». Su quali specchi dovrà arrampicarsi Scalfari per replicare? Aspettiamo con pazienza.La
Repubblica, 12 ottobre 2016
L’oligarchia è la sola forma di democrazia, ha sostenuto Eugenio Scalfari nei suoi due ultimi editoriali su questo giornale. Ha precisato che le democrazie, di fatto, sono sempre guidate da pochi e quindi altro non sono che oligarchie. Non ci sarebbero alternative: la democrazia diretta può valere solo per questioni circoscritte in momenti particolari, ma per governare è totalmente inadatta. O meglio: un’alternativa ci sarebbe, ed è la dittatura.
Quindi — questa la conclusione che traggo io, credo non arbitrariamente, dalle proposizioni che precedono — la questione non è democrazia o oligarchia, ma oligarchia o dittatura. Poiché, però, la dittatura è anch’essa un’oligarchia, anzi ne è evidentemente la forma estrema, si dovrebbe concludere che la differenza rispetto alla democrazia non è di sostanza.
Tutti i governi sono sempre e solo oligarchie più o meno ristrette e inamovibili; cambia solo la forma, democratica o dittatoriale. Nell’ultima frase del secondo editoriale, Scalfari m’invita cortesemente a riflettere sulle sue tesi, cosa da farsi comunque perché la questione posta è interessante e sommamente importante.
Se fosse come detto sopra, dovremmo concludere che l’articolo 1 della Costituzione (“L’Italia è una repubblica democratica”; “la sovranità appartiene al popolo”) è frutto di un abbaglio, che i Costituenti non sapevano quel che volevano, che hanno scritto una cosa per un’altra. Ed ecco le riflessioni.
Se avessimo a che fare con una questione solo numerica, Scalfari avrebbe ragione. Se distinguiamo le forme di governo a seconda del numero dei governanti (tanti, pochi, uno: democrazia, oligarchia, monarchia) è chiaro che, in fatto, la prima e la terza sono solo ipotesi astratte.
Troviamo sempre e solo oligarchie del più vario tipo, più o meno ampie, strutturate, gerarchizzate e centralizzate, talora in conflitto tra loro, ma sempre e solo oligarchie. Non c’è bisogno di chissà quali citazioni o ragionamenti. Basta la storia a mostrare che la democrazia come pieno autogoverno dei popoli non è mai esistita se non in alcuni suoi “momenti di gloria”, ad esempio l’inizio degli eventi rivoluzionari della Francia di fine ‘700, finiti nella dittatura del terrore, o i due mesi della Comune parigina nel 1871, finita in un bagno di sangue.
Dappertutto vediamo all’opera quella che è stata definita la “legge ferrea dell’oligarchia”: i grandi numeri della democrazia, una volta conquistata l’uguaglianza, se non vengono spenti brutalmente, evolvono rapidamente verso i piccoli numeri delle cerchie ristrette del potere, cioè verso gruppi dirigenti specializzati, burocratizzati e separati. Ogni governo realmente democratico non è che una fugace meteora. In quanto autogoverno dei molti, fatalmente si spegne molto presto.
Tuttavia, la questione non è solo quantitativa. Anzi, non riguarda principalmente il numero, ma il chi e il come governa. Gli Antichi, con la brutale chiarezza che noi, nei nostri sofisticati discorsi, abbiamo perduto, dicevano semplicemente che l’oligarchia è un regime dei ricchi, contrapposto alla democrazia, il regime dei poveri: i ricchi, cioè i privilegiati, i potenti, coloro che stanno al vertice della scala sociale contro il popolo minuto. In questa visione, i numeri perdono d’importanza: è solo una circostanza normale, ma non essenziale, che “la gente” sia più numerosa dei “signori”, ma i concetti non cambierebbero (dice Aristotele) se accadesse il contrario, se cioè i ricchi fossero più numerosi dei poveri.
Si può parlare di oligarchia in modo neutro: governo dei pochi. Ma, per lo più, fin dall’antichità, alla parola è collegato un giudizio negativo: gli oligarchi non solo sono pochi, ma sono anche coloro che usano il potere che hanno acquisito per i propri fini egoistici, dimenticandosi dei molti. L’oligarchia è quindi una forma di governo da sempre considerata cattiva; così cattiva che deve celarsi agli occhi dei più e nascondersi nel segreto.
Questa è una sua caratteristica tipica: la dissimulazione. Anzi, questa esigenza è massima per le oligarchie che proliferano a partire dalla democrazia. Gli oligarchi devono occultare le proprie azioni e gli interessi particolari che li muovono. Non solo. Devono esibire una realtà diversa, fittizia, artefatta, costruita con discorsi propagandistici, blandizie, regalie e spettacoli. Devono promuovere quelle politiche che, oggi, chiamiamo populiste.
Occorre convincere i molti che i pochi non operano alle loro spalle, ma per il loro bene. Così, l’oligarchia è il regime della menzogna, della simulazione. Se è così, se cioè non ne facciamo solo una questione di numeri ma anche di attributi dei governanti e di opacità nell’esercizio del potere, l’oligarchia, anche secondo il sentire comune, non solo è diversa dalla democrazia, ma le è radicalmente nemica. Aveva, dunque, ragione Norberto Bobbio quando denunciava tra le contraddizioni della democrazia il “persistere delle oligarchie”.
Se ci guardiamo attorno, potremmo dire: non solo persistere, ma rafforzarsi, estendersi “globalizzandosi” e velarsi in reti di relazioni d’interesse politico-finanziario, non prive di connessioni malavitose protette dal segreto, sempre più complicate e sempre meno decifrabili. Se, per un momento, potessimo sollevare il velo e guardare la nuda realtà, quale spettacolo ci toccherebbe di vedere?
Annodiamo i fili: abbiamo visto che la democrazia dei grandi numeri genera inevitabilmente oligarchie e che le oligarchie sono nemiche della democrazia. Dovremmo dire allora, realisticamente, che la democrazia è il regime dell’ipocrisia e del mimetismo, un regime che produce e nutre il suo nemico: il condannato che collabora all’esecuzione della sua condanna. Poveri e ingenui i democratici che in buona fede credono nelle idee che professano!
C’è del vero in questa visione disincantata della democrazia come regime della disponibilità nei confronti di chi vuole approfittarne per i propri scopi. La storia insegna. Ma non ci si deve fermare qui. Una legge generale dei discorsi politici è questa: il significato di tutte le loro parole (libertà, giustizia, uguaglianza, ecc.) è ambiguo e duplice, dipende dal punto di vista. Per coloro che stanno in cima alla piramide sociale, le parole della politica significano legittimazione dell’establishment; per coloro che stanno in fondo, significa il contrario, cioè possibilità di controllo, contestazione e partecipazione. Anche per “democrazia” è così.
Dal punto di vista degli esclusi dal governo, la democrazia non è una meta raggiunta, un assetto politico consolidato, una situazione statica. La democrazia è conflitto. Quando il conflitto cessa di esistere, quello è il momento delle oligarchie. In sintesi, la democrazia è lotta per la democrazia e non sono certo coloro che stanno nella cerchia dei privilegiati quelli che la conducono. Essi, anzi, sono gli antagonisti di quanti della democrazia hanno bisogno, cioè gli antagonisti degli esclusi che reclamano il diritto di essere ammessi a partecipare alle decisioni politiche, il diritto di contare almeno qualcosa.
Le costituzioni democratiche sono quelle aperte a questo genere di conflitto, quelle che lo prevedono come humus della vita civile e lo regolano, riconoscendo diritti e apprestando procedimenti utili per indirizzarlo verso esiti costruttivi e per evitare quelli distruttivi. In questo senso deve interpretarsi la democrazia dell’articolo 1 della Costituzione, in connessione con molti altri, a incominciare dall’articolo 3, là dove parla di riforme finalizzate alla libertà, all’uguaglianza e alla giustizia sociale.
