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Un governo fantoccio, un parlamento che non esiste, un insieme di istituzioni che gli elettori hanno clamorosamente bocciato continuano nell'errore come delle ruspe impazzite. Il manifesto, 20 dicembre 2016 (p.d.)

Oggi la Camera è impegnata a ratificare gli accordi intercorsi nel 2015 e 2016 tra i governi italiano e francese per l’avvio dei lavori della sezione transfrontaliera della Nuova linea ferroviaria Torino-Lione.

C’è da non crederci.

Il Paese è in balia di un Governo caricaturale, la crisi economica e le disuguaglianze aumentano (è di pochi giorni fa il rapporto di Eurostat che colloca l’Italia all’ultimo posto in Europa occidentale quanto a entità di salari e stipendi), le «grandi opere» bruciano le risorse necessarie al risanamento di un territorio devastato e incapace di assorbire piogge appena più intense del normale, la credibilità della politica è ai minimi storici e, a fronte di ciò, un Parlamento non rappresentativo (perché eletto con una legge incostituzionale) si accinge ad approvare ulteriori spese insostenibili, inutili e dannose.

Superfluo dirlo: quando gli interessi economici e finanziari premono, non c’è «navetta» né «bicameralismo paritario» che rallenti i lavori parlamentari. E altrettanto superfluo è sottolineare che il partito del cemento e i suoi sponsor (Repubblica su tutti) si scatenano in pressioni scomposte e annunciano trionfanti che a breve «non resterà che avviare i bandi di gara per far partire le ruspe e le frese che scaveranno il tunnel di base più lungo del mondo».

Ovviamente non è così: l’effettivo inizio dei lavori richiederà anni e gli accordi politici sono sempre suscettibili di modifiche e cancellazioni, soprattutto in caso di persistenza della crisi economica e di cambiamento del quadro politico (in Italia come in Francia, già oggi assai tiepida sull’opera). Ma non c’è dubbio che la ratifica degli accordi segnerebbe un nuovo passo verso quella che appare sempre più la versione ferroviaria della Salerno-Reggio Calabria. Non è dunque inutile, almeno a futura memoria, ricordare le ragioni che ostano alla ratifica e che consiglierebbero alla Camera, quantomeno, una qualche prudenza.

Ci sono ragioni generali, note da tempo, che riguardano la tutela dell’ambiente e della salute della popolazione, l’inutilità della nuova linea, lo spreco di risorse in periodo di gravissima crisi economica, l’incertezza sui costi complessivi, l’irrazionalità dell’assunzione da parte dell’Italia della maggior parte delle spese per la tratta transfrontaliera (pur incidente per 45 km in territorio francese e solo per 12 km in territorio italiano), l’aggiramento di fatto della normativa antimafia nella aggiudicazione degli appalti (nonostante un escamotage finale del tutto inidoneo a modificare il quadro dei trattati) e molto altro ancora.

Basterebbe, ovviamente. E alla grande. Ma ci sono anche ragioni specifiche riguardanti la legittimità stessa della ratifica.

Due su tutte.

Anzitutto c’è, nei trattati di cui si discute, una violazione dell’accordo intergovernativo Italia-Francia del 29 gennaio 2001, costituente l’atto normativo fondamentale relativo alla Nuova linea ferroviaria, il cui articolo 1 prevede esplicitamente che la realizzazione dell’opera è subordinata alla imminente saturazione della linea storica. Orbene, tale condizione è irrealizzata e ben lungi dal realizzarsi posto che la linea esistente è attualmente utilizzata al 16 per cento della sua capacità e l’entità delle merci trasportate è in costante calo (attestandosi oggi su un terzo di quella raggiunta nel 1997).

In secondo luogo, c’è una violazione, altrettanto clamorosa, della convenzione di Aarhus del 1998, sottoscritta dal nostro Paese, concernente, tra l’altro, la «partecipazione del pubblico ai processi decisionali in materia ambientale». L’articolo 6 della Convenzione vincola, infatti, gli Stati contraenti a inserire, nell’iter procedimentale in materia ambientale, «termini ragionevoli, in modo da prevedere un margine di tempo sufficiente per informare il pubblico e consentirgli di prepararsi e di partecipare effettivamente», e a far sì che «la partecipazione del pubblico avvenga in una fase iniziale, quando tutte le alternative sono ancora praticabili e tale partecipazione può avere un’influenza effettiva». Orbene, nulla di ciò è avvenuto nella fase che ha preceduto i trattati, come accertato, tra l’altro, nella sentenza 8 novembre 2015 del Tribunale permanente dei popoli.

Basta ricordare, tra l’altro, che l’Osservatorio tecnico sulla Torino-Lione, istituito dal governo italiano come «luogo di confronto» di tutte le realtà interessate sui necessari «approfondimenti di carattere ambientale, sanitario ed economico» è, a partire dal gennaio 2010, limitato ai soli «comuni che dichiarino esplicitamente la volontà di partecipare alla miglior realizzazione dell’opera» (sic!), con la conseguenza che non ne fa parte la stragrande maggioranza degli enti locali della Val Susa e che, da ultimo, ne è uscito anche il comune di Torino.

Dunque la ratifica dei trattati in discussione formalizzerebbe, ancora una volta, l’esclusione, finanche in termini normativi, della partecipazione prevista dalla convenzione di Aarhus. In una situazione siffatta un Parlamento rispettoso delle regole e del comune «buon senso» si concederebbe, almeno, una pausa di riflessione. Non accadrà. E ciò la dice lunga – se ancora ce ne fosse bisogno – sullo stato delle nostre istituzioni e sulla loro distanza dai bisogni e dalle richieste dei cittadini.

Qualche decennio fa si svelò la strategia, definita "induzione del consumo", volta a convincere i consumatori a comprare determinati prodotti. Ora la si applica per accrescere il consumo di suolo. Lo racconta il gustoso articolo dello studioso americano. La città conquistatrice online, 17 dicembre 2016

Ci sono una miriade di comportamenti, consumi, orientamenti, atteggiamenti, fortemente cercati, agognati, perché paiono far bene. E invece, lo si scopre nell’immediato, appena messi in atto, fanno malissimo a sé e agli altri. Senza scivolare necessariamente dentro a questioni estreme, come il consumo di sostanze varie che danno dipendenza, basta pensare a cose assai più innocenti come le scelte alimentari istintive che «danno soddisfazione immediata», per capire a cosa ci si riferisce. L’atteggiamento, è chiaramente infantile: qualcosa piace, conforta, c’è addirittura un intero contesto che rafforza quell’orientamento, e puntualmente ci si casca. Il problema comincia però a manifestarsi nei suoi risvolti negativi quasi da subito, vuoi coi valori ematici, vuoi con vere e proprie patologie, vuoi in altri infiniti modi che vanno dal guaio estetico, al non entrare più in qualche taglia di abiti, alle spese dirette e indirette per procurarsi quella in genere rinunciabile roba. Vale per la bulimia da gelato al pistacchio acquistabile solo a trenta chilometri di distanza, ma vale anche per lo stile dell’abitare e le relazioni socio-economiche che lo inducono e che induce.
Da varie generazioni imperversa quell’ideologia, sostenuta da vere e proprie politiche pubbliche, secondo cui esiste un territorio infinito a disposizione del genere umano, dentro cui il nucleo familiare ha praticamente il dovere di ritagliarsi una fettina di residenza privata. Qualunque altra soluzione, dalla vita da single, alla socialità urbana eccetera, è da considerarsi eccezione o passaggio momentaneo. A quanto pare non se ne esce, anche di fronte alle peggiori patologie, sociali e ambientali.

Il mondo ritagliato per comodi segmenti di mercato

Quella strumentale «contraddizione città-campagna» tutta novecentesca focalizzata sull’insediamento suburbano e automobilistico, anche oltre certe indifendibili (indifendibili razionalmente) ideologie un po’ estreme, pare comunque aver lasciato in pianta stabile la liceità e quasi naturalità delle due forme: concentrata e complessa, segregata e dispersa, che in fondo fanno tanto bene al rapporto fra domanda e offerta, come il gelato al pistacchio. Se c’è la domanda ci sarà pur sempre una ragione profonda, e il cliente va accontentato, ci spiegano pur raffinatamente i bottegai del settore. Non vorremo per caso buttare a mare così alla leggera, decenni, generazioni addirittura, di prezioso know-how accumulato nell’offerta di prodotti sempre più avanzati di residenza, servizi, forme di convivenza? E come quando nelle emergenze per l’inquinamento atmosferico, comincia l’infinito battibecco su chi sia il colpevole principale (le industrie? i trasporti? il riscaldamento domestico?), allo stesso modo anche di fronte alla constatazione degli innegabili impatti ambientali e sociali del suburbio, si finisce per rifugiarsi nel comodo margine del dubbio residuo, magari in attesa della pur sempre possibile «soluzione tecnologica». Sottolineando, addirittura, che lavorare su entrambi i fronti dell’urbanizzazione, riqualificando di qua ed espandendo di là, si finisce solo per migliorare la qualità dell’abitare. Mentre invece si tratta solo dell’ennesimo trucchetto per «non allarmare l’investitore».

Pieni e vuoti

Distogliendo invece risorse, economiche così come di aspettativa, a tutte le forme di retrofitting, generale e particolare, attivabili anche a breve termine, dall’edilizia in senso proprio, all’impiantistica, e in termini allargati alla mobilità, all’organizzazione dei servizi, alla produzione energetica e al ciclo consumo-rifiuti. Favorendo quelle campagne di per sé piuttosto odiose a ben guardare, dove si coccolano i cosiddetti Millennials finché restano giovani, produttivi, adattabili, e in fondo adeguati ad esprimere le loro preferenze per una adolescenza prolungata dentro lo «studentato di area vasta» messo a loro disposizione dagli immobiliaristi. Perché questo, sono, i quartierini gentrificati dei mini appartamenti costosissimi, degli ambienti di coworking lussuosi e delle strade per lo shopping e il tempo libero fruibili comodamente a piedi o in bicicletta. Ma appena il corpo e lo spirito iniziano a trovarsi un po’ a disagio, dentro quel college improprio fatto città, come in un film di fantascienza sociologica in fronte al Millennial si accende la lucetta lampeggiante del mercato: è ora di traslocare, e di ripercorrere rispettosi le orme dei genitori. Altri giovincelli prenderanno il suo posto nel quartierino spartano trendy, mentre per lui/lei aspettano nuovi di zecca classici casa con giardino cul-de-sac, magari con la promessa dell’auto senza pilota a brevissimo termine, che scorazzerà tutta la famiglia in giro, manco continuasse il cartone animato cominciato all’asilo. Pare un po’ troppo acida questa presentazione, ma il tono «ragionevole» e un po’ paternalistico dell’ultimo rapporto Urban Land Institute sul mercato edilizio suburbano decisamente la provoca. Verificare per credere.

Riferimenti:
Urban Land Institute, Housing in the evolving American suburb, Washington D.C. dicembre 2016

«Lombardia e Sassonia a confronto dove a differenza della Lombardia sono state introdotte non solo misure quantitative per la limitazione del consumo di suolo, ma sono stati indicati degli indirizzi programmatici, volti alla pianificazione di territori resilienti adatti a fronteggiare, gli impatti di un clima sempre più in mutamento». ArcipelagoMilano n.40, 6 dicembre (m.c.g.)

Nel dibattito lombardo (e italiano) il tema del consumo di suolo è spesso ridotto a un asettico confronto di percentuali di superficie urbanizzata e di metri quadrati di nuove costruzioni. Numeri che fanno riferimento a banche dati e metodi di rilevamento diversi e che quindi generano problemi non solo di comparazione ma anche di comprensione del fenomeno. Cosa produce “consumo di suolo”? Solo le case e le strade oppure anche le aree verdi attrezzate, oppure le strade sovracomunali sono escluse perché sono da considerare servizi pubblici? E se in Italia il suolo urbanizzato è pari al 7% (circa) del territorio, è così reale il rischio di cementificazione? Queste le domande un po’ fuorvianti ma più comuni.

Se ridotto a numeri e percentuali astratte si rischia di non comprendere in pieno questo tema, per il quale è necessario una prospettiva differente, che lo riconduca all’interno dei confini di un dibattito sull’uso del suolo inteso come risposta spaziale a strategie di sviluppo economico e sociale.

Neppure Regione Lombardia, con la sua legge 31/2014, Disposizioni per la riduzione del consumo di suolo e per la riqualificazione del suolo degradato (che proprio in questi giorni compie due anni) è riuscita ad andare oltre a un approccio quasi esclusivamente quantitativo. Infatti, se il processo di determinazione delle soglie di riduzione del consumo di suolo – dalla scala regionale a quella (ex)provinciale, fino a quella comunale – è iniziato, seppure in ritardo, con la revisione del Piano Territoriale Regionale, nulla è stato fatto per quelle misure che dovevano promuovere azioni di rigenerazione e che, nel testo normativo, venivano demandate a successivi atti mai emanati.

Per vedere un approccio alternativo però basta fare poca strada. La Germania è stata tra i primi Paesi ad affrontare il tema del consumo di suolo già dagli anni Ottanta e poi, con un ministero all’ambiente guidato da Angela Merkel, nel 1998, ha elaborato per la prima volta un obiettivo quantitativo di riduzione dell’occupazione di suolo a fini urbani (la soglia fu fissata a 30 ettari al giorno, pari a un quarto della tendenza in atto nel 2000) integrato poi, nei diversi Länder, con misure di compensazione ambientale, politiche fiscali incentivanti per il recupero e strumenti tecnici ed economici mirati a facilitare le bonifiche delle aree dismesse e la loro riqualificazione.

In particolare, la Sassonia, dopo la pesante inondazione che ha colpito molti quartieri di Dresda nel 2002, ha adottato un modello mirato alla “compensazione biologica” secondo il quale ad ogni intervento di impermeabilizzazione deve corrisponderne uno di de-impermeabilizzazione di pari superficie. La città di Dresda, in particolare, ha poi adottato un “Piano di adattamento ai cambiamenti climatici” che prevede, da un lato, un piano di azioni per la regimazione capillare delle acque superficiali, introducendo zone tampone così da ridurre la velocità di scorrimento delle acque in ambito urbano, e, dall’altro, l’obbligo, per chi vuole costruire, di rendere nuovamente permeabile un’area dismessa.

Il sistema di Dresda è interessante non solo dal punto di vista strettamente ambientale ma perché, nel solco della tradizione urbanistica tedesca, ha come obiettivo anche l’equità e per farlo agisce sulla rendita fondiaria. Il Piano, infatti, contiene una lista delle aree da de-impermeabilizzare, e la scelta dipende non solo dalla loro superficie ma anche dal valore del terreno da edificare: se si costruisce in aree di pregio (e quindi si realizzeranno immobili di valore economico elevato) l’area da recuperare dovrà essere più ampia. Ultimo dettaglio interessante: questo obbligo non è derogabile né monetizzabile.

Torniamo in Lombardia, regione peraltro caratterizzata da un’elevata vulnerabilità idrogeologica anche a causa di processi di urbanizzazione e di conurbazione che hanno generato, nel corso del tempo, ingente consumo di suolo e impermeabilizzazione delle superfici drenanti. Qui, se alcune norme recenti introducono principi condivisibili e innovativi (non solo riduzione del consumo di suolo ma anche invarianza idraulica e drenaggio urbano sostenibile con la L.R. 4/2016 e azioni di adattamento e di mitigazione con la 2”Strategia regionale di adattamento ai cambiamenti climatici” del 2014), non si può non rilevare l’assenza di una visione complessiva e unitaria sui temi territoriali.

Sembra che la debolezza politica dell’attuale maggioranza di centrodestra si traduca in una vaga e indefinita promessa di revisione della L.R. 12/2005 e nell’adozione di diverse norme che, in modo frammentario e quindi incoerente, introducono nuovi adempimenti in capo agli oltre 1500 Comuni lombardi senza però indicare indirizzi programmatici, di scala vasta, sulle reti ambientali, sulle reti infrastrutturali e sui sistemi insediativi, volti alla pianificazione di territori resilienti adatti a fronteggiare, nell’ottica della sostenibilità, gli impatti di un clima sempre più in mutamento.

Il maschio di quasi tutte le specie viventi, per attirare la femmina, riprodursi e provare a diffondere così il proprio patrimonio genetico... (segue)
Il maschio di quasi tutte le specie viventi, per attirare la femmina, riprodursi e provare a diffondere così il proprio patrimonio genetico, ostenta qualche forma simbolica di potenza. C'è chi gonfia piumaggi, chi si percuote il petto villoso, e chi come noialtri scimmie nude di epoca industriale, preferisce l'ostentazione paleotecnica della macchina: io ce l'ho più grossa di quell'altro, scegli me e vai sul sicuro. Si parla tanto di superamento della fase di sviluppo culturale meccanico-industriale, ma a quanto pare questi meccanismi sociali sono in qualche misura e modalità vivi e vegeti. Solo qualche giorno fa mi è capitato di fare due chiacchiere informali con la responsabile comunicazione di un'agenzia di car sharing, operante nel segmento di mercato più innovativo, che punta soprattutto sull'idea di sostenibilità, insomma a quelle cose di cui spesso leggiamo nei nuovi stili di vita dei millennials. E mi ha colpito ascoltare, proprio dal suo punto di vista, una frase che suonava più o meno: «Anche i nostri più convinti e affezionati clienti maschi, mi dicono che non andrebbero mai a prendere la fidanzata la sera con una delle nostre auto tanto prive di idea di potenza, in quei casi quasi sempre preferiscono un altro operatore». Il che, oltre a farmi un po' calare le speranze nel futuro prossimo dell'umanità intera, mi ha anche fatto capire il senso di tante cose altrimenti incomprensibili, nel mondo dell'auto in condivisione.

Per esempio il motivo per cui entrano in campo gestori di servizi altrimenti inspiegabili, senza tener presente quell'aspetto diciamo così sessuale, del gonfiare le piume meccaniche: auto più voluminose senza alcun riferimento al carico da trasportare, più costose sia per l'operatore che per la clientela, inutilmente più impattanti dal punto di vista ambientale, locale e non. Apparentemente sembrerebbero senza mercato, e invece non solo ce l'hanno, ma potrebbe essere addirittura prevalente: qualcuno che l'auto status symbol non ce l'ha, ma vuole lo stesso ostentarla a tempo parziale. Di tenore analogo a queste vaghe riflessioni, la notizia recente che dal 31 dicembre l'operatore Car2Go (quello con le Smart bianche presente anche in diverse città italiane) chiuderà il servizio a Minneapolis, dopo essere uscito da altri mercati locali, come Miami, San Diego, ma anche Londra. Più in generale, un articolo del periodico di settore Transportist si chiede se il car sharing abbia un futuro, visto che osservando i grafici si nota sul mercato nordamericano un picco di iscrizioni due anni fa, a cui segue un deciso calo. L'ipotesi, almeno una delle ipotesi, è che la pura ripresa economica dopo la recessione metta in dubbio tutti quei ragionamenti che si sono fatti sulla fine del modello proprietario, vuoi per motivi ambientali, vuoi per evoluzioni organizzative delle imprese, vuoi per innovazioni tecnologiche, in testa a tutte quella dell'auto senza pilota, per cui anche nell'Unione Europea di recente la Commissione sembra aver fissato il traguardo massimo del 2020, cioè dopodomani.

Foto F. Bottini

Insomma, invece della auspicata demotorizzazione (che va a braccetto, o andrebbe a braccetto, con altri processi virtuosi, dalla smaterializzazione alla ri-urbanizzazione degli stili di vita), il rischio è che ci si ritrovi con un settore auto, e tutto l'insieme degli operatori che danno forma all'ambiente e al territorio, assai fortemente intenzionato a non cambiare affatto modello. Diventerebbero realtà quelle ipotesi molto conservatrici di tanti «futurologi» che dalla stampa in questi anni ci hanno raccontato scenari da cartone animato dei Pronipoti, dove cambiano alcuni dettagli per lasciare identico il resto. La casetta suburbana, magari alimentata a energia solare, ma pur sempre la vecchia villetta, da cui ogni mattina esce l'auto pure elettrica del capofamiglia, rigorosamente in proprietà anche se senza pilota, che lo porterà all'ufficio rigorosamente in un posto diverso e lontano, consumando tempo, spazio, energia, per uno stile di comportamento che pareva e pare ancora privo di senso con le possibilità attuali, anche se caro a certi investitori. E tanti saluti alle aspettative suscitate dagli esordi del car sharing. Ma non può non tornare in mente, però, la vecchia vicenda dello Stereo8, a chi ne conserva qualche memoria, vicenda legata sia all'automobile che al mondo in cui si aggirava facendola da padrona.

