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il Fatto quotidiano, 19 aprile 2018.

«La Costituzione non indica vaghi principi, ma obiettivi precisi e spiega come raggiungerli. Il dibattito politico però ha rimosso il tema nelle sue declinazioni cruciali, l’accesso alle cure e alla cultura»

Vita dura per chi, negli estenuanti negoziati all’inseguimento di ipotetiche alleanze di governo, cerca col lanternino non solo qualche rada dichiarazione programmatica, ma un’idea di Italia, una visione del futuro, un orizzonte verso cui camminare, un traguardo. Al cittadino comune non resta che gettare un messaggio in bottiglia, pur temendo che naufraghi in un oceano di chiacchiere. La persistente assenza di un governo è un problema, certo. Ma molto più allarmanti sono altre assenze, sintomo che alcuni problemi capitali sono stati tacitamente relegati a impolverarsi in soffitta. Per esempio, l’eguaglianza.

Di eguaglianza parla l’articolo 3 della Costituzione, e lo fa in termini tutt’altro che generici. Non è uno slogan, un’etichetta, una predica a vuoto destinata a restare lettera morta. È l’articolo più rivoluzionario e radicale della nostra Costituzione, anzi vi rappresenta il cardine dei diritti sociali e della stessa democrazia. E non perché annunci l’avvento di un’eguaglianza già attuata, ma perché la addita come imprescindibile obiettivo dell’azione di governo.

L’articolo 3 dichiara che «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali», ma non si ferma qui, anzi quel che aggiunge è ancor più importante, e non ha precedenti in altre Costituzioni. «La Repubblica ha il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

L’eguaglianza fra i cittadini è qui affermata attraverso la loro dignità sociale. La dignità, raggiunta mediante il lavoro, è identificata con il pieno sviluppo della persona. Dignità, sviluppo della persona e lavoro convergono per creare equilibrio fra i diritti del singolo e i suoi «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2). La democrazia secondo la Costituzione è dunque «effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese», e il suo protagonista è il cittadino-lavoratore: perciò l’art. 4 garantisce il diritto al lavoro. Questa idea di democrazia risulta dalla somma di dignità personale e sociale, lavoro, eguaglianza, solidarietà. Dà forma concreta alla sovranità popolare dell’art. 1, ed è il fondamento di larga parte della Carta: non solo gli articoli sui diritti e doveri dei cittadini e sui rapporti etico-sociali (artt. 13-34), ma anche quelli sui rapporti economici (artt. 35-47) e politici. Una parte, questa, che include anche la seconda parte della Costituzione (Ordinamento della Repubblica).

Irraggiandosi su tutta la Costituzione, il principio di eguaglianza sostanziale introdotto dall’art. 3 comporta il progetto di una profonda modificazione della società. Qualcosa da cui siamo, in tempi di impoverimento crescente, di alta disoccupazione e di crescita delle disuguaglianze, più lontani che mai. Quel testo così rivoluzionario fu il “capolavoro istituzionale” di Lelio Basso e Massimo Severo Giannini, allora capo di gabinetto del ministero della Costituente, retto da Pietro Nenni. Dal libro sull’art. 3 di Mario Dogliani e Chiara Giorgi (nella bella serie sui principi fondamentali della Costituzione pubblicata da Carocci) risulta anche il contributo in Costituente di Moro, La Pira, Fanfani. Ma questa “norma-cardine del nostro ordinamento costituzionale” (Romagnoli), che dovrebbe ispirare ogni legge e ogni atto del Parlamento e dei governi, è stata troppo spesso ignorata. Eppure il traguardo costituzionale dell’eguaglianza, data la sua straordinaria, visionaria forza e ricchezza, dovrebbe essere la stella polare di qualsiasi programma di governo.

Per fare solo qualche esempio: il diritto alla salute prescritto dall’art. 32 della Costituzione è palesemente uno strumento di eguaglianza, dunque dev’essere identicamente garantito a tutti. Ma ognun sa che vi sono regioni (specialmente nel Sud) dove il costo pro capite della sanità è assai più alto che in altre (Centro-Nord), mentre i servizi offerti sono molto meno efficienti; per non dire della quota di famiglie impoverite che, a causa delle crescenti spese (ticket etc.), tendono a rinunciare a ogni cura (28.000 nuclei familiari in Calabria, 69.000 in Sicilia).

C’è forse un piano per correggere questa stortura? E come rimediare alla crescente disoccupazione giovanile (58,7 per cento in Calabria)? Il “reddito di cittadinanza” è un rimedio ma non una risposta, e una vera politica del lavoro e della piena occupazione è di là da venire. A fronte di una Costituzione che individua nel lavoro l’ingrediente essenziale della dignità della persona e della democrazia, quali sono i progetti dei partiti? Per fare solo un altro esempio: anche la cultura, e in particolare l’istruzione scolastica, è secondo la Costituzione un ingranaggio irrinunciabile della dignità personale, dello sviluppo della persona, e dunque della democrazia.

Ma che cosa si intende fare per invertire la rotta di una crescente disuguaglianza di classe favorita da una scuola che è stata battezzata “buona” proprio nel momento in cui da cattiva diventava pessima? E da cosa nascerà l’innovazione e lo sviluppo (dunque anche l’occupazione), se l’Italia investe in ricerca l’1,3 per cento del Pil, contro il 3,3 per cento della Svezia, il 3,1 per cento dell’Austria, il 2,9 per cento della Germania? E se l’università è mortificata da pessimi criteri di valutazione della ricerca, strangolata dalla persistente carenza di fondi, umiliata dalla precarizzazione crescente dell’insegnamento?

L’eguaglianza non è un traguardo facile, ma ignorarlo vuol dire calpestare quella stessa Costituzione che i cittadini hanno difeso nel referendum del 4 dicembre 2016. Quel voto, e così quello del 4 marzo di quest’anno, chiedono radicali cambiamenti, ma in quale direzione? Per uscire dalla palude bastano volti nuovi, nuove alleanze, nuovi slogan? Da questo Parlamento e dal futuro governo dovremmo esigere la competenza e l’immaginazione necessarie a indicare un traguardo degno della nostra Costituzione e della nostra storia. Un futuro per cittadini-lavoratori che nella dignità della loro persona e nella solidarietà riconoscano l’alfabeto della democrazia e la speranza per le nuove generazioni.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

il manifesto,

Un’assemblea come quella di lunedì al Tpo di Bologna non si era mai vista. Innanzitutto non era mai successo che un arcivescovo, monsignor Matteo Zuppi, si presentasse in un centro sociale per dialogare con un gruppo storico di antagonisti. Se poi consideriamo che stiamo parlando di una delle diocesi più importanti d’Italia, per decenni guidata da una curia di stampo conservatrice, e in una città dalla lunga tradizione di sinistra; e se aggiungiamo che lo spunto per il confronto è venuto dai discorsi ai movimenti popolari di papa Francesco (diffusi dal manifesto), allora ci sono tutti gli elementi per parlare di una serata importante.

Era stata ideata come una presentazione del volume Terra, Casa, Lavoro da me curato (con l’introduzione di Gianni La Bella), ma era chiaro già da prima che il libro avrebbe dovuto funzionare da innesco per un confronto assembleare sulla trasformazione e sulla crisi del tempo presente, su Bologna e sulle sue emergenze sociali. Tra i relatori, oltre a chi scrive, Luciana Castellina e Domenico Mucignat, voce storica del Tpo.

La speranza era di avere un momento partecipato, ma neppure nelle migliori aspettative ci si sarebbe immaginati di vedere il capannone del centro sociale pieno di giovani attivisti, esponenti dell’associazionismo di base, seminaristi e abitanti del quartiere (insieme a un numero consistente di giornalisti e ad alcuni nomi della politica locale: assessori della giunta comunale (Matteo Lepore e Davide Conte), consiglieri comunali di maggioranza e di opposizione e altri volti della «sinistra diffusa». Insomma, un insieme decisamente composito e tutt’altro che privo di quella dose di autoironia – «dai, che tra poco inizia la messa», si scherza davanti al bar – che diventa quasi necessaria, anche per stemperare la tensione della prima volta.

Va detto poi che alle spalle dell’assemblea c’è stato un lungo lavoro: i contatti tra gli antagonisti e Zuppi risalgono ad almeno due anni fa, cioè da circa un anno dopo l’insediamento dell’arcivescovo venuto dalle periferie romane.

In questo tempo il vescovo scelto da Bergoglio non ha mancato di dare più volte prova di come intenda la sua pastorale: coerentemente per gli ultimi e senza paura del dialogo con le realtà cittadine. «La serata – spiega in apertura Mucignat – è il punto di arrivo di un percorso che ha mosso i primi passi dalla collaborazione tra la diocesi, lo sportello Migranti del Tpo e il progetto Accoglienza degna (dello spazio Làbas) per dare una soluzione all’emergenza abitativa di un richiedente asilo di comune conoscenza».

Il confronto assembleare prende avvio proprio da come le parole di riscatto sociale del papa possano essere tradotte concretamente nel contesto italiano. A questo proposito, ho invitato a non dimenticare che quei discorsi hanno un peso particolare anche per via del quadro in cui sono stati pronunciati, cioè nella rete mondiale dei movimenti che ha riunito in Vaticano (e nel 2015 in Bolivia) centinaia di organizzazioni di diversa estrazione politica e culturale che da anni praticano il conflitto. Non solo teoria dunque, e certo non solamente slogan, come racconta la storia dei Sem Terra e del Movimento dei lavoratori esclusi argentino.

Un’analisi dei discorsi del papa è venuta da Luciana Castellina, che ha sollecitato direttamente l’interlocutore ecclesiastico chiamando in causa la storia del dialogo tra cattolici e comunisti, il contributo del Pci e del gruppo del .

Attento e dotato di un sostanzioso dossier di appunti, Zuppi ha precisato subito che lo stupore dei media per la sua partecipazione è risultato in effetti del tutto ingiustificato: il dato preoccupante, semmai, è che «parlare faccia notizia».

Quindi ha coinvolto l’assemblea su un’analisi dei discorsi di Bergoglio, mettendo in evidenza i passaggi dai quali si evince che un’azione collettiva è necessaria, così come lo è il rispetto delle diversità d’impostazione. Ha ricordato che i cartoneros in Italia rischiano spesso il carcere e che i movimenti agiscono senza manicheismi e con in testa un’etica. Insomma, una riflessione sgombra dal timore di una reciproca strumentalizzazione, e sostanzialmente incentrata sulla definizione di un umanesimo alternativo al sistema dominato dalla finanza, ma partendo dalle emergenze concrete (migranti, lavoro, ambiente).

Durante le due ore di discussione sono risuonate più volte le parole chiave: «ingiustizia», «muri», «conflitto», «dialogo». Non sono mancati appunti sulla distanza notevole che separa la Chiesa cattolica da chi pensa che senza l’autodeterminazione dei corpi non ci possa essere una prospettiva di riscatto collettivo. Ma si può dire che, come in occasione degli incontri mondiali dei movimenti, è prevalsa la ricerca di un linguaggio condiviso.

Per Gianmarco De Pieri del Tpo, «abbiamo messo a tema come organizzare la resistenza contro l’ingiustizia. Due mondi che da tempo si parlavano, invitano tutti gli altri mondi a parlarsi. Nei periodi più felici, per esempio a Genova nel 2001, i movimenti sociali hanno camminato insieme. Ricominciamo a farlo».

Rimanendo nel terreno della storia, la serata di lunedì fa pensare agli anni Sessanta e agli incontri tra quelli che allora erano detti i «cattolici del dissenso» e i militanti della sinistra, quella vecchia e quella nascente. I concetti dell’epoca erano simili, quando non gli stessi, ma la sensazione è che siamo, nello stesso tempo, vicini e lontani anni luce dalle dinamiche di allora. Siamo vicini nella misura in cui, dopo decenni nei quali la Chiesa cattolica si è arroccata in una campagna sulla bioetica, Francesco ha compiuto un rinnovamento, con al centro il discorso sociale, che ricorda la stagione di Roncalli e del suo concilio.

In mezzo però si è consumata la fine del Novecento, con quell’accelerazione della crisi culturale e politica che obbliga a un ripensamento profondo delle categorie, un tempo definite anche in opposizione tra loro.

L’assemblea di Bologna ha reso palese, verrebbe da dire quasi con semplicità, che è in corso un cambiamento d’epoca e che, senza rinunciare alla propria appartenenza, c’è un percorso di movimento da riprendere, serve un nuovo «tessuto sociale» (Zuppi) e, soprattutto, un agire comune di resistenza e risposta, senza «pasticci ideologici» (Castellina) che suonano oggi inutilmente anacronistici.

Nigrizia,

È giunta ormai al suo ottavo anno la guerra imposta ai siriani. L’insurrezione armata scoppiata nel marzo 2011 ha devastato la Siria, uno dei pochi paesi laici e culturalmente avanzati del mondo arabo. Pur con le sue contraddizioni e i suoi limiti in termini di libertà e di democrazia, il regime era riuscito a garantire una discreta stabilità politica e sociale e un invidiabile equilibrio religioso ed etnico/tribale in una regione dove il fattore religioso e quello tribale sono corde sensibili, facilmente manipolabili (all’occorrenza) per innescare conflitti politici e sociali che portano a interminabili e sanguinose guerre civili.

Ricordiamo il caso dell’Iraq, dove lo scontro interconfessionale tra sunniti e sciiti ha causato a oggi centinaia di migliaia di morti, e quello della Libia, dove è in atto una guerra tra clan ed etnie per la spartizione del paese. I regimi di Saddam Hussein e Gheddafi riuscivano a neutralizzare i due fattori di cui sopra, garantendo per decenni una certa stabilità e coesione sociale. Finché le potenze atlantiste, guidate dagli Usa, scatenarono la guerra contro Libia (2011) e Iraq (2013), perché erano guidati da due regimi – dittatoriali – non allineati, che ostacolavano i loro interessi neocoloniali. La manipolazione, da parte degli Usa e dei loro alleati europei, dell’appartenenza religiosa e tribale è stata determinante nella distruzione dei due paesi.

La stessa strategia è stata usata in Siria con diversi tentativi. Il primo. In principio i governi occidentali avevano cercato di innescare lo scontro tra la maggioranza sunnita e la minoranza alawita (sciita) al potere di cui al-Assad fa parte. L’operazione non ebbe successo. La maggioranza dei siriani è sunnita e, sin dall’inizio dell’insurrezione, ha sostenuto Damasco, come del resto ha fatto anche l’esercito.

Il secondo. Poi sono entrati in gioco i gruppi jihadisti salafiti di al-Nusra e, soprattutto, il gruppo Stato islamico il cui compito era quello di eliminare al-Assad e creare un regime di tipo confessionale. E anche questo piano fallì per l’intervento di Russia e Iran, determinanti nella disfatta del gruppo Stato islamico

Il terzo. Quando Washington e i suoi alleati si sono accorti che la carta gruppo Stato islamico era destinata a fallire, hanno giocato quella curda. Hanno sostenuto le milizie curde nella conquista della città di Raqqa e nel creare una enclave curda nella provincia siriana di Afrin, al confine con la Turchia. Ma hanno fatto i conti senza Erdogan. Il 18 marzo scorso, dopo due mesi di assedio, l’esercito turco ha occupato Afrin e cacciato i combattenti curdi.

Infine, la vicenda di Ghota est nei pressi di Damasco, occupata dai jihadisti, è stata il colpo di coda degli americani per evitare il proprio ko in Siria. Ma pure questo tentativo non ha funzionato, nonostante la pressione diplomatica e la propaganda mediatica contro il governo, accusato di «massacrare il suo popolo» a Ghota, anche con l’uso di armi chimiche.

Sette anni di continui tentativi di regime change hanno provocato oltre 300mila morti e 11 milioni tra sfollati e profughi. Un crimine contro l’umanità perpetrato dalle “democrazie” occidentali ai danni del popolo siriano.

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il manifesto, miamo "guerra diffusa"

Un centinaio di missili sulla Siria fanno rumore. Tutti i giornali e le tv del globo li hanno mostrati, descritti, analizzati. Eppure ogni giorno esplodono altre centinaia di bombe in un altrove che rumore, non ne fa. Sono le bombe silenziose di guerre «secondarie», di stragi che non bucano il video, di conflitti apparentemente dormienti e ormai derubricati a non notizie.

Eppure i numeri sono importanti. E gli effetti nefasti così come nulli sono i risultati sul piano militare. Molte bombe, molte vittime e un’unica vittoria: quella di chi le fabbrica e le vende, più o meno apertamente.
Lo Yemen e l’Afghanistan sono un utile esercizio. Ci sono dati ufficiali o desunti, operazioni segrete (come per i droni), conti fatti da organismi indipendenti e da chi, è il caso dell’Us Air Force, ne fa un titolo di merito. Cento bombe si sganciano in Afghanistan in meno di dieci giorni. In Yemen il conto è quasi impossibile ma dal marzo 2015 al marzo 2018, in tre anni, il Paese è stato attraversato da 16.749 raid aerei con una media di 15 al giorno. In silenzio. Tranne per chi ci sta sotto.