Queste riflessioni, a commento delle convinzioni manifestate da Eugenio Scalfari, sono state occasionate da una discussione sulla riforma costituzionale che, probabilmente, sarà presto sottoposta a referendum popolare. Hanno a che vedere con i contenuti di questa riforma? Hanno a che vedere, e molto da vicino.
Un convegno internazionale promosso da BarbaraSpinelli (Milano, 25 settembre 2016) ha rivelato come i migranti che approdanofortunosamente in Europa non siano che la punta di un immensoiceberg, costituito da milioni di persone sfrattate dalle loro case e terre,cacciate dal perverso “sviluppo “praticato dal resto del globo. Sulla base deimateriali e degli stimoli di quel convegno la nostra redattrice ha scrittoquest’ampia analisi della questione, con l’obiettivo di diffonderne la conoscenza e di stimolare azioni cheaiutano ad contrastarne le cause.
I NUOVI DANNATI DELLA TERRA
GLI SFRATTATI DELLO "SVILUPPO
di Ilaria Boniburini
1. Introduzione
Esiste una stretta relazione tra il modello di sviluppodominante, le devastazioni ambientali e i flussi migratori indotti provenientidai paesi del Sud del mondo verso il Nord. E chi maggiormente subisce glieffetti negativi di questo sviluppo sono le popolazioni indigene e i poveri delSud del mondo, cioè coloro che meno hanno contribuito a provocarli. Non solo,ma l’Europa, insieme ai nuovi imperi (Cina e US), continua a perseguire iltornaconto del mondo occidentale, anche celandosi dietro la cosiddetta “cooperazioneinternazionale”.
Il 24 settembre scorso si è svolto a Milano il convegnointernazionale “Il secolo dei rifugiati ambientali?” organizzato dall’europarlamentareBarbara Spinelli
. Lerelazioni presentate hanno insistito non tanto sull’emergenza migratoria dell’Europa,quanto sulle cause ambientali, all’origine della maggior parte delle migrazioniindotte.
Il convegno prende origine dal fatto che quella dei migrantiambientali è una condizione non riconosciuta dal diritto internazionale comequella dei rifugiati, per cui a queste persone non è riconosciuto il diritto diasilo, nonostante l’abbandono del loro paese di origine sia forzata. Infatti, imigranti ambientali sono coloro che si trovano costretti ad abbandonare le loroterre per cause di siccità, erosione del suolo, desertificazione, deforestazione,inquinamento, salinazzione delle terre e altri eventi causati da mutamentiambientali provocati dall’intervento dell’uomo.
Dalle analisi presentate dai relatori, è evidente che losbarco in Europa di migliaia di persone non è il solo e neanche il piùdrammatico dei problemi se si guarda alle origini di questi flussi forzati e siconsidera il fenomeno nelle sue innumerevoli manifestazioni. Evidenti sonoanche le responsabilità dei paesi “sviluppati” nel concorrere alle cause dellemigrazioni forzate e le loro opportunistiche politiche messe in atto.
Sono uscita dal convegno con unaprofonda amarezza per la pochezza della nostra società, che vanta di essere civile,moderna, evoluta e democratica, mentre continua a costruire il proprio “sviluppo”sullo sfruttamento degli altri popoli e spesso calpesta i diritti umani dei piùdeboli nel perseguire i propri interessi. Sono arrabbiata con il popolo Europeoe con quello Italiano, per l’incapacità di esprimere ospitalità e solidarietà ecogliere l’opportunità di rinnovamento che potrebbe derivare dall’incontro diculture diverse. La storia è anche fatta di migrazioni.
Mi rendo conto che scrivere solo per denunciare non èsufficiente. La denuncia sembra solo provocare un' indignazione momentanea, manon una presa di coscienza vera e propria. Vorrei utilizzare quello che hoimparato nei miei dieci anni di studio, lavoro e vita in Africa su questioni disviluppo e quello che ho acquisito al Convegno sui rifugiati ambientali perconvincervi di due cose.
1. Le politiche migratorie italiane ed europee sonoprofondamente sbagliate. Il problema posto è fuorviante: è mirato a mantenerefuori dalla “Fortezza Europa” i migranti poveri e non ad affrontare ilproblema. Queste politiche sono intellettualmente insignificanti e moralmentemisere; «non dobbiamo dimenticare che non si fala storia senza grandezza di spirito, senza una moraleelevata, e senza gesti nobili» (Rosa Luxemburg).
2. Se si vuole affrontare il problema alla base, occorre unradicale cambiamento del nostro modello di sviluppo e stili di vita. Una fettaenorme delle migrazioni in atto è provocata da trasformazioni ambientaliindotte dal nostro modo di vivere, che sta distruggendo la fonte primaria dellanostra vita: l’universo naturale e le sue insostituibili risorse. Inoltre, convertetutti i nostri beni (cose che hanno valore per l’uso che ne facciamo) in merci(cose che hanno valore solo la loro capacità di essere convertite in moneta);trasforma i fruitori in clienti (paganti); e riduce le nostre esperienze edecisioni a questioni di mero interesse economico-finanziario. A sostegno dellamia tesi porto una serie di ragionamenti.
2. Politichemigratorie sbagliate
il problema posto è fuorviante e strumentale
Una distinzione iniziale tra “migranti”, “migranti senzavisto” e “migranti da sfratto” è necessaria per non alimentare una confusionegià presente nei discorsi politici e nella maggior parte dei giornali.
A rigore di logica e dizionario alla mano, sono “migranti”tutti coloro che si trasferiscono in un paese diverso da quello di origine.Anch’io sono una migrante: vivo e lavoro all’estero dal 1998; ma grazie al miopassaporto Europeo e al mio conto in banca, non sono mai stata additata come “migrante”,e non ho mai avuto particolari problemi ad ottenere un visto.
Quando si parla del “problema dei migranti”, i governi egiornali si riferiscono più specificatamente ai “migranti senza visto” chearrivano in Europa – generalmente additati come “clandestini” perché non hannoun visto di accesso. Un visto che gli è stato negato o gli verrebbe comunquenegato in base alle norme nazionali di frontiera. Queste norme non sono ugualiper tutti. In presenza di un passaporto non occidentale, viene di solitorichiesto di avere un’assicurazione sanitaria, un conto corrente bancario e soldi,referenze, e altro ancora. Particolare resistenza a rilasciare un visto è fattanei confronti dei cittadini Africani.
Utilizzo il termine “migranti da sfratto” per riferirmi atutte quelle persone che per diversi motivi - conflitti, disastri ambientali,carestie, o progetti di sviluppo come dighe - sono letteralmente statesfrattate e private della loro casa o si vedono costrette a lasciare le loroterre per poter sopravvivere o dare supporto alle loro famiglie. Mi rendo contoche il termine è generico ed è forse difficile provare uno sfratto indotto,perché lasciare la propria terra (o addirittura il proprio paese di origine)richiede anche una volontà individuale, nonché una capacità fisica edeconomica. Qualche decennio fa, in assenza di ricerche e testimonianze dirette,poteva essere difficile capire le cause di queste migrazioni da sfratto. Oggi,non mancano né i dati né le testimonianze, ed è accertato che chi affronta unviaggio incerto, pericoloso, e costoso come quello che i migranti senza vistointraprendono, per terra o per mare, lo fa per ragioni molto forti. Nei loropaesi di origine rischiano di essere uccisi in guerra, perseguitati dai proprigoverni, ma anche “solo” di non avere più mezzi di sussistenza, perché spazzativia e per l’incapacità dei governi di supplire a carestie, siccità, alluvioni, oaltri eventi.
A supporto della definizione “migranti da sfratto” cito unafonte autorevolissima, Saskia Sassen e il suo recente saggio del 2015 Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economiaglobale. Nel libro, Sassen descrive come il fenomeno delle espulsioni siauna tipica caratteristica di questa fase del neoliberalismo e cita moltissimiesempi: dalle espulsioni di lavoratori, agricoltori e residenti non abbienti daun numero sempre più consistente di aree, alle espulsioni di intere comunità daparte di governi e multinazionali per costruire dighe o intraprenderecoltivazioni da esporto.
