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Relazione di Paola Somma all’incontro "La presa di Venezia. Discussione sulla svendita del patrimonio immobiliare pubblico e sui modi per contrastarla". Venezia 12 maggio 2015

1. La mappa con la localizzazione degli immobili e/o delle aree pubbliche cedute ai privati negli ultimi anni, o la cui alienazione è stata annunciata, mostra l’enorme dimensione di un fenomeno che sta travolgendo l’intero territorio comunale. Perchè viene venduto il patrimonio pubblico? Come vengono prese le decisioni? Quali effetti la sistematica privatizzazione di pezzi di città ha sull’intera città?Per capire quello che sta avvenendo, più che di vendita, termine che richiama l’esistenza di un contratto tra due parti consenzienti, il venditore e l’acquirente, è utile adottare un lessico di guerra e parlare della PRESA di Venezia.

Se fossimo in guerra, la mappa mostrerebbe le posizioni che abbiamo perduto e, allo stesso tempo, verrebbe usata al quartier generale del nemico per evidenziare le posizioni espugnate. In ogni caso rende visibile l’entità della preda, la cui conquista frutta un ricco bottino a chi se ne impadronisce. C’è un tesoro in comune (L’Espresso, 1 giugno 2010), titolava un giornale qualche anno fa e spiegava come “grazie al cambio di destinazione d’uso, i beni demaniali ceduti dallo Stato possono facilmente raddoppiare, triplicare e perfino quadruplicare il proprio valore” . Nello stesso articolo si chiariva che “il business della devolution non finisce solo nelle casse dei comuni, ma anche nelle tasche di chi ha fiuto per gli affari”.

2. Quali sono le forze che si contendono i beni pubblici? Da un lato ci sono le città, nel senso di civitas, cioè l’insieme dei cittadini, indipendentemente dalle loro ricchezze o dalle cariche che ricoprono, dall’altro gli investitori che hanno “fiuto per gli affari” – Tra le due parti c’è il governo, ad ogni livello territoriale, che per definizione è investito della promozione del benessere collettivo, ma che di fatto è schierato a sostegno di chi si sta appropriando di ogni bene pubblico. Così, il governo centrale trasferisce beni del demanio ai comuni, affinchè i comuni li vendano. “Regali piovono sul comune”, dicono i giornali, dimenticandosi di specificare che si tratta di regali “in transito” e che il beneficiario finale non sono i comuni, ma soggetti privati.

Inoltre, il governo crea appositi meccanismi e strutture, tra le quali la Cassa Depositi e Prestiti con i suoi fondi d’investimento immobiliare, col preciso scopo di “stimolare e ottimizzare i processi di dismissione di patrimoni immobiliari degli enti pubblici che presentino un potenziale di valore inespresso, per esempio legato al cambio d’uso”. Tali strutture operano sull’intero territorio nazionale, ma ovviamente, sono più aggressive dove la preda è più ricca. Cassa Depositi e Prestiti scatenata alla conquista di Venezia (Venezia Today, novembre 2014) è l’efficace titolo con cui si illustra l’attività della Cassa che “sta acquistando a basso costo immobili e isole per riutilizzarli per operazioni di carattere turistico e alberghiero”.

Infine, un ruolo non secondario nella smobilitazione del patrimonio pubblico è affidato alle molte istituzioni, società ed enti titolari di un patrimonio che è dei cittadini – dall’azienda sanitaria all’Università, all’azienda dei trasporti locali. Tutte vengono di fatto, e spesso di diritto, scisse in due tronconi. Ad uno si conferisce il patrimonio immobiliare, e lo si trasforma in una vera e propria società di sviluppo immobiliare (vedi ACTV e PMV), all’altro, sempre più impoverito resta il compito di erogare i servizi e diventa una “bad company”.

3. In questo scenario o teatro di guerra, tutti gli amministratori che negli ultimi 20 anni hanno governato Venezia hanno scelto di non valorizzare nulla e di dismettere tutto, e l’hanno fatto senza coinvolgere i cittadini o contro la loro espressa volontà. Tutte le decisioni che si sono tradotte in una perdita di patrimonio pubblico (dalla creazione del fondo immobiliare alle svendite di palazzi) sono state assunte dal sindaco e dalla sua squadra che hanno operato come quinta colonna degli investitori privati. «Dobbiamo arrangiarci e saperci vendere», ha detto nel 2009 l’ex sindaco Cacciari. E nel sito web della Direzione Svilluppo Territorio ed Edilizia una apposita rubrica è stata dedicata al Marketing Urbano e Territoriale, nella quale si esalta la partecipazione a tutte le fiere del settore immobiliare (Expo Italia Real Estate, Urban Promo, Tre Eire, Mipim) e le azioni sostenute per segnalare agli operatori del “comparto Real Estate le opportunità di investimento”. A questi eventi i funzionari del comune si recano con il portfolio delle “occasioni in offerta” che comprende, di volta in volta, Forte Marghera, l’Ospedale al Mare, i palazzi ceduti al Fondo Immobiliari.

4. La propaganda si è rivelata una delle armi più efficaci per prevenire e neutralizzare le reazioni delle comunità e indurci a consegnare senza resistenza il patrimonio di noi tutti. D’altronde, chi vince la battaglia dell’informazione vince la guerra, dicono gli strateghi militari. L’argomento più usato è quello secondo il quale la vendita del patrimonio è “funzionale al ripiano del debito pubblico”. Dal momento, però che malgrado le continue vendite il deficit di bilancio continua ad aumentare, è opportuno chiedersi se il nesso causale tra debito e vendite non vada invertito. Forse il comune intraprende grandi opere inutili e persevera in grandi sprechi perché mette in bilancio ipotetici guadagni o perchè sa che più si indebita più potrà vendere. Il Comune è con l’acqua alla gola, titola Repubblica nel maggio 2010, e aggiunge «se non vende i suoi tesori rischia di non poter saldare i conti del Palazzo del Cinema».

Il che significa che prima si è decisa l’operazione Palazzo del cinema e poi si “scoperta” la necessità di vendere l’ospedale. Allo stesso modo, prima si è deciso che Venezia ha bisogno di un tram per portare milioni di turisti da aeroporto al porto, poi si è stati “costretti” a svendere il deposito di mezzi ACTV in via Torino. Il risultati è che sull’area un privato ha costruito un grattacielo, mentre l’ACTV deve affittare spazi per i veicoli e compensare le costanti perdite con l’aumento dei biglietti. Se le vendite non servono a ripianare i debiti, bisognerebbe quindi chiedersi se l’obiettivo dichiarato del pareggio di bilancio sia il vero obiettivo o se, in realtà, il vero scopo non sia quello di far si che il comune resti sempre indebitato. Un comune senza debiti, infatti, non sarebbe obbligato a svendere, e non c’e miglior tattica per costringere alla resa gli assediati che prendere la città per fame.

5. Le vendite del patrimonio pubblico non solo non rispondono a nessun requisito di razionalità economica, ma producono anche una serie di danni collaterali. Il comune, infatti, per rendere i beni più appetibili ai privati, non si limita a fissare prezzi molto vantaggiosi, ma offre o è disposto a “negoziare “ apposite varianti urbanistiche con relativo aumento di cubatura, nuova edificazione, rimozione di vincoli d’uso (si dice ad esempio che la cessione della Biblioteca di Mestre potrebbe portare a 5 mila metri cubi di nuova edificazione, la scuola Manuzio ha una potenzialità 22 mila metri cubi, l’Ospedale al Mare “si porta in dote” il piano di valorizzazione del Lido).

Oltre ad impoverire la collettività, le privatizzazioni contribuiscono a cedere ai privati, in quanto proprietari, il compito di fare il piano e a legittimare il primato degli interessi particolari nel determinare le scelte del governo urbano. Sono quindi il risultato di una serie di azioni concertate con gli investitori da parte dello stato che rompe il contratto sociale con i cittadini per facilitare l’estrazione di profitto privato.

6. Se non siamo di fronte a episodi di “compra vendita di immobili”, ma alla conquista da parte dei privati, con la complicità delle istituzioni, delle porzioni più appetibili del territorio e del ruolo di pianificatore della città, più che privatizzazione dovremmo parlare di privatismo e soprattutto dovremmo chiederci se dopo aver perso tante battaglie è ancora possibile rovesciare l’andamento della guerra? Fra le azioni per contrastare il fenomeno, indispensabile è svelare la manipolazione del linguaggio, il bombardamento di copertura ideologica. con la quale i mezzi di comunicazione raccontano al cittadino derubato i miracoli delle svendite, partendo dai termini rigenerazione- rinascita -rinascimento -riqualificazione – con i quali le azioni finalizzate ad incrementare la redditività dell’investimento privato vengono osannate come benefiche per tutta la collettività.

Lo stato si libera di spiagge, forti, isole è un trionfale titolo del Gazzettino, nel 2010, uno dei tanti esempi del modo con cui lo stravolgimento lessicale corrisponde ed è funzionale allo stravolgimento della democrazia urbana. Tra i termini con i quali si esalta la rapina del patrimonio pubblico, restituzione è forse quello che meglio esprime la malafede da parte di chi lo usa – amministratori, tecnici, mezzi di informazione – perchè alla fine di queste restituzioni, la collettività non possiederà più nulla. La presunta equivalenza tra la privatizzazione di un immobile pubblico e la sua restituzione alla città viene propagandata con un artificio retorico. Si sostiene cioè che, per poter essere definito pubblico, uno spazio non deve necessariamente essere di proprietà pubblica, perché quello che conta è che esso sia utilizzabile, “aperto al pubblico” . E’ un argomento sostenuto da chi privilegia le “pratiche” d’uso rispetto all’assetto proprietario e ritiene che pubblico sia ogni spazio dove è possibile “l’interazione tra le persone” (come in un cinema, un bar, un centro commerciale).

Bisognerà, poi, ricostruire le vicende di ogni bene simboleggiato dai bollini rossi sulla mappa, a cominciare dall’Arsenale, la rocca della nostra città, il cui assedio è cominciato oltre 30 anni fa. Nel 1980, Paolo Portoghesi allora direttore della Biennale disse di voler usare la Biennale come “cavallo di Troia per aprire l’Arsenale”. Nel 1993 uno degli slogan della fortunata campagana elettorale di Massimo Cacciari fu “abbattiamo le mura dell’Arsenale!” Nè in un caso, nè nell’altro i cittadini hanno ascoltato Cassandra, finchè non è stato chiaro a tutti che “Arsenale restituito ai veneziani” (La Nuova Venezia, 2012) significa in realtà Arsenale lottizzato e assegnato ai vari potentati che si stanno spartendo la città, dal Consorzio Venezia Nuova alla Biennale. Per completare la missione pochi mesi fa il commissario Zappalorto ha dato incarico a NAI Global Italia, una società di consulenza, intermediazione immobiliare e gestione di fondi immobiliari, di “testare la sensibilità degli investitori, identificare una forchetta di valori immobiliari nei 28 lotti” indicati dal comune all’interno dell’Arsenale.

Infine, la millantata “restituzione” dello spazio pubblico ha una valenza politica e culturale oltre che economica, perchè consente ai privati di impossessarsi non solo di ingenti beni materiali, ma dell’idea stessa di comunità urbana. Non a caso Paolo Baratta, il presidente della Biennale che in passato è stato ministro delle privatizzazioni del governo Amato e ministro del commercio estero del governo Dini ha rilasciato una serie di interviste nelle quali detta l’agenda alla futura amministrazione e reclama un «patto urgente per fare fronte comune e trovare risorse per nuovi interventi in Arsenale»… «io sono un po’ preoccupato”, ha detto “perché la logica di farne un’area urbana aperta come un qualsiasi altro spazio della città rischia di trasformarlo nel giro di una generazione in un’area edificabile come qualsiasi altra… perché si fa presto a dire pubblico, bello applaudire al passaggio dal Demanio al Comune ma con i chiari di luna in fatto di finanziamenti, il rischio è il ritorno degli immobiliaristi”.

Di fronte all’arroganza di chi si crede il governatore di un enclave occupata dalla quale organizzare sortite per occupare la città, anche noi chiediamo un patto con la futura amministrazione, perchè dopo la rapida ricognizione delle perdite faccia, con i cittadini, un piano realistico di ricostruzione del patrimonio pubblico, nella consapevolezza che esiste un rapporto stretto tra la ricostruzione dello spazio fisico e di quello politico.

Riferimenti

Sugli episodi di "mecenatismo" a Venezia vedi i numerosi scritti di Paola Somma in questo sito. In particolare, per l'apporto del "mecenate" Rosso e il valore economico che ha ricavato dal suo obolo vedi " Il ponte del Fontego ". Vedi poi i libretti della collana "Occhi aperti su Venezia" di Corte del fontego editore. Pubblicheremo inoltre su eddyburg i testi delle relazioni svolte all'incontro dedicato alla "Presa di Venezia" organizzato da Corte del fontego editore, da Italia nostra - Venezia e da eddyburg.

Una specie di racconto in stile chiaroscuro chandleriano, sullo sfondo di un’idea stupida e sbagliata di spazio pubblico per la mobilità dolce pieno di difetti, facilmente rimediabili, ma bisogna pensarci. Corriere della Sera Milano, 21 aprile 2015, postilla (f.b.)

Ma che bella giornata di Primavera! Sole caldo, cielo azzurro e un’arietta frizzantina da liberi tutti. Liberi dal lavoro, dallo studio, dai rapporti usurati-usuranti, dalle ipocrisie della quotidianità. In bicicletta, dunque! E via lungo la Martesana, come l’operaio di Prévert in fuga dalla fabbrica. C’è da verificare, tra l’altro, se a Cernusco hanno finalmente alzato le chiuse, se l’acqua è tornata nel canale, insieme ai germani reali, alle gallinelle dal becco rosso, alle nutrie goffe e grassocce, alle bottigliette Heineken, ai sacchetti di plastica Esselunga, ai preservativi Hatù, agli scatoloni di cartone, ai bidet di ceramica, ai pannolini ripieni graziosamente rilasciati dai milanesi d’antan e da quelli acquisiti. La pedalata sciolta e vivace divora in pochi minuti il tratto Melchiorre Gioia-via Padova e affronta con determinazione l’asfalto rosso granulato di via Idro. Il campo nomadi sonnecchia sulla destra. L’orologio dice le 15,30. È tempo di siesta lì dentro. Due ragazzini giocano al pallone tra cocci di vetro e cumuli di macerie. Un cane abbaia senza convinzione, per dovere.

Superata una cancellata d’incerta utilità pratica, ecco il ponticello d’acciaio che porta al sottopasso della tangenziale Est. Di qua Milano, di là Vimodrone e Cologno. La citybike nera da gagà metropolitano s’inerpica sul manufatto modello Alcatraz dai parapetti altissimi. Ed è lì che, in una giornata praticamente perfetta, si verifica l’intoppo, l’incongruo che non t’aspetti: che c... ci sta a fare in mezzo al ponte quel giovanotto smilzo, biondo, con orecchino di perla e tatuaggi d’ordinanza sulle braccia? Più veloci di un flipper digitale, le sinapsi segnalano che la cronaca nera si è già occupata di quel posto e che il giovanotto in t-shirt e pantaloni scampanati alla marinaia potrebbe essere un lontano parente di Ghino di Tacco. Quello che taglieggiava i passanti piombandogli addosso dalla fortezza di Radicofani. Ghino, intanto, ha già spalancato le braccia magre occupando tutto la larghezza del ponticello. Fermarsi e pagare il pedaggio o andargli addosso rischiando di cadere insieme a lui? Fermarsi, ovviamente. Perché è in momenti come questi che fanno sentire il loro peso secoli di civilizzazione e la fragilità che ne deriva. «Dammi 10 euro» intima lui con un tono di voce acuto e vagamente isterico. «Ti conviene. Più avanti ci sono altri che t’aspettano. Ben più cattivi di me».

Lì per lì colpisce, più dell’offesa, la correttezza della sintassi e ancora di più la logica economica della richiesta. Dieci euro, in fondo, sono poco più di quello che se ne va quotidianamente fra lavavetri e mendicanti vari. Resta il fatto che la richiesta produce uno sdoppiamento della personalità. Quella razionale e pragmatica propende per un ragionevole compromesso: rassegnarsi, pagare e filare via. Quella legalitaria e intransigente spinge per assumere l’iniziativa: un bel cazzotto sul naso e magari un calcione tra le palle, come farebbe Bruce Willis. Questa o quella? Né l’una né l’altra, alla fine, ma il tentativo di ipnotizzare il ragazzo di vita con una dotta affabulazione sui rischi immediati e prospettici di una vita border line, dissoluta e violenta. E con la speranza di veder spuntare un altro ciclista, un maratoneta con le Nike, un pensionato delle ferrovie, un birdwatcher con la Nikon, magari un rom onesto. Invece niente.

Ghino, comunque, non ha alcuna intenzione di lasciarsi irretire da una morale che suona palesemente strumentale nelle circostanze date. Sulle sue labbra sottili affiora un ghigno che sa di angoli bui, di lacci emostatici, di farmacie notturne, di carabinieri maneschi. Con gesto teatrale affonda la mano destra nella tasca dei pantaloni e ne estrae qualcosa di luccicante che assomiglia molto al manico di un coltello a serramanico. Il gesto abbassa di qualche centimetro la cintura dei pantaloni e scopre l’elastico degli slip neri marcati Ascot. Che i 10 euro gli servano per comprarsene altre due paia di ricambio?

È chiaro a entrambi che lo stallo non può durare a lungo. Ok, vada per i 10 euro. Purché si salvino i documenti, l’orologio, il cellulare e la citybike... D’altronde, non è forse questa la nuova banalità del male? Non quella della Arendt, fondata sulla violenza dell’ideologia, quella sminuzzata e minimalista di questi tempi mediocri.

Con studiata e lenta rassegnazione l’affabulatore frustrato prende a ravanare nello zainetto alla ricerca del portafogli. Ancora nessuno all’orizzonte. A poche decine di metri auto e camion sfrecciano ronfando sulla tangenziale. È in questo preciso momento che avviene la mutazione. Mentre gli viene allungata una banconota nuova da 10 euro, il cordiale Dr Jekyll diventa l’irascibile Mr Hyde e si avventa brutalmente sul bersaglio grosso: il portafogli. Ma il legittimo proprietario del medesimo, che già mal sopportava il Dr Jekyll, non è per niente disposto a subire Mr Hyde.

Seguono lunghi secondi di strattonamenti e spintonamenti. Più un certo numero di vaffa reciproci. Finché Mr Hyde, a cui non fa difetto il senso della tragedia shakespeariana, torna a infilare la mano nella tasca destra. Quella del serramanico. Una mossa ad effetto che chiude di fatto la partita.
Il ragazzo con l’orecchino di perla prende il portafogli, se lo mette in tasca come fosse il suo e, dando prova di lodevole moderazione, si disinteressa dell’orologio e di tutto il resto. Poi si allontana, con aria svagata e passo dinoccolato, verso il campo rom. Lui che rom non è di sicuro. «Perché i rom che vivono lì — spiegano al commissariato di polizia — hanno tutti la pelle olivastra».
«Ma restituisci almeno i documenti, accidenti a te!».

Il portatore di mutande Ascot non accenna nemmeno a fermarsi. Si limita a lanciare il portafogli verso il Lambro. Da che mondo è mondo le vittime non meritano che disprezzo. Ma il parapetto di ferro è alto e il portafogli ricade sul ponticello. Aperto. Con tutti i suoi simboli di modernità e benessere in bella evidenza: il bancomat, le carte di credito, l’abbonamento dell’Atm, la tessera sanitaria e quella del Fai, la patente di plastica rosetta..

postilla

In premessa, va dato merito all’autore dell’articolo di aver più volte sottolineato come l’aggressore sia molto presumibilmente un coatto locale, nulla a che vedere con la solita fauna misteriosa che tanto piace ai razzisti securitari per le loro campagne elettorali. Perché da quelle parti c’è anche una solida presenza di cosiddetti campi rom, e ci mancavano pure quelli, ma il problema è un altro, e si chiama ahimè progettazione di spazi pubblici, e specificamente qui di un corridoio di mobilità dolce. I nostri “tecnici” qui si sono espressi al meglio nel concepire, per la sicurezza di chi lo percorre il corridoio, quanto di più insicuro possibile, ovvero un budello senza uscita di centinaia e centinaia di metri, fatto di varie barriere insuperabili (muri di recinzione, il canale, il fiume, le spalle del ponte, il puzzolente sottopassaggio della Tangenziale … qualcuno forse ne avrà visti degli scorci a una comunicazione alla Scuola di Eddyburg) su entrambi i lati. Così, dentro alla sequenza di budelli cul-de-sac si forma naturalmente una trappola, sempre pronta a scattare appena cala sotto una certa soglia la dissuasione degli “occhi sulla strada”. Un caso frequentissimo di sventatezza tecnico-progettuale in senso lato: niente vie di fuga, niente possibilità di controlli qualsivoglia: quanti spazi pubblici di fatto abbandonati del genere conosciamo? Luoghi dove si avventura solo quel genere di spedizione organizzata, o il solitario impavido atleta sprezzante del pericolo? Ognuno di noi ne potrebbe elencare centinaia, e la questione è sempre la stessa, che rinvia a un paio di principi semplicissimi: il cul-de-sac e la privatizzazione di fatto. Ricostruite una rete, stimolate le attività permanenti, e avrete risolto gran parte del problema, ma vallo a spiegare ai tizi de “il problema è un altro” (f.b.)

