«L’introduzione di un reddito minimo per i poveri di tipo non categoriale è stata cancellata dall’agenda politica. Il Governo Renzi si interessa solo di lavoratori con scarso reddito o disoccupati. Dimenticando chi non è mai entrato nel mercato del lavoro»
. da www.lavoce.info, 11 aprile 2014 (m.p.r.)
Solo lavoratori e disoccupati.
L’introduzione di un reddito minimo per i poveri di tipo non categoriale sembra di nuovo sparita dall’agenda politica. Rimandata dal Governo Letta a un lontano futuro, a favore della carta acquisti riservata solo, in via sperimentale, a una categoria di poveri così ristretta e cervelloticamente definita che i comuni fanno fatica persino a individuarli (come hanno ammesso anche Maria Cecilia Guerra e Raffaele Tangorra), nonostante l’evidenza dell’aumento della povertà assoluta, non fa parte delle riforme radicali che questo esecutivo ha in mente. Tra le tante raccomandazioni europee, è quella più ignorata, anche a parole, ancora più delle pur trascuratissime politiche di conciliazione tra responsabilità famigliari e lavorative.
Un ritorno all'Ottocento
Nella delega, il requisito dello status di disoccupato che ha esaurito il diritto all’Aspi per ottenere sostegno economico sembrerebbe contraddetto dal successivo comma 6, dove si propone “l’eliminazione dello stato di disoccupazione come requisito per l’accesso a servizi di carattere assistenziale”. Dato che non posso pensare che chi ha scritto i commi si sia distratto, temo che si tratti non di un allargamento delle norme di accesso all’assistenza economica, ma di una restrizione, per altro legittima, all’accesso ad altre prestazioni assistenziali: non basterà più essere disoccupati per avere l’abbonamento scontato sui mezzi pubblici o per non pagare i ticket sanitari. Occorreranno anche altri requisiti, in primis di reddito.
Per avere assistenza economica, tuttavia, non basterà essere poveri ed essere disponibili a mettere in opera tutte le attività necessarie per migliorare le proprie chances occupazionali. Occorrerà, appunto, anche aver perso il lavoro ed esaurito l’Aspi.Un’ultima osservazione: mentre si identificano i soli disoccupati come possibili beneficiari si assistenza economica, si dà una interpretazione assistenziale anche della indennità di disoccupazione, o Aspi. Al punto c del comma 6, infatti, si propone di individuare meccanismi che prevedano un coinvolgimento attivo dei soggetti beneficiari sia di Aspi che del sussidio di secondo livello, al fine di favorirne “l’attività a beneficio delle comunità locali”. Non solo l’assistenza, anche la previdenza sono così trasformate in beneficenza da contraccambiare con lavoro gratuito, neppure con i discussi e discutibili mini-jobs imposti agli assistiti in Germania. Più che la(s)volta buona, sembra piuttosto un ritorno all’Ottocento.
«I robot sono dietro l’angolo, ma «le strategie manifatturiere costruite sul risparmio di costo del lavoro stanno diventando fuori moda». Le variabili in gioco sono di più e sono più complesse». La
Repubblica, 13 aprile 2014
IL FENOMENO è mondiale, dall’America all’Europa. Negli Stati Uniti, fa addirittura parlare di rinascita dell’industria manifatturiera nazionale. Forse, gli americani esagerano. I numeri, però, cominciano ad essere indicativi, dice Luciano Frattocchi, dell’università dell’Aquila. Insieme a colleghi di Catania, Udine, Bologna, Modena e Reggio, Frattocchi ha costruito un gruppo di ricerca — UniCLUB MoRe — che tiene il conto. Negli Usa, sono ormai 175 le decisioni di rimpatrio, totale e parziale, di produzione. Ma dopo gli Usa, la classifica mondiale dei ripensamenti vede le aziende italiane, con un’impennata a partire dal 2009. Sono 79 unità produttive, che coinvolgono una sessantina di aziende. Circa il doppio di quanto si registra in Germania, in Gran Bretagna o in Francia. In un momento di diffusa paralisi del sistema industriale italiano, le condizioni a cui questi rimpatri avvengono, le loro motivazioni, le scelte strategiche che sottintendono riescono a dire molto, già oggi, di come potrà essere la ripresa prossima ventura dell’economia italiana.
. www.Sbilanciamoci.info, newsletter, 28 marzo 2014
Lucio Magri pone, con il suo stile, il problema relativamente nuovo della crisi ambientale e di come costituisca un elemento nuovo dell'antica lotta di classe. Ma Lucio, ricordiamolo, non pone mai problemi rinviando ad altri o al futuro la risposta, e cosi alla fine del capitoletto scrive: «La questione ambientale dunque non solo offre a un progetto comunista un nuovo terreno su cui fondare la sua critica del sistema, ma anche una spinta che lo trasforma e lo arricchisce qualitativamente, lo porta a superare una subalternità all'economicismo; nel contempo la questione ambientale ha bisogno di un progetto e di una forza organizzata comunista per unire soggetti e interessi contrastanti, per individuare la vera radice dei problemi, per affermare un potere capace di affrontarli nel loro insieme, infine per cambiare la testa stessa della gente».
Insomma la questione ambientale diventa centrale nella lotta per il comunismo e solo con il comunismo potrà essere seriamente affrontata. Questo è il problema che per tanti anni noi comunisti abbiamo trascurato considerandolo non strutturale. Ancora un grazie a Lucio.
Se i partigiani responsabili dell’attentato di via Rasella si fossero consegnati ai tedeschi avrebbero evitato la strage delle Fosse Ardeatine”. E’ la tesi con cui i post fascisti tentano di scansare l'orrore di cui i loro ispiratori sono stati causa diretta. Una menzogna. Ecco perché».
Micromega, marzo 2014
Anniversario della strage delle Fosse Ardeatine. Quel giorno, il 24 marzo del 1944, 355 italiani, già prigionieri, molti di loro ebrei, sono stati massacrati, per ordine di Hitler, da ufficiali e soldati tedeschi che occupavano Roma. Era la loro "rappresaglia" per l'attentato avvenuto poche ore prima in via Rasella, nel centro di Roma. Dove tre partigiani (tra i pochissimi italiani che a Roma hanno combattuto la feroce occupazione e le torture sistematiche di tedeschi e fascisti in via Tasso), erano riusciti ad attaccare con esplosivo un reparto tedesco uccidendo 30 militari occupanti.
I tre combattenti italiani, Rosario Bentivegna, Pasquale Balsamo e Carla Capponi, pur insigniti della medaglia d'oro al valor militare, sono stati perseguitati tutta la vita da ciò che è restato e resta del conformismo e della "zona grigia " italiana (coloro che non si immischiano mai e si fingono sempre equidistanti), con la seguente ragione, sostenuta con vigore dai post fascisti che tentano di scansare l'orrore di cui i loro predecessori e ispiratori sono stati causa diretta: i tre partigiani dovevano consegnarsi e avrebbero evitato la strage. Infatti, il giorno stesso della pubblicazione di un mio testo su Il fatto quotidiano ho ricevuto la lettera che riporto testualmente.
"Caro Furio Colombo, i tre studenti dell'attentato di via Rasella non erano soldati con le stellette ma erano tre sprovveduti. Se erano intelligenti se lo dovevano immaginare che ci poteva essere una rappresaglia. Se credevano di essere eroi come tu li hai descritti si dovevano consegnare. Un altro Salvo D'Acquisto deve ancora nascere. Giuseppe."
La lettera, nella sua illogicità, si spiegherebbe da sola. Ma questa volta, e ogni anno e in ogni occasione in cui si parla di via Rasella o delle Fosse Ardeatine, arrivano decine di lettere uguali a questa.
Supponiamo la buona fede, perché la disinformazione è una industria attivissima e coloro che speculano su "orrende storie" della Resistenza, che hanno cominciato a ricordare decenni dopo, (una volta scoperto che con quelle storie si guadagna moltissimo,) si moltiplicano in libreria. E rispondiamo con paziente precisione.
Primo: tutta la guerra della Resistenza italiana (che voleva dire guerra contro il fascismo, contro il razzismo, contro l'occupazione tedesca) non ha mai avuto stellette o uniformi. Era clandestina come quella francese, come tutta la Resistenza europea. Resistenza significava eliminare, sia pure in piccola parte, i militari stranieri occupanti e i loro complici fascisti, e rendere sempre più difficile la loro attività. Tale attività consisteva nella cattura e tortura degli avversari e dei resistenti politici, nel terrorizzare la popolazione civile con stragi perché non prestasse aiuto "ai banditi" , nella cattura ed eliminazione di tutti gli ebrei rintracciabili, compresi i neonati e i malati.
Secondo. Carla Cappon, Rosario Bentivegna e Pasquale Balsamo non si sentivano affatto eroi.
Si sentivano in dovere di fare, qualunque fosse il rischio, tutto il danno possibile al nemico. I tedeschi occupanti, aiutati dai fascisti che avevano abbandonato l'Italia legale, erano il nemico.
I tre di Via Rasella, in una Roma quasi senza Resistenza hanno colpito giusto. Bisognava che tedeschi e fascisti sentissero il pericolo di una vera guerra di popolo contro di loro anche se a rischiare e a combattere, a Roma, erano in pochi.
Terzo. "Dovevano consegnarsi." Perché? Non è mai accaduto e non deve accadere perché renderebbe inutile quella momentanea, ma importante, battaglia vinta. Non deve accadere perché i comandanti tedeschi sono gli stessi che hanno appena catturato e deportato tutti gli ebrei di Roma che hanno potuto trovare, dopo averli derubati ("come garanzia di salvezza", avevano detto) di tutto l'oro che avevano. Non deve accadere perché la principale attività tedesca e fascista nella Roma dove il Papa tace, è la pratica ininterrotta della tortura in via Tasso.
Non può accadere perché la rappresaglia è stata decisa subito e subito è stato stabilito che dovevano morire dieci italiani per ogni soldato tedesco, dunque più di trecento (già prigionieri a Regina Coeli) come vendetta per i trenta soldati morti nell'attentato. A Hitler importava poco, per l'azione esemplarmente crudele che aveva subito deciso, di avere o non avere tre prigionieri in più. Inoltre non avrebbero rinunciato perché stavano mandando a morte un numero molto alto di ebrei, e il punto che stava a cuore a Hitler e ai suoi ufficiali era che fossero ebrei, il reato più grave, in quel momento di follia della storia.
Chi insiste nel presunto dovere di consegnarsi dei tre mente due volte. La prima è perché non era possibile. Quando si è saputo di via Rasella il comunicato era seguito dalle parole: "La sentenza è già stata eseguita". La seconda è che, se lo avessero fatto, niente e nessuno avrebbe risparmiato i morti delle Ardeatine (dieci per ogni soldato tedesco, decisione immediata di Hitler). Ma i tre sarebbero morti di torture a via Tasso nel tentativo di sapere altri nomi della Resistenza a Roma.
Il nome di Salvo D'Acquisto è una provocazione con cui si usa un grande italiano, che si è offerto (in una rappresaglia che non è affatto stata evitata) di prendere il posto, in una fucilazione collettiva, di un padre di famiglia con figli. I tedeschi hanno accettato la sostituzione di uno. Ma hanno sterminato tutti gli altri. Dunque su vicende del genere sarebbe bene non negare e non mentire e non far finta di non sapere.
Il 23 marzo1944 ero a pochi passi da via Rasella, a Roma, quando un gruppo di partigiani assalì un plotone di soldati tedeschi. Due giorni dopo si seppe che i nazisti, con l'assistenza dei fascisti italiani, avevano trucidato, per rappresaglia, alle Fosse ardeatine, 335 detenuti frettolosamente prelevati nel carcere di Regina coeli . Ricordo quegli episodi con due stralci del mio libro
Memorie di un urbanista, Corte del fòntego editore, Venezia2010
Nonna Carmela e zia Giannina, con i miei cugini Carignani, soggiornavano in quel periodo all’Hotel Imperiale, nell’ultimo tratto di Via Veneto verso piazza Barberini. Spesso andavo lì per giocare con Luigi. L’albergo era molto frequentato da ufficiali tedeschi. Un giorno sentimmo un gran botto. Ci affacciammo alla finestra. I tedeschi andavano di corsa verso piazza Barberini, alcuni seguiti da cani lupi; motociclette con sidecar arrivavano e ripartivano. Tutto quel chiasso ci stupì. Più tardi sapemmo che a via Rasella, una traversa di piazza Barberini, i partigiani avevano fatto esplodere una bomba al passaggio d’un plotone di soldati nazisti.
Dopo uno o due giorni la tragedia esplose in molte famiglie: si sparse subito la voce della rappresaglia. Per ogni tedesco ucciso i nazisti avevano ammazzato dieci prigionieri prelevati in fretta e furia, più qualcuno per aggiungere peso alla minaccia. Anche i miei genitori avevano amici a Regina Coeli o nella tremenda prigione di Via Tasso. Mia mamma era andata qualche volta in quest’ultima prigione, camera di tortura delle SS (come si seppe dopo), a cercare notizie di Filippo di Montezemolo, suo amico, ufficiale monarchico antifascista, arrestato e torturato. E’ uno di quelli che furono trucidati, all’indomani dell’attentato.
San Pietro in vincoli, p. 5-8
[...]
Le mie letture mi fecero comprendere la portata di un episodio cui avevo assistito da vicino, a Roma, con mio cugino Luigi, all’hotel Imperiale a Via Veneto. Un piccolo commando di partigiani aveva organizzato un attentato colpendo, con una bomba nascosta in un carretto della spazzatura e con un successivo attacco con pistole e bombe a mano, un reparti di soldati tedeschi che percorrevano la centrale via Rasella. 32 soldati erano stati uccisi. Immediatamente il comandante nazista diede ordine di raccogliere un gruppo formato da 10 persone per ogni tedesco ucciso e di liquidarli per rappresaglia. In realtà ne furono presi 335: militari e partigiani, ebrei, antifascisti, ma anche persone che con la resistenza non c’entravano. Tradotti in una cava di pozzolana sulla via Ardeatina furono trucidati con le mitragliatrici, finiti con un diligente colpo di revolver, seppelliti con l’esplosione di mine.
Né quel giorno né il giorno dopo se ne seppe nulla: i giornali pubblicavano solo le notizie permesse dai fascisti, tacquero. Due giorni dopo un crudele comunicato, pubblicato sul “Messaggero”, diede la loro versione:
“Nel pomeriggio del 23 marzo 1944 elementi criminali hanno eseguito un attentato con lancio di bomba contro una colonna tedesca di polizia in transito per via Rasella. In seguito a questa imboscata 32 uomini della polizia tedesca sono stati uccisi e parecchi feriti. La vile imboscata fu eseguita da comunisti badogliani. Il Comando tedesco è deciso a stroncare l’attività di questi banditi scellerati. Nessuno dovrà sabotare impunemente la cooperazione italo-tedesca nuovamente affermata. Il Comando tedesco, perciò, ha ordinato che per ogni tedesco ammazzato dieci criminali comunisti badogliani saranno fucilati. Quell’ordine è già stato eseguito”[3].
Dopo la Liberazione il Comune bandì un concorso nazionale che condusse alla costruzione del più bell’episodio di architettura civile dell’Italia del secolo scorso, e forse uno dei più belli in assoluto. Lo disegnò un gruppo di giovani architetti e scultori[4]. Accanto alla roccia tufacea della cava un grande parallelepipedo si calcestruzzo, come una gigantesca lastra, copre le 365 tombe, staccato da terra da una feritoia continua; accanto, un gigantesco gruppo scultoreo rappresenta tre uomini legati; un cancello molto tormentato segna l’ingresso al complesso, nel quale sono state ripristinate le cave nelle quali gli ostaggi furono raccolti e trucidati.
Molti anni dopo, quando si cominciarono a mettere in dubbio gli ideali della Resistenza e, con essi, i metodi della lotta partigiana si tentò di gettare fango su quell’episodio, definendolo un atto criminale dei comunisti (quasi riecheggiando le parole dell’ukase nazista). Ma la giustizia riabilitò l’operato del gruppo di patrioti riconoscendone la natura di legittimo atto di guerra[5].
[1] R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Torino, Einaudi, 1953.
[2] Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana (8 settembre 1943 - 25 aprile 1945), a cura di P. Malvezzi e G. Pirelli, Torino, Einaudi Editore, 1961.
[3] “Il Messaggero”, 25 settembre 1944
[4] Gli architetti erano Nello Aprile, Aldo Cardelli, Cino Calcaprina, Mario Fiorentino, Giuseppe Perugini; gli scultori Francesco Coccia, Mirko Basaldella
[5] Corte di cassazione, Sezione III civile, Sentenza 6 agosto 2007, n. 17172
«Rivoltare come un calzino la legge elettorale è necessario ma non basta. È la prospettiva politica del renzismo che va combattuta ritrovando un’autonomia di deputati e senatori per contrastare una presa del potere che prepara un altro ventennio».