Stabilire quante bombe ha sganciato al coalizione a guida saudita (una decina di nazioni musulmane sostenute da diversi Paesi, dagli Stati Uniti alla Turchia) è assai complesso anche se il numero di raid non lascia molti dubbi. Quel che interessa notare è che questo conflitto (che produce una «catastrofe umanitaria» secondo l’Onu, che ha bollato i raid come una «violazione del diritto internazionale») viene foraggiato indirettamente anche dall’Italia: Giorgio Beretta (che ne ha già scritto su il manifesto) ricorda che da Roma, nel 2016, «sono state autorizzate esportazioni di armamenti all’Arabia Saudita per 427 milioni di euro, la maggior parte delle quali, e cioè più di 411 milioni di euro, era costituita da bombe aeree del tipo MK82, MK83 e MK84 prodotte dalla Rwm Italia. Le stesse bombe i cui reperti sono stati ritrovati dalla commissione di esperti dell’Onu nelle aree civili bombardate dalla Royal Saudi Air Force in Yemen. Stiamo parlando di 19.900 bombe, la più grande esportazione fatta dall’Italia».

E gli effetti? Il Legal Center for Rights and Development (Lcrd), un’organizzazione della società civile locale con sede a Sana’a, stimava a oltre 12.500 le vittime civili nei primi 800 giorni della guerra. Secondo Yemen Data Project – un progetto indipendente e no profit di monitoraggio del conflitto – la coalizione a guida Saud (ottimo alleato di Trump, Macron e May) ha colpito obiettivi per quasi un terzo non militari: 456 raid aerei hanno bombardato aziende agricole, 195 mercati, 110 siti di erogazione di acqua ed elettricità, 70 strutture sanitarie, 63 luoghi di stoccaggio del cibo.

La profondità del monitoraggio dà luogo anche ad altri dati impressionanti. Il Lcrd ha documentato negli obiettivi colpiti: 593 mercati e quasi 700 negozi alimentari, 245 aziende avicole e 300 industrie, oltre a 300 centri medici e 827 scuole… Una lista infinita. Tutta civile.

Se cento bombe in Siria vi sembran tante, lo stesso numero di ordigni viene lanciato dal cielo in meno di dieci giorni in Afghanistan. Secondo i dati diffusi dall’United States Air Force, nel 2017 sono state sganciate in Afghanistan 4.300 bombe, con un ritmo di una dozzina al giorno, il triplo che in passato.

I risultati di questa nuova strategia di Trump sono sotto gli occhi di tutti: la guerra va avanti, gli attentati non diminuiscono, le vittime civili aumentano.

Quanto agli afgani, secondo il ministero della Difesa di Kabul, ogni giorno l’aviazione nazionale conduce una quindicina di raid ma non è dato sapere quanti ordigni hanno sganciato i piloti addestrati da Stati Uniti e dalla missione Nato, di cui l’Italia rappresenta il secondo contingente nel Paese.

Se si obiettasse che la potenza degli ordigni è mediamente assai minore rispetto a quella di un missile tomahawk, si può però ricordare che, proprio nell’aprile dello scorso anno, gli americani hanno sganciato in Afghanistan la «madre delle bombe», un ordigno con la potenza di 11 tonnellate di esplosivo (GBU-43/B Massive Ordnance Air Blast o Moab), in grado di disintegrare tutto fino a 300 metri di profondità e con un raggio d’azione di oltre un chilometro e mezzo. Doveva tramortire lo Stato islamico, sempre però molto attivo nel Paese.

Le vittime civili in Afghanistan sono in costante aumento (3.438 morti e 7.015 feriti l’anno scorso secondo la missione Onu a Kabul). Anche se sono in gran parte da attribuire ad attentati e scontri di terra, il rapporto di Unama (la missione Onu in Afghanistan) osserva un aumento delle vittime dovute a raid aerei (295 morti e 336 feriti nel 2017), il numero più alto in un singolo anno dal lontano 2009.

Internazionale,

L’attaccomissilistico anglo-franco-americano lanciato in Siria perpunire il governo e dissuaderlo dall’uso di armi chimiche dovrebbe fermare perun breve periodo questo barbaro strumento di guerra, come già successo inpassato. Tuttavia, nel contesto del tradizionale e prolungato militarismoamericano ed europeo in Medio Oriente, l’operazione genera sensazionicontrastanti perché restano forti dubbi in merito alla sua efficacia,legittimità, credibilità e comprensione del contesto siriano. L’operazione sembra essere un’azione politica che non tieneconto delle dinamiche locali e regionali, concepita unicamente per direall’opinione pubblica occidentale che le tre potenze coinvolte rispettano lavita umana e il diritto internazionale più dei governi in Siria e in Russia.Una tesi abbastanza discutibile se consideriamo il numero di vittime provocatoda Stati Uniti, Francia e Regno Unito nella regione per decenni. Probabilmentele conseguenze dell’operazione non fermeranno il caos e le nuove forme diviolenza che affliggono la regione, come succede ogni volta con questo tipo diazioni militari esterne.
Un problema di efficacia
I bombardamenti lanciati tra il 14 e il 15 aprile nonsembrano particolarmente efficaci. Vent’anni di attacchi continui degli StatiUniti e di altre potenze contro i gruppi terroristici e i governi radicali, acominciare dai missili lanciati nel 1998 contro Al Qaeda in Sudan eAfghanistan, non hanno fermato Al Qaeda o altri gruppi simili, che al contrariostanno prosperando e che si affermano solo in zone devastate da attacchimilitari stranieri o interni, come la Somalia, lo Yemen, l’Iraq, l’Afghanistane la Siria. Il numero di governi e forze radicali che si oppongono agliStati Uniti e ad altre potenze straniere è aumentato costantemente negli ultimianni. Non c’è da stupirsi se di recente l’influenza di Iran, Russia, Hezbollahe Turchia in Siria e in altri territori arabi sia aumentata, soprattutto graziealle conseguenze del militarismo continuo degli Stati Uniti e di altre potenzestraniere e arabe, un militarismo il cui scopo era proprio quelli di “ridurre”questa influenza. L’ambasciatrice statunitense all’Onu Nikki Haley e i suoiamici saranno anche “pronti e carichi”, come lei ha dichiarato, ma resta ilfatto che dal 1998 gli americani si sono sparati più volte sui piedi con leloro operazioni militari in Medio Oriente lanciate per sconfiggere ilterrorismo e ridurre l’influenza dell’Iran. In definitiva Washington harafforzato quelli che voleva indebolire.

Un problema di legittimità
Gli attacchi non sembrano nemmeno legittimi, perché leNazioni Unite e altre istituzioni autorizzate a verificare le responsabilitàdell’attacco chimico non hanno svolto il loro lavoro sul campo – che sarebbedovuto cominciare il 15 aprile – prima di stabilire qualsiasi misura punitiva.Le tre potenze responsabili dell’attacco non possono sostenere di aver agitoper legittima difesa, perché non erano sotto la minaccia di un attaccoimminente e non sono state attaccate, diversamente da quanto accaduto con l’11settembre. Le potenze occidentali che sostengono di rispettare il diritto internazionalee nel frattempo lo infrangono o lo ignorano hanno chiaramente un problema dilegittimità.

Un problema di credibilità
Inoltre gli attacchi non sono particolarmente credibili. Lepreoccupazioni dell’occidente per i morti causati dalle armi chimiche perdonopeso, per due motivi. Il governo siriano e le forze di opposizione hanno uccisocentinaia di migliaia di civili, spesso con metodi disumani come i barili bombao gli assedi che miravano ad affamare il nemico, e questo non sembra averprodotto grandi azioni da parte delle potenze che hanno attaccato, anche se leconseguenze sono state ben peggiori. Il loro sdegno morale davanti alla mortedi civili innocenti è inoltre messo in discussione dal fatto che Stati Uniti,Regno Unito e Francia sono direttamente responsabili per la morte di centinaiadi migliaia di civili in Medio Oriente nel corso di decenni di interventimilitari e azioni politiche dirette, inclusi quelli attuali in Yemen.

I risultati a brevetermine di operazioni militari come questa tendono a svanire per la mancanza diuna politica più ampia
Ironia della sorte, il Regno Unito è la potenza che haintrodotto l’uso di armi chimiche nella regione durante la prima guerramondiale, armi che i britannici avrebbero voluto usare per reprimere unarivolta anticoloniale in Iraq (anche se alla fine non lo hanno fatto).L’impegno degli occidentali per evitare la morte di altri innocenti in modocrudele sarebbe più credibile se, per esempio, gli Stati Uniti e il Regno Unitosmettessero di assistere l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti nella loro guerra contro loYemen, dove decine di migliaia di persone sono malate di colera emigliaia sono morte per malattia, malnutrizione e altre conseguenze delleguerra. Tutte le morti causate dalla guerra sono ripugnanti e vannofermate con azioni collettive da parte di tutti i paesi che rispettano la vitaumana. Non si può procedere con le azioni sparse di un pugno di governi chesembrano parecchio selettivi nel loro sdegno per le sofferenze umane, maalquanto episodici nel loro rispetto del diritto internazionale.

Un problema di contesto
Gli attacchi, infine, non hanno tenuto conto del contestogenerale della guerra in Siria e dei suoi diversi collegamenti regionali eglobali. Nello specifico, i risultati a breve termine di operazioni militaricome questa – o come l’attacco angloamericano in Iraq del 2003 o anche larecente guerra contro il gruppo Stato islamico – tendono a svanire per mancanzadi una politica più ampia che affronti e cerchi di risolvere i problemi chehanno generato la guerra. È necessario un approccio più comprensivo erealistico per fermare i combattimenti, stabilizzare la Siria e gestire altretensioni che in questo momento circondano il paese, a cominciare dagliinteressi curdi, iraniani, israeliani, turchi e russi.

Questi attacchi portano avanti la tradizione occidentale diguerra senza fine nella regione araba cominciata da Napoleone più di due secolifa, un’attività che oggi sembra solo intensificarsi con l’utilizzo di droni,missili Cruise, strumenti di guerra elettronici e combattenti a contratto.Anche i risultati non variano: resistenza da parte delle potenze locali,distruzione delle società mediorientali e nascita di forze e governi radicaliche sfidano l’aggressore straniero. Questa dinamica è tanto più pericolosa oggise teniamo conto dell’intervento militare diretto in Siria di potenze nonoccidentali e regionali come l’Iran, la Russia, la Turchia, Israele eHezbollah. Solo una soluzione politica, sociale ed economica aldeterioramento delle condizioni di vita negli stati arabi metterà fine allaviolenza, liberandoci dai nostri dittatori e vietando l’uso di armi didistruzione di massa. Solo così troveremo la pace, diritti uguali per tutti eprosperità per il martoriato popolo di questa regione.

NENAnews, 1

«Dopo aver visitato 8 campi nelle province irachene di Ninive e Salahddin, l’ong denuncia “uno sfruttamento sessuale straziante”. A pagare il prezzo più alto sono le donne sospettate di avere legami con lo Stato Islamico. A compiere gli abusi sono le forze di sicurezza e i membri delle milizie»

Le donne sospettate di avere legami con lo “Stato Islamico” (Is) sono vittime si sfruttamento sessuale e discriminazione nei campi rifugiati iracheni. A dirlo è Amnesty International (AI) in un rapporto che si concentra su otto campi profughi sparsi tra le province irachene di Ninive e Salahdin, un tempo aree controllate dal “califfato”.Irisultati dello studio della ong inglese sono drammatici: ovunque le donne sono maltrattate. Ma quelle “che si pensa abbiano rapporti con l’Is subiscono un alto grado di discriminazione e varie violazioni dei diritti umani” ha detto Nicolette Waldman, ricercatrice per Amnesty in Iraq. “Quello che per me è stato scioccante – ha aggiunto Waldman – è la violenza sessuale. Abbiamo scoperto che è diffusa e il modo in cui queste donne siano abusate è straziante”.

Una donna, citata nel rapporto, denuncia: “Non possiamo restare da sole fuori il campo, non è sicuro per noi. Ma in realtà è lo stesso anche dentro. Nessun posto è sicuro”. Dallo studio di AI emerge che a compiere gli abusi sono le forze di sicurezza a protezione dei campi e i membri delle milizie. Una accusa grave, ma che al momento il governo iracheno preferisce non commentare.

Secondo alcune ong che lavorano in Iraq, le donne che hanno mariti e padri morti o dispersi sono quelle più costrette a matrimoni forzati o a subire violenza. Particolarmente grave è anche la situazione di chi è analfabeta e non sa come ottenere documenti d’identità per accedere ad aiuti governativi o cibo. “La loro vulnerabilità li rende vittime di sfruttamento umano” ha detto Karl Schembri, consigliere regionale del Medio Oriente del Consiglio rifugiati norvegese.Condizioni di vita inaccettabili che però, sostiene AI, potrebbero peggiorare a causa della crisi economica che vive l’Iraq: le autorità irachene affermano che sono necessari soltanto 88 miliardi di dollari per la ricostruzione del Paese. Una cifra che è di gran superiore a quella che è stata promessa o data dai donatori internazionali.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

«Il pacifismo era già moribondo, soffocato dalla propriaimpotenza a causa di una serie di sconfitte storiche che hanno provocatofrustrazione e disincanto», così sostiene Gigi Riva su la Repubblica del 16aprile, ed enumera gli eventi che sosterrebbero la sua tesi. Analogo parereaveva esposto qualche giorno prima Gianni Toniolo in un editoriale de il Sole24ore, argomentando che in ogni azione pacifista, prima di muoversi, si sarebbedovuto valutare freddamente se era possibile vincere.

C’è del vero in queste posizioni, ma sarebbe un pericoloso errorearrendersi senza domandarsi che cosa è cambiato, e se davvero è necessariorinunciare a battersi per la pace.

Noi non diremmo che il pacifismo sia scomparso, ma che si è disgregato.Il nostro mondo è pieno di conflitti nei quali si scontrano forze (deboli opotenti, pattuglie o eserciti) che si battono per l’opzione pace / guerra:dall’Ucraina al Congo, dalle Filippine alla Colombia, dal Venezuela allaPalestina, dallo Yemen alla Siria, dal Pashmir alla Somalia - per non ricordareche alcuni dei mille conflitti aperti.

Ma tra le parti in conflitto c’è una grande differenza: lefazioni che operano per la guerra hanno alle spalle un sistema potentissimo chele alimenta: quello del “complesso degli armamenti”, più forte di tutte le altreholding che animano il finanz-capitalismo. Le forze della pace sono invecedisgregate. Ciascuna delle sue porzioni vede solo l’avversario immediato,combatte da solo, come Davide contro Golia.
Questa situazione perdura dagli anni Ottanta del secoloscorso. In un momento come questo, in cui la conflittualità e l’interventismomilitare internazionale si intensificano in tutto il pianeta, secondo lamutevole geografia degli interessi Usa, la credibilità dell’ONU diminuisce e ildibattito sulla democrazia internazionale è a minimi storici, ci sembra deltutto evidente che occorre recuperare unadimensione globale della pace. Non possono esistere tanti separatipacifismi, uno per ciascun conflitto se si vuole essere incisivi.

E’ indispensabile (ri)prendere il dibattito sul pacifismo esulla democrazia internazionale, mettendo al centro non la politica interna, maquella estera. Limitare il principio democratico ai singoli stati significaschiacciarlo su considerazioni di politica interna, che lascia il campo anchealla razionalità e convenienza della guerra per difendere gli interessinazionali. Infatti, la politica moderna ammette la guerra come legittima nelrapporto con gli altri stati. Diceva Frederick Engels nel 1848 «Come voleteagire democraticamente verso l'esterno, finché la democrazia è imbavagliataall'interno?»
Occorre rendersi conto che la pace è una condizione indivisibile dell’umanità. E che ognilotta per la pace è sterile, e sarà sconfitta, finché non diventerà un’unicaazione contro la guerra in sé – e quindi, necessariamente, contro il complessoindustriale e finanziario che la alimenta, e il sistema economico-sociale dicui è parte integrante.
Bisogna scendere in piazza, uniti si per la pace, ma anchechiedendo a gran forza il disarmo, la dismissione delle basi nucleari, laconversione delle industrie belliche in Italia, e battersi nelle prossime elezioni europee peril disarmo unilaterale dell’Unione Europea.
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il Fatto quotidiano,

Caro direttore, continuo a pensare che un governo sostenuto dal Movimento 5 Stelle e dal Pd (un governo il cui presidente, la cui composizione e il cui programma dovrebbero essere l’oggetto di un confronto libero da qualsiasi pregiudiziale) sarebbe il modo migliore di uscire da questa situazione: che è del tutto fisiologica, in un sistema parlamentare, e che solo l’inadeguatezza del nostro ceto politico trasforma in uno ‘stallo’.