La sigla si riferisce a un sistema di ascolto musicale comparso e presto tramontato in Italia a cavallo tra la fine degli anni '60 e i primi '70. Tra le tante cose che a quel tempo si stavano evolvendo, possiamo senza dubbio metterlo al centro, l'abitacolo dell'auto, e insieme quel ruolo di status symbol. Straordinaria ad esempio la memorabile scena del sesso in auto in La Classe Operaia va in Paradiso, di Elio Petri (1971), in cui il protagonista tornitore modello Lulù Massa, interpretato da Gian Maria Volontè, per sedurre la collega Adalgisa squaderna tutti gli attributi erotico-simbolici del caso, dal modello utilitaria ma trendy «che dopo due anni la guardo ancora», al piccolo bar nel cruscotto, alla musica e via dicendo. Il sesso in sé, insomma, all'epoca è poca cosa se lo paragoniamo a tutti i parafernali di contorno, di cui il mitico Stereo8 rappresenta la punta di diamante. Poi le cose si evolveranno diversamente, perché quel particolare tecnico sarà sostituito da un altro lievemente quanto fondamentalmente diverso, l'audiocassetta poi arrivata fino al CD e poi ancora allo streaming eccetera. Entreranno in campo operatori diversi, ma quella rapida sparizione dello Stereo8 in sé e per sé salvo dettagli da elettrotecnici o da speculatori non significa sparizione dell'universo automobile sul territorio: non più semplice mezzo di trasporto, ma vero e proprio prolungamento dell'abitare, dell'essere, senza la quale l'uomo del XX secolo non si sente realizzato.

Ecco: se il car sharing attuale fosse un po' come quel sistema di ascolto musicale in auto di tanti anni fa, intuizione giustissima ma che si trascina qualche tara di cui liberarsi, magari facendo anche finta di estinguersi, tutto tornerebbe a posto. Perché adesso l'intuizione della sostenibilità, degli stili di vita urbani, non legati al possesso ma al valore d'uso, potrebbe benissimo produrre una mobilità assai diversa, dove i veicoli non occupano tutto lo spazio come accaduto per decenni, non sputano veleni nell'aria, non stanno fermi immobili a fare il totem per il 95% della propria esistenza, e non pretendono di fissare per legge a questo scopo infinite superfici asfaltate. Se un operatore di car sharing si ritira, se addirittura ci sono segnali evidenti di calo dell'interesse per quel comparto, certo vuol dire che da qualche parte bisogna cambiare. Ma potrebbe essere, forse dovrebbe essere, anche fuori dall'auto in sé e per sé, magari nell'organizzazione urbana, dei trasporti più intermodali (pare che le nostre Ferrovie ci stiano investendo, in quella direzione), del lavoro e delle comunicazioni. C'è tanto Stereo8, per nulla morto e sepolto, in tutto il nostro attuale casuale frugare in rete alla ricerca di quel passaggio musicale, mentre stiamo sul traghetto delle vacanze. E ci sarà allo stesso modo tanto, tantissimo car sharing in qualche futura pedalata verso un magazzino automatico di mobili ingombranti, che te li carica sul furgone driverless seguendo le indicazioni dello smartphone, o chissà.

Su La Città Conquistatrice il tag Car Sharing (quello Stereo8 non ancora)

«La follia che si consuma a Firenze è una metafora perfetta dell’illogicità delle grandi opere inutili, pensate non per risolvere problemi reali, ma per aprire flussi finanziari nei confronti di imprenditori amici».Il Fatto Quotidiano online,, 27 novembre 2016 (c.m.c.)

L’articolo di Sergio Rizzo sul Corriere della sera del 22 novembre scorso ha portato finalmente alla ribalta nazionale la vicenda, davvero surreale, del progetto di Passante ferroviario Alta Velocità di Firenze. Che cos’è questa infrastruttura, la più grande che si vorrebbe realizzare in città? Sarebbe una linea sotterranea di collegamento tra le tratte AV che, da nord e da sud, arrivano a Firenze; è composta da un doppio tunnel di circa sette km e una stazione interrata 25 metri sotto il livello del suolo, completamente scollegata dal restante trasporto ferroviario.

Opera estremamente impattante e dalle difficoltà di realizzazione enormi, tanto che lo scavo dei tunnel non è nemmeno iniziato per il problema di smaltimento delle terre di scavo e dai rischi enormi di cedimenti e danni per parecchie migliaia di appartamenti e alcuni monumenti come la Fortezza da Basso.

Il progetto risale ai tempi del denaro facile. La scelta di scendere con la ferrovia nel sottosuolo non è dovuta agli scarsi spazi in superficie ma ad una decisione presa dalla classe politica toscana per attrarre risorse miliardarie in città. Un primo progetto prevedeva il potenziamento delle linee esistenti, ma nel frattempo a Bologna avevano ottenuto oltre un miliardo di finanziamento per realizzare un sottoattraversamento AV. Forse per invidia, certamente per appetiti inconfessati, anche Firenze volle i suoi tunnel e i suoi miliardi che poi sarebbero andati a finanziare le cooperative amiche (infatti la gara fu vinta da Coopsette, nel frattempo fallita, oggi l’appalto è passato Condotte SpA di Caltagirone).

I cantieri furono aperti nel 2009 addirittura senza avere i permessi per lavorare: furono imposti alla città da una cinica volontà per far trovare i cittadini davanti al fatto compiuto. Iniziò da allora la litania dell’«ormai è troppo tardi per tornare indietro». Le critiche dei comitati cittadini, supportati da ricercatori e dall’Università, dimostrarono invece le insormontabili difficoltà ad andare avanti, ma le orecchie della politica rimasero accuratamente serrate davanti agli appelli al buon senso.

Oggi, a oltre 20 anni dalla proposta del progetto e 7 anni dopo l’apertura del cantiere, i nodi vengono al pettine e le difficoltà, unite all’aumento vertiginoso dei costi, hanno indotto le FS a ripensare a tutto. All’inizio dell’estate il sindaco di Firenze Dario Nardella – membro di primo piano con l’ad delle Ferrovie Renato Mazzoncini, renziano fedelissimo – disse che il progetto di sottoattraversamento della città sarebbe stato accantonato e che le FS avevano un progetto di potenziamento delle linee di superficie.

Immediatamente e con una virulenza insospettata la vecchia guardia del Partito Democratico toscano, all’interno del quale era nato e prosperato lo sperpero dovuto al progetto, fece muro e iniziarono trattative di scambio tra le due correnti del partito: all’ala renziana sta molto a cuore la costruzione di un inceneritore e soprattutto del nuovo aeroporto intercontinentale di Firenze, all’ala del vecchio Pci interessa molto lo scavo dei tunnel.

Da quel momento è cominciata una girandola di ipotesi le più fantasiose: tunnel di qua, tunnel di là, stazioni sotterranee, per finire con un tunnel senza stazione. Anche i cittadini più disinteressati hanno cominciato a chiedersi quale tarlo rodesse le meningi dei nostri politici che erano arrivati all’assurdo di voler scavare senza nemmeno una fermata in città. Consci della illogicità delle proposte si è passati ad abbandonare la megagalattica stazione sotterranea progettata da Norman Foster per approdare ad una “miniFoster”, una stazione più piccola senza i 30.000 m2 di centro commerciale previsto. L’illogicità permane perché lo scavo iniziato non è per una mini-stazione, ma per una struttura interrata di tre piani, ciascuno di circa 20.000 m2.

Ma l’apoteosi dell’insensatezza è dovuta al fatto che, nonostante si voglia abbandonare la realizzazione della megastazione, i lavori fervono in quel cantiere come mai si è visto in tutti questi anni: i cantieri sono sempre stati semideserti e addirittura si arrestarono, nel 2014, durante le due inchieste che la magistratura avviò sul progetto con accuse pesantissime di truffa, corruzione e infiltrazioni mafiose.

All’improvviso, in occasione delle dichiarazioni di Nardella di voler abbandonare la stazione, i cantieri si sono riempiti di lavoratori e in pochi mesi si sta realizzando il solaio del primo piano con strutture in acciaio che saranno difficilmente riutilizzabili; centinaia di lavoratori si affannano in turni serrati lavorando anche di domenica per un’opera che non sarà mai né finita, né utilizzata.

Proprio nelle ultime ore c’è stato un accordo tra Rfi, il costruttore e i sindacati confederali perché i cantieri vadano avanti fino a febbraio «per garantire il lavoro a 50 operai che erano a rischio licenziamento». Questo assurdo ricatto si aggiunge alla lista sterminata delle incongruenze Tav: ci sono i cantieri infiniti di una tranvia di cui non si vede la fine che sono ormai una barzelletta in città perché sempre vuoti, ci sono i poveri terremotati che, se sapessero come vengono sperperati tanti soldi in opere da demolire, avrebbero molto da dire a tutti questi protagonisti dello spreco. Ci si chiede cosa si aspetta a dire stop e fermare questa emorragia finanziaria: le FS, che sono il committente dell’opera, tacciono e lasciano andare, idem il governo e le istituzioni locali.

La follia che si consuma a Firenze è una metafora perfetta dell’illogicità delle grandi opere inutili, pensate non per risolvere problemi reali, ma per aprire flussi finanziari nei confronti di imprenditori amici. D’altronde la seconda inchiesta sul Tav fiorentino (detta “Sistema”) e quella attuale aperta sui lavori del Terzo Valico (detta “Amalgama”) lo spiegano bene: sono enormi problemi che aspettano risposte politiche che non arriveranno mai dalle attuali maggioranze. Non è un problema di mele marce, ma di un frutteto in putrefazione.

«La Rete Adriatica. Viaggio lungo il percorso del gasdotto Snam, tra le faglie più pericolose e i borghi demoliti dagli ultimi terremoti. Per il governo però rimane “un’opera strategica”». Il Fatto Quotidiano, 21 novembre 2016, con postilla (p.d.)

Siamo a poche curve da Sulmona, ai piedi del monte Morrone e all’ombra delle belle torri di Pacentro. Di fronte si stende la piana verde che sarà sacrificata alla centrale di compressione del gas. L’impianto della Snam (Società nazionale metanodotti) occuperà un’area di 12 ettari.

I portavoce del comitato cittadino fanno l’elenco dei danni (l’inquinamento ambientale, quello acustico, i terreni abbandonati, gli ulivi abbattuti) e contano gli spazi mangiati dal cemento (“una zona estesa quanto 16 campi da calcio e mezzo”). Ma la centrale è appena una parte delle loro preoccupazioni. Sarà lo snodo di un’opera molto più grande: qui passerà la “Rete Adriatica”, un serpente sotterraneo di 687 chilometri. L’ha raccontato Ferruccio Sansa sul Fatto Quotidiano del 15 novembre: il gasdotto della Snam attraverserà l’Italia da Massafra (Taranto) a Minerbio (Bologna). Un cantiere gigantesco diviso in cinque progetti autonomi. Uno parte proprio dalla città di Ovidio: i tubi della Snam riforniranno la centrale di Sulmona, tagliando attraverso il Parco nazionale del Gran Sasso, per puntare verso l’Umbria. Attraverseranno l’Appennino sotto l’Aquila, Onna e Paganica, devastate dal terremoto del 2009. Poi, sempre più a nord, il gasdotto sfiorerà Amatrice e Norcia, infine Visso e Ussita, dove le scosse proseguono praticamente ogni giorno. I 168 chilometri del metanodotto tra Sulmona e Foligno sono immersi nella zona a più alto pericolo sismico d’Italia (quella di grado 1, segnata in viola nella cartina a fianco).

Il progetto originale è datato 2005. Negli ultimi dieci anni, in questo territorio, i terremoti hanno spostato montagne e squarciato città, ma non hanno cambiato i piani della Snam, né quelli dei governi che si sono succeduti.

Le ferite della Maiella
“Sono venuti qui perché pensavano che gli abruzzesi fossero docili, che non avrebbero trovato alcuna resistenza. E invece questi quattro contadini gli danno ancora filo da torcere”. Giovanna Margadonna è una delle voci del comitato per l’ambiente di Sulmona che contesta il progetto della Snam. I “quattro contadini” che ci guidano lungo la traccia virtuale del gasdotto – Mario, Flora, Anna Maria, Lola, Clotilde – hanno professioni diverse, ma ognuno di loro ha imparato a raccontare la sua terra con le parole dei sismologi. Indicano cartine, mostrano le ferite invisibili nelle pareti delle montagne. Citano il lavoro di una geologa, Giusy Lavecchia (professore ordinario all’Università di Chieti), presentato l’anno dopo il disastro aquilano: “Il bacino di Sulmona è una depressione tettonica bordata ad est dal sistema di faglie dirette del Monte Morrone”, l’altopiano che domina l’area dove sarà costruita la centrale. Le due fenditure “in profondità, sono collegate in un unico piano di faglia che si sviluppa fino a 12-14 chilometri”. Le conclusioni del documento non sono incoraggianti: “L’area aquilana e quella del bacino di Sulmona sono le zone a più alta pericolosità dell’Italia centrale”. All’Aquila è andata come sappiamo, mentre per Sulmona e la Maiella “l’ultimo terremoto di magnitudo 6.6-6.7, probabilmente associato alla faglia del Morrone”, è avvenuto nel III secolo a.C.

“Sono passati circa 2000 anni e questo è proprio il tempo di ricarica previsto da queste strutture. Inoltre, è notorio che quanto maggiore è il tempo di ricarica di una faglia, tanto maggiore è il terremoto atteso”. Come se non bastasse, conclude il documento, “Sulmona si trova su un bacino continentale che può causare effetti di amplificazione locale dell’energia sismica”.

La zona rossa, le new town e i 30 km nelle Marche
In sostanza, si vive nell’attesa di una scossa imminente e violenta. “È davvero necessario – chiedono i ‘No Snam’ – che la centrale sia costruita su un territorio del genere? È davvero il caso di scavare sottoterra, infilarci dei tubi di 120 centimetri di diametro e farli correre attraverso linee di faglia attive, nelle aree più sismiche d’Italia?”.

Proseguendo lungo il tragitto del serpentone della Snam, si attraversa la Valle Peligna, le sorgenti del Pescara a Popoli (dove il gasdotto, secondo l’amministrazione comunale, “minaccerà uno dei bacini imbriferi più grandi d’Europa”), la piana verde di Navelli. L’arrivo a l’Aquila è annunciato dalle gru e dalle impalcature dell’infinita ricostruzione. Poco fuori dalla zona rossa, c’è la struttura “provvisoria” (ormai dal 2009) che ospita la sede della Regione. Pierpaolo Pietrucci è un giovane aquilano, consigliere del Pd, il partito del governatore Luciano D’Alfonso. Il presidente è criticato dai comitati per l’opposizione “timida”al gasdotto. Pietrucci invece non si nasconde: “Non bastano i tetti che ci crollano in testa? C’è bisogno di piazzare una potenziale bomba sotto i nostri piedi? Il progetto originale della Snam prevedeva un tracciato offshore, in mare, lungo la costa. Perché hanno deviato? Questo gasdotto taglierà parchi nazionali e boschi millenari, patrimonio dell’Unesco. Inciderà su territori che già rischiano lo spopolamento: sarà la condanna dell’Appennino”. Il consigliere ha inviato una lettera al premier, ma non ha ancora ricevuto risposta. “Caro Matteo, sono aquilano, tuo coetaneo: ho vissuto in prima linea, da capo di gabinetto del sindaco Massimo Cialente, il dramma del terremoto del 2009. Conosco il terrore, gli occhi delle persone, la voglia di tornare e l’improvvisa consapevolezza della sacralità della normalità. Quella che hanno perso gli abitanti di Amatrice, Accumoli, Norcia, Ussita, Visso e tutti gli altri splendidi borghi colpiti dai terremoti da agosto agli ultimi giorni”.

Il serpentone punta proprio verso quei borghi, dopo essersi lasciato alle spalle anche le “new town” di Onna e Paganica, subito fuori l’Aquila, nate sopra le rovine e i crolli del 2009.

Le Marche sono interessate da circa 30 chilometri del tracciato, alcuni dei quali sfiorano il versante ovest del monte Vettore, spaccato dal sisma di ottobre. Il responsabile del comitato No Tubo marchigiano-umbro si chiama Aldo Cucchiarini: “Non c’è solo l’assurdità di costruire sopra le faglie – spiega – ma anche un problema ambientale sottovalutato. Per posare una condotta di 120 centimetri a 5 metri di profondità, bisogna aprire uno sterrato largo 40 metri sui fianchi delle montagne. Bisognerà creare strade e piste per far spostare i mezzi speciali fino ai cantieri. Si crede che siccome i tubi vanno sotto terra, ’impatto ecologico non sia devastante: una follia”.

Il pubblico, il privato e il botto di Mutignano
Snam è una società quotata in borsa, detiene il monopolio nella gestione della rete del gas italiano. È un gigante da oltre 3 miliardi e mezzo di fatturato e 1,2 miliardi di utili netti nel 2015. Non sorprende che i “quattro contadini” che affrontano la Rete Adriatica siano stati respinti, nel tempo, senza particolari affanni.

In tutti questi anni gli interessi dell’azienda privata sono stati garantiti dai governi che si sono dati il cambio a Palazzo Chigi. Berlusconi, Monti, Letta, Renzi. Nell’ultima legislatura, il gasdotto Massafra-Minerbio è stato oggetto di almeno 5 interpellanze e interrogazioni tra Camera e Senato, firmate dai parlamentari di Sel e Movimento 5 Stelle. Le risposte dell’esecutivo – da Flavio Zanonato (ex titolare dello Sviluppo economico) a Claudio De Vincenti (ex vice del Mise, oggi sottosegretario a Palazzo Chigi) – sono state sempre le stesse. Si basano, in buona sostanza, su un’“autocertificazione” della Snam. “Il tracciato dei metanodotti – si legge nella relazione di Zanonato, ma con parole simili anche nelle repliche di tutti i ministri, compreso l’attuale titolare del Mise Carlo Calenda – è stato definito scegliendo i lineamenti morfologici e geologici più sicuri (...), le dimensioni del progetto adottate per la trincea di posa della condotta, unitamente alle caratteristiche di duttilità e flessibilità delle tubazioni in acciaio, permettono di sopportare agevolmente le eventuali deformazioni indotte dal sisma”. In poche parole, per la società il tracciato è il migliore possibile, e il test sui tubi (il cosiddetto “shaking”) è andato bene. I peggiori terremoti degli ultimi 40 anni – argomentano all’unisono l’azienda e i ministri – non hanno prodotto incidenti sui gasdotti in funzione in Italia.

L’opera è considerata “strategica”: malgrado i consumi di gas siano in calo, la Rete Adriatica potrebbe garantire un ruolo centrale nel mercato energetico europeo. I profitti saranno privati (si stima una resa di 26,5 milioni l’anno), mentre il denaro investito è anche pubblico: nel 2009 la Banca europea per gli investimenti ha versato 300 milioni di euro all’azienda italiana per coprire metà della spesa sul tratto Massafra e Biccari e su un altro gasdotto in Lombardia.

Insomma, tranquilli: il serpentone si farà, e non c’è pericolo. Garantisce la Snam. Meglio non pensare alla lunga lista di incidenti degli anni passati: in Italia sono 8 dal 2004. A marzo 2015 è toccato proprio all’Abruzzo, con l’espolosione del metanodotto Snam di Mutignano, in provincia di Teramo. Un piccolo smottamento ha divelto un tubo di 600 millimetri di diametro. Le fiamme, alte fino a 10 metri, hanno carbonizzato un costone della collina (le foto sono a centro pagina). Per fortuna senza uccidere nessuno.

postilla

Aggiungiamo che con la riforma costituzionale proposta nel referendum del 4 dicembre, le scelte riguardanti la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale dell’energia, nonché tutte le infrastrutture dichiarate come strategiche dal governo nazionale (insieme a tante altre materie fino ad ora considerate "concorrenti" fra Stato e amministrazioni locali), diventerebbero di esclusiva competenza statale. Cioè nelle mani del Governo e del Primo minisro. Tutto in nome della governabilità che, rottamando in una unica soluzione la corretta pianificazione e governo del territorio, riduce i cittadini in sudditi, con il preciso intento di rendere ininfluenti ed inefficaci le opinioni e le rimostranze delle amministrazioni locali, delle associazioni e delle persone che, vivendole quotidianamente, ben conoscono le loro terre.