Il manifesto, 15 marzo 2014
Si gioca in Italia in questi giorni una doppia partita. La prima riguarda il consolidamento politico e di governo dell’operazione Renzi; la seconda il destino di una prospettiva riformatrice seria nel nostro paese, affidata finora, con alti e bassi di varia natura, e talvolta pericolosi cedimenti ed equivoci, — ma affidata comunque, — alle buone sorti del Pd. Se Renzi vince la prima, la seconda verrà sconfitta, per un periodo presumibilmente incalcolabile.
Quel che è uscito finora dal cappello di prestigiatore dell’attuale segretario Pd-presidente del consiglio è poco, confuso, contraddittorio, talvolta inconsistente, spesso inesistente, ma inequivocabilmente declamatorio e inconfondibilmente pubblicitario.
Alcuni punti fermi. L’Italicum fonda le sue fortune sull’asse con Silvio Berlusconi. Il che di per sé farebbe rabbrividire, ma non c’è solo questo. Ha attraversato per un pelo i voti della Camera dei deputati. Lo scontro sulle “quote rosa” ha rimanifestato di colpo l’esistenza sotterranea di un partito dei 101, più fedele a Renzi che al proprio partito e ai programmi elettorali sui quali questo si era conquistato bene o male una maggioranza nell’ultimo voto. Restano, con le “quote rosa”, questioni tutt’altro che irrilevanti come quelle delle preferenze, delle soglie di sbarramento, delle alleanze e del premio fuori misura allo stiracchiato vincitore. Allo stato attuale delle cose è lecito prevedere, in caso di approvazione, il rapido transito alla Corte costituzionale per un sospetto, appunto, d’incostituzionalità (Azzariti, Villone, ripetutamente su queste colonne; ma anche su altri giornali il discorso critico ha cominciato ad affacciarsi).
Dal punto di vista economico, abbiamo tutto e il contrario di tutto: i dieci milioni di sgravi fiscali per i lavoratori dipendenti più colpiti dalla crisi; e la precarizzazione illimitata e definitiva del mercato del lavoro (Alleva, il manifesto, 14 marzo). Ma soprattutto pende sulla manovra l’incertezza sulle sue fonti. Nessuno sa, né il presidente del consiglio finora lo ha detto, a quali voci attingere per rendere reale la sua mirabolante prospettiva (Fubini, la Repubblica 13 marzo; Pennacchi, l’Unità, 14 marzo).
Quel che Renzi offre al paese è un composto ibrido di posizioni, affermazioni, suggestioni e sollecitazioni, di cui non è più sufficiente dire che non è più né di destra né di sinistra, e neanche di centro, almeno nel senso tradizionale del termine, ma una nuova posizione politico-ideologica in cui può entrare di volta in volta tutto, purché confluisca a beneficiare il più possibile il prestigio e la fortuna del Capo (o Capetto che dir si voglia).
Aderire alla prospettiva di Renzi non significa dunque soltanto rinunciare a una prospettiva e a una politica di sinistra; significa rinunciare a una prospettiva “politica”, se per politica s’intende, e continua a intendersi, come si è sempre inteso nella tradizione politica occidentale (mica i Soviet, per intenderci) un corretto, limpido e dichiarato rapporto tra valori, prassi e obbiettivi da raggiungere (e, circolarmente, viceversa).
Così facendo, Renzi si affianca, con la maggior verve che la giovane età e una natura esuberante gli consentono, a quelli che, come ho avuto occasione di dire in un precedente articolo, non sono più i suoi avversari ma i suoi concorrenti. Il populismo gli è, persino più che negli altri due, impresso nella sua stessa matrice genetica. Renzi vola, dal comune di Firenze alla segreteria del Pd e di qui alla presidenza del consiglio, in virtù di un’investitura (le primarie dell’8 dicembre 2013) che non ha, mi verrebbe voglia di dire, nessuna legittimità costituzionale. Non è difficile ora arrivare alla previsione che, se fosse necessario, non solo nel campo delle riforme ma nel campo di tutto, sarebbe disponibile a fare, come ha già fatto, alleanze, esplicite o sotterranee, con tutti.
Se le cose stanno così, - mi rendo conto, naturalmente, che si potrebbe discutere a lungo di queste estremistiche premesse, - bisogna fermare Renzi prima che sia troppo tardi.
Non tanto per consentire la ripresa, anzi, la reviviscenza, di una prospettiva politica di sinistra nel nostro paese, la quale, se cova ancora fra noi, come io penso, verrà fuori a suo tempo; quanto per consentire la ripresa di un libero, effettivo gioco politico tra forze diverse, anche opposte, talvolta persino dialoganti e reciprocamente interconnettentisi, ma dotate ciascuna di un proprio registro identitario, con il quale, organizzativamente ed elettoralmente, identificarsi o distinguersi. Tutto ciò, mi rendo conto, non è facile. Soprattutto c’è poco, anzi quasi nessun tempo per farlo.
La prima scadenza possibile è il dibattito in Senato sulla legge elettorale. Bisogna rivoltare come un calzino il testo che arriva dalla Camera e, come dire, costituzionalizzarlo fino in fondo. Sui punti precedentemente elencati sono stati assunti impegni precisi (Bersani e altri). Vedremo cosa ne verrà fuori.
Ma non basta. Ha colpito, nei mesi che ci separano dall’insediamento di Renzi alla segreteria del Pd, e dalla sua pressoché totale conquista della direzione di quel partito, come frutto anch’esso automatico, delle primarie del dicembre 2013, la subalternità, anzi, in numerose occasioni, la supinità della cosiddetta minoranza interna del Pd, la quale rappresentava tuttavia ancora a quella data quasi la metà degli iscritti al Partito.
Torniamo alle premesse del mio discorso. Se questa subalternità, o supinità, continuano anche durante questa fase nella marcia di avvicinamento di Renzi ad una gestione ormai non più discutibile del potere, non ci saranno altre occasioni nel corso, approssimativamente, dei prossimi dieci anni. Bisognerebbe dunque agire subito, e costituire, tutti gli eletti Pd che intravvedono il rischio mortale contenuto in tale prospettiva, gruppi parlamentari autonomi, distinti da quelli renziani, — e potenzialmente più consistenti di questi, — per rovesciare, nella chiarezza della nuova situazione, lo svolgimento negativo, anzi catastrofico, delle premesse poste alla base del mio discorso. Per impedire a Renzi di conquistare una gestione illimitata del potere, si dovrebbero recuperare ora, subito e solidamente, e cioè con un preciso e indiscutibile atto formale, le condizioni di una prospettiva riformatrice seria nel nostro paese.
Non si tratta di una secessione. Anzi. Si tratta di ristabilire un giusto equilibrio fra l’espressione che c’è stata del voto elettorale e l’uso che ora ne vien fatto. Deputati e senatori del Pd sono stati eletti sulla base di un diverso programma politico, con obiettivi diversi, una diversa leadership, una diversa dinamica delle scelte da assumere. Devono semplicemente far riemergere quel che le primarie di partito del dicembre 2013 sembrerebbero aver innaturalmente seppellito. Se mai saranno gli altri a protestare e a tentare di farsi valere. Ma non dovrebbe prevalere l’opinione di un gruppo su quella di milioni di elettori.
Conseguenze possibili (possibili, ripeto, solo se l’andamento del processo viene rovesciato, e rovesciato ora): riconquistare - e rifare - questo partito. E cambiare la composizione partitica che sta attualmente alla base della maggioranza parlamentare che regge questo governo. Se questa composizione cambia, possono aprirsi scenari per ulteriori cambiamenti. Se queste possibilità vengono esperite fino in fondo, non è per niente detto che il governo, cioè l’Italia - identificazione questa che viene continuamente ed enfaticamente ripetuta, ma che andrebbe quanto meno discussa - vadano a carte quarantotto. Magari ne viene fuori lo stesso governo, ma diverso. Oppure un governo tutto diverso. E magari più forte. E più credibile, anche a livello europeo. Quel che è assolutamente certo è che restare immobili e indifesi dentro la manovra renziana, rappresenta la morte, non solo per il governo, non solo per il Pd, non solo per i gruppi parlamentari del Pd, ma anche e soprattutto, questa volta sì, per l’Italia
Finalmente una proposta sensata e concreta per uscire dalla crisi, ispirata da Luciano Gallino e proposta dai parlamentari di SEL. Non solo le cose da fare ma anche le risorse da impiegare. Sarebbe l'inizio di un'inversione di tendenza, possibile se il PD fosse diverso.
Greenreport, 27 febbraio 2014, con postilla
Dall’opposizione Sinistra ecologia libertà prova a inserirsi in grande stile nel dibattito sulle prime misure economiche annunciate dal nuovo presidente del consiglio Matteo Renzi. Ieri Giorgio Airaudo ha presentato la proposta di legge per la «istituzione di un programma nazionale sperimentale di interventi pubblici denominato «Green New Deal italiano» contro la recessione e la disoccupazione», da attuare tramite l’istituzione di una Agenzia nazionale per gli anni 2014-2016.
Airaudo, presentando la proposta, ha ricordato i dati sconvolgenti pubblicati dall’Istat nell’ottobre 2013, quando i disoccupati erano arrivati a 3.189.000 e ha evidenziato che con queste cifre, anche «se il quadro economico mutasse e vi fosse un boom, occorrerebbero non meno di 15 anni per riportare l’occupazione a livelli che si possano considerare fisiologici e non si riuscirebbe comunque a tornare ai livelli precedenti (ad esempio al dato del 2005, che ha costituito l’anno migliore del nuovo secolo per l’occupazione nei Paesi Ue), tenendo presente che la maggior parte delle imprese stanno provvedendo a sostituire in misura e rapidità crescente il lavoro umano con varie forme di automazione».
Sel parte da una convinzione che è l’esatto contrario della ricetta neoliberista: «È l’occupazione che genera sviluppo, non il contrario. I dati relativi al tasso di disoccupazione nel nostro Paese mostrano un quadro di assoluta gravità che continua a peggiorare. Si tratta di una vera e propria emorragia di posti di lavoro, che colpisce gli under 30, ma non di meno tutte le altre fasce di età. Quello che più turba è l’enorme crescita di quanti si dicono “scoraggiati”, che hanno smesso di cercare lavoro perché ritengono di non trovarlo. La disoccupazione continua a crescere anche nell’ambito del lavoro precario, a riprova del fatto che la scelta di favorire contratti non a tempo indeterminato ha poco o scarso impatto sul problema occupazionale, mentre priva i lavoratori di molti diritti fondamentali».
Airaudo, in una conferenza stampa con Luciano Gallino, vero ispiratore del Green New Deal, ha detto che l’obiettivo della proposta di legge è quello di «creare 1 milione e mezzo di posti di lavoro in tre anni, impegnando circa 17 miliardi, con lo Stato che diventa datore di lavoro di ultima istanza». Si tratta della trasposizione in proposta legislativa di quell’Agenzia per l’occupazione ipotizzata da tempo dal sociologo torinese, che ha descritto più di un anno fa anche sulle pagine di greenreport.it.
Gallino ha dunque sottolineato che «la priorità di questo Paese è il lavoro, che è una cosa molto concreta che richiede risposte precise. Se ci si affida al mercato e agli incentivi è impossibile risolvere il problema della disoccupazione». Per Gennaro Migliore, capogruppo di Sel alla Camera, il Green New Deal italiano sarebbe «uno choc positivo per l’economia che però dovrà avere effetti benefici anche sull’ambiente e non devastarlo. Anche la competitività delle imprese italiane non verrebbe intaccata dall’impegno pubblico. Non si può affidare al mercato quello che il mercato non vuole e non può fare».
Ma dove prendere i soldi? 17 miliardi di euro non sono così pochi, di questi tempi. Airaudo ha però puntualizzato subito che «la copertura dell’investimento triennale dovrebbe venire dall’uso dei fondi della Cassa depositi e prestiti, anche attraverso l’emissione di obbligazioni, e dai Fondi strutturali europei. Con una responsabilizzazione degli enti locali, attraverso l’allentamento del patto di stabilità interno. Ma attenzione, con una clausola sull’occupazione netta: chi vincesse a livello locale questi appalti dovrebbe non aver licenziato nei 24 mesi precedenti e impegnarsi a non licenziare nei 24 mesi successivi». Un punto controverso, questo. Se da una parte si tratta di una strategia per evitare escamotage da parte dei soliti furbi, dall’altra rischia di penalizzare anche quelle imprese che negli ultimi due anni hanno giocoforza dovuto affrontare licenziamenti per poter sopravvivere.
Il piano straordinario per il lavoro di Sel è in ogni caso una potente sfida politica al Pd, visto che dovrà essere discusso nel percorso parlamentare del Jobs Act di Matteo Renzi. «Serve un New Deal ispirato a quello rooseveltiano, e noi pensiamo che lo Stato possa diventare datore di lavoro di ultima istanza»: per far questo, secondo Gallino, «gli interventi vanno concentrati nei settori ad alta intensità di lavoro», che per Sel sono «il risanamento delle scuole, la ristrutturazione degli ospedali e la manutenzione del territorio per contrastare il dissesto idrogeologico». Si tratta di un tipo di occupazione in gran parte immune ai rischi da quell’informatizzazione e automatizzazione che attualmente spingono verso la disoccupazione tecnologica e, cosa non meno importante, si tratta di posti di lavoro che per loro natura non possono essere delocalizzati, come ha sottolineato proprio Gallino.
Gallino ha spiegato le differenze tra questo Green New Deal dal Jobs Act di Renzi: «La proposta di Sel è una proposta concreta, precisa, si potrebbe approvarla in una settimana e farla partire in 15 giorni. Si tratta di una proposta argomentata in 40 pagine di dati e statistiche. Da Renzi, sul lavoro, vorrei vedere qualcosa di più sostanzioso perché finora siamo sul piano dei discorsi. Il Jobs Act che ho scaricato dal sito di Renzi è soltanto un dossier di poche pagine che contiene alcune idee interessanti e altre a dire il vero mirabolanti. Ad esempio è mirabolante l’idea di cambiare per intero la legislazione sul lavoro in 8 mesi. In Italia, la legislazione sul lavoro ha cominciato a evolversi il 1 gennaio 1948, quando è nata la Costituzione. Otto mesi sono pochi date queste premesse di contenuto. Quelle del Jobs Act sono poche paginette che volano per aria. Aspetto che le paginette di Renzi diventino qualcosa di più concreto».
A Gallino – che nel suo ultimo libro parla, fin dal titolo de “Il colpo di Stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa” – gli è stato chiesto come questo ragionamento faccia da premessa alla necessità di un Green New Deal e lui ha risposto: «Tra il novembre 2011 e il febbraio 2012 la Bce ha prestato alle banche europee più di un trilione di euro, ovvero più di 1000 miliardi. Le banche italiane ne hanno approfittato per 300 miliardi. Una frazione minima di questi miliardi sono finiti alle imprese e per creare occupazione; gli altri sono stati depositati come collaterali alla Bce per impieghi prevalentemente bancari e finanziari privi di impatto sull’economia reale».
Postilla
Perché l’ortodossia classica (liberista e keynesiana) che suggerisce di passare a produzioni ad alto valore aggiunto non risolve più, oggi, la crisi industriale italiana. Che chiede un’altra riconversione possibile. I contenuti di un possibile nuovo "piano del lavoro".
Il manifesto, 18 febbraio 2014. In calce qualche riferimento
Che fare quando il padrone di un’azienda decide di chiuderla, o di trasferirla all’estero per pagare meno tasse, o per pagare meno gli operai, o per poter inquinare l’ambiente senza tante storie? A lume di naso, la prima cosa da fare è requisire l’azienda (i sindaci hanno il potere di farlo, se non altro per motivi di ordine pubblico) e impedirgli di portar via i macchinari. Poi bisognerebbe bloccargli i conti e farsi restituire i fondi che, 90 probabilità su 100, ha già ricevuto dallo Stato sotto forma di contributi a fondo perduto, credito agevolato, sconti fiscali e contributivi (ma qui dovrebbero intervenire anche altre istituzioni: Governo e magistratura). A maggior ragione questo vale se l’imprenditore in questione pone delle condizioni inaccettabili per “restare”: per esempio dimezzare i salari, come all’Electrolux.
Le minacce di “andarsene” o la decisione di chiudere o vendere sono altrettante mosse di una corsa al ribasso per spremere sempre di più i lavoratori: la vicenda Electrolux insegna. Se si accettano le regole della globalizzazione liberista, che affida alla concorrenza al ribasso l’organizzazione e la distribuzione territoriale e settoriale della produzione, a questa logica non c’è scampo. Ma, obiettano i cultori dell’ortodossia economica (che in questo ambito accomuna liberisti e keynesiani), per non sottostare a questa logica una strada c’è: passare a produzioni a più alto valore aggiunto e maggiori margini: invece di produrre utilitarie, produrre Maserati e Jeep, invece di lavatrici e frigo, impianti industriali di refrigerazione, ecc. Più in generale, passare a produzioni a maggior contenuto di tecnologie e di ricerca.