Lo penso perché guardo all’aspetto più clamoroso del voto del 4 marzo: quello sociale. In quel voto è tornata la lotta di classe. Senza programmarlo, senza tematizzarlo, senza nemmeno dirlo. Anche se non lo sanno, o non sono interessati a vedersi così, i 5 Stelle e la Lega sono di fatto partiti delle classi subalterne. Votati in massa soprattutto (anche se non solo) dagli ultimi, dai sommersi, da coloro che sono sul filo del galleggiamento (iniziando dai giovani precari, i nuovi schiavi), in un Paese con 18 milioni di cittadini a rischio di povertà (al Sud quasi uno su due). Mentre il Pd (e anche Liberi e Uguali) e Forza Italia sono stati votati dai salvati, dai relativamente sicuri, dai benestanti. Dunque, la faglia sistema-antisistema è sociale, prima ancora che di opinione, ed è una faglia che spacca in due il centrodestra. E quando il Pd spinge i 5 Stelle tra le braccia della Lega non obbedisce solo al puerile, irresponsabile ricatto renziano o al retaggio dell’inciucio del Nazareno, ma risponde a una logica più profonda, quella del blocco sociale che condivide con Forza Italia.

Sperare che questa cristallizzazione si rompa, significa sperare che il Pd possa ritrovare la forza di rappresentare i ceti più deboli: non si tratta di de-renzizzarsi (è solo una misura di necessaria igiene), ma di invertire la rotta rispetto a un tradimento delle ragioni elementari della sinistra iniziato negli anni Novanta, con la genuflessione a Blair e allo stato delle cose che fu indifferentemente compiuta da un Veltroni e un D’Alema.

È l’ultima chiamata, e se il Pd avvertisse lo strappo dei milioni di suoi elettori che hanno scelto i 5 Stelle potrebbe avere la forza di cambiare. Non sarebbe facile, certo: ma l’alternativa è trasformarsi, culturalmente e numericamente, in una specie di Scelta Civica. Volendoci provare, il terreno del confronto possibile con i 5 Stelle è quello dell’attuazione della Costituzione, a partire dai principi fondamentali: il terreno in cui il Pd potrebbe tentare una palingenesi, e il Movimento rimanere fedele a se stesso.

Se queste sono le speranze, l’osservazione della realtà non spinge all’ottimismo. Perché l’ansia di Luigi Di Maio di andare al governo rischia di far saltare ai 5 Stelle il fosso verso il sistema: e a tempo di record. Prendiamo la vicenda della guerra: la più cruciale di tutte. Dopo qualche sbandamento, i 5 Stelle hanno usato le stesse parole scelte da Martina: “Siamo fedeli all’alleanza atlantica”. Che tradotto vuol dire: se Trump ci chiede le basi per una ulteriore azione di guerra, noi le daremo. Alla faccia della Costituzione (art. 11) che si dice di voler attuare.

Dopo mesi di grottesca campagna sulle fake news, culminata nell’idea di un fact checking di Stato affidato a Minniti (!), i 5 Stelle non sanno reagire esercitando e argomentando una critica sulle ‘prove’ esibite dal fronte atlantico e supinamente accettate come tali dalla stampa. I canali della Chiesa cattolica dalla Siria, per esempio, raccontano un’altra verità, riassunta in un tweet dell’ex priore di Bose, Enzo Bianchi: “Sono in contatto telefonico con monaci e vescovi ortodossi in Siria. L’attacco degli Usa e dei francesi e l’ipocrisia del governo italiano mi rattrista e mi indigna. Menzogne e menzogne per continuare una guerra che vuole umiliare il medio oriente arabo”. Non sarà così semplice, e certo la situazione è complessa: ma proprio per questo non è possibile acconsentire a una guerra a scatola chiusa.

Contemporaneamente, Matteo Salvini denuncia la follia delle armi. Collateralismo alla Russia di Putin? Può darsi: ma anche sintonia profonda con la metà del Paese che è convinta che questo sistema, il sistema globale, è insostenibile. Una metà del Paese in cui si trova anche chi ha firmato l’appello della Rete della Pace contro questa guerra: tutta la sinistra (quella sociale, visto il suicidio di quella politica), il mondo cattolico, i sindacati, l’Anpi, Libera, Libertà e Giustizia.

Naturalmente non voglio ‘riabilitare’ la Lega perché oggi è per la pace. Non dimentico la trasformazione della Lega in un partito lepenista, simboleggiata dalla foto in cui Salvini dava la mano al terrorista fascista di Macerata, già candidato con la stessa Lega.

Se il rapporto tra Cinque Stelle e Pd, invece di far cambiare il Pd, facesse cambiare i 5 Stelle, lasciando solo la Lega a rappresentare chi è contro questo orrendo sistema, allora sarebbe un disastro.

La Repubblica, (a.b.)

Papa Francesco lancia un appello, l’ennesimo, a «tutti i responsabili politici» perché in Siria prevalgano «la giustizia e la pace». Invita «le persone di buona volontà» a pregare. Lo faranno di certo, ciascuno nel dialogo intimo con il divino. Però non sono più un movimento, non sono più massa critica. Da tempo ormai sono vistosamente scomparse dallo spazio pubblico le bandiere arcobaleno, le piazze sono orfane di chi sfilava contro la guerra con lo slogan assoluto “senza se e senza ma”. Anche nell’ultimo caso mediorientale, come in molti recenti, i se e i ma invece abbondano. Stare contro Donald Trump e implicitamente difendere il dittatore Assad accusato di usare i gas? Stare contro Assad e favorire quella frangia di ribelli attestata su posizioni jihadiste? E chi davvero ha usato le armi chimiche?

Gli interrogativi, tutti legittimi, sono peraltro la foglia di fico di un impegno cessato molto prima. Il pacifismo era già moribondo, soffocato dalla propria impotenza a causa di una serie di sconfitte storiche che hanno provocato frustrazione e disincanto. Nella sua versione più intransigente rifiutava qualunque tipo di intervento, compreso quello auspicato da un altro Papa, Giovanni Paolo II, quando si batteva (era il 1992) per il diritto-dovere di ingerenza umanitaria in Bosnia. Tre anni dopo, il bombardamento durato pochi giorni delle postazioni serbe nei dintorni di Sarajevo provocò la fine del conflitto e l’inizio di un ripensamento tra chi circondava le base di Aviano per cercare di impedire il decollo degli aerei americani. La prova più evidente che non esiste una formula adatta a tutte le circostanze. E in occasioni fatali come le guerre è sempre il caso di rimboccarsi le maniche e valutare con pazienza se un intervento è destinato ad alzare o abbassare il livello di violenza. Nei Balcani, lo abbassò. Al contrario, otto anni dopo, dell’invasione dell’Iraq da parte di George Bush il figlio, la cui eredità sono i conflitti ancora aperti. Per fermare quello sciagurato tentativo di “esportare la democrazia” scesero per strada, nel mondo, cento milioni di persone (un milione in Italia). Non servì a nulla: il pacifismo toccò l’apice dell’espansione e l’inizio della disillusione. Si è protestato, dal Vietnam in poi, per le guerre degli altri.
Testimonianze, opposizioni di principio astratte come la lontananza. Dopo le Torri Gemelle, l’Iraq e il conseguente terrorismo globale, è risultato sempre più complicato essere pacifisti, a causa della sensazione di avere la guerra in casa. La neutralità è diventata un lusso.
Vincono le posizioni nette. Col nemico alle porte, il pacifismo è finito in fuorigioco.
Un peccato davvero, persino per chi lo osteggiava. Perché è proprio la sua mancanza, oggi, che impedisce lo sviluppo della dialettica attorno a un tema così cruciale. Le baruffe, anche furibonde, degli anni ‘90 e degli anni ‘10 di questo secolo tra interventisti e non avevano il valore prezioso di instillare il dubbio, nei campi contrapposti. Il cittadino-elettore aveva la sensazione di poter incidere sul processo politico più drammatico, la scelta tra la pace e la guerra. Oggi il campo è sgombro.
Trump, come un dottor Stranamore, “punisce” la Siria, sgancia la superbomba in Afghanistan, minaccia la Corea del Nord, senza che si veda all’orizzonte un corteo. Senza che ci sia un contrappeso al suo bellicismo incontinente. Se era deleterio un eccesso di pacifismo, è ugualmente nefasta la sua totale assenza.

Internazionale,

Il giudice per le indagini preliminari (gip) di Ragusa, Giovanni Giampiccolo, ha disposto il dissequestro della nave dell’ong spagnola Proactiva Open Arms, che era ferma nel porto di Pozzallo dal 18 marzo dopo aver soccorso 218 migranti in due diverse operazioni al largo della Libia. La nave – attiva nel soccorso di migranti nel Mediterraneo centrale – era stata sequestrata su ordine della procura di Catania, guidata da Carmelo Zuccaro, nell’ambito di un’inchiesta per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e associazione a delinquere.

Il 27 marzo il gip di Catania Nunzio Sarpietro aveva confermato il sequestro della nave, ma si era dichiarato non competente al livello territoriale per i reati contestati e aveva passato il fascicolo al gip di Ragusa. Sarpietro infatti aveva fatto cadere l’accusa di associazione a delinquere contro il capitano Marc Creus Reig e la coordinatrice dei soccorsi Ana Isabel Montes Mier, lasciando in piedi invece l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Questo elemento aveva fatto decadere la competenza territoriale del tribunale di Catania che ha una specifica autorità per i reati associativi.

La ricostruzione del giudice


Nel decreto di dissequestro il giudice di Ragusa ha ricostruito la cronologia dei soccorsi avvenuti il 15 marzo 2018 al largo delle coste libiche, basandosi sulle testimonianze degli imputati e sulle loro memorie difensive, sul rapporto del Comando generale delle capitanerie di porto italiane e sulla nota del comandante della nave Alpino della marina militare italiana, attiva nell’ambito della missione Mare sicuro.

Dalla ricostruzione degli eventi fatta dal gip emergono tre elementi importanti: il giudice conferma che gli spagnoli non si sono coordinati con la guardia costiera libica compiendo un atto di disobbedienza, riconosce la legittimità di una zona di ricerca e soccorso (Sar) libica, ma sostiene anche che i soccorritori si sono trovati in “uno stato di necessità”, perché i soccorsi finiscono solo con lo sbarco in un posto sicuro e i migranti non potevano di fatto essere riportati in Libia. Il giudice ha riconosciuto che la Libia è “un luogo in cui avvengono gravi violazioni dei diritti umani (con persone trattenute in strutture di detenzione in condizioni di sovraffollamento, senza accesso a cure mediche e a un’adeguata alimentazione, e sottoposte a maltrattamenti e stupri e lavori forzati)”.

Marc Creus Reig e Ana Isabel Montes Mier rimangono indagati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, perché è riconosciuta una condotta di “disobbedienza alle direttive impartite” da chi coordinava i soccorsi, ma il sequestro della nave non è convalidato, perché il gip sostiene che i soccorritori abbiano agito in uno “stato di necessità”. Questa condizione fa decadere il reato di favoreggiamento, come previsto dall’articolo 54 del codice penale italiano che stabilisce l’impunità per chi ha commesso un reato “costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave”.

La cronologia
Il gip di Ragusa nel suo decreto di dissequestro ha ricostruito i fatti: un drone della missione militare europea EunavforMed, attivo nel Mediterraneo nell’ambito dell’operazione Sophia, alle 4.21 del 15 marzo ha avvistato un gommone in difficoltà con diversi migranti a bordo a 40 miglia nautiche dalla coste libiche. La Centrale operativa della squadra navale italiana ha avvisato la nave Capri della marina militare italiana ormeggiata nel porto di Tripoli che a sua volta ha avvertito la guardia costiera libica.

Alle 4.35 dello stesso giorno la Centrale operativa della guardia costiera italiana ha chiamato la nave umanitaria Open Arms chiedendole d’intervenire. Alle 5.37, circa un’ora dopo, la marina militare italiana ha comunicato alla guardia costiera italiana che la motovedetta libica Gaminez stava per salpare dal porto di Al Khums per intervenire in soccorso del gommone avvistato. Alle 6.45 la guardia costiera libica comunicava alla centrale operativa di Roma di aver assunto il coordinamento dell’operazione, ma non dichiarava un tempo stimato di arrivo della motovedetta libica nella zona d’intervento.

Alle 6.49 e alle 7 la guardia costiera italiana comunicava alla Open Arms che la guardia costiera libica stava intervenendo e che non voleva interferenze dalle altre navi. Alle 9.13 la Open Arms comunicava a Roma che aveva avvistato un gommone con dei migranti a bordo che imbarcava acqua e che quindi sarebbe intervenuta. Roma chiedeva agli spagnoli d’informare i libici.

Un rapporto del comandante della nave Alpino della marina militare italiana non conferma la versione degli spagnoli

Alle 11 si concludeva il primo soccorso di 117 persone e la nave spagnola contattava la centrale operativa della guardia costiera italiana dicendo di voler intervenire in soccorso di altre due imbarcazioni in difficoltà. Alle 14 la Open Arms diceva alla guardia costiera italiana che due lance spagnole si erano messe in mare per raggiungere l’imbarcazione in difficoltà e 18 minuti dopo in una nuova chiamata Roma era informata che gli spagnoli avevano raggiunto il gommone e avevano cominciato a distribuire dei giubbotti di salvataggio. Nel frattempo sopraggiungeva una motovedetta libica a tutta velocità, la Ras Al Jaddar, che si era accostata all’imbarcazione di migranti e stava minacciando gli spagnoli.

Un rapporto del comandante della nave Alpino della marina militare italiana non conferma la versione degli spagnoli, e dice che i libici avevano chiesto via radio agli spagnoli di non avvicinarsi al gommone con i migranti. Nella relazione della guardia costiera italiana acquisita dal giudice invece è riportata una conversazione captata via radio dall’elicottero della nave Alpino che riferiva la minaccia dell’uso delle armi da parte dei libici verso gli spagnoli. Secondo il giudice, però i filmati non confermerebbero queste minacce.

Nella seconda parte del suo decreto, Giampiccolo ricostruisce cosa è accaduto dopo che la tensione con i libici è stata superata e i soccorsi della seconda imbarcazione di migranti sono terminati. Alle 18.35 la Open Arms con a bordo 218 migranti ha chiesto alla guardia costiera italiana un porto di sbarco sicuro. “Roma rispondeva che la ong, non avendo operato il soccorso sotto il suo coordinamento, avrebbe dovuto richiedere istruzioni allo stato di bandiera ossia alla Spagna che avrebbe dovuto valutare se chiedere un porto di sbarco alle autorità italiane”, è scritto nel decreto. Il giorno successivo, il 16 marzo, la Open Arms segnalava alle autorità italiane la presenza a bordo di gravi situazioni sanitarie.

Alle 13.50 Malta dava disponibilità allo sbarco dei casi medici più gravi. Dalle 14.01 la centrale operativa della guardia costiera italiana chiedeva agli spagnoli di fare richiesta di sbarco a Malta. Alle 15.41, infine, interviene la Centrale operativa della guardia costiera spagnola che contatta la Open Arms e le suggerisce di sbarcare a Malta. A questa richiesta il comandante della Open Arms risponde dicendo di non aver mai sbarcato a Malta e che è sicuro che i maltesi gli negheranno l’approdo. Alle 16.45 Open Arms chiede ancora una volta a Roma di avere un porto di sbarco assegnato. La nave sbarca infine a Pozzallo, in provincia di Ragusa, la mattina del 17 marzo.

Le reazioni


Riccardo Gatti, portavoce della ong spagnola, ha espresso soddisfazione per la decisione del giudice e ha dichiarato che Proactiva Open Arms continuerà le attività di soccorso in mare con la nave Astral partita il 16 aprile dalla Spagna. “Per il momento la Open Arms sarà portata in un cantiere per fare un po’ di manutenzione e nel frattempo stiamo cercando un’altra nave più grande da prendere in affitto per i soccorsi”, afferma Gatti.

Rimane tuttavia la preoccupazione per Marc Creus Reig e Ana Isabel Montes Mier che sono sotto inchiesta sia a Catania sia a Ragusa per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. “È molto importante che il giudice abbia riconosciuto lo stato di necessità, che è quello che noi sosteniamo da sempre. La Libia non è un posto sicuro in cui portare i migranti”, afferma Gatti che però si dice preoccupato per il riconoscimento della zona di ricerca e soccorso coordinata dai libici da parte delle autorità italiane. “Dal provvedimento del giudice emerge il riconoscimento di una zona Sar affidata ai libici che secondo noi non rispetta le norme internazionali”, afferma Gatti.

Non esiste un porto libico che può essere considerato sicuro ai sensi delle normative internazionali

Dello stesso tono i commenti dell’avvocata della difesa Rosa Emanuela Lo Faro: “Il giudice si è reso conto che il comandante ha agito in uno stato di necessità, perché la Libia non ha un porto e posto di sbarco sicuro. Non c’è assolutamente fumus commissi delicti e cioè la probabilità effettiva del reato, proprio perché è accertato lo stato di necessità nel quale si è agito”. Questo è un punto molto importante, secondo l’avvocata, che rappresenta anche un precedente per future accuse di questo tipo. Secondo Lo Faro, inoltre, “il giudice ha riconosciuto che il fatto di non aver chiesto di sbarcare a Malta non rappresenta la violazione di una norma ma solo di un accordo amministrativo, che non ha precetto normativo”.