2.1 Occorre guardareoltre i “migranti senza visto”
I “migranti senza visto” che arrivano in Europa sono solouna piccola percentuale della totalità di coloro che si trovano costretti adabbandonare le loro terre a causa di guerre, persecuzioni, carestie, oinadeguate condizioni socio-economiche. Diamo uno sguardo ad alcunestatistiche.
L’ International Organization for Migration (IOM) stima che nel2015 circa 1.046. 600 persone sono arrivate in Europa; si precisa che il numeronon tiene conto di quelli che riescono a passare inosservati. Frontex, l’Agenzia Europea per la gestionedelle frontiere esterne degli stati membri, ha stimato che sono circa 1.800.000i migranti arrivati in Europa nel 2015.
Nel 2014, l”Europa ha accolto circa 3.107.000 rifugiati,mentre l’Italia pur essendo il paese di arrivo di molti rifugiati ne ha accolticirca 93.000, ponendosi agli ultimi posti per incidenza dei rifugiati rispettoalla popolazione nazionale
.
Paragoniamo ora queste cifre con quelle del rapporto “GlobalTrends 2015” dell’UNHCR
relativeal totale degli sfrattati, conteggiati a fine 2015 in tutto il mondo: circa65.3 milioni. Un popolazione più grande di quella dell’Italia o della GranBretagna! Un quinto di questi (12.4 milioni) sono quelli sfollati nel solo anno2015. Il numero degli sfrattati è aumentato notevolmente negli ultimi duedecenni, e si è velocemente ingrandito a partire dal 2011, con l’inizio della“primavera Araba” e il conflitto siriano. La maggior parte degli sfrattatiSiriani approda in Turchia. Nonostante l’attenzione è focalizzata sull’Europa,e le regioni Africane e del Medio oriente, altre crisi si sono abbattute nelAmerica Centrale. Le violenze in El Salvador, Guatemala, and Honduras hannoprovocato un’ondata di migrazioni forzate verso il Messico e gli Stati Uniti. Conla situazione dello Yemen in continua deteriorazione, durante il 2015 circa 169.900persone hanno abbandonato il paese, rifugiandosi nei paesi vicini, e circa 2,5milioni sono stati internamente sfrattati.
Un altro dato interessante emerge dalle stime dell”InternationalDisplacement Monitoring Centre (IDMC): sono circa27.8 milioni le persone che nel 2015, a causa di guerre, violenze e carestie eranosenza una casa, ma sempre nei confini dei loro stati. Questi sono i cosiddetti “sfollatiinterni” (IDPs – Internally Displaced People),cioè quei migranti forzati che non riescono a pagarsi un viaggio verso l’Europao altri paesi. Relegati nei rapporti delle agenzie internazionali, raramente siparla di loro. Nel 2015, sono state “internamente sfrattate” circa 8.6 milionidi persone e circa 11 milioni l”anno precedente.
2.2 I rifugiati: una categoriache appare sempre più discriminante
Come succede per altre questioni, quello che non colpisce ilmondo occidentale, è ritenuto irrilevante. Se migliaia di persone, senza vistoe senza soldi non arrivassero per mare e per terra in Europa, il problema dei “migrantida sfratto” passerebbe inosservato.
Per i governi europei il problema non è quello dei migrantiin sé, ma il fatto che sono poveri, e non dovrebbero entrare a meno che non faccianoparte della categoria dei “rifugiati” quindi aventi diritto di asilo.
Dalla Convenzione di Ginevra nel 1951, quando è statariconosciuta la condizione di rifugiato a coloro che si trovano al di fuori delloro paese di origine a causa di persecuzioni, conflitti, violenze o altrecircostanze che minacciano l’ordine pubblico, sono state accolte e salvatemolte vite umane. Gli Stati hanno accettano una serie di obblighi nei confrontidi queste persone; ma oggi questa forma di protezione assomiglia sempre più auna categorizzazione che serve soprattutto a tenere fuori i migranti dasfratto, che sono la maggior parte. Nel 2015, meno di 1/3 di quei 65,3 milionierano riconosciuti come rifugiati e circa 3,2 milioni avevano fatto domanda diasilo (
asylum-seekers). Inoltre, idieci paesi che accolgono il maggior numero di rifugiati sono quelli del Suddel Mondo, di cui cinque nell”Africa Subsahariana e non come si penserebbel’Europa. Con circa 2.5 milioni, la Turchia rimane lo stato che ha il più altonumero di rifugiati
.
2.3 La meschinità dell’Europa
A considerare le statistiche di cui sopra, ci rendiamo contoche l’enfasi data al “nostro” problema Europeo di ‘sistemare’ 1.8 milioni di “migrantisenza visto” è sproporzionata rispetto al dramma complessivo delle “migrazionida sfratto”.
Non solo, ma l’Europa per non sovraccaricarsi di questa peso,relativamente esiguo, sta facendo di tutto per mettere in atto politicherestrittive per il controllo dei flussi di migranti.
Ne sono esempi significativi il Migration Compact, l’accordòEU con la Turchia e la Roadmap di Bratislava. Il Migration Compact è uno strumentoper evitare l’ingresso ai migranti senza visto e non un modo per affrontare ilproblema migratorio. Infatti, consiste sostanzialmente nel esternalizzare lefrontiere, incentivando i paesi di origine ad esercitare un risoluto controllosulle uscite e rispendendo al mittente coloro che sono entrati, anche versopaesi retti da dittatori riconosciuti responsabili di crimini contro l’umanità,come il Sud Sudan
.
L’accordocon la Turchia, che prevede il ritorno dei richiedenti asilo nella Turchia di Erdogan- paese non in grado di garantire ai rifugiati un asilo sicuro - rischia divenir ripetuto con l’Egitto di Al Sisi
.
E perconcludere la lista delle misure ristrettive, la recentissima Roadmap diBratislava, che dichiara di non voler più permettere flussi incontrollati,assicurare il pieno controllo delle frontiere, ritornare al sistema Schengen edi applicare principi di solidarietà e responsabilità. Questi obiettividovrebbero essere raggiunti attraverso: la messa in opera dell”accordo EU-Turchia,il Migration Compact, il “dialogo” con paesi terzi (sul modello Egitto) e l’operatività(nonché” indipendenza) della Guardia di frontiera europea. Uno strumento gretto,velato – neanche tanto bene - da una falsa preoccupazione per le vite umane deimigranti (appellandosi ipocritamente alla solidarietà).
3. Riconoscere le trasformazioniambientali come causa fondamentale delle migrazioni da sfratto
Vivendo e lavorando in Africa, le statistiche citate non misorprendono. Non c’è uno stato Africano che non abbia un campo profughi o chenon abbia avuto il problema di ricevere sfollati o vedere i propri abitantiscappare altrove. Quando insegnavo in Ruanda, oltre 2/3 dei miei studenti eranonati al di fuori del loro paese, per la maggior parte in campi profughi inCongo o Tanzania.
Non ero invece del tutto consapevole del peso che letrasformazioni ambientali hanno nel produrre “migranti da sfratto”. Cercherò quindidi dare conto di quest’ aspetto.
I conflitti continuano ad avere una responsabilità notevolenel provocare fughe, ma secondo l’IDMC, nel 2015 solo il 31% degli sfollatiinterni è dovuto a conflitti e violenze, mentre il restante 49% è dovuto adisastri naturali come terremoti, eventi climatici estremi come le alluvioni, oaltre cause legate a trasformazioni ambientali gravi
.
