realtà magmatiche e autorealizzate, ostacolando la loro vitalità, frutto della risposte alle esigenze reali della popolazione, soprattutto giovanile, o di chi è vissuto e cresciuto nel quartiere. Ciò nondimeno, mentre le istituzioni cittadine e nazionali confermano che l'Italia non è un Paese per giovani, questi luoghi altri, non ufficiali, resistono e crescono. Esattamente perché consentono ai giovani, che non riescono a esprimersi altrove, di trovare e definire nuovi spazi e perché forniscono un contributo fondamentale per chi risiede a Roma, elaborando e diffondendo cultura, organizzando e offrendo corsi, aiutando concretamente cittadini e migranti, riqualificando periferie, sollecitando continuamente alla riflessione chi li frequenta. Il nuovo nuovo sindaco Marino si trova di fronte non pochi problemi. Intanto quello gigantesco della mobilità: la città detiene il record di macchine per abitante (in un rapporto che è quasi di 1 a 1) e dispone di mezzi pubblici inadeguati. Segue l'esplosiva emergenza abitativa, che riguarda migliaia di famiglie.
Ora, mentre le nuove e inutili costruzioni sono destinate a rimanere vuote, si diffondono nel territorio isole di resistenza, che offrono un contributo importante alla diffusione di modelli alternativi a quelli istituzionali, sia in tema di mobilità privata che dei bisogni abitativi. Si pensi alle ciclofficine, diffuse in quasi tutti i centri sociali della Capitale, e alle Ciemmone, che con cadenza regolare vedono gruppi sempre più nutriti di ciclisti invadere pacificamente la città. Significative a tal proposito le occupazioni che nell'ultimo anno hanno interessato edifici vuoti e abbandonati, reazione eterodossa a una gestione affaristica degli alloggi popolari e a una rimozione dell'edilizia pubblica popolare dall'orizzonte politico. Le attività che hanno luogo nei centri sociali occupati o autogestiti, nelle palestre popolari e in altri piccoli spazi di quartiere, nati grazie alla buona volontà di poche persone e contro pregiudizi e ostacoli ufficiali, contribuiscono a caratterizzare i quartieri e a forgiare la cittadinanza, rendendo i romani maggiormente consapevoli delle potenzialità del territorio, dei propri diritti e dei propri doveri. È grazie alla cultura, tra le altre cose, che una città prende vita ed emancipa i suoi abitanti, che acquistano sicurezza e desiderio di viverne i luoghi, uscendo dalle anguste mura domestiche e dalla passività. È con la diffusione delle idee, delle buone pratiche, dei saperi, che il cittadino può sentirsi al centro della polis , di un progetto volto al futuro e al miglioramento. Lo si è visto, con risultati alterni, anche con le Estati Romane, in questi ultimi anni, tuttavia, sempre più lontane dal modello iniziale nato dal genio di Renato Nicolini: sempre più dispendiose e dispersive, sempre più mondane e omologate a una cultura mainstream appiattita sugli sponsor privati e sulle idee dei promotori istituzionali. La forza della cultura e delle buone pratiche si vede ancor di più nelle iniziative dal basso di questa "Roma alternativa": concerti, teatro, corsi, trattorie, palestre, tutto è funzionale ad arricchire lo spirito di chi li frequenta, e tutto nasce dall'impegno di persone volenterose e da piccole associazioni, con un costo basso per chi organizza - se non in termini di tempo ed energia - e un prezzo accessibile per chi fruisce. Infine, questi spazi influiscono sull'identità e sulla crescita culturale di interi quartieri. La presenza di centri sociali in zone periferiche - dal Tufello a Cento Celle, passando per Casal Bertone, Portonaccio, San Lorenzo e il Pigneto - ha contribuito a trasformare aree una volta degradate, difficili, inospitali, in luoghi vivi, attraenti e sicuri. In tal modo non solo si è favorito l'accesso all'offerta culturale di chi vive o frequenta questi posti, ma si è anche fortemente limitata la diffusione di criminalità. È politica con la P maiuscola, è politica di sinistra e intervento sul territorio e dal basso. Che rappresenta un'Italia - perché Roma non è l'unico caso - che non si dà per vinta, che non si piange addosso, che cresce, con entusiasmo, grazie alla vivacità delle idee e alla bontà dei progetti. E che andrebbe incoraggiata, sostenuta, alimentata, seppur senza ingabbiarla nella burocrazia, nei vincoli e nei veleni dei canali ufficiali. Anche solo prendendo parte alle iniziative, godendo delle loro offerte fruitive e culturali. La maggioranza hanno tra i 10 e i 20 abitanti, ma con dei picchi a 200 (il Popolo degli Elfi) e 600 (Damanhur). Si tratta di comunità intenzionali ecosostenibili, gruppi umani che intendono dare ai luoghi in cui vivono più di quanto vi hanno trovato , e che hanno scelto come impegno prioritario di condividere la loro esistenza con altre persone in virtù di una visione comune (di ordine etico, spirituale, ecologico, sociale). A differenza del cohousing , chi va a vivere in un ecovillaggio, oltre a fare una scelta abitativa a basso impatto ambientale, decide di aprire la propria vita professionale, economica ed affettiva al gruppo di persone e al luogo scelti. Le realtà più grandi hanno strutture produttive, falegnamerie, scuole autogestite ispirate ai modelli libertari e percorsi didattici per i bambini delle scuole intorno. Questi luoghi, infatti, sono veri e propri laboratori di scambio di saperi intergenerazionale ed università del fare a cielo aperto. La Comune di Bagnaia Un esempio? Provate ad immaginare 19 adulti di età e professionalità diverse - insegnanti, pensionati, artisti di strada, impiegati, agricoltori, artigiani - che versano in una cassa comune i propri stipendi e che una volta prelevata una paga uguale per tutti, impiegano le restanti risorse per le spese comuni, ovvero per le cure mediche, educazione dei bambini, parco auto, energia, cibo, abitazione ecc. Un'utopia? Eppure è quanto avviene da quasi quarant'anni nella Comune di Bagnaia. La Comune infatti esiste dal lontano 1979 ed insiste su un podere di 80 ettari sui colli senesi, i suoi abitanti, dopo aver acquistato il podere ne hanno ceduto la proprietà all'associazione. Oggi metà di loro lavorano fuori e metà nel podere che produce vino, olio, miele, carne, ogni genere di ortaggi, conserve, pane, formaggi e insaccati. C'è un parco auto con ottimi sconti assicurativi, ne bastano 6 o 7 per tutti. Si produce un secchiello scarso di spazzatura al giorno in 18, poiché si compra all'ingrosso, il latte delle mucche e le verdure dell'orto non hanno imballaggi, le bucce e gli scarti organici vanno al compost. Così rimangono solo i tovagliolini di carta da buttare! Le decisioni vengono prese con la metodologia del consenso e le idee che accomunano i membri sono di stampo pacifista e libertario, laico. Gli ecovillaggi sono tutti molto diversi tra di loro, ma ci riconciliano con un aspetto che anche i progressisti hanno perso per strada, nella misura in cui le loro azioni muovono da concetti astratti in società statalizzate costituite di regole e relazioni anonime: la dimensione comunitaria , a volte tribale, che si reinserisce a pieno nella modernità attraverso un dialogo stimolante. Gli ecovillaggi risvegliano i fondamenti stessi delle democrazie: così come l'Agorà ateniese (piazza del mercato dove confluivano le messi delle campagne dell'Attikì), sono luoghi nei quali il rapporto tra le persone è indissolubilmente legato al rapporto tra la civiltà e la natura circostante.
Un altro modo di vivere Francesca Guidotti, che oggi compie 27 anni ed è la neo-presidente della rete nonché l'autrice del libro Ecovillaggi e cohousing , ci racconta: «Chi cerca un posto per questo tipo di esperienza parte dal bisogno di trovare un punto fisso per la propria vita, spesso lontano dalla città, sia per ritessere un rapporto con la natura, sia perché le aree rurali permettono di soddisfare almeno parte del proprio fabbisogno alimentare. Le chiavi sono il vivere comunitario, il pensare ecologico e il volersi migliorare. Trasformare un territorio dismesso o abbandonato è un modo per oggettivare la scoperta di sé, come fece Carl Gustav Jung verso la fine della sua vita costruendo una casa-simbolo del suo lavoro psichico. Appartenere ad un luogo dà la misura fisica dei cambiamenti che siamo in grado di operare, su scala locale e globale. Stranamente però questo dono di sé al luogo non crea attaccamento ed i moderni ecovillaggisti si spostano molto: grazie anche al supporto della comunità sono più liberi e meno vincolati rispetto ai componenti delle piccole famiglie contadine». E conclude: «La vita di tutti i giorni tuttavia pone problemi molto concreti e per risolvere gli eventuali conflitti bisogna attrezzarsi. Risulta così indispensabile dotarsi di strumenti adeguati sul piano della facilitazione e della progettazione condivisa: comunicazione non violenta, comunicazione empatica, metodologia del consenso, dragon dreaming , permacultura, sono alcune delle tecniche usate nella maggior parte degli ecovillaggi. Infatti dal dopoguerra in poi, abbiamo sviluppato una cultura fortemente individualist a in cui paghiamo per avere ciò che vogliamo e non dobbiamo chiedere più nulla a nessuno. Abbiamo disimparato a chiedere, a contrattare. In questo caso invece del denaro si impara ad usare la mediazione e la relazione per arrivare a realizzare i propri desideri. Non ultima poi la dimensione spirituale, una caratteristica diffusa in molti eco villaggi. quelli a matrice spirituale o dotati di forti ideali sono i più saldi, poiché le pratiche di consapevolezza, i rituali e gli obiettivi condivisi tessono fili invisibili ed aiutano a trovare una guida nelle proprie scelte».