Per Gianfranco Schiavone dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) l’importanza di questa sentenza è nell’analisi giuridica condotta dal gip di Trapani: “L’ong ha operato in uno stato di necessità, che giustamente è stato ricondotto non tanto all’immediatezza dei soccorsi quanto alla situazione in Libia. Cioè il soccorso dei libici avrebbe comportato che le persone salvate sarebbero state portate in un paese in cui non è possibile garantire loro sicurezza e nessun diritto sicuro. Non esiste un porto libico che può essere considerato sicuro ai sensi delle normative internazionali”. Questo provvedimento, per Schiavone, dovrebbe orientare i successivi passi di tutta l’indagine. Per l’Asgi inoltre il ragionamento del giudice contiene una contraddizione perché: “Se in Libia non esiste un porto sicuro in cui sbarcare i migranti salvati, allora non sarebbe di fatto operativa una zona di ricerca e soccorso coordinata dai libici, anche se dovesse essere legittimata dalle autorità internazionali”.

Il deputato di Più Europa Riccardo Magi ha commentato: “Ancora non sappiamo perché le autorità italiane abbiano ceduto alla guardia costiera libica la gestione di operazioni di salvataggio in acque internazionali, dal momento che nessuna zona Sar libica è riconosciuta. Ancora nessuna risposta sulle minacce rivolte dai militari libici ai volontari di Open Arms per tentare di prendersi a bordo i naufraghi salvati dalla ong e ricondurli in Libia, né sulla sorte dei naufraghi recuperati lo stesso giorno da una motovedetta libica e riportati in Libia nel corso di un’altra operazione per cui la centrale operativa di Roma aveva in origine allertato la nave di Open Arms. E resta dunque il dubbio che il nostro paese possa essersi reso complice di respingimenti illegali, visto che nessun porto libico al momento può essere considerato un luogo sicuro”.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

il manifesto, 15 aprile 2018. La grande truffa del debito pubblico: uno strumento inventato per continuare a spostare investimenti dalle funzioni e attività utili a tutti i cittadini (dalla salute all'assistenza, dalla scuola alla difesa del suolo) verso gli interessi del finanzcapitalismo. Con riferimenti

In tremila si sono riuniti ieri mattina a Napoli, in piazza Municipio, per protestare contro il debito ingiusto. La manifestazione è stata indetta dal sindaco Luigi de Magistris, che da un anno ha avviato una trattativa con il governo Gentiloni per risolvere la questione Cr8 e quella relativa alla crisi rifiuti: due debiti che risalgono rispettivamente al terremoto del 1980 e agli anni 2006-2008, entrambi contratti da commissari di governo e finiti sulle spalle del comune.

In piazza c’erano i lavoratori della Napoli servizi, consiglieri e assessori, il movimento del sindaco Dema, i sindacati Sll e Usb, gli attivisti di Massa critica, Napoli direzione opposta, Insurgencia, Gridas e Potere al popolo. Sul palco sono saliti volti noti come l’icona della canzone napoletana Angela Luce, l’Arcigay e l’Associazione transessuale Napoli.

Viola Carofalo, portavoce di Potere al popolo, ha sottolineato: «La questione del debito riguarda centinaia di comuni, l’80% al Sud. È un problema nazionale e internazionale, visto quello che i diktat europei e il pareggio di bilancio provocano. È uno strumento per togliere i diritti alle classi popolari». L’assessore comunale al Bilancio, Enrico Panini, ha spiegato: «Il governo uscente è in grado di perfezionare le decisioni che ha già assunto sul Cr8. Sono già state definite le percentuali di responsabilità, sono state trovate le coperture finanziarie, manca la firma. Senza la firma le casse del comune restano pignorate, siamo costretti a ricorrere alle anticipazioni che ci costano interessi al 3%.Oltre150 milioni di disavanzo sono frutto della stagione dei commissariamenti, chiediamo che paghi chi li ha maturati».

Tocca al sindaco chiudere l’assemblea: «È la prima manifestazione in Italia contro il debito ingiusto. Ci presenteremo ai gruppi parlamentari, chiederò un incontro anche al presidente Mattarella. Non vogliamo leggi speciali ma una legge per tutti i comuni contro l’usura di stato. Il governo ha trovato 12 miliardi per salvare le banche e non qualche centinaio di milioni per i diritti degli abitanti del paese. Dovranno risarcirci». E sui 5S: «Ho fiducia che si potranno differenziare da chi ha oppresso i territori». La senatrice pentastellata Paola Nugnes in mattinata aveva dichiarato: «Stiamo con i sindaci, non guardiamo al colore politico ma a realizzare obiettivi quali il benessere dei cittadini». Infine de Magistris ha riservato una stoccata alle due contromanifestazioni convocate da Pd e destra: «Qualcuno ha pensato di dividere la città ma noi lottiamo nell’interesse di tutti».

IN CONTEMPORANEA con piazza Municipio, a via Toledo FdI protestava contro il sindaco: erano una decina, riuniti intorno a un Ape Piaggio tricolore. A piazza Trieste e Trento invece si erano date appuntamento 50 associazioni civiche più il Pd, la Lega e qualche esponente di Fi. Venerdì anche Forza Nuova e Casa Pound avevano annunciato l’adesione al presidio, che alla fine ha raccolto circa duecento persone. Cp ha poi spiegato di essere stata invitata dagli organizzatori.

I dem, con la senatrice Valeria Valente, avevano assicurato la loro presenza durante una conferenza stampa con Gianluca Cantalamessa, proveniente dall’Msi poi approdato alla Lega. La cifra di destra era chiara eppure ieri il segretario e il presidente provinciale dem, la segretaria regionale e il neodeputato Paolo Siani si sono stupiti dell’arrivo di Fn e Cp, allontanandosi dalla piazza. Il capogruppo Pd al consiglio comunale, Federico Arienzo, ha spiegato su Facebook: «Sono andato via. Faccio opposizione al sindaco rispettando la mia idea di società, non c’è spazio per i neofascisti».

Matteo Richetti ha commentato: «Bravo Arienzo! Sono settimane che denunciavi questo errore, una piazza piena di destra e intolleranza di civico non ha proprio nulla. Bastava guardarsi a fianco in conferenza stampa invece di farsi accecare dalle telecamere». Il consigliere regionale Gianluca Daniele si era già dissociato, ieri ha ribadito: «Avevo consigliato ad alcuni colleghi, a partire da Valente, evidentemente in crisi d’identità, di non aderire. Andare in piazza a prescindere da quello che si dice e dalla compagnia mi sembra una conferma dello sbandamento del partito a Napoli».

Riferimenti
Si veda su eddyburg Discutiamo di debito pubblico con il manifesto dell'Assemblea nazionale del CADTM - Comitato per l’abolizione dei debiti illegittimi, Italia, e le posizioni di Roberto Camagni ed Edoardo Salzano e Debito pubblico. Si può non pagare quando è ingiusto. Lo si è fatto altre volte

di Susanna Bõhme Kuby,

la Repubblica,

Il governo non c’è, le Camere ci sono però immobili, come la Bella addormentata. E nel frattempo il potere dove sta, dove si trova? Il potere è altrove, disse Sciascia nel 1983, chiudendo la sua breve esperienza da deputato. Aveva ragione, rispetto ai potentati economici e sociali che condizionano la nostra vita pubblica. Aveva torto, rispetto al cuore pulsante delle istituzioni. Che batte pur sempre in seno alle assemblee parlamentari, anche quando l’aula è vuota. E che trae linfa da altri organi, se il circuito principale s’interrompe, come succede durante una crisi di governo.

È il caso, innanzitutto, del Consiglio supremo di difesa. Nessuno ne conosce l’esistenza, oltre la schiera degli addetti ai lavori. Eppure, in questa crisi siriana, potrebbe dettare la parola decisiva. Perché le sue competenze vertono sulla politica militare dello Stato, come stabilisce la legge istitutiva del 1950. Perché nella prassi, dopo la presidenza Ciampi e soprattutto quella di Napolitano, il ruolo di quest’organismo è divenuto sempre più incisivo. E perché, nell’interregno fra vecchio e nuovo esecutivo, il suo spazio non può che dilatarsi, come l’acqua d’un fiume quando si rompono le dighe.
Dopotutto l’horror vacui costituisce una legge non scritta delle istituzioni, non solo della fisica.
Chi ne fa parte? Il capo dello Stato, che ne è pure il presidente. Una manciata di ministri. Il capo di Stato Maggiore della difesa. Ma altresì, su invito, i vertici dell’esercito, della marina, dell’aeronautica. Tutte istituzioni che incarnano la continuità della Repubblica italiana, nonostante la discontinuità della politica italiana. E presiedute, non a caso, da un’istituzione indifferente all’altalena dei governi. Anzi: quando c’è un vuoto di potere s’espande il potere del presidente della Repubblica, sicché quest’ultimo diventa il «reggitore dello Stato», come diceva Schmitt, e dopo di lui Esposito.
Quanto alle Camere, quaranta giorni dopo le elezioni sono tuttora orfane dei loro strumenti principali: le commissioni permanenti, il cui apporto è indispensabile nel procedimento di formazione delle leggi. In base a una prassi sempre osservata nelle ultime cinque legislature, per costituirle s’attende infatti l’insediamento del nuovo esecutivo. Le ragioni sono tre: perché ciascuna commissione è il dirimpettaio parlamentare d’un ministero, ne rappresenta insomma il controllore, e allora meglio evitare che ministro e presidente di commissione appartengano al medesimo partito; perché non si sa ancora chi stia in maggioranza e chi all’opposizione, quindi è impossibile assegnare alla prima l’Ufficio di presidenza nelle varie commissioni; perché in ogni caso, senza un governo che abbia ricevuto la fiducia, l’attività parlamentare si riduce all’osso.
Ragioni insormontabili? Dipende. L’ 11 aprile 2013, durante l’avvio della legislatura scorsa, s’accese un dibattito presso la Giunta per il regolamento della Camera; e in quella sede il deputato Toninelli sostenne l’esigenza «indifferibile» di rendere le commissioni subito operanti. Lui, adesso, è il capogruppo dei 5 Stelle al Senato, il suo partito ha guadagnato la presidenza della Camera, ma a quanto pare l’urgenza si è rivestita di pazienza. Tanto c’è sempre la Commissione speciale sugli atti urgenti del governo, che appare come la Fata Morgana al battesimo d’ogni legislatura: il Senato l’ha istituita il 28 marzo, la Camera una settimana dopo, scatenando l’ira funesta del Pd, escluso dalla tolda di comando.
Ma che ha di speciale questa Commissione speciale? E perché i partiti s’accapigliano per prenderne il timone? È un organismo temporaneo, sempre che la crisi di governo sia davvero temporanea. E ha competenze circoscritte all’esame dei decreti varati dal Consiglio dei ministri, tuttavia si può allungare la lista della spesa. Così, Fratelli d’Italia ha chiesto che la Commissione s’occupi della nuova legge elettorale, ricevendo un niet. Però non si sa mai, magari nel prossimo futuro scatterà il verde del semaforo, se la crisi s’avvita su se stessa. Ciò che sappiamo fin da adesso è che il potere ha cambiato domicilio, e che per il momento dimora in luoghi misteriosi come la Commissione speciale o il Consiglio supremo di difesa. La vittima di questa lunga crisi si chiama trasparenza.

il manifesto, 15 aprile 2018

Per scatenare una guerra non serve più nemmeno la «pistola fumante» dei tempi di Bush. Ricordate la sceneggiata di Colin Powell con le fialette di antrace , per convincere il Consiglio di sicurezza dell’Onu ad avallare la guerra contro Saddam Hussein. Una guerra basata su una «fake news», come ce ne sono state molte nella storia, poco importa se si è distrutto un paese che non aveva le armi di distruzione di massa. Quindici anni dopo chi se lo ricorda?

La disinformazione serve anche a disorientare l’opinione pubblica che difficilmente riesce a leggere il contesto siriano e soprattutto a reagire sia al presunto uso di gas che ai bombardamenti. Nell’era della post-verità, ma sarebbe meglio dire della disinformazione, non servono prove.

Basta un’«autocertificazione» di Macron o di Trump: «Abbiamo le prove» che Damasco ha usato i gas a Duma e lanciano i missili. Damasco ha superato quella che Obama aveva definito la «linea rossa» (l’uso di armi chimiche). E proprio nel giorno in cui gli esperti dell’Opac (Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche) dovevano iniziare le loro indagini per verificare l’uso o meno dei gas, scatta l’intervento occidentale preventivo. Non servono le prove, soprattutto se rischiano di non assecondare la follia di Trump e dei suoi seguaci. Per ora, si dice, si è trattato di un atto dimostrativo, forse un test per verificare la reazione di Mosca (informata preventivamente). Vista l’efficienza dimostrata dai sistemi antimissilistici siriani (informati dai russi), che avrebbero abbattuto la maggior parte dei 110 missili lanciati, non sarà il caso di sottoporli a una prova più pesante? Il rischio di un’escalation non è da escludere. Del resto Trump sta cercando il modo meno «disonorevole» per uscire da una guerra che ha perso: Assad è ancora al potere e, anzi, ieri dopo l’attacco la popolazione nelle piazze di Damasco ha inneggiato ad Assad. I curdi siriani, aiutati dagli Usa per sconfiggere l’Isis, sono stati abbandonati sotto le bombe del sultano Erdogan.

Tra gli obiettivi attaccati dall’operazione unilaterale di Trump (Macron e May), secondo la Cnn, che cita fonti della difesa Usa, vi sarebbero anche due siti di stoccaggio di armi chimiche nell’area di Homs. O i siti erano vuoti (gli stessi americani nel 2014 avevano annunciato che i siriani avevano consegnato tutte le armi chimiche) oppure si tratta di un gesto folle che avrebbe potuto provocare la dispersione nell’ambiente delle famigerate armi con conseguenze letali sulla popolazione. Ma forse per gli Usa non è così importante: in Iraq, nel 2003, l’avanzata americana aveva fatto fuggire i guardiani che controllavano i depositi di Yellow cake, poi saccheggiati dalla popolazione che, ritenendolo un fertilizzante, lo aveva utilizzato provocando l’inquinamento delle acque e dei terreni.

Ora si aspetteranno i risultati dell’indagine condotta dagli esperti dell’Opac? E i risultati saranno chiari e definitivi? Ma anche se troveranno tracce di gas, chi li avrà usati? Il pensiero torna all’Iraq quando il rapporto presentato dagli ispettori dell’Unmovic (Blix) e dell’Aiea (el Baradei) al Consiglio di sicurezza dell’Onu il 14 febbraio 2003 (il giorno dopo lo show di Powell) non interessava a nessuno. Anzi, «ho avuto l’impressione, subito prima che prendessero la decisione di dare il via all’attacco, che il nostro lavoro li irritasse», aveva detto Hans Blix in una intervista al giornale tedesco Welt am Sonntag.

C’è da supporre che anche l’indagine dell’Opac, qualsiasi siano le conclusioni, non scalfirà le convinzioni di Trump, Macron e May, che con questa attacco militare possono distrarre l’opinione pubblica dai problemi interni. Merkel e Gentiloni non hanno partecipato ma hanno approvato «l’azione necessaria» senza chiedere prove. Con questa nuova battuta militare si rafforza l’asse britannico-americano, indispensabile dopo la Brexit, ma Trump è riuscito anche a riallineare il leader turco Erdogan, che ha approvato l’azione, dopo le sue intemperanze che avevano portato un paese della Nato (la Turchia) a trattare con la Russia e l’Iran. Il presidente Usa ha anche rassicurato Israele proprio mentre continua il massacro dei palestinesi. Trump sta scherzando con il fuoco e forse non ha tenuto conto che sul terreno siriano oltre alla Russia c’è anche l’Iran.

il manifesto, 15 aprile 2018.

«Vaticano. Il papa parla oggi. Il vescovo di Aleppo: non logico che Assad usi armi chimiche adesso»

Una «rappresaglia» contro Bashar Al Assad da parte di Stati Uniti, Regno Unito e Francia. È netto il giudizio del Vaticano sui bombardamenti in Siria della scorsa notte, affidato all’articolo di apertura dell’Osservatore Romano di oggi. «Il presidente degli Stati Uniti ha sciolto le riserve e, a una settimana dal presunto attacco chimico alla città siriana di Douma, ha ordinato la rappresaglia in stretto coordinamento con Londra e Parigi», si legge nell’apertura del quotidiano della Santa sede che titola a tutta pagina «Missili sulla Siria».