«Tentativo di blitz per stravolgere con un documento attuativo la legge del 2014 a tutela del territorio. Contro la proposta della giunta leghista insorge l’opposizione: "Così si prendono in giro i cittadini"». Corriere della Sera, ed. Milano, 18 novembre 2016
Insieme al Veneto la Lombardia detiene il record italiano di cementificazione di territorio: almeno l’11 per cento del suolo regionale è coperto da opere dell’uomo. Per arginare il fenomeno, e sulla spinta delle associazioni ambientaliste, la giunta leghista di Roberto Maroni aveva deciso che uno dei suoi primi atti sarebbe stata l’approvazione di una legge regionale che ponesse un freno al consumo di suolo. Non fu una gestazione facile, ma dopo qualche compromesso la maggioranza regionale riuscì due anni fa ad approvare una legge che stabiliva soglie di territorio consumabile per ogni tipo di intervento urbanistico o infrastrutturale, ovviamente prevedendo la possibilità di deroghe per casi che si sarebbero dovuti definire in sede tecnica. Allora tutta l’opposizione votò contro, perché non teneva conto dei 530 milioni di metri quadrati di futura edificazione già previsti nelle pianificazioni comunali.

Ieri sono però arrivate le deroghe «tecniche» annunciate e che certo non piaceranno alle associazioni ambientaliste: in Commissione territorio è spuntato uno dei documenti attuativi predisposto dalla giunta che se approvato renderebbe la legge «meno efficace». Il riferimento è al lungo elenco di opere «di interesse pubblico o generale» che la Regione intende sottrarre al meccanismo delle soglie, e che quindi non verrebbero in ogni caso conteggiate come consumo di suolo. Si tratta di strade, autostrade, aeroporti e pressoché ogni tipo di intervento infrastrutturale. E ancora ospedali, case di cura, scuole, ma anche cave, discariche e inceneritori. Interventi importanti, spesso fondamentali, ma la cui sottrazione dal meccanismo delle soglie poste in legge contro il consumo di territorio è operazione forse impropria. O almeno così la pensano i consiglieri del centrosinistra che denunciano l’allentamento dei vincoli a tutela dell’ambiente. «L’interpretazione della maggioranza porterebbe a stravolgere il senso stesso della legge. Il centrodestra sta prendendo in giro i cittadini e i Comuni che attendono da due anni di poter applicare la legge contro il consumo di suolo», attacca il consigliere dem Jacopo Scandella: «La Lombardia è la Regione italiana che ha subito la maggior cementificazione negli ultimi anni, Maroni a parole aveva assicurato di voler invertire la tendenza ma i fatti lo smentiscono. Oggi abbiamo le amministrazioni comunali che vorrebbero contenere l’edificazione ma che non lo possono fare per i ritardi e le interpretazioni controverse di Palazzo Lombardia. Se questo documento venisse approvato la legge contro il consumo di suolo diverrebbe definitivamente carta straccia».

La Commissione del Pirellone si prenderà comunque un’altra settimana di riflessione. Il voto finale è in calendario per giovedì prossimo, ma il centrodestra sembra comunque intenzionato a rendere la legge «più flessibile».

Una riflessione su lavoro, volontariato, cittadinanza responsabile e accoglienza dei migranti. Non bastano un po' di militari per riportare sicurezza, ma soprattutto vivibilità, nelle periferie di una grande città. Le inutili, e demagogiche, scorciatoie del sindaco Sala. La Repubblica, ed Milano, 17 novembre 2016 (m.c.g.)

Nelle ore che sono seguite alle dichiarazioni del sindaco Sala sulla necessità che vengano inviati a Milano altri militari, in molti mi hanno domandato se fossi pro o contro questa scelta. Me lo chiedono, immagino, in ragione del fatto che da anni mi muovo nell’universo composito delle periferie, un mondo attraversato da contrasti e contraddizioni e, a volte, anche da violenza, ma spesso capace di risposte inedite e positive. Il punto della questione, però, non credo sia essere favorevoli o contrari alla presenza dell’esercito per le strade, ma capire in che modo una città come Milano possa realmente rispondere al bisogno di sicurezza, reale o percepita, che avvertono molti suoi residenti.
Non si tratta di un bisogno ideologico, di una richiesta che appartiene a questa o a quella parte politica, ma di una necessità trasversale che io ritengo fortemente collegata alla domanda di coesione sociale. Per questo motivo non bisogna cedere alle semplificazioni e alle scorciatoie, né delegare solamente alle forze dell’ordine e ai militari un tema che rimane di valenza sociale. Più militari, più telecamere e più controlli rassicureranno alcuni e inquieteranno altri. Sicuramente da soli non serviranno a risolvere i problemi di città come Milano, il cui presente è costellato da contrasti sociali.

I problemi, certamente, ci sono e sono complessi e quindi, per prima cosa, vanno conosciuti a fondo. Un conto è parlare delle pandillas, le bande latinoamericane che operano in alcune zone della città, un altro è affrontare il massiccio spaccio di droga nella zona di Rogoredo e San Donato, solo per fare due esempi saliti recentemente all’attenzione della cronaca. Fenomeni come questi possono essere affrontati solo in ottica di ordine pubblico. Oppure possono essere studiati da un osservatorio e risolti con un approccio diverso, che sappia mettere insieme interventi di deterrenza e contrasto alla criminalità con investimenti e azioni di carattere sociale, che facciano sentire la vicinanza delle istituzioni, che facciano vedere che ci si può prendere cura di queste situazioni, come avevamo fatto alcuni anni fa lanciando lo slogan “Milano Si-Cura”, per dire che il tema della sicurezza si può affrontare anche in un’ottica di coesione.

Mi auguro allora che, se come pare, dovessero arrivare 100 militari nei nostri quartieri, il Comune sia anche in grado di mettere in campo altrettanti educatori di strada, assistenti sociali, mediatori culturali... Sono tutte figure che servirebbero a potenziare i servizi di prossimità destinati ai soggetti più fragili come gli anziani, a immaginare progetti di collaborazione tra l’amministrazione comunale e i residenti di quei condomini, anche di proprietà privata, più esposti al degrado e a rilanciare i luoghi di aggregazione per giovani e meno giovani. C’è un gran bisogno di spazi ed eventi culturali diffusi e capillari, popolari e accessibili, che facciano tornare la voglia di vivere in alcune zone, che riattivino le risorse, la vivacità e il protagonismo della cittadinanza.

Aspetto la presentazione, a metà dicembre, del piano periferie annunciato dal sindaco. Mi auguro che affronti le tante questioni di carattere strutturale ancora irrisolte, come il grande tema delle case popolari liberate dalle occupazioni, ristrutturate ma ancora vuote, e che invece vanno consegnate al più presto a chi ne ha bisogno. È uno dei passi concreti che, forse più che un maggior numero di militari, può contribuire a rispondere alla domanda di vivibilità, sicurezza e coesione sociale che Milano ancora oggi esprime.

Nel dossier dell’Espresso online, di cui abbiamo ripreso l’ampia introduzione di Paolo Biondani, non è riportato l’unico articolo sul condono edilizio (l’unico a prucurare danni irreversibili al suolo), che era uscito sull’edizione cartacea del 6 novembre. Lo riprendiamo oggi. L’Espresso, 6 novembre 2016

Il condono edilizio è peggio del condono fiscale e finanziario, di quest’ultimo con il passare degli anni si perderà la memoria. Non è così per la sanatoria edilizia perché le ferite inferte al paesaggio e alle città sfidano i secoli. Restano sfigurate per sempre le coste dell’Italia meridionale, principalmente di Campania, Calabria e Sicilia, e le periferie di città grandi e piccole. Ma quando si parla di condono edilizio si parla soprattutto di Roma. Italo Insolera diceva che l’abusivismo non è solo un fenomeno perverso che ha condizionato la vita di Roma, ma è un modo d’essere di Roma. Il totale delle domande di condono relative alle leggi dal 1985 al 2003 è impressionante, oltre 600 mila, delle quali un terzo ancora da esaminare. 600 mila abusi su una popolazione di meno di tre milioni di abitanti, un abuso ogni cinque abitanti uno ogni due famiglie, è un dato pauroso, senza confronti con il resto d’Italia, che legittima i peggiori convincimenti sulla diffusione dell’illegalità nella capitale.

Un terzo del territorio urbanizzato di Roma, con più di mezzo milione di abitanti, è formato da migliaia di lottizzazioni abusive disseminate in ogni parte della sconfinata periferia. Aggregati di case di varia tipologia (dalle villette a alle ville anche di lusso, alle palazzine a più piani) a perdita d’occhio, quasi del tutto privi di spazi collettivi, verde e attrezzature, con infami servizi di trasporto pubblico. Non ci sono piazze, i luoghi d’incontro e di socializzazione sono i centri commerciali.

Eppure a Roma non sono mai mancati intellettuali, architetti, urbanisti, giornalisti con un occhio di riguardo per il condono e l’edilizia abusiva accreditata come spontanea. Quegli stessi pronti a scatenarsi contro Corviale, Laurentino 38 e altre complesse architetture dell’edilizia pubblica hanno visto nelle politiche di condono il riconoscimento di importanti valori tradizionali e popolari. Nel 1983 alla “città spontanea” fu dedicata un’importante mostra che confrontava Roma con Algeri, Tunisi, Il Cairo, Maputo, Bogotá e Città del Messico. Una mostra che spianò la strada alla prima legge di condono edilizio, quella del 1985 voluta del governo di Bettino Craxi (ministro dei Lavori pubblici Franco Nicolazzi). Le leggi successive, del 1994 e 2003, sono opera dei governi Berlusconi (ministri consenzienti Giulio Tremonti, Roberto Radice, Pietro Lunardi).

La conferma di Roma capitale dell’abusivismo si ebbe il 17 febbraio del 1986. Si svolse in quel giorno un’altra marcia su Roma – meno tragica di quella di 64 anni prima, non foriera di lacrime e sangue ma anch’essa politicamente terribile –, la marcia dei sindaci abusivi siciliani, capeggiati da Paolo Monello sindaco comunista di Vittoria (una città quasi tutta abusiva in provincia di Ragusa), sostenuti da Lucio Libertini responsabile dell’urbanistica del Pci. La marcia dei sindaci siciliani era contro la legge per il condono del 1985, ma nel senso che volevano renderla più permissiva e meno onerosa.

La Sicilia, dopo Roma, è l’altro grande teatro in cui recitano da protagonisti abusivismo e condono. Ricordo solo le villette nella Valle dei Templi di Agrigento, gli scempi di Pizzo Sella sopra Palermo, e il parco archeologico di Selinunte, sulla costa Sud occidentale dell’Isola, che affaccia sulle repellenti lottizzazioni di Triscina e Marinella.

Pochissimi i casi in cui a perdere è stato il condono. Indimenticabili le demolizioni degli ecomostri di Fuenti in Costiera amalfitana e di Punta Perotti a Bari

«L’11 novembre entra in vigore la legge Madia. La Legge Obiettivo, pur abolita, in realtà avrà un regime transitorio davvero lungo ed insostenibile per cambiare realmente strategia. E la corsa alle grandi opere prosegue». Sbilanciamoci.info, 9 novembre 2016 (p.d.)

Sulle infrastrutture ed insediamenti produttivi arriva il Decreto del Presidente della Repubblica con il Regolamento di semplificazione in attuazione della Legge Madia. E’ il DPR n.194 del 12 settembre 2016, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 27/10/2016 e che entrerà in funzione l’11 novembre 2016.

Quindi come al solito per il superamento della Legge Obiettivo si fa un passo avanti e due indietro come questo DPR basato sulla “semplificazione ed accelerazione di procedimenti amministrativi riguardante rilevanti insediamenti produttivi, opere di rilevante impatto sul territorio o l’avvio di attività imprenditoriali suscettibili di avere positivi effetti sull’economia o sull’occupazione” si legge all’articolo 1 del testo.

Come dire che non si valuta l’utilità delle opere ed il servizio che poi dovranno rendere ai cittadini. Il provvedimento si potrà applicare sia ad opere pubbliche che private e verranno semplificate ed accelerate anche le procedure preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico artistico e della tutela della salute.

Ogni anno entro il 31 marzo, su proposta del Presidente del Consiglio con relativa deliberazione del Consiglio dei Ministri, è individuata con DPCM la lista degli interventi sentiti i Presidenti delle Regioni interessate dai progetti. I Comuni, le Regioni e le città Metropolitane potranno avanzare progetti da inserire nel DPCM annuale, oltre ad altri progetti individuati dalla Presidenza del Consiglio, anche su segnalazione del soggetto proponente o del Ministro competente.

I criteri di selezione della lista saranno stabiliti da un Decreto da adottare entro 60 giorni con un provvedimento del Governo previa intesa in Conferenza Unificata. Sarà interessante capire quale saranno i criteri per scegliere le opere che hanno effetti positivi sull’occupazione e l’economia e se saranno messe a confronto analisi comparate e soluzioni differenti.

Il DPCM con la lista individua opera per opera i tempi ridotti delle procedure fino al 50% di quelli necessari per “la conclusione dei procedimenti necessari per la localizzazione, progettazione e realizzazione delle opere o degli insediamenti produttivi e l’avvio delle attività”. Se il termine fissato non viene rispettato, il Presidente del Consiglio dei Ministri, previa deliberazione del CdM può utilizzare “poteri sostitutivi” per procedere comunque.

Si tenga conto che le procedure ordinarie della Conferenza dei Servizi telematica (modificata di recente da altri decreti Madia) fissa 5 giorni per la convocazione, poi 45 giorni di svolgimento della CdS, che diventano al massimo 90 per gli enti di tutela. Con il DPR di semplificazione n.194 tutto si può dimezzare ed al massimo in 45 giorni si dovrà decidere altrimenti decide il Presidente del Consiglio, indebolendo gli strumenti di tutela.

Difficile credere che in questo modo si decideranno le opere utili, snelle e condivise di cui ha parlato il Ministro Delrio, anche nell’Allegato Infrastrutture al DEF 2016. E che verrà promosso un efficace e credibile processo di partecipazione e dibattimento pubblico sulle opere cosi come indicato dal nuovo Codice appalti (di cui manca per ora il regolamento attuativo). Di fatto questa è una nuova “legge obiettivo” con la lista delle opere e la massima semplificazione decisoria.

Si estende il regime transitorio della vecchia Legge obiettivo

Questa nuova semplificazione si aggiunge alla già complessa situazione della legge obiettivo che pur essendo stata abolita con la Legge 50/2016 nuovo Codice Appalti, in realtà avrà un regime transitorio davvero lungo ed insostenibile per cambiare realmente strategia.

Ricordiamo che andranno avanti secondo le procedure della Legge Obiettivo quelle in corso di realizzazione, quelle già decise dal Cipe e su cui vi sono Obblighi Giuridici Vincolanti, ma anche quelle che hanno avviato l’iter per la Valutazione di Impatto Ambientale. E’ questa è una novità certificata anche dal Presidente dell’Autorità Anticorruzione Raffaele Cantone con la delibera n. 924 del 7 settembre 2016 che ha stabilito che le opere riferite al XI Allegato Infrastrutture al DEF 2013 che abbiamo avviato la VIA dovranno essere concluse con le stesse procedure, ad esclusione delle gare d’affidamento delle opere che dovranno seguire le procedure del nuovo Codice Appalti.

Il risultato è che abbiamo in essere cinque differenti procedimenti per l’approvazione delle opere e tutto questo non ci aiuta certo a diventare un paese normale: la vecchia legge obiettivo per le opere con iter avviato prima del 18/4/2016 (entrata in vigore nuovo codice appalti), le procedure ordinarie per le opere pubbliche (articolo 27 Codice Appalti), quelle speciali per le infrastrutture prioritarie nazionali (articoli 201-202 Codice Appalti). A cui si aggiunge il Commissario Straordinario previsto dal decreto Sblocca Italia con proprio iter semplificato ed infine il recente Regolamento “Madia” 194 di semplificazione che entra in funzione l’11 novembre 2016, con i poteri al Presidente e Consiglio dei Ministri.

Non si tratta di semplici procedure perché se vediamo di quali opere e di quali dimensioni stiamo parlando, risulterà chiaro che siamo davvero lontani a scegliere le opere secondo una strategia di politica dei trasporti, trasparente e misurabile.

Lo stato delle Infrastrutture strategiche

Per capirlo basta utilizzare il 10° Rapporto del Servizio Studi della Camera dei Deputati in collaborazione con l’Autorità Anticorruzione dal titolo “Le Infrastrutture strategiche. Dalla Legge obiettivo alle opere prioritarie” pubblicato a maggio 2016 che fa un punto preciso e ragionato della situazione. (www.silos.infrastrutturestrategiche.it)

Dal 2001 al 2015 sono state inserite nella Legge Obiettivo ben 418 opere con un costo stimato di 362 miliardi. Di queste – quelle che sono state inserite nell’XI allegato infrastrutture DEF 2013 (documento che ha completato l’iter di approvazione con l’intesa con le Regioni ed approvazione Cipe nel 2014) – equivalgono a 278 miliardi di investimenti ed una lista di 190 opere.

Tra questi 278 miliardi di opere in corsa, sono state selezionate dal Ministro Delrio le 25 opere prioritarie (costo stimato 90 miliardi) che costituiscono l’Allegato Infrastrutture 2015 e 2016, che non avendo però perfezionato l’iter di adozione costringe a riferirsi all’XI Allegato ed al suo vasto bacino di opere come regime transitorio della legge obiettivo.

Quindi dei 278 miliardi complessivi risultano esserci un gruppo di 25 opere prioritarie che vale 90 miliardi ed un altro gruppo di 165 opere non prioritarie che vale 188 miliardi. Tra le 25 opere prioritarie ben l’83% è stato deliberato dal Cipe (costo stimato 75 miliardi), tra quelle non prioritarie sono state deliberate dal Cipe il 39% (costo stimato 73 miliardi). Il risultato è che su 278 miliardi di interventi Legge Obiettivo ben 151 miliardi sono gli interventi che hanno avuto un iter presso il Cipe.

E sempre dal 10° Rapporto Camera si legge che lo stato di attuazione della lista dei 278 miliardi è cosi suddivisa: 10% sono le opere completate, in corso di realizzazione il 17%, un altro 8,4 ha un contratto di affidamento, l’1,6% sono aggiudicati ed il 6,7% sono in gara. Oltre il 55% sono le opere ancora in progettazione e procedure di autorizzazione.

Se guardiamo con un focus su quelle con Obbligazioni Giuridicamente Vincolanti (cioè con contratti come le definisce il Codice Appalti) si arriva ad un ammontare di 70,1 miliardi di opere.

Infine non può mancare una analisi delle risorse effettivamente disponibili: su 278 miliardi sono disponibili 140 miliardi ed il resto manca all’appello. Tra i 140 miliardi disponibili, 87 derivano da risorse pubbliche e 52 miliardi da risorse private, in grande parte concessionarie autostradali (che però chiedono sempre aiuti come tariffe, proroghe delle concessioni, valore di subentro, defiscalizzazioni varie, risorse pubbliche per specifiche opere).

Sarà su questi valori e procedure che si dovrà misurare il primo Documento Pluriennale di Programmazione che in Ministro Delrio dovrà presentare entro il 18 aprile 2017 e che avrà il potere anche di selezione reale degli investimenti.

Prosegue la corsa delle grandi opere

Entrando nel merito sulle opere in corso sappiamo che – pur a stadi differenti – sono numerose le grandi opere che proseguono la loro corsa. Tra le 25 opere prioritarie, oltre alle opere utili come le Metropolitane urbane, ci sono i grandi progetti TAV come la Torino-Lione e la Milano Genova, le autostrade Pedemontana Veneta e Pedemontana Lombarda, realizzate al 15%, dai costi ed impatti notevoli, che dovrebbero essere riviste.

Tra le opere non prioritarie e che stanno procedendo ugualmente troviamo il 1° lotto del Tibre Parma Verona, 513 miliardi di lavori della società AutoCisa, di scarsa utilità ma che forse servono alla concessionaria per non vedersi ridotta la proroga della concessione a suo tempo assentita.

Troviamo l’autostrada Campogalliano Sassuolo, che con una delibera Cipe del 1 maggio ha ottenuto un sistema di anticipi ed aiuti fiscali ed è in attesa del via libera della Corte dei Conti. Da notare che l’approvazione è avvenuta dopo l’entrata in vigore del nuovo codice appalti e comunque ai sensi della Legge Obiettivo nonostante non sia nemmeno un’opera prioritaria. Su quest’opera inoltre si intreccia la vicenda della Concessionaria Autobrennero che sta lavorando per diventare una società interamente pubblica e quindi – secondo la nuova direttiva UE concessioni – poter godere del rinnovo della scadenza. Ma se realizza in project financing insieme ai privati la Campogalliano Sassuolo può definirsi una società in house come richiede Bruxelles?

Vi sono opere autostradali come la Gronda di Genova, costo 3,8 miliardi, che Autostrade l’Italia per poter realizzare vorrebbe aumenti tariffari su tutta la rete ed anche una ventilata proroga della concessione di 7 anni dell’intere reta italiana.