PISA
La «nuova polis» pisana dell'ex Colorificio
di Enzo Scandurra

Arrivato alla stazione di Pisa, viene a prendermi Fausto. Ci riconosciamo subito come succede spesso - e misteriosamente - tra compagni. Mentre ci rechiamo all'ex colorificio liberato, mi parla del convegno, dell'occupazione, delle attività che si svolgono nell'area dismessa. Lo fa senza ostentare fanatismo, con un tono quasi professionale da cui traspare però passione e speranza. Ero già stato a Pisa anni prima sempre invitato da Serena, quando ancora l'occupazione riguardava Rebeldìa. Dal 20 ottobre quel gruppo ha invece liberato, e occupato, una ex fabbrica, un ex colorificio di 14mila metri metri quadrati, non distante dalla Piazza dei Miracoli. Fausto mi parla del convegno: due giorni di discussione con architetti e urbanisti sul tema delle aree dismesse e di come utilizzarle per rivitalizzare la città di Pisa. Nel programma è ben messo in evidenza come si voglia superare il concetto di "valorizzazione" immobiliare e dell'irremovibilità del costruito nell'interesse della collettività: basta consumare suolo e risorse. Fausto ci tiene a farmi visitare l'ex colorificio, mostrarmi i lavori e le iniziative già allestite. Laboratori di aggiustaggio e falegnameria, di ceramiche, una ciclofficina di biciclette, sala del teatro. In una delle grandi sale c'è anche un trapezio per equilibristi; in un'altra sono state realizzate pareti artificiali per l'allenamento alle scalate. Fanno parte della comitiva esplorativa due altri compagni che non conosco e che poi si presentano come architetti che lavorano su altre aree di Pisa, come lo stadio di calcio ormai in disuso. Fausto ci fa vedere altre sale vuote in attesa di decidere che iniziative potrebbero accogliere. Dovunque ci sono persone affaccendate in qualche lavoro: la fabbrica funziona di nuovo, ma per altri scopi e per produrre altre merci, diverse da quelle fordiste: adesso si producono beni comuni, relazioni, convivialità; si coltivano speranze. A me viene in mente quel vecchio film di Truffaut, Fahrenheit 451 , ambientato in un futuro opprimente dove una società despotica e autoritaria ha messo al bando (anzi al rogo) i libri diventati merce clandestina e antisociale. Il corpo dei vigili urbani è continuamente al lavoro per bruciare i libri nascosti da abitanti sovversivi. Così si infoltisce la comunità - il popolo-libro - di coloro che, perseguitati e ricercati dalla polizia, trovano rifugio nelle foreste. Ognuno di loro, per salvaguardare il patrimonio di sapere dei libri, ne impara uno a memoria. Ogni uomo diventa un libro vivente, dal Pinocchio di Collodi al David Copperfield di Dickens. Quando inizia il dibattito, mi sento inadeguato. Mi sembra che tutto quello che avrei da dire sul tema stabilito dal convegno, "Cartografia del desiderio. Per la creazione di una nuova Polis", loro lo stanno già tentando di realizzare. Stanno progettando anticipazioni di un futuro di città. I crateri che emergono dalle macerie della città fordista, si riempiono di iniziative sociali. Serena fa il medico all'ospedale, è una delle principali protagoniste dell'occupazione. Qui, dentro l'ex fabbrica fordista, mi sento finalmente a casa, sento che si sta tentando di realizzare qualcosa di importante. Fuori il mondo impazzito che magari in quest'area vorrebbe realizzare case, centri commerciali, multisale e chissà quali e quante altre diavolerie con la scusa di ripianare i debiti comunali, valorizzare le aree, fare profitti. Mi chiedo se ce la faranno Serena, Fausto e tutti gli altri a tenere, a resistere e anzi a trovare una sponda nell'amministrazione. Non sono isolati, si sta tentando di attivare una rete che colleghi queste esperienze che proliferano sempre di più in tante città italiane. Il Teatro Valle Occupato, il cinema Palazzo a Roma sono ormai riferimenti nazionali che producono speranze e aspettative, contagiano. Faccio fatica, con la mia vecchia educazione al posto fisso, a convincermi che qui si sprigiona un'energia nuova, che si tenta di ripristinare vecchi mestieri e sapienze andate in malora con la mitologia dello sviluppo. Dico a Serena che ho un cagnolino che mi aspetta a casa, non posso restare oltre le otto di sera, c'è l'ultimo treno che ferma a Termini. Lo dico per darmi una ragione per non rimanere, perché questo invece desidererei fare. Fermarmi qui con loro non tanto per continuare a parlare, ma per trovare un mio posto dove materialmente partecipare alla costruzione di questo futuro ancora incerto e pieno di aspettative e speranze. La festa deve ancora iniziare ma Serena e Fausto mi fanno preparare un piatto di pasta e un dolce. Ecco, sto a casa, in una grande famiglia, accolto come un vecchio amico, magari uno zio. Peccato non aver portato il mio cagnolino. Insieme potevamo restare.

MILANO
Il centro sociale degli sfrattati
di Giorgio Salvetti

Uno Spazio di mutuo soccorso per senzacasa nella Milano dell'Expo. Dove il mercato immobiliare è crollato, 5 mila persone sono state sfrattate e altre 19 mila lo saranno

Ale ha 19 anni. Ha passato tutta la sua giovane vita tra occupazioni e sgomberi. È un "abusivo", se così si può chiamare chi è costretto a combattere in prima persona per avere un tetto che le istituzioni non sono in grado di garantire. Si chiama diritto alla casa. E a Milano, come in molte altre città italiane, è sempre più una chimera. Adesso Ale ha finalmente trovato un posto sicuro dove vivere con suo padre e sua madre che hanno 60 anni. Si chiama Sms, Spazio di Mutuo Soccorso. Sono tre palazzine di quattro piani occupate lo scorso 24 aprile dal centro sociale Cantiere e dal comitato degli abitanti del quartiere di San Siro. Dopo due mesi qui ci vivono 20 nuclei familiari, un totale di una sessantina di persone, bambini e anziani compresi. Ma non si tratta solo di un luogo abitativo. A Sms hanno trovato casa anche molte altre iniziative: una università popolare, spazi espositivi, prossimamente anche una palestra popolare. È un altro modo di abitare la città e di renderla viva e attiva. Case da matti Milano negli ultimi decenni ha vissuto sul business del mattone. Dopo i fasti dell'epoca industriale i soldi hanno girato intorno alle speculazioni nelle aree dismesse grazie a enormi crediti delle banche, alla connivenza dei politici e a non poche ingerenze della malavita. Una colata infinita di cemento e di malaffare. Lo skyline della città è cambiato e si è riempito di gru e grattacieli avveniristici destinati a ospitare uffici e abitazioni di lusso, le uniche che ancora si riescono a vendere. Poi è arrivata la crisi, il mercato immobiliare è crollato. Alcune dei suoi protagonisti sono falliti - come Zunino o Ligresti - ed è caduto anche Roberto Formigoni. L'ultimo scossone che ha messo fino all'impero del governatore Celeste è stato l'arresto del suo assessore alla casa, Domenico Zambetti, accusato fra le altre cose di comprare i voti dalla 'ndrangheta. Mentre non si faceva altro che costruire la città si impoveriva e sempre più persone non riuscivano ad avere un tetto sopra la testa.