Nessuna parola da parte di papa Francesco, ma molto probabilmente le dirà oggi, durante il Regina coeli da piazza San Pietro. Del resto in passato Bergoglio, oltre a denunciare le guerre in corso («una terza guerra mondiale a pezzi») e il proliferare delle armi, è spesso intervenuto sulla Siria, per condannare la repressione e la guerra ma anche per scongiurare un attacco militare contro Damasco.
L’ultima volta domenica scorsa, da piazza San Pietro, all’indomani della strage di Douma: «Giungono dalla Siria notizie terribili di bombardamenti con decine di vittime, di cui molte sono donne e bambini, di tante persone colpite dagli effetti di sostanze chimiche contenute nelle bombe. Non c’è una guerra buona e una cattiva, e niente, niente può giustificare l’uso di tali strumenti di sterminio contro persone e popolazioni inermi. Preghiamo perché i responsabili politici e militari scelgano l’altra via, quella del negoziato, la sola che può portare a una pace che non sia quella della morte e della distruzione».
La prima cinque anni fa, quando sembrava imminente un intervento armato occidentale contro la Siria: in estate scrisse ai leader del G20 riuniti a San Pietroburgo per chiedere ai “grandi” di «abbandonare ogni vana pretesa di una soluzione militare» in Siria; poi promosse una giornata di digiuno e una veglia di preghiera per la pace in piazza san Pietro (7 settembre 2013) in particolare per la Siria. Allora i bombardieri non decollarono. Questa notte invece i missili sono partiti.
Se il papa per ora tace, parlano invece i vescovi siriani. «È sorprendente che l’attacco sia avvenuto proprio mentre stava per iniziare la missione degli ispettori dell’Onu chiamati ad indagare sull’uso delle armi chimiche attribuito al regime di Damasco», ha detto ai microfoni di Radio Vaticana e Tv2000 monsignor Antoine Audo, vescovo caldeo di Aleppo. I Paesi occidentali, che alimentano «il commercio delle armi», «attaccano per dimostrare che la forza e il potere sono nelle loro mani». Secondo il vescovo di Aleppo, la Siria sta pagando «gli effetti del conflitto fra Stati Uniti e Russia» e, a livello regionale, «della guerra a distanza tra Arabia Saudita e Iran». Monsignor Audo nutre forti dubbi sul fatto che l’attacco chimico a Duma sia opera del regime siriano: «Come è possibile che Assad – si chiede – abbia usato armi chimiche mentre il suo esercito ha riconquistato la regione di Ghouta? Non è logico». Spera «che sia fatta luce su tutto ed emerga la verità, non come hanno fatto con l’Iraq in cui hanno distrutto il Paese dicendo che c’erano le armi chimiche». E si augura che Usa e Russia «raggiungano un accordo per una vera pace».
Durissimo il vicario apostolico di Aleppo dei Latini, monsignor Georges Abou Khazen: «Con questi missili hanno gettato la maschera. Prima era una guerra per procura. Ora a combattere sono gli attori principali. Sono sette anni, è iniziato l’ottavo, che si combatte sul suolo siriano, e ora che gli attori minori sono stati sconfitti, in campo sono scesi i veri protagonisti del conflitto». Gli esperti dovranno indagare «sul presunto attacco chimico a Douma, ma dopo questi raid sarà tutto più difficile», constata monsignor Abou Khazen. «Intanto cresce la sofferenza della popolazione che chiede pace e in cambio ottiene bombe e missili. La gente si aspettava qualcosa di simile e purtroppo è avvenuto».
L’auspicio del vicario apostolico di Aleppo è che «questi attacchi non si allarghino anche in altri luoghi della regione, perché sarebbe davvero pericoloso e tutto potrebbe sfuggire di mano. Serve una soluzione condivisa da raggiungere senza menzogne».

Per una didattica della carezza, Progedit Bari, 2017, pp. 214. «Una requisitoria contro quel “tipo di educazione, in cui la qualità dell'istruzione è misurata sulla quantità di competenze e conoscenze che l'insegnante riesce a depositare nella testa dello studente”».

E' scarsamente noto, se non ai pochi addetti ai lavori, quel che sta accadendo nella scuola italiana. Una inusitata pressione delle burocrazie ministeriali tenta di piegare, giorno dopo giorno, le strutture tradizionali dell'insegnamento, le discipline, non già – come sarebbe necessario – a una coraggiosa cooperazione, per far avanzare la ricchezza della conoscenza nei nostri ragazzi, ma ai fini utilitari delle cosiddette “competenze”. L'ossessione impositiva che si riversa su presidi e insegnanti, con una incalzante successione di circolari, disposizioni, regolamenti, è quella di fornire utilità pragmatica, operativa, professionale, all'insegnamento impartito. Il pensiero unico che soffoca l'orizzonte della nostra epoca s'infila con i suoi cascami ideologici nel mondo della scuola per piegarlo alle logiche utilitarie cui ogni sapere è chiamato a ubbidire. Occorre imparare, soprattutto imparare a fare, per essere utili alla società, e sopratutto utilizzabili dalle società...

Per questo non si può che salutare con gioia intellettuale un libro come quello di Laura Marchetti, Agalma. , Progedit Bari, 2017, pp. 214. Non inganni il titolo provocatoriamente sentimentale. Si tratta di un testo denso di riferimenti intellettuali – in cui sono centrali i fondamenti della fenomenologia e la psicanalisi – da Platone a Husserl, da Dewey a Freud, da Marcuse a Freire, ecc. Ma il motivo dominante dei saggi che lo compongono è chiaro e vibrante di passione. Una requisitoria contro quel «tipo di educazione, in cui la qualità dell'istruzione è misurata sulla quantità di competenze e conoscenze che l'insegnante riesce a depositare nella testa dello studente».

Un modo di trasmissione del sapere che anche nelle migliori intenzioni educative ubbidisce al demone dell'utilità finale di una prestazione, di uno scopo operativo che lo studente dovrà mettere in uso una volta fuori dalla scuola. Senza mai considerare gli esiti sociali ultimi di tale metodo: la creazione di individui autoritari, nevrotici, dogmatici, intolleranti, aggressivi. E l'insegnamento di una scuola che vuol riprodurre la società così com'è. E invece Marchetti, in accordo con alcune espressioni alte dei nostri studi pedagogici, teorizza la necessità di un insegnamento che prefiguri una nuova antropologia sociale, che liberi l'oppresso nascosto in ogni individuo , «attraverso una “pedagogia erotica” che metta al centro l'amore in quanto contrasto totale alla struttura necrofila del Potere e fondamento imprescindibile di una nuova società fondata sull'eguaglianza, la cooperazione, il dialogo e la pace».
Dunque un capovolgimento rispetto alle strutture dominanti dell'insegnamento e soprattutto alle tendenze attuali, fondate sul disciplinamento, il controllo, l'esaltazione della competizione, la misurazione ossessiva dei risultati, la strutturazione meritocratica della classe. Non si tratta ovviamente di una impostazione ingenua, nella quale i contenuti vengono sviliti e l'autorità dell'insegnante estromessa. Questa viene anzi pienamente riconfermata, ma ripensata socraticamente all'interno di uno spazio umano e affettivo in cui l'insegnante è maestro di dialogo, così da togliere all'insegnamento il suo carattere dogmatico e impositivo ed esaltando il protagonismo dei discenti. Già dunque nelle forme e nei modi, prima ancora che nei contenuti, la trasmissione del sapere deve far nascere nella soggettività dei ragazzi un'attitudine a discutere l'apprendimento, a viverlo come rapporto solidale, attraversato dai sentimenti, dall'affetto, dall'incoraggiamento, dalla stima, dall'aiuto cooperativo della classe e del docente in quanto comunità. A questo fine almeno due strutture classiche della nostra cultura millenaria aiutano la realizzazione di una tale strategia: il teatro e il racconto.
L'autrice illustra una sua sperimentazione teatrale in un corso universitario, fondato sul Simposio di Platone, coronata da una significativa partecipazione. E si sofferma poi diffusamente, anche con varie esemplificazioni, sull'efficacia formativa delle fiabe. La narrazione, ricorda Marchetti richiede «una mente a più dimensioni, che come una mitica tessitrice, sappia continuamente disfare ciò che ha ordito:l'io e l'altro, l'uno e il molteplice, il passato e il presente, le storie e la Storia». Qui, per brevità, rammento con l'autrice, il valore che Walter Benjamin accordava alla fiaba, rispetto al racconto moderno, che ritrae l'individuo nel suo isolamento e non lo aiuta a sostenere la sua «vita gettata “in un profondo disorientamento”». Mentre la fiaba, per dirla con Gianni Rodari, può rendere «accessibile a tutti la creatività e l'immaginazione».
Articolo inviato contestualmente a il manifesto

Huffington Post

«L'Unesco sfida ancora Israele, che replica: "decisione delirante" Per Ramallah è "un voto storico, un successo della nostra battaglia diplomatica". Netanyahu taglia 1 milioni di dollari all'Onu»
L'Unesco ha riconosciuto la Tomba dei Patriarchi ad Hebron, in Cisgiordania, "sito palestinese" del Patrimonio Mondiale. A favore della Risoluzione - presentata dai palestinesi e fortemente contestata da Israele - si sono espressi 12 Stati membri, con 3 contrari e 6 astenuti. In base alla decisione, la Città Vecchia di Hebron e la Tomba dei Patriarchi diventano siti "palestinesi" e si sottolinea il "loro essere in pericolo".

La Tomba dei Patriarchi, secondo luogo santo dell'ebraismo, è il sepolcro di Abramo, Isacco e Giacobbe. La Tomba è posto di devozione anche per i musulmani che lo chiamano 'Santuario di Abramo' o 'Moschea di Abramo'. Israele - che ha sempre rivendicato le millenarie connessioni dell'ebraismo con la Tomba dei Patriarchi dove accorrono numerosi i fedeli ebrei - aveva chiesto il voto segreto sulla Risoluzione, ma questo non è stato attuato.

Il ministro palestinese della cultura Rula Maaya da definito "evento storico" la decisione del Comitato del Patrimonio dell'Unesco. "Un evento - ha aggiunto - che conferma l'identità dei Patriarchi e che conferma che il campus appartiene al patrimonio e alla storia del popolo palestinese". Anche il governo di Ramallah ha elogiato la decisione dell'Unesco. Il ministro degli esteri Riyad al-Maliki, ha lodato la scelta dell'Unesco, dicendo che "questo voto è un successo nella battaglia diplomatica che la Palestina sta combattendo su tutti i fronti".

"La decisione dell'Unesco è una macchia morale. Questa irrilevante organizzazione promuove falsa storia. Vergogna!". Lo ha scritto su Twitter Emmanuel Nahshon, portavoce del ministero degli esteri di Israele, secondo cui "la gloriosa storia del popolo ebraico è cominciata ad Hebron. Nessuna bugia dell'Unesco e falsa storia può cambiarla. La verità è eterna". Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, parla di "altra decisione delirante" e aggiunge: Israele "continuerà a custodire la Tomba dei patriarchi, per assicurare la libertà religiosa di tutti e...salvaguardare la verità. Solo dove Israele è presente, come a Hebron, la libertà di culto è garantita per tutti. In Medioriente moschee, chiese e sinagoghe vengono fatte saltare in aria - posti in cui Israele non è presente". Anche il ministro della difesa Avidgor Lieberman ha bollato su twitter il voto definendo l'Unesco "un'organizzazione politica, imbarazzante e antisemita". Stessa condanna da parte del ministro dell'educazione Naftlai Bennett secondo cui "è sconfortante e vergognoso che l'Unesco neghi la storia e distorca la realtà, servendo coloro che cercano di cancellare lo stato ebraico. Israele non riprenderà la sua collaborazione con l'Unesco - ha aggiunto - finché questa organizzazione resta uno strumento politico invece che professionale".

La prima contromossa di Netanyahu è l'annuncio del taglio di un altro milione di dollari dalle spese che Israele paga come membro dell'Onu. La mossa prevede anche che con quella somma sia costruito un Museo dell'eredità ebraica a a Kiryat Arba e a Hebron e ad altri progetti nella città. Già in precedenza dopo altre decisioni dell'Unesco, come quella su Gerusalemme, il premier aveva tagliato i fondi all'Onu

postilla
È un pesante segno dei tempi che due popoli debbano lottare tra loro disconoscendo una realtà che la storia dovrebbe aver insegnato a tutti: che le radici dei popoli sono fittamente intrecciate tra loro, e che a essere la condizione profonda di ciascuno di noi. è il meticciato, e non la superba arroganza di essere parte di un "popolo eletto".
Ma la storia dell'Europa capitalista, che all'inizio del secolo scorso ha voluto utilizzare, con il Balfour agreement, l'immissione forzosa del nuovo stato (Israele) tutto ferreamente monoetnico, come avversario e dominatore di un altro popolo (il palestinese) ha provocato, tra gli innumerevoli danni all'umanità, anche quello di riattizzare un odio tra mondo giudaico-cristiano e mondo islamico, che si spoteva sperare fosse superato

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Huffington Post, governo ribadisce l'accordo con Trump, ma i laburisti di Corbyn rifiutano e accusano Theresa May di prendere ordini da Trump


È scontro in Gran Bretagna sull'intervento in Siria. La premier Theresa May l'ha definito un intervento "giusto e legittimo", non per "disarcionare" il presidente siriano, Bashar al-Assad, ma per dare un messaggio chiaro che le armi chimiche non devono essere usate, nè a Damasco e neppure nelle strade britanniche.

"Le armi chimiche non possono essere utilizzate e questo vale non solo per la Siria, ma anche per le strade britanniche", ha aggiunto la premier, con chiaro riferimento all'avvelenamento con il gas nervino, a Salisbury, dell'ex spia russa, Serghei Skripal, e della figlia Yulia. "Non si è trattato di un cambio di regime", ha aggiunto. "E' stato un attacco limitato, mirato ed efficace con chiari confini" per "degradare la capacità di ricercare, sviluppare e distribuire armi chimiche da parte del regime". La May ha aggiunto di avere in mano le prove che il governo di Damasco a Duma abbia utilizzato gas tossici: "Sappiamo con certezza che è stato il regime siriano". "Non vi posso dire tutto", ha osservato, ma ha citato "informazioni di intelligence". "Questa azione collettiva - ha proseguito nella conferenza stampa, organizzata a metà mattina, a Londra- invia un chiaro messaggio che la comunità internazionale non si tira indietro e non tollererà l'uso di armi chimiche".

La premier ha aggiunto che avrebbe voluto seguire "un'altra strada", quella diplomatica, ma che non è stato possibile; e ha ricordato le 6 volte in cui, solo nel 2017, la Russia si è opposta a risoluzioni sul dossier siriano, al Consiglio di Sicurezza dell'Onu; e il veto posto da Mosca solo qualche giorno fa, al Palazzo di Vetro, su una risoluzione che avrebbe autorizzato un'inchiesta indipendente sull'attacco a Duma.

La premier si è difesa anche dall'accusa di non aver consultato il Parlamento: ha detto che lunedì farà una comunicazione a Westminster ma ha difeso la sua decisione.

Poco prima, il leader dell'opposizione britannica, il laburista Jeremy Corbyn, l'aveva pesantemente chiamata in causa: per Corbyn, l'attacco è "discutibile da un punto di vista legale" e renderà più difficile che un giorno il regime di Assad sarà ritenuto responsabile di crimini di guerra. Corbyn ha criticato apertamente la premier perchè prende "istruzioni da Washington" e ha aggiunto che, invece di "stare alle ruote di Trump", May avrebbe dovuto ottenere il sostegno del Parlamento prima di sferrare l'attacco. "Credo che sia stato giusto prendere l'iniziativa", gli ha replicato May.

Quanto alla mancanza di consenso nell'opinione pubblica britannica, la premier ha rimarcato: "Il mio messaggio alla gente è che si tratta dell'uso di armi chimiche. C'è una posizione accettata nella comunità internazionale: le armi chimiche sono illegali, sono vietate. E abbiamo visto che questa norma internazionale si è erosa. E' nell'interesse di tutti che ripristiniamo questa norma internazionale sul divieto delle armi chimiche".

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

Avvenire,

La portavoce del ministro degli Esteri russo ha evocato Colin Powell, la polverina bianca e la fialetta brandita all’Onu prima dell’attacco di Bush all’Iraq. Poi ha insinuato l’elemento di attualità, quella che per il Cremlino da tempo è equiparata a quella polverina: la post-verità. L’appoggio dei media occidentali alle accuse Usa e francesi sull’impiego delle armi chimiche a Douma il 7 aprile.

Condivisibile o meno, è solo una delle tante tessere che costituiscono il mosaico dell’ottavo anno di guerra in Siria. Una guerra, o almeno quattro facce della stessa guerra (dall’insurrezione popolare all’intervento turco ad Afrin delle scorse settimane), in cui la vittima collaterale (ma non troppo) è stata principalmente la verità. Da tutti i fronti: quello dell’Osservatorio siriano sui diritti umani, con base a Londra, accusato più volte di gonfiare o sgonfiare la realtà, quello della propaganda di regime di Assad, russa o iraniana. Quella di racconti a loro volta basati su altri racconti di entità, come la Ghouta Orientale, dove chi entrava era solo parte del conflitto e non terzo.