Sono 48 i beni per i quali l'Agenzia ha dato il via libera per il trasferimento. Vicenda da seguire con attenzione per capire chi sono destinatari dei regali. La Nuova Venezia, 27 marzo 2015

Venezia. “Pioggia” di immobili e aree statali in arrivo in dono al Comune di Venezia da parte dell'Agenzia del Demanio. E l'effetto del decreto sul federalismo demaniale del giugno dello scorso anno, che entra nel vivo con la pubblicazione in questi giorni da parte dell'Agenzia del demanio dei pareri che prevedono appunto il trasferimento agli enti locali di immobili dello Stato non più in uso.
Sono 48 i beni su cui il Demanio ha già dato l'assenso al trasferimento a Ca' Farsetti, ma sono 23 quelli che sono già stati trasferiti, in questa fase, all'amministrazione, soprattutto terreni ed ex caserme. C'è il molo comunale all'isola del Tronchetto, i Giardini della Marinaressa in Riva dei Sette Martiri, l'ex ridotto vecchio, l'ex caserma della Guardia di Finanza, il Casotto telemetrico e un terreno a Sant'Erasmo, un terreno agli Alberoni e due a Burano. Ancora, quattro negozi in via Sandro Gallo, l'ex campo dell'aviazione di Campalto, l'ex elioterapico a San Giuliano, una porzione del Poligono di tiro a segno del lido e un appezzamento di terreno a San Nicolò. Quindi l'ex campo di aviazione di Campalto, l'ex caserma di artiglieria di San Pietro in Volta, una porzione di terreno lungo il Canal Grande a Cannaregio, un fabbricato di pertinenza di Villa Elena a Zelayino.
Nel "pacchetto" di immobili che devono ancora essere materialmente trasferiti al Comune, l'ex Batteria Manin a Pellestrina, l'ex Forte Morosini, l'ex caserma della Guardia di Finanza di Venezia, la Batteria Marco Polo, l'ex Forte Ca' Roman Barbarigo, l'ex Batteria Emo, l'ex Caserma di Artiglieria di San Pietro in Volta, l'ex Caserma di Cavalleria di San Nicolò del Lido. Ancora in via di definizione invece il trasferimento di altri due beni che stanno a cuore al Comune, come la Batteria Rocchetta e in particolare la cinquecentesca ex Caserma Pepe del lido, il più importante e meglio conservato manufatto storico, architettonico e militare dell'isola. Sempre utilizzata negli anni come struttura militare, in ultimo come caserma dei Lagunari fino al 2000, l'edificio, oggi inutilizzato, era stato inserito all'interno del Piano Direttore del Lido dal Comune, come appoggio all'attuale centro del Master Europeo sui Diritti Umani nell'ex convento di San Nicolò.
Anche l'ex piazza d'Armi di Sant'Elena e l'ex Monastero di Sant'Anna a Castello, richiesti entrambi dal Comune, sono ancora in via di assegnazione. In centro storico, il Palasport dell'Arsenale e l'area cantieristica della Giudecca. Ma molti dei beni che saranno assegnati riguardano il lido, con l'arenile degli Alberoni, piazzale Ravà e via Klinger, l'ex Luna Park. In terraferma, diventeranno tra l'altro comunali la sede viaria di viale San Marco e il Forte Bazzera.

«La chiave per valutare un’infrastruttura deve essere il servizio che garantisce ai cittadini» Ma si tratta di capire quali servizi sono prioritari, se per poche persone avere un Milano-Roma ogni 15 minuti, o per centinaia di migliaia arrivare presto in fabbrica, ufficio o scuola. Il Sole 24 Ore, 22 marzo 2015

Il ricambio al ministero delle Infrastrutture e l’auspicata riforma della legge obiettivo costituiscono un’occasione storica per avviare una riflessione - possibilmente celere e concreta - su quali siano le infrastrutture effettivamente utili al Paese e come si possano superare i gravi limiti nelle modalità di programmazione, progettazione e costruzione. Serve una pax infrastrutturale che passi per una democratizzazione sostanziale del percorso di realizzazione delle opere. Il primo ingrediente è una programmazione unitaria con strumenti e standard europei che tenga al proprio interno reti materiali e immateriali, opere grandi e piccole, finanziamenti nazionali e comunitari, opere nuove e investimenti tecnologici, con una capacità di selezione che non si è vista negli ultimi 15 anni. Riprendendo un vecchio slogan coniato da Paolo Costa bisogna realizzare «tutte le opere necessarie, solo quelle necessarie». Oltre all’introduzione di strumenti che all’estero sono consuetudine - studi di fattibilità, analisi dei fabbisogni, analisi costi-benefici - è il concetto stesso di utilità che va rifondato in Italia.

L’infrastruttura non è solo un’opera fisica, un appalto, un costo: è soprattutto un contenitore di servizi e il servizio che fornisce ai cittadini deve essere la chiave per valutarla, per decidere se sia utile o meno. Se a tutti fosse stato spiegato con chiarezza che l’Alta velocità si sarebbe tradotta in treni che ogni quarto d’ora raggiungono Milano da Roma in tre ore - e che questo avrebbe cambiato il sistema dei trasporti italiano in favore di una modalità ambientalmente sostenibile e la geografia delle principali città - forse il dibattito pubblico sarebbe stato meno ideologico e più trasparente. Tanto più questo vale se si vogliono attrarre capitali privati che hanno bisogno di piani economico-finanziari aderenti alla realtà per poter intervenire. Bisogna archiviare la stagione di piani di traffico gonfiati per realizzare opere che poi chiedono interventi pubblici correttivi ex post per far quadrare i conti. I rischi devono essere ben definiti e devono restare accollati a chi li ha assunti, senza sconti. Un tentativo di collegare opere e servizi (con relativo impatto economico e sociale sul territorio) è stato fatto da Fabrizio Barca nell’impostazione della nuova programmazione dei fondi strutturali Ue 2014-2020.

Un tema che dovrebbe rientrare in questa riflessione è quello di un piano di investimenti “leggeri” e tecnologici che consentano uno sfruttamento più intenso delle infrastrutture pesanti esistenti. È una filosofia fondamentale dove ci sono vaste reti infrastrutturali, come per esempio nelle ferrovie. Il caposcuola di questa filosofia è stato Mauro Moretti, ai tempi in cui era amministratore delegato di Rete ferroviaria italiana (Rfi). Oggi questo approccio “leggero” prevale (ma non è coerente fino in fondo) anche nel contratto di programma Fs che contiene un robusto piano tecnologico e consente, con tecnologie di circolazione all’avanguardia in Europa, di aumentare la capacità di una linea ferroviaria (in termini di numeri di treni che ci possano viaggiare sopra in determinato lasso di tempo) con raddoppi infrastrutturali molto limitati (e non integrali). Il costo può essere ridotto a un quinto o a un decimo rispetto a quello dell’intervento infrastrutturale “pieno”, garantendo comunque un risultato in termini di cadenza e tempi di percorrenza sostanzialmente uguali. È necessario che il passeggero sia l’unico destinatario di un piano infrastrutturale.

La democratizzazione del processo infrastrutturale passa per l’abbattimento del muro che oggi separa le infrastrutture dai cittadini. Una riprogrammazione delle opere pubbliche in termini di servizi ai cittadini è il primo passo decisivo in questa direzione. Il secondo è l’introduzione anche in Italia di un procedimento, sul tipo del débat public francese, che consenta una discussione reale con i cittadini sul territorio, liberando l’opera da giochi e giochetti che non di rado vede protagonisti la stazione appaltante e gli amministratori locali, per interessi che spesso non sono generali. Il terzo passaggio è il ritorno a una progettazione che riprenda a parlare con il territorio e che sia frutto di un processo reale di competizione fra progetti alternativi: lo strumento c’è, è il concorso di progettazione che, soprattutto in ambito urbano, può aiutare a trovare le soluzioni giuste e favorire la partecipazione. Bisogna solo superare la diffidenza di molti sindaci. Il quarto pilastro di questa nuova era è l’utilizzo dei sistemi di monitoraggio civico e di open coesione per rendere del tutto trasparente il piano economico, il progetto e gli stati di avanzamento del cantiere, con i suoi costi e le sue eventuali varianti, senza trascurare, ancora una volta, gli impatti in termini di servizi.

Non dimentichiamo che la bellezza, sebbene non sia sufficiente a rendere la città adeguata ai bisogni dei suoi abitanti, è certamente un requisito necessario. Soprattutto i suoi spazi pubblici. Ecco una proposta per una piazza di Milano. La Repubblica, Milano, 16 marzo 2015

Molte piazze italiane di grande bellezza sono state ottenute «per forza di levare». Piazza della Scala è un caso esemplare. Figlia del progetto mengoniano della Galleria, di cui è la splendida conclusione a nord, è stata ricavata da demolizioni che hanno messo a diretto contatto Palazzo Marino (Galeazzo Alessi, 1553-58) e il Teatro della Scala (Giuseppe Piermarini, 1776-78). Alla sua configurazione ha dato un contributo importante Luca Beltrami a cui si deve, in successione, il restauro di Palazzo Marino, l’edificio della Banca Commerciale a nord e, infine, sul fronte meridionale, Palazzo Beltrami, oggi sede della Ragioneria comunale. Misura e dialogo civile tra gli edifici fanno l’ospitalità e la qualità architettonica del luogo. Un risultato a cui concorrono le aperture prospettiche di via Manzoni e via Verdi e la convocazione, a est, dello splendido fianco di San Fedele (Pellegrino Tibaldi, 1569-79). Ma non meno prezioso per l’equilibrio dell’insieme è il monumento a Leonardo da Vinci (Pietro Magni, 1872, originariamente destinato a piazza S. Fedele) che, con la sua presenza discreta, decentrata dal baricentro geometrico, e gli otto tigli che lo circondano, favorisce l’interazione fra gli organismi.

Il recente insediamento delle Gallerie d’Italia e del Cantiere del ‘900 nella vecchia sede riadattata della Banca Commerciale e nei connessi palazzi sette-ottocenteschi Anguissola e Brentani ha dato vita a un polo espositivo subito assurto a stella di prima grandezza nel sistema museale di Milano. Ne beneficia la piazza che vede accresciuta la vitalità culturale e i suoi valori civili.

Piazza della Scala è suscettibile di miglioramenti? Certamente (anche se, in una graduatoria degli spazi aperti pubblici a Milano bisognosi di interventi, questo sarebbe in fondo alla lista). Si vuole che il Teatro della Scala e le Gallerie d’Italia siano più integrati all’invaso della Piazza? Si può fare, ma senza mettere in discussione ciò che è già configurato in modo soddisfacente. Mi riferisco alla sistemazione operata da Paolo Portoghesi (1989-2000) che ha saggiamente reinterpretato l’impianto ottocentesco, ponendo fine alla triste vicenda che fino agli anni sessanta aveva ridotto la piazza a un orribile deposito di autoveicoli. Basterebbe eliminare l’assurdo parcheggio residuo a fianco della Scala e ridurre al minimo indispensabile il transito veicolare per via Case rotte e piazza Mattioli, proseguendo sul lato settentrionale, nei materiali e nelle cromie, il lavoro di Portoghesi, che sarebbe insensato disfare.

Un’attenzione particolare andrebbe riservata a piazza Mattioli, ridotta in condizioni penose anche grazie a BikeMi, il servizio pubblico di biciclette in condivisione del Comune che qui ha recentemente addossato una delle sue infilate di bici al nobile fianco di S. Fedele, come si trattasse di un retro. In questo spazio, a completamento dell’opera di Beltrami, Piero Portaluppi ha prodotto uno dei suoi lavori migliori dialogando con le preesistenze. Si tratta di rinsaldare quell’interlocuzione e farla lievitare. In altri termini è qui che si dovrebbe concentrare l’attenzione dei partecipanti al concorso d’idee promosso da IntesaSanPaolo e dal Comune di Milano: in questa sfida di fondare un luogo che della piazza ha ora solo il nome, facendone la prosecuzione della piazza maggiore. Raffaele Mattioli se lo merita.

«Pubblichiamo la prefazione di Paolo Maddalena al nuovo saggio dell'urbanista Paolo Berdini, Le città fallite. I grandi comuni italiani e la crisi del welfare urbano, in questi giorni in libreria edito da Donzelli». MicroMega-online, 5 febbraio 2015 (m.p.r.)

Il libro di Paolo Berdini, dall’illuminante titolo Le città fallite, copre un vuoto nella pur ampia letteratura sugli scempi edilizi: esso enumera con lodevole completezza la serie dei fatti eclatanti che hanno distrutto i territori urbani, ponendo in evidenza come questa distruzione territoriale e ambientale sia andata di pari passo con la cancellazione delle regole dell’urbanistica. Da vero, grande urbanista quale è, l’Autore esprime quasi un grido di dolore, che sembra materialmente emergere da queste accattivanti pagine, e che si trasmette automaticamente al lettore, rendendolo spiritualmente vicino al pensiero di chi scrive.

L’attrattiva di questo libro, in effetti, sta proprio nello svelare le cause e i retroscena dell’immane devastazione delle nostre città, che mantiene il lettore in una specie di suspense, nell’attesa di conoscere chi o cosa c’è dietro questa dannosissima sciagura. Non è nostro intento far venir meno la «tensione» del lettore e ci asterremo, pertanto, dall’illustrazione dei singoli accadimenti, limitandoci a porre in evidenza soltanto l’importanza delle regole urbanistiche, del loro grande valore di civiltà e della loro importanza giuridico-costituzionale.

Il libro si apre con un’illustrazione della «città pubblica», della città che è «servente» al bisogno umano di incontrarsi e di vivere in comunità. È in fondo la città che ci hanno donato, sulle orme di tessuti urbani pre-esistenti, i governanti liberali dei primi anni dell’unità d’Italia. Dal punto di vista più strettamente giuridico, viene posta in evidenza l’importanza, si direbbe strategica, di aver individuato la categoria degli «standard edilizi», di cui parla il decreto ministeriale 1444 del 1968, secondo il quale ogni cittadino ha il diritto ad avere a disposizione una superficie minima di territorio su cui realizzare i servizi di cittadinanza: l’istruzione, il verde, i servizi alla persona.

Insomma, emerge chiaramente che funzione propria dell’urbanistica è quella di garantire i diritti dell’uomo, e, con questi, il decoro e la bellezza delle nostre città. A tal proposito, si citano gli esempi della famiglia Crespi, che aveva una fabbrica di tessuti e che ebbe cura di creare un ambiente comunitario e sereno per i lavoratori. Ma si cita anche La Pira, sindaco di Firenze, che, negli anni cinquanta, requisì le abitazioni abbandonate per darle ai senzatetto, e infine l’esempio di Adriano Olivetti, che a Ivrea tanto si dedicò per la creazione di un vero modo comunitario di vivere.

Le noti dolenti cominciano con l’avvento del pensiero unico del «neoliberismo economico», divenuto soffocante nell’ultimo ventennio. Questo modo di vedere, così contrario alla scienza urbanistica, uccide la «città pubblica» e la fa diventare un puro «conto economico». La nostra tradizionale città è stretta in una tenaglia: da un lato la pressione della finanza speculativa, spesso in accordo con le istituzioni, dall’altro la mancanza di risorse per garantire il funzionamento della città stessa. Si impone una logica di rapina che distrugge le conquiste sociali, favorisce i grandi centri commerciali, porta al fallimento, specie tramite le cosiddette «liberalizzazioni», le piccole imprese, che sono state sempre il nerbo della nostra economia.

In sostanza, si prepara l’avvento della fase di Tangentopoli. Comincia Craxi con il primo condono edilizio del 1985, cui seguiranno i due condoni del governo Berlusconi, e inizia subito la stagione delle «deroghe urbanistiche», delle quali parla la legge n. 79 del 1992. Ma soprattutto si afferma il principio dell’«urbanistica contrattata», alla quale seguono le ulteriori «deroghe» della legge Tognoli per la costruzione dei parcheggi nei centri storici e l’invenzione dei «Consorzi di imprese», che si dividono gli appalti delle grandi opere pubbliche.

Un grave colpo all’urbanistica è dato da Bassanini, il quale non inserisce nel Codice degli appalti del 2001 un emendamento per mantenere il vincolo, posto dalla legge Bucalossi n. 10 del 1977, di destinazione degli oneri urbanistici per la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria: da allora essi possono essere utilizzati anche per le spese correnti. In tal modo speculatori e amministratori comunali si trovano sullo stesso piano di interessi. Entrambi convergono sulla convenienza di distruggere il territorio per ottenere danaro. L’accordo fra costruttori e amministratori diventa una regola.

Sempre nello stesso anno un altro duro colpo è inferto con la «Legge obiettivo», che Berlusconi illustra su una lavagna in una famosa apparizione televisiva. Basta dire che questa legge, con uno stanziamento di 110 miliardi in tre anni, prevede il «ponte sullo Stretto di Messina», cioè una vera ecatombe ambientale.

Tuttavia, è la «rendita fondiaria», cioè l’urbanizzazione dei terreni agricoli, che aguzza l’ingegno degli speculatori, e Berlusconi va loro incontro con il «Piano casa», che fa nascere una gara tra le Regioni per concedere ai costruttori il massimo di guadagni possibili, soprattutto in termini di cambio di destinazione d’uso e di aumento delle cubature. Quello della rendita fondiaria è un problema gravissimo del quale si era occupato nel 1962 Fiorentino Sullo, proponendo che i Comuni dovessero prima acquistare i terreni agricoli e poi urbanizzarli, facendo in modo che l’enorme aumento di valore del terreno trasformato da agricolo a edificabile restasse al pubblico e non divenisse un regalo per gli speculatori edilizi. Ma la politica, in accordo con gli speculatori, non ha mai fatto passare questo intelligente progetto.

Si deve aggiungere che questo sistema ha avuto un largo consenso tra la gente, poiché alla rendita fondiaria donata ai costruttori, nella fase ascendente della nostra economia, si è aggiunto l’aumento di valore degli immobili, che giova fortemente ai proprietari di abitazioni. Sicché tre grandi forze, per motivi diversi, si sono aiutate l’un l’altra nella distruzione dei terreni agricoli: gli speculatori edilizi, gli amministratori pubblici e i cittadini.

Sennonché la crisi economica e la conseguente diminuzione di valore degli appartamenti, che nelle periferie ha raggiunto il 40%, ha lasciato il danaro ai costruttori e ai cittadini la «beffa». Chi ha contratto un mutuo per pagare l’acquisto dell’alloggio oggi paga un prezzo di gran lunga superiore al valore del bene acquistato.

Anche per questo motivo si assiste oggi a un cambio delle forze sociali e politiche in campo: da un lato c’è la popolazione che si è schierata fortemente contro la politica, dall’altro ci sono i politici in perfetto accordo con l’alta finanza e i costruttori di case.

Il governo Monti segue in pieno «le prescrizioni» dell’alta finanza che ha occupato le istituzioni economiche europee. Egli ripristina l’imposta sulla casa senza prevedere alcuna esenzione; continua il finanziamento delle «grandi opere» (i 110 miliardi in tre anni sono sempre iscritti in bilancio), riduce gravemente le spese per la sanità, la giustizia, la rete dei servizi pubblici.

Anche Letta, con il suo breve «governo del fare», aiuta la speculazione immobiliare con la «Quadrilatero Spa», che dovrebbe unire, per ora inutilmente, l’Umbria e le Marche. La «trovata» è che la garanzia per i crediti sarebbe venuta dalle «aree di cattura di valore», cioè dall’aumento di valore dei terreni lambiti dalla costruzione dell’autostrada. È stato un fallimento e sono stati posti sulle spalle degli italiani altri 270 milioni di euro. Poco dopo, il ministro Franceschini (governo Renzi) ha accettato l’emendamento dell’onorevole del Pd, Maria Coscia, istituendo i «Comitati di garanzia per la revisione dei pareri paesaggistici». È la fine della tutela paesaggistica.

E, come se tutto questo non bastasse, c’è lo Sblocca Italia di Renzi, che fa prevalere l’interesse alla costruzione delle «grandi opere» sulla tutela del paesaggio, dei beni artistici e storici, della salute e dell’incolumità pubblica. Mentre il ministro Lupi, con la sua proposta di modifica della materia urbanistica, mette sullo stesso piano pubblico e privato e propone l’indennizzo della «conformazione» della proprietà privata e l’abrogazione del citato d.m. n. 1444 del 1968 relativo agli standard edilizi.

L’urbanistica è, dunque, del tutto distrutta.

Dobbiamo ricominciare daccapo. E questa volta l’iniziativa deve venire dal basso, dalle associazioni, dai comitati e dai comitatini, come ironicamente dice il nostro presidente del Consiglio. Si tratta di applicare il principio di «partecipazione popolare», previsto, anche come «diritto di resistenza», dalla nostra Costituzione, e in particolare dall’art. 118, secondo il quale i cittadini, singoli o associati, possono svolgere attività di interesse generale, secondo il principio di sussidiarietà.