A Milano ci sono 23 mila famiglie in lista d'attesa per avere una casa popolare, ogni anno ne vengono assegnate solo mille: 500 in virtù delle graduatorie, l'altra metà per rispondere ai casi di emergenza che sono in vertiginoso aumento. Nel 2012 sono stati effettuati 4.924 sfratti quasi tutti per morosità e le richieste di sfratto sono 19 mila. Eppure ci sono ben 5 mila case popolari vuote, riscaldate, ma chiuse da inferriate di ferro: duemila del comune e 200 dell'Aler, l'ente che gestisce l'edilizia popolare e che dipende dalla Regione. Gli appartamenti privati sfitti sono ben 80 mila. Senza contare l'enorme numero di spazi inutilizzati per uffici, ex caserme e ex fabbriche. Il centro sociale Macao dieci giorni fa ha deciso di andarli a segnalare: hanno scritto le cifre dei metri quadrati inutilizzati a caratteri cubitali sulle pareti degli edifici fantasma. Ecco solo qualche esempio: ex macello in via Lombroso, Torre Galfa, ex provveditorato in via Ripamonti 9.000. In totale 916 mila metri quadrati vuoti, per una superficie pari a quasi 85 campi da calcio. Spazio di mutuo soccorso Il cancelletto di Sms si apre con un pulsante elettronico, come in qualsiasi palazzo che si rispetti. «Abbiamo anche il telecomando del cancello grande». Si fa sul serio. C'è anche la madonnina storica che veglia su un ampio cortile alberato. C'è il bar, il palco, la domenica si fanno grigliate e il martedì il cineforum. Al primo piano del primo palazzo c'è l'area di mutuo soccorso, si chiama Crise , ed è un mercatino di scambio solidale per affrontare attivamente la crisi. Una serie di ampi locali appena imbiancati ospita oggetti di ogni tipo, vestiti, libri, attrezzi per la casa, lo spazio per i bambini con i laboratori, info point con i computer e la rete. Al primo piano è già funzionante l'università popolare. Nelle aule con tanto di parquet e lavagne si tengono lezioni di italiano per stranieri, di inglese, spagnolo e arabo, oltre a corsi di aggiornamento per gli insegnanti. Negli altri due piani vivono le famiglie. Così come nel palazzo accanto. Dove al pian terreno si sta allestendo una grande palestra popolare. I muri dell'intonaco dei palazzi sono ancora scrostati ma sono in parte ricoperti da grandi graffiti. Il terzo edificio non è ancora abitato, per il momento ospita una mostra artistica e fotografica sugli sfratti in Italia (ci sono anche le lettere dei vari prefetti conservate in teche di vetro). La storia di questi palazzi è tipica. Sono di proprietà di una grossa immobiliare che da vent'anni sfratta gli abitanti e lascia andare tutto in malora in attesa di far fruttare gli stabili in ben altro modo. Gli abitanti di San Siro Sotto gli edifici ci sono le "cantine sociali". Il vino non c'entra. Sono destinate a ospitare i mobili e gli oggetti di chi è stato buttato fuori casa e non sa dove tenerli. Ale sa di cosa parla. Tra uno sgombero e l'altro, ha dovuto vivere con i suoi genitori dentro una baracca costruita in un orto di periferia abbandonato. È lì che doveva tenere le sue cose, mobili compresi, in attesa di ritrovare un tetto. Ha fatto tanti lavoretti, in famiglia adesso lavora solo sua madre, fa le pulizie in un ospedale, ma i soldi per un affitto non ci sono. L'ultima volta è stato sgomberato con la forza dalla polizia in assetto antisommossa che ha caricato gli abitanti del quartieri in presidio, compresi i bambini e le donne incinta. A San Siro dal 2009 si è costituto un comitato di abitanti, "abusivi" e non. All'inizio si trovavano in piazza Selinunte per organizzare manifestazioni e picchetti anti-sgombero, Poi sono cresciuti, adesso hanno uno sportello per la casa dove offrono assistenza ma chiedono in cambio partecipazione. A Sms non ci sono solo ex occupanti per necessità, ma anche persone che hanno perso la casa, classe media, colpita dai pignoramenti sempre più frequenti. Il comitato mette tutti insieme e impedisce che si sviluppi una guerra tra poveri dove tutti sono sconfitti. Adesso fanno parte di "Abitare la crisi", la rete nazionale che chiede lo stop degli sfratti e degli sgomberi e che manifesterà il 19 ottobre a Roma con molte altre realtà. Spazio comune A Milano, in piena era Pisapia, gli sgomberi continuano. Sia degli occupanti di case che degli occupanti di spazi sociali. La pasdaran della legalità a tutti i costi in tema di case, l'ex segretaria Sunia Carmela Rozza, prima è stata capogruppo del Pd a Palazzo Marino e poi è stata promossa assessore ai lavori pubblici. Il vice sindaco Lucia De Cesaris pochi giorni fa ha bacchettato i ragazzi del Cantiere che avevano organizzato una sessione di writing per colorire una squallido cavalcavia proprio di fronte ai mega grattacieli appena costruiti in zona Garibaldi-Repubblica. Pisapia qualche mese fa si è fatto fotografare con tutina bianca e pennello mentre copriva i graffiti. Immagini simbolo che stanno compromettendo il rapporto tra la giunta e quel vasto movimento che l'ha portata alla vittoria. Nel giro di poche settimana è stato sgomberato il centro sociale Zam - con tanto di manganellate ai cittadini venuti a protestare davanti a palazzo Marino - e Remake, ovvero l'occupazione del cinema Maestoso, uno spazio immenso inutilizzato in zona corso Lodi. In quell'occasione i manifestanti sono riusciti a entrare a Palazzo Marino e hanno scambiato qualche battuta con la vice-sindaco che per lo meno ha accettato un breve confronto. Nulla di più. Il comune ha appena annunciato di voler destinare uno grande spazio da 1.550 metri quadri vicino alla strada dei vip, corso Como. Sarà destinato a creativi, spazi espositivi, show room, coworking e il bando per l'assegnazione è aperto fino al 30 settembre. Ma per risolvere la fame di spazi della città ci vuole ben altro. Intanto Palazzo Marino sta cercando di capitalizzare - ovvero liquidare - una quarantina di palazzi di sua proprietà per far fronte a un bilancio sempre più magro e spolpato dalle enormi somme destinate a Expo 2015. E Pisapia dovrà trovare il modo di convincere il nuovo governatore lombardo, Roberto Maroni a rifinanziare l'Aler che, dopo vent'anni di Formigoni, ha un buco di 80 milioni di euro. A Ferragosto i ragazzi del Cantiere e gli abitanti di Sms offrono un festa a base di tango proprio sotto le finestre di palazzo Marino sperando che il Comune li ascolti. Si tratta di una delle tante iniziative della kermesse itinerante "Occupy Estate" che coinvolge tutti gli spazi sociali e i movimenti milanesi e che si concluderà con un grande concerto ai primi di settembre.

Dal nuovo inserto del manifesto, che esce ogni giovedì, l'Italia che Va, 1 agosto 2013, due riflessioni, fra cui quella del sindaco di Roma, sul potenziale delle biciclette per le città e l'ambiente (f.b.)

Rivoluzione su due ruote
di Luca Fazio

A parte una buona dose di coraggio, per cambiare profondamente il volto di una città basta un numero magico (il numero 30). E non ci vogliono nemmeno troppi soldi. A Parigi, per esempio, con soli 2,6 milioni di euro di stanziamenti, l'amministrazione di Bertrand Delanoe ha messo a punto un piano rivoluzionario. Un format esportabile in qualunque città europea (Italia compresa): dal prossimo settembre su 560 km di rete stradale il limite massimo di velocità consentito alle automobili sarà di 30 Km/h (il 37% delle strade cittadine). Il nuovo piano "La rue en partage" ("la strada in condivisione", ndr ) non dovrebbe essere un dramma, eppure le questioni della mobilità urbana provocano sempre accesi dibattiti politici e sociologici. Anche a Parigi. Per semplificare, da una parte ciclisti che rischiano la vita e dall'altra adepti del culto motorista sempre più rancorosi e su di giri. E dire che in nessuna metropoli europea la media di chilometri percorsi da un'auto ingolfata nel traffico si avvicina al numero magico: ovunque la bicicletta è il mezzo più veloce per spostarsi nelle aree urbane. A Parigi questo limite verrà fissato in una trentina di quartieri, che vanno ad aggiungersi ad altre 74 zone della città dove la velocità è già regolata in questo modo. Ma non c'è limite al meglio: nella capitale francese sono già attive 23 "zone di incontro" dove le auto non possono superare i 20 Km/h; qui pedoni e ciclisti sono padroni della strada, e le automobili sono "avvisate" da strisce bianche perpendicolari alla carreggiata formate da piccoli rettangoli tipo pixel, una via di mezzo tra segnaletica e arte di strada, un modo poco invasivo per invitare gli automobilisti a rallentare.

L'obiettivo di questo programma che per noi sembra lunare è piuttosto semplice, invitare gli automobilisti a scegliere il mezzo di trasporto più semplice e moderno del mondo: la bicicletta. E a rispettare le due ruote: i ciclisti, nelle zone 30, potranno anche "bruciare" il semaforo rosso per svoltare a destra. Di questo passo, le automobili a Parigi diventeranno un mezzo di trasporto in via d'estinzione, e del resto lo confermano le statistiche: già ora il 60% degli spostamenti si fa a piedi, il 27% con i trasporti pubblici, il 7% in automobile e il 4% in bicicletta. Percentuali impensabili per l'Italia, il paese europeo più in ritardo rispetto allo sviluppo della ciclabilità e alla cultura della mobilità alternativa. Londra, per esempio, giusto per non restare indietro rispetto a Parigi, sta pensando di estendere l'attuale percentuale di zone 30 (oggi circa il 19% delle strade urbane) a quasi tutta la città - rimarrebbero escluse solo le arterie ad alto scorrimento. Possibile? Per Isabel Dedring, responsabile dei trasporti londinesi, non ci sarebbero problemi: «Andrà a finire come capitò con il divieto di fumo nei locali, nessuno lo riteneva possibile fino a quando non è successo».