L’attacco della notte scorsa, a un anno e sette giorni dal primo messo in atto da Donald Trump contro Assad, (a Borse chiuse, dopo i tonfi dei giorni scorsi, e annunciato ore prima da febbrili telefonate ai russi da parte di Casa Bianca, Eliseo e Downing Street) non può però anche essere disgiunto dal vertice di dieci giorni fa ad Ankara, tra Russia, Iran e Turchia. La Yalta dei giorni nostri, il vertice dei vincitori, della spartizione della Siria. Dove francesi, inglesi e americani hanno potuto solo sbirciare dalla finestra. Se può esserci però un senso ai massacri finali nella Ghouta prima della caduta definitiva di Douma, ai Tomahawk della notte a alle successive manifestazioni di consenso al regime mandate in scena nelle strade di Damasco, va proprio cercato nelle conclusioni del vertice del 4 aprile nella capitale turca.

missili della notte, paradossalmente, hanno sancito la debolezza e non la forza dell’Occidente in Siria. E probabilmente l’impunità totale (almeno per ora) dei crimini dei quali si è macchiato negli ultimi otto anni il dittatore Bashar el-Assad. E non cambierà nulla al tavolo dei “padroni” della nuova Siria.

Perché Trump non vede l’ora di lasciare il terreno, dopo aver abbandonato anche gli alleati curdi nelle mani dei turchi. Perché la Dgse francese sta smobilitando i propri agenti come le forze speciali da un’area tradizionalmente “di interesse”, perché la Gran Bretagna ha ormai deciso che il jihadismo del Daesh non lo si combatte più all’origine, ma all’arrivo in patria.

Ecco perché in Siria si tornerà a morire

Così in Siria, dopo il clamore dei prossimi giorni, le condanne e le inconcludenti (perché paralizzate) riunioni del Consiglio di sicurezza Onu e l’improbabile replica dei raid da parte di Trump e alleati, si tornerà a morire. Resta la ridotta di Idlib dove si è concentra la “feccia” del jihadismo (di ogni parte e colore, compreso quello alimentato dai sauditi spettatori interessati dei recenti sviluppi in chiave anti-iraniana con Israele). Lì si combatterà ancora e ognuno cercherà di salvare i salvabili. Allungando ancora la guerra più lunga del Medio Oriente.Bisognerà capire anche come si comporteranno i tre attori, quelli occidentali: che hanno parte in commedia, ma anche grandi necessità a casa loro. Inutile ricordare quello che si è detto in questi giorni dei guai e scandali di Donald Trump in America e della necessità di “distogliere” da essi l’”attenzione”.

O dell’altrettanta scomoda situazione di Theresa May, che con i russi ha già in corso il braccio di ferro su nervino e spie e una Brexit che rischia di farla cadere dal trono. Macron invece avrebbe da “guadagnarci” solo una repentina salita nei sondaggi, che in queste settimane hanno portato alla luce un progressivo disamore dei francesi nei suoi confronti? Forse no, perché l’allontanamento “militare” dall’Eliseo da parte di Angela Merkel, tradizionale alleato europeo, dice anche un’altra cosa. Macron sembra pronto a ricoprire nella Ue a 27, cioè tra un anno dopo l’addio di Londra, il ruolo di partner della Casa Bianca. E, da sempre, le alleanze si consolidano in guerra e non in pace.

il manifesto,

La disfatta elettorale subita dalla sinistra il 4 marzo può avere una sua qualche utilità nella periodizzazione storica della vita politica italiana e nella chiarezza comunicativa. Con il responso delle urne si chiude un’esperienza, quella del centro-sinistra, con un bilancio di incontestabile verità: essa ha provato, con la verifica dei fatti, il fallimento di una strategia politica, che chiude il suo bilancio con la distruzione della sinistra riformatrice italiana. Ciò che è rimasto e rimane programmaticamente all’esterno di quel campo, forze radicali di opposizione, caratterizzate da vari percorsi e indirizzi sono definibili sinistra. Forze frantumate e disperse certamente, ma queste forze, che non cercano alcun centro con cui “moderarsi”, sono oggi, realisticamente, la sinistra in Italia.

Assistiamo in queste ore a una ennesima riprova del fallimento di quella esperienza politica. Mentre continua la guerra infinita in Medio Oriente, con episodi che ci sconvolgono quotidianamente, noi siamo ancora dentro la Nato e le nostre basi militari sono a disposizione delle forze aree americane per colpire città e territori nel bacino del Mediterraneo. Non voglio rievocare episodi che hanno segnato una svolta nella storia delle relazioni internazionali dell’Italia repubblicana, come il bombardamento della Serbia. E neppure rammentare più di tanto la decisione del secondo governo Prodi di concedere il raddoppio della base americana di Vicenza all’amministrazione Bush. L’amministrazione che aveva appena invaso uno stato sovrano, aprendo una pagina di conflitti fra i più sanguinosi della storia mondiale recente.

Parliamo dell’oggi. A che serve la Nato, ora che da tempo non esiste il Patto di Varsavia, la “ cortina di ferro” è crollata, il comunismo è dissolto? Non sono evidenti le ragioni di tale permanenza? Gli Usa hanno drammatico bisogno di un nemico, per tenere unito il paese, dare consenso ai gruppi dirigenti, in una fase in cui la sua supremazia economica volge al declino. E in parte ci sono riusciti, circondando la Russia di basi missilistiche e offrendo a Putin ragioni schiaccianti di affermazione in un Paese allarmato e chiamato a difendersi. Ma la Nato serve agli Usa per due altre ragioni: vendere e utilizzare gli armamenti dell’industria militare e al tempo stesso, anche montando lo spauracchio dell’”orso russo”, tenere agganciata e dipendente l’Europa.

L’interesse dell’Italia in questa alleanza, dominata oggi da un uomo come Trump, sono gli oltre 50 milioni al giorno sottratti al bilancio delle stato per spedizioni in paesi lontani; sono le basi militari ex-lege, sparsi nel nostro paese, di cui il cittadino non sa nulla?

Sono le servitù imposte a tante splendide coste della nostra Sardegna, penalizzate nelle proprie economie e vocazioni. Servitù che tengono lontane le popolazioni dai propri territori, chiuse a ogni controllo democratico, portatrici di contaminazioni di terre e acque e di malattie mortali. Non possiamo aspettarci iniziative di autonomia e indipendenza da parte dei governanti europei. Occorrerebbero degli statisti e noi abbiamo oggi a Bruxelles solo feroci contabili, incapaci di una parola di sdegno per i tanti morti innocenti. D’altra parte non c’è davvero di che stupirsi. Il vangelo dominante dice che a governare devono essere i mercati, e lo Stato deve limitarsi a servirli. Come si può pretendere che esso cerchi di governare i conflitti, avendo di mira la pace tra i popoli?

L’Europa no, ma l’Italia, si. L’Italia potrebbe, almeno per due ragioni. Nel linguaggio geopolitico-militare siamo una portaerei nel Mediterraneo, abbiamo una posizione che offre poteri contrattuali straordinari con gli altri partners. L’Italia può giocare un ruolo di pace e anche di sviluppo economico dei paesi del fronte Sud di vasta portata strategica. Può riacquistare la centralità posseduta nei secoli d’oro del suo primato economico mediterraneo. E potrebbe trattare con ben altra forza con i governi nordeuropei. Ma deve porsi fuori dai giochi delle potenze imperiali. E, infine, a proposito di vangelo, ha un’altra carta. Siede in Roma Francesco, il papa dell’evo moderno, coraggioso fautore della pace nel mondo.

Che cosa aspetta la sinistra frantumata e dispersa, ma sempre viva di idee e passioni, di ricercare un’alleanza fondativa con le forze democratiche del mondo cattolico, con i tanti giovani che affollano le adunanze del Papa in ogni angolo d’Italia e del mondo?

Comune-info, 8 aprile 2018.

«La brillantezza di rossetti, ombretti, smalti da unghie (ma anche delle vernici) è dovuta alla mica, minerale diffuso soprattutto in India. Ad estrarlo nelle miniere sono spesso ragazzi e bambini, almeno 22.000, tanti di loro sotto i dodici anni. Quei bambini non devono fare i conti solo con la fatica, ma anche con la polvere che compromette i loro polmoni e con gli incidenti talvolta così gravi da provocare ferite e fratture mutilanti se non la morte. L’organizzazione indiana Bachpan Bachao Andolan ritiene che nelle miniere di mica muoiano ogni mese una decina di persone, molte di loro minori. Naturalmente sono noti ben noti i nomi delle multinazionali della cosmesi più assetate di mica. Ma come qualsiasi impresa dipende in gran parte dai cittadini consumatori…»

Pochi sanno che la brillantezza e l’effetto perla di rossetti, ombretti, smalto per unghie, prodotti per capelli, è dovuta alla presenza di mica, un minerale friabile di aspetto cristallino che in virtù delle sue proprietà luminose, termiche, chimiche, è utilizzato non solo nell’industria della cosmetica, ma anche delle vernici, dell’elettronica, delle automobili. Ancora più esiguo è il numero di quanti sanno che un quarto della produzione mondiale di mica proviene dall’India, stati di Jharkhand e Bihar, da parte di miniere per il 90 per cento illegali che impiegano una gran quantità di lavoro minorile. Un rapporto appena pubblicato dall’istituto olandese Somo, Global mining mica and the impact on children rights, ci informa che in India i minori impiegati nell’estrazione di mica sono attorno a 22.000, molti di loro sotto i dodici anni. Invece di andare a scuola passano le loro giornate a sminuzzare le scaglie di mica, quando non si calano nei tunnel sotterranei per staccare le lastre e portarle in superficie. Bambini con paghe da schiavi, come d’altronde sono da schiavi quelle dei loro padri, che proprio a causa dei salari miserabili sono costretti a chiedere ai loro bambini di seguirli al lavoro. Ed eccoli là fra le pietre, polverosi, malvestiti e rachitici i nostri piccoli produttori di mica che ci permettono di mettere a punto trucchi smaglianti.

Già nel 2016 la Reuters Foundation, aveva pubblicato un servizio che segnalava la loro triste condizione facendo presente che i bambini lavoratori non devono fare i conti solo con la fatica, ma anche con la polvere che compromette i loro polmoni e con gli incidenti talvolta così gravi da provocare ferite e fratture mutilanti se non la morte. L’organizzazione indiana Bachpan Bachao Andolan, attiva contro il lavoro minorile, ritiene che nelle miniere di mica muoiano ogni mese una decina di persone, molte di loro minori.

Il servizio dalla Reuters Foundation indusse varie imprese che utilizzano mica, fra cui l’Oréal, Chanel, H&M), a correre ai ripari formando un coordinamento denominato RMI (Responsible Mica Initiative) con lo scopo di individuare e perseguire strategie comuni di contrasto al lavoro minorile. Ma un anno dopo la Reuters Foundation è tornata nelle zone di estrazione ed ha trovato che poco o niente era cambiato. In un nuovo documento pubblicato nel dicembre 2017, si legge che i bambini continuano a morire nelle miniere fantasma. Ironia della sorte, proprio il Primo maggio a Girihit, stato del Jharkhand, erano morte quattro persone di cui due adolescenti. La mamma di una di loro racconta:

«Quando abbiamo saputo che la miniera era crollata siamo venuti di corsa ed abbiamo scavato con le mani nude per ritrovare Laxmi. Nonostante una gamba rotta, la bambina ce l’aveva fatta a farsi strada verso la bocca d’uscita, ma siamo arrivati troppo tardi: l’abbiamo trovata morta. Aveva dodici anni».

E i rappresentanti delle Organizzazioni non governative indiane incalzano: “L’RMI ha fatto tante promesse, ma tutte a vuoto”. Le imprese stesse ammettono: “Le iniziative assunte fino ad ora hanno contribuito solo marginalmente a combattere il lavoro minorile perché è mancato lo sforzo collettivo auspicato dall’alleanza”.

Tutt’al più sono state assunte iniziative filantropiche, più utili al social washing che all’elevazione umana. La vera sfida è la dignità del lavoro, perché il lavoro minorile scompare da solo se si liberano le famiglie dal bisogno. Un obiettivo che richiede molto di più di semplici azioni di controllo. Come primo passo va benissimo la gendarmeria per escludere la presenza di fornitori illegali nelle proprie filiere produttive. Ma poi servono politiche proattive per garantire la sicurezza dei luoghi di lavoro, le libertà sindacali, il pagamento di salari vivibili. Le imprese, tuttavia, difficilmente si avvieranno spontaneamente per una strada che mal si concilia con la logica del profitto. Lo faranno solo se spinte dai consumatori che nel settore dei cosmetici hanno al proprio attivo già un risultato importante.

Nel 2009 venne adottato un regolamento europeo che vieta di sperimentare i cosmetici sugli animali e di vendere cosmetici contenenti ingredienti testati sugli animali. La disposizione fu il frutto di una lunga battaglia della società civile, a dimostrazione che volere è potere. Oggi dobbiamo usare la stessa determinazione per liberare la bellezza da un’altra forma di crudeltà ancora più odiosa. Dobbiamo richiedere a istituzioni ed imprese di adottare tutte le misure che servono, per garantire la dignità del lavoro e liberare l’umanità dalla vergogna del lavoro minorile. Non farlo sarebbe come dire che abbiamo meno rispetto per la vita di un bambino che quella di un ratto.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

Osservatorio del sud, 10 aprile 2018.Beni comuni, gennaio 2015. (m.p.r.)

La proprietà che esclude

La prospettiva fornita dall’analisi storica assume sempre di più una potenza dirompente nei confronti delle strutture del presente. Se il termine non fosse usurato, direi che essa è indispensabile per dare fondamento a una visione rivoluzionaria. Dove il termine rivoluzionario non ha il significato commerciale e di pronto uso della pubblicità o di qualche slogan effimero del ceto politico. Né coincide col vecchio e ristretto sinonimo di insurrezionale. Indica, piuttosto, lo sguardo radicale, capace di mostrare il carattere di formazione storica delle strutture del dominio. Il presente che accettiamo come una realtà data e indiscutibile, quasi un dato di natura, è frutto di un processo storico, uno svolgimento nel tempo che ha solidificato rapporti di potere fra uomini e gruppi sociali rendendoli permanenti, trasformandoli in dati di partenza fondativi della vita sociale. E perciò accettati da tutti come e imprescindibili e immodificabili. Una prospettiva storica, ad esempio, consente alla riflessione in corso sui beni comuni di mostrare la genealogia della proprietà privata, il processo violento della sua formazione, le pratiche di sopraffazione attraverso cui si è affermata. Se sappiamo riandare con l’analisi alle origini di tale istituto fondamentale delle società capitalistiche , se comprendiamo il processo della sua formazione, constatiamo che esso perde l’aura di legittimità, quasi naturale e indiscutibile, con cui domina e regola l’intero universo delle relazioni umane.

Il noto pamphlet di Ugo Mattei, pubblicato nella benemerita collana Idola di Laterza, Senza proprietà non c’è libertà: falso,[1] ci ha offerto di recente questa opportunità, e merita di essere ripreso proprio perché ritorna sul tema della proprietà con una prospettiva storica di lungo periodo. Consente di guardare a tale istituto non come dato di fatto, ma come processo. Anche se il saggio di Mattei rafforza in chi lo legge la constatazione recriminatoria che del grande tema della proprietà privata, non solo in Italia, si occupano quasi solo i giuristi: pochi, eterodossi, coraggiosi studiosi del diritto[2].

Certo, è stato storicamente il diritto a fondare la proprietà privata, a trasformare un rapporto di forza e una appropriazione di ricchezza in una legge protetta dal potere dello stato. Sono stati i giuristi a dare forma normativa a un processo sociale che si è andato organizzando secondo gerarchie dettate dai rapporti di forza. E appare perciò naturale che al diritto spetti in primo luogo ritornare teoricamente e storicamente sui propri passi. Ma non possiamo non osservare come la ricerca storica si tenga ben lontana da questo campo, cosi come la sociologia e le altre scienze sociali.

In tali ambiti la proprietà privata appare indiscutibile come il cielo azzurro o le neve bianca. Del pensiero economico, ovviamente, non è il caso di parlare. Diventata, nelle sue forme dominanti, una “tecnologia della crescita”, l’economia al potere ha cessato di pensare e si limita ad applicare dispositivi automatici finalizzati all’aumento del Prodotto Interno Lordo.[3] Deprimente prova della superficialità subalterna dei saperi sociali del nostro tempo, che non solo accettano un processo storico di appropriazione come un dato naturale e indiscutibile, ma operano per la sua perpetuazione ed espansione in più estesi domini della realtà.

Mattei rovescia la convinzione dominante secondo cui la proprietà privata fonda la libertà dei moderni, mostrando che essa nasce dalla privazione della libertà di molti ad opera di una èlite di pochi dominatori: «all’origine della proprietà sta il potere e a ogni potere corrisponde una soggezione, ossia qualcuno più debole che, non avendolo, lo subisce.Tanto più libero è il proprietario tanto meno lo è il non proprietario, sicché - anche sul piano logico - l’asservimento può essere affiancato alla proprietà esattamente quanto la libertà»[4]. Ed egli conia un geniale sintagma, un’espressione da far diventare di uso comune, la «proprietà privante», come termine che esprime l’altra faccia e la natura escludente della proprietà privata.