Intanto per i prodotti ad alto valore aggiunto bisogna trovare un mercato, per lo più già occupato da qualcun altro. Per esempio, la Fiat (ora Fca) ha ben poche carte in mano per sottrarre quote del mercato europeo di fascia alta a Mercedes, Bmw o Audi. Per questo la produzione automobilistica di Fca Italia, e con essa i suoi stabilimenti, sono in gran parte condannati a morte. Per additare una via di uscita i teorici dell’ortodossia ricorrono a una vecchia teoria dello sviluppo degli anni ’60 di Albert Hirschman, detta delle “anitre volanti”: le economie sono come uno stormo di anatre che volano una dietro l’altra. Mano a mano che quelle di testa passano a livelli tecnologici e più avanzati, quelle che seguono vanno a occupare le posizioni abbandonate dalle prime; e così, tutte insieme, promuovono lo sviluppo globale. Ma quella teoria rispecchiava l’andamento delle cose cinquant’anni fa (Stati uniti in testa e, a seguire, Europa, Giappone, Corea, ecc.). Ma oggi non funziona più per il semplice motivo che molti dei paesi a più bassi livelli salariali e di protezione dell’ambiente, che proprio per questo sono diventate le manifatture del mondo (prima tra essi, la Cina), oggi sono anche molto più avanti di noi — e non solo dell’Italia, ma anche dell’Europa — nella ricerca scientifica e tecnologica: è devastante competere con loro sui livelli salariali, anche se molte imprese non vedono altra strada per cercare di sopravvivere; ma in molti casi è anche impossibile competere sui livelli tecnologici; soprattutto in Italia dove istruzione e ricerca sono ambiti disprezzati e negletti.
È questo il presupposto di una ricostruzione su basi federaliste di un’economia europea autosufficiente (ma non autarchica), non competitiva (nel senso di non più impegnata in quella corsa al ribasso che è sotto gli occhi di tutti), che sappia utilizzare le tecnologie disponibili e i saperi diffusi, sia tecnici che “esperienziali”, per riagganciare la produzione ai bisogni condivisi della popolazione attraverso il potenziamento di una nuova “generazione” di servizi pubblici locali in forme partecipate, sotto il controllo dei governi dei territori: in campo energetico (impianti diffusi, differenziati e interconnessi di utilizzo delle fonti rinnovabili ed efficientamento dei carichi energetici) e in quello agroalimentare (agricoltura di qualità ed industria alimentare a km0); nel campo di una mobilità flessibile, integrando trasporto di massa e trasporto personalizzato, sia di merci che di passeggeri, attraverso la condivisione dei veicoli; nel campo del recupero e della valorizzazione delle risorse (quello che noi oggi chiamiamo gestione dei rifiuti), nella salvaguardia e nella valorizzazione del territorio (assetti idrogeologici, urbanistici, paesaggistici, monumentali, industria turistica, ecc.) e, soprattutto, nei campi della cultura, della ricerca, dell’istruzione, della difesa della salute fisica e mentale di tutti.
Ecco, allora, profilarsi un destino diverso per le aziende abbandonate e senza più sbocchi; ecco un ruolo strategico per le amministrazioni locali che intendono farsi carico delle condizioni di vita, ma anche del patrimonio di esperienza, di conoscenza, di saperi tecnici, di abitudine alla cooperazione delle maestranze messe alla porta dai loro datori di lavoro; ed ecco, infine, il presupposto irrinunciabile per promuovere un’alternativa di governo, a partire dall’iniziativa locale, per far fronte al caos a cui ci sta condannando l’attuale governance europea. Detta così sembra un’utopia: ma andiamo incontro a tempi in cui prospettare soluzioni estreme e finora “impensabili” diventerà necessario.

Futura umanità, 14 febbraio 2014
La questione dell’austerità si eleva, nella proposta di Berlinguer, al livello di una visione del mondo, fondata sulla storicità delle formazioni economico-sociali e quindi sul principio di trasformabilità delle relazioni tra gli esseri umani, e tra questi e l’ambiente naturale in cui avviene la loro riproduzione. Forse, proprio per questa visione dinamica, volta al cambiamento dei fondamenti sociali e del senso comune, la questione dell’austerità è stata una delle più contrastate e falsificate tra le elaborazioni e le proposte politiche del segretario del Pci.
«Noi – disse Berlinguer agli operai comunisti nel discorso di Milano il 30 gennaio 1977 – dobbiamo tenere la testa sopra il pelo dell’acqua, per continuare a pensare, a ragionare, a guardare lontano, cioè più in là dell’immediato, per staccarci dalle vecchie rive e approdare a lidi nuovi». Quindi, l’austerità, al contrario di quanto sostenevano i critici più rozzi e interessati, non era l’annuncio di una politica lacrime e sangue, come sarà praticata sistematicamente a danno dei lavoratori dai governi imperniati sulla pregiudiziale anticomunista. Tanto meno era la predicazione dell’indigenza generalizzata da parte di un «frate zoccolante», come qualcuno definì Berlinguer. Era invece un’altra visione della società e della vita fondata sulla solidarietà e l’uguaglianza, rispetto al consumismo e all’egoismo esasperati, vellicati e sospinti dalla controrivoluzione liberista.
Ma Berlinguer – e questo aspetto non andrebbe mai smarrito – non era un solitario sognatore. Bensì il segretario di un partito, denominato comunista, che si proponeva allora di trasformare la società in una civiltà più avanzata secondo il disegno costituzionale, che fonda sul lavoro la Repubblica democratica. In tale contesto (cito dal famoso discorso dell’Eliseo), «l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo», dunque «un’occasione per uno sviluppo economico e sociale nuovo». Viene così in primo piano il nodo della qualità e delle finalità dello sviluppo, del perché e per chi produrre. Ovvero, del senso da dare all’austerità, e perciò il nodo dell’uso delle risorse, umane e naturali.
Se lo scopo da perseguire non è l’incremento indefinito del profitto, ma il soddisfacimento dei grandi bisogni umani in consonanza con la riproduzione equilibrata dei fattori naturali, allora c’è bisogno di un altro ordine dei fattori economici e di un altro paradigma sociale. E per ottenere ciò non basta una più equa distribuzione della ricchezza, sebbene si tratti di una questione essenziale. Occorre intervenire nei rapporti di produzione e nel processo di accumulazione. Insomma, precisa Berlinguer, c’è bisogno di «un intervento innovatore nell’assetto proprietario» e di introdurre criteri, valori e obiettivi «propri del socialismo» nella conformazione materiale e ideale della società.
Secondo il segretario del Pci, l’Italia vive uno di quei momenti della storia nei quali o si avvia «una trasformazione rivoluzionaria della società» o si può andare incontro «alla decadenza di una civiltà, alla rovina di un Paese». Perciò la fuoriuscita «dal quadro e dalla logica del capitalismo» attraverso l’austerità verso una civiltà più avanzata, nella quale l’economia sia al servizio dell’uomo e non viceversa, secondo il suo pensiero è interesse non solo della classe operaia e dei comunisti, bensì di strati ben più vasti di popolo, in definitiva dell’intera nazione.
All’impostazione modernamente rivoluzionaria di Enrico Berlinguer, che nasce non da pregiudizi ideologici ma da una visione dinamica del cambiamento basata su ragioni oggettive, è stato contrapposto il pregiudizio, questo sì ideologico, della non trasformabilità del sistema. Un dogma laico, diventato la stella polare di Thatcher e di Reagan, costruito sul vecchio ideologismo che trasforma le relazioni sociali tipiche del rapporto di produzione capitalistico in immutabili leggi di natura valide per l’eternità, dalla cui gabbia per definizione non si può uscire.
Mi sembra emblematico il fatto che Eugenio Scalfari, il quale sempre con grande sensibilità e rispetto ricorda i suoi incontri con Berlinguer, ancora nel settembre 2006, alla vigilia della crisi nella quale tuttora siamo immersi, concludendo un lungo e problematico dibattito sul tema del socialismo abbia sinteticamente affermato che (cito testualmente) «uscire dal capitalismo è una bubbola». Questo perché, spiega il fondatore di Repubblica, l’accumulazione del capitale «non è – testuale -un fenomeno del capitalismo», «ma della scarsità di risorse». Quindi non si può cambiare. Di conseguenza, anche le disuguaglianze (parliamo ovviamente delle disuguaglianze sociali non delle diversità biologiche), che sono (ancora testuale) «un fenomeno naturale» e «fanno parte della natura della nostra specie», non sono a loro volta eliminabili.
Dove portano queste premesse? Anche in questo caso la risposta di Scalfari è perentoria: «Esattamente all’accettazione del riformismo, cioè alla gradualità per temperare processi comunque inevitabili». Dove è evidente che il riformismo gradualista non è concepito come un processo di superamento dei rapporti sociali esistenti, ma come un tentativo di temperare, appunto, le contraddizioni laceranti del capitalismo per consolidarne la presa sulla società.
In conclusione, mi pare che per uscire da questo tempo di crisi senza fine una riflessione s’imponga sulla necessità di rovesciare i canoni della cultura dominante, a cominciare proprio dal dogma della non trasformabilità del sistema, come fece ai suoi tempi il segretario del Pci. Il valore della sua azione e della sua ricerca appare oggi tanto più rilevante, sebbene fortemente sottovalutata, perché in un mondo diviso dalla guerra fredda, in cui si fronteggiavano due sistemi entrambi declinanti, il capitalismo ad Ovest (poi risultato vincente sotto la spinta neoliberale) e il «socialismo realizzato» ad Est (poi imploso), Enrico Berlinguer fu l’unico dirigente politico di levatura internazionale che pose in termini concreti nel cuore d’Europa il problema della costruzione di una società nuova, diversa dai modelli esistenti a Est come a Ovest.
Superata a suo giudizio la fase del movimento per il socialismo scaturita dalla Rivoluzione d’Ottobre, d’altra parte anche la fase socialdemocratica del movimento operaio era venuta esaurendosi, giacché – precisava Berlinguer – nessuno degli «esperimenti socialdemocratici ha portato al superamento del capitalismo» in Paesi dove crescono non solo gravi disagi per grandi masse di lavoratori. Ma anche il malessere, le ansie, le angosce, «quella che si potrebbe definire l’infelicità dell’uomo di oggi».
La morte ha colpito il segretario comunista come un operaio sul lavoro, mentre nella tempesta dell’offensiva liberista stava guidando il Pci lungo un percorso inesplorato, alla ricerca di una società più giusta e avanzata, in cui il socialismo si coniughi con la democrazia e l’uguaglianza con la libertà. L’austerità fu pensata in un’altra fase della storia, oggi tutto è diverso. Ma i problemi di quel mondo che Berlinguer con la sua lotta voleva cambiare restano, e si sono aggravati. Perciò chi voglia cambiare davvero lo stato di cose presente oggi dal suo pensiero e dal suo esempio non può prescindere.
Riprendiamo dal nostro archivio e ripubblichiamo uno scritto sulla strumentale deformazione storica delle "foibe", stoltamente ripresa quest'anno dal presidente Mattarella. È un'intervista di Tommaso di Francesco, fuori dal coro dei nazionalisti nostrani dalla memoria dimezzata.
Il manifesto, 9 febbraio 2014
«Certo che bisogna tornare sulle foibe, ogni volta, ogni anno». A dieci anni esatti dall’istituzione del Giorno del Ricordo (il 10 febbraio), il bilancio di Predrag Matvejevic è ancora una volta critico e insiste a «ricordare tutti i ricordi». Nel 2004 un’iniziativa revisionista storica della destra post-fascista, riciclata e diventata di governo ed elettoralmente candidabile grazie a Silvio Berlusconi, portò a buon fine la sua battaglia negazionista del passato di crimini italiani nell’ex Jugoslavia. Centrando l’obiettivo di ridurre la prospettiva all’ultimo, infausto periodo, delle responsabilità slave. A questo punto di vista tutto l’arco costituzionale s’inchinò. Favorendo negli anni processi cosiddetti culturali — fiction, cerimonie, opere teatrali — di rimozione della verità storica. Su questo abbiamo voluto ancora una volta ascoltare per i lettori del manifesto il grande scrittore dell’asilo e dell’esilio, l’autore di Breviario mediterraneo — per citare solo una delle sue opere — che ama ancora definirsi jugoslavo. «A proposito di storia, che vergogna che qui, in Croazia, la Chiesa che ha così gravi responsabilità nella connivenza con il nazifascismo e con l’ideologia ustascia, abbia praticamente disertato due settimane fa le celebrazioni del Giorno della Memoria» ci dichiara subito Predrag Marvejevic.
Sono passati dieci anni dall’istituzione di questa Giornata da parte delle istituzioni italiane, che ha sempre visto la protesta dei nostri storici democratici. Che bilancio va fatto?
Intanto che non bisogna smettere di raccontare la verità. André Gide diceva: «Bisogna ripetere…nessuno ascolta». Ognuno, soprattutto in questa epoca sembra chiuso nella propria sordità. Il bilancio non è positivo, se a celebrare il Giorno della memoria alla Risiera di San Sabba, il lager nazista al confine tra due popoli, accorrono anche post-fascisti abili a cancellare i crimini del fascismo italiano nelle terre slave. E ogni anno abbondano fiction e rappresentazioni che invece di raccontare il pathos collettivo che riguarda almeno due popoli, riducono tutto, nella forma e nei contenuti, alla sola tragedia delle vittime italiane. Ho scritto sulle vittime delle foibe anni fa in ex Jugoslavia, quando se ne parlava poco in Italia. Ero criticato. Ho avuto modo di sostenere gli esuli italiani dell’Istria e della Dalmazia (detti “esodati”). L’ho fatto prima e dopo aver lasciato il mio paese natio e scelto, a Roma, una via “fra asilo ed esilio”. Continuo anche ora che sono ritornato a Zagabria. Condivido il cordoglio italiano, nazionale e umano, per le vittime innocenti. Credevo comunque che le polemiche su questa tragedia, spesso unilaterali e tendenziose, fossero finite. Invece si ripetono ogni anno, sempre più strumentalizzate.
C’è qualche episodio particolare di strumentalizzazione che ricorda?
Voglio ricordare il caso del 2008 dello scrittore di confine, il grande Boris Pahor. Ecco uno scrittore che ha fatto della coralità del dolore la sua materia, e infatti ha raccontato la tragedia dei crimini commessi dai fascisti in terra slava e il lascito di odio rimasto. Di fronte all’onorificenza che gli offriva il presidente della repubblica Giorgio Napolitano, insorse dichiarando che avrebbe detto no, l’avrebbe rifiutata, se dalla presidenza italiana non arrivava una chiara presa di posizione contro i silenzi sugli eccidi perpetrati da Mussolini.
Che cosa fu in realtà il crimine delle Foibe?
Sì, le foibe sono un crimine grave. Sì, la stragrande maggioranza di queste vittime furono proprio gli italiani. Ma per la dignità di un dolore corale bisogna dire che questo delitto è stato preparato e anticipato anche da altri, che non sono sempre meno colpevoli degli esecutori dell’ “infoibamento”. La tragica vicenda è infatti cominciata prima, non lontano dai luoghi dove sono stati poi compiuti quei crimini atroci. Il 20 settembre 1920 Mussolini tiene un discorso a Pola (non certo casuale la scelta della località). E dichiara: «Per realizzare il sogno mediterraneo bisogna che l’Adriatico, che è un nostro golfo, sia in mani nostre; di fronte ad una razza come la slava, inferiore e barbara». Ecco come entra in scena il razzismo, accompagnato dalla “pulizia etnica”. Gli slavi perdono il diritto che prima, al tempo dell’Austria, avevano, di servirsi della loro lingua nella scuola e sulla stampa, il diritto della predica in chiesa e persino quello della scritta sulla lapide nei cimiteri. Si cambiano massicciamente i loro nomi, si cancellano le origini, si emigra… Ed è appunto in un contesto del genere che si sente pronunciare, forse per la prima volta, la minaccia della “foiba”. È il ministro fascista dei Lavori pubblici Giuseppe Caboldi Gigli, che si era affibbiato da solo il nome vittorioso di “Giulio Italico”, a scrivere già nel 1927: «La musa istriana ha chiamato Foiba degno posto di sepoltura per chi nella provincia d’Istria minaccia le caratteristiche nazionali dell’Istria» (da “Gerarchia”, IX, 1927). Affermazione alla quale lo stesso ministro aggiungerà anche i versi di una canzonetta dialettale già in giro: «A Pola xe l’Arena, La Foiba xe a Pisin», che ha fatto bene a ricordare su il manifesto nei giorni scorsi Giacomo Scotti nel suo saggio. Le foibe sono dunque un’invenzione fascista. E dalla teoria si è passati alla pratica. L’ebreo Raffaello Camerini, che si trovava ai “lavori coatti” in questa zona durante la seconda guerra mondiale ha testimoniato nel giornale triestino Il Piccolo (5. XI. 2001): «Sono stati i fascisti, i primi che hanno scoperto le foibe ove far sparire i loro avversari». La vicenda «con esito letale per tutti» che racconta questo testimone, cittadino italiano, fa venire brividi.
Come è vissuto il Giorno del Ricordo nell’ex Jugoslavia, quali “ricordi” reali va a risvegliare?