3.1 Oltre le cause diguerra: il peso delle cause ambientali
Per dare un’idea
generale, adotto la distinzione della Forced Migration Online(FMO) che individua tre cause fondamentali alla base di quelli che chiamo “migrazionida sfratti”
:
1. Conflitti: conflitto armato, inclusa la guerra civile;violenza generalizzata; e la persecuzione per motivi di nazionalità, razza,religione, opinione politica o di un gruppo sociale, da parte delle autoritàstatali. Questa è l’unica causa riconosciuta suscettibile di aiuto internazionale,in quanto è quella che produce i rifugiati.
2. Disastri: catastrofi “naturali” (come vulcani, alluvioni,terremoti), cambiamenti ambientali (deforestazione, la desertificazione, ildegrado del territorio, il riscaldamento globale) e disastri provocatidirettamente dall’uomo (incidenti industriali, radioattività). Il tema degli sfrattatidal disastro, per cause “naturali” e legate al cambiamento climatico, rimanecontroverso; e ne spiegherò le ragioni nei seguenti capoversi. Diverse organizzazioniinternazionali forniscono assistenza alle persone colpite da queste calamità,tra cui la Federazione Internazionale delle Società della Croce Rossa eMezzaluna Rossa, e il Programma alimentare mondiale, senza contare le molte ONG.
3.
Sviluppo: progetti realizzati per migliorare lo “sviluppo”di un’area, città, nazione che però al contempo produce sfratti a larga scaladi comunità locali e indigene. Per esempio i progetti di dighe, le estrazioniminerarie, le deforestazione o la creazione di parchi e riserve, che estromettele popolazioni indigene
. Questoè senza dubbio un fattore trascurato, che avviene con poco riconoscimento,supporto o assistenza, proprio perché colpisce in modo sproporzionato leminoranze indigene, i poveri urbani e rurali; spesso con la compiacenza deigoverni locali e attraverso i finanziamenti dei paesi occidentali o della Cina.
Chiaramente, tra queste tre categorie vi sonosovrapposizioni di cause ed effetti. È fondamentale cercare di capire le causedi queste trasformazioni ambientali, ma concentrarsi sulla ricerca di un nesso lineareo matematico di causa ed effetto tra migrazioni dovute a trasformazioniambientali e attività antropica «può essere fuorviante e servire più daparaocchi che da strumento di analisi»
.
Bisogna invece riconoscere che c’è un’ondatamigratoria silenziosa che rappresenta le vittime di un sistema di produzione econsumo che ha ampiamente superato i limiti ecologici del Pianeta. Lemigrazioni ambientali possono essere lette come conseguenza di un continuotrasferimento di servizi ecosistemici dai luoghi sfruttati ai poli dellosfruttamento, fino a determinare nei primi ambienti ostili alla sopravvivenza”.
Come afferma François Gemenne, ci troviamo nell’erageologica dell’Antropocene
, in cuitutte le trasformazioni ambientali sono in qualche misura legate all’operadegli esseri umani, a come si produce, si consuma, si costruisce, e si governa,quindi al predominante modello di sviluppo.
3.2 Sviluppo: l’egemoniadi una credenza e il collasso di un Pianeta
La parola sviluppo è quella che forse più di ogni altra èstata capace di plasmare un’epoca. Per oltre settant’anni il concetto disviluppo come sinonimo di progresso, civilizzazione, e positività a priori(senza il bisogno di qualificare lo sviluppo con un attributo) ha orientato lepolitiche di tutti i paesi del mondo e colonizzato le menti, impedendo ad altreconcezioni di essere approfondite e altre pratiche di essere attuate.
Questo concetto è però inadeguato sia a comprendere i fenomeni,che a dare risposta ai bisogni e alle questioni che il genere umano esprime inquesta fase della sua storia.
È indicativo che il termine sviluppo abbia acquisito l’accezioneattuale a partire dal 1945, quando è entrato in uso il concetto sottosviluppo. Daallora lo sviluppo è stato associato all’idea che tutte le società avrebberodovuto passare attraverso prevedibili “fasi di sviluppo”. È quindi diventando unprogetto di dominazione, in quanto minala fiducia di altre culture ad esprimersi e portare avanti diversi modi dipensare e di agire e riducendo i loro destini ad un modo essenzialmenteoccidentale di concepire, percepire e plasmare il mondo.
Nei decenni successivi c’è stata una progressivasovrapposizione tra sviluppo e “sviluppo economico” compiendo una forteriduzione dei significati complessi e che il termine comprende. Così come cisono stati tentativi di riabilitare la parola stessa nei suoi momenti di crisi,per esempio durante il momento di presadi coscienza ambientale, di preoccupazione per la scarsità di risorse e losfruttamento sfrenato della natura. Se questa coscienza ha introdotto l’importanteconcetto di “limite alla crescita”, la nozione di sostenibilità - che invece havinto - ha matrici diverse. Infatti, quest’ultimo concetto è avvolto da una“modernizzazione ecologica”, dove l’innovazione tecnologica riveste un ruolocentrale. Si riconosce una crisi ecologica, ma a differenza del movimentoradicale sul limite della crescita si crede fermamente di poter interiorizzarela cura per l’ambiente.
Bisogna riconoscere che il termine è emerso al momento giusto: per dare allosviluppo uno scopo relativamente nuovo e soprattutto una rinnovata legittimazione. Losviluppo sostenibile è l’espressione che forse più di ogni altra ha ridato allosviluppo un prestigio mondiale, e lo ha fatto dandogli un tono opportunatamenteambientalista. La tesi principale che sta al fondo dell’espressione svilupposostenibile è che crescita economica e problema ecologico possono essereconciliati, è solo una questione di individuare appropriate misure dimitigazione.
La caratteristica peculiare dello sviluppo, e dell’immaginarioche lo accompagna, è che la crescita e il progresso possano svilupparsi all’infinito,anche grazie all’aumento costante delle merci prodotte. Ma, come scrive GilbertRist
, l’egemoniadello sviluppo si è potuta affermare solo grazie ad un illusione semantica,attraverso la creazione del sottosviluppo, cioè creando uno “pseudo contrario”che ha trasformato una credenza in senso comune, e facendo credere nellapossibilità di trasformare l’intero mondo ad immagine e somiglianza dell’occidente
.