In sostanza, occorre ottenere un «capovolgimento» dell’immaginario collettivo, e far capire che la Costituzione protegge soprattutto «l’utilità pubblica» (art. 41) e riconosce e garantisce la «proprietà privata» solo se essa persegue la «funzione sociale» (art. 42). È ora, in altri termini, che la «rivoluzione promessa» di cui parlava Calamandrei sia finalmente attuata. Molti intellettuali sono all’opera: Antonio Perrotti, Vezio De Lucia, Francesco Erbani, Salvatore Settis, Tomaso Montanari e tanti altri.

La speranza si fonda sull’azione delle associazioni e dei comitati, che di fronte allo spreco del nostro territorio devono agire e unirsi in una lotta senza quartiere, da svolgere sul piano della legalità costituzionale e, specificamente, sotto l’egida di quella che è stata denominata «l’etica costituzionale», e cioè i principi di libertà, eguaglianza e solidarietà.

«Il movimento di Gezi Park indica che la salvaguardia non era l’unico aspetto a contare. La "classe emergente" del movimento è stata in grado di costruire solidarietà e forme di condivisione e sostegno collettivo. Tuttavia "la massa delle classi lavoratrici islamiche non ha aderito alla rivolta"».

Nel suo recente saggio The Crisis of Planetary Urbanization, scritto per il catalogo della mostra Uneven Growth Tactical Urbanisms for Expanding Megacities (in corso al MoMa di New York), David Harvey affronta il tema delle rivolte della “classe emergente” urbana che, in paesi dove non sembra esistere la crisi economica almeno guardando al PIL, si è mobilitata contro uno dei classici paradigmi della crescita illimitata. «Il cemento viene versato ovunque e ad un ritmo senza precedenti sulla superficie del pianeta terra. Siamo, insomma, nel bel mezzo di una grande crisi - ecologica, sociale e politica – dell’urbanizzazione planetaria, a quanto pare senza che la si conosca e persino che la si evidenzi. Niente di tutto questo nuovo sviluppo sarebbe stato possibile senza massicci spostamenti di popolazione e spoliazioni, fatte di ondate successive di distruzione creativa che ha avuto non solo il suo tributo fisico ma che ha infranto la solidarietà sociale, esacerbato le disuguaglianze sociali, spazzato via tutte le pretese di governance urbana democratica, e ha progressivamente cercato la sorveglianza della polizia militarizzata e del terrore come principale modalità di regolazione sociale».

Quella in difesa di Gezi Park ad Istanbul è sicuramente una delle rivolte della “classe emergente” urbana contro «il boom dell’urbanizzazione che ha avuto poco a che fare con il soddisfacimento dei bisogni delle persone». La protesta ha riguardato soprattutto lo stile sempre più autocratico del governo turco e la violenza della risposta della polizia, che a livello nazionale ha prodotto migliaia di feriti e otto morti. La furia distruttrice del regime di Erdogan, esercitata in nome del rinnovamento urbano, sta profondamente modificando il tessuto edilizio e la composizione sociale della più grande città turca. Istanbul con il 20% della popolazione del paese e oltre il 40% delle sue entrate fiscali, è il motore dell’economia nazionale, e l’attuale presidente, che della città è stato sindaco e che era primo ministro durante le proteste del 2013, sta imponendo progetti del valore di oltre 100 miliardi di dollari per la ricostruzione di numerosi settori urbani. Alberghi e complessi residenziali di lusso, un’isola artificiale pensata per le feste alla moda di chi si può permettere un appartamento fronte Bosforo, un restyling complessivo dello skyline un tempo dominato dai minareti.
Un quadro al quale non mancano gli enormi impatti sociali che si verificano in questi casi e che ha innescato il ribollire del malcontento per i modi violenti del processo di trasformazione urbana, attuato a colpi di sgomberi della popolazione insediata dove sono previsti i progetti di valorizzazione immobiliare. La crescita urbana di Istanbul, che è diventata la bandiera della modernizzazione e della occidentalizzazione della Turchia, è impressionante: dal 1970 la città è passata da 2 a 16 milioni di abitanti. Oltre alle proteste per salvare Gezi Park altri segnali di opposizione sociale sono emersi al vasto consenso di cui gode il partito di Erdogan, che molto si avvantaggia delle buone performance economiche della Turchia anche grazie il settore delle costruzioni.

Due anni fa il governo ha stanziato 400 miliardi di dollari in un piano per abbattere e ricostruire tutti gli edifici a rischio sismico della città. L’iniziativa coinvolgerà centinaia di migliaia di edifici in decine di quartieri di Istanbul. A Okmeydani 5.600 edifici del quartiere sono stati classificati a rischio sismico e sulle aree che ricevono questa denominazione gli interventi saranno possibili senza il consenso dei proprietari. Qui lo scorso giugno, durante una delle manifestazioni contro il piano di ricostruzione, quando sembrava che si fosse arrivati ad una stretta riguardo alle demolizioni, è morto un ragazzo di 15 anni.

Il partito di governo vede nei grandi progetti di costruzione il simbolo del rinnovato prestigio della Turchia e un mezzo per sostenere la crescita economica. Qualunque cosa minacci la realizzazione dei progetti che sono alla base del boom edilizio turco è oggetto di intervento governativo, sottolinea David Lapeska in un recente articolo su Next City. Alla fine di novembre 2014, ad esempio, il ministero dell'ambiente ha esentato i centri commerciali, i complessi residenziali, i campi da golf e gli impianti idroelettrici di piccole dimensioni dalla valutazione di impatto ambientale in precedenza obbligatoria; una misura in diretta violazione di una sentenza dalla Corte Costituzionale. Nel mese di dicembre, il governo ha elaborato un disegno di legge per controllare l’ordine architetti e ingegneri, l'unico organismo indipendente in grado di rallentare, tramite la presentazione di azioni legali, i progetti che prevedono aspetti discutibili.

Ad un anno e mezzo di distanza dalla sua nascita, il movimento di Gezi Park ha ripreso a mobilitarsi a novembre 2014, quando il progetto di edificazione del parco è riapparso nonostante le promesse ufficiali della sua cancellazione. Una nuova prevedibile ondata di proteste avrà però da misurarsi con le misure varate dal governo per controllare i siti internet e gli account dei social network. Un primo tentativo di organizzare una manifestazione contro il progetto è già stata bloccata dalla polizia che ha affrontato con gas lacrimogeni i gruppi giovani scesi in piazza Taksim e impedito loro di entrare nel parco. La violenza della polizia unita alle restrizioni delle libertà di manifestare il dissenso possono trovare un alleato contro il movimento di Gezi Park nella campagna politica che il partito di governo sta lanciando in vista delle prossime elezioni, con la quale mira a dipingere gli oppositori come nemici della nazione e del suo progresso.

Secondo David Harvey il movimento di Gezi Park ha indicato, che la salvaguardia del parco non era l’unico aspetto a contare. La "classe emergente" che ha dato vita al movimento è stata in grado di costruire solidarietà sociale e forme di condivisione e di sostegno collettivo riguardo al cibo, le cure mediche, i vestiti di cui avevano bisogno gli occupanti. «I partecipanti alla protesta hanno assaporato il piacere di discutere dei loro comuni interessi attraverso assemblee democratiche, si sono lanciati in discussioni che si tenevano fino a tarda notte, e, soprattutto, hanno trovato un mondo possibile di umorismo collettivo e di liberazione culturale che in precedenza sembrava loro precluso. Hanno aperto spazi alternativi, hanno fatto di un luogo pubblico un bene comune, e liberato il potere dello spazio per scopi sociali e ambientali alternativi. Hanno trovato se stessi e il parco. Essi hanno identificato un nascente ordine sociale in attesa.(…). La resistenza viscerale alla proposta di versare cemento su Gezi Park per costruire una imitazione di una caserma ottomana che funzionerebbe come un altro centro commerciale è in questo senso emblematica di cosa sia in sintesi la crisi dell’urbanizzazione planetaria. Versare sempre più cemento alla ricerca insensata di una crescita infinita non è ovviamente una risposta ai mali attuali».

E tuttavia - nota Harvey - «in Turchia la massa delle classi lavoratrici islamiche non ha aderito alla rivolta. Esse sono dominate da una loro forma di solidarietà culturale (spesso anti-modernista) e da relazioni sociali rigide (in particolare in materia di genere). Esse non sono state coinvolte nella retorica dell’emancipazione espressa dal movimento di protesta, perché quel movimento non ha affrontato in modo efficace la massiccia condizione di deprivazione materiale che le riguarda. Esse hanno apprezzato la combinazione di centri commerciali e moschee che il partito di governo AKP stava costruendo e non si sono curate della corruzione che evidentemente circonda il boom edilizio finché esso è stato una fonte di posti di lavoro. Il movimento di protesta di Gezi Park è stato, come le elezioni comunali successive hanno dimostrato, non sufficientemente interclassista per poter durare».

Ciò che insegna - tra le altre manifestazioni di resistenza alla barbarie e alla repressione dell’esperienza urbana capitalistica - il movimento di Gezi Park è che «riprendersi le strade attraverso atti di protesta collettiva può essere un inizio. Ma è solo un inizio e non può essere un’azione fine a se stessa», conclude Harvey. Finché «i bisogni delle masse non saranno soddisfatti e combinati con l’emancipazione culturale» sarà difficile superare «l'ethos neoliberale dell'individualismo isolato e della responsabilità personale anziché sociale» e costruire nuove forme di socialità dove le vite delle persone e il loro benessere possano radicarsi in altri modi di produrre e di consumare. Da questo punto di vista rafforzare l’idea che il benessere di tutti abbia più valore del prodotto interno lordo, del quale si avvantaggiano in pochi, può essere una buona base sule quale fondare esperienze urbane di resistenza in tutto il mondo.

Riferimenti
Sull'argomento si vedano di David Harvey, The Crisis of Planetary Urbanization, in Post, notes on modern & contemporary art around the globe e di i David Lapeska, Fight Over Istanbul Park Is Also a Fight for Freedom of Speech, in Next City.

Sulla violenza delle trasformazioni urbane a Istanbul si veda di Michela Barzi, Istanbul: la violenza della gentrification.

«Sono infatti gli enti locali a possedere le enormi ricchezze (territorio, patrimonio pubblico, servizi pubblici locali), divenute preda dell’enorme massa di denaro accumulata negli ultimi decenni sui mercati finanziari». Il granello di sabbia n.16, novembre dicembre 2014 (m.p.r.)

Gli enti locali sono, e sempre più saranno in futuro, uno dei luoghi di precipitazione della crisi sistemica, nella quale le politiche di austerity hanno imprigionato il continente europeo. Sono infatti gli enti locali a possedere le enormi ricchezze (territorio, patrimonio pubblico, servizi pubblici locali), quantificate in 571 miliardi di euro in un rapporto del 2011 di Deutsche Bank, divenute preda dell’enorme massa di denaro accumulata negli ultimi decenni sui mercati finanziari.

Sapientemente costretti all’angolo da un quindicennio di patto di stabilità interno rivolto a destrutturare il loro ruolo pubblico e sociale, oggi gli enti locali si trovano alla stretta finale tra vendere tutta la ricchezza collettiva detenuta – e divenire complici della propria sparizione – o ribellarsi a diktat, tagli, vincoli monetari e tornare ad essere luoghi della democrazia di prossimità. Anche perché da luoghi passivi di precipitazione della crisi potrebbero diventare luoghi attivi per una diversa uscita dalla crisi sistemica provocata dal capitalismo finanziarizzato.

Il modello neoliberale ha modificato profondamente i concetti di spazio e di tempo che governano le attività umane, allargando esponenzialmente il primo - l’intero pianeta come unico mercato - e riducendo drasticamente il secondo, essendo divenuto l’indice di Borsa del giorno successivo l’unica scadenza temporale. È proprio dal ribaltamento dei significati attribuiti dal modello neoliberale al tempo e allo spazio che si possono intravedere le coordinate per un’altra uscita dalla crisi: occorre ridurre drasticamente lo spazio dell’attività economica e produttiva fino all’autogestione territoriale e nel contempo allargare esponenzialmente il tempo di misura delle scelte, che deve divenire quello delle conseguenze sulle future generazioni.

Si comprende bene, da questo punto di vista, la centralità dell’ente locale come luogo per immaginare un’altra economia, diverse relazioni sociali, un nuovo modo di declinare i tempi di vita e quelli di lavoro. Non si tratta di rifugiarsi nel localismo, luogo dominato dall’ansia verso il futuro incerto e dalla paura di un presente troppo complesso; ma, al contrario, di riattribuire senso e significato al lavoro, all’ambiente, alla società e alla democrazia. Rimettere al centro la territorialità chiama in causa innanzitutto la gestione dei beni comuni (acqua, energia, territorio, rifiuti), che già di per sé determina la qualità della dimensione collettiva raggiunta da una determinata comunità.

Rispetto a questo, affermare che i beni comuni devono essere sottratti al mercato e gestiti con la partecipazione diretta degli abitanti significa porre le basi per un altro modello sociale: quello che, per quanto riguarda l’acqua, si pone il problema del diritto all’accesso e della tutela del bene; per quanto riguarda i rifiuti, si pone drasticamente fuori da ogni logica di smaltimento a valle attraverso discariche o inceneritori, e ragiona di “rifiuti zero”; per quanto riguarda l’energia, contrasta non solo l’utilizzo dei combustibili fossili, ma l’insieme del modello energetico basato sui grandi impianti per scegliere l’energia diffusa e tendenzialmente auto-prodotta; e, per quanto riguarda il territorio, contrasta ogni sua devastazione attraverso grandi opere inutili, ma pone le basi per la sua tutela e riassetto idrogeologico.

Già solo questo insieme di riflessioni, ci dice quanta possibilità di lavoro, pulito, socialmente utile ed ecologicamente orientato potrebbe risiedere nel territorio e trovare l’ente locale come motore trainante ed elemento di propulsione diretta. Ma l’attenzione al territorio aprirebbe ben più ampi risvolti; basti pensare alla questione del cibo e della relazione fra campagna e dimensione urbana, con la possibile apertura da parte dell’ente locale di un circolo virtuoso fra la produzione e il consumo di cibo, basato sulla giustizia sociale, sulla relazione diretta fra contadini e cittadini e sulla qualità dell’alimentazione.

Si tratta con tutta evidenza di mettere l’ente locale al centro di una nuova economia sociale territoriale, in grado, almeno parzialmente, di produrre una riflessione collettiva non sulla crescita astratta, bensì sul “cosa, come, dove e perché produrre” provando ad intervenire direttamente laddove la scala della territorialità lo consente (pensiamo anche alla questione della mobilità) e di innescare pluri-livelli di confronto laddove la scala diviene necessariamente più ampia. Tutto questo richiede enti locali attenti e soprattutto comunità consapevoli, conflittuali e attive nella riappropriazione di ciò che a tutti appartiene e che oggi viene progressivamente sottratto dagli interessi dei grandi capitali finanziari. Una comunità che non accetta supinamente la vendita del patrimonio pubblico esistente, ma lo occupa per metterlo a disposizione dei bisogni di lavoro, socialità, formazione e cultura dell’intera comunità.

Dove sono i soldi per fare tutto questo? Qui tocchiamo il nodo fondamentale dello scontro in atto, perché se non si mettono in discussione le regole esistenti, la partita è già segnata. Fra drastica riduzione dei trasferimenti, spending review e, soprattutto, un patto di stabilità, che andrebbe più correttamente rinominato “patto di destabilizzazione sociale”, gli enti locali sono ormai privi di risorse, quando non a rischio default: le manovre economiche dei diversi governi dell’ultimo decennio hanno comportato complessivamente un taglio delle erogazioni agli enti locali pari a oltre 16 miliardi, nonostante gli stessi contribuiscano solo per il 7,6% alla spesa pubblica nazionale e per il 2,5% al debito pubblico del Paese.Per questo diviene necessaria la rottura dell’attuale patto di stabilità, chiedendo da subito che tutti gli investimenti rivolti ai beni comuni e al welfare locale vengano sottratti ai vincoli dello stesso; e diviene dirimente la rivendicazione di una nuova finanza pubblica e sociale che, a partire dalla socializzazione di Cassa Depositi e Prestiti, consenta agli enti locali di effettuare investimenti d’interesse generale a tassi agevolati. Mentre, al contempo, si possono sperimentare forme locali di tasse di scopo o di finanziamento a progetto, collettivamente decisi attraverso processi partecipativi delle comunità locali.

Sono processi complessi che necessitano di una forte partecipazione dal basso: quella che troppi amministratori continuano a temere, invece di rendersi permeabili anche alle forme più conflittuali della stessa. “Scateniamo tempeste, ma preferiamo il sole” era scritto su un muro della città di Roma. Solo un sindaco che vede ma non guarda può decidere di cancellarla, illudendosi di poter mantenere un ruolo nel silenzioso grigiore delle sue stanze.

Un appello che non è un appello, ma un richiamo alla ragione: sicurezza degli spazi pubblici è qualità di progettazione, non paranoia securitaria vagamente militarista. Corriere della Sera Milano, 4 novembre 2014, postilla (f.b.)

Sul Naviglio Grande ci sono aree da poco rinnovate e frequentate a ogni ora da runner e ciclisti. Uno spazio che i milanesi hanno riconquistato. Il Naviglio Grande è la zona dove è stata aggredita Irene: era lì a correre. Non era notte. C’era luce. Minuti sottratti a famiglia, lavoro, incombenze perché si ha bisogno di stare all’aperto, con i propri pensieri. Una città è anche questo: luogo di scambio e luogo dove riappropriarsi di momenti di libertà. Fa rabbia la storia di Irene. E sconfortano alcuni commenti: «Correte in gruppo, coi mariti. Vestitevi con tuta larga, evitate magliette aderenti». No. Vogliamo essere libere di correre. O camminare, zoppicare, saltellare, muoverci come vogliamo, quando vogliamo. Dove vogliamo. Senza paura. All’alba, al tramonto. In centro e in periferia. Troppo? Gli uomini vanno al calcetto con gli amici. E le donne? Perché non possono correre, anche da sole?
Perché Milano sia un bene comune, va ripensata. Con le donne. Difficile? Con l’Expo e con il Consiglio metropolitano nato per riorganizzare la città c’è un’opportunità. Ci sono gli esempi. Vienna, Marsiglia, Cordoba in Argentina, altre città in Canada lavorano sull’urbanistica di genere. Non solo colonnine Sos e illuminazione. Ma anche spazi pubblicitari vietati a inserzionisti che propongono un’immagine della donna distorta. O parchi pensati ascoltando i bisogni delle cittadine e chiamando architetti e urbaniste donne a contribuire al cambiamento.

postilla

Si dice Milano ma si potrebbe dire Ovunque: un'aggressione a una signora che fa jogging, in pieno giornoin un parco cittadino, e scatta immediatamente la reazionerepressiva, da ordine pubblico o poliziesca teoria della finestrarotta che dir si voglia. Mentre invece qui, come ben capisce il testodell'appello, si tratta di un'idea di città sbagliata, in cui lospazio pubblico viene pensato burocraticamente, applicando in modo unpo' svogliato il manuale degli standard e quello della progettazionedei giardini, e realizzando invece l'ennesima graziosa Little BigHorn, luogo ideale di agguati in quanto sottratto ai famosi “occhisulla strada”. Ci sono due concezioni di spazio sicuro: quellomilitarizzato, e quello vissuto continuamente. Uno dovrebbe essereespressione di una città paranoica e fascistoide, quella che a ogniproblema propone come soluzione il manganello, l'altro aspira a bendiverse idee, che non sono di vaga solidarietà e comprensione, ma dipura condivisione. Gli strumenti sono intelligenza e visione, bastausarli, non servono neppure soldi in più. Ripensiamo alla troppo celebrata ma in fondo poco capita Jane Jacobs (f.b.)

Spazi pubblici e disagio urbano. «Certo a Ferguson di ingiustizie ce ne sono state parecchie anche prima che il 9 agosto venisse ucciso Mike Brown: il fatto è che la miseria, per essere avvertita, lì ha bisogno di un amplificatore». Millennio urbano, 25 agosto 2014

Salon, 23 agosto 2014 – Titolo originale: Death in the suburbs: Why Ferguson’s tragedy is America’s story – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini per Millennio urbano

Un uomo con casco, maschera antigas, arma da fuoco pronta in fondina, spara un lacrimogeno contro un cielo scuro e fumoso. Sulla prima pagina del St. Louis Post Dispatch l’immagine pare un fotogramma di un film di guerra. Il posto in cui è stata scattata non potrebbe però essere più banale, l’asfalto di una superstrada su cui si affacciano le solite insegne di Sherwin-Williams, Sam’s Club, Burger King e altre presenze fisse del suburbio. La strada si chiama West Florissant Avenue, ma basta dare un’occhiata a Google Streetview per capire che potremmo essere a Ovunque, U.S.A. Questo l’effetto stridente delle scene da Ferguson, Missouri. Battaglie da video-game su uno sfondo di tranquilla vita quotidiana, è la guerra civile nel suburbio.