Com’è noto, il monumento storico-teorico cui si rifanno i critici della proprietà privata e tanti teorici dei beni comuni è il capitolo 24 del Primo libro del Capitale di Marx dedicato alla Cosiddetta accumulazione originaria. [5] Mattei lo riprende anche in questo testo, dopo averne trattato nel suo Manifesto sui beni comuni. [6] In effetti Marx, tramite una superba sintesi storica, disvela in una cinquantina di pagine finali del suo libro, l’insieme dei processi da cui nasce il moderno capitalismo nel paese in cui questo si afferma nel modo più completo. Dopo aver mostrato, tramite numerosi capitoli di analisi, che cosa esso effettivamente è, nella fabbrica e nella società britannica del suo tempo, come opera questo modo di produzione e come esso ristrutturi radicalmente la vecchia società preindustriale, Marx sente il bisogno di spiegare in che modo si è storicamente formato e affermato.

Lo deve fare anche per sbaragliare le mitologie costruite sulle sue origini dagli economisti volgari del suo tempo, che anche allora, come oggi, abbondavano sulla scena pubblica. Il capitalismo, ricorda Marx, finisce col trionfare essenzialmente, grazie alla privazione dei mezzi di produzione della grande massa dei contadini inglesi (yeomen) da parte della piccola nobiltà. Ad essi viene sottratta, tramite forme varie di esproprio, il possesso della terra e la casa (cottage) venendo quindi posti in una condizione di totale illibertà, nell’impossibilità di decidere sulla propria vita. Privati dei mezzi con cui sino ad allora avevano vissuto, ad essi restavano due strade: il vagabondaggio nelle città del Regno o il lavoro nelle manifatture. Nel frattempo i vecchi e nuovi proprietari chiudevano le terre con recinti, anche quelle che erano state comuni (commons), e fondavano le aziende a salariati, cominciando con l’allevamento delle pecore merinos.
I processi di espropriazione messi in atto dalla nobiltà cadetta con il movimento delle recinzioni (enclosures), a partire dal XVI secolo, non sono altro che la fondazione della proprietà privata dei pochi e l’esclusione e la perdita della libertà sostanziale dei molti. Si trattò di un processo sociale di aperta violenza, di una violenza sanguinaria descritta da Marx con impressionante ricchezza documentaria, benché distribuito in un processo secolare. Marx non a caso cita l’Utopia di Tommaso Moro, un testimone del XVI secolo, che mostra le scene miserevoli di carovane di famiglie espropriate, costrette ad abbandonare i loro villaggi e racconta, con surreale sarcasmo, dello strano «paese in cui le pecore mangiano gli uomini».[7] Com’è ormai noto a chi si occupa di tali questioni, questo vasto processo di confisca di terre pubbliche, ecclesiastiche e contadine, su cui si fonda la moderna azienda capitalistica, ha ricevuto una rilevante legittimazione teorica da uno dei fondatori del pensiero politico moderno, John Locke.

Nel Secondo trattato sul governo ( 1690) Locke afferma che «qualunque cosa l’uomo rimuova dallo stato in cui la natura l’ha lasciata, mescola ad essa il proprio lavoro e vi unisce qualcosa che gli è proprio, e con ciò la rende sua proprietà. Rimuovendola dallo stato comune in cui la natura l’ha posta, vi ha connesso con il suo lavoro qualcosa che esclude il comune diritto degli altri uomini». [8] Immaginare nell’Inghilterra del XVII secolo un originario stato di natura, dove un solitario individuo, del tutto libero, si appropri di terre selvagge col proprio lavoro, costituisce una evidente costruzione ideologica, un racconto mitico, che serviva a legittimare il vasto movimento di espropriazione allora in corso nelle campagne. E naturalmente aveva un valore più generale soprattutto per dare dignità legale al saccheggio nelle colonie americane.

Ma Locke segna una svolta rilevante nella formazione del pensiero moderno anche per un altro aspetto. Come ha osservato uno studioso tedesco, Hans Immler, in una vasta ricerca che meriterebbe una traduzione italiana, Natur in der ökonomischen Theorie, [9],Locke non solo fonda, con la sua teoria del valore-lavoro le basi giuridiche della «proprietà privata pre-borghese», ma svaluta la natura «come selvaggia e sterile se è bene comune» mentre stabilisce che è l’«appropriazione privata che le dà valore»[10]. La natura in sé è un bene inutile, solo il lavoro che se ne appropria, la trasforma in ricchezza. Una costruzione culturale che oggi, dopo diversi secoli di sfruttamento capitalistico, si corre il rischio di accettare come vera. Ma basta uno sguardo storico di lungo periodo per capire la sua sostanza di costrutto ideologico. In realtà, assai prima del XVII secolo, per i lunghi millenni precedenti, gli uomini sono sopravvissuti sulla terra e si sono moltiplicati in virtù della produzione spontanea della natura, delle sue abbondanti risorse, non prodotte da alcun lavoro: acqua, bacche, radici, frutta, animali. Per millenni il lavoro, così come già lo intendeva Locke – cioè come un processo di valorizzazione del “capitale” terra - non è mai esistito. Al suo posto, prima che nascesse l’agricoltura, c’era una pura e semplice attività umana di raccolta e di predazione delle risorse esistenti.[11]

Come oggi ci appare evidente il saccheggio del mondo vivente, e i problemi ambientali che ne seguiranno, hanno qui la loro prima, sistematica legittimazione. Si potrebbe dire che Locke elabori i principi costituivi, la normazione teorica della predazione delle risorse naturali come processo di valorizzazione tramite un astratto e mitico lavoro umano.

Per la verità Marx - che ha uno sguardo meno eurocentrico di quanto normalmente gli si attribuisce - sa che il processo di formazione del capitalismo si svolge su scala globale, anche se ha il suo centro in Inghilterra. La proprietà privata non si fonda solo attraverso il movimento delle recinzioni e l’espulsione sistematica dei contadini dalle loro terre e da quelle comuni. L’esercito di proletari privi di risorse per vivere - e perciò necessitati a sopportare il pesante lavoro di fabbrica nell’Inghilterra del XVIII secolo - era nato anche in altro modo, per lo meno nelle colonie inglesi. Egli ricorda, ad esempio, nel capitolo di cui trattiamo, un processo oggi obliato di appropriazione privata non di terre e beni, ma addirittura di uomini, alla base della formazione del capitalismo.

Grazie al trattato di pace di Utrecht con la Spagna, nel 1713, L’Inghilterra estese lucrosamente il suo già avviato mercato di schiavi, prima praticato con l’Africa e i paesi delle Indie Occidentali. Da allora essa «ottenne il diritto di provvedere l’America spagnola di 4.800 negri all’anno, fino al 1743. In tal modo veniva anche coperto ufficialmente il contrabbando inglese. Liverpool è diventata una città grande sulla base della tratta degli schiavi che costituisce il suo metodo di accumulazione originaria» [12]. Uno dei grandi centri urbani della rivoluzione industriale, orgoglio del capitalismo trionfante, era figlio anche di quel cristianissimo commercio con le Americhe che era la vendita di forza-lavoro in schiavitù. Giovani africani strappati ai loro villaggi e condannati a una breve vita di fatiche disumane. Il capitalismo di allora non disdegnava la “proprietà privata” degli uomini, venduti come prodotti coloniali nelle aziende schiavistiche del Sudamerica.

Ma Marx ci ha fornito anche altri strumenti analitici, non meno rilevanti di quelli affidati al celebre capitolo del Capitale. Anzi, sotto il profilo teorico essi appaiono oggi fondamentali per comprendere i meccanismi nascosti di autoriproduzione della ricchezza e delle forme asimmetriche della sua appropriazione. In alcuni passi dei Grundrisse egli ricorda non i processi storici del passato, ma i meccanismi profondi di formazione e di perpetuazione della proprietà sotto la forma moderna della produzione della ricchezza industriale: «la proprietà - il lavoro altrui, passato o oggettivato - si presenta come l’unica condizione per un ulteriore appropriazione di lavoro altrui».Vale a dire, per uscire dal linguaggio astratto ed “hegeliano” di Marx, le macchine, la fabbrica stessa, costruite da altri operai (lavoro altrui) non appartengono ai lavoratori, ma sono proprietà dell'imprenditore e si presentano agli operai stessi come la condizione obiettiva, naturale, che dà loro da vivere, tramite un ulteriore sfruttamento del loro lavoro.

Il capitalismo non crea solo merci, ma riproduce e allarga i rapporti di produzione, ingigantisce cumulativamente le gerarchie di potere, rende la proprietà privata un dato di natura che si autoalimenta. «Il diritto di proprietà - continua Marx - si rovescia da una parte (quella del capitalista) nel diritto di appropriarsi del lavoro altrui, dall’altra (quella dell’operaio ) «nel dovere di rispettare il prodotto del proprio lavoro e il proprio lavoro stesso come valori che appartengono ad altri», cioè come proprietà privata del capitalista.[13] E’ questa asimmetria originaria di potere, su cui si fonda il rapporto capitalistico di produzione, a diffondere la proprietà privata come architettura generale della società. Essa, trasformandosi in denaro, fabbriche, palazzi, terre, centri commerciali, e dunque “cose” di un paesaggio “naturale” occulta costantemente il lavoro che li ha generati.Tale metamorfosi del lavoro trascorso trova poi la legittimazione del diritto e la difesa armata dello stato, presentandosi come una solidificazione geologica indiscutibile.

Ma occorre a questo punto una considerazione storica preliminare importante, decisiva per comprendere il successo storico del capitale. Occorre infatti riconoscere che l’accettazione sociale del dominio proprietario – reso prima di tutto possibile dai rapporti asimmetrici e cumulativi tra detentori dei capitali e proletari, tra ricchi e poveri, dai nudi rapporti di forza tra queste due classi – è risultata storicamente vittoriosa anche e forse soprattutto grazie al successo economico che essa ha conseguito rispetto ai modi di produzione precedenti. Benché una analisi storica sistematica non dovrebbe trascurare la forza di principio d’ordine sociale che la proprietà privata ha finito col rappresentare nelle società dell’Occidente, elemento di regolamentazione tra individui e classi e al tempo stesso presidio di stabilità. Una stabilità che l’elaborazione ideologica della cultura dominante ha saputo fare universalmente introiettare come esaltazione dell’interesse dei singoli individui.

Oggi dovrebbe apparire evidente che la vittoria del modello proprietario nella formazione delle società contemporanee è inscindibile dal successo produttivo del capitale. L’azienda capitalistica a salariati a un certo punto è risultata più efficiente delle singola piccola coltivazione contadina o della bottega artigiana. La piena disponibilità per il singolo capitalista di una massa di lavoratori formalmente liberi, messi al servizio di macchine sempre più efficienti, costretti per l’intera giornata a uno sforzo psicofisico sistematico, ha avuto come risultato una crescente produzione di ricchezza. La massa senza precedenti di beni che usciva dalla fabbrica capitalistica è diventata storicamente la giustificazione universale della legittimità di quella forma di appropriazione privata del lavoro altrui. Il successo generale sul piano strettamente produttivo conquistava ai capitalisti il plauso generale della società. Lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, l’assoggettamento al lavoro della grande massa della popolazione, venivano nascosti dall’efficienza della macchina. Tanto più che la crescita della ricchezza generava altri ceti sociali esterni alla fabbrica, destinati a elaborare un nuovo immaginario , quello del progresso generale della società, che finiva coll’occultare il segreto motore dello sfruttamento operaio che ne costituiva il fondamento.

E’ qui da ricercare indubbiamente una delle basi dell’egemonia del capitale nell’epoca della sua affermazione e del suo trionfo sulla vecchia società, nel XIX secolo. L’elaborazione di un grande racconto di progresso dell’umanità, accompagnata dalle condizioni di libertà formale del lavoro, ha coperto la gigantesca privatizzazione del lavoro umano verificatesi nel corso dell’età contemporanea. E occorre aggiungere che i maggiori autori che hanno elaborato il racconto del progresso sono stati gli storici. Tutta, si può dire, la produzione storiografica sull’età contemporanea, anche quella di ispirazione marxista, è orientata dal teleologismo progressista. Nella narrazione della nostra epoca la freccia del tempo corre in maniera più o meno trionfante in una sola direzione: dall’arretratezza della società preindustriale ai fasti dell’odierna modernità.

Non a caso, la pagina di Marx sull’accumulazione originaria, in cui si racconta di un secolare processo di espropriazione, è stata trattata dagli storici come una premessa della cosiddetta “rivoluzione agricola inglese”. E questo in ragione del fatto che, mentre i contadini venivano trasformati in salariati, la produzione agricola conosceva incrementi di produzione senza precedenti. Quegli storici, infatti, hanno esaltato i processi di liquidazione delle strutture feudali e hanno guardato come a un progresso generale l’avanzare del capitalismo nelle campagne.[14] Perfino un grande storico come Marc Bloch deplorava lo «scandalo del compascuo», vale dire la disponibilità dei contadini di portare le proprie pecore nel fondo del barone dopo i raccolti.[15] La piena disponibilità della terra da parte del proprietario veniva infatti considerata come condizione per un suo più efficiente uso e i vecchi rapporti comunitari visti come un impaccio al pieno sviluppo delle forze produttive.

Ma questo atteggiamento apologetico nei confronti dei vincitori - che sorregge tutta la storiografia contemporanea - è figlia anche dell’ambivalenza di Marx, che deplora l’espropriazione dei contadini, ma ammira la borghesia rivoluzionaria impegnata a distruggere il vecchio mondo. Un'ammirazione, tuttavia, legata alla visione teleologica delle creazione delle basi sociali di una rivoluzione prossima ventura, capace di liberare finalmente e per sempre il lavoro salariato. Marx esaltava la borghesia capitalistica perché il suo successo costituiva la base per un superiore assetto di uguaglianza e di libertà umana. Il fatto che questo non si sia realizzato ci rende oggi liberi da quel provvidenzialismo. E ci dovrebbe consentire una visione storica nella quale il processo della modernizzazione appaia sotto una luce diversa da quella sinora tracciata. Un nuovo racconto sia per quanto riguarda la sorte del lavoro, sia per ciò che concerne la natura, le risorse, gli equilibri degli ecosistemi, beni comuni dell’umanità, il cui saccheggio privato è stato tenuto nascosto dalla rappresentazione storica e dalla sua nascosta teleleogia.
La natura comune

Oggi, naturalmente, appare sommamente difficile, se non impossibile, scorgere nel paesaggio delle città contemporanee le tracce del lavoro che ne hanno edificato le strutture. I grattacieli, le fabbriche, i ponti e le strade, le banche, le abitazioni , le aziende agricole, i centri commerciali appaiono tutti frammenti di un paesaggio di cose, e dunque un principio di realtà indiscutibile in cui si svolge naturalmente la nostra vita. Non appare più possibile scorgere la privatizzazione del lavoro umano che le ha fatto sorgere. E mettere oggi in discussione la titolarità di questa ricchezza solidificata in forme di cose, trasformata in eredità storica, comporterebbe un tasso di violenza sociale inimmaginabile, e dunque politicamente non praticabile. D’altra parte, occorre riconoscere che la ricchezza generale prodotta dal capitalismo riscatta in parte le inique modalità storiche in cui essa è stata generata. Anche se tante, troppe generazioni di lavoratori non ne hanno goduto, le lotte operaie del XX secolo hanno reso possibile una sua ampia redistribuzione, che ha toccato i ceti popolari e vaste fasce di popolazione.

Ma oggi siamo entrati in una fase storica in cui il problema della proprietà e dei beni comuni acquista una nuova attualità, a causa di una duplice dinamica, sempre più dispiegata. Da una parte infatti, il capitalismo cerca sempre più di impossessarsi privatamente, a fini di profitto, di ambiti di realtà sinora inesplorate. Si pensi alle appropriazioni e brevettazione di piante e semi da parte delle aziende biotecnologiche negli ultimi anni.[16] Il mondo vivente è oggi un terreno di caccia in cui scovare nuove fonti di profitto. Ma è anche il caso di risorse vitali per la vita umana trasformate in merci preziose nel giro di qualche decennio. Si pensi all’acqua, oggi definito l’oro blu del nostro tempo.[17] Eppure allorché è sorto il pensiero politico moderno, quando è stata sistemata in un quadro coerente la società capitalistica al suo sorgere, l’acqua appariva priva di valore.

Nella sua Inquiry sulla Ricchezza delle nazioni, Adam Smith, poteva legittimamente affermare che «Nulla è più utile dell’acqua, ma difficilmente con essa si comprerà qualcosa, difficilmente ne può avere qualcosa in cambio. Un diamante, al contrario ha difficilmente qualche valore d’uso, ma in cambio di esso si può ottenere una grandissima quantità di altri beni».[18] Oggi la situazione appare quasi capovolta e una risorsa come l’acqua, inseparabile dal diritto degli individui alla sopravvivenza, appare carica di valore economico come mai in tutta la storia precedente. E diventa evidente che proprio il suo ingresso nel processo di valorizzazione del capitale, il suo divenire merce, mentre la strappa definitivamente dalla condizione di res nullius, cosa di nessuno, la disvela agli occhi delle popolazioni come un bene comune drammaticamente scarso e perciò conteso. Siamo entrati, per dirla con le parole di uno storico americano dell’ambiente, James Moore, in una fase di «fine della natura a buon mercato».[19] Le risorse naturali, sempre più scarse per effetto della crescita della popolazione mondiale e dello sfruttamento sempre più vasto e sistematico, tendono ad apparire sempre meno quali “fattori di produzione”, appartenenti a questo o a quel paese, a questa o a quella corporation privata, e sempre più quali fonti indispensabili per la sopravvivenza di tutti. La loro sempre più stringente necessità generale le restituisce all’ambito originario dei beni comuni.