Invece, a distanza di 70 anni ci ritroviamo un pianeta inprogressivo deterioramento. Di seguito alcuni elementi emblematici
:
- lo scioglimento dei ghiacci nella parte ovest dell’Antartideha superato ormai la soglia dell’irreversibilità e se le previsioni sonocorrette con l’innalzamento del livello dei mari la migrazione di centinaia dimilioni di persone rimarebbe l’unica alternativa (a);
- nonostante i rischi per l’ecosistema, naviinquinanti continuano a trasportare materiali inquinanti, provocando emissionidi gas di serra corrispondente al 4-5% del totale; l’organizzazione marittimainternazionale prevede un aumento del 72% entro il 2020 in assenza diprovvedimenti contro tale problema (a);
- negli ultimi 15-20 anni gli eventi climatici estremisi sono manifestati con effetti sempre più distruttivi e con frequenza sempremaggiore; per esempio El Nino nel 2015 ha provocato una grave siccità dall’AfricaOrientale sino al Sud America e all’Asia, traducendosi in malnutrizione, morte dimigliaia di capi di bestiame, e diffusione di epidemie, mettendo a rischiocirca 60 milioni di persone (a);
- a partire dal 1990, almeno 18 confitti violenti sonostati generati dallo sfruttamento delle risorse naturali e il 40% dei confittiintrastatali degli ultimi 60 anni (guerre civili come quelle in Angola, Congo,Darfur, Medio Oriente) si collegano alla gestione, accesso e sfruttamento dellerisorse naturali (a);
- il rapporto “The Human Cost of Weather RelatedDisasters” sostiene che negli ultimi 20 anni circa il 90% delle catastrofiregistrate nel mondo sono state provocate da fenomeni legati al clima (inondazioni,tempeste, siccità) (a);
- dal Medio Oriente agli Stati Uniti, dal SudAmerica all”Europa dell”Est, in tutti i continenti si moltiplicano i rischi discontro per l’acqua; il rapporto ONU “Acqua per un mondo sostenibile” dice cheentro 15 anni la domanda di acqua aumenterà del 55% ma nel 2030 ladisponibilità coprirà solo il 60% (b);
- 1 miliardo di persone sono ancora senzaacqua potabile e 2 miliardi e mezzo sono privi di servizi igienici (b);
- un rapporto del Pentagono (2004) afferma che le prossimeguerre saranno combattute per questioni di sopravvivenza.; nei prossimi 20 annidiventerà evidente un “calo significativo” dalla capacità del pianeta di sostenerel”attuale popolazione; milioni di persone moriranno per guerre e per fame finoa ridurre la popolazione della terra ad una quantità sostenibile (b);
- un rapporto della CIA (2011) sostiene che almenootto fiumi saranno oggetto di conflitti (b);
- la quantità di acqua necessaria in Africa percoltivare i terreni acquistati da stranieri e multinazionali nel 2009, è duevolte il volume usato nei 4 anni precedenti in tutta l’Africa; se l’accaparramentodelle terre e dell’acqua continua al ritmo attuale, la richiesta di acquasupererà le scorte Africane di acqua rinnovabile (b);
- dighe, miniere, piantagioni, autostrade,complessi industriali e resort turistici, costringono ogni anno 10 milioni dipersone a spostarsi e i privati assumono il controllo dell’acqua che dava davivere a intere popolazioni;
- solo le dighe hanno generato nei decenni passati80 milioni di profughi; per esempio la diga Rinascita, sul Nilo costruitadalla italiana Salini formerà un bacino che bloccherà tanta acqua pari a unavolta e mezzo il flusso annuo del Nilo e caccerà uomini e donne e animali (b);
- il Land Matrix, un “iniziativa indipendente permonitorare l’acquisizione di terre su grandi scale, registra che le transazionitransnazionali coprono una superficie di circa 44, 27 milioni di ettari,praticamente tutti situati nel Sud del mondo e solo una piccola percentuale èdestinata a coltivazioni alimentari; questo fenomeno provoca l’espropriazioneforzata di piccoli coltivatori locali (landgrabbing).
Gli effetti negativi di questo modello di sviluppo, così comei sui benefici, non sono omogeneamente distribuiti dal punto di vistageografico (ne tantomeno dal punto di vista delle classi sociali). Sono lepopolazioni del sud del mondo e quelle più povere a pagare il prezzo dellegravi conseguenze di questo sviluppo, quando invece i benefici sono concentratinei paesi occidentali e riservate alle persone abbienti.
3.2 Non puòesserci sviluppo equo senza giustizia ecologica
Giuseppe De Marzo nella sua presentazione “Larelazione fra diritti umani e diritti della natura”
haspiegato il rapporto, tanto ovvio quanto indissolubile, tra natura e uomo equindi tra diritti della natura e diritti dell’uomo, tra equità e sostenibilità,tra pace e sviluppo equo (come sosteneva Maathai Wangari) e tra sviluppo equo egiustizia ecologica.
Le “migrazioni da sfratto” non sono altro che unulteriore prodotto, insieme alla povertà e alle diseguaglianze, di questomodello di sviluppo, che basa la sua sussistenza sullo sfruttamento dellerisorse naturali, sulla protezioni dei capitali e dei profitti dei grandiinvestitori, e sulla credenza nello sviluppo illimitato.
Affrontare il problema dei “migranti da sfratto”significa ripensare profondamente e rivoluzionarmene a un nuovo modello disviluppo, che sostiene la causa dell’ambientalismo e dell’ecologismo piùradicale, ponendo fine alla rapina, sfruttamento e distruzione del PianetaTerra, rimettendo al centro dell’economia il concetto di beni, e perorando la causadella pace, il rispetto di tutti gli esseri umani e la solidarietà.
4. Ipocrisia, sfruttamentoe calpestamento dei diritti umani: neocolonialismo e neoliberismo
Nel 1961, Frantz Fanon, anticolonialista radicale, scriveva:
«Quando si riflette sugli sforzi che sono stati impiegatiper attuare l’alienazione culturale così caratteristica dell’epoca coloniale,si capisce che nulla è stato fatto a caso […] Il risultato coscientementericercato dal colonialismo, era di ficcare in testa agli indigeni che lapartenza del colono avrebbe significato per loro ritorno alle barbarie,incanagliamento, animalizzazione.»
E ancora:
«Sono secoli che l’Europa ha arrestato la progressione deglialtri uomini e li ha asserviti ai suoi disegni e alla sua gloria; secoli che innome d’una pretesa “avventura spirituale” soffoca la quasi totalità dell’umanità.[…]
L’Europa ha assunto la direzione del mondo con ardore,cinismo e violenza. E guardate quanto l’ombra dei suoi monumenti si stende e simoltiplica. Ogni movimento dell’Europa ha fatto scoppiare i limiti dello spazioe quelli del pensiero. L’Europa si è rifiutata ad ogni umiltà, ad ogni modestia,ma anche a ogni sollecitudine, ad ogni tenerezza»
.
Sono passati cinquantacinque anni, dovrebbe essere tuttaun’altra storia, ma queste parole sembrano ancora attuali nonostante ladecolonizzazione, i movimenti di liberazione, la creazione di stati africaniindipendenti e il riconoscimento nel 1948 (Carta dei diritti umani) che tuttigli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Il colonialismosi è esaurito, ma l’imperialismo occidentale ha trovato nuovo vigore sotto laguida americana.
In occasione del cinquantesimo anniversario del libro “Idannati della terra”, Miguel Mellino scriveva che l’attualità di Fanon sta nelfatto che siamo ancora di fronte a «una combinazione mostruosa di capitalismo erazzismo»
.Mellino argomenta che l’imperialismo è ancora una realtà, così come il sistemagerarchico di status di cittadinanza che caratterizza le nostre metropoli, eche i processi di «accumulazione per espropriazione» e «finanziarizzazione»,oltre che appropriarsi dei mezzi di produzione si appropriano delle nostre vite.
Lo sfruttamento, la prevaricazione, il razzismo e l'annichilamentodelle culture africane e degli altri popoli non occidentali non passano piùattraverso i regimi coloniali, ma attraverso il neocolonialismo delle politicheestere dei nostri governi democratici, dei trattati economici internazionali e dell’aiutoallo sviluppo.
4.1 L’ipocrisia della cooperazioneallo sviluppo
È attraverso la “professionalizzazione” e la“istituzionalizzazione” dello sviluppo (Escobar, 1995) che si mirava areplicare nel “Terzo Mondo” le caratteristiche delle società occidentalicapitalistiche avanzate. Democrazia, un alto livello di industrializzazione eurbanizzazione, la meccanizzazione dell’agricoltura, rapida crescita dellaproduzione materiale e dello standard di vita, e adozione diffusa di valoritipici della cultura americana e anti-comunista dovevano essere gli obiettivi specifici.
Con la professionalizzazione dello sviluppo l’economista èdiventato l’esperto per eccellenza, seguito dal tecnico che ha il compito diapplicare le conoscenze teoriche e, attraverso la pianificazione, di legare l’economiaalla politica e allo Stato.
Con l’istituzionalizzazione dello sviluppo si è affermato uncomplesso sistema di relazioni, programmi, pratiche e organi amministrativi chehanno consentito di produrre, divulgare e inculcare discorsi, promuoverepolitiche, strategie, procedure, norme e comportamenti. Si è formata una vera epropria istituzione “aiuto allo sviluppo”o quello che oggi chiamiamo “cooperazione allo sviluppo” o “cooperazioneinternazionale”.