C’è il passante autostradale di Bologna, che dopo la bocciatura da parte degli Enti locali del tracciato nord, adesso Autostrade per l’Italia d’intesa con il Comune, punta all’ampliamento in sede dell’attuale fascio autostradale. Tracciato comunque impattante sulle residenze e che aumenta il traffico veicolare in circolazione sull’area metropolitana. E’ in corso un esteso dibattimento pubblico nei quartieri e tra i cittadini per presentare il progetto e raccogliere le osservazioni.

Anche il sistema tangenziale di Lucca sembra essere ripartito dopo che il Cipe il 10 agosto 2016 ne ha finanziato un primo lotto del costo di 84 milioni di euro. Al momento la delibera è in attesa del via libera per essere pubblicata.

Prosegue la sua corsa l’autostrada Roma Latina, approvata dal Cipe nel 2013 e sui cui c’è una forte pressione della regione Lazio per la sua realizzazione. Affidata dopo molte traversie nel luglio 2016, adesso pende il ricorso al TAR della seconda impresa risultata non vincente, che ritiene l’offerta di quella risultata vincente non adeguata alle richieste del bando di gara.

Infine di recente si è riavviato il progetto sull’Autostrada della Maremma, dopo l’intesa tra Regioni, SAT, ASPI e MIT del maggio 2015, che ha stabilito che tra Grosseto e San Pietro in Palazzi a nord non verrà realizzata nessuna autostrada mentre il progetto si concentrerà a sud nel tratto tra Tarquinia e Grosseto. A settembre 2106 la concessionaria SAT ha esposto il nuovo tracciato ai Comuni ed alla Regione Toscana: il tracciato è prevalentemente in sede sull’Aurelia o lungo la ferrovia ma con diverse varianti importanti come ad Albinia e Fonteblanda. Inoltre il sistema è con barriere di esazione e pochi svincoli liberi: quindi i residenti e la viabilità locale si vedranno sottrarre una strada gratuita (per quanto da ammodernare) senza poter utilizzare liberamente la nuova infrastruttura a pedaggio. Nei prossimi mesi il progetto sarà ripubblicato in procedura di VIA e c’è da augurarsi che almeno in questo caso si utilizzeranno le nuove procedure del Codice appalti superando davvero la Legge Obiettivo.

Da questa breve sintesi sulle opere in corsa ben si comprende come la Legge obiettivo stia decisamente avanzando. E solo in pochi casi il MIT sta procedendo con la project review: l’adeguamento della E45-E55 invece dell’autostrada Orte Mestre, la Napoli Bari ad Alta Capacità, la Salerno Reggio Calabria (tratto finale) e la Statale Ionica 106, il nodo di Vicenza AV. Anche il tratto italiano della Torino Lione AV sarebbe soggetto a questa revisione ma non si comprende come si possa conciliare comunque il tunnel di base da scavare con l’uso della ferrovia esistente, che nel tratto italiano è utilizzata anche per il trasporto pendolari: servirebbe una revisione dell’intero progetto TAV e non solo del tratto Italiano.

Revisione del progetti, DPP ed aggiornamento del Piano Generale dei Trasporti

Nel nuovo codice appalti per fare le scelte sulle opere “utili snelle e condivise” si punta alla revisione dei progetti in corsa – cercando di ridurne l’impatto ed i costi – e sulla predisposizione entro il 18 aprile 2017 del Documento Pluriennale di Programmazione degli investimenti, che promette di fare ordine e di scegliere davvero le priorità. E’ poi previsto l’aggiornamento del Piano generale dei Trasporti e della Logistica per la fine del 2017, come documento strategico di riferimento per le politiche e le scelte.

Ma come abbiamo dimostrato – tra estensione del regime transitorio della vecchia legge obiettivo e nuove semplificazioni ai sensi della Legge Madia – il rischio concreto è che la buona pianificazione arrivi davvero troppo tardi.

Se poi oltre alle opere in corsa, aggiungiamo il Ponte sullo Stretto di Messina, che il Presidente del Consiglio ha rilanciato solo due mesi fa come opera strategica per il Paese, c’è davvero il rischio di veder “cambiare tutto per non cambiare nulla” sulle grandi opere.

I "fondisovrani" (fondi finanziari di proprietà diretta di governi, e non di singoli investitori) sembrano eccitati dalle possibilità di diventare padroni a casa nostra, dove il mattone vale molto di più del grano duro, delle olive di Gaeta e del Lambrusco; non parliamo dei filosofi. Il Sole 24 Ore, 3 novembre 2016

Italia terreno di conquista di trophy asset da tenere a reddito e di operazioni di riqualificazione. È questa la view dei fondi sovrani internazionali sul nostro Paese. Mentre si sta facendo strada tra gli investitori istituzionali una cautela sul real estate italiano indotta soprattutto dall’esito dell’imminente referendum costituzionale e dalla ripresa ancora rinviata della crescita economica. Una cautela emersa dalle relazioni ascoltate nei numerosi convegni sul real estate che si sono tenuti negli ultimi giorni. Non dimentichiamo però che a complicare la situazione ci saranno anche le prossime elezioni in Francia, prima, e in Germania, poi, per restare in un ambito esclusivamente europeo.

I fondi sovrani, invece, hanno fatto shopping negli ultimi anni nel nostro Paese e intendono continuare a farlo. Cogliendo di volta in volta le occasioni che il mercato ancora offre. Non dimentichiamo poi che al momento sul mercato sono arrivati o stanno arrivando una serie di portafogli già pronti, alcuni a reddito altri destinati a operatori opportunistici, che potrebbero risultare interessanti. Dal portafoglio Cdp, con le caserme Mameli e Guido Reni al fondo Cloe, passando per il pacchetto da 500 milioni di euro di uffici propri che vende Intesa Sanpaolo.

«Investiamo in maniera diretta e indiretta in grandi progetti - ha spiegato Ruslan Alakbarov, a capo della divisione real estate di State oil fund of Republic of Azerbaijan, al convegno organizzato dal gruppo Coima qualche giorno fa -. Puntiamo sul real estate spinti anche dal cambiamento nei rendimenti delle diverse asset class di investimento. Valutiamo nuovi mercati, Milano è uno di questi. Analizziamo le potenzialità: per esempio nel centro di Milano, dove abbiamo acquistato Palazzo Turati (affittato alla Camera di commercio), non si può costruire molto e aumentare l’offerta di uffici».

I fondi sovrani negli anni hanno accumulato un discreto portafoglio sull’Italia. Primo fra tutti il fondo sovrano del Qatar che ha iniziato a investire nel settore alberghi - il primo acquisto nel 2006 è stato quello dell’hotel Gallia di Milano, al quale hanno fatto seguito le acquisizioni dei quattro hotel di lusso della Costa Smeralda , del Four Season’s di Firenze e del Westin Excelsior di Roma - per poi acquistare filiali bancarie, uffici e il complesso di Porta Nuova a Milano.

«L’Italia, come Francia, Uk, Spagna e Germania, è per noi un Paese “core” - dice Madeleine Cosgrave, managing director Europa per Gic (Government of Singapore Investment corporation) -. Vogliamo creare un portafoglio immobiliare focalizzato sull’Italia, ma il Paese richiede tempi lunghi per realizzare un deal e per avere accesso al debito». Per adesso Gic detiene il 100% del centro commerciale Romaest a Roma.

Manca ancora sul nostro territorio il fondo sovrano norvegese, il più grande al mondo con 820 miliardi di euro di valore stimato a fine 2016, che però sta valutando l’immobiliare italiano.

Il real estate nel nostro Paese arriverà a registrare a fine anno un volume di investimenti di circa otto miliardi di euro, in aumento sull’anno scorso. Nel 2016 bisogna però registrare un calo degli investimenti dei fondi sovrani rispetto ai volumi consistenti del 2015. Tra i fondi sovrani che investono nel nostro Paese c’è Adia (Abu Dhabi investment authority), guidato in Europa da Pascal Duhamel. Adia ha acquistato a Milano, tramite Coima Sgr, il palazzo dell’Inps di via Melchiorre Gioia a Milano che sarà abbattuto e ricostruito .

La preferenza per il mattone è una tendenza che i fondi sovrani mostrano a livello mondiale. Secondo il Sovereign Annual Report 2015 della Bocconi nel 2015 i fondi sovrani hanno concentrato il 56,9% degli investimenti in real estate, hotel e strutture turistiche, infrastrutture e utility, settori che offrono ritorni nel lungo periodo, pagando un premio per l’illiquidità dell’investimento.

    «Nel nuovo piano della regione guidata da Roberto Maroni, il trasporto su gomma torna ad essere l’asse portante della mobilità, in barba alle linee guida europee e al flop della Brebemi». Sbilanciamoci.info, 3 novembre 2016 (p.d.)

    Non se ne sono accorti in molti, ma nel settembre scorso è stato varato il piano dei trasporti della regione Lombardia, guidata dal leghista Roberto Maroni. Un documento ambizioso, che rimedia a 34 anni di vuoto programmatorio con una lista ipertrofica di opere e, soprattutto, con una colata di asfalto come non se ne vedevano dagli anni Sessanta. Il fatto è degno di nota, anche perché rischia di fare scuola nel resto del paese. Quanto poi sia realistica la furia asfaltatrice della giunta Maroni è un tema di cui si occuperanno le prossime generazioni, magari per coprire i buchi lasciati dagli attuali amministratori. Intanto però, in un sostanziale silenzio mediatico, il trasporto su gomma torna ad essere l’asse portante della mobilità in Lombardia, in barba alle linee guida europee su trasporto e ambiente e del tutto incuranti del flop di Brebemi, Tangenziale Esterna (Teem) e Pedemontana (lotti A e B1), tre autostrade costate quasi 10 miliardi di euro e ben lontane dal pareggio di bilancio.

    Lo dicono anzitutto i numeri. Nei prossimi anni sono previste 331 km di nuove autostrade, su 715 di dotazione esistente (+46%), incluse arterie che sembravano estinte naturalmente come la Cremona-Mantova o la Broni-Mortara (bocciata recentemente anche dal Governo in sede di valutazione ambientale). Costo complessivo: 10,9 miliardi, di cui 3,5 provenienti da Stato, Regione o Anas, cioè dalle tasche dei cittadini. Il resto dovrebbe arrivare dalla banche, che al momento non si sognano nemmeno di mettere soldi su operazioni (quasi certamente) in perdita.

    Nel complesso, strade e autostrade assorbiranno 17,6 miliardi di investimenti, dei quali 15,9 per nuovi lavori (cioè non riferibili a opere già cantierate). Ben 7,7 miliardi saranno soldi pubblici provenienti, nell’ordine, da Anas (quasi la metà), Stato, Province, Città Metropolitana, Serravalle e Regione.

    Alle ferrovie invece sono destinati 15,9 miliardi, di cui solo 7,3 per nuovi lavori, ossia programmati dalla Regione. Ma ben 8,2 miliardi finiranno all’Alta velocità Treviglio-Verona e Milano-Genova e 11,7 miliardi saranno a carico delle ferrovie nazionali (Rfi). Altri 2 miliardi andranno al solo nodo di Milano e 1,2 miliardi al rinnovo del materiale rotabile. Dunque per le tratte locali, quelle di gran lunga più utilizzate e con trend in costante crescita, sono previsti 7,7 miliardi, incluse opere contestate ed impattanti come il traforo del Mortirolo (300 milioni).

    È evidente che alla “cura del ferro” lanciata (per ora in gran parte a parole) dal ministro delle infrastrutture Graziano Delrio, la giunta lombarda preferisce la collaudatissima “cura dell’asfalto”.

    E’ appena il caso di ricordare che la Svizzera ha appena inaugurato il tunnel ferroviario di base del Gottardo, il più lungo del mondo, e nel 2020 aprirà quello del Ceneri: entrambi scaricheranno sulla linea transfrontaliera Italia-Svizzera fino a 260 treni merci al giorno (oggi sono 180) e già nel 2020 i convogli giornalieri merci e passeggeri saliranno a 390, 100 in più rispetto ad oggi. Per reggere in sicurezza tali flussi è previsto il quadruplicamento della Chiasso-Milano e il raddoppio di alcune tratte sulle direttrici Luino-Gallarate e Luino-Novara. Il costo previsto è di 4,2 miliardi (1,4 per la Milano-Chiasso) ma c’è un problema: in cassa ci sono solo 175 milioni, appena sufficienti per adeguare le infrastrutture al passaggio di treni più lunghi e pesanti dal Nord Europa. Insomma, se ne riparlerà nel 2023, sempre che si trovino i soldi, con taglio del nastro nel 2030.

    Ma per restate all’oggi, si fatica a trovare anche 1,5 miliardi per rimettere a nuovo i treni locali, spesso fermi o in ritardo per la vetustà del materiale rotabile. Un ragionamento analogo potremmo farlo per la manutenzione delle strade ordinarie, di cui si dibatte in questi giorni dopo il crollo del ponte sulla statele 36 Milano-Lecco, per le quali quali lo Stato centrale ha destinato appena 250 milioni. Al contrario, sulla triade Brebemi-Pedenmontana-Teem, Stato e Regione hanno già messo sul piatto la cifra monstre di 1,95 miliardi. Questione di priorità.

    E visto che, tornando al piano regionale, sulle ferrovie mancano all’appello 9,7 miliardi e sulle strade 10,5 miliardi, di cui 5,5 pubblici, bisognerà fare delle scelte, uscendo per un attimo dal libro dei sogni nel quale sembra caduta la giunta lombarda. E a quanto pare la strada, appunto, sembra tracciata: autostrade e alta velocità.

    A meno di pensare che davvero abbiamo bisogno di 330 km di nuove autostrade. Ironia della sorte, a smentire questa ipotesi è in gran parte la stessa Valutazione ambientale strategica allegata al piano regionale, che dovrebbe giustificarne le scelte ma finisce per contraddirle. Con dovizia di numeri e grafici essa ci mostra come nell’ultimo quindicennio sia cresciuto sensibilmente l’uso del treno – grazie anche alle nuove linee suburbane – mentre si sono ridotti gli spostamenti in auto. E, dato interessante, i comuni maggiormente serviti dal trasporto pubblico e dalla ferrovia presentano un minor tasso di motorizzazione. Come a dire: quando c’è un servizio pubblico che funzione la gente è ben disposta a rinunciare all’auto.

    Occorre poi sfatare il mito del cosiddetto “gap infrastrutturale”.L’Italia ha una densità autostradale (km rispetto alla superficie) pari a quasi tre volte la media europea, ma la Lombardia è al terzo posto in Europa con 30 km ogni 1000 km quadrati, dopo Germania e Paesi Bassi. Con le nuove arterie salirebbe al secondo posto, distanziando abbondantemente i tedeschi. Ma a costo di autostrade deserte, nuovo debito pubblico, aria inquinata e almeno 8.000 ettari di suolo compromesso, in un’Europa che sta andando in tutt’altra direzione. Se questa è l’eccellenza lombarda.

    Roberto Cuda è autore di “Anatomia di una grande opera. La vera storia di Brebemi”, ed. Ambiente

    Qualcuno pensava che quando Renzi promette soldi per le periferie ha in mente interventi per il miglioramento della vita nelle aree più povere e lontane dal centro? No, l'obiettivo è far fare affari e privatizzare il pubblico. La Nuova Venezia, 1° novembre 2016

    Un grande supermercato per il centro cittadino al posto della stazione Atvo [Azientatrasporti Veneto orientale). Piazza IV Novembre potrebbe rinascere entro un anno e mezzo, stando ai tempi dei prossimi finanziamenti previsti con il bando periferie che saranno sfruttati per la Porta Nord. Matteo Renzi dal congresso Anci ha detto che i soldi ci sono e i circa cinque milioni del bando cui partecipa convinta San Donà sono ormai a portata di mano. Questo significa spostare l’autostazione verso la Porta Nord, assieme alla stazione nuova dei treni e della metro di superficie che saranno vicine all’area della cantina sociale dove troveranno posto la nuova fiera e altri interventi.

    Il presidente di Atvo, Fabio Turchetto, si distingue per la inconfondibile chioma argentea che di tanto in tanto riavvia con la mano quando sta riflettendo: «Sì il bando periferie potrebbe essere alla portata e noi siamo interessati a questo trasferimento alla Porta Nord, formando con Rfi un polo unico del trasporto pubblico davvero moderno. Allora la nostra struttura in centro, totalmente di proprietà, potrebbe diventare qualcosa di molto strategico e importante a livello commerciale e anche per i cittadini. Abbiamo ricevuto proposte da numerosi gruppi interessati per un grande supermarket in centro, che qui avrebbero anche la zona parcheggio. Ma potrebbero trovare posto numerose altre realtà».

    I progetti presentati per il Bando Periferie saranno finanziati entro il 2017,per una spesa complessiva di due miliardi. Per San Donà rientrare tra gli obiettivi di finanziamento del bando significherebbe un contributo di circa cinque milioni, come ha detto il sindaco Andrea Cereser, di ritorno da Bari e dall’assemblea dell’Anci, dove il premier ha rilasciato il suo annuncio. I progetti presentati dall’amministrazione, in collaborazione con i privati e la Città metropolitana sono stati elaborati con una certa precisione. Circa 1,1 milioni serviranno per completare la stazione Sfmr, 2 andrebbero a realizzare, nella stessa area, la stazione Atvo, che condividerebbe con lo scalo ferroviario la biglietteria. Il progetto costituirebbe un hub in coincidenza del polo fieristico. L’importo complessivo dei lavori è di cinque milioni d coperti da Atvo oltre che dallo stesso bando. I tempi di esecuzione sono di circa 18 mesi dal momento della stipula della convenzione, comprensivi di progettazione esecutiva e gestione della gara d’appalto.

    Il bando prevede un contributo di circa 1,8 milioni per il recupero della vecchia cantina sociale, adiacente alla nuova stazione Sfmr. Sorgerà al suo interno la Cantina dei talenti, un contenitore di funzioni relative all’agroalimentare ma anche all’innovazione, al co-working, agli eventi.

    «Terzo Valico. "Cemento come colla", appalti truccati ed escort. Manette a presidente e al vice del consorzio guidato da Impregilo-Salini. Cariche e feriti a Alessandria». Il manifesto, 30 ottobre 2016

    Sommerso dagli scandali giudiziari, il Terzo Valico fa acqua da tutte le parti. D’altronde, quanto può essere solida un’opera dove «il cemento sembra colla», come dice un intercettato nell’ultima inchiesta che ha portato all’arresto del presidente e del vice del Cociv, consorzio guidato dalla potentissima Impregilo-Salini, che realizza l’infrastruttura.

    Il governo Renzi, come i precedenti, non ha mai messo in discussione l’opera, malgrado le proteste delle popolazioni (ieri terminate in scontri) e l’assenza di serie analisi costi-benefici. «S’ha da fare», diceva la berlusconiana Legge obiettivo, contestata a parole ma mai cancellata, e lo ribadisce ora il ministro Graziano Delrio.

    Ieri, ad Alessandria, quasi come se niente fosse, si è svolto l’Alessandria l’Open Space Technology, l’evento promosso dal commissario di governo del Terzo Valico, Iolanda Romano, per discutere delle «opportunità» per il territorio date dai 60 milioni di finanziamenti messi sul piatto dal ministro delle infrastrutture e da Rfi. «Non ci sottraiamo al confronto», aveva detto il commissario, mettendo a tacere le perplessità di alcuni sindaci sull’opportunità dell’evento dopo le ultime vicende.

    I No Tav avevano annunciato che sarebbero andati a contestarlo, scrivendo sul sito «Roviniamogli la festa». E così è stato. Diverse centinaia di persone si sono radunate fuori dal centro sportivo Centogrigio, sorvegliato da un imponente schieramento delle forze dell’ordine che, quando i manifestanti si sono mossi per bloccare l’accesso ai delegati iscritti, sono intervenuti con una dura carica. Alcuni No Tav sono rimasti feriti. Contestati sonoramente i senatori del Pd Stefano Esposito e Daniele Borioli, sostenitori del Terzo Valico.

    «I 60 milioni di compensazioni dovrebbero darli ai terremotati», ha replicato Claudio Sanita, uno dei leder del movimento contro la grande opera. «Non bisogna commissariare il Cociv ma fermare i cantieri. Le inchieste dimostrano – ha aggiunto Sanita – quello che dicevamo da anni. Noi non ci fermiamo, sabato prossimo bloccheremo il cantiere di Cravasco. E il 27 novembre saremo a Roma contro Renzi e una riforma costituzionale che toglie poteri alle comunità. Oggi la battaglia contro il Terzo valico passa dalla caduta di Renzi, sostenitore delle grandi opere. Contestiamo anche le compensazioni, istituzionalizzazione del meccanismo della tangente: si svende il territorio in cambio di soldi».

    Il presidente della Regione Piemonte, Sergio Chiamparino, ha chiesto il commissariamento del consorzio che ha la titolarità dei lavori «in modo da evitare che un’opera così essenziale per lo sviluppo di questa parte dell’Italia si incagli a tempo indefinito».