Bisognerà solo convincere i distretti, ma già alcuni hanno imposto i 20 miglia all'ora in tutte le strade, con risultati molto soddisfacenti e dunque contagiosi. A Monaco, altra città virtuosa, sono così visionari che entro il 2025 puntano ad avere la quota di spostamenti in automobile al di sotto del 20% nelle zone centrali (taxi compresi). Lo ha annunciato Hep Monatzeder, vicesindaco della città dove ha sede la Bmw - provate adesso ad immaginare il sindaco di Torino Piero Fassino e la Fiat di Marchionne. Monaco, per raggiungere l'obiettivo, solo nell'ultimo anno ha già stanziato 10 milioni di euro per la ciclabilità. In Italia (2.556 ciclisti morti negli ultimi dieci anni), sull'onda di un'evidenza che ha trasformato la bicicletta nello strumento più efficace per praticare più che sognare un mondo diverso, soprattutto nelle città, anche la politica si è dovuta accorgere che qualcosa si sta muovendo. Con ritardo e inconcludenza imbarazzanti. A parte i sindaci volonterosi che ci deliziano con improbabili pedalate propagandistiche, diverse associazioni hanno presentato una proposta di legge proprio per introdurre il limite dei 30 Km/h nei centri urbani (già sottoscritta da circa sessanta deputati di tutti gli schieramenti).

L'obiettivo della Rete della Mobilità Nuova, seppure meritevole, dice a che punto siamo rispetto alle esperienze europee: obbligare i sindaci, entro due anni, a far scendere gli spostamenti motorizzati con mezzi privati almeno sotto al 50%. Un'impresa disperata visto che la quasi totalità delle risorse per la mobilità vengono destinate all'alta velocità e alla rete autostradale, anche se le lunghe distanze assorbono meno del 3% degli spostamenti di persone e merci. Eppure, nonostante l'ottusità del sistema, in Italia le campagne di sensibilizzazione per sostenere il limite di velocità di 30 km/h si stanno moltiplicando con diverse iniziative dal basso. Il rischio però è che per un difetto di comunicazione non si riesca a far comprendere la portata di un semplice provvedimento che nelle nostre città sarebbe a dir poco storico, se non irrinunciabile: qui non ci sono in gioco solo i diritti (o le pretese) di qualche scanzonato cittadino che vuole liberarsi dalle automobili per pedalare in santa pace. C'è ben altro.

Proviamo a mettere tra parentesi - anche se è impossibile - lo studio approfondito appena realizzato dall'Istituto dei Tumori di Milano che ha dimostrato una stretta relazione tra l'inquinamento e il rischio di tumori al polmone (300 mila le persone testate, 36 i centri europei coinvolti). È stato misurato l'inquinamento dovuto alle polveri sottili (Pm10 e Pm2,5) causato in gran parte all'emissione dei motori a scoppio e agli impianti di riscaldamento. La conclusione è drammatica: per ogni incremento di 10 microgrammi di Pm10 per metro cubo presenti nell'aria, aumenta il rischio di tumore al polmone di circa il 22%. Sono cifre da ecatombe, questo tipo di tumore rappresenta la prima causa di morte nei paesi industrializzati, e solo in Italia nel 2010 si sono registrati 31.051 nuovi casi. Non bisognerebbe aggiungere altro per imporsi l'obiettivo di rottamare il mezzo di trasporto più mortifero, ma torniamo al limite dei 30 Km/h per entrare nello specifico dei tanti benefici per tutti. Automobilisti compresi. Prima di tutto si abbasserebbe la mortalità. In Europa, tumori a parte, ogni anno muoiono 35.000 persone a causa di incidenti stradali (un milione e mezzo rimangono ferite). L'Italia contribuisce alla statistica con 5 mila morti all'anno (e 300 mila feriti): quasi un quarto delle vittime sono pedoni e ciclisti. Tutta colpa della velocità? Sì.

Come dimostra uno studio londinese, quasi tutti gli incidenti che hanno ucciso ciclisti sono avvenuti in strade con un limite fissato a un minimo di 48 Km/h. I dati sui pedoni sono inconfutabili: se un'automobile investe una persona a 65 Km/h la uccide nel 90% dei casi, a 50 Km/h nel 20% dei casi, a 30 Km/h nel 3% dei casi. Data per scontata la maggior vivibilità delle strade con l'istituzione delle "zone 30" - cosa di per sé gradevole ma che per alcuni potrebbe non essere prioritaria - va sottolineata anche la considerevole riduzione dei costi sanitari a fronte di una diminuzione dei sinistri (il Pil annuale perso a causa degli incidenti viene valutato attorno al 2%). Inoltre, la riduzione della velocità, come dimostrano alcuni studi effettuati ad Amburgo, farebbe diminuire dal 10 al 30% l'emissione di gas inquinanti. Sul banco degli imputati ci sono gli automobilisti che si ostinano a guidare in città, eppure il numero magico funzionerebbe anche per loro: consumerebbero meno carburante (12% secondo una ricerca tedesca) e anche loro morirebbero con minor frequenza.

Il mio sogno: Roma ciclabile
di Ignazio Marino

Quello con la bicicletta è stato un incontro casuale. Non sono un appassionato della prima ora. Ho scoperto la bellezza della pedalata per necessità, solo nel 2002. Mi ero da poco trasferito negli Usa con la mia famiglia. Arrivati a Philadelfia avevamo deciso di acquistare un'auto, poi è stata sufficiente una piccola ricognizione della città per accorgerci che avevamo tutto a pochi chilometri di distanza dalla nostra casa: la scuola di mia figlia e l'ospedale dove sarei andato a lavorare. Decidemmo così di fare a meno delle quattro ruote optando per le due. Da quel giorno non ho più smesso di pedalare. A volte le cose belle capitano per caso e per caso ho scoperto tutti i vantaggi del muoversi in bicicletta: non inquina, non ha costi di gestione, rispetta l'ambiente e aiuta a rimanere in forma. Da sindaco ho un piccolo grande sogno: modificare radicalmente il rapporto tra la città e le due ruote. Basta osservare la città per rendersi conto come in questi anni sempre più persone scelgano la bicicletta per muoversi, e non solo nel centro storico.

Roma, rispetto ad altre città europee, è rimasta indietro. Le piste ciclabili non sono ancora integrate alla viabilità cittadina; il servizio di bike sharing non solo non è mai decollato ma è fallito, con conseguenti danni economici per le casse del comune. Voglio fare solo un paio di esempi per far comprendere a tutti quanto l'uso della bicicletta possa essere rivoluzionario per Roma. Nella Capitale, tra le persone che utilizzano l'automobile, il 60% lo fa per un percorso non superiore ai 5 chilometri. Il nostro compito sarà offrire loro un'alternativa all'auto privata, per mezzo di un servizio di bike sharing capillare in tutta la città e in prossimità delle stazioni della metropolitana. Servono inoltre corsie preferenziali con percorsi protetti e sicuri.

Provvedimenti necessari a decongestionare il traffico nonché a migliorare la qualità della vita nella città e a tutelare la salute di tutti. Ma non solo. La mobilità su due ruote può diventare anche un'attrazione turistica e una risorsa per l'economia romana. Sono sempre più numerosi gli stranieri che visitano Roma in bicicletta, un nuovo modo, ecologico e pulito, per scoprire le bellezze della città. La Giunta comunale, nel corso di questo mandato, dunque, lavorerà per raggiungere alcuni importanti obiettivi: una delle prime azioni sarà investire, seriamente, in un programma finalizzato al rilancio del bike sharing. Roma è una delle poche capitali europee che non lo possiede. Vogliamo, inoltre, ridurre il traffico privato, anche attraverso la realizzazione di aree pedonali sempre più vaste. Non si può prescindere, infine, da un miglioramento e da un potenziamento del trasporto pubblico. Il progetto della pedonalizzazione dei Fori va in questa direzione: chiudere lo spazio alle auto private e restituirlo alle persone, alla storia e alla cultura. Sarà un grande cambiamento per Roma. Sono sicuro che i romani lo apprezzeranno.

Ancora una volta riemerge in un quartiere "modernista" italiano la divaricazione fra intenzioni e realtà, ma con un approccio propositivo non passatista. Il manifesto, 30 luglio 2013, con duplice postilla (f.b.)

CATANIA - A fine giugno a Librino, quartiere della periferia di Catania, «le fiamme alimentate dal vento hanno raggiunto perfino i piani alti delle abitazioni del viale Moncada 11, distrutto le grondaie, bruciati i condizionatori esterni e anneriti i cavi dell'energia elettrica» Le aree verdi di Librino «a causa della mancata manutenzione, oltre a essere causa di annidamento di ratti, insetti e parassiti, diventano ricettacolo di rifiuti che l'inciviltà diffusa continua ad alimentare». Queste alcune righe di una lettera inviata da Sara Fagone, della Cgil di Librino, e Francesco Torre del Comitato Librinoattivo, il 2 luglio scorso, alle autorità preposte al verde pubblico e, per conoscenza, al sindaco neoeletto Enzo Bianco. Librino, come molti sanno, è la new town etnea di cui si parla - quando si parla - solo come rappresentazione tra le massime di degrado e abbandono urbano.