A Madrid, gli studenti si sono radunati nella scintillante Puerta del Sol. Al Cairo, la rivoluzione si è concentrata nell’enorme piazza Tahrir, macinando come fosse un mulino alimentato dalle acque del Nilo. Ma a Ferguson, sono andati tutti da Quik Trip e da McDonald’s. Il primo è il distributore di benzina e catena commerciale dato alle fiamme dagli infuriati dimostranti, e diventato nelle parole del giornalista del Washington Post, Wesley Lowery, “il luogo di riferimento, di concentrazione, la piazza cittadina delle migliaia di persone che ogni sera scendevano in strada a Ferguson”. E gli Archi Dorati del noto ristorante, poco lontano vengono pure descritti dallo Huffington Post come “piazza pubblica informale, dove possono sostare giornalisti, abitanti, dimostranti, ricaricare telefoni e macchine fotografiche, scambiarsi informazioni sugli sviluppi del conflitto”.

Un’assenza e una caratteristica essenziale del suburbio americano, questa “piazza cittadina” metafora di McDonald’s. La senatrice del Missouri, Claire McCaskill, in un discorso martedì ha detto che avrebbe voluto vedere le dimostrazioni di Ferguson in uno spazio pubblico. Ma dove? Il fatto che qui sia sempre mancato un riferimento civico non è certo una novità. James Howard Kunstler, critico al vetriolo delle forme di progettazione del suburbio, lo definisce “senza forma, senza anima, senza centro, un guazzabuglio deprimente”. Ma è accaduto di rado, forse mai, che questa carenza si sia resa evidente nel caso di una protesta civile. Le cose sono cambiate. Cosa significa che lo spazio “di cittadinanza” a Ferguson, la sua agora, la piazza pubblica, sia un ex distributore di benzina Quik Trip bruciato, con delle scritte a bomboletta che recitano “Parco del Popolo QT, Liberato il 10 agosto 2014”? Fra le altre cose, vuol dire che può anche essere chiuso, come accaduto settimana scorsa, con una rete di recinzione.

Gli spazi privati pongono vari problemi per le proteste. Non solo perché possono essere chiusi dalla proprietà (lo era McDonald’s, prima che qualcuno sfondasse le finestre perché i manifestanti cercavano del latte contro gli effetti dei lacrimogeni). Ma anche perché sono provvisori. Aaron Renn, discutendo il problema dello “spazio sacro” nel suburbio, rileva la sovrapposizione fra spazio pubblico e privato. “Molto più di quanto non avvenga nella città” scrive “il suburbio si appoggia ad ambienti commerciali in quanto punti focali di esperienza comune, luoghi che per propria natura ci sono e poi non ci sono più”.

Certo anche gli spazi pubblici riferimenti delle rivoluzioni si possono cancellare. Il cuore civile di Montmartre, dopo la rivoluzione della Comune di Parigi de 1871 fu sacrificato per una chiesa di monito ed espiazione. Ma sono certo molto peggio gli spazi commerciali, quando si tratta di conservare memorie: semplicemente, svaniscono. Il ristorante Woolworth’s di Greenville, ad esempio, è stato ridotto in macerie nel 2010. Lo stesso è accaduto al Cavern Club, locale di Liverpool dove i Beatles avevano tenuto quasi 300 spettacoli agli esordi. Succederà lo stesso a quel luogo simbolo sulla West Florissant Avenue: sparirà nel nulla. A Ferguson, possiamo vedere all’opera due diverse evoluzioni della cultura americana.

La prima è la sempre maggiore confusione fra spazio pubblico e privato. Nelle città ci sono parchi affittati a un ristorante, e la vigilanza privata di pattuglia sui marciapiedi. In molte zone centrali c’è il divieto d’accesso agli homeless e il coprifuoco per gli adolescenti. I servizi pubblici vengono venduti al miglior offerente. E lo spazio privato si prende responsabilità pubbliche. Da questo punto di vista, Ferguson è un microcosmo che riproduce dinamiche nazionali. Hanno scritto Alexander C. Kaufman e Hunter Stuart descrivendo quel McDonald’s: “Prezzi bassi, tanti posti a sedere, la disponibilità dei gabinetti, Wi-Fi, ne fanno una meta perfetta anche per chi magari prima andava altrove”. Fa da bagno per gli homeless, da centro sociale per gli anziani, da sala studio per i liceali … basta spendere 99 centesimi. In qualche modo è uno spazio pubblico che per così dire si crea da solo. Si scava posto.

La seconda evoluzione culturale riguarda le differenze che per lungo tempo hanno segnato il suburbio rispetto alla città, e che diventano sempre meno rilevanti. L’ascesa degli uffici suburbani ha cambiato gli equilibri città/suburbio, e in alcuni casi oggi nel suburbio si costruiscono vere e proprie piazze. Nei centri attorno a Houston, per esempio, si cerca di mantenere una propria identità con luoghi civici, dopo il grande successo di uno spazio del genere realizzato nel 2004 a Sugar Land. Questi luoghi svolgono funzioni impossibili da McDonald’s.

Ma, cosa più importante, Ferguson simboleggia una nuova evoluzione demografica: la povertà suburbana. Elizabeth Kneebone della Brookings sottolinea come i poveri a Ferguson siano raddoppiati fra il 2000 e il 2012. E se guardiamo le carte di espansione del fenomeno nella circoscrizione della St. Louis County, si scopre un fenomeno più generale: sono le grandi aree metropolitane d’America a vedere raddoppiati i poveri fra il 2000 e il 2012; ma nel suburbio la crescita è stata del 64%.

Dobbiamo cambiare il nostro modo di guardare al fenomeno, e di affrontarlo. Quando si va in una città americana si vede una povertà esplicita, vuoi dai finestrini dell’auto, vuoi nei titoli dei giornali, nel senzatetto che dorme in un androne. C’è forse una crisi suburbana? Certo a Ferguson di ingiustizie ce ne sono state parecchie anche prima che il 9 agosto venisse ucciso Mike Brown: il fatto è che la miseria, per essere avvertita, lì ha bisogno di un amplificatore.

Salon, 23 agosto 2014 – Titolo originale: Death in the suburbs: Why Ferguson’s tragedy is America’s story – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

«Allarme, cit­ta­dini, sono in peri­colo la vostra esi­stenza e il vostro futuro, e quelli dei vostri figli. Levate la testa prima che sia troppo tardi». Il manifesto, 30 luglio 2014

Quando si scrive di poli­tica… quando io scrivo di poli­tica, man­tengo sem­pre, per quanto mi rie­sce, un atteg­gia­mento di dub­bio for­male e sostan­ziale. Sì, è così, mi sem­bra che sia così, però… Delle affer­ma­zioni e con­clu­sioni con­te­nute in que­sto arti­colo sono invece asso­lu­ta­mente certo. Ver­rebbe voglia di dire: allarme, cit­ta­dini, sono in peri­colo la vostra esi­stenza e il vostro futuro, e quelli dei vostri figli. Levate la testa prima che sia troppo tardi.

Mi rife­ri­sco agli atteg­gia­menti e alle pro­messe che il governo Renzi dispensa a piene mani in mate­ria di ripresa eco­no­mica e, con­te­stual­mente, di ambiente, ter­ri­to­rio, beni cul­tu­rali, pae­saggi ita­liani. Non c’è in giro il minimo strac­cio di piano indu­striale. Ma in com­penso c’è, a quanto sem­bra, un piano ormai pen­sato ed ela­bo­rato, anche nei suoi par­ti­co­lari dispo­si­tivi di attua­zione, per quanto riguarda il già troppo mar­to­riato volto del nostro paese, cui si con­ti­nua a ricor­rere, in man­canza di altro, tutte le volte in cui si deve dare l’impressione di rimet­tere in movi­mento la mac­china. Qui il più spre­giu­di­cato nuo­vi­smo coin­cide con il più arre­trato vec­chi­smo: come, per l’appunto, rischia di essere sem­pre più natu­rale in que­sto nuovo contesto.

Il discorso potrebbe, anzi dovrebbe, essere assai lungo. Io invece mi lini­terò a dise­gnare una trac­cia del pos­si­bile, anzi, ormai facil­mente pre­ve­di­bile per­corso che ci sta davanti. Biso­gna infatti, in que­sto caso più che in altri, essere pronti a pre­ve­nire, piut­to­sto che aspet­tare, come sem­pre più spesso accade, che i gio­chi siano fatti. Le mie fonti sono esclu­si­va­mente quelle par­la­men­tari (dibat­tito, decreti legge e dise­gni legge, ecc.) e quelle rap­pre­sen­tate dalla grande stampa d’informazione: le une e le altre, mi pare, attendibili.

Si leg­gano, ad esem­pio, se ancora non lo si è fatto, gli arti­coli apparsi recen­te­mente in rapida suc­ces­sione su la Repubblica.

Già i titoli espri­mono con suf­fi­ciente elo­quenza di cosa si tratti: «Entro fine luglio arriva “Sbloc­caI­ta­lia”» (2 giu­gno); Renzi: «sbloc­che­remo 43 miliardi» (24 luglio); «Arriva lo Sbloc­caI­ta­lia: per­messi edi­lizi più facili e grandi opere acce­le­rate, fuori le imprese in ritardo» (28 luglio); le anti­ci­pa­zioni non fanno molta dif­fe­renza fra le opere in ritardo per motivi buro­cra­tici o altro, e quelle nei con­fronti delle quali si è mani­fe­stata la con­sa­pe­vole oppo­si­zione dei cit­ta­dini in nome di una vivi­bi­lità che fa tutt’uno con il rispetto del ter­ri­to­rio e dell’ambiente. Anzi: facendo inten­zio­nal­mente (ripeto: inten­zio­nal­mente) di ogni erba un fascio, si adotta la parola d’ordine dello svi­luppo a tutti i costi, lan­ciando ana­temi con­tro tutti i coloro che vi si oppon­gono in nome di sacro­sante pretese.

In un’intervista al Cor­riere della sera (13 luglio) il nostro lea­der tira fuori la parte più con­si­stente della sua per­so­na­lità etico-politica: «Nel piano Sbloc­caI­ta­lia c’è un pro­getto molto serio sullo sblocco mine­ra­rio… Io mi ver­go­gno di andare a par­lare delle inter­con­nes­sioni fra Fran­cia e Spa­gna, dell’accordo Gaz­prom o di South Stream, quando potrei rad­dop­piare la per­cen­tuale del petro­lio e del gas in Ita­lia e dare lavoro a 40 mila per­sone e non lo si fa per paura delle rea­zioni di tre, quat­tro comi­ta­tini.…». È noto che il disprezzo che cala dall’alto si esprime sem­pre attra­verso un ten­ta­tivo di ridi­men­sio­nare la por­tata degli even­tuali anta­go­ni­sti: «comi­ta­tini», appunto, come Min­zo­lini? ecc. ecc.

Il miracolo della bozza

Ma le ultime anti­ci­pa­zioni indi­cano con chia­rezza ancora mag­giore in quale dire­zione si muove que­sto nuovo-vecchio grande piano di svi­luppo. Il gior­na­li­sta di Repub­blica (in que­sto caso Roberto Petrini, 28 luglio) spiega infatti che «secondo una bozza del testo… si andrebbe incon­tro a una pic­cola rivo­lu­zione nel rila­scio delle con­ces­sioni edi­li­zie…». E cioè: «Con la riforma ci si potrà rivol­gere diret­ta­mente allo spor­tello unico, muniti di auto­cer­ti­fi­ca­zione con le carat­te­ri­sti­che essen­ziali del pro­getto, rea­liz­zata da uno stu­dio pro­fes­sione, che testi­mo­nia il rispetto del piano rego­la­tore e delle altre norme urba­ni­sti­che. A quel punto lo spor­tello unico avrebbe trenta giorni di tempo per rispon­dere, nel caso con­tra­rio si potrebbe pro­ce­dere ai lavori…». Sem­bra di avviarci a stare nel paese di Ben­godi. Lo spor­tello unico! Trenta giorni di tempo per rispon­dere! Non sarebbe più sem­plice dire che in Ita­lia si potrà intra­pren­dere qual­siasi ini­zia­tiva edi­li­zia (e con­si­mili, natu­ral­mente), senza che vi sia più la pos­si­bi­lità di entrare nel merito? L’appello, con­tem­po­ra­neo e con­se­guente, che il Pre­mier ha rivolto ai Sin­daci affin­ché pre­sen­tino la lista delle loro opere incom­piute o non ini­ziate mira a costi­tuire una impo­nente galas­sia di inter­venti, mediante la quale pre­mere sull’opinione pub­blica per otte­nere il più largo consenso.

Paral­le­la­mente al pro­filo d’interventismo attivo deli­neato da pro­getto di Sbloc­cai­ta­lia si è mosso il dise­gno di legge «per la tutela del patri­mo­nio cul­tu­rale, lo svi­luppo della cul­tura e il rilan­cio del turi­smo» che di fatto è una vera riforma del Mini­stero dei Beni cul­tu­rali ed è stato votato dalla Camera dei Depu­tati il 9 luglio scorso. Le idee basi­lari mi sem­brano due: (1°. Innanzi tutto l’idea che il patri­mo­nio cul­tu­rale e arti­stico, di cui gode l’Italia, vada con­si­de­rato nei suoi aspetti di massa eco­no­mica poten­ziale da sfrut­tare fino in fondo più che come un bene uni­ver­sale umano, innanzi tutto da tute­lare e (2°, con­se­guente al primo, il ten­ta­tivo di sba­raz­zarsi il più pos­si­bile delle com­pe­tenze e, sì, anche delle resi­stenze del per­so­nale tra­di­zio­nal­mente inve­stito dallo Stato ita­liano del com­pito, innanzi tutto, di difen­dere e pre­ser­vare quel patri­mo­nio da ogni pos­si­bile offesa, com­prese quelle che potreb­bero pro­ve­nire da una pre­va­lente pro­spet­tiva di sfrut­ta­mento turistico-monetario.

Annientare le resistenze


La let­tura ragio­nata di que­sto dise­gno legge richie­de­rebbe quat­tro pagine intere del mani­fe­sto (ne ha ragio­nato a lungo Fran­ce­sco Erbani sul mani­fe­sto del 16 luglio).

Scelgo il punto che, secondo me, per le sue pos­si­bi­lità di gene­ra­liz­za­zione, pre­senta il valore sim­bo­lico più ele­vato. All’art. 12 della Legge sud­detta è stato inse­rito in Com­mis­sione un emen­da­mento (da chi? Non lo so), che suona in code­sto modo: «Al fine di assi­cu­rare l’imparzialità (!) e il buon anda­mento dei pro­ce­di­menti auto­riz­za­tivi in mate­ria di beni cul­tu­rali e pae­sag­gi­stici, i pareri, i nulla osta o altri atti di assenso comun­que deno­mi­nati, rila­sciati dagli organi peri­fe­rici del Mini­stero dei beni e delle atti­vità cul­tu­rali e del turi­smo, pos­sono essere rie­sa­mi­nati d’ufficio o su segna­la­zione delle altre ammi­ni­stra­zioni coin­volte nel pro­ce­di­mento, da appo­site com­mis­sioni di garan­zia per la tutela del patri­mo­nio cul­tu­rale, costi­tuite esclu­si­va­mente da per­so­nale appar­te­nente ai ruoli del mede­simo Ministero»…

Trovo stu­pe­fa­cente que­sto pas­sag­gio. Se lo si dovesse appli­care fino in fondo, e a que­sto mira il dise­gno di legge — ver­rebbe affer­mato il prin­ci­pio secondo cui un altro fun­zio­na­rio dello Stato, e tale è il cosid­detto Soprin­ten­dente — potrebbe legit­ti­ma­mente essere sospet­tato di svol­gere la pro­pria fun­zione non obiet­ti­va­mente e in vista d’interessi terzi. In base a tale visione del mondo, si potreb­bero allo stesso modo pre­ve­dere com­mis­sioni di garan­zia desti­nate a rive­dere ed even­tual­mente san­zio­nare i pre­sidi e i pro­fes­sori che por­tano a ter­mine uno scru­ti­nio sco­la­stico o un gruppo di medici e di sani­tari nell’atto di pro­nun­ciare una dia­gnosi o di com­piere un’operazione.

Allo stesso atteg­gia­mento (o ana­logo) va con­dotto il prin­ci­pio secondo cui i grandi poli museali del paese non pos­sono essere retti da Soprin­ten­denti col­lo­cati nelle strut­ture dello Stato, e andreb­bero invece deman­dati a mana­ger non pub­blici, la cui for­ma­zione e scelte dipen­de­reb­bero uni­ca­mente dalla capa­cità loro di fare frut­tare il patri­mo­nio cul­tu­rale, che si sono tro­vati a gestire (con cri­teri ine­vi­ta­bil­mente politici).

In difesa del sstema

Ce n’è abba­stanza, insomma, sull’uno come sull’altro ver­sante, per pre­ve­dere e orga­niz­zare una vera e pro­pria guerra con­tro que­sta spro­po­si­tata pes­sima ten­denza. Osservo sem­pli­ce­mente, a que­sto pro­po­sito, che, al di là delle molto spesso troppo arzi­go­go­late discus­sioni in merito alle cosid­dette riforme isti­tu­zio­nali (Senato, e tutto il resto), qui, appare con evi­denza mas­sima che non c’è dif­fe­renza, non c’è dav­vero nes­suna dif­fe­renza su que­sto più con­creto ter­reno fra ideo­lo­gia e visione del mondo del Mini­stro Lupi e quella del pre­si­dente del Con­si­glio Renzi. Ambe­due appar­ten­gono a pieno diritto al par­tito unico della pre­sunta razio­na­liz­za­zione del sistema, la quale si rivela con­tra­ria, anzi anti­te­tica non solo alle buone idee della sini­stra ambien­ta­li­sta e demo­cra­tica ma per­sino alla per­pe­tua­zione del vec­chio sistema sta­tuale bor­ghese, imper­fetto ma in una certa misura garantista.

Le asso­cia­zioni ambien­ta­li­ste e i Comi­tati hanno abba­stanza voce per farsi sen­tire. Per­ché que­sto accada, non basta però la buona volontà. Biso­gna avere la con­sa­pe­vo­lezza che que­sta è una bat­ta­glia deci­siva, per orga­niz­zare la quale occorre pre­li­mi­nar­mente una con­cer­ta­zione pro­gram­ma­tica di grande serietà e intel­li­genza. Proviamoci.

A Istanbul il Consiglio di Stato dichiara illegale il progetto di pedonalizzazione del Comune. Piuttosto in sordina, si conferma così la tesi originaria di tantissimi osservatori di quanto accaduto nelle cosiddette primavere arabe, con la loro radice urbana. La Repubblica, 8 maggio 2014, postilla (f.b.)

Può respirare ancora il polmone verde di Istanbul. Dove lo scorso anno, nel pieno centro di Piazza Taksim, si riunì una Turchia impegnata a battersi per la difesa dei propri diritti, e migliaia di “uomini in piedi” manifestarono con orgoglio e in pace richiamandosi ai valori della laicità. I 600 alberi di Gezi Park — causa di una rivolta popolare tesa a difenderli dall’abbattimento deciso dalle autorità per far posto a un centro commerciale — sono salvi. il Consiglio di Stato ha infatti dichiarato illegale il «progetto di pedonalizzazione» promosso dal Comune.

Non verrà nemmeno ricostruita la caserma ottomana, come era invece nei piani originari. La decisione, tuttavia, non contempla la retroattività. Per cui il tunnel sottostante alla piazza, dove ora confluiscono milioni di veicoli, rimarrà. Oggi, chi passa fra Piazza Taksim e il Gezi Park attraversa, sopra quella galleria, una spianata di cemento. E’ il luogo dove avrebbe dovuto sorgere il grande “shopping mall”, poi contestato. Non si sa cosa nascerà al suo posto.

Con il respingimento del ricorso presentato dal ministero della Cultura e dal Comune, si mette dunque la parola fine alla vicenda, a meno di clamorosi colpi di scena. E si è data così ragione alla cosiddetta Piattaforma di Piazza Taksim, composta da decine di migliaia di giovani e di persone di varie provenienze politiche e non, organizzatesi spontaneamente in tutto il Paese quando il progetto si manifestò con chiarezza. Gli alberi non verranno tagliati, e il parco non sarà demolito. Una vittoria per il movimento, alla vigilia del primo anniversario dei fatti di Gezi, cominciati alla fine di maggio 2013.