Con la fine del colonialismo, la cooperazione allo sviluppo, èuno degli strumenti più potenti per continuare a manovrare i paesi del Sud delmondo. Essa passa attraverso organi internazionali come la Banca Mondiale, leNazioni Unite, e le varie Banche di Sviluppo Regionali; le agenzie nazionali dicooperazione come l’USAID (americana), la Cooperazione Italiana, GEZ (tedesca)e JEICA (giapponese) e le Organizzazioni Non Governative. Queste agenzie sonoresponsabili della produzione e la circolazione dei discorsi dello sviluppo,attraverso conferenze, riunioni di esperti, consulenze, pubblicazioni, thinktanks, ma anche nella promozione e realizzazione di progetti e riformepolitiche, amministrative e sociali. Se le Nazioni Unite sono riconosciute comele più autorevoli nella produzione di linee guida e strategie; le agenzie diprestito, come la Banca Mondiale, portano con se il denaro e il simbolo delcapitale e del potere. Se gli esperti hanno la conoscenza e le competenze,quindi il potere delle parole, i governi hanno l’autorità legale di interveniresul popolo delle loro nazioni.
Il consenso a questo “controllo” sui paesi del Sud del Mondoe in particolare sull’Africa è garantito dall’obiettivo buonista della lottaalla povertà, al quale tutte queste organizzazioni si appellano. Al contempo,consente di perseguire, implicitamente, l’interesse e il tornaconto del mondooccidentale del capitalismo neoliberista. Con l’introduzione della “governance” nel discorso sullo sviluppo side-politicizza il campo “politicamente” sensibile delle trasformazioniterritoriali, e socio-economiche verso il solo campo della tecnica,sbarazzandosi del rischio di venir accusati di ingerenza, pur continuando ainfluenzare gli assetti istituzionali dei paesi poveri e indirizzarli versoprogrammi che implicavano riforme neoliberiste.
Nelle città si afferma uno sviluppo predatorio finalizzatoallo sfruttamento delle rendite connesse alla valorizzazione economica di tuttele risorse privatizzabili. Nelle città africane alla segregazione razziale delcolonialismo si sostituisce una segregazione su base socio-economica, dove formedi esclusione fisica, economica e sociale perpetuano diseguaglianze, povertà eframmentazione del tessuto urbano. Alla città pianificata e infrastrutturata,luogo del potere, delle classi agiate e dei cosiddetti espatriati, delle bancheinternazionali, degli alberghi di lusso, dei mall e degli uffici dei gruppiinternazionali, si contrappone la città informale, costituita da agglomerazionispontanee, fatte di materiali di scarto, dove vivono migliaia di persone esclusedai beni e i servizi urbani di base come l’acqua, le fognature, i trasporti, lestrutture sanitarie. È anche l’esclusione da un lavoro regolare e adeguatamenteretribuito, dalla rappresentanza politica e dai processi decisionali.
4.2 Due esempi dineocolonialismo
È la costruzione di dighe e bacini artificiali che dàorigine ai più consistenti sfratti, sottraendo spazi e risorse comuni acomunità locali ed economie diffuse per innescare processi produttivi cherispondono a logiche di profitto transnazionali e di scala industriale. Questecostruzioni sono generalmente finanziate con prestiti o contributi di organiinternazionali come la Banca Mondiale, coinvolgono agenzie di cooperazione, tecnicistranieri, materiali di importazione, meccanismi di corruzione per aggirarenormative ed acquisire il consenso dei governi, e spesso finiscono con ilcalpestare i diritti umani delle popolazioni. Non a torto, si parla dineocolonialismo.
Porto due esempi: il caso del lago Turkana e valle dell”Omoin Kenya e quello degli EPA (Economic Partnership Agreements), accordi dilibero scambio tra l”Europa e i paesi ACP (paesi dell Africa, Caraibi ePacifico).
La valle dell’Omo è alimentata dall’omonimo fiume, cheattraversa l’Etiopia per poi sfociare nel lako Turkana. Storicamente, qui vivonoalcune tra le più antiche comunità africane, che praticano un’economiaagro-pastorale di sussistenza, strettamente legata all’inondazioni del fiumeOmo.
Dagli anni Sessanta in poi questa valle ha visto lacostituzione di due parchi nazionali - che ha escluso dalla gestione di questeterre le popolazioni indigene - e le estese piantagioni da carburante, che hannomesso a rischio le comunità locali. A peggiorare la situazione, è stata lacostruzione di tre infrastrutture indroelettriche che insistono sul bacinodell’Omo: la diga Gibe I (2004), la stazione idroelettrica Gibe II (2010) e larecente diga Gibe III (2015). Quest’ultima, incoraggiate dalle agenzieinternazionali per lo sviluppo, è destinata a raddoppiare la capacitàenergetica di Etiopia, fornire energia per l'esportazione nel vicino Kenya,Sudan e Gibuti e irrigare le piantagioni industriali.
Questi progetti disviluppo hanno innescato una serie di processi, tutti a discapito dellepopolazioni locali. La raccolta d’acqua di Gibe III frena le inondazioninecessarie a sostenere la produzione alimentare di circa 200.000 persone. Neldisperato tentativo di trovare altri mezzi di sussistenza i pastori hannospostato il loro bestiame nel Parco Nazionale Mago,
ciò che ha scatenato la lotta con i soldatigovernativi incaricati di proteggere il parco. In altre zone, il governo etiopecostringe le comunità indigene a fare spazio alle grandi piantagioni,sfrattandole dalle loro terre ancestrali e senza risarcimento adeguato. Lagente del posto riferisce che una tattica del governo è quello di scatenare unacomunità contro l’altra al fine di reprimere meglio in caso di rivolta
.Perriempire il serbatoio della diga prima e per deviare l’Omo dopo -
che servirà all’irrigazione delle piantagioniindustriali – il livello del lago Turkana sarà drammaticamente ridotto, trasformandol’area nell’ennesimo luogo di conflitto per le risorse.
Dietro a questi progetti ci sono la Salini CostruttoriS.p.A., una delle principali aziende italiane operanti nel settore delleinfrastrutture, e i soldi della coperazione italiana, sotto forma di creditod’aiuto al governo etiope. Nel 2004 sono stati stanziati ben 220 milioni dieuro, nonostante: a) le obiezioni della Direzione Generale per la Cooperazioneallo Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri e del Ministero dell'Economia edelle Finanze, in quanto il contratto tra la Salini e Ethiopian Electric PowerCorporation è stato fatto senza gara d'appalto, in violazione del dirittoitaliano e dell’ UE; b) l’assenza di uno studio di fattibilità riguardante le speseper le misure di mitigazione dell’impatto ambientale; c) l’ulterioreindebitamento dell’Etiopia. Persino la Banca Mondiale, maggiore sostenitore diprogetti infrastrutturali nel Sud del Mondo, aveva negato il prestito
.
Gli EPA sono degli accordi commerciali tra due gruppi dipaesi (paesi UE e paesi ACP), che mirano a eliminare le barriereprotezionistiche in nome del libero scambio.
I negoziati, cominciati nel 2002 e ufficialmente conclusi nel 2014,mirano ancora una volta a proteggere l’economia europea – in un momento diprofonda crisi – attraverso l’apertura dei mercati dei paesi ACP ai prodottiEuropei eliminando qualsiasi
daziodi importazione.
I paesi dell’Africa, Caraibi e Pacifico, già messi alla duraprova da severe trasformazioni ambientali, vedranno le proprie produzionilocali ulteriormente strangolate, anche perché non di godono di sussidi oincentivi statali, come quelle Europee.
L’appello lanciato da Padre Zanotelli e Vittorio Agnoletto“Fermiamo gli EPA”
mettevain guardia sulle conseguenze nefaste di questi accordi per i paesi africani,che colpiscono le economie regionali e impediscono lo sviluppo di prodottinazionali.