    L’inchiesta che ha decapitato il Cociv pone sotto la lente appalti truccati per 324 milioni. Gli imprenditori non pagavano solo tangenti, ma offrivano anche escort ai dirigenti del general contractor.

    «Cinque anni di ritardo, investimento raddoppiato e un carico di guai giudiziari». Il Fatto Quotidiano online, 29 ottobre 2016 (p.s.)

    Festeggiare i primi passi nell’anno in cui diventi maggiorenne è sintomo di una discreta capacità di vedere il cosiddetto bicchiere mezzo pieno. La dote non manca all’Eur Spa, proprietario della Nuvola, e al governo italiano che – con il ministero dell’Economia – ne è socio di maggioranza: il taglio del nastro, oggi pomeriggio, arriva a esattamente diciotto anni dal bando con cui si pensò di far nascere a Roma un Nuovo Centro Congressi.

    L’idea era brillante: portare nella Città eterna anche quel turismo di professionisti che viaggiano per convegni e seminari. E per realizzarla si fece avanti l’architetto Massimiliano Fuksas, uno che ha lasciato il segno in giro per il mondo e che Roma – la sua città – non era ancora riuscita a ospitare.

    A dirigere il cronoprogramma dei lavori vengono chiamati gli ingegneri tedeschi della Dress&Sommer, che invece nella Capitale avevano già realizzato – e pure nei tempi previsti – l’Auditorium firmato da Renzo Piano. Il lieto fine arriva oggi. Ma nel mezzo ci sono milioni di euro di troppo, cinque anni di ritardo e un carico di guai giudiziari.

    I soldi: il costo finale della Nuvola è ben lontano dai 239 milioni di euro ufficiali. L’opera, parola della sottosegretaria all’Economia Paola De Micheli, “richiede un investimento complessivo di 467 milioni di euro” visto che, oltre ai costi di costruzione, sono state necessarie “iniezioni” decisive per la sopravvivenza del progetto.

    A fine 2014 il ministero è stato costretto a ricapitalizzare la società con 133 milioni di euro per convincere le banche a non chiudere i rubinetti. Scongiurato il fermo dei lavori, a giugno del 2015, Eur spa ha firmato con i creditori un accordo sulla ristrutturazione del debito (che, già “scontato”, ammontava a 37 milioni di euro: li ha anticipati il Mef, dovranno essere restituiti entro il 2029). Infine: la vendita dell’albergo, la Lama, doveva essere una delle entrate più sostanziose. Ma ad oggi è ancora sul mercato e il suo valore, nel frattempo, è precipitato da 140 a 50 milioni di euro.

    I tempi: la posa della prima pietra è di dicembre 2007, l’obiettivo era chiudere entro la fine del 2010. Gli ingegneri tedeschi di cui sopra hanno scritto in 2 anni 91 report per segnalare i ritardi da parte di Condotte, l’impresa costruttrice. L’allora amministratore delegato di Eur spa, il fedelissimo di Alemanno Riccardo Mancini, finito nei guai per Mafia Capitale, però li fa fuori: la vicenda è arrivata fino al Consiglio di Stato, che ha dato ragione alla Drees&Sommer.

    Le cause: la chiusura del contenzioso con Condotte è attesa per l’anno prossimo e vede sul tavolo 200 milioni di euro di varianti in corso d’opera; sulla querelle giudiziaria coi tedeschi invece pesa una richiesta danni per 10 milioni di euro, oltre a circa 800 mila euro di fatture non pagate; perfino la parcella di Fuksas è finita nel mirino della Corte dei Conti e non è chiaro a quanto ammonti il totale degli eventuali risarcimenti dovuti. La maledizione della Nuvola, insomma, potrebbe continuare. Gufi, andate. Oggi è tempo di brindare.

    «Un numero crescente di cittadini di diversa estrazione sociale subisce un'espulsione fisica e simbolica dalle città. I quartieri sono investiti dalla speculazione immobiliare e finanziaria. In tutta Europa nascono movimenti che si ibridano con quelli per il diritto all'abitare». Articoli di Sandra Annunziata e di Roberto Ciccarelli. il manifesto, 28 ottobre 2016 (c.m.c.)

    MOVIMENTI EUROPEI
    CONTRO LA GENTRIFICAZIONE
    di Sandra Annunziata

    Un’agenda contro le politiche di "gentrification" nelle città dell’Europa del Sud. È l’obiettivo collettivo che si sono posti attiviste, rappresentanti di piattaforme anti-sfratto, studiose e comitati di quartiere di Lisbona, Madrid e Barcellona, Roma e Atene che si sono incontrati all’università di Roma tre per un workshop su uno dei temi che interrogano di più i movimenti sociali e le comunità accademiche critiche. La «gentrificazione» è un processo sociale e urbano complesso contro il quale si adottano pratiche anti-sfratto, anti-speculative e contro la mercificazione dello spazio urbano a fini turistici.

    L’obiettivo dell’incontro è stato quello di condividere cosa significhi oggi ipotizzare delle alternative praticabili ai regimi di espulsione in atto in città caratterizzate da un clima di austerità permanente e assumere una agenda di priorità adatte alle emergenze sociali delle città che abitiamo . La parola "anti-gentrification oggi viene usata almeno per tre motivi. Per pensare al suo contrario, ad esempio. Viviamo in città e quartieri gentrificati, si sta gentrificando anche la periferia storica, i vuoti urbani sono oggetto di mere azioni speculative che non tengono conto nemmeno dei vincoli archeologici, ultima roccaforte per preservare il valore collettivo di una città.

    Il concetto dianti-gentrificazione viene anche usato per gestire la complessità dei temi sollevati dai movimenti sociali urbani. Serve a tenere insieme diverse forme di espulsione delle persone appartenenti a diverse categorie sociali. Esiste un’espulsione diretta, quella che avviene con gli sfratti. E l’espulsione indiretta, quella legata ai progetti di trasformazione urbana che inevitabilmente aumentano i valori immobiliari delle aree, di conseguenza gli affitti e il valore degli immobili. Esiste l’espulsione simbolica che reifica il significato dei luoghi e delle memorie urbane e le trasforma in prodotto turistico o da consumare. Infine l’abbiamo usata strategicamente per il suo valore politico e per chiederci se sia gestibile e quale ruolo possano svolgere le politiche in un ottica di prevenzione e mitigazione della gentrificazione.

    Per le forme e le specificità assunte da questi processi nelle città dell’Europa del Sud, credo che non possa più ignorare la «gentrificazione». Un numero crescente di cittadini di diversa estrazione sociale è interessato dal problema. Come fare per invertire la rotta? La risposta arriva dai comitati di quartiere, dai movimenti anti-sfratto, anti-austerity e anti-speculazione: pensare alla decrescita e mitigare il turismo, bloccare i piani di vendita del patrimonio e mettere a regime le competenze sull’autorecupero a scopi abitativi; riabitare il patrimonio inutilizzato; istituire moratorie anti sfratto in assenza di alternative alloggiative, proteggere le prime case e un tessuto diffuso di piccoli proprietari; dare avvio a una nuova generazione di cooperative indivise a diritto d’uso; dare spazio alla partecipazione e assumere il conflitto come base per l’azione sociale.

    Queste azioni possono rendere più coesa, più solidale, più giusta una città che non rinuncia allo sviluppo e alla rigenerazione e non ignori le comunità che la abitano e le loro esigenze. La risposte al problema dell’espulsione sono collettive e soprattutto tra diversi gruppi sociali. Contrastare l’espulsione urbana. realizzare l’inclusione, sono due modi per ristabilire un’ordine nelle priorità dell’agenda urbana di una città.

    LA STORIA DI CARMEN
    «LA BANCA VOLEVA LA CASA
    HO RESISTITO E POI HO CAPITO
    CHE NON ERO SOLA
    »
    di Roberto Ciccarelli

    «Diritto alla città. La bolla immobiliare in Spagna ha colpito anche il ceto medio che ora sta scopre il mondo dell’autorganizzazione. "A Madrid con la Pah, la piattaforma sociale contro gli sfratti, ho scoperto una comunità, una forza collettiva, un modo di lavorare con gli altri"

    Nella sua vita precedente Carmen Gutiez faceva l’imprenditrice a Madrid. Era quella che si poteva definire una «storia di successo»: un’impresa di consulenza sulla formazione che dava lavoro fino a 300 persone, una casa in centro a Madrid il cui valore è stato calcolato intorno al milione di euro.

    Oggi ha più di cinquant’anni, è una madre single, e la sua vita è cambiata radicalmente, come mai avrebbe potuto immaginare. Carmen colloca l’ora X nella crisi del 2008. Da quel momento le cose sono andate peggiorando, al punto che ha dovuto chiudere l’impresa, Alla lunga i risparmi sono finiti e Carmen non è riuscita a pagare il mutuo e le bollette. «In Spagna, come anche voi in Italia, agli imprenditori e ai freelance non viene riconosciuto un sussidio di disoccupazione», ci racconta a Roma dopo un intervento in un workshop sui movimenti antigentrificazione e per il diritto all’abitare.

    Questa è la storia comune di molti professionisti del ceto medio alto, e basso, travolti nel paese iberico dall’esplosione della bolla immobiliare e dalla crisi economica. Come loro, milioni di spagnoli in condizioni sociali molto distanti. La crisi è interclassista e non guarda in faccia nessuno. «Ero a casa nel 2015 – ricorda – Cercavo lavoro sul mio pc e qualcuno bussa alla porta. Era la polizia e l’ufficiale giudiziario, dicono che vogliono sfrattarmi. La banca voleva la mia casa dopo avermi preso i risparmi».

    Nella concitazione, Carmen riesce a ottenere una settimana di tregua. Il tempo necessario per contattare lo snodo locale della Plataforma de Afectados por la Hipoteca (Pah) di Madrid Centro, snodo del movimento perla casa e contro gli sfratti che in Spagna ha raggiunto una straordinaria ramificazione e partecipazione politica al punto da avere espresso anche la sindaca di Barcellona, Ada Colau. Quello di Carmen è diventato un caso nazionale quando il movimento si è mobilitato. Su twitter viene lanciato l’hashtag: #CarmenSeQueda, Carmen non se ne va, resta qui. Uno slogan usato molte altre volte.

    La Pah usa anche un altro slogan, mutuato da quello italiano da una definizione dello storico dell’arte e sindaco della Capitale Giulio Carlo Argan: «Roma è una città di gente senza casa e di case senza gente». Sugli striscioni usati durante i picchetti nella negoziazione tra la Pah di Madrid e la banca «La Caixa» ne è stato mostrato uno con la traduzione in spagnolo: «ni gente sin casa, ni casas sin gente» con il simbolo della Pah e quello internazionale: «Stop evictions», cioè «Stop sfratti», «stop desahucios».

    «Adesso vivo con un salario minimo di 426 euro mensili, in Spagna esiste e mi arrangio». La sua nuova vita è quella dell’attivista per il diritto all’abitare. Fa la social media manager del movimento, partecipa ai picchetti anti-sfratto, gira la Spagna e l’Europa e fa politica. «Ogni volte rivivo quel momento dello sfratto, non voglio che altre persone lo vivano. Non è giusto – racconta – I miei genitori sono morti, con la Pah ho scoperto un nuovo modo di creare una famiglia. è come riscoprire l’amicizia con il mondo. Ho scoperto la sensazione che ti dà una forza collettiva, insieme a persone molto diverse».

    La Pah, nata nel 2009, è una delle più potenti espressioni di quel movimento di massa che è stato il 15M spagnolo nel 2011. Oggi è impegnata nella campagna per una legge sulla casa nella Madrid governata da Manuela Carmena. Una proposta di legge di iniziativa popolare è stata respinta dal parlamento. «Questa è una nuova opportunità per me – sostiene Carmen – non siamo soli e posso lavorare per gli altri».

    Riferimenti

    Se non sapete che vuol dire "gentrification" scrivete la parole nel "cerca". Leggete soprattutto qui l'articolo di Saskia Sassen

    Articoli di Fabio Tonacci e Giuseppe Scarpa, di Katia Bonchi, di Giovanna Trinchella e Marco Pasciutti. La Repubblica, il manifesto, IlFatto Quotidiano online, 27 ottobre 2016 (c.m.c.)

    La Repubblica
    «QUEL CEMENTO È COLLA»
    LE GRANDI OPERE PILOTATE CON ESCORT E BUSTARELLE

    di Fabio Tonacci e Giuseppe Scarpa

    «Trenta arresti per il Terzo valico e la Salerno-Reggio Arrestato il figlio di Monorchio, indagato Lunardi jr.»

    Nell’amalgama di imprese colluse, di relazioni tecniche taroccate per illudere sul rispetto delle tempistiche, di funzionari corrotti, affonda il segreto del perché, in Italia, le grandi opere pubbliche non finiscono mai. E del perché, quelle volte che arrivano a conclusione, si scoprono giganti con piedi di cemento scadente.

    «Cemento che sembra colla», come dicono al telefono gli uomini che tale “amalgama” hanno creato attorno a due infrastrutture vitali per il paese - la linea dell’Alta Velocità Milano-Genova, l’autostrada Salerno- Reggio Calabria - e al progetto del People mover, che dovrà collegare l’aeroporto Galilei e la stazione di Pisa.

    Due inchieste separate dei pm di Roma e Genova, “Amalgama” e “Arka di Noè”, condotte dal Nucleo investigativo provinciale del comando di Roma e dal tributario dalla Finanza, hanno portato all’arresto di 30 persone in tutta Italia, con le accuse di associazione a delinquere, corruzione, turbativa d’asta, tentata estorsione. Quattro di loro figurano in entrambe le indagini: il direttore tecnico Giampiero De Michelis, l’imprenditore Domenico Gallo (che pare avere legami con le ‘ndrine di Platì), Michele Longo e Ettore Pagani. Non due nomi qualunque, questi ultimi.

    Oltre ad avere ruoli apicali nella Salini-Impregilo, il colosso delle costruzioni asso pigliatutto dei lavori pubblici in Italia (tra le altre cose, il Ponte di Messina), sono anche direttore e presidente del consorzio Cociv cui le Ferrovie dello Stato hanno affidato la realizzazione del Terzo Valico della Tav, un’arteria strategica tra Genova e Milano (del costo di 6,2 miliardi, fine lavori nel 2021). Nel consorzio, oltre a Impregilo, c’è la Condotte d’Acqua spa. Gli stessi attori del sesto macrolotto della Salerno-Reggio Calabria, che ha richiesto un investimento per lo Stato di 632 milioni di euro. Questo è il quadro. Ciò che racchiude la cornice è desolante, ma spiega molte cose.

    Il personaggio chiave è il “mostro”, come è soprannominato De Michelis, il tecnico della Sintel di Giandomenico Monorchio chiamato per fare il direttore dei lavori delle tre opere, assumendo il ruolo di pubblico ufficiale. Il “mostro” conduceva le danze: invece di controllare le imprese subappaltatrici (tra cui anche la Rocksoil dell’indagato Giuseppe Lunardi, figlio dell’ex ministro del Pdl), ometteva. I procuratori aggiunti Michele Prestipino e Paolo Ielo l’accusano di non aver segnalato «le irregolarità nelle forniture di prefabbricati e nell’ingresso nei cantieri di mezzi e materiali non autorizzati », di essersi “dimenticato” di applicare penali per i ritardi, di aver permesso che venissero montati cordoli costruiti con calcestruzzo sbagliato. La sua “cecità” aveva un prezzo: ottenere appalti per aziende (Breakout, Oikodomos, Tecnolab, Mandrocle) riconducibili a lui e a Gallo. Per ottenere la compiacenza e chiudere qualche occhio, giravano anche mazzette e escort.

    «Quel cemento sembrava colla, abbiamo rimandato indietro tre betoniere», si lamenta l’impresario Paolo Piazzai, quando si accorge di cosa erano fatte le miscele mandate dalla Breakout. Un suo collega aggiunge: «L’iniziale fornitura era acqua, la seconda non scendeva nemmeno dalla canalina e si intasa pure la pompa». In un altro caso il gruppo cerca di nascondere una gettata di calcestruzzo malfatta, priva delle previste strutture di contenimento. «La cassaforma non c’era! Perché avete firmato una cosa così», sbraita al telefono un imprenditore con Jennifer De Michelis, la figlia del direttore dei lavori.

    «Valuteremo se ci sono le condizioni per chiedere il commissariamento di alcuni appalti: se necessario, siamo pronti a farlo», spiega il presidente dell’Anac, Raffaele Cantone.

    Il manifesto
    TAV MILANO-GENOVA,
    TANGENTI E INTIMIDAZIONI.
    E C'È UN LEGAME CON MAFIA CAPITALE

    di Katia Bonchi

    «Trenta arresti . Decapitati i vertici del consorzio ligure che gestisce gli appalti per la linea ad alta capacità. Fra gli arrestati il figlio dell'ex ragioniere generale dello Stato Monorchio. Indagato Lunardi, figlio dell’ex ministro dei Trasporti»

    Turbativa d’asta, metodi di intimidazione mafiosa, tangenti ed escort. La doppia maxi inchiesta sulle grandi opere della Procura di Roma e di quella di Genova rispettivamente sulla Salerno Reggio Calabria e sul Terzo Valico mette in luce che almeno per la parte genovese ha scatenato una bufera con l’azzeramento di fatto dei vertici del Cociv, il consorzio che gestisce gli appalti per la linea ad alta capacità che collegherà Genova a Tortona, opera in sei lotti dal costo complessivo di oltre 6 miliardi di euro.

    Le Fiamme gialle a Genova hanno eseguito 14 ordinanze di custodia cautelare (24 in tutto gli indagati) per corruzione, concussione e turbativa d’asta. Tra i destinatari il presidente del Cociv Michele Longo, il suo vice Ettore Pagani e nove fra dirigenti e funzionari del consorzio. Tra gli arrestati figura il figlio dell’ex ragioniere generale dello Stato Monorchio.

    Indagato Lunardi, figlio dell’ex ministro dei Trasporti. L’indagine ha scoperto un giro di appalti milionari truccati grazie a mazzette, escort e anche metodi di intimidazione mafiosa. In un caso l’indagine ha documentato il passaggio di soldi da 10 mila euro da un imprenditore a un dirigente Cociv. In un altro, un imprenditore offre una escort a un dirigente del Cociv in cambio di facilitazioni per l’appalto di una galleria che consentirà di depositare in cava parte dello smarino del Terzo Valico.

    Al centro dell’inchiesta ci sono altri due casi di turbativa d’asta. Il primo è relativo al cosiddetto lotto Libarna per un valore di 67 milioni e assegnato alla ditta Oberosler di Trento. L’accusa è di collusione per i suggerimenti dati dai funzionari del Cociv all’azienda per correggere le ‘anomalie’ della sua offerta. Il secondo riguarda il Lotto Serravalle, da 189 milioni, assegnato alla Grandi Lavori Fincosit senza che venisse espletata la valutazione delle anomalie dell’offerta presentata.

    C’è di più. Tra gli arrestati, quattro persone legano i due filoni di inchiesta: l’indagine dei carabinieri che ha portato a 21 arresti su richiesta della Procura di Roma nasce da uno stralcio dell’inchiesta su Mafia Capitale e riguarda anche 4 persone che hanno avuto a che fare con i lavori del Tav ligure. Oltre al presidente del Cociv Longo e al suo vice Pagani, ci sono l’ingegnere Giampaolo De Michelis e l’imprenditore calabrese Domenico Gallo. De Michelis, fino alla fine del 2015 è stato direttore dei lavori per il Cociv e avrebbe favorto l’ingresso dell’amico e compaesano Gallo nei subappalti per la fornitura di inerti e calcestruzzi tanto che uno dei dirigenti Cociv in un’intercettazione dice: «C’è troppa Salerno Reggio, è diventato un consorzio a gestione meridionale, troppi calabresi, non va bene».

    De Michelis avrebbe fatto di tutto per togliere il subappalto per la fornitura alla ditta Allara di Casale Monferrato con ordini di servizio e minacce ai dirigenti Cociv. Poi misteriosamente un anno fa quattro mezzi della stessa ditta vengono pedinati e danneggiati. L’imprenditore di Allara non ha dubbi, e pochi sembrano averne gli inquirenti: «Questo furgone che girava dietro sono i calabresi di Chivasso collegati a quello, quel delinquente» dice riferendosi a Gallo che secondo il gip di Genova avrebbe contatti «con soggetti legati alla criminalità organizzata» e avrebbe partecipato alla cresima della figlia di Domenico Borrello, affiliato alla `ndrina Barbaru U Castanu di Plati´.