Leggo questa breve lettera - che ha la sobrietà e la continenza verbale di chi denuncia da anni inascoltato - e i ricordi vanno a cinque anni fa. Arrivai a Catania per un reportage che pubblicai su Rassegna Sindacale, settimanale della Cgil. Ci aveva invitati la Fillea, il sindacato degli edili della confederazione: «Venite - mi avevano detto - c'è una bella storia da raccontare di partecipazione e coinvolgimento civico, c'è un comitato di cittadini attivi che ha con grande generosità redatto una piattaforma partecipata per ridare forza e speranza a Librino e farla uscire dal degrado». È passato un lustro da allora e l'impegno infaticabile della gente, non certo per demerito imputabile a questi cittadini, ha prodotto pochi risultati, con un'amministrazione di centrodestra - guidata da Umberto Scapagnini, il medico che non è più tra noi e che evocava l'immortalità di Berlusconi - sorda e presa da altro. Adesso è arrivato Enzo Bianco, il cui primo mandato da sindaco per molti catanesi resta ancora una specie di età dell'oro, una primavera etnea che in tanti sperano di poter, questa volta, far arrivare fino a Librino. Un primo, importante, passo c'è stato: l'istituzione di una delega specifica per Librino che è andata all'assessore Saro D'Agata, che a metà luglio ha incontrato gli abitanti del quartiere insieme alle decine di istituzioni e associazioni che operano sul territorio.

Il sogno di Tange

Ma cos'è Librino? Qual è la sua identità? Difficile dirlo. Lo stereotipo - che però come tutti gli stereotipi una parte di verità la possiede sempre - la vuole espressione plastica del degrado che le grandi aree urbane, specialmente meridionali, sono in grado di produrre ed espellere dal proprio corpaccione. Dunque: intere zone in mano agli spacciatori, aree abbandonate, forte abbandono scolastico, diffusi fenomeni di devianza, pochi servizi e trasporti insufficienti. E fuochi poco fatui che incendiano le sterpaglie, come abbiamo visto.

Con tutte le differenze, la storia di Librino è simile a quella di Corviale a Roma e delle Vele a Napoli. Non borgate cresciute per gemmazione selvaggia e immediatamente purulenta, ma sogni di architetti visionari e coraggiosi che presto, però, si sono trasformati in incubo. L'urbanista, anche se non è un filosofo o un matematico, troppo spesso traccia linee, scrive numeri e poi se ne va. Librino la sognò, più di quaranta anni fa, il grande Kenzo Tange, l'architetto razionalista giapponese allievo ideale di Gropius e Le Corbusier, cui l'amministrazione di Catania affidò nel 1970 il compito di progettare Librino: la città nuova e futuribile alla periferia sud-ovest di Catania, la città satellite da 70 mila abitanti in tutto autonoma e autosufficiente che doveva risolvere la pressione demografica della città etnea. Quarant'anni dopo il sogno Librino, l'orgoglio razionalista di pensare spazi urbani all'avanguardia e in cui l'estetica delle costruzioni fosse giustificata dalla loro funzionalità, sembra svanito. Oggi a Librino, a parte l'infrastrutturazione primaria, manca ancora tutto: servizi, negozi, centri di aggregazione, spazi culturali.

Eppure quando Tange arrivò qui rimase profondamente colpito dalla bellezza dei luoghi. Così scrisse nella sua relazione di presentazione del progetto: «Quando visitai il luogo per la prima volta ammirai quel bel terreno collinoso e decisi di fare qualcosa per utilizzare la topografia, in modo da fondere l'ambiente umano con quello naturale. L'idea che sviluppammo era una completa struttura collettiva, consistente in un asse verde centrale, dal quale si diparte una rete verde che organizza tutto il complesso».

Quel paesaggio così ammirato dal maestro giapponese lo ricorda ancora assai bene Francesco Guzzetta, 68 anni, memoria storica del quartiere, che si sbraccia dal cortile della masseria Buonaiuto da cui si domina una bella porzione della "città nuova": «Lavoravo con mio padre che stava a mezzadria. Queste zone si chiamavano "terre forti", per la gradazione decisa del vino che usciva da quelle uve. C'erano solo viti, mezzadri e case basse. Il lavoro era molto faticoso e si guadagnava poco. Così dal '69 sono andato a lavorare nelle ferrovie. Tutti questi palazzoni prima non c'erano, sono arrivati solo dopo gli espropri delle terre effettuati per realizzare la nuova Librino».

Tange disegnò la sua nuova città organizzandola in dieci quartieri (ciascuno con centri a scala di vicinato, servizi e polo di quartiere) collegati tra loro da sentieri pedonali e continui per i pedoni (le "spine verdi") e un sistema veicolare ad anelli. Librino doveva essere una città immersa nel verde: parchi urbani, aree agricole, spine verdi. Di tutto ciò non resta che una labilissima traccia. Le spine verdi, per esempio, sono in totale abbandono, ricoperte di polvere e sterpaglie e non frequentate da nessuno, se non per i traffici più loschi. Visto dall'alto il sistema veicolare ad anelli rende ancora più esplicita la frammentazione di Librino, lo scollamento dei singoli quartieri, la mancanza di tessuti connettivi: i nuclei abitati sembrano tanti spruzzi di cemento estranei l'uno all'altro. L'effetto è amplificato anche dalle politiche abitative che si sono succedute negli anni: via via hanno costruito a Librino Iacp, cooperative, privati e il Comune di Catania. Per non parlare dell'abusivismo imperante. Il tutto senza uno schema o un disegno o almeno uno spicciolo di logica. Bei comprensori di cooperative - dove si svolge anche una ricca vita sociale - convivono vicino a palazzoni anonimi magari occupati da abusivi. Altrettanto eterogenea è la sua popolazione: vecchi agricoltori, impiegati, operai, sfollati da quartieri storici di Catania tipo San Berillo. Tra questi fallimenti urbanistici e il degrado sociale di certe zone del quartiere il collegamento c'è ed è provato. Secondo uno studio dell'Università di Catania, il tasso di devianza e microcriminalità aumenta quanto più è alto lo scarto tra la realizzazione dei palazzi e quella delle infrastrutture e dei servizi.

Il palazzo di cemento

Il segno della complessità di Librino è ben visibile dall'area del cosiddetto Palazzo di cemento. In questa piazzona si fronteggiano e si guardano il suddetto, enorme, ventre bucherellato (abitato da poche famiglie di abusivi disperati che vivono in stanzoni fatiscenti, umidi e in condizioni igieniche del tutto precarie) e una piccola costruzione piena di vetrate, quasi trasparente (un Palazzo di vetro?), dove in perfetta antitesi con il buio del colosso dirimpetto si vede tutto quello che accade all'interno. In questo edificio ha sede il centro della Caritas TalitàKum.

TalitàKum significa: «Fanciulla, io ti dico alzati». Il centro accoglie tra i 90 e 100 minori ogni giorno, fa recupero scolastico, organizza laboratori di pittura e creatività varia. Propone alternative a chi magari ha il padre in carcere, la madre assente o, più semplicemente, vive in un quartiere in cui gli spazi di socializzazione non esistono. Proprio in questa area mi colpì cinque anni fa l'incontro con Cettina (il nome è di fantasia). Stavamo riprendendo con una telecamera una festa organizzata dai valorosi di TalitàKuma quando incuriosita si avvicina questa bambina che comincia a raccontare: l'hanno appena bocciata in quinta elementare; la maestra, racconta, voleva promuoverla ma il padre le ha consigliato di non farlo, perché non «andava bene ed è stato giusto così». Cettina parla in dialetto stretto e ha anche qualche difetto di pronuncia; non è facile comprenderla. Incoraggiato dalla sua disponibilità le chiedo cosa vorrebbe fare da grande. Risponde: «Non capisco cosa vuol dire questa domanda». Insisto e allora risponde: «Niente, starò con mio marito». Vuoi figli? «Sì, ma solo uno, un maschietto». Poco dopo le persone del postomi raccontanoha perso da poco un fratellino di quattro mesi. Alla domanda «che cosa fa tuo padre», non risponde. Cettina parla già come una grande che riduce le sue ambizioni alla scala delle esperienze già vissute.

Cettina oggi è quasi adolescente. A Librino i ragazzi sono tanti: ci vive il 17 per cento della popolazione giovanile di Catania. Nonostante questo, per loro manca quasi tutto, a partire dalle scuole superiori, ma non solo: Villa Fazio, una vecchia preziosa masseria che era stata ristrutturata e adibita a luogo di ritrovo per i giovani, è stata completamente abbandonata dall'amministrazione. Il campo polisportivo è totalmente dissestato, cartacce ricoprono ovunque sterpi riarsi; dentro e fuori materassi e lacerti di indumenti a testimoniare un passato assai recente di bivacco per disperati. Sono tanti i giovani che sognano di cambiare il loro quartiere. Poi c'è la vicenda sconcertante di campo San Teodoro: i volontari del Centro Iqbal Masih (che dal 1995 lavorano con i bambini delle case popolari, per i quali spesso l'unica prospettiva è di allargare le fila della malavita) hanno nel 2006 messo su con questi ragazzi una bella squadra di rugby, che ha sfiorato anche la serie B. Si chiamano "I Briganti" e per tanto tempo si sono allenati per strada: davanti, il campo San Teodoro, spazi vuoti, abbandonati a se stessi e al degrado. Per questo ne hanno chiesto l'affidamento al Comune, ma non è mai arrivata alcuna risposta. Poi, nella fatidica data del 25 aprile (2012) il Campo San Teodoro viene "liberato": "Briganti" e volontari lo puliscono, estirpano le erbacce, livellano il terreno, ci organizzano feste e spettacoli. Subito dopo la beffa: il campo verrà assegnato ai Salesiani, ma si dice pure che al suo posto sorgerà il nuovo stadio di Catania.