La storia (con la S maiuscola) potrebbe aggiungere alcuni altri dati poco conosciuti in Italia. Uno dei peggiori criminali dei Balcani è certamente il duce (poglavnik) degli ustascia croati Ante Pavelic. E il campo di Jasenovac è stato una Auschwitz in formato ridotto, con la differenza che lì il lavoro micidiale veniva fatto “a mano”, mentre i nazisti lo facevano in modo “industriale”. Aggiungiamo che quello stesso criminale Pavelic con la scorta dei suoi più abietti seguaci, poté godere negli anni trenta dell’ospitalità mussoliniana a Lipari, dove ricevevano aiuto e corsi di addestramento dai più rodati squadristi. Le “camicie nere” hanno eseguito numerose fucilazioni di massa e di singoli individui. Tutta una gioventù ne rimase falciata in Dalmazia, in Slovenia, in Montenegro. A ciò bisogna aggiungere una catena di campi di concentramento, di varia dimensione, dall’isoletta di Mamula all’estremo sud dell’Adriatico, fino ad Arbe, di fronte a Fiume. Spesso si transitava in questi luoghi per raggiungere la risiera di San Sabba a Trieste e, in certi casi, si finiva anche ad Auschwitz e soprattutto a Dachau. I partigiani non erano protetti in nessun paese dalla Convenzione di Ginevra e pertanto i prigionieri venivano immediatamente sterminati come cani. E così molti giunsero alla fine delle guerra accaniti: “infoibarono” gli innocenti, non solo d’origine italiana. Singole persone esacerbate, di quelle che avevano perduto la famiglia e la casa, i fratelli e i compagni, eseguirono i crimini in prima persona e per proprio conto. La Jugoslavia di Tito non voleva che se ne parlasse. Abbiamo comunque cercato di parlarne. Purtroppo, oggi ne parlano a loro modo soprattutto i nostri ultra-nazionalisti, una specie di “neo-missini” slavi. Ho sempre pensato che non bisognerebbe costruire i futuri rapporti in questa zona sui cadaveri seminati dagli uni e dagli altri, bensì su altre esperienze. Ad esempio culturali… Per questo auspico la proclamazione congiunta de “Il giorno dei ricordi”. E questo mi sembra il nuovo intendimento che emerge e per i quale dobbiamo batterci.
Riferimenti
Rinviamo all'ampia documentazione raccolta in eddyburg nella cartella Italiani brava gente, e in particolare agli articoli degli storici Enzo Collotti (11 febbraio 2007), Giacomo Scotti (13 febbraio 2007), Claudia Cernigol (27 febbraio 2005) e dai giornalisti Simonetta Fiori (3 maggio 2005) e Corrado Staiano (4 febbraio 2005). Nell'immagine bambini jugoslavi internati dai fascisti italiani nel campo di Arbe
Il valore è prodotto dal lavoro del lavoratore, scriveva Adam Smith ne "La ricchezza delle nazioni". Una rilettura più che utile oggi. S
bilanciamoci.info, 7 febbraio 2014
«Il prodotto del lavoro costituisce la ricompensa naturale, o salario, del lavoro. Nella situazione originaria che precede sia l'appropriazione della terra sia l'accumulazione dei capitali, tutto il prodotto del lavoro appartiene al lavoratore, che non ha né proprietario fondiario né padrone con cui spartirlo. Se questa situazione fosse durata, i salari del lavoro sarebbero aumentati insieme ai progressi delle capacità cui dà luogo la divisione del lavoro» .
Ecco come andare avanti per costituire, almeno per le elezioni europee, una lista di sinistra anche in Italia. Lo propongono Barbara Spinelli, Andrea Camilleri, Luciano Gallino, Paolo Flores d’Arcais, Marco Revelli, Guido Viale.
Eddyburg aderisce. Il manifesto, 1 febbraio 2014
Vogliamo ringraziare tutte e tutti coloro che hanno firmato l’appello per una lista di cittadinanza unitaria e apartitica che promuova la candidatura di Alexis Tsipras a Presidente della Commissione europea alle prossime elezioni europee. Grazie al vostro impegno abbiamo superato le 14.000 firme in meno di nove giorni, nonostante il silenzio della stampa e dei media. Tuttavia le adesioni raccolte (tra cui nomi della cultura, della scienza, dell’arte, del giornalismo e dello spettacolo) sono una goccia nel mare delle elettrici e degli elettori che vogliamo e dobbiamo raggiungere. Non intendiamo infatti rivolgerci solo all’elettorato della sinistra cosiddetta radicale, ma molto al di là. A quanti non votano più perché delusi o disgustati dalla politica ufficiale o, non vedendo più l’utilità dell’Europa, consegnano il proprio destino agli attuali «equilibri».
A chiha votato Pd controvoglia, perché in assoluto disaccordo con l’accettazione supina dei trattati europei che ci condannano all’austerità e alla rovina. A chi ha votato Cinque Stelle, malgrado una leadership potenzialmente autoritaria e ondivaga, in assenza di una alternativa credibile.
Riconoscersi nella figura di Alexis Tsipras, che ha costruito una forza elettorale maggioritaria non su tematiche e appelli demagogici antieuropeisti, ma su un impegno concreto a rinegoziare i trattati e il funzionamento dell’Unione europea, rende evidente la posta in gioco di queste elezioni: un disegno autenticamente europeista, contro l’ipotesi della cancelliera Merkel e di Shulz di piegare l’Europa alla stessa logica della Grosse Koalition tedesca.
Per tutti noi che abbiamo aderito e per quelli che aderiranno a questo progetto le cose cominciano dunque ora. È assolutamente necessario organizzarci al più presto, perché il tempo stringe e le cose da fare sono tantissime.
Dobbiamo dare un nome alla lista, definirne ulteriormente il programma, scegliere i candidati, creare strutture operative e comitati di sostegno nazionali e locali, raccogliere entro il 14 aprile le firme necessarie alla presentazione della lista (oltre 150.000; 30.000 per ciascuna delle cinque circoscrizioni e almeno 3.000 in ogni Regione, comprese le più piccole, su moduli ufficiali che includano già il nome dei candidati!), nominare uno o più tesorieri e raccogliere i fondi per finanziare la campagna elettorale in maniera autonoma e indipendente.
Abbiamo deciso la via della raccolta delle firme, anzichè tentare di appoggiarci a qualche forza presente in Parlamento, per sottolineare l’autonomia della lista che con voi costruiremo, e perché lo sforzo per la raccolta delle firme rappresenta un buon inizio della campagna elettorale.
I sei promotori saranno i garanti dei principi apartitici, democratici, inclusivi e orientati a un federalismo che promuova il rinnovamento radicale delle istituzioni dell’Unione europea, scongiurando così interferenze o tentativi di appropriazione del progetto che già in passato hanno fatto fallire analoghe iniziative, nate con intenti altrettanto unitari.
Entro pochi giorni lanceremo una consultazione on-line per decidere il nome della lista, allegando un invito al suo finanziamento, e attiveremo un comitato operativo, che potrà ampliarsi in seguito, secondo le esigenze che emergeranno. Invieremo una mail per fornire a tutti le modalità per entrare in contatto con i firmatari della stessa zona e con loro avviare la costituzione di comitati promotori locali, indicando al contempo referenti che facciano da collegamento con i garanti.
Alle associazioni, comitati di lotta, club, organizzazioni politiche, culturali, civiche e ambientaliste, nonché ai partiti che intendono sostenere il progetto mantenendo una loro autonomia operativa, proponiamo di associarsi a livello nazionale e a livello locale in uno o più comitati di sostegno alla lista, secondo il modello adottato per il referendum per l’acqua.
Nella lista, in coerenza con il programma, potranno venir candidate persone, anche con appartenenze partitiche, che non abbiano avuto incarichi elettivi e responsabilità di rilievo in un partito nell’ultimo decennio; le proposte relative alle candidature dovranno essere presentate entro e non oltre il 16 febbraio, poiché il 22 dello stesso mese inizierà la raccolta delle firme e per quella data i candidati dovranno essere noti e in regola con le pratiche di accettazione; saranno fissate regole rigide sulla conduzione della campagna elettorale, stabilendo che i fondi che ogni candidato avesse eventualmente a propria personale disposizione vengano divisi con il comitato operativo, in modo che le spese personali non superino una percentuale fissa della spesa complessiva.
Il 24 di febbraio inizierà la raccolta delle 150.000 firme che rappresenta il maggiore sforzo a cui sarà sottoposta l’organizzazione che tutti insieme saremo riusciti a mettere in piedi per quella data.
Quello che stiamo attivando tutti insieme è un progetto nuovo: nei soggetti promotori, nel percorso, nelle modalità. Per questo richiede a ciascuno la capacità di pensarsi dentro un percorso collettivo e non in quanto interprete di istanze di parte. Questa è la difficoltà maggiore e bisogna esserne consapevoli.
La lettera con la quale il leader della sinistra europea, Alexis Tsipras, accetta la candidatura e le tre sagge condizioni che pone alla sua formazione.
Il manifesto, 25 gennaio 2014. In calce i promotori e della lista italiana e le adesioni finora pervenute.
In Grecia, in Italia e nell’Europa del Sud in genere siamo testimoni di una crisi senza precedenti, che è stata imposta attraverso una dura austerità che ha fatto esplodere a livelli storici la disoccupazione, ha dissolto lo stato sociale e annullato i diritti politici, economici, sociali e sindacali conquistati. Questa crisi distrugge ogni cosa che tocca: la società, l’economia, l’ambiente, gli uomini.
“L’Europa è stata il regno della fantasia e della creatività. Il regno dell’arte”, ci ha insegnato Andrea Camilleri, per finire in “un colpo di stato di banchieri e governi”, come ha aggiunto Luciano Gallino. Questa Europa siamo chiamati a rovesciare partendo dalle urne il 25 di maggio nelle elezioni per il Parlamento Europeo. Scommettendo sulla ricostruzione di una Europa democratica, sociale e solidale.
La vostra proposta per l’unità, aperta e senza esclusioni, della sinistra sociale e politica anche in Italia rappresenta un prezioso strumento per cambiare gli equilibri nell’Europa del Sud e in modo più generale in Europa. Syriza ed io personalmente sosteniamo che l’unità della sinistra con i movimenti ed i cittadini che colpisce la crisi rappresenta il migliore lievito per il rovesciamento. È la condizione necessaria per cambiare le cose.
La vostra proposta per la creazione di una lista aperta, democratica e partecipativa della sinistra italiana, dei movimenti e della società civile in Italia per le elezioni europarlamentari di maggio, con l’obiettivo di appoggiare la mia candidatura per la Presidenza della Commissione Europea, può rappresentare con queste condizioni un tentativo di aprire una nuova speranza con successo.
La prima condizione è che questa lista si costituisca dal basso, con l’iniziativa dei movimenti, degli intellettuali, della società civile. La seconda condizione è di non escludere nessuno. Si deve chiamare a parteciparvi e a sostenerla prima di tutto i semplici cittadini, ma anche tutte le associazioni e le forze organizzate che lo vogliono. La terza condizione è di avere come speciale e unico scopo quello di rafforzare i nostri sforzi in queste elezioni europee per cambiare gli equilibri in Europa a favore delle forze del lavoro contro le forze del capitale e dei mercati. Di difendere l’Europa dei popoli, di mettere freno all’austerità che distrugge la coesione sociale. Di rivendicare di nuovo la democrazia.
L’esperienza di Syriza in Grecia ci ha insegnato che in tempi di crisi e di catastrofe sociale, come oggi, è di sinistra, radicale, progressista, ogni cosa che unisce e non divide.Solo se facciamo tutti insieme un passo indietro, per fare tutti insieme molti passi in avanti, potremmo cambiare la vita degli uomini. In un quadro del genere anche il mio contributo potrà essere utile a tutti noi, ma prima di tutto ai popoli d’Italia e d’Europa.
Alexis Tsipras è Presidente di Syriza e Vicepresidente del Partito della Sinistra Europea
Qui su eddyburg l'appello e le prime adesioni. Qui per sottoscrivere l'appello
A proposito del congresso di SEL. «Non sappiamo dire perché pur partendo da analisi profonde e condivise della grave malattia che rischia di inghiottire l’Europa nel destino weimariano, le sinistre plurali non riescano a unirsi in una lista comune a sostegno della candidatura di un leader europeo come Alexis Tsipras».
Il manifesto, 25 gennaio 2014
Non sappiamo dire perché pur partendo da analisi profonde e condivise della grave malattia che rischia di inghiottire l’Europa nel destino weimariano, le sinistre plurali non riescano a unirsi in una lista comune a sostegno della candidatura di un leader europeo come Alexis Tsipras. Né dire perché un sindacato italiano come la Cgil, presente nelle assise di Sinistra ecologia e libertà con Camusso e Landini, pur invocando una risposta keynesiana ai vincoli catastrofici dell’austerità non sappia offrire una risposta unitaria al dramma del lavoro ormai ridotto a merce. Ma è questo quadro di spaccature e divisioni che ci viene restituito dalla tribuna congressuale di Sel.
Il partito di Nichi Vendola ieri lo ha ascoltato nella lunga e appassionata relazione che appunto si concludeva con il no all’adesione alla lista italiana per Tsipras e il sì alla presentazione del proprio simbolo con l’indicazione di sposare la scelta del Pse e di conseguenza di Martin Schulz come candidato alla presidenza della Commissione europea. Con una fortissima probabilità di non superare, né gli uni né gli altri, quella soglia del 4 per cento necessaria per entrare nel parlamento europeo. Uno scenario che abbiamo purtroppo conosciuto esattamente quattro anni fa, alle elezioni europee del 2009 quando l’astensionismo superò il 7 per cento, le destre avanzarono, la sinistra arretrò, lasciando Rifondazione e Sel fuori da Strasburgo. Anche allora il manifesto provò a indicare la via di una lista unitaria fuori dalle litigiosità partitiche, l’appello restò inascoltato e fummo facili profeti dello sventurato risultato. Oggi, con la maturità del giovane leader di Syriza, sarebbe stato possibile (e speriamo ancora possa essere) arrivare uniti alla meta delle elezioni.
Naturalmente non è semplice operare nel vivo delle storie personali e collettive che in questi anni hanno separato il nostro campo. Vendola ha ragione quando ricorda che una nuova sinistra pretende un discorso di verità, che la sconfitta perdura, che arrendersi alla fatalità delle larghe intese anche in Europa significa considerare Schulz come un avversario anziché come un alleato. Più difficile da questo dedurne che allora «Sel non deve avere paura di andare con il suo simbolo alle europee».
La scelta di alzare le bandiere di partito viene replicata quando si atterra nello scenario italiano. L’attacco al Pd di Renzi è netto. Il segretario-sindaco «ignora proprio il senso delle primarie», ha sostituito la «procedura democratica con la velocità del comando», la sua polemica contro i piccoli partiti «nasconde la bulimia dei grandi», la legge elettorale concepita in profonda sintonia con Berlusconi è «un’intesa opaca con il berlusconismo». Il Pd resta un interlocutore, ma l’alleanza «non è una condanna».
La botta, elettorale e personale, che ha colpito un partito e un leader, ambiziosi e fragili, si fa sentire e c’è voglia di «toglierci il lutto». Vale la lezione di Calamandrei e dei piccoli numeri del partito d’Azione, o quella di due grandi sconfitti, Ingrao e Gramsci, figure dell’album citato da Vendola. Per dire, come scrive Corrado Stajano concludendo il viaggio nella “Stanza dei fantasmi”, che la speranza nella speranza è sì difficile, ma anche doverosa
Intervista all’intellettuale americano che spiega le sue teorie e le sue radicali opinioni politiche «Ci sono due ombre scure che incombono su ogni considerazione riguardo al futuro: la catastrofe ambientale e la guerra nucleare. La prima è già tristemente una realtà; l’altra è un rischio sempre presente che non accenna a dissolversi».
La Repubblica, 18 gennaio 2014
«Non penso che ci sia un politico che abbia mai prestato una qualche attenzione a ciò che scrivo, dico o faccio». A 85 anni, Noam Chomsky si rende bene conto che pure essere uno degli intellettuali più ascoltati del pianeta, non cambia la direzione che il mondo ha preso. Il grande linguista americano, a partire dagli anni Settanta, ha scelto seriamente la strada del pensiero e dell’attivismo politico che lo ha portato oggi a essere l’interlocutore privilegiato nei dialoghi sui problemi di ordine mondiale. Una raccolta dei suoi saggi politici, I padroni dell’umanità (Ponte alle Grazie, in libreria il 23), mette ora in fila tutte le sue risposte, generalmente volte a condannare i sistemi neoliberisti e neocolonialisti. Nel frattempo la sua idea di una grammatica universale (facoltà mentale comune a tutti gli individui) e la teoria della grammatica generativa (l’insieme, finito, delle regole che danno luogo alle potenzialmente infinite formulazioni delle frasi) hanno iniziato a camminare da sole: «La grammatica generativa è ormai una scienza, – dice – e come tale raccoglie i risultati prodotti dalla partecipazione collettiva di tanti studiosi». Il 25 gennaio a Roma, all’interno del Festival delle Scienze, Chomsky terrà una lezione magistrale in cui parlerà del linguaggio e della mente. Ma il pubblico italiano potrà incontrarlo anche la sera prima in un curioso spettacolo musicale, Conversazioni con Chomsky,
una talk-opera multimediale del compositore Emanuele Casale, ove il linguista parteciperà a «una sessione di domande sugli argomenti della linguistica, dell’economia e della politica, anche italiana»…
Professor Chomsky, lei parteciperà a un’opera musicale. Si dice spesso che la musica sia un linguaggio universale. Ma, innanzi tutto, la musica è un linguaggio?