    Il Fatto Quotidiano
    GRANDI OPERE, LE INTERCETTAZIONI
    «CEMENTO COME COLLA»
    E CALCESTRUZZO CHE DEFLUISCE A CAZZO.
    GIP:«SICUREZZA VIOLATA».

    di Giovanna Trinchella e Marco Pasciutti

    La scarsa qualità dei materiali è evidente, in primo luogo a chi dovrebbe vigilare sulla regolarità dei lavori. Dalle intercettazioni si comprende che questo tipo di problemi potrebbe riguardare i lavori sulla autostrada Salerno Reggio Calabria. A parlare è l'imprenditore calabrese Domenico Gallo, che il gip di Genova nella complementare indagine ligure descrive come personaggio che «risulta avere contatti con soggetti legati alla criminalità organizzata». Parlando dell'opera la definisce «non collaudabile».

    «Cemento che sembra colla», «calcestruzzo che non ha una barriera fisica e defluisce un po’ a cazzo come gli pare a lui». È vario il frasario utilizzato dai protagonisti dell’inchiesta “Amalgama“ per descrivere la scadente qualità dei materiali utilizzati nei cantieri finiti sotto la lente d’ingrandimento della Procura di Roma. Qualità così scadente che, in un caso, le betoniere pronte a gettare cemento che vengono rimandante indietro «essendo il materiale assolutamente inutilizzabile». Il problema del calcestruzzo fornito dalla Breakout (secondo gli inquirenti di Roma riferibili agli arrestati Giampiero De Michelis e Domenico Gallo) appare davvero inquietante: all’inizio la fornitura era “acqua” mentre la seconda «non scendeva nemmeno dalla canalina e si intasa pure la pompa». Miscele, quindi, che «non erano assolutamente idonee». In un altro caso il “cemento” era «diverso da quello prescritto».

    Il cemento che sembra colla

    Il primo a svelare questo particolare è stato il procuratore aggiunto Paolo Ielo nella conferenza stampa durante la quale il magistrato ha citato un’intercettazione del 27 novembre 2015 in cui Paolo Brogani, responsabile della Divisione Coordinamento Infrastrutture e Viabilità di Cociv – Consorzio Collegamenti Integrati Veloci, general contractor a cui è affidata la progettazione e la realizzazione della linea Alta Velocità Milano-Genova – riceve lamentazioni a causa del «cemento che sembra colla». Anche perché a dire di un intercettato l’imprenditore Domenico Gallo «ha sempre avuto il vizio di mettere nel cemento troppo additivo».

    La scarsa qualità dei materiali è evidente, in primo luogo a chi dovrebbe vigilare sulla regolarità dei lavori. Il 24 luglio 2015 Jennifer De Michelis, indagata, responsabile Qualità e Sicurezza per società Grandi Opere Italiane e figlia di quel Giampiero ritenuto dai pm cardine dell’intero sistema corruttivo, parla al telefono con il suo fidanzato Enrico Conventi, indagato, ispettore di cantiere nella costruzione dell’Alta Velocità Milano-Genova, della scarsa qualità del calcestruzzo utilizzato e cerca di convincerlo, scrive il Gip, a «falsificare gli atti del controllo per garantire mediante soluzione condivisa la tenuta del patto criminale».

    L’intercettazione: «Poi vediamo chi se la cava peggio»

    Illuminanti i virgolettati: «C’è il calcestruzzo della fondazione che che non ha una barriera fisica… ma defluisce un po’ a cazzo come gli pare a lui – protesta l’ispettore con la De Michelis – allora lì è un problema ancora una volta! Se mettiamo “non conforme” il problema è che non essendo conforme va aperta una non conformità per quello. Però io ho autorizzato il getto. Quindi sono nella merda anch’io. Quindi che cazzo dobbiamo fare?».

    Conventi è terrorizzato perché «la firma è mia» e la responsabile Qualità e Sicurezza gli fornisce – scrive il gip – la «soluzione documentale al fine di occultare le irregolarità commesse e certificare la regolarità della gittata»: il suggerimento è quello di metterci «una bella X sopra (…) visto che sul progetto c’è scritto ‘gettato controterra‘ (…) O cresciamo tutti e ognuno si assume le proprie responsabilità e tutti quanti troviamo una soluzione condivisa o sennò ognuno pensa al culo suo. Poi vediamo chi se la cava peggio».

    Il gip: «Violate sistematicamente le procedure di sicurezza»

    È il gip a fotografare in maniera inequivocabile la situazione: «Gli indagati (…) violano sistematicamente le procedure di sicurezza e di qualità delle opere realizzate grazie alla compiacenza della direzione dei lavori». «I risultati – scrive ancora Sturzo – di solito sono noti per altre esperienze accertate nel campo delle indagini degli uffici giudiziari; cosi poi emergeranno i cementi depotenziati, gli inerti di scarsa qualità, il ferro e gli acciai non conformi, gli asfalti diversi per qualità e quantità a quelli dei capitolati». Cause, scrive ancora il magistrato, alla base dei crolli e dei malfunzionamenti di cui sono protagonisti le opere pubbliche: «Questi artifici truffaldini saranno la matrice dei crolli spontanei o indotti dai terremoti e dall’uso, di migliaia di opere pubbliche consegnate come gioielli della tecnica ma, alla luce di ciò che solitamente si accerta, in molti casi frutto di gravissime truffe ai soggetti pubblici».

    La Salerno Reggio Calabria «opera non collaudabile»

    Dalle intercettazioni si comprende che questo tipo di problemi potrebbe riguardare i lavori sulla autostrada Salerno Reggio Calabria. A parlare è l’imprenditore calabrese Domenico Gallo, che il gip di Genova nella complementare indagine ligure descrive come personaggio che «risulta avere contatti con soggetti legati alla criminalità organizzata». «Dici ma io posso pensare pure perché eh m’avete fatto revocare pure l’incarico mi avete spinto pure voi perché non firmo quello che volevate … e io … Allora io le so tutte e tenete conto di un’altra cosa allora che qua caschiamo e tutta la Salerno Reggio Calabria, dell’opera non collaudabile, dell’arbitrato… Ed io le relazioni gli dici… che le troviamo… di quando dovevate chiudere a 40 milioni (inc) è stato trasferito apposta e cosa ora qua o fate le persone per bene completiamo il ciclo e poi mi mandate a fanculo però io 10 adesso devo completare perché cosi vi siete messi d accordo tutti per mettermi in mezzo ad una strada? Io mi difendo». Ad ascoltare c’è l’ingegnere Giampiero De Michelis, direttore dei lavori del Cociv, che con Gallo, secondo gli inquirenti, avevano innescato un ricatto nei confronti di Giandomenico Monorchio.

    Riflessioni sulla fine delle politiche abitative pubbliche, mascherata dalle retoriche e dal sostegno al cosiddetto housing sociale, a partire da un libro sull'edilizia sociale e da una legge della Regione Lombardia. casadellacultura.it, 22 ottobre 2016. (m.b.)

    Il libro curato da Saverio Santangelo, Edilizia sociale e urbanistica. La difficile transizione dalla casa all'abitare (Carocci, 2015), prende in esame il tema della nuova questione abitativa, valutando lo stato di salute delle politiche pubbliche degli ultimi anni. Il volume si sviluppa attraverso il contributo di ricercatori e attori diretti, in una prospettiva di inquadramento storico, cercando di mettere in luce, a partire da un'analisi critica delle politiche messe in campo oggi, i nodi teorici e i conseguenti risvolti pratici, anche individuando approcci e strumenti che potrebbero contenere elementi di novità e interesse per la definizione di nuove strategie di intervento. Transizione, come suggerisce il titolo, è la parola chiave: come travaglio del processo di cambiamento in corso della società e della crisi del modello fondato sull'intervento pubblico, caratterizzato da debolezze strutturali e persistenti ma che ha comunque dato risposte importanti con l'edilizia pubblica al bisogno di casa dei ceti popolari, nella più generale crisi del welfare; come opportunità e necessità di definire nuove strategie di intervento integrate in merito alle politiche della casa e all'urbanistica, verso una politica che consideri qualità dell'abitare e del vivere nella città. Attorno a questa tensione si snoda il libro. Tra ciò che si sta realmente compiendo e ciò che si potrebbe ancora modificare e realizzare. Transizione quindi verso dove? E chi sono gli attori che le politiche pensano, promuovono e attuano? Ma anche chi sono i beneficiari e secondo quali priorità vengono ascoltati e inclusi nei processi decisionali. E ancora, questa fase di demolizione e ricostruzione del welfare abitativo è un'opportunità per chi?

    Sebbene il libro contenga una pluralità di voci e vengano presentate esperienze locali e sperimentazioni di progetti di rigenerazione urbana e di edilizia sociale analizzate nelle loro criticità, ma anche nei diversi aspetti positivi e di successo, emerge con nettezza un giudizio globale negativo: questa transizione è difficile: "in assenza di un cambiamento complessivo, culturale, politico-istituzionale e sociale - e che in quanto tale richiede tempi lunghi -, sulle questioni qui affrontate non è possibile attendersi risultati significativi" (dall'introduzione del testo).

    Il dato di partenza è il dramma della realtà italiana: aumento costante dei tassi di disoccupazione nella prolungata fase di stagnazione economica che stiamo attraversando, contrazione del potere di acquisto delle famiglie, accelerazione dell'aumento della diffusione della povertà nel processo iniziato ormai trent'anni fa di crescita della diseguaglianza economica; crisi del ciclo edilizio travolto dalla crisi economico-finanziaria globale dopo aver comunque lasciato il territorio italiano ricoperto di cemento, un consistente patrimonio immobiliare sfitto, il drastico calo delle compravendite, guadagni e risparmi delle famiglie immobilizzati nella spesa della casa; centinaia di migliaia di famiglie in attesa dell'assegnazione di un alloggio popolare, 150mila famiglie con in corso una procedura di sfratto o esproprio, città in cui diminuisce la qualità dell'abitare, un patrimonio pubblico in progressivo decadimento a causa della mancanza dei piani di manutenzione ordinaria e straordinaria, quartieri popolari sempre più abbandonati dalle istituzioni e ormai ghetti, sganciati dal destino del resto della città.

    Il secondo elemento è che, in una situazione così strutturalmente complessa e disastrosa, costante e progressiva è la riduzione dei finanziamenti pubblici. La crisi economica e i conseguenti programmi di austerity richiesti dall'Europa sono andati a sovrapporsi negli ultimi anni a una politica pubblica già caratterizzata fin dai suoi inizi da investimenti per il welfare abitativo che hanno sempre collocato l'Italia tra gli ultimi paesi europei. E come mostrato nella conclusione del libro, l'ultimo intervento nazionale, il Piano Casa Renzi-Lupi, promosso come lo strumento attraverso cui il tema dell'emergenza abitativa ritornava al centro della politica, in realtà mette a disposizione ancora meno risorse, solo lo 0,08% del PIL.

    A partire da questi due assunti nel volume viene dato spazio al tema dell'housing sociale, ripercorrendone l'evoluzione normativa, dalla nascita agli inizi degli anni duemila, alla costituzione nel 2009 del Sistema Integrato dei Fondi di Investimento (Sifi), al ruolo che assume con la Legge 80/2014: da misura collaterale introdotta a supporto ed integrazione delle politiche pubbliche già in atto come risposta al fabbisogno abitativo di un ceto medio solvibile ma troppo povero per il mercato privato ad ambito che ha permesso l'entrata sulla scena del welfare abitativo di attori finanziari attraverso i fondi immobiliari, determinando una ridefinizione dell'intervento pubblico volto all'investimento. A causa di un quadro normativo frammentato e approssimativo, della mancanza di una governance forte da parte dell'istituzione pubblica e della mancata integrazione con le politiche urbanistiche, tale strumento ha però fino ad ora disatteso le aspettative a fronte invece di una consistente mobilitazione di risorse pubbliche: la redditività degli interventi per gli investitori privati insieme con gli ingenti costi dell'"apparato" delle società di gestione del risparmio ha infatti privilegiato la nuova costruzione a discapito di progetti di recupero e riqualificazione dell'esistente, con un risultato comunque misero (2500 alloggi, dicono i dati disponibili) in minima parte in locazione e con affitti accessibili. Nel contempo però la partecipazione alla privatizzazione di Cassa Depositi Prestiti ha fruttato alle fondazioni di origine bancaria una rivalutazione superiore al 50% dell'investimento, che nell'ambito del welfare abitativo si sta declinando anche nella gestione dei processi di privatizzazione dei patrimoni immobiliari pubblici e degli enti previdenziali.

    Ad allarmare non è solamente l'esiguità dei risultati degli interventi, ma la filosofia sottesa che sta forse a indicare la meta della transizione in corso, se altre strade non verranno scoperte e percorse. Housing sociale è espressione ricorrente in tanta letteratura e retorica istituzionale, il più delle volte accompagnata ad altre espressioni, quali opportunità, coesione sociale, accompagnamento, ibridazione pubblico-privato, innovazione. Una narrazione che ci spinge a credere che i diversi attori, pubblici e privati, possano concorrere al benessere collettivo ciascuno "guadagnandoci" qualcosa. In questo quadro però a essere ridefinito e ridimensionato è il ruolo del Pubblico, ridotto a mero facilitatore: cioè con il compito di rendere l'investimento sostenibile economicamente per il soggetto finanziario, che in cambio si adopererà per il benessere della società. A essere sacrificato sembra essere il diritto a un abitare dignitoso e sostenibile economicamente delle famiglie senza casa, sotto sfratto, costrette in alloggi spesso antigienici e non idonei e delle migliaia di inquilini che abitano nei caseggiati dei quartieri popolari abbandonati al degrado. Si dice infatti che il sistema dei fondi di investimento e dell'housing sociale non siano una risposta alla questione abitativa e non potranno sostituire l'edilizia popolare. Si sente dire meno però che le politiche promosse contravvengono a questa constatazione, valorizzando l'intervento privato e creando le condizioni normative ed economiche per una sua maggiore diffusione e per un suo più stabile radicamento.

    La logica di finanziarizzazione del welfare e di riduzione dell'intervento pubblico a facilitatore dell'investimento privato si può ritrovare anche in alcuni interventi strategici dei diversi livelli istituzioni. Ne è esempio la costituzione da parte del Comune di Milano dell'Agenzia sociale per la locazione, oggetto di un'energica campagna di marketing, ma che ad oggi non ha dato alcun risultato concreto sia nella gestione delle situazioni di morosità incolpevole, secondo quanto previsto dalla Legge 80, che nella stipula di contratti a canone concordato (i dati infatti non vengono pubblicizzati né dal Comune né dall'Agenzia stessa). La retorica è simile a quella promossa dalle politiche rivolte a sostenere i fondi mobiliari: cercare di alleviare il disagio di quella fascia di popolazione che non può accedere all'edilizia popolare (ma per cui i canoni liberi da mercato incidono troppo sul bilancio famigliare) in modo da arginare i processi di impoverimento; agevolare l'incontro della domanda e dell'offerta facendo comprendere a entrambe le parti quanto sia conveniente stipulare un contratto a canone concordato. Secondo questa stessa motivazione il Comune di Milano ha ottenuto che venisse rivisto al rialzo il nuovo accordo locale sugli affitti, sebbene non sia stato sottoscritto dalle organizzazione sindacali più rappresentative in città. Un'opportunità, quindi, più che per gli inquilini, per le grosse proprietà immobiliari che ritoccando di poco gli affitti già percepiti potranno beneficiare di consistenti agevolazioni fiscali.

    Eppure siamo di fronte a una realtà drammatica che solo a Milano riguarda 30mila famiglie su cui pende una procedura di sfratto o esproprio, 14mila famiglie con l'ufficiale giudiziario alla porta e 25mila famiglie in attesa di un alloggio popolare. Abbiamo anche a disposizione studi approfonditi e seri che mostrano come esista un profondo divario tra reale domanda per capacità economica dei nuclei famigliari e l'offerta di alloggi. Citiamo a titolo di esempio la ricerca condotta nel 2012 dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano, "Offerta e fabbisogno di abitazioni al 2018 in Lombardia" (responsabile prof. Antonello Boatti), che dimostra come in Lombardia "il 73,97% del fabbisogno complessivo stimato al 2018, sulla base dell'analisi dei redditi, [sia] ascrivibile necessariamente a nuovi interventi di edilizia residenziale pubblica, il 26,03% del medesimo fabbisogno [sia] invece ascrivibile alla domanda di edilizia residenziale sociale. Infine il surplus di edilizia residenziale libera stimato [ammonti] a 808.656 vani, pari a 367.656 abitazioni". Colpisce dunque come, in generale, ad avere il sopravvento sia una narrazione pacificata della realtà, secondo cui sarebbe sufficiente far convergere i diversi interessi in campo, mentre pare impossibile aprire anche solo una discussione sulla possibilità che il Pubblico possa riconquistare un ruolo più determinante sul mercato, attraverso gli strumenti fiscali, urbanistici e normativi che ha a disposizione.

    Un secondo esempio di come le politiche di valorizzazione immobiliari si stiano qualificando come operazioni di privatizzazione e sottrazione di patrimonio pubblico alle sue finalità sociali è dato dal caso di alcuni stabili del quartiere Mazzini a Milano. Dopo essere stati svuotati parzialmente dagli abitanti nell'ambito del progetto di riqualificazione Contratto di Quartiere II iniziato nel 2004 ed essere stati lasciati privi degli interventi di manutenzione ordinaria, con un'accelerazione dei processi di degrado, a seguito del dissesto finanziario di ALER e la mancanza dei fondi, la cabina di regia del progetto ha deciso di cancellare gli interventi non iniziati. E nonostante le famiglie rimaste negli stabili, costrette a subire un abitare non dignitoso in un contesto di abbandono, si siano comunque impegnate insieme con i loro rappresentanti sindacali a trovare soluzioni, Regione Lombardia ha accolto la proposta di Investire sgr e ha trasferito la piena proprietà di alcuni immobili a un comparto del Fondo Immobiliare di Lombardia già esistente. Case finanziate e costruite come edilizia pubblica verranno così trasformate in edilizia privata/convenzionata, senza nessuna informazione e coinvolgimento degli abitanti presenti e dei loro rappresentanti e senza alcuna garanzia.

    Ritroviamo in una forma più sistematica questi stessi principi nel nuovo Testo di Riforma dell'edilizia popolare e sociale, approvato dal Consiglio Regionale della Lombardia a giugno e che ha come titolo "Disciplina regionale dei servizi abitativi", tema che meriterebbe uno studio e un approfondimento specifico, soprattutto in relazione al processo di fallimento economico di Aler Milano, nel quadro del ventennio di governo Formigoni. Il Testo è stato approvato nel quasi totale disinteresse dei mezzi di informazione e della collettività e con la sola opposizione delle organizzazione sindacali degli inquilini, di alcuni comitati e movimenti per la casa che, purtroppo, non sono riusciti a sensibilizzare l'opinione pubblica sull'importanza del tema.

    Il progetto, con lo scopo dichiarato di voler risolvere la strutturale mancanza di finanziamenti per le politiche della casa e dei quartieri pubblici, a partire dai principi della "sostenibilità economica" del sistema e del "mix sociale", va a ridefinire la funzione dell'edilizia pubblica, stravolgendone il senso e costruendo un modello che esclude i ceti più poveri, colpevolizzandoli e costringendoli in un sistema che ha sempre meno a che fare con i diritti e sempre più con uno stato sociale residuale e caritatevole, delegato al privato sociale. In breve, le misure principali previste dalla normativa sono: l'ingresso dei privati nella gestione degli immobili attraverso il sistema dell'accreditamento; un limite all'accesso delle famiglie indigenti che potranno avere una casa solo ed esclusivamente tramite la presa in carico dai servizi sociali; il consolidamento dei piani di alienazione del patrimonio; la promozione di programmi di valorizzazione; l'assegnazione degli alloggi svincolata da graduatorie di bisogno e subordinata all'offerta degli alloggi effettivamente disponibili; l'affidamento al Terzo Settore della gestione di alloggi da trasformare in "servizi abitativi transitori" rivolti a famiglie in emergenza abitativa e sotto sfratto; l'erogazione di contributi economici a carattere temporaneo con contestuale attivazione di programmi di recupero dell'autonomia economica e sociale rivolti agli inquilini riconosciuti "morosi incolpevoli"; misure di allontanamento per gli inquilini riconosciuti "morosi colpevoli" e occupanti senza titolo. In prospettiva ciò significa che 1/3 del patrimonio di case popolari attuali potrebbe cambiare la sua destinazione ed essere venduto e "spostato" in un sistema più sostenibile e redditizio per gli enti gestori, a canone moderato o convenzionato o in patto a futura vendita o dirottato ai servizi transitori, tradendo la funzione sociale per cui l'edilizia pubblica è stata realizzata e cioè dare una casa dignitosa ai ceti popolari.