Un futuro partecipato

«Questa è la politica che non vogliamo, Ma oggi mi sento più ottimista e ho voluto l'incontro con il nuovo assessore per consegnarle la nostra piattaforma per Librino - racconta Sara Fagone, infaticabile suscitarice di queste energie sociali - Non gliel'abbiamo data per discuterne, ma per cominciare a tracciare le modalità per mettere in atto le proposte contenute nel documento. Questo anche per affermare con più forza l'idea di una politica partecipata, e che ogni cambiamento o decisione debba essere condivisa con gli abitanti. All'incontro sono intervenute un sacco di persone e questo ci dà speranza perché le cose cambino».

Il tesoro non troppo nascosto di Librino è quello della sua gente. Il suo futuro sta in questo: nell'effervescenza con cui scuole, associazioni, sindacati e volontari organizzano occasioni di incontro e vita comune che convivono orgogliosamente con il degrado sperando però di sconfiggerlo.

La piattaforma per Librino è un documento interessante e complesso, elaborato da tanti in appassionate riunioni a tutte le ore rubate a impegni domestici e di lavoro. Presenta idee innovative per salvare ciò che del progetto di Kenzo Tange è salvabile, modificandolo laddove non è possibile. Le linee di intervento promosse riguardano interventi sul patrimonio edilizio e abitativo, la mobilità e le infrastrutture (studenti e lavoratori hanno enormi difficoltà a spostarsi verso Catania). E poi: i centri di aggregazione, i servizi pubblici, sociali e sanitari, la formazione e il lavoro, il commercio e l'artigianato (attività, queste, quasi inesistenti nel quartiere, nonostante il Piano di zona prevedesse proprio una specifica aerea artigianale) e l'ordine pubblico. Dall'assemblea pubblica con il nuovo assessore sono arrivate prime importanti disponibilità: «Abbiamo chiesto di separare i grandi progetti dalle piccole manutenzioni - conclude Fagone - Poi l'assessore ci ha garantito che aprirà una sede dell'assessorato direttamente nel quartiere, dove sarà lui stesso presente con una frequenza regolare. Ci siamo dati appuntamento per alcune visite guidate: le faremo conoscere meglio il quartiere, i suoi difetti e le potenzialità». Chissà, magari in uno di questi giri incontreranno anche Cettina.

Una città-satellite modello diventata un ghetto
Librino è un quartiere periferico a sud ovest della città di Catania, progettato intorno alla metà degli anni sessanta come città satellite modello. La progettazione venne affidata all'architetto giapponese Kenzo Tange, lo stesso che progetterà il Centro direzionale a Napoli. Attualmente conta circa 80 mila abitanti, contro i 60 mila inizialmente preventivati. La progettazione del quartiere fu prevista dal Piano Regolatore Generale di Luigi Piccinato, adottato nel 1964 e approvato nel 1969. La redazione del progetto fu affidata allo studio Tange nel 1970, e il progetto di quest'ultimo fu consegnato nel 1972 e reso esecutivo con un Piano di zona nel 1976. Esso prevedeva anche la realizzazione di alcune lingue di verde e un parco di 31 ettari. Librino, insomma, era stata pensata fin dall'inizio come una sorta di new town, collegata al centro da un asse viario. Ma i risultati furono altri.

Postilla
sono passati quarant'anni da quando il complesso di case popolari Pruitt-Igoe di Saint Louis, progettato non molto tempo prima da Minoru Yamasaki (architetto razionalista della medesima generazione di Kenzo Tange) veniva demolito a colpi di dinamite, demolizione diventata leggendaria con le riprese del documentario Koyaanisqatsi e le musiche di Philip Glass. Ma nel nostro paese la discussione sul valore sociale del progetto di città razionalista si è sempre arenata su due estremi: da un lato gli architetti che difendono in assoluto il valore formale e culturale di quei manufatti, dall'altro il rifiuto popolare di stampo passatista, che lega (anche logicamente) quelle forme al degrado umano e sociale a cui spesso si accompagnano. Non esiste una terza via? Forse questo articolo, di fatto separando inconsapevolmente i due aspetti spazio/società, la indica. Ma c'è ancora molta strada da fare (f.b.)

Per comprendere un fatto è necessario comprendere il suocontesto. Del contesto fa parte la storia. Anche discutere i prodottidell’edilizia residenziale pubblica fuori del loro contesto storico è unerrore. E’ quello che sostenni qualche anno fa, proprio su queste pagine, in uneddytoriale al quale rinvio (in calce vi trovate il collegamento a una ricca catella di scritti sulle periferie, nell'archivio del vecchio eddyburg). Un secondoerrore è pensare che la città sia fatta solo dagli architetti: che sia solonelle sue forme, nella composizione spaziale. La città è urbs, civitas, polis:è disegno dello spazio, è cultura diffusa e costumi condivisi, è politica eamministrazione. Questo vale perLibrino, come per Corviale a Roma e lo Zen a Palermo. Non so quale sia stato ilruolo di Kenzo Tange (che secondo me è un pessimo urbanista) a Catania: quelloche so è che ci sono state fasi della nostra storia (quelli che definisco “glianni della speranza”) nella quale i migliori urbanisti hanno sperato che quellaitaliana fosse, o stesse diventando, unasocietà migliore migliore di quella che cominciava a diventare. Il nodo è sempre quello: per qualiresponsabilità il vento è girato, da noi e nel mondo, e al ventennio dellasperanza è succeduta la lunga fase della degradazione? Se si ragiona con un po’ d’attenzione su questa domanda si scopre che le responsabilità sono molto ampiamentedistribuite. (es)

Una sacrosanta richiesta di maggiore attenzione e investimenti per un modo di trasporto spaventosamente penalizzato sul versante della sicurezza. Corriere della Sera Milano, 26 luglio 2013 (f.b.)

È successo ancora. L'altra notte un ciclista settantenne è stato travolto e ucciso sul colpo da un'automobile in viale Monza. Sembra che stesse attraversando, esattamente come aveva fatto Beatrice Papetti, la sedicenne di Gorgonzola rimasta vittima, poco più di due settimane fa, di un pirata della strada, sulle strisce pedonali. Si dirà adesso che i passaggi pedonali sono, appunto, riservati ai pedoni, esattamente come i marciapiedi. E si ripeterà anche che i ciclisti — ormai più o meno famigerati, stando alle accuse convergenti di chi va a piedi e di chi va in automobile — non rispettano niente e nessuno, che passano con il rosso, che vanno in contromano, che di notte non hanno luci e che, in sovrappiù, sono anche maleducati.

Tutto vero, ma intanto sempre più si rivelano anello debole della catena del traffico, addirittura più debole dei pedoni, in quanto solo una minoranza osa salire sui salvifici marciapiedi mentre la maggioranza resta allo sbaraglio in strada. Anello debole che soccombe: non a caso ogni giorno in Italia un ciclista perde la vita e quaranta finiscono feriti in ospedale; e la Lombardia si segnala, assieme all'Emilia Romagna e al Veneto — regioni dove per antica tradizione circolano più biciclette — per il maggior numero di vittime.

Che saranno mai, si può pensare, trecentocinquanta ciclisti su un totale di circa seimila morti all'anno per incidenti stradali? Sono, invece, infinitamente troppi: calcolando come valore medio 1, il rischio di mortalità per loro è, infatti, il 2,18, il più alto in assoluto: per i motociclisti è l'1,96, per gli automobilisti lo 0,78 e per i camionisti lo 0,67. E, tanto per aggiungere qualche dettaglio al triste catalogo, si contano più vittime tra uomini e donne sopra i sessantacinque e tra i ragazzini che hanno età compresa fra i nove e i quattordici anni.

Cha fare allora? Che si diano multe a chi pedala contromano, a chi passa con il rosso, a chi al buio non ha luci adeguate, ma che si costruiscano piste ciclabili, possibilmente protette da un cordolo o, in alternativa, che si permetta alle biciclette di salire sui marciapiedi, almeno quelli più larghi. Resterà il problema della maleducazione, della pretesa dei ciclisti, in quanto convinti di essere «virtuosi», di avere più diritti degli altri, ma se ci fosse una legge che proibisce la villania, metà dei cittadini si ritroverebbe, probabilmente, multata, pregiudicata. Quando l'anno scorso una giornalista londinese venne travolta e uccisa da un camion mentre andava in redazione in bicicletta, il suo giornale, ilTimes, lanciò una campagna di sensibilizzazione internazionale per rendere le città più sicure per i ciclisti, che ebbe una certa risonanza anche in Italia, sebbene delle urgenze segnalate dal quotidiano inglese si fosse da noi preso in considerazione praticamente soltanto l'obbligo del casco, del quale, comunque, poi non si è più parlato. Sarà una piccola cosa, per lo più, è vero, detestata dalle signore, però qualche vita di ciclista la potrebbe forse salvare.