«Il concetto di linguaggio nell’uso comune è vago e informale. È comunque possibile formulare almeno alcune chiare domande. Per esempio quali relazioni ci sono tra musica e linguaggio umano? Ci sono studi su questo e molte idee interessanti ma la domanda generale non ha risposta. È come domandarsi se gli aeroplani volino (certo, ma non come le aquile) o se i sottomarini nuotino (non proprio come delfini). Sono faccende che hanno a che fare con le metafore che scegliamo di accettare, non sono questioni fattuali».
Cosa differenzia il linguaggio verbale dagli altri sistemi di segni (suoni, figure, gesti)?
«È importante ricordare che il linguaggio umano non è necessariamente verbale. Può essere espresso attraverso suoni, il modo più comune, o segni grafici. Come abbiamo scoperto in anni recenti, molti linguaggi simbolici che sono nati nel mondo sono particolarmente simili ai linguaggi orali. A ogni modo il linguaggio umano differisce da altri sistemi di segni in alcuni importanti aspetti: struttura, uso, rappresentazione neuronale. È stato anche scoperto che lo stesso gesto può funzionare in maniera diversa se viene usato in un sistema di segni o se in un contesto non linguistico. Le proprietà fondamentali del linguaggio umano appaiono uniche e sono probabilmente emerse relativamente di recente rispetto al processo evolutivo. La facoltà del linguaggio sembra essere ampiamente dissociata da altri sistemi cognitivi umani e completamente differente dai sistemi di comunicazione animali».
Se il linguaggio è generato dalla grammatica e la grammatica fondata su strutture foniche, si potrebbe dire che il linguaggio si origina più probabilmente dal suono che dal segno?
«Quello che possiamo dire è che il suono è solo una delle forme di esternalizzazione del linguaggio e non sembra essere essenziale della sua natura. Concordo con la tradizione che tende a considerare il linguaggio primariamente uno strumento del pensiero e la sua esternalizzazione, in una o un’altra modalità, un processo secondario. È tuttavia vero che i segni grafici sono cosa piuttosto recente nella storia dell’uomo, tra l’altro solo in certe culture, e che non possano essere collegati all’origine del linguaggio».
Cosa pensa delle recenti ricerche neurolinguistiche? I risultati scientifici mettono a tacere la lunga diatriba tra “innatismo” e “comportamentismo”?
«Nonostante io abbia sempre trovato fuorviante parlare di dibattito tra “comportamentismo” e “innatismo” (e soprattutto su questa parola bisognerebbe accordarsi, perché non ha un significato ben definito), non si può seriamente dubitare che ci sia un alto numero di fattori innati che entrano in ogni aspetto della funzione cognitiva. L’unica alternativa è la magia. Il lavoro scientifico è determinare questi fattori: per esempio, qual è la dote biologica che rende il bambino, e non un altro organismo, in grado di sviluppare le capacità che io e lei stiamo usando ora? E così domande simili sulle facoltà mentali e non. Anche i comportamentisti ormai credono a fattori innati».
Se il linguaggio dà forma all’esperienza, quanto i problemi del mondo dipendono dal linguaggio?
«Difficile pensare che esista un’attività umana in cui il linguaggio non sia direttamente coinvolto. Dire che ci sia una dipendenza dal linguaggio è plausibile ma è una questione davvero troppo seria e indefinita per esaminarla».
Il suo ultimo libro si intitola I padroni dell’umanità. Chi sono costoro?
«I centri corporativi delle società industriali avanzate vogliono farsi ricordare come i padroni dell’umanità. Il termine è preso in prestito da una frase di Adam Smith: “la vile massima dei padroni dell’umanità: tutto per noi, niente per gli altri”. È esattamente la proprietà istituzionale delle società capitaliste ».
Lei scrive che potere e verità sono in conflitto e che gli intellettuali o ricercano la verità o comandano. È dunque impossibile il governo dei filosofi sognato da Platone?
«Bakunin predisse che il governo dalla classe emergente della scientific intelligentsia avrebbe portato alle peggiori e brutali autocrazie della storia umana. È risultata un’osservazione lungimirante. Non c’è dunque ragione per aspettarsi che il governo dei filosofi, o quello di una qualsiasi altra élite, sia migliore».
Tra i temi che le stanno più a cuore c’è l’ambiente. Quali rischi dobbiamo temere maggiormente?
«Ci sono due ombre scure che incombono su ogni considerazione riguardo al futuro: la catastrofe ambientale e la guerra nucleare. La prima è già tristemente una realtà; l’altra è un rischio sempre presente che non accenna a dissolversi, è quasi un miracolo che siamo scappati a un disastro nucleare non così tanto tempo fa. Pessimismo e ottimismo sono questioni soggettive, non sono importanti: qualunque sia il proprio stato d’animo, le azioni da intraprendere sono essenzialmente le stesse».
Relazione al convegno su Togliatti e la Costituzione organizzato dall'associazione Futura Umanità a Roma, Teatro de' Servi, 8 novembre 2013. Futura umanità, con premessa
Tre ragioni ci spingono a pubblicare questo scritto, che riprendiamo dal sito Futura umanità.. La prima è di carattere generale. La cancellazione della storia dalla conoscenza dei contemporanei è uno dei più robusti strumenti adoperati chi vuole conservare il mondo così com’è (e come non ci piace) contro chi vuole cambiarlo. La seconda è nel contributo che questo scritto fornisce alla comprensione del carattere profondamente innovativo della Costituzione che, lungi dal voler finalmente attuare, si pretende di stravolgere. La terza ragione sta nel fatto che la concezione del “partito” che emerge dall’analisi della concezione del comunismo italiano, al confronto con quelle oggi dominanti, ci sembra testimoniare la profondità del baratro nel quale siamo caduti (negli anni di Craxi, Berlusconi e Renzi) e dello sforzo che occorrerà fare per uscirne (e.s.)
In un Paese calpestato per metà dalle truppe naziste e per metà occupato dall’esercito anglo-americano, Togliatti afferma: «Convocata domani un’Assemblea nazionale costituente, proporremo al popolo di fare dell’Italia una repubblica democratica, con una Costituzione la quale garantisca a tutti gli italiani tutte le libertà: la libertà di pensiero e quella di parola; la libertà di stampa, di associazione e di riunione; la libertà di religione e di culto; e la libertà della piccola e media proprietà di svilupparsi senza essere schiacciata dai gruppi (...) del capitale monopolistico. Questo vuol dire - prosegue - che non proporremo affatto un regime il quale si basi sulla esistenza o sul dominio di un solo partito. In un’Italia democratica e progressiva vi dovranno essere e vi saranno diversi partiti (...); noi proporremo però che questi partiti, o almeno quelli che (...) hanno un programma democratico e nazionale, mantengano la loro unità per far fronte a ogni tentativo di rinascita del fascismo». «Il regime democratico e progressivo che proponiamo, e alla costruzione del quale vogliamo collaborare e collaboreremo in tutte le forme, dovrà essere - conclude - un regime forte, il quale si difenda con tutte le armi contro ogni tentativo di sopprimere o calpestare le libertà popolari».
Se è difficile sostenere che il Pci, durante tutta la sua esistenza, abbia in qualche caso derogato da questa impostazione, è altrettanto difficile contestare che in quella fase storica la strategia togliattiana sia stata una strategia vincente. Ponendo i comunisti alla testa della guerra di liberazione e cementando l’unità dei partiti antifascisti, essa consentì di liquidare la monarchia e il fascismo, di risolvere democraticamente la questione istituzionale ridando dignità a un Paese che l’aveva perduta, e di aprire al tempo stesso la strada a una civiltà più avanzata in cui i lavoratori si innalzino al rango di classe dirigente. Come disse a suo tempo Pietro Nenni, «Togliatti era il solo veggente tra coloro che vanno alla cieca».
Nella sua visione della politica vi è un legame inscindibile tra fini e mezzi. Quindi, se il fine, vale a dire l’obiettivo strategico generale è la creazione di una democrazia progressiva che attui «un complesso di riforme della struttura economica e sociale», il partito nuovo di massa è lo strumento adatto allo scopo. Ancora nel discorso di Napoli, Togliatti afferma: «Nessuna politica può essere realizzata senza un partito, il quale sia capace di portarla tra le masse, nelle officine, nelle strade, nelle piazze, nelle case, nel popolo e di guidare tutto il popolo a realizzarla. Il nostro partito deve acquistare questa capacità». «Noi dobbiamo essere il partito più vicino al popolo (...). È dovere dei comunisti di essere vicini a tutti gli strati popolari, a tutti coloro che soffrono; agli operai che lavorano o che sono disoccupati, ai giovani, alle donne operaie o di casa, agli intellettuali, ai contadini. Dobbiamo riuscire a comprendere tutte le necessità di questi strati popolari e impegnarci a soddisfarle».
Democrazia progressiva e partito nuovo di massa sono dunque i due pilastri della strategia di Togliatti. Ed essi si incarnano nella Costituzione repubblicana e antifascista come progetto di cambiamento. Polemizzando tra gli altri con Pietro Calamandrei, il quale sosteneva che la Costituzione italiana, secondo il modello costituzionale staliniano del 1936, dovesse limitarsi a prendere atto delle realtà esistente, Togliatti replica che le condizioni della Russia sovietica erano affatto diverse da quelle italiane, e pertanto occorre distaccarsi da quel modello. In caso contrario si sarebbe decretata l’impossibilità di trasformare i fondamenti strutturali del nostro Paese. Là, sotto i colpi di un processo rivoluzionario violento, era stato distrutto il vecchio ordinamento economico-sociale ed erano state le gettate le basi di uno nuovo. Qui - osserva - una rivoluzione non è avvenuta, ma è possibile arrivare «a una profonda trasformazione sociale seguendo un cammino differente».
Con il crollo della dittatura fascista, sono state riconquistate le libertà civili e politiche. Per quanto riguarda le trasformazioni sociali da attuare, queste si possono realizzare «attraverso la democrazia, cioè accettando e rispettando il principio della maggioranza liberamente espressa». Tale è il senso della democrazia progressiva, «e il valore di questa definizione sta appunto nel fatto che essa riconosce e afferma questa tendenza a un profondo rivolgimento sociale attuato attraverso la legalità».
La conclusione cui perviene tale impostazione è limpida: la Costituzione dell’Italia democratica deve avere un carattere progettuale-programmatico «non di previsione, ma di guida», che «porti a un rinnovamento audace, profondo, di tutta la struttura della nostra società, nell’interesse del popolo e nel nome del lavoro, della libertà e della giustizia sociale». Quindi, non una Costituzione socialista, che prenda atto di un’avvenuta trasformazione e, tanto meno, che codifichi la statizzazione integrale dei mezzi di produzione, ma una Costituzione come programma per il futuro, che apra la strada a una società socialista di tipo nuovo rispetto al modello esistente. Perché - aveva sostenuto Togliatti al V congresso del partito - «soltanto ponendosi sulla via del socialismo, cioè della trasformazione dell’organizzazione della produzione e degli scambi nel senso della solidarietà sociale e umana, si può sperare di ricostruire una civiltà e di preservare la pace». Noi - aggiungeva - «siamo democratici in quanto siamo non soltanto antifascisti, ma socialisti e comunisti. Tra democrazia e socialismo non c’è contraddizione».
È la visione di un percorso inedito e originale: la via italiana al socialismo, come Togliatti stesso la definirà nel 1956 forse in modo alquanto riduttivo. In altre parole - e in questo sta la sua genialità -, muovendo dalla presenza dell’Unione Sovietica e dal «legame di ferro» con la rottura storica rappresentata dalla rivoluzione dell’ottobre 1917, il segretario del Pci delinea un processo di avanzamento verso il socialismo del tutto diverso. Una visione strategica che si ritrova nell’impianto costituzionale, soprattutto nella sua parte più innovativa, di cui Togliatti è stato artefice diretto: quella riguardante i diritti sociali e di proprietà, che oggi appare in tutta la sua grandezza e modernità, nelle mutate condizioni storiche in cui una ristretta minoranza di proprietari universali, ossia il vertice dominante del capitale finanziario globale, sta logorano al tempo stesso l’uomo e l’intiero ambiente della sua riproduzione.
Il fondamento del lavoro, che è il contrario della centralità del capitale, cambia la natura della società e dello Stato rispetto al passato. Siamo di fronte a un vero e proprio passaggio storico, giacché al centro dell’architettura dello Stato e della società non c’è più il polveroso principio della proprietà inviolabile, vale a dire il proprietario-cittadino, pilastro universale del costituzionalismo antecedente all’irruzione nella storia del movimento operaio e dei lavoratori. Bensì la nuova figura della modernità capitalistica: la persona che lavora disponendo solo di sé medesima, l’uomo e la donna proprietari solo delle loro abilità fisiche e intellettuali, della loro manualità e intelligenza, della loro forza-lavoro. Ossia, la classe dei lavoratori dipendenti o comunque eterodiretti, che in Italia sono più di 16 milioni. La stragrande maggioranza delle forze di lavoro anche in Europa e nel mondo.
Insomma, la società dei proprietari cede il passo alla società dei lavoratori. In forza di questo passaggio storico il lavoro non è più soltanto una merce che si scambia sul mercato. Diventa diritto, e poiché lo sfruttamento del lavoro umano nasce dal capitale come rapporto sociale, il lavoro posto a fondamento della società e dello Stato apre la strada a una civiltà più avanzata, in cui l’economia sia al servizio dell’uomo e non viceversa. La Repubblica, infatti, non solo «riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro», ma «promuove le condizioni che rendano effettivo tale diritto», in modo che essi possano concorrere al progresso materiale e spirituale della società (articolo 4). Non solo «garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni ove si svolge la sua personalità», ma «richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (a. 2). Da cui scaturisce, a livello internazionale, che «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà di altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» (a.11).
L’intiera architettura costituzionale ha una sua profonda e riconoscibile coerenza. Sul fondamento del lavoro si innalzano i nuovi diritti della persona, i diritti sociali. Muovendo dal principio che la Repubblica «tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni» e «cura la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori» (a. 35), la Costituzione - come è noto - stabilisce la parità di diritti e di retribuzione per uomini e donne a parità di lavoro (a. 37); introduce il diritto «a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro» sufficiente comunque ad assicurare «una esistenza libera e dignitosa» (a. 36), nonché il diritto all’istruzione (a. 33), al riposo e alla salute (a. 32), alla pensione e all’assistenza sociale (a. 38). Inoltre, in una visione assai significativa e moderna della persona e della società, «la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio artistico e culturale della nazione» (a. 9).
Ma - ecco la grande novità, di fatto mandata in soffitta - per dare attuazione a questa fitta trama di diritti non basta che tutti concorrano «alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva» (articolo 53), seppure sia questa una condizione ineludibile. È necessario che «l’iniziativa economica privata», ancorché libera, non si svolga «in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Di conseguenza, la legge dovrà indicare «i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere coordinata a fini sociali» (a. 41). Infatti, essendo la proprietà «pubblica o privata», «i beni economici appartengono allo Stato, a enti o a privati».
La proprietà privata è garantita, ma entro limiti che ne assicurino la funzione sociale e l’accessibilità a tutti (a. 42). Di più: «ai fini di utilità generale», la legge «può riservare originariamente o trasferire» «allo Stato, a enti pubblici o - sottolineo - a comunità di lavoratori o di utenti» imprese che si riferiscano a servizi pubblici, a fonti di energia o a situazioni di monopolio (a. 43). Sulla stessa linea del pluralismo nelle forme di proprietà, contrapposto al totalitarismo della proprietà privata capitalista, che rende bene l’idea di un percorso aperto, di un processo riformatore in progress, si collocano anche gli articoli 44, che impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, e 45, che favorisce lo sviluppo dell’artigianato e la cooperazione a carattere di mutualità.
Sono tutte norme del titolo III della Costituzione, solitamente ignorate nel dibattito attuale, che derivano in modo rigoroso dai principi fondamentali dalla nostra Carta. Più precisamente, sono la traduzione normativa di quei principi, in particolare di quella visione modernissima dell’uguaglianza e della libertà fissata nell’articolo tre. Dove si afferma non solo che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge e hanno pari dignità sociale, ma che la Repubblica rimuove gli ostacoli economici e sociali, che limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza, e quindi impediscono il pieno sviluppo della persona e la partecipazione dei lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Dove dunque è chiaro che non basta l’uguaglianza davanti alla legge e neanche il principio di equità nella distribuzione del reddito, ma occorre intervenire nel cuore del rapporto di produzione capitalistico, ossia nel rapporto di proprietà, se si vuole garantire libertà e uguaglianza, e quindi il pieno sviluppo della persona umana.