L’altra dinamica, a questa indissolubilmente connessa, che fa emergere intorno a noi un paesaggio di beni comuni prima nascosto è il processo ormai dispiegato di squilibri ambientali che colpisce non solo isolate realtà, ma l’intero pianeta. Di giorno in giorno appare sempre più evidente che la natura non sopporta un utilizzo privato e distruttivo delle sue risorse, non regge più il saccheggio a cui il capitalismo la sottopone in forme crescenti da almeno tre secoli. Ma la specifica novità del nostro tempo è che la natura tende ad apparire sotto gli effetti squilibranti dell’azione umana, sempre meno divisibile in singole risorse sfruttabili: l’acqua, la terra, l’aria, le piante, ecc. Essa sempre più appare come una totalità indivisibile e intimamente connessa, e sempre di più, dunque, come un common globale.

Guardiamo quel che ormai da tempo avviene intorno a noi, nelle nostre città. Noi oggi scopriamo quello che sino a qualche decennio fa non eravamo quasi capaci di scorgere: il legame sistemico tra il cielo e la città. Siamo costretti a misurare la qualità dell’aria che in essa si respira, e a prendere atto della sua manipolazione, insieme privata e collettiva, a scopi produttivi e di varia altra natura. Il sorgere di un rischio per la salute umana, esploso in maniera allarmante negli ultimi decenni, ha fatto emergere quale bene comune una risorsa vitale irrinunciabile, un elemento naturale da tutti ignorato per millenni in quanto illimitato e relativamente integro. L’aria oggi è diventato un common. Noi tutti respiriamo l’aria che ci circonda senza pensare ai nostri polmoni, ma anche senza badare al fatto che essa è natura, che da essa dipende la nostra vita, e certamente senza chiederci a chi giuridicamente appartiene. Ma l’apparire della scarsità di questa risorsa, la sua violazione e alterazione (che corrisponde a una appropriazione privata dei singoli) la fa emergere quale elemento naturale che rende possibile l’esistenza di tutti, illumina il suo carattere di bene collettivo e indivisibile.

Sono non pochi gli ambiti in cui le alterazioni ambientali disvelano il carattere nascosto di bene comune delle risorse naturali, per via della loro indispensabilità alla vita di tutti. Si pensi alla terra fertile, alla stabilità del territorio, alla biodiversità naturale, ecc.[20] Oggi noi scopriamo, in maniera specificamente significativa in Italia, che il territorio delle nostre città e delle loro periferie non può più essere edificato e manomesso secondo gli interessi privati dei singoli. La sua integrità non può più essere subordinata alla piena disponibilità di chi vanta la proprietà privata di un suo singolo frammento. Oggi sappiamo, con maggiore pienezza e con più ricca esperienza di qualche anno fa, che costruire, cementificare, sottrarre aree di verde all’ecosistema territorio finisce col produrre danni generali che investono l’intera comunità. Ogni frammento di verde sottratto al territorio di una qualche zona corrisponde alla perdita di una “spugna” capace di assorbire l’acqua piovana durante le grandi piogge, rappresenta una diminuzione dell’effetto di contenimento delle polveri sottili prodotte dalle attività urbane, accresce l’instabilità del suolo e degli abitati, altera il microclima del luogo perché sostituisce natura vivente (erbe, alberi) con materia inerte che assorbe e genera calore. Ma in generale, costruire un edificio in un qualunque luogo di un paese intensamente antropizzato comporta l’alterazione evidente di interessi generali, a fronte dei quali la proprietà privata di un singolo pezzo di territorio appare sempre più priva di diritti individuali da rivendicare.

Infine, il clima, altro common finora nascosto. Lo scenario climatico che le conoscenze scientifiche del nostro tempo hanno squadernato davanti a noi ci mostrano oggi un altro aspetto di legame sistemico tra la città, i suoi attori naturali, e il più vasto spazio planetario. Le città ci fanno sperimentare la nuova mondialità del locale. Mai come oggi esse erano apparse così nitidamente quali punti interconnessi di una rete a scala globale. Com’è largamente noto, è lo smog cittadino, sono gli scarichi urbani e i fumi industriali per produzioni destinate alle città a determinare una percentuale rilevante di immissione di gas serra nell’atmosfera.Tutte le città del mondo, centri energivori di varie dimensioni e potenza, consumano in maniera crescente petrolio e carbone, alterando il clima atmosferico, surriscaldando il nostro comune tetto di abitanti della Terra. Il riscaldamento globale, potremmo dire, senza forzare molto le cose, è figlio del metabolismo urbano.[21] E dunque se le attività produttive e il movimento dei singoli oggi arrivano ad intaccare gli equilibri di ciò che appariva, sino a pochi decenni fa, così incommensurabilmente lontano – l’atmosfera – un nuovo e più vasto common appare davanti a noi, destinato a condizionare la proprietà privata di tutti e il suo libero uso. Essa non più essere considerata ciò che finora è stata, la discarica res nullius dove ognuno poteva gettare i propri fumi e veleni. Il suo diventare il tetto comune dell’umanità è destinato a cambiare molte cose nella storia a venire delle nostre società.

Pubblicato su Glocale Rivista molisana di storia e studi sociali, Gennaio 2015

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[1]Laterza, Roma-Bari
[2] Si vedano alcuni esempi in P. Grossi,
Un altro modo di possedere. L’emersione di forme alternative di proprietà alla coscienza giuridica postunitaria, Giuffrè Milano, 1977;S. Rodotà, Il terribile diritto. Studi sulla proprietà privata, il Mulino Bologna, 1981(e varie edizioni successive); P. Maddalena, Il territorio bene comune degli italiani, Donzelli Roma 2014,
[3] P.Bevilacqua,
Saperi umanistici e saperi scientifici per ripensare il mondo, in P.Bevilacqua (a cura di) A che serve la storia? I saperi umanistici alla prova della modernità, Donzelli, Roma 2011, p.10 e ss.
[4] Mattei,
Senza proprietà non c’è libertà, cit.
[5] K.Marx,
Il Capitale, Libro primo.Traduzione di D.Cntimori.Introduzzione di M. Dobb , Editori Riuniti, Roma 1967, pp.777-836
[6] U.Mattei,
Beni comuni. Un manifesto, Leterza, Roma-Bari 2011. Ma si veda anche, con più attenzione agli aspetti ambientali dell’appropriazione G.Ricoveri, Beni comuni vs. merci, Jaca Book, Milano 2010. E, per un approccio pluridisciplinare, P. Cacciari (a cura di), La società dei beni comuni, Carta, 2010.
[7] Marx, Il capitale, I, cit.p.783
[8] J.Locke,
Il secondo trattato sul governo, introduzione di T.Magri,traduzione di A.Gialluca, BUR Milano, 1998,p. 97
[9]H.Immler,
Natur in der ökonomischen Theorie, vol. I,Vorklassik-Klassik-Marx, vol. II, Phisiocratic-Herrschaft der Natur,Westedeutscher Verlag, Opladen ,1985, pp. 79-87
[10]Ibidem, p.87
[11]La tendenza ad applicare le categorie dell’economia politica anche alle più remote fasi dell’umanità, a valutare il valore della natura secondo i criteri dell’economia di mercato, è stata a lungo molto diffusa. Cfr. P. Bevilacqua,
Demetra e Clio.Uomini e ambiente nella storia, Donzelli, Roma 2001, pp. 4-6 e p, 85 e ss.
[12] Marx,
Il Capitale, cit. p.822
[13] K.Marx,
Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica,presentazione, traduzione e note di E.Grillo, La Nuova Italia, Firenze 1970,vol.II, p. 78
[14] Ma è stato provato che la “rivoluzione agronomica” in Inghilterra, vale a dire l’associazione di cereali e leguminose con conseguente aumento delle rese produttive, era stata già praticata dai contadini sin dal XV secolo (R.C.Allen,
Le due rivoluzioni agrarie, 1450-!850, Rivista di storia economica, 1989, n. 3
[15]M.Bloch,
I caratteri originali della storia rurale francese, Einaudi Torino 1873
[16] Si veda, per il processo di globalizzazione come appropriazione privata – entro una letteratura sempre più estesa- V. Shiva,
Il bene comune della terra, Feltrinelli Milano,2006. Sull’appropriazione scientifica del vivente, C.fr. M.Cini, La scienza nell’era dell’economia della conoscenza; G.Tamino, Il riduzionismo biologico tra tecnica e ideologia; E.Gagliasso Luoni, Riduzionismi: il metodo e i valori, in C.Modonesi, S.Masini, I.Verga. Il gene invadente: Riduzionismo, brevettabilità e governance dell’innovazione biotech, introduzione di M.Capanna, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2006; Sulle imprese biotech , M. De Carolis, La vita nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Bollati Boringhieri, Torino 2004
[17] M.Barlow e T.Clarke,
La battaglia contro il furto mondiale dell’acqua: come non esserne complici, Arianna Editrice, Bologna, 2009
[18] A. Smith,
Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Mondadori, Milano 1997, I, p. 17
[19] J.Moore,
Ecologia-mondo e crisi del capitalismo. La fine della natura a buon mercato. Introduzione e cura di Gennaro Avallone, Ombre corte, Verona 2015.Sul rapporto tra capitalismo e risorse della terra, sotto il profilo teorico, J.Bellamy Foster,B.Clark,R. York, The ecological rift.Capitalism war on the earth.Monthly Review Press, New York, 2010.
[20] Su quest’ultimo aspetto cfr. C.Modenesi e G. Tamino (a cura di)
Bio diversità e beni comuni, introduzione di M. Capanna, Jaca Book, Milano 2010.
[21] Sul riscaldamento globale che gode ormai di una bibliografia sconfinata, cfr essenzialmente V.Ferrara e A.Farruggia,
Clima istruzioni per l’uso.I fenomeni, gli effetti, le strategie, Edizioni ambiente , Milano 2007; N.H.Stern, The economics of climate change: the Stern review, Cambridge University Press, Cambridge 2007. Per dati più aggiornati si possono consultare in rete i rapporti periodici dell’Intergovernamental Panel on Climate Change ( IPCC)

Comune-info, 7 aprile 2018.

«Di fronte a enormi scandali come quello di Facebook e Cambridge Analytica non ci stiamo ponendo le domande giuste, quelle che veramente ci riguardano. Non dovremmo vedere soltanto ciò che la tecnologia fa o può fare, sia che la utilizziamo noi, sia che la utilizzi un’impresa o un governo. La società in cui viviamo è fondata su un sistema che non è in grado di impedire lo spionaggio sui nostri dati. Meno ancora che essi vengano commercializzati e usati per fini estranei al nostro controllo o interesse. Eppure non è quella la minaccia più grave del caso emerso con Cambridge Analytica. La domanda importante riguarda quello che la tecnologia fa a noi: perché e come ci facciamo modellare da dispositivi sempre più astratti i quali, attraverso l’applicazione di certi algoritmi, possono indurre pensieri o orientamenti che non abbiamo scelto»

Di fronte a scandali come quello di Facebook e Cambridge Analytica non ci stiamo ponendo le domande giuste, quelle che veramente ci riguardano. L’attenzione è concentrata su quello che la tecnologia può fare: come vengono raccolti e processati i dati personali, come vengono utilizzati per influenzare la gente, come certi gruppi possono utilizzare questo a fini propri, quali che essi siano.

Si ricerca la trasparenza nel contratto dell’Istituto Nazionale Elettorale con Facebook. Sembra una cosa sensata. Si fa pressione su Facebook affinché controlli l’informazione. Tuttavia, come lo stesso Zuckerberg si è chiesto in pubblico, la scorsa settimana, ci si deve chiedere se deve essere suo il compito di filtrare quello che passa nella rete, se deve svolgere un’azione di censura. Rispondere di no, non risolve il problema. Se non è lui, chi allora? I governi? I parlamenti? Commissioni di cittadini? Le Nazioni Unite? Il problema consiste forse nello stabilire chi deve censurare?

La discussione prosegue incentrata su quello che la tecnologia fa. L’enfasi oggi sembra consistere nella contraddizione fra utenti e clienti di Facebook. Facebook presta un servizio a circa 2 miliardi e 200 milioni di persone. Questi utenti non sono i suoi clienti. I suoi clienti sono quelli che comprano l’informazione sui suoi utenti, per i propri fini; sono loro che creano i guadagni che hanno reso Zuckerberg uno dei cinque uomini più ricchi del mondo.

Un processo analogo avviene con coloro che usano carte di credito o i servizi di un ospedale o di un supermercato. L’informazione elettronica su ciò che le persone fanno o cessano di fare nella loro vita quotidiana è una merce. La comprano coloro che la usano per i propri interessi politici, economici o di qualsiasi altro tipo. La comprano per modellare pensieri e comportamenti in funzione di ciò che loro conviene. La società nella quale viviamo non può impedire che questo spionaggio avvenga e ancor meno che venga commercializzato e utilizzato per finalità che non sono quelle degli utenti.

Forse però non è questo che dobbiamo chiederci, anche dopo aver saputo che non c’è una risposta accettabile. Non dovremmo vedere soltanto ciò che la tecnologia fa o può fare, sia che la utilizziamo noi, un’impresa o un governo. La domanda importante è quello che la tecnologia fa a noi: in qual maniera ci facciamo modellare da dispositivi sempre più astratti i quali, attraverso l’applicazione di certi algoritmi, possono indurre pensieri o orientamenti.

Non sembra esserci un grave danno nel fatto che un’impresa acquisisca informazioni sull’acquisto di medicine che una persona ha fatto per farle arrivare un messaggio pubblicitario di ciò che l’impresa vende. La persona potrà farci caso o meno, e comunque i vantaggi e le libertà associati alle nuove tecnologie sembrerebbero compensare il prezzo di essere esposti a tale pubblicità. Però questo è già superato. Il problema è molto più profondo, molto più grave. E’ di altra natura. Che qualcosa come ciò che ha fatto l’impresa con cui Trump ha fatto l’accordo sia possibile, che una certa tecnica possa determinare ciò che facciamo o decidiamo di non fare, ossia votare per un candidato o comprare una determinata marca di sapone, che siamo arrivati a questo punto, questo è ciò che deve preoccuparci.

50 anni or sono, nel 1968, Erich Fromm osservò che un fantasma si stava aggirando furtivamente fra noi e solo pochi lo avevano visto chiaramente: il fantasma di una società meccanizzata diretta da computer. In questa società, scrisse Fromm, l’uomo stesso, ben nutrito e soddisfatto, sebbene passivo, appagato e poco sentimentale, si sta trasformando in un ingranaggio della macchina globale. [Nella nuova società] i sentimenti verso gli altri saranno diretti dal condizionamento psicologico e da altri espedienti dello stesso genere, o da droghe, che a loro volta forniranno un nuovo tipo di esperienza introspettiva. La cosa più grave, pensava Fromm, è che perdiamo il controllo del nostro stesso sistema. «Eseguiamo le decisioni che i calcoli del computer elaborano per noi. (…) Non vogliamo nulla né rinunciamo a volere qualcosa. Le armi nucleari minacciano di estinguerci e la passività (…) di ucciderci internamente» (La revolución de la esperanza, FCE, 1970, p.13).

Lo stesso Fromm citava Zbigniew Brzezinski, di infausta memoria: «Nella società ‘tecno-elettronica’, la tendenza sembra andare nel senso dell’aggregazione dell’appoggio individuale di milioni di cittadini fra loro scoordinati, che cadranno facilmente dentro il raggio d’azione di personalità magnetiche e attrattive, le quali sfrutteranno in modo efficace le tecniche più recenti di comunicazione per manipolare le emozioni e controllare il pensiero» (p. 13).

A questo siamo arrivati. Come si può vedere nel mercato elettorale messicano, non è necessario che siano personalità magnetiche e attrattive… Ma la domanda non deve concentrarsi su coloro che quotidianamente commettono l’atrocità della manipolazione, su quelli che vivono di questo affare, su Facebook, per esempio, o su partiti e candidati messicani. La domanda deve vertere sugli utilizzatori, quelli che si sono lasciati trasformare in un profilo; quelli che credono di star parlando con altri quando stanno solo scambiando informazioni con loro; quelli che contano soddisfatti il numero di amici o amiche che in quel momento stanno guardando la loro fotografia, il selfie, che hanno appena caricato sulla loro pagina; quelli che, in realtà, sono già diventati ciò che l’algoritmo capta e usa, quelli e quelle che si sono trasformati in ciò che la loro traccia elettronica fa vedere… Il trucco funziona solo per questo. Questo è il vero problema.

Fonte: La Jornada
Traduzione a cura di Camminardomandando
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