    L'equilibrio finanziario del sistema sembra quindi essere trovato attraverso il "cambiamento dell'inquilinato": escludere le famiglie più povere per sostituirle con famiglie con capacità economiche più certe. In questo modo l'istituzione pubblica si sgrava di una parte del compito di dover garantire il diritto di tutti a una casa a un costo economicamente giusto e in secondo luogo si sottrae a qualunque possibile discussione sul giusto costo della casa popolare e sociale, sia per quanto riguarda il canone che le spese, anche in relazione alla qualità dei servizi e ai costi di gestione e sulle connessioni con l'urbanistica.

    Discutibile è infine la retorica sulla colpevolezza/incolpevolezza della morosità, che stigmatizza la condizione di povertà, riducendola alla sola responsabilità dei singoli, e mette in risalto la distanza tra coloro che hanno steso la legge e i cittadini a cui la legge è rivolta. Cittadini che con sofferenza, ogni giorno, si scontrano con la precarietà del mondo del lavoro e la frammentazione del sistema sociale, subendo così una progressiva riduzione del proprio orizzonte di cambiamento e di mobilità sociale, senza trovare ancora un'autonoma capacità di espressione. In conclusione, una riforma ideologica, che non sembra essere all'altezza della realtà e che andrà ad aggravare l'emergenza abitativa di questi anni.

    Si può formulare una rigorosa proposta di legge per mettere fine al consumo di suolo, in alternativa a quella, più dannosa che utile, attualmente all'esame del Senato? Il Forum Salviamo il Paesaggio ritiene di sì e ha promosso l'elaborazione di un testo da sottoporre ad un'ampia consultazione. Con postilla (m.b.)

    La Rete delle oltre 1.000 organizzazioni che compongono il Forum Italiano dei Movimenti per la Terra e il Paesaggio (più noto come "Forum nazionale Salviamo il Paesaggio, difendiamo i Territori") ha avviato oggi l'attività di elaborazione di una propria Proposta di Legge per l'"Arresto del consumo di suolo in Italia".

    Tale iniziativa intende portare a compimento un percorso iniziato nell'ottobre del 2011 all'atto della costituzione del Forum stesso e interrotto successivamente in attesa del completamento dell'azione normativa del Parlamento in materia di consumo del suolo agricolo, avviata nel 2012 dal Consiglio dei Ministri del Governo Monti allora in carica, su proposta del ministro Catania, e attualmente giunta in discussione al Senato, dopo molteplici revisioni che il Forum giudica un utile primo passo, ma insufficiente per intervenire con efficacia su quella che deve, invece, essere considerata una assoluta emergenza cui porre rimedio.

    Per tale motivo, nei giorni scorsi è stato composto un apposito Gruppo di Lavoro Tecnico-Scientifico multidisciplinare, che conta al momento 70 persone: architetti, urbanisti, docenti universitari, ricercatori, pedologi, geologi, agricoltori, agronomi, tecnici ambientali, giuristi, avvocati, giornalisti/divulgatori, psicanalisti, tecnici di primarie associazioni nazionali, sindacalisti, paesaggisti, biologi ecc.

    Tra essi, alcuni dei principali esperti nazionali in materia quali Anna Marson, Luca Mercalli, Paolo Pileri, Fabio Terribile, Michele Munafò, Paola Bonora, Paolo Berdini, Luisa Calimani, Giorgio Ferraresi, Tiziano Tempesta, il Vice Presidente Emerito della Corte Costituzionale Paolo Maddalena, il segretario nazionale della Fillea/Cgil Salvatore Lo Balbo, il primo Sindaco a "crescita zero urbanistica" Domenico Finiguerra, tecnici di primarie associazioni nazionali.
    Il Gruppo di Lavoro Tecnico-Scientifico, coordinato da Alessandro Mortarino e Federico Sandrone, si è dato 6 settimane di tempo per definire un testo condiviso da tutti i suoi componenti, da sottoporre successivamente all'analisi e all'approvazione delle migliaia di aderenti - individuali e associazioni - al Forum, in modo da poter consentire la sua "validazione" da un gruppo di giuristi tra la fine dell'anno corrente e i primi giorni del 2017.

    L'avvio odierno dei lavori è stato accompagnato da una prima bozza di testo normativo, che verrà ora "emendato" da tutti gli esperti e progressivamente arricchito per offrire alle forze politiche, sociali e economiche e a tutto il Parlamento uno strumento in grado di orientare concretamente il comparto edile verso la grande sfida del recupero e riuso di quell'enorme stock di abitazioni vuote, sfitte, non utilizzate esistente nel nostro Paese: circa 7 milioni di opportunità di lavoro che attendono solo un segnale forte di cambiamento.

    postilla
    Condividiamo le finalità dell'iniziativa del Forum Salviamo il Paesaggio: ci siamo impegnati con continuità fin dal 2005 per informare sulle conseguenze del consumo di suolo e ribadire la necessità di arrestare, in modo definitivo, l'espansione urbana (qui una visita guidata agli articoli pubblicati sul sito). Ribadiamo l'auspicio che l'attuale disegno di legge sia accantonato, per le molte ragioni che abbiamo più volte illustrato. Riteniamo che si debba procedere su basi del tutto differenti. eddyburg, a questo proposito, ha formulato nel 2013 una proposta di legge basata sul riconoscimento della salvaguardia del territorio non urbanizzato come parte della «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali», di competenza esclusiva dello Stato, che richiamiamo come contributo al lavoro avviato dal Forum.

    «"Una torta da oltre 90 miliardi ma si sceglie senza serie valutazioni" Riescono a far male perfino ciò che,ci considerano - secondo una criminale strategia di rottamazione del territorio - "uno dei principali motori della crescita"». La Repubblica, 10 ottobre 2016 (c.m.c.)

    Quando due anni, sette mesi e 18 giorni fa si insediò il governo Renzi, la macchina delle opere pubbliche era ridotta più o meno così: progetti portati avanti senza uno straccio di valutazione, zero risorse o quasi per interventi salva-vita come la difesa del suolo e la messa in sicurezza degli edifici, fondi europei non spesi o sprecati in una miriade di micro-interventi affidati alla cieca a Comuni e Regioni, dieci anni di attesa e più per il completamento di infrastrutture di oltre 50 milioni di euro.

    Cosa si è fatto da allora per aggiustare quello che è considerato uno dei principali motori della crescita? Un fatto è certo: gli investimenti pubblici si stanno lentamente riprendendo dopo il crollo verticale degli anni scorsi e ci sono più soldi da spendere. Ma le grandi opere di collegamento come l’alta velocità ferroviaria sono ancora in gran parte prive di un serio esame preventivo e ciononostante hanno a disposizione molte più risorse delle opere salva-vita, quelle che dovrebbero prevenire alluvioni, frane, crolli di edifici e incidenti ferroviari. Le quali hanno sì più soldi di prima ma non quanto sarebbe necessario. E intanto l’Ufficio parlamentare di bilancio denuncia la assoluta incapacità dei ministeri nel valutare i progetti e l’assenza di una seria programmazione nazionale.

    Mai forse come in questo momento il ruolo degli investimenti, e in particolare delle opere pubbliche, è stato così cruciale per le chance di crescita del nostro Paese. Dal loro successo o meno dipende se l’Italia resterà impantanata nella malinconica teoria degli zero virgola o riuscirà a prendere il largo superando la soglia maledetta dell’1%, sempre più simile alla porta che nel film di Bunuel “L’angelo sterminatore” gli invitati non riescono a oltrepassare alla fine della serata. Situazione surreale come surreale è la condizione in cui sono stati tenuti in tutti questi decenni gli investimenti pubblici. Eppure non c’è politico che non li abbia evocati come arma risolutiva contro la crisi. Sono diventati uno stucchevole refrain, un mantra tanto insistito quanto inascoltato. Il governo Renzi cerca ora di rimettere in moto le infrastrutture, puntando su 90 miliardi di opere prioritarie. Vediamo con quali risultati.

    Le risorse: adesso ci sono

    L’Italia ha vinto due battaglie con Bruxelles ottenendo da una parte la fine del patto di stabilità interno che impediva a molti Comuni di investire e dall’altra la possibilità di finanziare in deficit parte degli investimenti già decisi: avevamo chiesto per il 2016 poco più di 5 miliardi, la Ue ce ne ha riconosciuti 4,3. Non male. In più (come spiega l’Ance in un suo recentissimo studio) la legge di stabilità di quest’anno ha previsto un aumento di risorse per le infrastrutture del 10%, che le porta a 13 miliardi e mezzo. Ovviamente solo una piccola parte potrà essere spesa quest’anno. Ma l’inversione di tendenza c’è, soprattutto se pensiamo che tra il 2008 e il 2015 i soldi per le opere pubbliche sono crollati del 42,6%. Questa volta dunque i soldi ci sono. Come si stanno spendendo e con quali priorità?

    Le priorità: cosa scegliere

    Qualcuno ricorderà la lunghissima lista di infrastrutture che i governi precedenti avevano agganciato al carro della “legge obiettivo”, una procedura straordinaria nella quale finì letteralmente di tutto, a cominciare dalle grandi opere, quasi tutte rimaste al palo.

    Un anno fa il governo Renzi sfoltì quella assurda lista annunciando anche che avrebbe spostato l’asse degli interventi sui piccoli cantieri, più facilmente realizzabili e in molti casi anche più utili dei maxi-progetti. «Focalizzarsi sulle grandi opere – spiegò il ministro Delrio - ci ha portato in 14 anni di legge-obiettivo a stanziare 285 miliardi per vederne impiegati soltanto 23, appena l’8%». «Opere utili, snelle e condivise», è lo slogan del Def 2016. Ma le grandi opere, pur dimezzate nel novero di quelle prioritarie, sono rimaste, soprattutto quelle ferroviarie di valico, prolungamento dei corridoi europei, e quelle per l’alta velocità al Sud. A queste, almeno nelle intenzioni di Renzi, si aggiungerà anche la madre di tutte le infrastrutture: il Ponte sullo Stretto.

    Nello stesso tempo, però, viene data per la prima volta certezza di risorse pluriennali al riassetto idrogeologico, all’edilizia scolastica e alla manutenzione stradale e ferroviaria. Così il governo sembra voler dare una risposta a due grandi obiettivi contemporaneamente: da una parte collegare l’Italia, dall’altra metterla in sicurezza. Ma in che proporzione le risorse sono destinate all’uno e all’altro? Difficile inoltrarsi nel labirinto dei finanziamenti pubblici. Prendiamo le opere che il governo potrebbe ora accelerare: quei 5,1 miliardi poi leggermente ridimensionati da Bruxelles. La parte del leone (circa la metà) la fanno trasporti e banda ultralarga per velocizzare Internet, mentre solo il 5% va alla protezione ambientale. Se poi restringiamo il campo ai progetti effettivamente in corso (2,6 miliardi) quasi il 40% va alle reti transeuropee con dentro i famosi corridoi ferroviari.

    Questo non significa che non vi siano fondi per i cantieri minori e spesso più urgenti. L’Ance calcola in 900 milioni la disponibilità 2016 per l’edilizia scolastica e in 800 quella contro il rischio idrogeologico. C’è chi fa notare però che bisognerebbe concentrarsi quasi esclusivamente sul quel tipo di infrastrutture, che potremmo chiamare “opere salva- vita”, perché rispetto alle “opere di collegamento” presentano carenze infinitamente maggiori, oltre a garantire una crescita economica più diffusa e certa.

    I fabbisogni del salva-vita

    Per avere un’idea di fabbisogno delle infrastrutture salva-vita, guardiamo alla difesa del suolo e alla sua lotta impari con le catastrofi. Nei primi quindici anni del nuovo millennio, abbiamo da una parte duemila alluvioni che hanno spazzato via 293 vite umane e provocato danni per 3 miliardi e mezzo di euro l’anno. Dall’altro, un impegno dello Stato per il riassetto idrogeologico che non è andato oltre i 400 milioni annui.

    Insomma, i poteri pubblici hanno investito per prevenire catastrofi in gran parte prevedibili un nono dei costi provocati dalle stesse catastrofi. Ora Italiasicura, la “struttura di missione” messa in piedi nel 2014 contro il dissesto idrogeologico, ci dice che il ritmo di spesa è aumentato a oltre un miliardo l’anno, e che tra fondi europei e nazionali saranno disponibili nei prossimi 7 anni altrettanti miliardi. Ma ci dice anche che questo non basta affatto: per dare alla parola prevenzione un significato appena dignitoso ci vorrebbe almeno il doppio, da spendere per più di dieci anni consecutivi. Solo così potremmo sperare di avvicinarci al fabbisogno indicato dalle Regioni: una ventina di miliardi.

    Per adesso gli unici progetti che vanno avanti sono quelli di alcune città metropolitane, a partire da Genova, devastata dalle ultime alluvioni, e da Milano. E il grosso degli interventi sarà avviato solo nel 2018. Insomma, i tempi e i finanziamenti delle opere saranno anche meno lenti di prima ma sono ancora scanditi dal trascorrere degli anni, mentre torrenti e frane non aspettano. E se rinunciassimo ad alcune grandi opere per dare più spazio alle infrastrutture salva-vita? Una domanda alla quale se ne lega un’altra: quelle grandi opere confermate dal governo sono veramente utili? Chi le ha scelte e come?

    Chi valuta e chi sceglie

    Il governo, oltre a selezionare le nuove grandi opere, ha rivoluzionato le regole nella valutazione degli investimenti e negli appalti. Obiettivo: più qualità e trasparenza, tempi più rapidi, scelta delle opere in base a valutazioni rigorose, le cosiddette analisi costi-benefici. «Già, tutte buone intenzioni – dice Claudio Virno, esperto in valutazioni degli investimenti e consulente dell’Ufficio parlamentare di bilancio - ma questo sembra applicarsi ai progetti futuri, non a quelli in corso per i quali pare che il governo voglia mantenere le vecchie procedure, che di rigoroso non hanno nulla».

    Sotto esame finiscono importanti opere ferroviarie per l’alta velocità: il terzo valico della Milano- Genova, il tunnel del Brennero, quello del Frejus della Torino- Lione, la Napoli-Bari. «Queste ultime due in particolare – continua Virno – non supererebbero test seri: hanno chiaramente sopravvalutato la domanda, il traffico futuro». Ma del resto abbiamo avuto un ministro dei Trasporti, predecessore di Delrio, che rispose così a quelle critiche: «Per le grandi opere non serve che ci sia traffico, si fanno e poi il traffico arriverà». «L’aspetto più drammatico – rincalza Marco Ponti, che insegna economia dei trasporti al Politecnico di Milano - è la irreversibilità dei progetti: una volta che li approva il Cipe non si torna più indietro. Prima di far partire un progetto, bisognerebbe fare una gara internazionale con serie valutazioni comparative tra soluzioni diverse.

    Oggi invece le analisi non vengono fatte o vengono demandate ai diretti interessati. I trucchi per far passare i progetti politicamente più gettonati sono molteplici. Pensi che c’è una leggina per cui quando un’opera è interamente finanziata dallo Stato (e le opere ferroviarie lo sono tutte) non è richiesta nessuna analisi economica o finanziaria. Ossia, se l’opera è pubblica i soldi si possono anche buttare dalla finestra. La conclusione è che ci sono una trentina di miliardi di progetti che rischiano di non essere valutati a dovere». Ma il ministero delle Infrastrutture la vede in modo diametralmente opposto: «Questa era la situazione fino ad oggi, ma ora con la nostra struttura di missione, fatta di esperti di livello internazionale, abbiamo rivisto moltissimi progetti facendo risparmiare miliardi di euro». Il problema però è che su 90 miliardi di opere prioritarie, 50 sono vincolati giuridicamente e 75 già approvati dal Cipe.

    Strutture di missioni, valutatori esterni: ecco, per far funzionare una amministrazione pubblica, sembra che ci si debba per forza rivolgere a qualcuno al di fuori dei ministeri. Ma allora che ci stanno a fare le centinaia di funzionari e dirigenti? Se lo chiede l’Ufficio parlamentare di bilancio in suo recente studio. «I ministeri non dispongono di personale interno con le competenze professionali specialistiche necessarie, e lo stesso si può dire per i Nuclei di valutazione. Non c’è scambio di informazioni all’interno, non sono mai state applicate sanzioni per chi non fa il suo dovere ». In queste condizioni non c’è da stupirsi se i progetti sono fatti male e si impantanano in un crescendo di tempi e di costi.

    Per non parlare del diluvio di sigle che ruotano intorno alla scelta delle opere: in ogni ministero ci sono i Nuvv (nuclei di valutazione degli investimenti), ai quali si affiancano a Palazzo Chigi il Nuvap, l’Uftp e il Nuvec che fa capo all’Agenzia per la coesione territoriale. A tutte queste sigle si chiedeva di scrivere almeno una cosa: il documento pluriennale di pianificazione, con l’analisi di tutti fabbisogni infrastrutturali. Ma questo documento è ancora fantasma, come sono fantasma le Linee guida per la valutazione. Niente paura, nel frattempo sono stati preparati i Vademecum che faranno da guida alle Linee guida.

    Un percorso kafkiano che l’Ufficio bilancio chiama eufemisticamente «quadro istituzionale molto frammentato». Come frammentato è il quadro delle competenze, dove Regioni e Comuni hanno il potere di rallentare ogni opera e di aprire un contenzioso dopo l’altro portando l’Italia ai vertici mondiali dei ritardi.

    Di fronte a questo affresco di deresponsabilizzazioni, si capisce come in tutti questi anni siano finiti i soldi dei progetti europei: da una parte in maxi-opere che si sono presto impantanate con costi e tempi fuori controllo, dall’altra in migliaia di micro-progetti locali che non rientrano in nessuna strategia nazionale.

    «Alta voracità. I piani del governo per il gruppo Fs: socializzare le perdite del trasporto locale e degli investimenti sulla rete ferroviaria, privatizzare i profitti quotando in borsa nel 2017 i treni ad alta velocità e a lunga percorrenza. Con il Ponte sullo Stretto "infrastruttura ferroviaria", e l'interesse per il Tpl per pendolari e studenti». il manifesto, 29 settembre 2016

    Privatizzare entro un anno i soli treni ad alta velocità e a lunga percorrenza, cioè quelli da cui Ferrovie dello Stato guadagnano. Entrare, e “scalare”, il settore del trasporto pubblico locale su gomma, ben nota passione del presidente del consiglio. E considerare il Ponte sullo Stretto come un’opera ferroviaria. Di più: “Come se fosse una galleria”. Dall’ad del gruppo Fs, Renato Mazzoncini, arrivano tre indizi che fanno prova: il governo Renzi insiste nella strategia di (s)vendere ai privati, attraverso la borsa, i gioielli della corona statale. E di far contenti i ras delle costruzioni con il Ponte sullo Stretto, travestendolo da infrastruttura su ferro per poter contare sui finanziamenti Ue. Al riguardo sono illuminanti le parole del fedele Mazzoncini: “Il ponte costa 3 miliardi e 900 milioni, tutte le infrastrutture dei corridoi ferroviari europei arrivano a 120 miliardi. Quindi il problema non sono i soldi, il ponte è stato sempre gestito come traffico stradale, con costi enormi. Ma trattata come un’opera ferroviaria sarebbe diverso”.

    Così è se vi pare. Nel mentre il governo fa presentare ai vertici delle Ferrovie un megagalattico piano decennale, nel quale sono confermate opere fortemente discusse dalle popolazioni come il Terzo Valico (cioè la Tav Milano-Genova), e naturalmente la Torino-Lione con lo sventramento della Val di Susa. Poi, per tacitare le Regioni che sul trasporto locale (pendolari e studenti) si svenano da anni, per supplire alla strategia “Tav oriented” delle Ferrovie di Moretti e oggi di Mazzoncini, arriva il contentino della commessa già avviata per 450 nuovi treni regionali. Con i primi, previsti nel 2019, destinati all’Emilia Romagna fedele alla linea su cui Renzi tanto spera in vista del referendum costituzionale.

    E il sud? Anche qui tutto ad alta velocità, con l’annuncio di Mazzoncini di voler aprire i cantieri sulla Napoli-Bari, sulla Palermo-Catania-Messina, e sulla Salerno-Reggio Calabria “che dovrà essere potenziata per lo sviluppo della Napoli-Palermo”. Con annesso Ponte sullo Stretto, così i centristi di Angelino Alfano saranno contenti. Poco o nulla invece sulle disastrate linee locali e periferiche del meridione, quelle che resteranno in carico alle Ferrovie (controllate al 100% dal Tesoro) dopo la (s)vendita del ghiotto boccone delle Frecce. In altre parole: socializzare le perdite – compresi i necessari investimenti sulla rete che resterà pubblica – e privatizzare i profitti.