Più di 2 milioni di persone scesero in piazza in tutta la Turchia contro la svolta autoritaria del governo di Tayyip Erdogan. Sette persone morirono negli scontri con la polizia. I social network documentarono con filmati i pestaggi. Violenze che costarono a Erdogan, che impose la repressione, l’esecrazione di Usa, UE, Amnesty e Human Rights. Twitter e YouTube furono così chiusi. Ieri il direttore del nuovo portale di informazione indipendente “ T-24”, Deniz Zerin, dove sono confluiti molti dei reporter licenziati dai media sempre più omologati al pensiero del leader turco, ha accusato la polizia di averlo torturato dopo l’arresto. Pochi giorni fa l’organizzazione americana Freedom House ha messo, per la prima volta, la Turchia nella categoria degli Stati «non liberi» per la stampa. Oggi è il Paese del mondo con il maggior numero di giornalisti in carcere.

postilla

Se l'equazione urbanistica = politica pare piuttosto scontata e automatica, pare anche altrettanto scontato e automatico, alla luce di casi eclatanti come questo di Istanbul (e per estensione a quelli forse meno visibili di tante altre città grandi e piccole) allargare il campo dei due fattori, sino a includere identità urbane e democrazia. Rendendo adeguato riconoscimento anche a chi, come l'economista liberale Edward Glaeser, aveva pur in modo piuttosto distorto, pro domo sua, indicato nell'ambiente delle città non solo il palcoscenico dei nuovi movimenti democratici, da Occupy alle primavere arabe, ma una specie di motore immobile, di mano per nulla nascosta del progresso individuale e collettivo. Esce invece decisamente ridimensionato, ancora una volta, il ruolo propulsivo del grande progetto di trasformazione in quanto tale, quando non sa trasformarsi in piano e processo, non solo cercando consensi, ma anche modificandosi, accettando e includendo spinte diverse. La speranza è che da un lato l'idea di cancellazione dello spazio pubblico, dall'altro la pura conservazione dell'esistente, non si fossilizzino in un muro contro muro senza sbocchi (f.b.)

La grande funzione sociale che altrove svolgono le biblioteche pubbliche, preziosa cerniera tra sapere e popolo, e tra storia e futuro, nel libro d’una appassionata esperta, tenacemente all’opera in un paese che non la merita; ancora. La Repubblica, 22 aprile 2014

Se non ci fosse stata una biblioteca, la British Library, Karl Marx non avrebbe avuto un luogo dove comporre Il capitale. E senza la biblioteca dell’università della California a Los Angeles, Ray Bradbury, povero in canna, non avrebbe potuto affittare una macchina da scrivere per tracciare l’apologia del leggere in Fahrenheit 4-51. Lo racconta Antonella Agnoli in La biblioteca che vorrei (Editrice Bibliografica), un libro in cui l’edificio non è solo dove si conservano e si distribuiscono volumi. È tante altre cose. Deve essere tante altre cose, insiste Agnoli. Per esempio è un luogo di eguaglianza. Citando due autori che descrivono la biblioteca del Centre Pompidou a Parigi, Agnoli spiega come in quegli spazi le persone in difficoltà si accomodano liberamente, si fondono nell’anonimato dei lettori, mentre quando si rivolgono ai servizi sociali vengono subito identificate come “poveri”.

D’altronde i servizi sociali danno assistenza: ma perché mai non possono fornire aiuto anche le biblioteche? E in effetti in Europa il 4 per cento della popolazione adulta usa la biblioteca per accedere, tramite internet, ad alcuni servizi come cercare un lavoro o chiedere un sussidio. Troppo poco il 4 per cento? «Per niente », replica Agnoli, già autrice di Le piazze del sapere e Caro sindaco, parliamo di biblioteche , «è una percentuale sull’intera popolazione che va in biblioteca, ma riguarda evidentemente immigrati, persone senza dimora fissa, sfrattati. E non è casuale che siano italiani, spagnoli e greci ad andare di più in biblioteca per questo motivo. In Italia sono circa un milione. E potrebbero essere in numero superiore se le nostre biblioteche si prodigassero, ad esempio, nel formare all’uso del computer e della rete».

Le biblioteche come luogo che stimola la competenza informatica, avvicina alla rete, ma che in fondo è alternativa alla socialità offerta dal web. Agnoli la vede come una piazza con una serie di “sottospazi” «che ad alcuni propongono il silenzio, la concentrazione e la solitudine, ad altri la convivialità ». Di più: è una specie di città «che, come dice uno studioso francese, realizza un modello particolarmente contemporaneo di ciò che può essere uno spazio pubblico».

Agnoli ha lavorato a lungo nelle biblioteche pubbliche. A Pesaro ha contribuito a rifondarne una, la San Giovanni, che è diventata esemplare per le tante attività che si svolgono e che sono il prodotto di una intensa partecipazione dei

cittadini alle scelte di progettazione. Da Pesaro si è spostata a Spinea, in Veneto, poi a Cinisello Balsamo, alla Sala Borsa di Bologna, quindi è scesa a Palermo, dove ha sostenuto la biblioteca delle Balate di Donatella Natoli, luogo d’incanto per i bambini del quartiere Albergheria. Gira continuamente l’Italia e collabora con architetti e amministrazioni

locali. In fondo attrezzare una biblioteca chiama in causa competenze urbanistiche, che a loro volta si interrogano sul tessuto sociale circostante, sull’età, sui bisogni, sugli stili di vita, sulle sofferenze dei possibili utenti.

«Abbiamo bisogno di biblioteche capaci di svolgere un ruolo di coesione territoriale, sociale e culturale», dice. Ancora Parigi, biblioteca del Centre Pompidou: un pensionato molto sveglio, frequentatore abituale dei servizi internet, si è inventato un servizio di custodia per i senzacasa - Mains libres, l’ha chiamato, mani libere - i quali gli affidano i pochi oggetti che possiedono, la coperta, un carrello, un paio di scarpe, e che faticano a trascinarsi dietro durante la giornata. La biblioteca offre un locale-deposito.

In tutto il mondo si continuano a costruire biblioteche. Nel 2013 se ne sono inaugurate a Baghdad, a Birmingham, a Vienna (quest’ultima disegnata da Zaha Hadid). E dal 2015 al 2018 tante apriranno in Danimarca, a Caen in Francia (su progetto di Rem Koolhaas), a Helsinki. E in Italia? Se ne costruiscono meno, ma molte vengono ristrutturate. Nuovi spazi sorgono a Melzo, Chivasso, Firenze, Greve in Chianti, Pisa, Suzzara. La storica Malatestiana di Cesena si è ingrandita, mentre a Cinisello Balsamo, dove tramonta il sogno industriale, si sono investiti 12 milioni per realizzare un museo, una villa con un grande parco e una biblioteca di quasi 7 mila metri quadrati, una delle più grandi in rapporto alla popolazione residente.

Dunque anche in Italia qualche segnale incoraggiante si intravede, nonostante i dati sulla lettura certificati dall’Istat ci inchiodino a quel 43 per cento che nell’arco di un anno ha letto almeno un libro (a fronte di un 57 che non ne ha letto neanche uno). Ma, insiste Agnoli, va cambiato il punto di vista: «Queste cifre sono vere e mortificanti: ma quanti sanno, per esempio, che il 76,5 per cento delle badanti

che lavorano in Italia legge abitualmente? E che, a fronte del 13 per cento di italiani che leggono almeno un libro al mese, fra le badanti la percentuale sale al 32? E poi: che cosa intendiamo per libro? Io penso che molte donne che acquistano e consultano un ricettario di cucina, alla domanda se hanno letto almeno un libro rispondono di no. Non sarò certo io a sostenere che l’Italia è un paese di lettori. Ma dobbiamo rivalutare certe forme di sapere “non libresco”, molto più preziose del “lettore forte” che va in libreria per comprare i romanzi entrati in finale al Campiello o allo Strega». Che cosa c’entrino le biblioteche in questo ragionamento, per Agnoli, è presto detto: «Un luogo pubblico dove, accanto alla custodia e alla distribuzione di libri, si facciano corsi di giardinaggio e si recuperi la dimensione manuale della vita, come insegna Richard Sennett, è un luogo di circolazione dei saperi. Questo accade regolarmente nei paesi scandinavi o negli Stati Uniti, dove gruppi spontanei si danno appuntamento per corsi di falegnameria».

Alla base di ogni biblioteca dev’esserci dunque un progetto culturale e sociale, architettonico e urbanistico. E per gestirla non possono valere le regole da vecchio pubblico impiego. Gli orari devono essere flessibili e accordarsi con i tempi della potenziale utenza. La segnaletica deve essere chiara: meglio scrivere giornali e riviste che emeroteca. Le procedure burocratiche vanno ridotte al minimo indispensabile. Bisogna incentivare autoprestiti e autorestituzioni. Conclude Agnoli: «In Italia abbiamo a monte un problema: non ci rendiamo conto che le biblioteche sono una componente essenziale dell’ecosistema culturale e che questo ecosistema sta morendo per le sciagurate politiche dell’ultimo quarto di secolo. Abbiamo toccato il fondo, questo è il momento in cui l’ottimismo della volontà è obbligatorio».

“È vero, in Italia si legge poco. Ma lo fa il 76 per cento delle badanti straniere”

La biblioteca che vorrei di Antonella Agnoli( Editrice Bibliografica pagg. 160, euro 12)

Il Fatto Quotidiano online, blog di Fabio Balocco, 11 novembre 2013
This Uscita del Pdl di Vendere le spiagge su cui insistano Stabilimenti balneari Non E Che l'ultimo atto - in Ordine di tempo si intende - Di Una squallida tragicommedia all'italiana Che riguarda la Gestione dei beni demaniali da parte dello Stato, Uno Stato da un lato sempre Più pronto un tagliare i Servizi Pubblici Essenziali e dall'altro sempre Più prono un soddisfare i desiderata dei privatizzazione Che prosperano sullo sfruttamento dei beni della collettività. Secondo Una logica Di quella Che i latini chiamerebbero mala gestio, cattiva Gestione, della cosa pubblica.

Quanto ricava lo Stato ambrogetta Concessioni? Facciamo Qualche Esempio: Le Cave. Secondo il rapporto di Legambiente 2011 i cavatori pagano alle Regioni il 4% del prezzo di vendita degli inerti ed in ALCUNE Regioni addirittura si cava gratis, Detto ho "gratis": Basilicata, Calabria, Sardegna, Sicilia. In Sostanza, a fronte di 36 Milioni di euro introitati, ABBIAMO un miliardo e 115 Milioni ricavati Dai cavatori Nella vendita. Un regalo bel per il set- tore delle costruzioni, Non C'è che dire.

E le acque minerali? Secondo il rapporto di Legambiente Ed Altreconomia del 2011, a fronte di un volume di affari di 2,3 d'miliardi di euro nel 2009, le Regioni non Annone Ancora adeguato i canoni di una Quelli (pur bassi) Stabiliti Nella Conferenza Stato / Regioni del 2006 . Il fanalino di coda e La Liguria, Che introita Meno di 5.000,00 (!!!) di euro all'anno per i 978 ettari di Concessioni.

E veniamo appunto alle spiagge. Secondo il WWF sui Nostri litorali ci Sono 12.000 Stabilimenti balneari (erano 5.368 nel 2001, cioè Meno della meta), UNO OGNI 350 metri, per un totale di 18.000.000 metri Almeno Quadri e 900 km Occupati - ovvero quasi un quarto della balneazione idonea alla costa (Io sono un 4,000 km Sugli 8,000 km di coste italiane). Un giro di affari Che INTERESSA 30.000 Aziende. I canoni? Ridicoli. Nel 2012 l'Agenzia del Demanio ha incassato 102,6 Milioni di euro Dagli Imprenditori delle spiagge. In media, poco Più di 3 mila euro a testa per Stabilimenti Che possono Superare i 10 mila metri quadri ei 10 mila euro a testa di abbonamento stagionale. This senza Contare l'evasione fiscale relativa: ai guadagni Lauti. Guadagni Che potrebbero Essere addirittura un quintuplo dell'effettivo!

Adesso si Pensa persino di venderle QUESTE spiagge, spiagge di Che FATTO A dire il vero Sono Già privato, Visto Che le Concessioni si rinnovano Automaticamente alla Scadenza. "A pensar male si fa DEGLI ALTRI peccato, ma si indovina Spesso" Diceva Andreotti. Non E da escludere Che il Pdl voglia Vendere le spiagge date Che, Secondo la Direttiva Bolkenstein, nel 2015 occorrerà rifare Tutte le gare per osare in Concessione il demanio marittimo. Buona parte delle Concessioni Oggi sono data stato senza gare ad evidenza pubblica e, venire Detto, si rinnovano Automaticamente alla Scadenza. Chiaro Che l'Applicazione della "Direttiva servizi" costituirà una bella svolta per il florido Mercato delle Concessioni Marittime, e Magari per i rapporti clientelari Che intercorrono Tra i gestori e le Amministrazioni Pubbliche. Però, se le spiagge prima del 2015 si vendessero, beh Allora cambierebbe tutto.

Protesta e si oppone perfino il senatore Ermete Realacci. Ma se poi dovesse chiedercelo l'Europa?L’Unità, 10 novembre 2013
Si combatte sulla sabbia una delle battaglie sulla legge di Stabilità. Il mondo ambientalista è in rivolta contro l’idea del Pdl di fare cassa attraverso la vendita delle spiagge italiane. O meglio, di quella parte di terreno compresa fra la strada e la zona ombrelloni, attualmente data in concessione agli imprenditori che vi gestiscono chioschi, stabilimenti e punti di ristorazione.

Una questione annosa

A puntare sulla cosiddetta «sdemanializzazione» di queste aree è il berlusconiano Sergio Pizzolante, primo firmatario dell’emendamento (uno dei tremila che saranno sottoposti la prossima settimana al vaglio del Parlamento) su cui ieri si è scatenata una vera tempesta polemica. «È una grande occasione per un’opera di riqualificazione delle strutture turistiche italiane», è convinto il pidiellino. La questione delle concessioni per la verità è annosa e riguarda 30mila imprese italiane, il cui diritto all’utilizzo della superficie pubblica è stato rinnovato automaticamente fino al 2009.

Con l’entrata in vigore della direttiva Bolkestein, l’Unione europea ha imposto la messa a gara degli spazi con un bando internazionale e concessioni più limitate nel tempo: il che, visti i possibili concorrenti di stazza continentale, metterebbe a serio rischio i piccoli operatori che lavorano nel settore da decenni. Va anche detto che i costi degli «affitti» che i gestori dei bagni pagano sono molto variabili: in molti casi si tratta di cifre che lo Stato considera risibili rispetto ai guadagni dei privati, in alcuni altri si eccede nel senso opposto, come è capitato recentemente con i maxi-canoni pertinenziali. Fatto sta che in questi anni si è andati avanti di proroga in proroga e i governi non sono ancora riusciti a trovare la quadra.

In questo contesto si inserisce il blitz del Pdl. «L’emendamento prevede il passaggio dal demanio al patrimonio dello Stato delle aree dove vivono i manufatti e le proprietà immobiliari degli stabilimenti, con l’obiettivo di privatizzazione con diritto di opzione per i concessionari già esistenti spiega Pizzolante -. Arenili e ombreggi rimangono demanio pubblico». Una manovra che, sempre secondo i conti Pdl, porterebbe tra i 5 e i 10 miliardi di euro nelle casse del Tesoro.

Una pericolosa testa di ponte

Ma la strategia di cedere per sempre parte delle coste è una pericolosa testa di ponte per liquidare un patrimonio di tutti gli italiani. Tagliente l’ecodem Ermete Realacci, presidente della Commissione Ambiente della Camera: «La proposta di vendere le nostre spiagge è impresentabile e offende la dignità dell’Italia. Aspettiamo solo che qualche emulo di Totò proponga di vendere la Fontana di Trevi». Con un tweet che non ammette repliche, parte all’attacco Nichi Vendola, leader di Sel e governatore della Puglia: «Abusivismo, cementificazione, condoni. Cos’altro vogliono fare alla nostra Italia? Non permetteremo in alcun modo un altro colossale scempio delle coste del nostro Paese».

Ne fa una questione «culturale» Emma Petitti, deputata riminese del Pd. Ma non solo: «Quella del Pdl è una proposta irricevibile scandisce la parlamentare, che nel territorio di provenienza si è trovata più volte a fare i conti con la questione -. Prima di tutto perché apre a possibili ricorsi da parte dell’Unione europea, che potrebbe sanzionarci per la mancata applicazione della Bolkestein». La materia è complessa e «non tutte le spiagge sono uguali». Per regolarla è necessaria «un accordo tra la conferenza Stato-Regioni e gli enti locali, per poi trattare da una posizione più solida con l’Europa argomenta Petitti Noi vogliamo tutelare il patrimonio e insieme mettere nelle migliori condizioni di lavorare gli operatori, a cui è giusto dare maggiori certezze per il futuro».

I Verdi, da parte loro, sono pronti a mobilitarsi: «Vendere le spiagge è una cosa schifosa, un delitto contro gli italiani, che verrebbero derubati di un bene che appartiene a tutti afferma il leader Angelo Bonelli Per fermare questa indecenza siamo pronti a incatenarci al Parlamento». Legambiente si rivolge al governo: «Il demanio non può essere svenduto. Ci aveva già provato l’ex ministro Tremonti con la vendita del «diritto di superficie» per 90 anni, ora ci riprova il Pdl con l’emendamento alla legge di Stabilità osserva Sebastiano Venneri, responsabile Mare dell’associazione Chiediamo ai ministri Orlando e Bray di intervenire per sventare questa assurda prospettiva».

L'autore replica da par suo a un'osservazione critica che, nella postilla a un suo articolo sulla manomissione di piazza Verdi a La spezia avevamo mosso a una sua affermazione. Un chiarimento utile e condivisibile, con tre precisazioni in una ulteriore postilla

Chiudendo un brevissimo articolo sul (brutto) progetto di Daniel Buren che, per volontà di un sindaco democratico (nel senso di appartenenza partitica), minaccia di stravolgere la storica Piazza Verdi della Spezia, ho scritto (sul «Fatto» del 4 settembre scorso) che «ciò che davvero non capisco è come un sindaco di sinistra, invece di concentrarsi sulle periferie, preferisca gingillarsi con un centro storico che può solo rovinare. E questo non è un problema estetico: è un problema democratico».

Edoardo Salzano, riprendendo con la consueta generosità l'articolo su eddyburg, si è tuttavia detto sorpreso che dalla mia penna sia uscita quell'ultima affermazione: « Se davvero Montanari condividesse quello che gli è scappato dovrebbe rimproverare Ignazio Marini che ha coraggiosamente ripreso l’antico disegno, avviato da Luigi Petroselli, di liberare l’area dei Fori per far ripartire proprio dal centro antico il ridisegno di una nuova Roma, e avrebbe criticato, a Napoli, la prima giunta Bassolino, che proprio dalla liberazione dalle auto della centralissima Piazza Plebiscito (che qualche sprovveduto vorrebbe oggi rinnegare) avviò il “Rinascimento napoletano”, culminato nell’approvazione del PRG del 2004».

Il tema è importante, e la lapidarietà della mia frase poteva in effetti lasciare qualche dubbio. E dunque: è giusto o no che, nell'Italia del 2013, un sindaco di una città storica metta tra i pochi punti della sua agenda politica uno o più interventi sul centro della sua città? Vorrei rispondere, con Michelangelo: sì se questi interventi sono «per via di levare», no se essi si intendono «per via di porre».

In altre parole, togliere le auto va benissimo. Ma nel caso di Roma bisognerebbe anche togliere le autostrade fasciste che schiacciano i Fori: sennò rischiamo di fermarci ad una cosmesi quasi renziana. Quanto al Rinascimento napoletano di Bassolino, è meglio stendere un velo pietoso: Napoli ne è uscita peggio di come ci era entrata.

Io parlavo però degli interventi per via di porre. In teoria neanche io sono contrario ad inserzioni contemporanee in tessuti antichi: ma in pratica queste inserzioni si risolvono nel 90 % dei casi in stupri architettonico-urbanistici fomentati da speculazioni selvagge. Si tratta, dunque, di una scommessa difficilissima.

Ed è qui che mi chiedo: avendo soldi, energie culturali, e tempo limitati, un sindaco di sinistra di oggi deve proprio cimentarsi in quella ardua scommessa, per nulla obbligatoria? Non sarebbe meglio che si dedicasse alla redenzione urbanistica, sociale e culturale delle immense periferie che le ultime generazioni hanno creato? Non si tratta di un dogma: si tratta di puro buon senso.

Prendiamo il caso della mia Firenze. Io non vedo francamente alcuna urgenza di «rilanciare il centro di Firenze» (se lo 'lanciamo' un altro po' ci ritroviamo come a Venezia). Firenze è una città riversa da secoli sul microcosmo racchiuso dai viali. Anzi, sui pochi isolati che stanno tra il Battistero e l'Arno. Una barriera invisibile separa la città del passato (il centro) dalle possibili incubatrici di futuro, l’altra città, materialmente e culturalmente abbandonata a se stessa.