5. Sfrattati dellosviluppo: un appello e un impegno politico
Individuare “il problema” da affrontare è una scelta fondamentale che influenza il percorso sia della comprensione che della soluzione. Non solo, ma identificare come problema una determinata questione piuttosto che un'altra, è un’operazione ideologicamente orientata, perché riflette uno specifico modo di vedere le cose e il mondo.
C’è una profonda differenza ideologica, politica, morale e tecnica tra:
a) fare fronte ai “migranti senza visto” che secondo i governi e la maggior parte dell”opinione pubblica disturbano le nostre vite;
b) assistere i “migranti da sfratto”, ovunque essi siano, anche intervenendo sui meccanismi che portano agli sfratti, espropriazioni e migrazioni forzate.
Scegliere se il problema da porci sia a) oppure b) influirànon solo sulle nostre scelte future in termini di ricerca, politiche,provvedimenti, ma definirà anche di chi e di che cosa prenderci cura e quindidi chi siamo.
A mio parere affrontare il problema in termini di migranti(quali che essi siano) non rende giustizia né alle complesse cause eresponsabilità intrinseche né agli obiettivi di radicale cambiamento, giàespressi da una certa parte della società, e che nel convegno stesso hannotrovato spazio e parole, a partire da quelle di Barbara Spinelli.
Anche estendendo (giustamente) la categoria degli aventidiritto di asilo a coloro che si trovano costretti ad abbandonare le loro terreper fenomeni causati da mutamenti socio-ambientali, non si cambierebbe il mododi concepire la società e veder il mondo dal di sopra (il Nord). Quello checontinuerebbe ad alimentarsi sarebbe il “pensiero abissale”,
cioè «una disposizione intellettuale,filosofica e politica, che si traduce nella capacità di tracciare linee attraversole quali istituire divisioni radicali all'interno della realtà, rendendone unaparte «riconoscibile», rispettata, rilevante, e condannando tutto il resto all'irrilevanzae all'inesistenza».
Propongo quindi di parlare di “sfrattati dello sviluppo” pertre ragioni:
- per evidenziare che il problema e il grandedramma sta in chi è sfrattato, cioè costretto a lasciare il proprio luogo diorigine, e non nel cercare rifugio altrove che è una conseguenza e che diventaproblema solo nel momento in cui l’altrove non è disposto ad accogliere;
- per rendere esplicite le cause strutturali edipendenti dall’azione che generano gran parte delle migrazioni e riconoscerela responsabilità delle nostre società, perché è su queste che possiamo agirecambiando radicalmente il modo di concepire il mondo e il modello di sviluppodi riferimento;
- per dare un senso profondamente politico all’impegnoe alle azioni necessarie per sostenere il cambiamento.
Questo scritto diventa anche un appello, perché comprendere non è sufficiente percambiare, e il passo successivo è farcomprendere. Convincere il maggior numero di persone che queste politicheeuropee sono degradanti per la nostra civiltà, non rappresentano ciò che siamooggi, e ciò che vogliamo essere domani. Accettare queste politiche significaapprovare di sopraffare e calpestare gli altri, che un domani potremmo ancheessere noi o i nostri figli, perché il modello che vita che ci siamo costruitinon lascia scampo e non permette di raggiungere quei principi di libertà euguaglianza in dignità e diritti, che ci accomunano in quanto essere umani.
Johannesburg, 10 ottobre 2016
Il testo è scaricabile qui in formato .pdf
Si legga per esempio l’articolo di Tonia Mastrobuoni “L’implicitoaccordo dei carnefici dell’EU sul destino dei migranti”, su edduburg allapagina:
Consiglio di leggere Salvatore Altiero e MariaMarano (a cura di), “Crisi ambientale emigrazioni forzate”, op.cit.
François Gemenne “L”Antropocene e le sue vittime: unbuon motivo per parlare di rifugiati ambientali” relazione al convegno “Il secolodei rifugiati ambientali?”.
Ilaria Boniburini,"L’ideologia della crescita, l’inganno dello sviluppo”, in: Mauro Baioni,Ilaria Boniburini, Edoardo Salzano, La città non è solo un affare, ÆmiliaUniversity Press, 2013, pp: 5-21.
I dati sono statiestrapolati da: (a) rapporto “Crisi ambientale e migrazioni forzate” a cura diSalvatore Altiero e Maria Marano; (b) dalla relazione “Il diritto all”acqua e iprofughi idrici” di Emilio Molinari ; (c) dalla relazione “Dagli EPA (EconomicPartnership Agreements) al Land Grabbing: l”impatto sui processi migratori” diVittorio Agnoletto.
».
il manifesto, 11 ottobre 2016 (c.m.c.)
Quando viene convocata una marcia Perugia-Assisi raramente resisto al richiamo della foresta. Quest’anno, con la guerra dappertutto, più che mai. E perciò, nonostante la stampella, ci sono andata: per il convegno promosso dai sindacati, dall’Arci e qualche altra associazione il sabato, e, almeno per la partenza, al solito magnifico Frontone, del corteo coordinato da Flavio Lotti, la domenica mattina.
Io credo che le scadenze in qualche modo rituali non siano superflue, aiutano la memoria e questa serve. (Le donne, per esempio, hanno imparato a fare buon uso del vecchio 8 marzo).
Ho detto richiamo della foresta perché, come i più vecchiotti fra i lettori de il manifesto si ricorderanno, fummo in passato parte decisiva di quel movimento pacifista.
Un movimento che si sviluppò in Europa negli anni ’80 per protestare contro le nuove installazioni nucleari sui nostri territori e per reclamare «un’Europa senza missili dall’Atlantico agli Urali».
Fu allora che riscoprimmo questa marcia ideata molto tempo prima da Capitini e la reinverammo assieme ai tantissimi del nord e del sud del nostro continente con i quali avevamo via via stretto legami profondi. E che assunsero le due città umbre come luogo simbolico e unificante di pellegrinaggio. Poi venne l’Iraq, e fummo 250.000.
Cosa è cambiato da allora?
Anche domenica i partecipanti sono stati tanti. A sfilare le scolaresche di più di 100 scuole che hanno risposto all’appello della Tavola della pace, molti gli immigrati recenti che hanno voluto unirsi al corteo. Numerosi anche i gonfaloni dei comuni. Presenti le associazioni promotrici, ovviamente.
Ma è un fatto, evidente nella marcia e ormai chiaro da anni nella dimensione quotidiana: il corpo militante delle organizzazioni sociali, dei partiti e dei movimenti che pure esistono sembrano non mobilitarsi più di tanto per la pace. È da tempo, oramai, che la lotta per la pace non morde come dovrebbe. La debolezza non è solo organizzativa, ma anche politica.
Anche qui a Perugia nelle parole d’ordine, negli striscioni, nei discorsi importanti che sono stati tenuti alla partenza, soprattutto dai prelati (per la prima volta ha preso la parola anche un cardinale), è prevalso, mi pare, soprattutto un discorso morale. Necessario e anzi prezioso. E però è risultata incerta l’indicazione di una proposta politica, del come rimuovere le cause delle emergenze con cui ci dobbiamo confrontare, così come una denuncia precisa delle responsabilità, antiche e recenti, di quello che accade.
Sottolineo questa debolezza non per sminuire il significato di questa Marcia, ma solo per ricordare che il nuovo pacifismo nato negli anni ’80 aveva invocato anch’esso il ripudio della guerra, ma aveva anche avuto l’ambizione di suggerire un’altra idea dell’Europa (fuori dai blocchi, dicevamo), un’altra politica estera, un modo diverso di affrontare i problemi internazionali, non più ricorrendo al medioevale metodo delle armi, ma alla comprensione delle ragioni dell’altro. I patti – dicevamo – si debbono fare con il nemico, non con l’amico. Per questo non possono essere patti militari. Purtroppo in questi anni è accaduto il contrario: la Nato si è ingigantita e ha preteso di rappresentare l’Europa.