    “L’ipotesi su cui stiamo ragionando è una quotazione non inferiore al 30% – spiega Mazzoncini – e abbiamo ipotizzato di dividere Trenitalia in due, con la divisione della lunga percorrenza, ovvero Frecce e Intercity. Questa divisione oggi ha un fatturato di 2,4 miliardi che può crescere nel Piano fino a 3 miliardi, un Ebitda di 700 milioni che possono diventare un miliardo. L’appeal è molto evidente”. A ruota la presidente Fs, Gioia Ghezzi: “I tempi della quotazione di Fs sono quelli tecnici per portare a termine la quotazione, quindi a un anno da oggi, nel 2017”. Quando poi le fanno notare l’assenza di Pier Carlo Padoan, titolare del Tesoro, Ghezzi puntualizza: “Non saremmo venuti qui a presentare l’Ipo se non ci fosse perfetto allineamento con l’azionista”.

    “La quotazione deve essere un mezzo per lo sviluppo dell’azienda e non un fine”, prova a dire Mazzoncini guardando alle prime reazioni sindacali. “Particolarmente delicato e complesso – fanno sapere Filt Fit e Uilt – si presenta il tema della cessione di quote di proprietà del ministero dell’economia, tema che suscita più di una perplessità”. Più diretto Matteo Mariani dell’associazione “In marcia”, che edita la storica rivista dei macchinisti Fs “Ancora in marcia”: “Si lascia quello che costa a carico dello Stato. Mentre si dà ai soliti noti quello che rende, ò può rendere”.

    Fra gli obiettivi delle Ferrovie c’è anche il settore del trasporto pubblico locale su gomma. Insomma sugli autobus, giudicati come terreno fertile anche grazie al decreto Madia che, in spregio al referendum del 2011, “liberalizza” tutte le public utilities, dai rifiuti ai trasporti all’energia: “L’obiettivo è il mercato Tpl – spiega ancora Mazzoncini – cogliendo opportunità in tutta Italia, partecipando a gare e laddove possibile acquisendo operatori strategici”. Sul punto arriva la benedizione diretta di Renzi: “Il piano di Fs è un piano che sa rischiare, che sa guardare al futuro, che tiene insieme l’altissima eccellenza come l’alta velocità, e un’attenzione maggiore per i pendolari che hanno bisogno di nuovi treni e nuovi bus”. Però nella “sua” Toscana la gara c’è già stata. E non l’ha vinta la Busitalia di Fs – subito ricorsa al Tar – che è stata sconfitta dalla francese Ratp. Una società pubblica.

    Consumare il suolo comporta una serie di costi ambientali, non contabilizzati e perciò scaricati sulla collettività. Ispra li ha stimati nel suo ultimo rapporto, come ci ricorda un articolo pubblicato sul sito Salviamo il paesaggio, 25 settembre 2016 (m.b.)

    Il rapporto 2016 sul consumo di suolo in Italia, redatto dall’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) insieme alle Agenzie Regionali che costituiscono il Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente (SNPA) è stato presentato lo scorso Luglio. Giunto alla terza edizione, il lavoro assume particolare importanza alla luce del riconoscimento, inserito nel disegno di legge nazionale sul consumo di suolo, quale riferimento ufficiale di diffusione dei dati e monitoraggio del fenomeno.

    Come nelle edizione passate, i numeri descrivono un’evoluzione preoccupante. Oltre alle classifiche delle aree più colpite c’è un elemento in più: il rapporto analizza concretamente quelle funzioni del suolo (i servizi ecosistemici che vedremo più avanti) danneggiate dall’impermeabilizzazione. Questo danno viene quantificato dal punto di vista economico e i valori sono riportati in una dettagliata tabella che si può leggere a più livelli, dal quello nazionale fino al dettaglio comunale.

    La riduzione dei servizi ecosistemici e i costi derivati

    Da dove derivano questi costi solitamente “nascosti”? Di che cifre stiamo parlando? I servizi ecosistemici sono servizi essenziali, che in natura sarebbero garantiti all’infinito, quali: l’approvvigionamento di acqua, cibo e materiali, la regolazione in caso di inquinamento, la capacità di resistenza ad eventi estremi e variazioni climatiche, il sequestro del carbonio (valutato con costi sociali ma anche con il valore di mercato dei permessi di emissione) e i servizi culturali e ricreativi.
    A livello nazionale i costi maggiori derivati da queste perdite sono dovuti alla mancata produzione agricola (51% del totale, più di 400 milioni di euro tra il 2012 e il 2015) perché il consumo invade maggiormente le aree destinati a questa primaria attività, ridotta anche a causa dall’abbandono delle terre. Una perdita grave perché non è una semplice riduzione ma un annullamento definitivo e irreversibile.

    Il mancato sequestro del carbonio pesa per il 18% sui costi dovuti all’impermeabilizzazione del suolo, la mancata protezione dell’erosione per il 15% (tra i 20 e i 120 milioni di euro) e i sempre più frequenti danni causati dalla mancata infiltrazione e regolazione dell’acqua rappresentano il 12% (quasi 100 milioni di euro).

    Altri servizi forniti dal suolo libero ridotti a causa del suo consumo sono: la rimozione di particolato e assorbimento ozono, cioè la qualità dell’aria (in Italia si è registrato il record di morti premature) con una perdita stimata in oltre 1 milione di euro. Un ruolo importante lo hanno anche l’impollinazione e la regolazione del microclima urbano. La riduzione di quest’ultimo servizio ha pesanti riflessi sull’aumento dei costi energetici: l’impermeabilizzazione del suolo causa un aumento temperature di giorno e, per accumulo, anche di notte.

    In sintesi il dato nazionale dice che la perdita economica di servizi ecosistemici è compresa tra i 538,3 e gli 824,5 milioni di euro che si traducono in una perdita di capitale naturale per ettaro compresa tra i 36.000 e i 55.000 euro. I dettagli dei metodi di stima si trovano nella parte 3 del rapporto. Il consumo di suolo rilevato è di gran lunga inferiore a quello reale. Proprio a causa di tale incertezza i costi sono espressi in valori minimi e massimi. Questi ultimi risultano comunque sottostimati in quanto le perdite sopra descritte colpiscono anche aree vicine a quelle urbanizzate che non rientrano direttamente nelle stime conteggiate.

    Dove si paga il prezzo più alto?

    Il consumo di suolo, seppur rallentato, continua ancora a crescere (8 mq al sec). Tra le cause non c’è solo la domanda di case (ingiustificata se si considera che in Italia ci sono più di 7 milioni le case vuote, cioè una su cinque, come emerso da una recente indagine di “Solo Affitti”). Hanno un ruolo importante anche la rendita fondiaria e immobiliare.

    Le infrastrutture restano le più impattanti (41% nel 2013): la realizzazione della Tangenziale Est Esterna di Milano (TEEM) ha fatto salire il Comune di Vizzolo Predabissi (MI) nella classifica dei più consumati. Oltre agli edifici, a consumare suolo ci pensano anche parcheggi, cantieri, serre, attività estrattive e discariche. Nella classifica generale a livello comunale rimangono ai primi posti in termini di percentuale di suolo consumato i comuni del napoletano e Lissone (MB). Lombardia, Veneto e Campania risaltano nelle mappe delle regioni con un pericoloso colore rosso che vuol dire consumo di suolo elevato. Negli ultimi anni si distinguono in negativo per un consumo in crescita anche Sicilia, Puglia, Calabria, Marche e Umbria. Le regioni più consumate registrano, per quanto detto sopra, i costi maggiori in termini di perdita dei servizi ecosistemici: per Lombardia e Veneto siamo oltre i 130 milioni di euro.

    Tra i territori provinciali Monza e Brianza, come avviene da tempo, registra ancora una volta il dato peggiore (con oltre 40% di territorio ormai consumato) e un’ulteriore crescita nell’ultimo triennio dello 0,5% che vuol dire una perdita economica di oltre 5 milioni di euro. Milano ha consumato di più nell’ultimo triennio (1,2%). Le città metropolitane in generale si distinguono negativamente in termini di consumo ma salgono in classifica anche altre città come Padova, Treviso, Matera e Viterbo, dove risulta particolarmente consumata la zona costiera.

    I territori costieri sono altamente consumati un po’ in tutta Italia, da una costa all’altra: dal Friuli alla Puglia come dalla Liguria alla Sicilia, dove in questa estate é riaffiorata addirittura la malsana idea di un ulteriore condono edilizio. Non vengono risparmiati dal consumo nè le aree di montagna, cioè i terreni in quota, nè le aree lungo i corpi idrici, con valori molto alti in Liguria dove ci si accorge della gravità solo quando piove abbondantemente. E’ ancor più preoccupate rilevare dai dati del rapporto che sono colpite dal consumo anche le aree protette, come quelle dell’area della Maddalena e del Circeo, nonché le zone a rischio frane e a pericolosità sismica. Tragedie come quella del terremoto in centro Italia hanno evidenti responsabilità in precedenti scelte dissennate.

    Magra consolazione sapere che non è solo un problema italiano ma europeo: non c’è omogeneità nei dati nazionali ma un’indagine Eurostat ha evidenziato che la percentuale coperta è maggiore in Olanda, Belgio, Lussemburgo (oltre i 10%) e Germania, l’Italia è quinta (7%) prima tra le aree non centrali e, in questa poco invidiabile classifica, ben oltre la media europea che è del 4,3%.

    La convenienza economica di uno sviluppo senza crescita insediativa
    e basato sulla rinaturalizzazione


    L’Europa stessa ha fornito da tempo importanti indicazioni in tema di consumo del suolo: innanzitutto un approccio basato su una vera definizione di consumo, non ancora recepita o, peggio, diversamente interpretata a livello nazionale. E’ consumo ogni variazione da una copertura non artificiale (suolo non consumato) a una copertura artificiale e permanente del suolo (suolo consumato).

    Solo dopo questo riconoscimento si potrà fare un passo in più verso la successiva fase di compensazione della componente residua di consumo non evitabile, che deve avvenire, come dicono le direttive, tramite la rinaturalizzazione di un’area di estensione uguale o superiore, che possa essere in grado di tornare a fornire i servizi ecosistemici in precedenza garantiti dai suoli naturali. Un obiettivo da perseguire in particolare nelle aree dismesse, che assume quindi maggiore importanza se queste sono collocate all’interno delle città.

    Al momento però sembra complessa la definizione dei limiti e degli obiettivi di riduzione del consumo. Il Disegno di legge approvato dalla Camera il 12 maggio 2016 riconosce l’importanza del suolo come bene comune e risorsa non rinnovabile ma non garantisce il risultato: in Lombardia, ad esempio, con la normativa regionale in vigore restano consentiti irragionevoli previsioni di trasformazione che non verranno compensate.

    Grazie alle analisi contenute nel rapporto ISPRA, i costi generati dal consumo, solitamente sottostimati e trascurati, assumono un peso evidente. Questi si aggiungono alle spese necessarie per infrastrutture, servizi e manutenzioni che la nuova edificazione richiede.
    Un circolo vizioso che, visti i numeri, genera un dubbio: dov’è la convenienza pubblica di ingiustificati interventi di edificazione con ritorno economico limitato al breve periodo? Quanto contano tributi ed oneri incassati se poi gli interventi si rivelano evidentemente antieconomici e destinati a perdere valore oltre che a richiedere una costante manutenzione?

    Le cifre riportate dimostrano che la battaglia contro il consumo di suolo non è ideologica ma rappresenta una concreta opportunità di risparmio. Non è neppure regressione ma una forte spinta verso un nuovo modello di sviluppo “senza crescita insediativa”, come viene auspicato nel rapporto. Una “valorizzazione ecologica e contemporaneamente economica” opportunità quindi per un vero e proprio rilancio.

    Riferimenti

    Il rapporto sul consumo di suolo 2016 è scaricabile dal sito dell’ISPRA. La presentazione del rapporto è avvenuta nel luglio scorso, con una giornata di studi organizzata da Ispra, di cui potete leggere il resoconto di Marianna Amendola e gli articoli di Paolo Berdini e Luca Fazio, ripresi da il manifesto. Sul disegno di legge, verso il quale eddyburg è radicalmente critico, si veda il recente intervento di Vezio de Lucia, con in calce i riferimenti alle numerose prese di posizione e disamine disponibili nel sito. Tutto quel che c'è da sapere sul consumo di suolo è riassunto in una visita guidata attraverso gli articoli e i documenti pubblicati nel nuovo e nel vecchio archivio di eddyburg.

    Prosegue, senza sosta, la liquidazione dei patrimoni pubblici, casematte essenziali dei beni comuni. Altrove, invece, si fa il contrario. E anche in Italia, nella Sardegna di Renato Soru.... La Repubblica online, Economia e finanza, 15 settembre 2016, con postilla

    Il Demanio ha deciso di renderli fruibili per usi che non siano quelli per cui furono edificati proprio mentre sta crescendo la domanda di soggiorno vacanziero in alcuni delle strutture distribuite lungo le coste e nelle isole italiane

    Lentamente, l'Italia riscopre il potenziale del turismo. Una voce che - da sola - vale il 10,2% dell'economia della Penisola. Quasi 160 miliardi di euro l'anno, frutto di 57,9 milioni di viaggi con pernottamento registrati lo scorso anno dall'Istat e di altri 67,3 milioni di viaggi senza pernottamento. In media, nel 2015, chi ha visitato l'Italia in vacanza ha dormito fuori casa per 6,2 giorni, chi lo ha fatto per lavoro per 3,4 giorni.

    Merito anche di una ricettività ormai completa, capace di soddisfare tutti i gusti e tutte le tasche. Dagli alberghi boutique a quelli per famiglie; dai campeggi ai villaggi turistici; dagli appartamenti in affitto agli agriturismi, ma non mancano gli ostelli, le case per ferie, i rifugi di montagna e i bed & breakfast.

    E adesso, in concomitanza con la disponibilità dell'Agenzia del demanio a renderli fruibili per usi che non siano quelli per cui furono edificati, sta crescendo la domanda di soggiorno vacanziero in alcuni dei 110 fari distribuiti lungo le coste e nelle isole italiane. Certo si tratta ancora di poche strutture, ma i numeri sono destinati a crescere per non perdere un trend positivo. Sono stati infatti pubblicati i bandi di gara per la concessione da 6 a 50 anni di 11 fari di proprietà dello Stato, 7 dei quali gestiti dal demanio stesso e 4 dal ministero della Difesa, ubicati in Calabria, Campania, Puglia, Sicilia e Toscana.

    La loro destinazione dovrà essere coerente con gli indirizzi e le linee guida del progetto Valore Paese - Fari: potranno accogliere iniziative ed eventi di tipo culturale, sociale, sportivo e per la scoperta del territorio, oltre ad attività turistiche, ricettive, ristorative, ricreative, didattiche e promozionali. La ricaduta economica sui territori è stimata in 20 milioni di euro e darà occupazione ad un centinaio di operatori. Una delle prime nazioni a comprendere il valore di questo tipo di turismo è stata la Croazia, oggi leader in Europa. Altre nazioni offrono tuttavia tale ricettività: dalla Gran Bretagna alla Scozia, alla Norvegia, fino al Canada, agli Stati Uniti e all'Australia.

    postilla

    In paesi più civili dell'Italia di Matteo Renzi, invece di alienare i patrimoni pubblici costieri (anche una concessione cinquantennale rinnovabile è un'alienazione) hanno istituito una conservatoria il cui scopo è quello di conservare, accrescere e gestire fruizioni socialmente utili per gli immobili costieri. Lo ha fatto la Francia dal 1975 con il Conservatoire du littoral . E sull'esempio francese avviò l'opera in Italia la Sardegna di Renato Soru con l'istituzione della Conservatoria delle coste.

    «"Fermiamo il consumo di suolo" di Paola Bonora per Il Mulino. Lo sviluppo non è sempre proporzionale alla crescita urbana. Un saggio critico analizza lo sfruttamento del territorio e i suoi prodromi». Il manifesto, 13 settembre 2016 (c.m.c.)

    Chi mai tra amministratori, governanti, cittadini, avrebbe oggi il coraggio di dichiararsi pubblicamente a favore di un ulteriore consumo di suolo in Italia? Probabilmente quasi nessuno (costruttori compresi; più per vergogna che non per convinzione e interessi). Eppure ancora oggi è difficile separare il concetto di sviluppo da quello di crescita urbana, Grandi Opere, Grandi Eventi: sembrano le due facce di una stessa medaglia (A Milano Expò, a Roma prossime olimpiadi e nuovo stadio).

    È stato detto da molti, il terribile terremoto di Amatrice è una ennesima dimostrazione di come lo svuotamento delle aree interne a favore dei terreni pianeggianti delle coste rende queste zone appenniniche ancora più vulnerabili e fragili; aree di abbandono, dove, al più, celebrare qualche sagra paesana in alcuni giorni dell’anno: il futuro è quello delle grandi città, ovvero delle sue periferie sempre più estese, indistinte, anonime. È il mantra dello sviluppo, della modernità, ed è così che, cacciato dalla porta, il consumo di suolo, riesce sempre a rientrare dalla finestra, nonostante le dichiarazioni pubbliche.

    Paola Bonora, docente di geografia all’università di Bologna, da sempre impegnata a difesa delle ragioni dei territori e delle comunità insediate (con P. L. Cervellati ha scritto Per una nuova urbanità. Dopo l’alluvione immobiliarista, Diabasis), prova a dimostrare, con un libro agile e snello dal titolo Fermiamo il consumo di suolo. Il territorio tra speculazione, incuria e degrado (Il Mulino, pp. 133, euro 12) che non solo vale la pena di continuare a difendere questa causa, ma che è addirittura vantaggioso limitare questo consumo.

    Il libro, già dalle prime pagine, è una denuncia contro la retorica oggi di moda: «Mentre infatti si propugna il consumo zero, dall’altra si varano provvedimenti che vanno in direzione opposta come è il caso del decreto legge cosiddetto Sblocca Italia, che sposta l’offensiva del cemento e dell’asfalto sul piano delle grandi opere varando misure urgenti per la riapertura dei cantieri». La questione è ben nota: «In Italia vengono consumati otto mq. di suolo al secondo: un rettangolo di due metri per quattro ad ogni respiro. Un accumulo che non conosce pause: in media sono stati consumati più di sette mq. al secondo per oltre 50 anni».

    Fin qui altri libri e ricerche (quella di Michele Munafò, tra tutte, responsabile del Rapporto Ispra 2016 di cui si può leggere sulle pagine di questo giornale del 13 luglio), hanno già ampiamente documentato il saccheggio e la devastazione di tale risorsa. Meno scontate sono le implicazioni ecologiche, sistemiche, sociali e culturali conseguenti al consumo di suolo che invece formano il cuore del libro. Dobbiamo a Bonora il compito di distinguere tra suolo e territorio sulla scia della Scuola Territorialista di Alberto Magnaghi.

    Suolo, infatti, allude ingegneristicamente a una semplice risorsa fisica (seppure non rinnovabile e indispensabile alla riproduzione dei sistemi ecologici), mentre il territorio «è elemento costitutivo delle comunità, agente vivo del processo di civilizzazione e delle sue dialettiche, spazio pubblico e bene comune per eccellenza, come i suoi attributi di qualità, funzionalità, bellezza». Dopo la modernizzazione fordista (che pure ancora manteneva spazi pubblici e paesaggi), la deregulation neoliberista rispecchia «la crisi dell’idea di comunità, della mancanza di baricentri, di spazi in cui vivere il quotidiano».

    L’immagine postfordista è quella di una città frammentata, priva di orientamento, senza più forma e senza più vita in comune, prodotto di esistenze in transito. Anche l’agricoltura è tirata in causa, come vittima e carnefice di se stessa. Il processo di urbanizzazione delle aree agricole «porta con sé appiattimento, omologazione, perdita di biodiversità, altera cicli ecologici, confina l’agricoltura in aree interstiziali».

    Al tempo stesso l’eccesso di monocolture, la meccanicizzazione spinta e l’uso di prodotti chimici completa la distruzione del patrimonio agricolo e mette a repentaglio la sicurezza alimentare. Il processo di cementificazione tanto meno risparmia il paesaggio considerato «una risorsa identitaria poiché raccoglie e condensa le memorie delle generazioni trascorse, la dialettica delle relazioni sociali, i valori culturali che le ispirano».

    Paola Bonora preferisce non trarre conclusioni («le conclusioni sono sempre la parte più noiosa e pleonastica di un libro»), piuttosto aggiunge una riflessione amara a quanto già detto da molti: «Che le persone non si radunino nelle piazze accade non solo perché ammaliate dai social network o dai centri commerciali, ma anche perché le piazze, le strade e i luoghi in cui può avvenire l’incontro sono diventati paesaggi stranianti, spazi ostili, corridoi di transito popolati da consumatori frenetici».

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