Una onesta e persino lucida per certi versi immagine del rapporto fra territorio, sistema socioeconomico, e automobile: la confusione impera, insieme ai rischi. La Repubblica, 22 luglio 2013, postilla (f.b.)

L’auto stavolta è davvero di fronte a un bivio: cambiare o sparire. Dalle nostre parti i problemi sono tanti, i soldi pochi e i mercati saturi. In Italia, il paese più colpito dalla crisi di vendite, c’è una densità automobilistica tra le più alte del mondo (61 ogni 100 abitanti). Così come c’è il carburante più costoso del pianeta, le assicurazioni più care e una quantità di tasse sulle vetture che non hanno uguali in nessun altra parte del vecchio continente. Poi, c’è una certa disaffezione all’automobile così come attualmente concepita messa nel mirino di molti sindaci convinti (spesso a ragione) di dover trovare sempre nuove misure per ridurne l’uso nelle loro città. Purtroppo, però, qualcuno ragiona come fosse il sindaco di una cittadina del nord Europa dove girare in bicicletta è facile e sicuro perché ci sono le piste ciclabili oppure pensa di essere a Londra o Parigi dove il trasporto pubblico funziona, le metropolitane collegano ogni angolo della città e le automobili in giro sono diminuite non per la colpa della crisi ma perché c’è una reale e utile alternativa al loro uso. Ma in Italia si va avanti (anzi indietro) diversamente, facendo finta di non vedere un problema ormai enorme e dalla cui soluzione passa il futuro della mobilità a quattro ruote. Insomma, al momento la sensazione è che ci siano poche idee e per di più confuse.

Gli appelli a moderare o cambiare la tassazione, per esempio, finiscono nel vuoto e spesso diventano patetici. Nascono apposite associazioni per lanciarne di nuovi. E non si sa per quali motivi e con che prospettive dato che quelle istituzionali (Unrae, Anfia) ben più grandi e potenti stanno lentamente scivolando nel dimenticatoio, sempre più incapaci di difendere il settore dell’automobile.

C’è una grande confusione anche sulla politica energetica. In mezza Europa, soprattutto quella che conta, esistono programmi di incentivi ecologici, da noi, invece, ancora niente. Peggio c’è addirittura una frammentazione di vantaggi (o svantaggi). A Roma, per esempio le auto ibride non pagano il parcheggio in fascia blu al contrario di Milano dove entrano gratuitamente nella zona C. Una norma unica no? E non parliamo dell’auto elettrica di cui tutti tessono ogni lode. Zero incentivi all’acquisto e praticamente zero colonnine per la ricarica. Mancano le infrastrutture perché l’auto a emissioni zero possa crescere (anzi, in Italia è il caso di dire “nascere”). Così tra cambiare o sparire, almeno in questo caso, è davvero più facile che sparisca. Purtroppo.

Postilla

Con buona pace degli onesti ed entusiasti militanti del ciclismo terzo millennio, e dei loro benintenzionati guru in sedicesimo da social network, la mobilità ha ancora a che vedere col muoversi, e muoversi significa andare da un posto all'altro per motivi che di solito hanno poco a che vedere con l'immagine, ma c'entrano col lavoro, i servizi, fatti propri difficilmente riconducibili al sostegno di grandi principi. Ergo con l'auto privata, o con l'auto in generale, con il sistema territoriale e socioeconomico che si tira appresso, dobbiamo fare i conti: magari invocare davvero un “nuovo paradigma”, ma non individuarlo nell'allegra pedalata fino al bar dell'angolo, se quel bar (che magari è il posto di lavoro per mantenersi) sta a un angolo distante trenta chilometri da casa e in cima a una montagna innevata. Esagerazioni a parte, come ho provato già a esemplificare in qualche articolo sulla demotorizzazione, abbandonare il comparto dell'auto, e tutto ciò che da esso dipende, al proprio destino, pensando ad altro, non sta né in cielo, né in terra, né soprattutto nella logica di un pensiero progressista e propositivo (f.b.)

Nuovi inequivocabili segnali della crisi e dei cambiamenti che induce negli stili di vita. Si riuscirà per una volta a leggerli in modo propositivo? La Repubblica, 19 luglio 2013, postilla (f.b.)

A Roma, secondo gli ultimi dati dell’Aci, lo scorso anno le auto circolanti sono diminuite di circa settantamila unità (da 1.937.783 a 1.867.520), ma altrettanto è accaduto a Milano, Torino, Genova, Bologna, Napoli e Palermo. È scesa ulteriormente anche la percorrenza media degli italiani: dai 10.900 km del 2011 ai 9.500 dell’anno scorso. Prime e vistose conseguenze di una crisi dell’auto senza precedenti, che negli ultimi cinque anni in Italia ha dimezzato le vendite, passate da 2,5 milioni del 2007 a un milione e 400 mila del 2012 con una previsione di una perdita di altre 150 mila vetture per l’anno in corso.

Uno degli effetti di tutto questo è, appunto, il primo calo in assoluto del parco circolante a cui si aggiunge una diminuzione del traffico dovuta sì alla crisi, ma anche alle varie politiche comunali che sull’esempio di Parigi dove il traffico dal 2001 ad oggi è diminuito di un terzo e solo un cittadino su due possiede un’auto, si stanno moltiplicando le zone a traffico limitato, quelle pedonali e, nello stesso tempo, alzando i pedaggi dei parcheggi, delle fasce blu e il costo delle multe.

Per tornare ai numeri, secondo l’indagine annuale Inrix Traffic Scorecard (agenzia internazionale che visualizza la congestione stradale come indicatore economico del Paese) il traffico in Italia è crollato del 34%. Molto al di sopra di quanto registrato in Europa, dove il calo è stato mediamente del 18%. Non solo. I modelli di traffico di quest’anno procedono con un trend a spiraleverso il basso, con il primo trimestre che mostra un’ulteriore diminuzione di 23 punti percentuali con una conseguente riduzione delle ore passate in macchina: 27 in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Il che significa che, escludendo Spagna e Portogallo, il nostro Paese ha registrato la maggiore diminuzione del traffico rispetto a tutto il resto dell’Europa.

AlixPartners, altra grande agenzia di consulenza internazionale, ha spiegato il fenomeno della demotorizzazione italiana con tre fattori: la crescita dei costi di gestione di un’auto, l’aumento della pressione fiscale e la riduzione della disponibilità economica delle famiglie causata dalla recessione. «Questi tre fattori — sostiene un loro studio — hanno determinato un atteggiamento meno positivo verso l’auto che si è tradotto nel rinvio della sua sostituzione e, quindi, nel crollo delle vendite ». Ma non solo. C’è anche una crescente disaffezione nei confronti dell’automobile, soprattutto da parte dei giovani (il numero delle patenti rilasciate nel 2012 è sceso del 19,3 per cento): sono sempre meno quelli che se la possono permettere e sempre più quellipronti a sostituirla con altri beni di consumo come computer, smartphone e tecnologie che rendono più accessibile la comunicazione e inutili molti spostamenti.

Così le città si svuotano, almeno dalle automobili, e la mobilità individuale cambia pelle. Il sindaco di Roma, Ignazio Marino, che sta per avviare la pedonalizzazione dei Fori imperiali, ha dichiarato che proverà a togliere dalla capitale nei prossimi cinque anni il 20per cento delle auto. «Convincerò i romani a usare i mezzi pubblici rendendoli più efficienti ». Lui, intanto, preferisce girare in bicicletta, mezzo che, a proposito, sempre quest’anno in Italia ha superato nelle vendite proprio le automobili. Non accadeva dal 1953. Un altro segno della demotorizzazione?

Postilla
Probabilmente, volendo, qualche curioso che si andasse a spulciare vecchi numeri di quotidiani (all'epoca Repubblica non era stato ancora inventato) dei primi '70, troverebbe considerazioni simili, al netto di linguaggio, contesto, riferimenti sociali specifici. E cresce il vago fastidio perché ancora una volta pare non si colga l'aspetto di occasione positiva, oltre quello evidentemente negativo segnalato dal calo di consumi anche per un bene durevole e strumentale come l'auto. L'unica traccia davvero lasciata dalle lontane ere delle prime domeniche a piedi per la crisi petrolifera, è lo sdoganamento della bici elegante, di tendenza, non segno di povertà. Il resto, dalle ricerche sul risparmio energetico, agli stili di vita che oggi si chiamano sostenibili, sparito nel nulla, almeno sul versante dei mercati e della consapevolezza di massa. Ancora oggi, certi approcci alla mobilità urbana continuano tranquillamente a colpi di opere, progetti, interventi puntuali senza alcuna strategia di fondo, magari con investimenti corposi (metropolitane in sotterranea ad esempio) giusto per alleviare il traffico privato, e magari lasciar spazio a nuove auto. Non è il caso di riflettere anche sulla storia recente, e cambiar marcia? (f.b.)