In una parola, una rivoluzione. Nel cui svolgimento liberazione del lavoro e libertà della persona s’intrecciano, giacché il lavoro, in una sintesi inedita che non contrappone la classe all’individuo, è considerato non solo come interscambio permanente tra uomo e natura, che comporta una visione inscindibile dello sfruttamento umano e ambientale; non solo come forza produttiva fondamentale dei beni materiali e immateriali; bensì anche come fattore costitutivo della personalità. La valorizzazione del lavoro, che pervade l’intiero impianto costituzionale, diventa così la base materiale e culturale dell’uguaglianza e della libertà, e perciò anche il riferimento per la finalizzazione della proprietà e per il governo del mercato. Sono temi non dell’altroieri, ma dell’oggi e del domani.
Un progetto di tale portata, che - come è stato giustamente osservato - si spinge a introdurre elementi di socialismo9, non può essere scisso dalla classe lavoratrice, dalla sua autonomia culturale e politica, e quindi dalla sua diretta partecipazione alla guida del Paese. E infatti nell’impianto costituzionale la valorizzazione del lavoro non è separata dal protagonismo delle lavoratrici e dei lavoratori. I quali conquistano non solo il diritto di sciopero e la libertà sindacale (a. 39 e 40), ma la concreta possibilità di farsi classe dirigente per il tramite del partito politico, considerato lo strumento indispensabile «per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (a.49).
I confini della democrazia si sono enormemente allargati ben oltre il perimetro dei principi liberali. Quindi, non più deleghe al sovrano per casato o per censo, o a ristrette élites tecnico-politiche. Con l’entrata in campo della classe lavoratrice la politica assume una nuova dimensione sociale, e con i partiti di massa prende forma quella che Togliatti definisce «la democrazia che si organizza»10. Era chiaro infatti ai costituenti che i lavoratori e le classi subalterne non sono in grado di esigere i nuovi diritti costituzionalmente riconosciuti se non si organizzano e non si rappresentano politicamente.
Senza sottovalutare l’apporto delle «terze forze», vale a dire di azionisti, repubblicani e liberali democratici, di cui la Costituzione assume la grande conquista storica dei diritti civili, ma respinge la vecchia ideologia proprietaria comunque riverniciata e apparentemente spogliata di ogni relazione con il gravame soffocante dei rapporti economici, non c’è dubbio che i comunisti e i socialisti, da una parte, e i democratici cristiani, dall’altra, sono stati i principali artefici di un disegno costituzionale innovativo, le cui enormi potenzialità rimangono tuttora largamente inesplorate oltre che inapplicate.
Non si è trattato di un inciucio ante litteram, ma di una convergenza, su una reale piattaforma di cambiamento, di due grandi correnti di pensiero, l’una che risale a Marx cui i comunisti e i socialisti allora facevano riferimento, l’altra d’ispirazione cristiano-sociale il cui principale esponente era Giuseppe Dossetti. Un solidarismo d’origine diversa - osserva Togliatti intervenendo nella discussione sul progetto di Costituzione - che però «arrivava, nella impostazione e soluzione concreta di differenti aspetti del problema costituzionale, a risultati analoghi a quelli a cui arrivavamo noi». «Questo è il caso dell’affermazione dei diritti del lavoro, dei cosiddetti diritti sociali; è il caso della nuova concezione del mondo economico, non individualistica né atomistica, ma fondata sul principio della solidarietà e del prevalere delle forze del lavoro; è il caso della nuova concezione e dei limiti del diritto di proprietà». E quando Giorgio La Pira, uno dei costituenti di spicco della Dc, indica nella dignità della persona il riferimento per i diritti dell’uomo e del cittadino, Togliatti afferma che «qui vi è un altro punto di convergenza della nostra corrente, comunista e socialista, con la corrente solidaristica cristiana» giacché «socialismo e comunismo tendono a una piena valutazione della persona umana».
Si stabilisce così una relazione inedita, sconosciuta in altre esperienze del Novecento ad Est come ad Ovest, e ricca di implicazioni straordinariamente attuali, tra solidarietà e personalismo, tra classe sociale e individuo, tra collettività e persona, e anche tra utilità sociale e impresa, che dà all’intiero impianto costituzionale, sicuramente la vetta più alta toccata dagli italiani nel loro contrastato cammino verso la libertà e l’uguaglianza, il respiro di un’operazione di grande portata strategica su cui costruire il futuro.
E’ un progetto di nuova società. La proprietà articolata in forme diverse (pubbliche, private, comuni), limitata e finalizzata, e il mercato, regolato per soddisfare le esigenze umane e ambientali attraverso l’intervento pubblico e la presenza di soggetti sociali politicamente organizzati, si innestano in un progetto, e in un processo, di trasformazione della società diverso da ogni modello finora conosciuto, che potremmo chiamare nuovo socialismo. Di certo questo non è il modello sovietico di società socialista. D’altra parte, una Costituzione che pone il lavoro a fondamento della democrazia non si può definire liberale, giacché va ben oltre i sacri principi dell’ ‘89. Ma il progetto costituzionale non si identifica neanche con il compromesso socialdemocratico, che in tutto il Novecento mai ha superato il limite della sfera distributiva, evitando di affrontare il nodo dell’accumulazione e della struttura economica, e quindi di scalare la muraglia del modo di produzione capitalistico, cioè dei rapporti di proprietà. Il risultato è che dopo il fallimento del «socialismo realizzato» ad Est, oggi dobbiamo constatare il fallimento della socialdemocrazia ad Ovest.
In questo contesto, a mio giudizio il progetto costituzionale italiano assume un valore speciale. Esso trae i suoi fattori costitutivi dalle specifiche condizioni storico-culturali del nostro Paese, dalle caratteristiche del capitalismo italiano e dalle lezioni che i partiti della classe operaia hanno saputo trarre dalla sconfitta subita con l’avvento del fascismo. Ma sarebbe un grave strabismo non vedere che questo progetto ha un valore più generale, perché pone su basi nuove l’idea e la pratica della trasformazione della società verso il socialismo nell’intiera Europa, in Paesi capitalisticamente maturi, retti da diverse forme di democrazia politica.
Un progetto reso possibile dalla strategia dei comunisti italiani, che in Occidente hanno aperto un diverso orizzonte al processo rivoluzionario, teorizzato e praticato con coerenza da Togliatti sulla via della democrazia progressiva, da percorrere con la presenza e con le lotte del partito nuovo di massa. È semplicemente assurdo, e al tempo stesso prova di inguaribile dogmatismo, ritenere che esista un’unica via per la trasformazione della società indipendentemente dalle condizioni storiche, e un unico schema di società comunista in cui imbracare l’universo mondo.
Del resto, non era questo il pensiero di Marx - a torto imprigionato nella precettistica degli epigoni -, il quale, in un discorso del 1872 ad Amsterdam, polemizzando con gli anarchici astensionisti, aveva sostenuto che le classi lavoratrici devono «prendere il potere politico per fondare la nuova organizzazione del lavoro», altrimenti mai avrebbero visto «l’avvento del regno dei cieli in questo mondo». Ma, aggiungeva, «non abbiamo affatto preteso che per arrivare a questo scopo i mezzi fossero dappertutto identici. Conosciamo quale importanza abbiano le istituzioni, i costumi, le tradizioni di vari Paesi», e perciò riteneva che nei Paesi più avanzati «i lavoratori possono raggiungere il loro scopo pacificamente».
L’originalità del comunismo di Togliatti consiste in un pensiero e in una pratica che superano la più che secolare oscillazione tra il tutto sociale e il tutto politico, tra massimalismo e riformismo. E quindi in un’azione politica che connette il particolare con il generale, la parzialità con la visione di sistema, la quotidianità con la prospettiva, i mezzi e i fini attraverso un’iniziativa combinata dal basso e dall’alto che dà concretezza al processo riformatore. E perciò delinea i contorni di un più alto ordinamento, di un «socialismo diverso». L’esito di questo processo - annota Togliatti nel 1962 - «dipenderà dal fatto che, per l’azione di un partito rivoluzionario, com’è il nostro, non si perda mai, nelle masse lavoratrici, la coscienza del legame tra le riforme parziali e gli obiettivi del movimento operaio e socialista, e questi non vengano mai né cancellati né offuscati»13.
La più grande innovazione introdotta da Togliatti - ha fatto notare Mario Tronti -, sta proprio nel superamento del dilemma che nel Novecento ha dilaniato in Europa socialdemocratici e comunisti: riforme o rivoluzione? La rivoluzione nella società e nello Stato attraverso le riforme: questa è la risposta che troviamo nell’impianto togliattiano. E non è un gioco di parole, o un astratto esercizio intellettuale. L’unità di riforme e rivoluzione, ovvero il rivoluzionamento della società e dello Stato attraverso riforme della struttura economico-sociale e delle sovrastrutture culturali e formative, si realizza nel processo di trasformazione guidato dalla politica concepita come partecipazione sociale e protagonismo dei lavoratori e delle lavoratrici.
Il partito di massa, «intellettuale collettivo» che lotta anche sul terreno della cultura e della formazione del senso comune, è lo snodo decisivo di questa strategia, che si distacca dal leninismo costruttore del partito-avanguardia, come pure dalle socialdemocrazie imprigionate nella gabbia dei rapporti di produzione capitalistici. Un partito inteso appunto come «parte», che non si identifica quindi con lo Stato né si sovrappone alla società per dominarla, ma stabilisce con essa un rapporto interattivo allo scopo di produrre «politica reale delle classi subalterne in quanto politica di massa e non semplice avventura di gruppi che si richiamo alla massa», per dirla con Antonio Gramsci.
Si tratta di un disegno strategico poderoso e organico, fondato proprio sulle analisi di Gramsci e sulla sua teoria della funzione egemonica, da conquistare prima nella società e nell’organizzazione della cultura per poterla poi esercitare nello Stato, che capovolge gli schemi delle rivoluzioni condotte dall’alto con un atto giacobino o con la presa del Palazzo d’inverno, per calarle successivamente nel corpo sociale. Praticabile ovviamente a due condizioni: che sia presente sulla scena un partito rappresentativo del lavoro dipendente ed eterodiretto, oggi delle lavoratrici e dei lavoratori del XXI secolo; e che nell’azione politica non si spezzi il nesso tra rivoluzione e riforme, tra sociale e politico, tra prospettiva e concretezza.
Diversamente, la politica, intesa come azione per trasformare il mondo, e quindi posta al vertice delle attività umane, retrocede nel migliore dei casi a politicantismo o a puro verbalismo. Il nodo da sciogliere non è dunque quello del gradualismo, ma quello della direzione di marcia. Per essere più precisi, oggi si tratta di decidere se, facendo asse sul lavoro, s’intende porre al centro dell’azione politica il programma di profonde riforme sociali ed economiche previsto dalla Costituzione. Oppure se a quel programma si vuole chiudere definitivamente la porta, cambiando la Costituzione.
Concepita in un momento drammatico della nostra storia, la Costituzione del ’48, non parla del passato, ma del presente e del futuro degli italiani. Ed è una bussola moderna proprio perché, come è stato giustamente è osservato, ponendo il lavoro a fondamento del patto tra gli italiani dimostra la sua inesauribile vitalità in quanto sancisce «una dimensione complessa dell’eguaglianza, non riducibile alla parità delle condizioni di partenza»16. E dunque tutela non solo consolidati diritti, come quelli degli operai Fiat, ma è aperta all’affermazione di diritti nuovi, che scaturiscono dalla rivoluzione scientifica e tecnologica e dalla condizione umana del nostro tempo, e riguardano perciò le generazioni giovani, in preda alla precarietà e prive di prospettive. Come è dimostrato dal fatto, ed è solo un esempio, che per l’accesso alla conoscenza reso possibile da internet non basta affermare in astratto il pari diritto di ciascuno, se poi permangono condizioni di disuguaglianza e di esclusione.
In altre parole, le condizioni di vita della nostra epoca reclamano a piena voce un’uguaglianza reale e non retorica, che la nostra Costituzione sancisce. È certo che, come la storia ha dimostrato, la liberazione del lavoro non si potrà ottenere se non si comprende la differenza tra uomo e donna come pure la complessità della figura sociale di ciascuno e di ciascuna, andando oltre la stessa condizione materiale. Ma dalla disuguaglianza tra chi possiede i mezzi finanziari, di produzione e di comunicazione, e chi dispone solo delle proprie capacità corporee, fisiche e intellettuali, non si può prescindere, ben al di là della asserita uguaglianza di tutte e di tutti davanti la legge.
Chi obietta che il fondamento del lavoro oggi non ha senso perché è finita la stagione del fordismo e dell’operaio-massa, evidentemente ha in testa un’unica idea fissa del lavoro come categoria immutabile che non va oltre la catena di montaggio, e non fa i conti, oltre che con la dittatura del capitale sul lavoro, con una rivoluzione della scienza e della tecnica che non ha abolito il lavoro, ma ha rivoluzionato il modo di lavorare, senza rivoluzionare però il diritto di proprietà, come la Costituzione prevede. Per cui, il vero problema, come del resto è evidente dagli svolgimenti drammatici della crisi, non è la cancellazione del fondamento del lavoro, bensì la sua rielaborazione nelle nuove condizioni, applicando al tempo stesso le norme previste dal titolo III.
In conclusione, la Costituzione è un progetto vivo e vitale, di cui è necessario liberare tutte le potenzialità per uscire dalla crisi in Italia e per contribuire a dare una diversa dimensione all’Europa. Un progetto che parla alle nuove generazioni, alle lavoratrici e ai lavoratori del nostro tempo, qualunque sia la forma in cui si manifesta (o non si manifesta) la loro attività lavorativa, e indipendentemente dalle norme giuridiche in cui è regolato (o non è regolato) il loro rapporto di lavoro. In sintesi, la Costituzione è il vero progetto per cambiare l’Italia e l’Europa: di cui gli italiani oggi possono disporre grazie all’apporto decisivo di un grande politico e statista come Palmiro Togliatti, il rivoluzionario costituente, secondo la definizione di Gianni Ferrara. Dunque, il progetto per cambiare lo stato delle cose presenti esiste, ed è costato tanti sacrifici e dure lotte. Occorre recuperarlo, e farne oggi la stella polare che illumini il cammino, in un momento tra i più oscuri della nostra storia.
Il testo completo di note a pie’ di pagina è scaricabile qui: Paolo Ciofi, Palmiro Togliatti e la Costituzione:e altre relazioni al convegno sono scaricabili dal sito Futura umanità.
Si parla da alcuni anni di una trasformazione molecolare del modo di essere della politica e dell’etica pubblica nel nostro paese. La diagnosi si basa su alcuni segni distintivi riscontrabili all’interno dell’intero spettro politico e che appartengono al modo di operare in pubblico dei leader, allo stile del discorso dentro i partiti e nei media, alle pratiche di intervento nella sfera di formazione dell’opinione politica. Una trasformazione assai radicale della cui portata non ci rendiamo spesso conto perché è avvenuta gradualmente, in sordina. Essa si manifesta tra le altre cose nell’emergere di nuovi criteri generali nella valutazione dei fatti e nella scelta delle priorità politiche. Lo scontro di queste ore tra Matteo Renzi e Stefano Fassina è un episodio di questa più generale trasformazione. La più importante indicazione della quale è senza dubbio la pratica dirigenziale nell’uso degli organi della sfera pubblica, e cioè dei “corpi intermedi” del governo rappresentativo: i media e i partiti politici.
Chi voglia ricostruirne la genealogia dovrà partire ça va sans dire dalla rivoluzione berlusconiana, che consistette nella costruzione simultanea dell’impero mediatico e del partito-azienda. Al di là dell’unicità dell’impresa di Silvio Berlusconi, che rimane ineguagliata, resta il fatto che il modus operandi da essa inaugurato è diventato col tempo parte del comportamento pubblico: il successo politico gestito con uso dirigenziale dei corpi intermedi. Il modello privatistico dei comportamenti pubblici è la madre di una trasformazione che è diventata così profonda da essere quasi la nostra seconda natura, un costume normale che guida le azioni e le valutazioni politiche. Un modus operandi appunto, e che si avvale della democrazia dell’audience.
La democrazia dell’audience, cioè del pubblico che assiste allo spettacolo della politica, ha a poco a poco sostituito quella dell’identità di partito. Poco male, si dirà, anzi un segno di avanzamento democratico perché ha dimostrato che l’opinione della gente conta più di quella delle oligarchie di partito. Sennonché, l’idea che questo gentismo significhi più democrazia potrebbe valere al massimo nel mondo astratto della teoria. Nella realtà concreta, l’abito dirigistico che conquista l’audience può avere spiacevolissimi esiti se non incanalato da pratiche e regole virtuose che garantiscano sempre il pluralismo, il quale è l’anima della leadership, non il suo ostacolo. La vicenda italiana (che fa testo nei manuali universitari) parla per default di come la democrazia del pubblico rischi di trasformarsi in una mono-archia dell’opinione vincente nella gara del consenso mediatico
se non viene praticata l’arte del pluralismo, che è il bene primario da difendere affinché la democrazia sia “del” pubblico: questo è il primo comandamento del buon governo rappresentativo. Il pluralismo dei media e quello dei e nei partiti stanno insieme; essi corrispondono a un modus operandi che è diverso da quello dirigistico.