Coerentemente, il discorso pubblico ruota ossessivamente sul centro storico e sul paesaggio toscano, mentre rimuove sistematicamente ciò che sta nel mezzo. Siamo come una famiglia (decaduta) che viva in una grande casa con un salotto splendido e un giardino incantato (entrambi ereditati dagli avi), separati da alcune stanze degradatissime e abbandonate (realizzate da noi), dove vive la maggior parte della famiglia stessa. Ha senso discutere solo della possibilità di spostare o meno qualche ninnolo nel salotto perfetto, o sul rischio di laccare il bellissimo parco? Non sarebbe meglio dedicare le nostre energie politiche, economiche, intellettuali ed artistiche al riscatto urbanistico e sociale delle periferie? Non è questa la vera, drammatica urgenza, a Firenze e in Italia? L'ambizione della nostra generazione si riduce a mettere un irrilevante e discutibile cappello moderno agli Uffizi, o nutriamo la speranza di correggere, redimere, rendere umani gli spaventosi cimiteri verticali dei vivi con i quali noi stessi abbiamo circondato il centro che tanto ci ossessiona?

postilla

Ti ringrazio molto per la tua precisazione: non mi aspettavo nulla di diverso. Tre sole precisazioni da parte mia. Non è “generosità ” che mi spinge a pubblicare spesso i tuoi articoli, ma interesse, condivisione, e servizio ai frequentatori di questo sito. Per quanto riguarda Napoli, non è giusto secondo me racchiudere il giudizio su quell’esperienza solo nel confronto tra i primi anni del governo Bassolino e l’oggi; insegnamenti molto utili scaturirebbero da un’analisi del percorso e delle tappe intermedie. Ma certo è un lavoro che spetta più agli urbanisti che agli storici dell’arte. Per Roma, infine, dopo le mie iniziali perplessità mi sembra che la giunta Marino abbia chiarito che non di cosmesi si tratta, ma della ripresa del progetto di Cederna e Petroselli che comprende l’eliminazione della superfetazione di via dell’Impero (non ricordo molte critiche quando lo sconcio interrvento mussoliniano fu canonizzato dal vincolo del Mibac). E' un progetto che concerne l'intera città e non solo il suo centro. Del resto, l'attenzione di Ignazio Marino per le periferie è testimoniata dal fatto che ha scelto, quale assessore all'urbanistica, Giovanni Caudo che da anni dedica alle periferie romane tutta la sua attenzione e il suo impegno scientifico, professionale e umano.

E’ possibile oggi, e soprattutto è giusto, modificare radicalmente i luoghi sensibili della città senza coinvolgere i cittadini? C’è chi pensa di no; anche noi, ma.... Il Fatto Quotidiano, 4 settembre 2013, con postilla

Il sindaco Massimo Federici (Pd) è deciso a rifare Piazza Verdi, che è uno dei pochi luoghi di La Spezia che è uscito indenne dai bombardamenti, nonché un prezioso esempio di spazio pubblico razionalista. In un primo momento, la soprintendenza (basandosi su dati inesatti) ha autorizzato un progetto che prevede largo uso di cemento e l’abbattimento di pini di 70 anni. Ma, una volta insediato Massimo Bray, il Mibac ha chiesto alla stessa soprintendenza e alla Direzione regionale della Liguria di approfondire la questione, e stabilire quali siano i veri obblighi di tutela relativi a Piazza Verdi. Nel frattempo, i cittadini protestano. Un appello, che ha già raccolto 1.300 firme, denuncia che “l’intervento snatura irrimediabilmente l’identità del luogo, cancellandone in modo irreversibile la memoria storica, smantella la piazza esistente inserendo elementi estranei e di qualità architettonica discutibile, al posto delle alberature centrali: portali e pilastri luminosi, vasche squadrate che non si armonizzano con i palazzi circostanti”.

Ci si chiede ancora una volta come sia possibile pensare di stravolgere una piazza centrale di una città, senza coinvolgere i cittadini, cioè i legittimi titolari dei diritti sulla città, calpestando un diritto sancito dalla nostra Costituzione e ignorando che la Comunità europea dispone che i progetti co-finanziati Ue siano condivisi con la popolazione. La battaglia dei cittadini della Spezia è una battaglia di civiltà, in difesa di un bene comune e dell’assetto storico di una piazza italiana, che appartiene al patrimonio culturale del Paese, tanto più in una città che ha perduto parte del suo patrimonio artistico e che dovrebbe concentrarsi sulla conservazione di quello residuo operando interventi di restauro, rispettosi dei valori identitari, e non avventurarsi in discutibili operazioni milionarie di facciata del tutto decontestualizzate. Del progetto di Daniel Buren si può pensare ciò che si vuole (io lo ritengo assai brutto), ma ciò che davvero non capisco è come un sindaco di sinistra, invece di concentrarsi sulle periferie, preferisca gingillarsi con un centro storico che può solo rovinare. E questo non è un problema estetico: è un problema democratico.

postilla
Neanch’io voglio entrare nel merito della qualità del progetto (che peraltro anche a me sembra bruttissimo). E non sono pregiudizialmente contrario all’introduzione di elementi contemporanei nella città antica. Ma so che la città non è solo le sue pietre, ma anche la comunità che la vive. So anche che per gli spezzini Piazza Verdi è un simbolo vivo della continuità della sua storia attraverso i drammi e le distruzioni: era l’unico spazio pubblico rimasto indenne dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, e rispettato nella ricostruzione postbellica. Decidere di cambiarne vistosamente l’aspetto senza aver preventivamente discusso delle diverse ipotesi progettuali con i cittadini è stato un errore grave: imperdonabile in una fase di crisi delle istituzioni e delle altre forme di rappresentanza democratica. Intestardirsi significa intendere il ruolo di eletto come potere arrogante anziché come servizio alla collettività.
Ciò detto, non concordo con l’affermazione conclusiva di Montanari, che mi sorprende esca proprio dalla sua penna. Se davvero Montanari condividesse quello che gli è scappato dovrebbe rimproverare Ignazio Marini che ha coraggiosamente ripreso l’antico disegno, avviato da Luigi Petroselli, di liberare l’area dei Fori per far ripartire proprio dal centro antico il ridisegno di una nuova Roma, e avrebbe criticato, a Napoli, la prima giunta Bassolino, che proprio dalla liberazione dalle auto della centralissima Piazza Plebiscito (che qualche sprovveduto vorrebbe oggi rinnegare) avviò il “Rinascimento napoletano”, culminato nell’approvazione del PRG del 2004

La protesta di Gezi Parik e i beni comuni come base materiale della democrazia. I nessi profondi tra spazi pubblici e sfera pubblica, omologhi a quelli tra urbs civitas e polis. 3 gennaio 2013

Circola sui social network uno slogan sulla protesta di Istanbul: "Questo non è per un parco, questo è per la democrazia" ("This is not about a park, this is about democracy").

Capisco che per chiunque l'abbia inventato può apparire importante mostrare che le loro richieste stanno dentro un più vasto ordine delle cose. La loro intuizione è nel giusto almeno su un punto: per attirare l'attenzione del pubblico mondiale certamente funziona meglio caratterizzare le tue come lotte per la democrazia piuttosto che solo per "uno stupido parco".

Queste altre cose – far sentire la propria voce, la condanna dell'abuso di potere dello Stato, la libertà di espressione e della stampa, il rispetto dei diritti delle minoranze – sono tutte ovviamente cose di valore e, non fraintendetemi, sono con voi, pienamente, senza condizioni, senza cinismo, e con chi genuinamente vuole avanzare questa più generale agenda democratica.

Tuttavia, non ci sarebbe stato niente di male se la cosa fosse stata anche "solo" per un parco. Andrebbe molto bene lo stesso, anzi! E vi dirò perché. Casi come la vicenda urbanistica del Gezi Park di Istanbul sono un noioso eterno ritorno dell'uguale. Sono tentativi di appropriazione dei beni comuni attraverso le moderne forme di chiudende, dove spazi pubblici, luoghi, l'ambiente vengono sottratti dalla sfera pubblica e asserviti alla logica del privato profitto.

Queste operazioni non portano nessun beneficio collettivo, soprattutto per i residenti locali che dovrebbero essere i primi detentori del diritto alla città. Non si tratta solo del diritto di avere una città che funziona anche per loro, ma soprattutto il diritto di prendere parte al processo di pianificazione su come la loro città dovrebbe essere costruita ed organizzata.

Demistifichiamo una cosa. Non stiamo qui parlando del Bene Comune, ma dei beni comuni. Il dibattito su che cosa sia un generale bene comune è complicato, e il termine può essere (ed è stato) facilmente appropriato e mistificato. Piuttosto, i beni comuni sono, beh, dei beni: cose molto concreto come terra, luoghi, piazze, e parchi pubblici.

Fintanto che restano comuni, essi forniscono un qualche servizio pubblico e sono per definizione sotto qualche giurisdizione collettiva. Infatti, i beni comuni sono societari su un più fondamentale livello di qualunque altro moderno diritto o servizio dello Stato sociale. Anche storicamente, prima di avere questi ultimi, la sfera politica è emersa come una questione su come e che cosa significhi governare i beni comuni.

Dunque, la questione dei beni comuni è la questione sulla qualità della nostra democrazia. Se non vogliamo che la nostra democrazia sia solo un dibattito sui diritti dei gay, sul testamento biologico, o su simili cose (di nuovo, sto totalmente con voi!), abbiamo bisogno dei beni comuni, perché essi sono ciò per cui serve la democrazia. In questo preciso senso, i beni comuni sono la fondamentale base materiale della democrazia e quindi la loro difesa e l'estensione è anche la difesa e l'estensione della democrazia.

Non sono così informato da conoscere tutte le rivendicazioni che bollono in pentola né quale eterogenesi dei fini abbia culminato nella protesta di Gezi Park. Voglio solo dire che non avrebbe sminuito la sua importanza se questa cosa di Istanbul fosse stata "solo per un parco", perché per questa precisa ragione sarebbe molto stata anche per la democrazia. Per questo, lo slogan poteva anche essere: "Questo è per un parco, e per questo è per la democrazia."

Lunga vita a Gezi Park.

Un Comunicato stampa dell’Istitutonazionale di urbanistica a conclusione della seconda edizione dell’iniziativa. Un evento su cui torneremo presto. 19 maggio2013

Un bilancio conclusivo molto positivo.Si è conclusa la seconda edizione della Biennale dello spazio pubblico, la tregiorni di eventi che si è svolta a Roma alla Casa dell'Architettura e neilocali della Facoltà di Architettura di Roma Tre. La manifestazione èstata organizzata dall'Istituto Nazionale di Urbanistica con la collaborazionedi ANCI, Cittalia, Facoltà Architettura Roma 3, Consiglio nazionale architetti,Casa dell'architettura, Ordine architetti di Roma ed il sostegno di CornellUniversity.
Hanno partecipato oltre 2000 persone,decine di Associazioni e Comitati, docenti, studenti, imprenditori, cittadini.Si sono alternati 440 relatori nelle assemblee e nei 26 tra seminari eworkshop, nazionali e internazionali. Diffondere buone prassi realizzate inItalia e all'estero e stimolare il dibattito sul recupero degli spazi pubblici:questi in estrema sintesi sono stati gli obiettivi della manifestazione. Ilcoordinatore dell'evento, Mario Spada, spiega: "E' stato un grande,aperto, libero incontro tra persone che in vario modo, da diversi puntidi vista, professionali, sociali, accademici, si impegnano a miglioraregli spazi pubblici delle città e a realizzarli nelle aree periferiche eperiurbane che ne sono sostanzialmente privi. Quasi tutti i seminari e workshopsi sono svolti all'insegna della concretezza, della individuazione di percorsipraticabili di rigenerazione urbana".
Quindi non un astratto "superconvegno",sottolinea Spada: "Abbiamo lavorato, al contrario, tenendo sempre presentela necessità della concretezza e del coinvolgimento dei cittadini. Il viaggioin 13 comuni delle buone pratiche ha coinvolto oltre 700 persone di cui 187 tratecnici e funzionari comunali e 44 amministratori; Il percorso "La cittàche vogliamo" cha visto iniziative di comitati di quartiere in 30 città epaesi; ci sono stati poi numerosi concorsi e le call for papers. E' stato ungrande incontro con lo scopo di trovare un linguaggio comune che metta tutti ingrado di fare la propria parte per contrastare le frequenti minacce allacoesione sociale e migliorare i luoghi ove questa si esprime e realizza".
Spada "lancia" già la terzaedizione: "Presto faremo un'assemblea per impostare le nuove attività, perritrovarci ancora a Roma tra due anni e proseguire nel nostro percorso.Puntando a crescere, con entusiasmo".
Nell'ambito della Biennale è statosottoscritto anche un importante accordo tra l'Istituto Nazionale diUrbanistica e il Programma Insediamenti Umani delle Nazioni Unite, UN-Habitat.Si tratta di un patto di mutuo sostegno e collaborazione per la promozionedello sviluppo urbano sostenibile e delle buone pratiche nella progettazione enella gestione degli spazi pubblici nelle nostra città. Agli organizzatoridella Biennale è arrivato anche il saluto del presidente della Regione Lazio,Nicola Zingaretti: "Dentro l'idea dello spazio pubblico c'è un'ideaprecisa di come vorremmo che fosse la nostra comunità. E appuntamenti come laBiennale dello spazio pubblico sono importanti per questo: perchécontribuiscono a creare una nuova consapevolezza delle priorità su cui agire ead affermare nuove visioni e un nuovo punto di vista sul mondo".

Scene di vita di neo-bohème

di Adriano Solidoro

Molto si è già detto a proposito dell'occupazione della Torre Galfa, e successivamente di Palazzo Citterio, da parte del collettivo artistico milanese Macao. E molto se ne dirà ancora, perché è una vicenda che non può dirsi conclusa con gli sgomberi. A Milano la discussione è ancora accesa e le domande che sono emerse, per la politica e per la città, sono tante. Il dibattito si è per lo più fin qui concentrato sulle questioni legate alle condizioni della legalità dell'occupazione o sulle ragioni e la forma di protesta degli occupanti. Come è giusto. Come è ovvio. E tuttavia, a mente fredda e con animi rasserenati, l'intero tema può essere valutato in un'ottica differente, appropriata alla complessità degli interessi in gioco, che non sono solo quelli della proprietà degli immobili o di un gruppo di «creativi», ma di aree urbane, di comunità, della città tutta.

Si è per esempio appena sfiorato il tema dell'integrazione, tra politiche cittadine e politiche culturali, delle opportunità che possono nascere da un inserimento della scena artistica indipendente in queste strategie. Il modello è quello di città come Parigi, Londra, Berlino, Amsterdam e Amburgo dove gli edifici abbandonati, anche privati, possono essere affidati agli artisti con la vigilanza delle amministrazioni o dove associazioni nate occupando abusivamente spazi vuoti, ora collaborano con l' amministrazione cittadina, dando il proprio contributo di innovazione e creatività. Certo, le «buone pratiche» internazionali, anche quelle eccellenti, non sono ricette che vanno bene per tutti e per ogni città, come differenti sono le comunità per natura e obiettivi. Ma sono comunque opportunità di apprendimento intorno a un denominatore comune, quello dell'integrare, nelle politiche e nelle strategie cittadine, pratiche alternative di innovazione in sistemi locali capaci di offrire discontinuità ad alcuni contesti in degrado.

Notti bianche a Stalingrad

I modelli proposti da queste città enfatizzano anche come molte attività culturali abbiano ormai luogo al di fuori della sfera dell'ufficialità. Radio di quartiere suonano la musica di band do it yourself, esperimenti di Social tv allestiscono propri palinsesti sui contenuti prodotti dagli utenti, documentari indipendenti hanno festival dedicati e vengono proiettati anche nelle scuole, e performance artistiche partecipative, giochi urbani e iniziative di guerrilla gardening reinventano lo spazio urbano a beneficio della comunità. Si tratta di pratiche emergenti che, pur fuori dalle logiche commerciali e dalle costrizioni dell'accademia e della moda, indicano la necessità di superare la distinzione tra cultura e controcultura, mainstream e underground, popolare e avanguardia, entertainment e sperimentazione. L'eclettismo è il tratto distintivo di questa produzione culturale.

Agli appuntamenti organizzati dai centri sociali partecipa oggi un pubblico eterogeneo, che varia da coloro che si riconoscono nell'area della dissidenza, a studenti, a giovani professionisti, fino a artisti e designer già affermati che ricercano nell'atmosfera underground il tocco dell'autenticità. E nei negozi di design, agli oggetti proposti dai grandi nomi si affiancano quelli realizzati con materiale di riciclo da piccole botteghe artigianali. Si tratta insomma di una produzione (e di un consumo) eclettico e onnivoro, che si destreggia tra i diversi stili e registri. È il fenomeno della neo-bohème, così come lo ha definito Lloyd Rodwin studioso del Mit e autorità mondiale nel campo della pianificazione urbana. Un contesto culturale in cui le espressioni di arte indipendente non sono più interpretabili esclusivamente come in opposizione alla cultura mainstream o come resistenza alla cultura egemonica, ma come «nicchie» di mercato. Nicchie nelle quali alcune città hanno già cominciato a riconoscere una risorsa significativa, a dimostrazione che nei governi locali cresce la consapevolezza delle opportunità provenienti da politiche culturali non limitate alla fornitura di servizi locali. Sostenere le arti e la cultura, anche quella alternativa e indipendente, è anche sostenere lo sviluppo (e la ripresa) dell'economia locale.

Ma come può avvenire l'integrazione tra politiche urbane e culturali e scena artistica indipendente? A Parigi, l'integrazione è avvenuta in concomitanza con l'elezione a sindaco di Bertrand Delanoé nel 2001 (poi rieletto nel 2008). Dopo 25 anni, il controllo del governo locale tornava a un Consiglio comunale socialista e il mutamento politico si è presto tradotto in nuovi orientamenti. Agli artisti viene concesso l'utilizzo di spazi temporanei per lavorare e esporre, oltre all'opportunità di offrire attività culturali alle comunità dei quartieri. Così facendo, l'amministrazione cittadina si attribuisce il merito dell'emergere di nuove scene culturali e creatività locali, le quali rappresentano potenziali fattori di messa in moto di dinamiche di riqualificazione urbana. Per le aree interessate, la presenza di artisti in spazi in disuso rappresenta un valore simbolico, ma anche economico, in un'ottica di rivitalizzazione (e rivalutazione) che passa anche attraverso le attività culturali. È una strategia non priva di opportunismo, ma per gli artisti rappresenta un riconoscimento del proprio ruolo sociale, oltre che una concreta opportunità.

Il caso del quartiere La Chapelle- Stalingrad illustra bene come la dinamicità della scena artistica indipendente possa rappresentare uno strumento di pianificazione e come gli artisti indipendenti possano essere vettori simbolici del passaggio dal degrado all'allure bohème. A lungo trascurata dalle autorità locali, l'area di La Chapelle-Stalingrad ha ospitato dal 2001 diversi tipi di intervento urbano, alcuni dei quali sono stimolati dalla partecipazione di collettivi della scena indipendente. Numerosi spazi in disuso vengono destinati ad attività culturali e artistiche. La maggior parte delle performance durante la prima Nuit blanche (idea poi esportata in tutto il mondo) si è tenuta qui, così come altre iniziative simbolo del cambiamento di orientamento culturale e politico di Parigi. Iniziative che sono state strumenti di marketing locale e «city branding» rivolti alla cittadinanza, per comunicare quanto le autorità locali facciano per la comunità, e al tempo stesso azioni per attrarre turisti, nuovi residenti e investimenti.

Concedere l'utilizzo temporaneo a comunità di artisti è anche un vantaggio per i proprietari degli immobili che in questo modo evitano la fatiscenza degli spazi e il rischio di occupazioni illegali. L'azienda delle ferrovie francesi, Sncf, proprietaria di molte aree in disuso del quartiere di La Chapelle-Stalingrad, per esempio, ha messo in atto una strategia interessante (non meno opportunistica) per affrontare il problema. Nel momento in cui un edificio è vuoto e non è oggetto di piani di recupero specifici, l'azienda autorizza associazioni no-profit e collettivi artistici a occuparli. Ciò con grande vantaggio del quartiere, in quanto fruitore di servizi sociali ed attività culturali.

Tra le macerie del Muro

In linea con le politiche culturali cittadine, il Comune parigino ha steso nel 2006 la prima convenzione di occupazione, un contratto fiduciario per l'occupazione temporanea ma legale di un immobile da parte di una comunità di artisti. Dal 2006 a oggi, altri 17 collettivi hanno sottoscritto lo stesso tipo di contratto di occupazione. La convenzione stabilisce che il Comune possa visionare l'attività degli occupanti, i quali si impegnano a curare la manutenzione dell'immobile e a svolgere attività artistiche, senza fini di lucro. Ogni situazione viene vagliata nella sua specificità. Se valutata positivamente, l'occupazione viene concessa per un periodo di tempo dietro il pagamento di un affitto di locazione per lo più simbolico.

Altri esempi di politiche cittadine che integrano luoghi di produzione artistica indipendente nel tessuto culturale ed economico vengono da Berlino. Nonostante il grande sviluppo urbanistico seguito alla Caduta del Muro, il paesaggio della città rimane disseminato da una grande quantità di spazi vuoti e aree interstiziali in stato di degrado. Siti in disuso che possono venire concessi temporaneamente o ad interim a vari attori urbani, attivisti o artisti, associazioni o imprenditori culturali. Questo tipo di utilizzo degli spazi si innesta nelle politiche economiche e urbane e nelle narrazioni orientate alla promozione di Berlino come «città creativa». Narrazioni riprese e diffuse dai media negli ultimi dieci anni.