A proposito di un aspetto rilevantissimo del consumo di suolo a livello planetario, che incide pesantemente anche sulle condizioni di vita della piccola provincia Italia. dalla risorta rivista Ecologia politica, 9 luglio 2013

Nel Rapporto di analisi di OXFAM del 22 settembre 2011 è stato accertato che, soltanto nei paesi in via di sviluppo, dal 2001 circa 227 milioni di ettari di terra (un’area grande quanto l’Europa occidentale) sono stati venduti o affittati a investitori internazionali e la maggior parte di queste acquisizioni è avvenuta negli ultimi due anni.

Questa “caccia alla terra” oltre confine, ad una terra che dati incontrovertibili denunciano come sempre più scarsa ed a breve insufficiente a soddisfare la domanda crescente di cibo, è stata interpretata come una nuova fase della crisi alimentare del 2008 ed è stata anche rappresentata come la terza onda della delocalizzazione, che ha riguardato prima il settore manifatturiero nel 1980 e poi quello dell’informazione tecnologica nel 1990.

Il fenomeno è, senz’altro, l’espressione più manifesta del nuovo (o rinnovato) interesse del mondo finanziario nei confronti dell’agricoltura, che ha contribuito, secondo la FAO, a causare l’impennata dei prezzi di grano, riso e soia, che tra il 2006 e il 2008 hanno toccato livelli molto elevati; tale evento di portata mondiale , e cioè la crisi economica-agricola-ambientale-energetica, ha spinto poi alcuni paesi importatori di prodotti alimentari ad assicurarsi la terra dove costa poco o nulla, al fine di coltivare il necessario a nutrire la propria popolazione. Come è stato efficacemente sintetizzato, governi nazionali e investitori privati di paesi “finance-rich, resource-poor” guardano ai paesi “finance-poor, resource-rich” per assicurarsi cibo ed energia per i bisogni interni futuri.

Tuttavia, la concentrazione della terra coltivabile nelle mani di pochi soggetti, accompagnata dal cambiamento di destinazione d’uso, sta colpendo anche i paesi sviluppati con conseguenze rilevanti per l’agricoltura locale e tipica e, più in generale, per il diritto a produrre degli agricoltori estromessi dai processi produttivi tradizionali per consentire un utilizzo “diverso” delle aree agricole. Le stesse aree agricole dell’Europa, come risulta da una recente ed approfondita analisi di “Hands off the land”, sono oggetto di interesse da parte di privati speculatori internazionali.

Si parla, al riguardo, di Land Grabbing, un fenomeno recente ed ormai diffuso su scala planetaria che contraddistingue forme di accaparramento, appropriazione e concentrazione della terra coltivabile sita in territori extra-nazionali, operate da soggetti privati e pubblici, al fine principale (ma non esclusivo) di produrre cibo destinato all’esportazione. Detto fenomeno è altresì descritto come una forma di usurpazione o di vero e proprio saccheggio delle terre e, segnatamente, della rendita discendente dal profitto che si trae dal fatto di acquisire o controllare per un lungo periodo superfici agricole straniere.

Il Land Grabbing assume, così, i connotati di una nuova ed inedita forma di colonialismo, non necessariamente plasmata sull’archetipo “paesi ricchi contro paesi poveri” essendo presente anche un asse sud-sud, composto da aziende di paesi emergenti (India, Cina, Brasile, Sud Africa) verso paesi in via di sviluppo. Si evidenzia, cioè, un conflitto inedito ed al contempo drammatico tra due esigenze fondamentali per i popoli del pianeta: il diritto al cibo dei paesi ospiti e la ricerca della sicurezza alimentare (ma anche energetica) dei paesi stranieri.

Jacques Diouf, quando rivestiva il ruolo di Direttore generale della FAO, aveva già affermato profeticamente, all’epoca di uno dei primi tentativi di Land Grabbing (il caso Daewoo, in Madagascar) : “Il rischio è che si crei un patto neocolonialista per la fornitura di materie prime senza valore aggiunto da parte dei paesi produttori, a condizioni inaccettabili per i lavoratori agricoli”. Lo scenario che si propone non è nuovo di per sé; ciò che cambia è la crescente pressione su una risorsa naturale dalla quale dipende la sicurezza alimentare di milioni di persone povere.

Il fenomeno in esame viene, tuttavia, interpretato dagli osservatori internazionali anche sotto una luce diversa. Per la World Bank, così come anche per alcuni settori interni alla FAO, le sopradette modalità di appropriazione della terra sono considerate alla stregua di proficue forme di investimento nei paesi in via di sviluppo, in grado di apportare risorse finanziarie in realtà geografiche deprivate economicamente ma ricche di risorse naturali, quali la terra, l’acqua, le foreste, etc. In linea con tale orientamento, si trovano anche diversi paesi poveri che rifiutano il concetto di accaparramento della terra e sostengono la necessità di attirare valuta straniera per sostenere gli sforzi per lo sviluppo interno.

Secondo questa prospettiva, la cessione delle terre nelle mani di investitori stranieri agevolerebbe il processo di crescita e modernizzazione del paese beneficiario . Si è infatti sostenuto che gli investimenti sulla terra possono sì colpire il diritto al cibo ed altri diritti umani fondamentali nei paesi in via di sviluppo sotto capitalizzati ma essi possono, altresì, risultare vantaggiosi se gli investitori si impegnano a creare delle utilità per le popolazioni interessate quali: programmi di educazione, servizi sociali per la cura della salute e la costruzione di alloggi, realizzazione di infrastrutture (strade, ponti, elettricità e reti di acqua potabile). Detti investimenti, collaterali a quello principale sulla terra, possono direttamente ed indirettamente generare lavoro e contribuire all’economia del paese ed alle sue infrastrutture.

Tale visione che induce a giustificare, per alcuni aspetti, l’attività di sottrazione delle aree coltivabili ai detentori locali, può essere, in realtà, facilmente smentita guardando ad alcune esperienze di Land Grabbing che si stanno realizzando in paesi altamente industrializzati, quali il Canada, ove la richiesta di superfici coltivabili è molto aumentata in questi ultimi anni soprattutto da parte della Cina. I vasti territori della regione canadese sono assai appetibili per molti paesi esteri in quanto poco costosi ed abbondanti di risorse naturali (terre disabitate, acqua, foreste, ect.) così che essi vengono ceduti a società private oppure vengono inclusi nei fondi pensione, una forma di investimento che guarda con crescente interesse alle commodities e, tra queste, in modo privilegiato alle aree agricole. Tali fondi sono gestiti prevalentemente da grandi imprese finanziarie ben liete di inserire nel loro portafoglio degli investimenti sia la terra che le imprese agricole.

Anche lo speciale Rapporteur presso l’ONU per il diritto al cibo, Olivier De Shutter – e con lui molti settori dei movimenti sociali e delle organizzazioni della società civile – ha criticato il tentativo, sostenuto in particolare dalla World Bank, di rendere più “responsabili” (RAI ovvero Responsible Agricultural Investment) questi investimenti di vasta scala sulle aree agricole produttive perché una volta che la terra viene venduta o concessa in affitto agli investitori stranieri, costoro punteranno ad uno sfruttamento di tipo intensivo giungendo, così, a sottrarre alle comunità locali di agricoltori non solo le terre ma anche il loro potere di scegliere quale tipo di coltivazioni realizzare e, conseguentemente, in che modo affrontare il problema della fame.

In conclusione, secondo il panorama delle opinioni dominanti, l’appropriazione di terreni agricoli al di fuori dei confini domestici, può rientrare per un verso nel noto paradigma win-win ovvero in una forma virtuosa di investimento che, alla fine, non scontenta o danneggia alcuno dei soggetti coinvolti in quanto risulterebbero tutti vincitori: le nazioni insicure, in termini di approvvigionamento alimentare, possono accrescere il loro accesso alle risorse agricole beneficiando, nello stesso tempo, le nazioni ospiti con investimenti in capitale umano e infrastrutture agricole e accrescendone le opportunità di accesso ai mercati, occupazionali e di sviluppo delle conoscenze.

Per altro verso si stigmatizzano gli effetti deleteri di questa pratica di sottrazione delle terre, diffusa generalmente ma non esclusivamente nei paesi poveri come si diceva poc’anzi, che assume i connotati del neo-colonialismo.

In entrambi i casi ciò che viene a mancare è proprio il presupposto fondamentale del riconoscimento del bene terra come risorsa comune appartenente anche alle collettività locali che non sono poste nella condizione di esprimere il loro consenso libero, preventivo ed informato, rispetto agli interventi stranieri sulle loro terre e di partecipare ai processi di utilizzazione delle stesse.

Riferimenti
Su eddyburg vedi, a proposito della rivista Ecologia politica l'articolo di Giorgio Nebbia, Resurrezione utile, e a propositp del Land grabbing
© 2025 Eddyburg