Ora, la creazione del partito-azienda, l’opera forse più rivoluzionaria nella storia della democrazia dei partiti, fu accompagnata da pratiche e comportamenti conseguenti, che inizialmente fecero scandalo e che si sono col tempo sedimentati nell’immaginario pubblico. Come per esempio il fatto che il capo di Forza Italia riunisse il partito in casa propria, ad Arcore prima e poi a Palazzo Grazioli, tanto che è probabile che pochi italiani sappiano dove si trovi la sede nazionale dei partiti gemmazione di Forza Italia. Un simile abito emerge nel Pd, la cui segreteria nazionale sente di potersi riunire nella sede dove il leader ha iniziato la sua corsa alla leadership del partito. Non si tratta questa volta di una sede privata. Ma è una sede comunque identificata con la dirigenza del leader.
Dirigere il partito è diventato col tempo simile a “tenere” il partito, non diversamente da come un bravo amministratore delegato “tiene” l’azienda che rappresenta (pur senza possedere): che significa, in senso classico, avere il controllo personale nel dettare l’agenda e nel selezionare il team più adatto a realizzarla. Il successo è più importante del modo in cui lo si ottiene; anzi liberare l’operato dagli orpelli delle regole di accountability appare come uno snellimento delle procedure per giungere a decisioni spedite. Abbiamo per anni denunziato il decisionismo dirigistico perché implicava prima di tutto la svalutazione del controllo, della dialettica interna al partito, della partecipazione delle varie opinioni alla costruzione della linea generale. Sono stati versati fiumi di inchiostro per sostenere la specificità della leadership politica rispetto ad altre. Una caratteristica di questa specificità sta nella libera discussione, che significa che il partito è luogo comune nel quale tutti, maggioranza e minoranza, possono sentirsi a casa propria (cosa non assimilabile al correntismo). Non è una questione di buonismo ma di logica della buona pratica, perché debilitare l’opposizione comporta inevitabilmente allentare il controllo sulla dirigenza che non essendo più incalzata e stimolata può perdere in energia innovativa. La trasformazione del partito per pratica dirigistica può rischiare di diventare un problema proprio per la leadership, poiché debilitare la critica indebolisce anche i vincitori più pugnaci.
Articolo tratto da "la Repubblica delle idee" qui raggiungibile in originale
«Le ragioni dell'attuale crisi consistono nel capovolgimento del rapporto fra democrazia ed economia, frutto degli ultimi trent'anni di politiche neoliberiste dettate dall'ideologia che, secondo il suo rappresentante più rigoroso Robert Nozick, lo Stato si può giustificare solo se "minimale e limitato a far rispettare i contratti fra i privati"».
Il Sole 24 ore (proprio così), 29 dicembre 2013
Il nuovo anno significativamente cade nel centenario della prima guerra mondiale e impone un bilancio con almeno due diverse valutazioni. La prima è quella che l'attuale crisi non pare sostanzialmente difforme, ancorché non identica, rispetto a quelle precedenti, che si son ripetute in cicli ricorrenti, sicché in qualche modo poi, sia pur nel dominio della confusione e della paura, hanno trovato una soluzione.
La seconda è che si tratti invece di una crisi del tutto nuova, e che l'attendismo delle democrazie non sia in grado di risolverla, ma si richieda invece un cambiamento radicale nel governo del mondo, soprattutto a causa della totalitaria natura globale della crisi stessa.
Così in molti Paesi le risposte alla grande depressione del '29 consistettero nell'abolizione di uno dei poteri fondamentali della democrazia, cioè l'autorità legislativa; abolizione comune nelle autocrazie totalitarie, dal fascismo, al nazismo, al comunismo. È pur vero che a volte la divisione dei poteri è pericolosamente rinnegata, anche attraverso prevaricazione di qualcuno dei tre poteri, più spesso quello esecutivo, con repressione dei diritti fondamentali che della democrazia costituiscono l'essenza.
Basterà, per chiarire il discorso, fare riferimento al recente ponderoso studio di Ira Katznelson (Fear Itself: The New Deal and The Origin Of Our Time - New York, 2013) dal quale risulta con chiarezza che il New Deal di Roosvelt nacque in un'atmosfera di assoluta incertezza sulla capacità e il destino della democrazia liberale, tant'è che lo stesso New Deal e la creazione di un'economia dello Welfare State fu possibile con l'intervento soprattutto dei membri del Congresso sudisti, ai quali venne garantita la permanenza di un sistema legale di segregazione razziale. L'incontrovertibile risultato raggiunto con la partecipazione alla seconda guerra mondiale è presentato come salvaguardia della democrazia americana attraverso profondamente ambigue alleanze con il sud degli Stati Uniti ante diritti civili e con l'Unione Sovietica di Stalin.
Le ragioni dell'attuale crisi consistono nel capovolgimento del rapporto fra democrazia ed economia, frutto degli ultimi trent'anni di politiche neoliberiste dettate dall'ideologia che, secondo il suo rappresentante più rigoroso Robert Nozick, lo Stato si può giustificare solo se «minimale e limitato a far rispettare i contratti fra i privati». Ciò ha portato a una spinta alla deregolamentazione del capitalismo finanziario, alla fuga dello Stato dalla protezione dei diritti umani, dalla salute all'istruzione, al lavoro, alla dignità della vita e a favore dell'esaltazione delle disuguaglianze.
Due ragioni di fondo della crisi della democrazia nella fase del neoliberismo: « l' esasperata e rozza ideologia dell'individualismo; la riduzione della politica a politicismo, a pura tecnica».
l'Unità, 28 dicembre 2013
Se c’è una cosa che colpisce nell'attuale dibattito politico è l'assenza di una riflessione sui limiti del potere, anche di quello democratico. Perciò va accolta con interesse la riflessione di Giuseppe De Rita sul Corriere della sera in cui si sottolinea, nel quadro di un ragionamento articolato, l’importanza dei poteri intermedi, senza i quali anche in democrazia non ci può essere effettiva rappresentanza. È una tesi in controtendenza rispetto alle correnti dominanti, e per questo va particolarmente apprezzata.
Ciò che oggi si valorizza è infatti l'idea di un potere, anche democratico, senza «limiti» (e uso volutamente questo termine), in assenza di gravità. E in questo quadro ciò che si sostiene è la funzione e il ruolo storico-politico del leader, del capo che non deve avere intralcio nella sua azione. Senza leader, si dice, non è concepibile la politica nel mondo contemporaneo: i partiti, le associazioni appunto, i corpi intermedi non hanno perciò altro compito che non sia quello di sostenere, in funzione subordinata, la missione del capo.
Ora, in questa tesi c’è un equivoco di fondo che non sempre, anzi quasi mai, viene chiarito: è almeno dalla fine dell’Ottocento che è stata riconosciuta, anche sul piano teorico, la funzione della «grande personalità» nella storia, che si è poi affermata nel Novecento sia negli Stati totalitari che in quelli democratici. Su questo punto, connesso all’imporsi delle masse, non c’è questione. Si tratta però di chiarire quali siano, specie in democrazia, i «limiti» del potere, anche di quello del leader. Naturalmente se si vuole restare in un regime di tipo democratico.
In verità, la discussione sui limiti del potere è connessa, fin dalle origini, alla riflessione sui caratteri dello Stato moderno, perfino presso i teorici dell'assolutismo. Tanto più che questo motivo è presente, fin dal 600, nei teorici della democrazia. Quando un autore come Spinoza riflette sullo Stato monarchico delinea subito il sistema di «consigli» che deve circondare, e limitare, l'autorità del sovrano, se non si vuole che la monarchia degeneri in tirannide. Ma anche nell'Ottocento un pensatore di prima grandezza come Tocqueville individua nell'associazionismo cioè nei corpi intermedi la barriera necessaria per impedire che la democrazia, di cui pur riconosce la necessità e la ineluttabilità, degeneri in dispotismo. In questo senso, si può dire che tutta la riflessione sullo Stato moderno nei suoi punti più alti è una lunga, e complessa, meditazione sui limiti del potere: perfino Bodin scrive pagine importanti su questo punto, considerandolo cruciale.
Richiamo questo tema, e questi nomi, non per gusto della citazione, ma perché essi ci conducono a quello che oggi è il centro del problema: il venir meno, anzi l’assenza, di una riflessione sui limiti del potere è un effetto diretto della crisi in atto dello statualità moderna. E in questo contesto è una conseguenza della crisi della democrazia, la quale vive e si sviluppa se è basata su un ampio e articolato sistema di bilanciamento e di controllo dei poteri, che non possono mai essere ridotti ad «unità», cioè al potere di un leader. Se e quando questo accade si esce dalla democrazia e si entra in un altro tipo di regime politico, qualunque sia il nome che gli si voglia dare: perché alla democrazia è connaturata l’idea del limite a tutti i livelli. Essa vive, e si sostanzia, del conflitto, ma in democrazia anche il conflitto per essere fecondo deve essere organizzato, cioè limitato.
Varrebbe la pena chiedersi perché oggi le cose siano arrivate a questo punto, e non solo in Italia. Ma certo in Italia questo processo degenerativo ha avuto ragioni specifiche legate ai caratteri del ventennio che si è ora concluso e alla degenerazione della politica e dell'agire politico. Se si volessero citare due elementi caratteristici di questo periodo si potrebbe dire che esso è stato caratterizzato da un lato da una esasperata e rozza ideologia dell'individualismo; dall'altro, da una riduzione della politica a politicismo, a pura «tecnica», sfociata alla fine e necessariamente, verrebbe da dire in una apologia dell’«amministrazione» con i risultati che si sono visti.
In questo ventennio la politica si è inaridita, ha perso radici, si è separata dalla gente, dalla vita quotidiana, si è messa da un 'altra parte, ha perso l'anima (direbbe Delors) provocando le reazioni che si sono viste nei giorni passati. Oggi forse il problema più grave della democrazia italiana è proprio questo discredito della politica. Eppure senza politica non c’è libertà, non c’è democrazia; ma senza «limiti» non ci sono né l’una né l’altra; non c’è vivere democratico senza «corpi intermedi»: partiti, sindacati, associazionismo in tutte le sue forme.
Sarebbe bene che le forze democratiche e di sinistra che hanno la responsabilità di non aver compreso la vastità e le implicazioni dei processi innescati nel ventennio passato ricominciassero ad interrogarsi sul valore e sul significato dei limiti del potere, senza disconoscere, ovviamente, la funzione del leader in una democrazia come quella contemporanea. Anzi, a differenza di quanto pensino, e sostengano, gli ideologi conservatori, in una democrazia liberale sono due lati dello stesso discorso.
«Il manifesto, 28 dicembre 2013
Oggi il Parlamento in Italia non conta più nulla e non riesce a far nulla, continua a prendere schiaffi senza che nessuno se ne lamenti, neppure i diretti interessati. Schiacciate dal peso del sostegno a un governo privo di un coerente indirizzo politico, tenute in vita artificialmente, in attesa di una presidenza di turno europea, di improbabili riforme istituzionali e dello stabilizzarsi del quadro politico terremotato dopo le ultime elezioni, la perdita di autonomia delle camere è totale. Lo avevamo già segnalato su queste pagine, ma vale la pena ricordarlo: da che è iniziata questa legislatura le camere non sono riuscite a esercitare nessuno dei loro principiali compiti istituzionali.
È anche vero che non è solo il Parlamento a versare in uno stato comatoso. Anzi esso è un riflesso della condizione in cui versa la politica. Concentrata sui destini personali e sul ricambio generazionale, attraversata da lotte fratricide per il predominio nei feudi e nei territori tradizionali della politica politicante, disposta a scaricare sugli altri (soggetti o istituzioni che siano) le colpe del vuoto di una politica nazionale.
Dovremmo tutti preoccuparci dello stato in cui versa il nostro Parlamento, da esso dipendono le sorti della nostra democrazia. Dinanzi a tanta confusione l’accusa delle disfunzioni non basta. Sarebbe auspicabile che qualcuno si ergesse a difensore dell’istituzione parlamentare e richiamasse anche gli altri poteri al rispetto della centralità dell’organo della rappresentanza politica
Non si può continuare a privilegiare la governabilità sulla democrazia, soprattutto ora che il recente passato ha dimostrato che la riduzione della democrazia non assicura nemmeno una maggiore governabilità.
La Repubblica, 28 dicembre 2013
Vi sono temi che, tra bilancio e prospettive, consentono di gettare un primo sguardo sull’anno che verrà. Si può cominciare dalla riforma della legge elettorale, per la quale si parla di una proposta condivisa da presentare alla Camera, o addirittura da approvare in commissione, prima che siano pubblicate le motivazioni con le quali la Corte costituzionale ha dichiarato illegittime alcune norme del cosiddetto Porcellum. Ipotesi assai bizzarra, poiché potrebbe accadere che, una volta note le motivazioni, si riscontri qualche divergenza tra queste e il testo all’esame del Parlamento. Con evidente e immediato effetto di delegittimazione della riforma o, comunque, dando argomenti per comprensibili polemiche su una questione così controversa. Nella materia istituzionale è sempre pessima la tentazione di creare fatti compiuti, di pensare che si possa impunemente fare un uso congiunturale delle istituzioni, perché queste hanno un più profondo spessore, che fa poi riemergere la loro logica e rivela la debolezza di una politica frettolosa.
Non ci si può semplicisticamente trincerare dietro il fatto che il comunicato della Corte costituzionale ricorda che il Parlamento è legittimato a legiferare in materia elettorale. Un riconoscimento, peraltro ovvio, che tuttavia si trova in un contesto che ha messo in evidenza i due vizi di illegittimità accertati dalla Corte, riguardanti il premio di maggioranza, punto centrale delle discussioni in corso, e le liste bloccate. Questo vuol dire, per chiunque abbia la competenza linguistica minima per leggere un testo così chiaro, che il Parlamento deve rispettare i criteri che la Corte specificherà per evitare che la legge elettorale determini una distorsione inammissibile tra voti e seggi e faccia scomparire ogni possibilità per i cittadini di scegliere i loro rappresentanti. La legalità costituzionale vale a tutto campo, e la legge elettorale non può fare eccezione.
Le ragioni del fastidio verso la decisione della Corte sono due, ed è bene parlarne con chiarezza. Da anni ha finito con il prevalere una pericolosa forzatura culturale riassunta nella formula secondo la quale le elezioni servono ad investire il governo, respingendo sullo sfondo la loro funzione di dare rappresentanza aicittadini, sì che è sembrata e sembra ancora legittima qualsiasi manipolazione delle leggi elettorali per assicurare il primo obiettivo. Quando leggeremo le motivazioni della Corte, è presumibile che ci troveremo di fronte ad argomentazioni che, ripristinando la legalità costituzionale, indicheranno il corretto equilibrio tra rappresentanza e governabilità, mentre oggi l’attenzione è spasmodicamente volta solo a quest’ultimo fine.
Vi è poi l’insofferenza determinata dal timore che il sistema elettorale determinato dall’intervento della Corte ci riporti ad un inaccettabile proporzionalismo. Di nuovo una confusione tra questioni diverse. La Corte ha fatto il suo dovere, eliminando vizi di incostituzionalità determinati da una inammissibile prepotenza politica. Spetta ora alla politica trovare la corretta via d’uscita da una situazione di cui essa porta tutta la responsabilità. E deve farlo senza adoperare argomenti tipo «torneremo alla Prima Repubblica», che sottintendono un giudizio sulla cosiddetta Seconda come una fase di cui dovrebbero essere salvaguardati non si sa quali meravigliosi benefici, mentre è davanti agli occhi di tutti il disastro politico, culturale e sociale con il quale si sta concludendo. Un osservatore acuto come Carlo Galli ha messo in guardia contro questa rimozione del recentissimo passato, ricordando che «non sta scritto da nessuna parte che un sistema bipolare, forzato dalla legge elettorale, garantisca stabilità. Anzi, i nostri ultimi venti anni dimostrano il contrario».
Nessuna seria politica può essere disgiunta dalla consapevolezza storica e culturale, di cui bisogna dar prova discutendo anche di un’altra questione che già divide e suscita polemiche, quella riguardante un riconoscimento delle unioni tra persone dello stesso sesso. Il punto di riferimento, pure questa volta, ci porta verso la Corte costituzionale, che nel 2010 ha sottolineato la necessità di riconoscere i “diritti fondamentali” che spettano a quanti si trovano in questa condizione. Non è ammissibile, allora, che si rifiuti di affrontare questo tema chiedendo una moratoria su tutte le questioni “eticamente sensibili”. Questo è un altro retaggio della sciagurata stagione che abbiamo dietro le spalle, di cui dobbiamo liberarci senza ricorrere all’argomento sostanzialmente ingannevole del gradualismo — facciamo oggi un piccolo passo e poi si vedrà. Una linea che potrebbe essere considerata accettabile se un primo provvedimento facesse esplicitamente parte di una strategia più generale. Oggi, invece, vi è il concreto rischio che, in questo modo, si finisca con il certificare l’esistenza di una condizione italiana che preclude la possibilità di vere politiche dei diritti civili, sì che potremmo permetterci solo iniziative
al ribasso, nelle quali si riflettono le impotenze della politica e non le dinamiche reali della nostra società. Che cosa sarebbe avvenuto se questa logica riduzionista e minimalista fosse stata adottata al tempo del divorzio e dell’aborto?