Nel 2001, come a Parigi anche a Berlino si insedia al governo della città una coalizione di sinistra. Guidata dal sindaco Klaus Wowerei (attualmente al terzo mandato), la giunta eredita una città sull'orlo della bancarotta e ben poco spazio di manovra. Rispetto ad altre città tedesche, il tasso di crescita di Berlino è rimasto basso mentre quello della disoccupazione è in crescita. Uno dei pochi settori floridi è quello delle industrie creative. Diversi fattori spiegano la rapida crescita di questo settore a Berlino: in particolare la disponibilità di abitazioni a buon mercato, una preesistente concentrazione di realtà culturali alternative e una scena musicale e artistica che attrae giovani imprenditori culturali da tutto il mondo. L'utilizzo temporaneo di immobili in disuso è la conseguenza della necessità di spazi da parte di questa scena di sperimentazione culturale e artistica. Un esempio ne è Skulpturenpark, un progetto culturale e artistico collaborativo pensato da un collettivo di artisti attivisti che dal 2006 dà vita ad attività artistiche e interventi site-specific per la rivitalizzazione del quartiere di Mitte, un'area già lottizzata per costruzioni future.

Anche a Londra, la concessione di spazi temporanei ad artisti è una politica diffusa. L'Arts Council e alcune associazioni di artisti mediano con i proprietari di immobili per concessioni temporanee di spazi in disuso in cambio di lavori di restauro e manutenzione o dietro pagamento di locazione a prezzi molto vantaggiosi. La zona sud di Peckham è quella che negli ultimi anni ha visto il maggior numero di occupazioni. Zona associata all'alto tasso di criminalità e alle gang giovanili più che all'arte, Peckham è oggi teatro di una fiorente scena artistica indipendente che si avvale dei molti spazi industriali dismessi in prossimità di due importanti scuole d'arte, Goldsmiths School of Arts e Camberwell College. Scena artistica neo-bohème che partecipa alla riqualificazione dell'area attraendo molti artisti emergenti. Le occupazioni possono sembrare a molti sinonimo di degrado e marginalità, ma le molte realtà di Parigi, Berlino, Londra - e anche di Amsterdam e Melbourne, città che conducono politiche simili - testimoniano che artisti indipendente, collettivi, attivisti e centri sociali possono essere agenti di cambiamento, ricoprendo il ruolo di pionieri nel recupero di aree urbane.

Conflitti e mediazioni

Una prospettiva, tuttavia, non priva di problemi. Così come è avvenuto per Berlino, e in misura diversa per Parigi, è necessaria una rivisitazione delle procedure di pianificazione e di concessione. dato che gli utilizzi temporanei degli immobili non sono normalmente considerati come una fase del ciclo di vita dello sviluppo urbano, ma vengono associati a periodi di crisi, di mancanza di visione e di pianificazione. Tuttavia, al di là dei preconcetti, gli esempi di dinamicità di gallerie d'arte, teatri, spazi per attività temporanee dimostrano che questa prassi di utilizzo può diventare un elemento proficuo e innovativo nella cultura urbana contemporanea. In un periodo di restrizioni finanziarie e di devolution, in cui i governi locali dispongono di possibilità di investimento molto limitate, l'esempio, in particolare, di Berlino mostra come l'innovazione culturale nasca spesso in città «in crisi», che soffrono di un processo di deindustrializzazione, di crescita lenta o di contrazione.

Ulteriori problemi derivano dalle potenziali situazioni di conflittualità. Integrare l'attenzione ai movimenti alternativi o della controcultura nelle politiche urbane e culturali e nei discorsi del city marketing significa per le autorità locali sostenere - sebbene con cautela, e a volte persino nervosamente - forme di differenziazione e di alterità che possono anche essere in opposizione al proprio esercizio. Senza contare le difficoltà legate al ruolo di mediatore di cui il governo locale si deve far carico, dovendo equilibrare la richiesta di spazi con la disponibilità a concederne l'utilizzo da parte della proprietà. Né mancano questioni di sicurezza da considerare con attenzione. E ancora: spesso, anche in presenza di un accordo contrattuale che sancisce la temporaneità dell'occupazione, gli occupanti non intendono andarsene o chiedono di essere ricollocati altrove. I casi recenti di tentativo di sgombero di luoghi istituzionalizzati, e ormai luogo di pellegrinaggi turistici, dal quartiere Christiania a Copenhagen ai collettivi artistici di Les Frigos a Parigi e di Tacheles Berlino, sono lì a dimostrarlo. Inoltre, consapevoli del rischio di perdere la propria controcultura identitaria firmando un contratto o una convezione che implicitamente riconosce i benefici del sostegno culturale e amministrativo delle istituzioni, molti artisti mantengono un approccio antagonista verso la struttura pubblica. Così, pur ottenendo la disponibilità di utilizzare spazi offerti, preferiscono, fedeli al principio di mobilità, l'occupazione illecita di altri immobili. È la scelta, per esempio, per la quale ha optato Macao, che pure ricevendo l'apertura al dialogo della giunta Pisapia e l'offerta di spazi alternativi alla Torre Galfa, non ha voluto riconoscere la validità dell'interlocuzione e ha occupato Palazzo Citterio come atto dimostrativo dell'indipendenza del movimento.

Una nuova flessibilità

Si capisce quindi quali e quante siano le sfide poste dalle pratiche di uso temporaneo. Sfide lanciate alle forme convenzionali di pianificazione urbana, ma anche lezioni sulle opportunità di impiego delle risorse e sulle nuove forme di flessibilità ben diverse dai processi di sviluppo proposti dalla pianificazione delle autorità pubbliche o dal mercato.

La Rivoluzione Culturale

di Sandro Medici

Nella loro ritmica ormai battente e incalzante, le varie occupazioni "culturali" che si vanno moltiplicando nelle nostre città (l'ultima, Macao a Milano) stanno lì a segnalare che sta emergendo un nuovo bisogno che rivendica un nuovo diritto: quell'urgenza immateriale a costruire e a esprimere un proprio immaginario. Un impulso sociale intensissimo, esito della nostra contemporaneità, ma sequestrato da un sistema pubblico-privato mediocre, conformista e discriminatorio.

In queste lotte affiorano pratiche e contenuti che alludono a un nuovo modello di creare arte e cultura: sia per le modalità collettive, condivise, partecipate, insomma democratiche con cui si gestiscono le occupazioni, sia per il rifiuto di gerarchie disciplinari e formali della produzione artistica che si promuove al loro interno.Attraverso l'autogoverno del ciclo produttivo si ribaltano i tradizionali rapporti tra chi progetta e chi esegue, tra chi realizza e chi fruisce. Con la riappropriazione diretta dei palcoscenici e delle platee si spezza il modello classico che finora aveva regolato e gestito la manifattura immateriale, dove c'è chi finanzia e chi dirige, chi riceve un salario e chi paga il biglietto: un modello autoritario ed escludente, a volte opaco, spesso clientelare. Al contrario, queste esperienze vivono in un regime di democrazia assoluta (quasi ossessiva), nel rispetto di tutti e ciascuno, dove si contribuisce "al massimo delle proprie possibilità" e si riceve "al massimo dei propri bisogni".

Insomma, è in corso una rivoluzione culturale. Forse analoga a quella che tutto travolse negli anni Sessanta, quando gli "apocalittici" prevalsero sugli "integrati", e finalmente anche in Italia irruppe il moderno.Ora come allora, la politica fatica assai a cogliere questo cambiamento. Con le istituzioni pubbliche sempre più omologate e parassitarie, oltreché scarnificate dai tagli nei bilanci, e il mercato privato sempre più standardizzato e scadente, nutrito dal peggiore sfruttamento e improntato alla più odiosa discriminazione. Il berlusconismo di questi ultimi anni ha totalmente deteriorato il sistema: non ci sono leggi e regole, non c'è incentivazione alla produzione né tutela del lavoro, non c'è più ricerca espressiva né si valorizzano opere e contenuti. Resta solo l'indegno rituale delle nomine nei consigli di amministrazione. Ci si continua a contendere i direttori artistici e si litiga per piazzare manager, consulenti e perfino parrucchieri e falegnami, a promuovere autori e interpreti e finanche l'ultimo figurante, l'ultimo orchestrale.

Intanto, da Roma a Catania, da Venezia a Napoli, si susseguono esperienze di movimento che rivendicano il diritto a una produzione culturale indipendente. Entrano nei teatri abbandonati e li riattivano per evitare che muoiano o che si trasformino in sale da gioco, supermercati, miniappartamenti, palestre, centri benessere e chissà cos'altro. Occupano spazi vuoti e inutilizzati per trasformarli in centri di creatività, dove accendere scintille di piacere, dove suonare e cantare, recitare e ballare, creare suggestioni, allestire feste e spettacoli, invitare la gente a stare insieme e accoglierla con un sorriso. Per riprendere una felice definizione di Guido Viale sul manifesto di venerdì scorso: «È una nuova declinazione del rapporto tra arte e vita».

Insomma, si libera la cultura dalla gabbia del mercato e si strappa alla speculazione il patrimonio immobiliare. A nessuno sfugge quanto tali esperienze, nel loro affermare il primato del valore d'uso sul valore di scambio, siano in assoluta controtendenza rispetto al dominante modello economico, totalmente asservito alla mercificazione di uomini e cose, così come di conoscenze ed espressività. Bisogni e interessi opposti che depositano un antagonismo inconciliabile, che a sua volta, inevitabilmente, precipita in conflitto sociale: come quello che si sta consumando a Milano su Macao e dintorni. E prim'ancora, l'Angelo Maj, il teatro Valle, il cinema Palazzo, l'Astra, Garagezero, a Roma. E in tante altre analoghe battaglie, un po' dappertutto.C'è insomma in questo paese una vastissima area creativa, un insieme di professionalità, intelligenze, risorse, talenti che finalmente (e liberamente) affrontano a viso aperto la contemporaneità. Un movimento che non essendo né pubblico né privato, sfugge sia alle liturgie istituzionali che ai parametri del mercato. Tutta questa vitalissima animazione, avventata quanto determinata, restituisce una domanda politica che non può più restare inevasa, o peggio rifiutata e sgomberata.In altri paesi, in Germania, in Francia, questo tipo di esperienze vengono valorizzate e perfino finanziate: diventano servizio sociale, offerta culturale. Qui da noi, al contrario, sono scoraggiate, contrastate e a volte represse.

E ciò accade non solo per tutelare le accademie, i manierismi, gli agonizzanti repertori che stancamente ripropongono istituzioni culturali sempre più polverose e sempre più dipendenti dal potere politico. Ci si scaglia contro questi movimenti anche per salvaguardare le rendite immobiliari, i profitti speculativi, gli utili finanziari che ormai imprigionano l'urbanistica delle nostre città. Per difendere quei luoghi e quegli spazi, i tanti luoghi e i tanti spazi che sarebbero necessari per ospitare e far crescere la cultura indipendente. Quelle stesse volumetrie che i sindaci vengono obbligati a vendere per compensare la riduzione dei bilanci comunali e, nello stesso tempo, consentire la ripresa del mercato immobiliare.In tutte le nostre città c'è un consistente patrimonio dismesso e inutilizzato, edilizia residuale, volumetrie abbandonate, scatole vuote sparse nei quartieri. Forti, caserme e rimesse militari, ex stabilimenti produttivi, depositi inutilizzati, ex mercati, parcheggi, magazzini in disuso, fabbricati svuotati di funzioni. Tutta questa cubatura potrebbe essere ristrutturata e restaurata e poi riconvertita verso un utilizzo culturale, affinché diventino (o tornino a essere) beni comuni disponibili.

È un patrimonio immobiliare che va strappato alla logica della valorizzazione privata e riadattato a ospitare cantieri e laboratori creativi. Antenne e terminali insieme: sonde che intercettano il bisogno di socialità, collettori dell'offerta di servizi territoriali. Officine aperte a ciclo continuo che vivano di progetti ed esperienze, ma anche di semplici spunti e fantasie: che ascoltino e selezionino idee e proposte, nuovi linguaggi e nuovi strumenti, individuino e allevino nuovi talenti e nuove espressività, sui quali costruire stupori e fascinazioni, via via in grado di suscitare un salto nell'immaginario collettivo.Un circuito di "casematte" che facciano da contrappunto vitale alla monotonia urbana. Luoghi che favoriscano le condizioni affinché si sviluppi un processo condiviso, lungo il quale più soggetti intervengano. In un democratico e scambievole itinerario di autoformazione, con l'obiettivo di realizzare un prodotto culturale inclusivo. Una creatività che certo coinvolga emotivamente, susciti piacere, entusiasmo, ma anche costruisca coscienza critica, consapevolezza civica, e non da ultimo attivi percorsi professionali, sviluppi economie, distribuisca reddito, inauguri modelli di gestione innovativi.

Un programma di alfabetizzazione sociale, un grande progetto di animazione artistica. Ecco quel che ci vorrebbe per movimentare e stimolare la scena territoriale: inoculare globuli rossi nei nostri anemici e impauriti quartieri. Va da sé che un progetto di questo genere potrebbe perfino svelenire quelle relazioni umane sempre più ostili e incattivite. Ritrovarsi insieme in circostanze fuori dall'ordinario, come corpi senzienti disposti e fors'anche inclini all'allegria in una festa, durante uno spettacolo, non più annidati e barricati nei propri ridotti condominiali, alleggeriti dai consueti risentimenti, insomma gli uni vicini agli altri, a guardarsi e annusarsi, crea quel composto di chimica molto organica, quella tensione magnetica che possono facilmente suscitare cordialità e vicinanza, sentimenti di reciproca disponibilità.Oggi, grazie alle battaglie di riappropriazione culturale che attraversano il paese, tutto ciò potrebbe diventare possibile. Certo, aiuterebbe se sindaci e ministri, istituzioni e partiti riuscissero a capire che l'arte e la cultura sono soprattutto pratica sociale.

Esistono diverse interpretazioni relative ai "beni comuni". In effetti questa dizione è ambigua; noi cercheremo di spiegare che cosa le scienze economiche e sociali intendono per "beni comuni" (o commons ) a livello internazionale, e come invece il significato di bene comune cambia in un'accezione giuridica molto diffusa in Italia, che però ci sembra limitativa e che è senz'altro differente da quella dibattuta nel mondo. In sintesi estrema: per gli economisti il common è una risorsa condivisa che dovrebbe essere gestita dalla comunità di riferimento, per i giuristi (soprattutto in Italia) il bene comune è invece un diritto universale. Come vedremo, la questione definitoria non è sofistica o frivola, ma riguarda la precisione scientifica e ha conseguenze politiche. Per dirla con le parole di Stefano Rodotà, l'autorevole giurista che tra i primi ha avuto il merito di introdurre la questione dei beni comuni in Italia, «se la categoria dei beni comuni rimane nebulosa, e in essa si include tutto e il contrario di tutto,.... allora può ben accadere che si perda la capacità di individuare proprio le situazioni nelle quali la qualità "comune" di un bene può sprigionare tutta la sua forza».

Commons, risorse condivise

Per Elinor Ostrom, premio Nobel dell'economia, e per gli economisti e gli studiosi sociali dei beni comuni a livello internazionale, i commons sono risorse materiali o immateriali condivise, ovvero risorse che tendono a essere non esclusive e non rivali (un bene è "rivale" quando l'uso da parte di un soggetto impedisce l'uso da parte di un altro soggetto), e che quindi sono fruite da comunità più o meno ampie. Occorre sottolineare che la definizione economica è nettamente distinta da quella morale e giuridica. Infatti non è detto che i beni comuni siano necessariamente anche un bene in senso morale; e non è detto neppure che costituiscano un diritto primario degli individui e dei cittadini. Un pascolo, per esempio, può essere un bene comune ma non è né buono né cattivo, e non è neppure un diritto primario. I beni comuni si distinguono in questo senso dai "beni di merito", che - come l'acqua e il codice genetico - sono indispensabili per la sopravvivenza umana o hanno un alto valore morale o sociale, e che quindi devono essere tolti dal mercato e salvaguardati giuridicamente per garantirli a tutti gli esseri umani.

A differenza dei beni meritevoli, la caratteristica specifica e peculiare (e positiva) dei beni comuni non è morale: consiste invece nel fatto che è difficile escludere qualcuno dall'utilizzarli, e che sono anche tendenzialmente non rivali, cioè possono essere fruiti contemporaneamente da più persone o da comunità di utenti - come le conoscenze, Internet, l'ambiente, Wikipedia e le reti. Quindi la definizione di common della Ostrom è oggettiva, cioè relativa innanzitutto alle caratteristiche strutturali e funzionali intrinseche di certi beni rispetto ad altri. Ma i commons hanno una specificità eccezionale: possono essere gestiti in maniera più efficiente, innovativa e sostenibile dalle comunità di riferimento. E, reciprocamente, se invece sono gestiti dai privati o dallo Stato cioè in favore di élite privilegiate, private o pubbliche - in generale vengono gestiti in maniera non ottimale, cioè con sprechi e inefficienze e in modo non sostenibile nel tempo.

Questa è la vera grande scoperta scientifica di Elinor Ostrom: non è vero che se i commons sono gestiti dalle comunità allora vengono devastati, e che si verifica necessariamente la "tragedia dei beni comuni" come sosteneva la teoria dominante di Garrett Hardin. Non è vero, come suggeriva Hardin, che per gestire i beni comuni ed evitare la tragedia del sovraconsumo occorra privatizzarli o statalizzarli, cioè imporre delle regole esogene. Anzi è vero il contrario: le foreste gestite (o cogestite) dalle comunità locali sono in generale (non sempre) gestite meglio e in maniera più sostenibile di quelle sotto il dominio dello stato o delle corporations . Internet deve il suo grande successo al fatto che è gestita dalle comunità di scienziati, ricercatori, informatici, utenti, i quali impongono che i suoi standard non siano brevettati e siano aperti e gratuiti.

Wikipedia è la principale enciclopedia al mondo ed è gestita in maniera aperta dalle comunità di utenti e da una fondazione che li rappresenta. La scoperta della Ostrom è che le comunità possono consolidare rapporti di fiducia reciproca e autoregolarsi grazie a interessi comuni, a pratiche comuni, alla comunicazione costante, a sperimentazioni per prova ed errori, e possono sviluppare competenze elevate. Il vantaggio rispetto ai privati e allo stato è che le comunità hanno più interesse a conservare e sviluppare i beni comuni perché per loro i commons possono costituire risorse essenziali, e perché ne hanno esperienza diretta, e quindi in generale (anche se non sempre) le comunità hanno la migliore competenza per gestire i "loro" commons in maniera sostenibile. Inoltre - e questo è l'altro fattore di novità rivoluzionaria - la gestione comunitaria dei beni comuni comporta un nuovo modo di produzione cooperativo e non competitivo.

Il messaggio della Ostrom deriva la sua forza diromenpte proprio da questi due fattori: la gestione comunitaria dei commons è più efficiente di quella privata e statale grazie a un modo di produzione autoregolato e fondato sulla cooperazione, sulla partecipazione, e su gerarchie concordate e non autoritarie (come nelle scienze e nel software open source ). È su questi elementi forti che le teorie della Ostrom si collegano in qualche modo alle teorie di Marx, che voleva che nel comunismo i mezzi di produzione diventassero comuni in quanto frutto della cooperazione sociale.

L'economia policentrica e i semicommons

Ostrom "ha scoperto" (e auspica) un'economia policentrica non più costretta al dilemma privato o stato8 ma fondata anche sulla proprietà comune. Avverte che la questione dei beni comuni non è "arcaica" e non riguarda solo beni e modi di produzione "marginali o primitivi", come i pascoli alpini o le zone costiere di pesca, ma riguarda anche Internet, l'ambiente, le scienze, il software e le stesse aziende: queste ultime sarebbero infatti dei semicommons, dei sistemi ibridi che combinano beni privati esclusivi e beni comuni9 . Ostrom avverte anche di non confondere i regimi di Common Property con quelli Open-Access. I regimi open access, ad accesso libero, sono quelli - come il mare aperto e l'atmosfera - in cui nessuno ha il diritto legale di escludere altri; al contrario i regimi di common property sono quelli in cui i membri di un determinato gruppo condividono la risorsa comune ma possono disporre anche dei diritti di esclusione dall'uso di quella risorsa.

Enti per gestire i commons

Le analisi sui commons sono riprese dall'imprenditore sociale Peter Barnes. Barnes suggerisce che per difendere e sviluppare i commons occorre che questi siano dati in proprietà a delle fondazioni no profit che abbiano per statuto come scopo sociale quello di preservarli e svilupparli a favore delle comunità e delle generazioni future. Le organizzazioni no profit dovrebbero essere completamente autonome dallo stato e dai privati, e potrebbero inoltre vendere sul mercato il surplus eventualmente disponibile a prezzi equi e non discriminatori, e redistribuire i proventi alle comunità. Il riferimento di Barnes è l'Alaska Permanent Fund Foundation che ogni anno remunera i cittadini con i dividendi derivati dai ricavi del petrolio dello Stato. A Napoli la gestione dell'acqua è stata finalmente affidata a un ente pubblico aperto alla partecipazione dei cittadini.

Ma ci si potrebbe anche chiedere se non fosse possibile (e meglio) affidare la gestione dell'oro blu a una fondazione controllata direttamente dai cittadini e dal Comune, affrancata dai vincoli del diritto pubblico, e destinata a salvaguardare questo bene comune. L'intuizione di Barnes è geniale: usa il diritto borghese sulla proprietà privata per proporre di stabilire il diritto delle comunità a gestire i patrimoni comuni, come le risorse ambientali (per esempio l'acqua) e culturali (per esempio il copyright o i brevetti). In Italia la proposta di Barnes si sta concretizzando con il progetto di fondazione del Teatro Valle di Roma. Naturalmente la questione cruciale è che le fondazioni o le altre forme societarie, come le cooperative, siano controllate democraticamente dalle comunità di riferimento e agiscano come fiduciarie responsabili in maniera trasparente del loro operato verso le stesse comunità.