Un ingannevole gradualismo, infatti, sarebbe oggi pagato con il rifiuto di considerare il fatto che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea ha previsto che le scelte riguardanti la costituzione di una famiglia non sono più dipendenti dalla diversità di sesso, che la Corte europea dei diritti dell’uomo si muove in questa direzione e che la nostra Corte di Cassazione, nel 2012, ha riconosciuto alle coppie omosessuali il diritto alle stesse tutele previste per quelle eterosessuali. Questo è ormai il contesto all’interno del quale considerare il problema, come confermano significativi dati di realtà, come quelli riguardanti le adozioni e l’omogenitorialità, di cui una seria discussione parlamentare deve tener conto.
Temi come questo non possono più essere affrontati in maniera reticente, perché riguardano il modo in cui si stabiliscono i rapporti tra istituzioni e società. E, visto che tanto si parla della necessità di riforme, invece di pensare solo a norme che limitano la rappresentanza, sarebbe il caso di occuparsi delle leggi di iniziativa popolare, per le quali è tempo di prevedere l’obbligo dell’esame da parte delle Camere. Sono già state presentate proposte in questo senso, vi è un cenno alla fine della relazione dei Saggi, e basterebbero modifiche dei regolamenti parlamentari. Si aprirebbe così un importante canale di comunicazione tra cittadini e Parlamento, dando un segnale concreto di attenzione per la volontà popolare, che troppe volte si cerca di azzerare anche quando si è espressa attraverso un referendum, come si è appena cercato di fare in Parlamento con il tentativo, per fortuna respinto, di imporre al Comune di Roma la privatizzazione del servizio idrico in contrasto con i risultati del referendum sull’acqua. Possibile che non ci si renda conto che al rifiuto della politica, sempre più marcato, si debba rispondere proprio progettando forme di coinvolgimento più diretto, che diano ai cittadini la consapevolezza che dalla politica possa venire un valore aggiunto che incontra i loro diritti e i loro bisogni?
«Dialogo sull’antifascismo il Pci e l’Italia repubblicana», per Editori Riuniti. Una conversazione che apre mille interrogativi e intreccia i fili di quarant'anni di storia».
il manifesto, 27 dicembre 2013
Nel 1994, Vittorio Foa e Aldo Natoli, due delle figure più alte della storia della sinistra in Italia, si sedettero davanti a un registratore e cominciarono a raccontare – o meglio, Vittorio Foa invitò Natoli a raccontare, accompagnandolo con il contrappunto di domande e commenti mai intrusivi, sempre riflessivi, in un intreccio dialogico di condivisione e di diversità. Avevano rispettivamente 84 e 81 anni, da tempo avevano riorientato l’impegno politico di una vita verso la ricerca storica e la riflessione politica, con esiti memorabili, dalla Gerusalemme rimandata di Foa all’Antigone e il prigioniero di Natoli; ma la conversazione fra i due non è una semplice rivisitazione del passato, bensì un ragionamento a tutto campo che illumina le contraddizioni del presente.
Come ogni storia orale che si rispetti, infatti, anche questa conversazione è un documento sul passato, ma è soprattutto un documento del presente: il racconto — Vittorio Foa / Aldo Natoli, Dialogo sull’antifascismo il Pci e l’Italia repubblicana (Editori Riuniti, pp. 303, euro 23) — comincia con l’infanzia messinese di Aldo Natoli, e ne percorre tutta la vita fino al momento del colloquio, finendo per farci capire molte cose sulla crisi morale prima che politica, che la sinistra attraversava allora e che è andata peggiorando fino ad oggi.
Abbiamo vissuto un buon quarto di secolo ormai assillati da leader che, dopo una vita passata fra una carica di partito e l’altra, ci spiegavano che non erano mai stati comunisti e che quella era una storia di orrori che non li riguardava. Ci sono voluti dei non comunisti come Vittorio Foa (e penso anche a certe cose di Bobbio dopo l’89) per restituire a questa storia l’ascolto e il rispetto senza i quali non capiamo non solo la sinistra, ma tutta l’Italia moderna. E ci vogliono comunisti come Aldo Natoli, che questa storia l’hanno vissuta fino in fondo con partecipazione critica e appassionata, per restituircene il senso soprattutto morale. Ascoltare queste pagine (arricchite da accurate note e profili biografici dei curatori, Anna Foa e Claudio Natoli) riempie di orgoglio perché abbiamo avuto fra noi compagni di questa grandezza, di smarrimento (che cosa resta senza di loro?), di rimpianto per non averli ascoltati abbastanza, di pena per averli lasciati soli.
Come ogni serio lavoro di memoria, questa intervista intreccia due punti di vista –l’intervistato e l’intervistatore – e due momenti del tempo: il punto di vista «di allora» e il punto di vista di «adesso». Per esempio. Parlando dell’8 settembre, Foa domanda: «Come alcune cose le vedevamo allora e come è cambiata la nostra testa dopo quaranta anni di pace?». Quello che mi colpisce è in primo luogo l’uso del plurale: Foa si mette dentro questa storia che in modi insieme simili e diversi è anche la sua. Come sempre nella grammatica dell’intervista, è ciò che i due dialoganti hanno in comune che rende l’intervista possibile e comprensibile, ma è la differenza che esiste fra loro che la rende interessante.
E poi, attraverso il dialogo con Natoli, Foa cerca di capire non solo come «è cambiata la testa» del suo interlocutore, ma anche come è cambiata la sua: le domande che l’intervistatore rivolge al suo interlocutore le rivolge, inevitabilmente, anche a se stesso. Natoli, a sua volta, coglie l’opportunità – direi quasi, come in tante delle interviste migliori, raccoglie la sfida – per ripensarsi. Non intende buttare a mare questa storia, non solo sua, ma non fa apologia né di se stesso né del partito. Ogni volta, davanti a un interlocutore che lo rispetta e lo ascolta, si rimette in discussione, spiega le sue incertezze, i dubbi, gli errori.
Ne viene fuori, fra l’altro, una storia della sinistra molto più articolata, molto più sfumata e mobile di quanto non ce l’abbiano raccontata tante volte. Per esempio: a proposito del patto Hitler-Stalin del 1939, Natoli ricorda di averlo inizialmente sostenuto come una necessità inevitabile – ma ricorda anche le discussioni drammatiche che portarono a scissioni e scontri nel gruppo romano, finendo per lasciarlo isolato e in minoranza, «in una situazione che in qualche modo confinava con la disperazione»; e racconta di avere cambiato posizione dopo la spartizione della Polonia e dopo che l’Internazionale arrivò a dire che i nazisti non erano il nemico principale. Foa, a sua volta ripensando al se stesso di allora, insiste sulla dimensione della soggettività, che è poi alla radice della scelte politiche: «L’impressione che ho avuto io è che i comunisti, cioè voi, pur approvando il Patto, non ostentavate questa approvazione, cioè che l’antifascismo, profondo, era dominante nel vostro ambito. Mi sbagliavo o ero nel giusto, secondo te?». Qui mi colpisce, intanto, il «voi comunisti» – più tardi, parlando della Resistenza, diventa, come abbiamo visto «noi». C’è in questo uso dei pronomi tutta la complicata storia dei rapporti interni alla sinistra, che nell’intervista si esplicita poi nel racconto sul ’48 e il Fronte popolare. Ma c’è anche la traccia di una differenza che si fa comunque ascolto e rimane rispetto: invece di accusare i comunisti di complicità con Hitler, Foa (allora azionista, poi socialista) scava sotto la superficie e ascolta da compagno. E Natoli: «Io questo lo sentivo profondamente. Per cui dentro di me ero convinto che gli accordi del Patto non dovevano ripercuotersi sugli orientamenti non solo teorici ma anche pratici del movimento comunista internazionale», cioè sull’antifascismo.
La stessa complessità, lo stesso scavo nelle ragioni e torti di allora, accompagna tutto il racconto di Natoli, dalla svolta di Salerno all’Ungheria, senza nascondere il suo consenso di volta in volta alle scelte del partito, eppure dando conto di come questo consenso si faceva sempre più faticoso e la sua relazione col partito sempre meno agevole. Non ci sono epifanie, svolte brusche: è un processo graduale di cambiamento, e non è neppure un processo lineare – per esempio, Natoli non esita a ricordare di avere difeso il golpe comunista a Praga nel 1948: «In quel momento non è che lo vedessi in modo critico, lo vedevo in senso positivo, a quel tempo io ero assolutamente ligio a quel quadro strategico». Lo spiega col clima di guerra fredda, con il montare dell’anticomunismo, cioè ci fa capire le ragioni di un errore; ma non per questo nega di avere avuto torto. Ma poi si trova a condurre la sua battaglia più memorabile, quella contro il «sacco di Roma» negli anni ’50, praticamente da solo, tra il disinteresse della dirigenza nazionale; o prende gradualmente le distanze da una linea del partito che non coglieva le capacità di rinnovamento del capitalismo e viveva nell’illusione di una suo imminente crollo. E, naturalmente, l’Ungheria, quando la distanza comincia a farsi incolmabile.
Seguono gli anni delle battaglie interne al partito, Ingrao, Amendola, la scoperta del Vietnam come modello anche di autonomia politica rispetto all’Urss e alla Cina, l’incontro con la Cina. E di nuovo il dialogo con Foa, la condivisione e le differenza. Foa ricorda che «la Rivoluzione culturale, per noi, anche per me, solo in parte, è parsa una bandiera» (e di nuovo il «noi», ma articolato in un «me»); e Natoli conclude che «la Rivoluzione culturale come tale finisce alla fine del 1968 con l’intervento dell’esercito… Alla fine del 1968 il movimento di base, che era la caratteristica fondamentale della Rivoluzione culturale, viene represso con l’esercito». Ma la Cina resta uno dei suoi interessi principali anche dopo le sconfitte, i cambiamenti, le delusioni: «non sono riuscito a distaccarmene». E poi la nascita del Manifesto – rivista, gruppo politico, giornale – speranze, crisi, condivisioni, dissensi, separazioni….
I due interlocutori di questo libro sono stati anche protagonisti della storia di questo giornale. Faremmo bene a ricordarcene
Pur non menzionando espressamente l’autore di La rivoluzione meridionale, Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, in Se muore il Sud (“Fuochi” Feltrinelli, pagg. 315, euro 19) per diversi aspetti si muovono sulla stessa falsariga. La fortunata coppia anti-casta, cementata sulle pagine del Corriere della Sera, mette sul banco degli imputati proprio quella classe dirigente «che lascia affondare un pezzo dell’Italia». L’analisi dei due giornalisti, non priva di affetto verso il Sud ma proprio per questo impietosa, prende di mira le élite meridionali, quella classe politica che non ha fatto nulla per arginare il declino e far sì che la storia di un pezzo d’Italia non si trasformasse in un cahier de doléances di occasioni perdute. Piuttosto, essa è stata protagonista in negativo, complice e più spesso attiva promotrice dello scempio sistematico del territorio e del sacco di risorse, statali ed europee.
L’opinione di Rizzo e Stella è che oggi lo spread tra Nord e Sud d’Italia è «per molti aspetti più angosciante di quello con la Germania». Vale la pena riepilogarlo: i diplomati meridionali sono il 31,7 per cento, quelli centrosettentrionali il 56. I laureati meridionali che hanno un lavoro il 48,7 per cento, quelli centrosettentrionali il 71. La disoccupazione giovanile è a livelli da allarme rosso: i cosiddetti “neet” – not in education, employement or training – persone che non cercano nemmeno più un lavoro, sono un milione e 850 mila, il 9% della popolazione. Un esercito a disposizione delle mafie o della depressione. Secondo la Confartigianato, la Campania è la regione d’Europa con il minor tasso d’occupazione: lavora appena il 39,9% degli abitanti. Infine, l’Istat ci dice che il 48% dei meridionali è a rischio povertà.
Si tratta di un’emergenza che dovrebbe preoccupare, e non poco, qualsiasi governo, non fosse altro perché una simile gigantesca zavorra sta trascinando a fondo tutta l’Italia. Invece, l’annosa “questione meridionale” è consegnata al peggiore meridionalismo di ritorno, intriso di vittimismo e nostalgie neoborboniche, rancori anti-unitari fuori tempo massimo e miti infondati: ritorni di fiamma che Rizzo e Stella hanno il merito di demolire senza mezzi termini.
Come aveva già sostenuto di recente lo storico Francesco Barbagallo in La questione italiana (Laterza editore), i due autori ritengono che quello meridionale sia un problema nazionale, non fosse altro perché il gap tra le due parti del Paese ha ripreso a crescere a un ritmo insostenibile e che il male anche il Nord si meridionalizza sempre più. Basta leggere il capitolo dedicato alla mafia a Milano: sono 26 i “locali” della ‘ndrangheta censiti dalla Commissione antimafia, a livelli quasi calabresi. Eppure, il problema non può essere solo economico. Se è vero, come ci dice sempre Barbagallo, che dall’Unità d’Italia a oggi l’unico periodo in cui il divario tra le due Italie si è ridotto è stato quello del boom economico a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, è altrettanto vero, come ci spiega Vezio de Lucia nel suo Nella città dolente (Castelvecchi editore), che è stato proprio in questo periodo che è cominciato il più grande saccheggio del territorio che la storia d’Italia abbia mai conosciuto, immortalato nel suo nascere da Francesco Rosi in Le mani sulla città.
Il Sud è irrimediabilmente perduto, dunque? Le pagine di Stella e Rizzo consegnano al lettore la sensazione che non ci sia molto in cui sperare: una classe politica inetta e corrotta, un deficit di cultura democratica che non si riesce a sanare, grovigli di clientele e affarismi difficili da sbrogliare. Nonostante tutto, i due giornalisti non si iscrivono al partito dei tagli: «Un paese serio avrebbe fatto di più per il Mezzogiorno», scrivono. «Ci avrebbe investito con impegno. In scuole, infrastrutture, strade, politiche giovanili che dessero sfogo alle intelligenze scintillanti di tanti ragazzi del Sud. Ma nulla è stato peggio che lasciare ai politici più spregiudicati, ai feudatari della burocrazia e ai capibastone mafiosi la gestione ricattatoria, clientelare ed elettorale delle indennità per i tanti braccianti». È accaduto invece che le menti migliori siano state costrette ad andar via e a lasciar campo libero a un sistema feudale, mafioso, contraddittorio nel suo presentarsi come ipermoderno senza essere entrato a pieno nella modernità.
Ma si può ricondurre tutto alle responsabilità delle sole classi dirigenti? Alla cerimonia di consegna del premio Volponi, lo scorso 30 novembre a Porto Sant’Elpidio nelle Marche, lo scrittore partenopeo Ermanno Rea ha adombrato la possibilità di una tara antropologica, già fatta risalire in La fabbrica dell’obbedienza, con l’aiuto di un grande filosofo napoletano dell’800, Bertrando Spaventa, agli effetti deresponsabilizzanti della Controriforma cattolica. «Il giorno in cui vedrò un napoletano fermarsi a un semaforo alle 3 di mattina, con la strada sgombra, vorrà dire che gli italiani sono guariti», ha detto in quella occasione. Un altro grande scrittore partenopeo, Raffaele La Capria, in L’armonia perduta se la prende con la «piccola borghesia», disposta a ogni compromesso per paura di finire vittima della «reazione», come nella rivoluzione mancata del 1799.
Il fantasma di Francesca Spada, la protagonista di Mistero napoletano di Ermanno Rea, ne La comunista torna a Napoli per consegnare allo scrittore il suo messaggio: il Mezzogiorno riuscirà a salvarsi solo se avrà «l’entusiasmo dell’impossibile», vale a dire la capacità di riprendere a immaginare un futuro, di costruire un’utopia. Rizzo e Stella, più concretamente, sostengono che il Sud si trova davanti a un bivio: proseguire con il solito andazzo e morire. O ricominciare. Tornando a sognare, dandosi degli obiettivi ambiziosi e puntando sui propri figli migliori. Rompendo «le catene clientelari con la più vecchia, scadente e corrotta classe politica del mondo occidentale» e spezzando quel patto scellerato che ha consentito al peggior ceto dirigente del Nord di accordarsi, come scrisse Gaetano Salvemini un secolo fa, con il peggior ceto dirigente del Sud. Se così non accadrà, a essere perduta sarà tutta l’Italia. Oggi, come un secolo fa, si auspica una rivoluzione che sia opera degli stessi meridionali. «Sarà questa», concludeva Guido Dorso, «la vera rivoluzione».