Il diritto ai beni comuni

Per gli economisti i beni comuni sono risorse condivise: per la maggioranza dei giuristi (specialmente in Italia) i beni comuni sono invece, o devono diventare, diritti universali. Per i giuristi i beni comuni non devono essere ridotti a merci disponibili solo per chi ha il denaro per comprarli: sono invece beni essenziali su cui lo stato ha diritti prioritari per assicurare la loro disponibilità universale. Questa interpretazione è meritoria perché punta a garantire beni indispensabili per la sopravvivenza e lo sviluppo dell'umanità sottraendoli a una logica di mercato e speculativa.

D'altro lato però, forse particolarmente in Italia, l'interpretazione giuridica dei commons sorvola le analisi socio-economiche che da Ostrom in poi caratterizzano la ricerca scientifica internazionale. Secondo uno dei principali giuristi italiani, caposcuola delle concezioni giuridiche sui beni comuni nel nostro paese, Stefano Rodotà che, come si è detto, ha il merito di avere "scoperto" per primo la questione complessa dei beni comuni in Italia: « ... Si può dare una prima definizione dei beni comuni: sono quelli funzionali all'esercizio di diritti fondamentali e al libero sviluppo della personalità, che devono essere salvaguardati sottraendoli alla logica distruttiva del breve periodo, proiettando la loro tutela nel mondo più lontano, abitato dalle generazioni future.

L'aggancio ai diritti fondamentali è essenziale». Dice inoltre Rodotà a proposito dei commons : «L' accento non è più posto sul soggetto proprietario, ma sulla funzione che un bene deve svolgere nella società. ... I beni comuni sono a titolarità diffusa, appartengono a tutti e a nessuno, nel senso che tutti devono poter accedere ad essi e nessuno può vantare pretese esclusive». Abbiamo però già visto che i beni comuni non sono necessariamente res nullius o beni ad accesso aperto. Cosa dovrebbe fare la sinistra Secondo noi la sinistra non dovrebbe solo difendere i diritti all'accesso ai beni comuni e ai beni di merito, ma dovrebbe soprattutto impegnarsi per attribuire alle comunità i diritti di proprietà dei commons - intesi come diritto al loro controllo strategico e alla gestione operativa - e dovrebbe incoraggiare la costituzione di un Terzo Settore di enti economici autonomi dallo stato e dai privati, come le fondazioni e le cooperative, per la salvaguardia e lo sviluppo di beni comuni come l'ambiente, la cultura, le scienze, Internet, l'informazione.

Comunque la sinistra dovrebbe favorire la partecipazione dei lavoratori e degli utenti negli organismi decisionali privati e pubblici in cui si decidono i destini dei commons . La questione dei beni comuni è quindi innanzitutto una questione di democrazia economica. In questo senso credo che la sinistra debba approfondire le analisi della Ostrom ed elaborare ulteriormente i suggerimenti di Peter Barnes.

La cultura, oppressa da trent'anni di televisione, di marketing e di carrierismo craxiani e berlusconiani torna a prendersi la scena nel modo più impensato: prima con l'occupazione del teatro Valle di Roma e la presa di parola della generazione TQ (i trenta-quarantenni); ora con la forza aggregante di Macao a Milano e, tra le due, e intorno a loro, un'altra decina di occupazioni di cinema, teatri, locali in varie città d'Italia: per "fare cultura". Cultura e arte sono scienza del possibile: potenze che scardinano l'appiattimento sulle necessità imposte dai "fatti compiuti". Il conformismo dei passati decenni era un coperchio su una pentola in lenta ebollizione: una volta sollevato, le spinte sociali sono destinate a esplodere; analogamente a come quattro decenni fa la delegittimazione dell'ordine costituito prodotto dal movimento degli studenti aveva spalancato le porte all'offensiva operaia e sociale degli anni '70.

Nelle assemblee di queste nuove aggregazioni si discute (a volte in modo ingenuo e disordinato: ed è un loro pregio) soprattutto di partecipazione, di democrazia diretta, di regole e garanzie per assicurare a tutti la possibilità e il diritto di esprimersi e di portare il proprio contributo alla crescita di tutti; in modo del tutto simile a quello che ha tenuto occupati per giorni gli acampados spagnoli o i partecipanti di Occupy Wall Street e delle mille repliche che hanno investito gran parte delle città statunitensi; ma anche in tante altre sedi, come le riunioni della per ora ancora piccola Alba. La novità maggiore di questa nuova stagione sta proprio qui: cultura e democrazia, nel senso di partecipazione, coincidono. Non c'è cultura se non ha come suo humus la valorizzazione del contributo di conoscenze, di esperienze, ma anche e soprattutto di vissuto, di sentimenti e passioni, di tutti coloro che vogliono concorrere a un risultato condiviso; e viceversa, la democrazia non è e non può essere un mero insieme di regole - che pure vanno fissate e aggiornate in corso d'opera - ma è un regime di condivisione di saperi, sia specialistici che pratici, "mettendoci la faccia"; e mettendo in gioco i propri corpi, come la modalità delle occupazioni mette in evidenza. È una nuova declinazione del rapporto tra arte e vita.

Dicono a Macao: «Si produce democrazia facendo arte e si fa arte con la democrazia». Mettendosi in ascolto da "esterno" (se non altro per motivi generazionali), cioè attraverso una lettura critica di quanto riportano i media e i social network, più qualche sporadica partecipazione alle assemblee di Macao, ma potendo contare su un background di occupazioni, di esperimenti di democrazia partecipativa e di riflessioni condivise, a me sembra che la vicenda di Macao possa insegnare a tutti alcune cose (senza ovviamente escluderne altre, che sicuramente mi sono sfuggite) che derivano direttamente dalle sue pratiche. Innanzitutto le donne e gli uomini («i ragazzi», come li chiamano i media) di Macao non sono alla ricerca solo di uno spazio in cui rinchiudersi per sviluppare insieme le loro attività (si considerano soprattutto, anche se non in modo esclusivo, "lavoratori dell'arte"). Vogliono «aprire alla cittadinanza» una serie di spazi che la proprietà, sia pubblica che privata, ha tenuto sequestrati per decenni, escludendola, senza alcun tornaconto né pubblico né privato se non quello di nasconderli per procede più liberamente nello scempio della città.

La scelta della torre Galfa è esemplare: un immane spazio per uffici tenuto vuoto dal principale speculatore edile (di Milano e non solo), mentre a pochi metri di distanza è cresciuta - seppellendo sotto il cemento uno dei quartieri storici più popolari e "vissuti" della città - una foresta di grattacieli altrettanto inutili. Tra cui la nuova residenza di Formigoni (con annessa piattaforma megagalattica di atterraggio per la discesa dal cielo del "Celeste"): una scandalosa duplicazione del Pirellone, la cui acquisizione aveva simbolizzato, già trent'anni fa, il passaggio della guida della città dalla borghesia industriale alla casta politica e speculativa; poi il "bosco verticale": un grattacielo alberato progettato dall'attuale assessore alla cultura, già estensore del Masterplan di Expo 2015 (la maggiore "palla al piede" della giunta Pisapia) e di quello del mancato G8 alla Maddalena; oppure il grattacielo Unicredit, che grazie a un vistoso pinnacolo ha vinto la gara di erezione ingaggiata con Formigoni: costruito da Ligresti con fondi Unicredit che glielo ha poi comprato nel tentativo di non farlo fallire, accollandosi l'ennesimo sperpero dei costruttori milanesi in bancarotta. E molte altre torri ancora.

Diversa ma analoga è la storia di Palazzo Citterio: comprato dallo Stato quarant'anni fa per dare respiro alle contigue Accademia e Pinacoteca di Brera, è rimasto vuoto fino all'ingresso di Macao; ma è riuscito a inghiottire decine di milioni (di euro) e di miliardi (di lire) senza farne niente, anche grazie alle cure dell'ex Ad di McDonald's Mario Resca, promosso direttore generale dei Beni culturali, e non senza l'assistenza della cricca Bertolaso, nella persona del sub commissario Mauro Di Giovampaola. Adesso gridano che l'occupazione sta bloccando la ristrutturazione della Grande Brera. Tanto "grande" da non poter più contenere gli studenti dell'accademia, che il progetto confina in una ex caserma fuori mano (rompendo la continuità tra museo e Accademia che è uno dei grandi atout di queste istituzione); per non turbare un quartiere diventato chic nel corso degli anni e per non "inquinare" il vero progetto, dato che l'annessione alla Pinacoteca di Palazzo Citterio, che forse comincerà solo tra un anno, servirà soprattutto per creare spazi per attività commerciali attraverso cui far transitare gli sfortunati visitatori (il famoso concorso pubblico-privato auspicato dal ministro Ornaghi per coprire finanziamenti che lo Stato promette ma non dà). Così Macao ha messo in grado i cittadini di Milano, e non solo loro, di venire a conoscenza di queste scelte e, se vogliono, di discuterne, contestarle e prendere posizione. Con queste premesse c'è solo da augurarsi che Macao cresca e le occupazioni si moltiplichino.

Per questo a chiedere lo sgombero immediato di Macao e la messa sotto accusa di chi tollera l'occupazione, per prevenire "vandalismi" su un palazzo del '700 sono soprattutto i rappresentanti del centrodestra cacciati dal governo della città (i veri vandali di Milano: quelli che l'hanno sfigurata); ma anche la componente più oltranzista del Pd e la burocrazia di Stato che ha in custodia l'edificio e che improvvisamente scopre nell'occupazione una congiura per bloccare lavori fermi da quarant'anni. Ma si riscontra con rammarico una generale ostilità, dai toni accesi e a volte inaccettabili, anche tra molti esponenti di quei comitati per Pisapia (ora trasformati in Comitati per Milano) che hanno portato alla vittoria l'attuale sindaco; perché vedono nell'occupazione una messa in discussione dell'operato della giunta, mentre Macao potrebbe dare una spinta verso forme più aperte di coinvolgimento della cittadinanza; soprattutto per superare l'immobilismo dell'assessorato alla Cultura. In secondo luogo Macao non cerca solo luoghi per il proprio lavoro (di qui gli equivoci sul rifiuto di accettare uno spazio nelle ex Officine Ansaldo, offerto dalla Giunta per «calmare le acque»), ma una vera politica culturale - ora del tutto assente - all'interno della quale si aprano spazi e opportunità per il "saper fare" di migliaia di giovani acculturati, creativi, altamente "informatizzati" e "connessi", oggi condannati alla disoccupazione, al precariato, al lavoro sottopagato negli studi di professionisti che li sfruttano senza dar loro, né essere in grado di dar loro, niente; anche perché nella maggior parte dei casi i loro saperi sono irreversibilmente inquadrati nell'orizzonte speculativo e omertoso dei rapporti di potere vigenti.

Eppure le opportunità per questo esercito di creativi alla ricerca di un percorso da condividere non mancherebbero: basta pensare che le quattro più quotate scuole di design della città (che in qualche modo vuol dire anche d'Europa) erano pronte a entrare nella torre Galfa, se non fosse stata sgomberata, per tenervi dei seminari: e non (solo) per un atto di benevolenza, ma perché sanno che è in processi come Macao che si sviluppa la potenza della creatività diffusa. In terzo luogo gli occupanti di Macao sono effettivamente, in grandissima maggioranza, giovani e molto giovani. E sono stati attratti in migliaia, come da una calamita, a sostenere l'occupazione sotto la torre Galfa e a Palazzo Citterio: questo dovrebbe far riflettere partiti, associazioni e organismi politici, spesso prevalentemente frequentati (compresa Alba) da persone mature o decisamente anziane (come il sottoscritto). Ma il mondo di domani si costruisce in eventi come questo o non si produce affatto (e si sottomette così ai diktat della gerontocrazia finanziaria che governa il mondo: certamente coadiuvata da un esercito di giovani rampanti, da cui non c'è però da attendersi niente di buono).

Porsi in ascolto di processi come questo è indispensabile se si vuole ricostruire un ponte tra generazioni che il trentennio craxiano e berlusconiano ha reso reciprocamente estranee, mettendo alle strette chi lavora a deprimere (e reprimere) una intera generazione, denigrandola come priva di idee, di cultura e di desiderio; e trattandola come prigioniera di pulsioni al godimento senza regole né limiti prospettato dal consumismo. Quella prigione esiste davvero; l'hanno costruita le generazioni precedenti (compresa, in parte, la mia) e vi hanno rinchiuso dentro quelle successive, facendo di quella prigionia un alibi per la propria passività e - spesso - il proprio asservimento. Ma vicende come quella del teatro Valle e di Macao dimostrano che tra le nuove generazioni il desiderio di liberarsi da questa gabbia c'è, eccome; e che è culturalmente più agguerrito di quello che molti pensano.

L'ultimo Rapporto sulla situazione sociale del Paeseproposto dal Censis ha affrontato (con severità e con precisione) una descrizione della società italiana del 2011 divisa per vari settori: dai processi formativi al welfare, dal lavoro ai soggetti economici dello sviluppo, affrontando anche la questione dei mezzi e dei processi (comunicazioni, governo pubblico, sicurezza, cittadinanza).

È su tutta l'introduzione che sarebbe importante meditare. Introduzione che si conclude affermando che «è illusorio pensare che i poteri finanziari disegnino sviluppo. Seguendone le indicazioni, si possono fare molteplici decreti di stabilità e austerità, ma neppure un tentativo di progetto». Questioni di cui tutti i mezzi di comunicazione discutono animatamente e sovente in modo drammatico.

Qui, però, io vorrei occuparmi, favorito dal particolare interesse che il direttore del Censis, Giuseppe Roma, ha sull'argomento, del particolare problema affrontato nel capitolo «Territori e reti», dedicato nella sua parte centrale alla questione del disegno urbano e della crisi dello spazio pubblico. Due argomenti che sono nel rapporto concretamente affrontati, non solo come significativi di una condizione di difficoltà nelle relazioni tra soggetto e struttura delle società, ma come campo di lavoro (certo tra i molti) di costruzione di un riscatto da quella stessa condizione di disperata difficoltà.

Ma di chi sono le responsabilità di quello stato di crisi? Per quanto riguarda almeno le difficoltà e le modificazioni positive possibili del fatto urbano si tratta di discutere anzitutto delle opinioni delle categorie professionali pubbliche e private a cui è assegnato il compito di proporre e regolare nell'interesse collettivo (si spera) il disegno degli insediamenti. Quindi alla capacità della loro cultura specifica di produrre opere di qualità durevoli, capaci di offrire proposte eque e positive proprio alle relazioni tra soggetto e struttura della società (e qui risparmio di elencare le difficoltà e le possibilità del loro stato attuale di mutazione rapida e globale).

Ma secondo me, come secondo il Censis, un progetto di architettura deve essere comunque cosciente del fatto che lo spazio tra le cose e il «progetto di suolo» è altrettanto importante delle cose stesse. Si tratta di un progetto capace di porsi in relazione con un contesto storico fisico di uso sociale; un progetto capace di misurarsi con regole comuni e comprensibili, le sole che possono dar valore anche alle eccezioni. Non si può dimenticare che l'ideologia architettonica dominante sul piano del successo mediatico di questi ultimi trent'anni ha proposto invece, nei fatti e nelle intenzioni, una cultura opposta a tutto questo. Una cultura dell'eccezione competitiva, della provvisorietà, della promozione della privatizzazione dello spazio pubblico, della bizzarria senza necessità, e riferita solo agli interessi dei gruppi di poteri sociali transitori, contro ogni memoria collettiva del fatto urbano, contro l'idea stessa di luogo, di antropogeografia, per un'idea di flusso che, in qualche modo, sostituisce il terreno di fondazione delle cose.

Ma non meno responsabili sono stati gli enti pubblici che dovrebbero, al contrario, riprendere coscienza della necessità del disegno urbano per guidare le trasformazioni della città; una tradizione di qualche migliaio di anni, a cominciare dagli esempi prodotti dalla cultura della modernità (come quelli della Lione di Tony Garnier o dell'Amsterdam di Berlage e della sua scuola, soltanto per citare due casi). Certamente ridurre la contraddizione tra piano e progetto richiede anche una profonda revisione culturale della nozione di piano, ma anche una coscienza della relazione esistente tra insediamenti e antropogeografia del territorio con la propria storia. Una storia intesa come possibilità per l'architettura o come una minore ossessione sviluppista a favore di un nuovo equilibrio.

Mi rendo comunque conto della difficoltà non tanto operativa quanto culturale di queste raccomandazioni, che peraltro coincidono in molti punti con quelle contenute nello stesso rapporto Censis. E che anch'io mi rappresento come assai lontane dall'attuale moda architettonica postmodernista per una rappresentazione, senza costituzione di distanza critica, della cultura del capitalismo finanziario globalizzato. Una moda così lontana da ogni tentativo di progetto di equità, come segnala la stessa introduzione del rapporto del Censis.

Diverse studiose e sociologhe hanno formulato una proposta di un "Pink New Deal" che mostra come l´investimento in servizi e infrastrutture sociali potrebbe diventare un volano per tutta l´economia

Che cosa c´è da festeggiare? I femminicidi continuano ad insanguinare le zone più oscure dei rapporti tra gli uomini e le donne. Le giovani donne continuano a fare più fatica dei loro coetanei a stare nel mercato del lavoro in un contesto che è peggiorato anche per questi ultimi. Le lavoratrici con responsabilità familiari lavorano il doppio dei loro compagni, ma guadagnano di meno. La crisi economica di questi anni e le manovre finanziarie dell´ultimo anno gravano in modo sproporzionato sulle donne, come lavoratrici e come principali responsabili del lavoro familiare. Le donne sono viste innalzare di colpo di qualche anno l´età alla pensione, senza che sia aumentata la loro sicurezza sul mercato del lavoro, al contrario. Contemporaneamente si sono viste ridurre fortemente i servizi di cura (per i bambini, le persone non autosufficienti) ed aumentarne il costo. La tenuta di molti bilanci familiari erosi dalla riduzione della occupazione si basa sulla loro capacità e disponibilità ad intensificare il lavoro domestico. Nonostante la presenza di, poche, "tecniche" nel governo l´asimmetria di genere dei costi della crisi sembra accentuata dalle scelte governative. Non va meglio a livello di Unione Europea, al contrario. Con la sua ossessione per il pareggio di bilancio, la UE sembra aver perso il ruolo di importante sostenitore alle richieste di parità e di politiche, anche sociali, necessarie a questo scopo.

Nulla da festeggiare o celebrare, quindi. Piuttosto un ritorno alle origini del senso della giornata dell´8 marzo ed insieme una occasione per ridefinirla. Una giornata non solo di protesta e di bilanci, ma di discussione di una possibile agenda politica ed economica che, prendendo atto della situazione attuale e dei suoi vincoli, proponga alternative realistiche. Ad esempio, diverse economiste e sociologhe hanno formulato una proposta di "pink new deal", che mostra come l´investimento in servizi e infrastrutture sociali (ma io aggiungo anche in ambiente) non aiuterebbe solo le donne, ma potrebbe costituire un volano per l´economia più importante, e più tempestivo rispetto alla necessità di creare occupazione, delle grandi opere. Come la stragrande maggioranza degli economisti a livello internazionale (anche se non quelli che siedono al governo italiano e che dettano le decisioni nella Unione Europea), queste "tecniche" segnalano soprattutto come un eccesso di misure di austerità non solo metta fine alla solidarietà che è stata alla base della costruzione dell´Unione Europea. Può anche uccidere sul nascere ogni possibilità di ripresa – come sta avvenendo per la Grecia.

Un 8 marzo, quindi, per (ri-)cominciare a discutere in pubblico e per proporsi come soggetto pubblico di cui tenere conto. Per rafforzare e continuare la costruzione di un soggetto pubblico femminile. Un soggetto che non abbia la pretesa di rappresentare tutte le donne e di parlare a nome di tutte le donne, ma che si assuma la responsabilità di articolare proposte a partire da una prospettiva che tenga conto in modo esplicito dell´esperienza, variegata, delle donne e dell´impatto sulla loro vita delle decisioni che si prendono. Che si prenda la responsabilità di proporsi come interlocutore nella scena pubblica e nella definizione della agenda pubblica: cercando il dialogo, ma senza temere il conflitto e di disturbare il manovratore.

Un 8 marzo non per festeggiare le donne o parlare di loro, ma per impegnarsi perché le loro proposte entrino nell´agenda pubblica. Perché è urgente disturbare il manovratore prima che il treno deragli.

postilla

Riemergono proposte e rivendicazioni antiche, cancellate dalla corsa alla “modernità” e alla “sostenibilità economica”, dalla sudditanza della politica al mercato, e dalla scarsa consapevolezza delle conquiste raggiunte. Del ruolo delle donne nella costruzione della “città del welfare” in Italia ci siamo occupati più volte su questo sito. Si vedano i testi della visita guidata la donna in eddyburg

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