A Perugia è stato detto forte l’essenziale: la condanna della tuttora massiccia esportazione da parte dell’Italia e dell’Europa di armi verso i paesi dove si aprono conflitti che grazie ad esse crescono paurosamente di livello; il No all’invio di eserciti e di bombardieri, ancorché chiamati «umanitari». Se l’Isis si è scatenato è dovuto anche a questo massiccio invio.
So bene che oggi è sempre più difficile individuare amici e nemici nel groviglio che si è determinato – basti pensare alla Siria (paese che non a caso non è stato mai evocato se non per parlare dei migranti che da lì provengono).
E però proprio in questo momento, in cui si riaffaccia il rischio di una spedizione militare in Libia, è urgente ripetere a voce alta che sebbene Gheddafi fosse un dittatore l’intervento militare occidentale in quel paese ha prodotto il peggio e guai a ripeterlo, quale che sia la scusa. E che sarebbe doverosa da parte di chi ha portato ai disastri dell’Afghanistan e dell’Iraq una autocritica pubblica, anche in parlamento.
La debolezza del nostro discorso (e dunque la scarsa mobilitazione che ne consegue) sta comunque nel fatto che è difficile oggi una risposta politica all’interrogativo: come aiutare i popoli vittime di guerre, di dittature, di fame?
È proprio questa che è emersa sopratutto nell’assai interessante convegno del sabato, durante il quale – oltreché per descrivere la loro condizione – hanno preso la parola anche per chiederci di aiutarli i rappresentanti dei sindacati indipendenti dell’Algeria, della Tunisia (il premio Nobel per la pace del 2015, Hassine Abassi), dell’Egitto e della Libia (quella di Bengasi), prima donna capo di un sindacato, una bella grinta e si capisce, visto il pezzo di paese da cui proviene e le condizioni incredibili in cui lì deve operare un/a sindacalista.
Chiara la risposta di quanto occorre fare sul piano economico: cambiare drasticamente le politiche economiche del nord che hanno distrutto le economie del sud.
E allora occorre però contestare il liberismo stesso, che ha ispirato tutti i Trattati Mediterranei (dall’Accordo di Barcellona in poi), fondati sulla liberalizzazione degli scambi che, quando i partner sono enormemente disuguali, accresce la disuguaglianza anziché ridurla.
L’Europa avrebbe dovuto invece avere il coraggio, e la lungimiranza, di proporre un compromesso fra nord e sud, analogo a quello che nel dopoguerra si stabilì fra movimento operaio e capitalismo e che, pur con tante ombre, ha però garantito diritti per gli uni e stabilità per l’altro. Fu, questa, la proposta avanzata almeno trent’anni fa da Samir Amin e da Giorgio Ruffolo; e cadde nel vuoto.
Meno evidente è cosa si possa fare su altri piani : aiuto alla società civile, per contribuire alla crescita di partecipazione politica, anche per rendere chiaro che un parlamento di per sé non garantisce democrazia? Sì, certo. Ma proprio per questo non bastano assistenza e carità, serve politica. Proprio quella che oggi sembra latitante.
Cosicché le generose iniziative che, a partire dai Forum sociali del Maghreb, si sono continuate ad assumere non sono riuscite a suscitare la collaborazione che avrebbero dovuto ottenere. Insomma: la pace è un bene primario, ma se oggi l’indifferenza cresce, è perché, anche su questo, c’è un vuoto di iniziativa politica. E perciò di impegno.
È, anche questo, un aspetto della crisi della democrazia che stiamo vivendo. Anche a casa nostra.
Il Fatto Quotidiano, 11 ottobre 2016 (p.d.)
La legge c’era ed era giusta, ma nessun Comune d’Italia l’ha mai applicata a eccezione di Milano. Ora quella legge sarà modificata da un’altra che eliminai suoi effetti benefici.Il paradosso è tutto italiano. Sul piatto una delle prime emergenze del nostro Paese: la lotta al riciclaggio e al finanziamento al terrorismo. Per capire bisogna tornare al 2007, quando viene approvato il decreto legislativo 231 “concernente la prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo”. Il linguaggio, se pur tecnico, è sostanziale. All’articolo 10 viene iscritta una parola decisiva: obbligo.
La decisione, presa allora dal secondo governo Prodi, impone alla pubblica amministrazione di segnalare qualsiasi operazione sospetta. Questo appare evidente scorrendo il comma 2 dell’articolo 10: “Le disposizioni si applicano agli uffici della pubblica amministrazione”. L’obbligo viene ribadito all’articolo 41 della 231. In più si specifica che le segnalazioni raccolte dai comuni devono essere inviate all’Ufficio di informazione finanziare della Banca d’Italia. Ora la bozza della nuova legge-delega che sarà approvata dal governo entro il prossimo dicembre, ammorbidisce il castello normativo. E lo fa partendo da un punto cardine della 231, l’obbligatorietà. Questo particolare emerge dal nuovo articolo 10 dove la parola è stata cancellata. La retromarcia è evidente. Ma c'è di più: il testo prevede che “le disposizioni si applicano ai procedimenti” solamente “di autorizzazione o concessione”. La 231 rinnovata taglierà molti campi sui quali i comuni possono operare un lavoro informativo. Su tutti gli esercizi commerciali, strumenti primari per il riciclaggio. Insomma, accanto al cambiamento semantico (obbligo/non obbligo) si affianca un approccio difensivo. È evidente che collegare le segnalazioni ad atti autorizzativi significa limitare il rischio che la pubblica amministrazione venga utilizzata per riciclare.
Di ben altro tenore, invece, la vecchia 231 che dà ai Comuni un ampio raggio di azione, imponendo, attraverso l’obbligo, un atteggiamento di attacco. La nuova bozza di legge delega, scritta dai funzionari del ministero delle Finanze, opera una rivoluzione al contrario, eliminando le disposizioni obbligatorie. Evidentemente all’interno del governo Renzi qualcosa non funziona. Manca il dialogo tra i ministeri. Le future modifiche, infatti, smentiscono un decreto ministeriale firmato il 25 settembre 2015 dal capo del Viminale, Angelino Alfano. Quel documento è decisivo perché mette nero su bianco gli indicatori di anomalie che portano alla segnalazione di operazione sospette.
L’atto del ministero dell’Interno è frutto dell’esperienza, unica in Italia, del Comune di Milano. Il capoluogo lombardo, nel febbraio 2014, durante la giunta Pisapia e grazie alla spinta di David Gentili presidente della Commissione antimafia, dà sostanza alla 231. A oggi le segnalazioni di Palazzo Marino arrivate alla Uif sono undici per un valore complessivo di 150 milioni di euro. Diverse le tipologie: dal riciclaggio legato alla criminalità organizzata al finanziamento del terrorismo. A oggi Milano resta l’unica grande città d’Italia con un Ufficio specifico per l’antiriciclaggio con 53 funzionari tecnicamente formati sui vari indicatori di anomalie. Sul punto della nuova bozza il presidente David Gentili ha pochi dubbi: “È incomprensibile e inaccettabile pensare che oggi, dopo che dal 1991 in tutte le leggi di recepimento delle direttive antiriciclaggio, è sempre stata prevista la pubblica amministrazione come soggetto obbligato, questo venga annullato”.
Certo a voler essere sospettosi, in tutto questo potrebbe aver avuto un ruolo la lobby delle banche. È evidente che se il Comune denuncia persone fisiche con conti correnti che non sono stati segnalati dalla banca, l’istituto di credito sarà passibile di sanzioni.
«Il Viminale blocca la moneta inventata da Mimmo Locano. Il papa invece lo invita in Vaticano».
Il manifesto, 11 ottobre 2016 (p.d.)
Il sogno di Mimmo Lucano, sindaco di Riace, era quello di incontrare Bergoglio. «Il suo messaggio rivoluzionario è quello che più si avvicina all’universalismo dei diritti che qui, nel nostro piccolo, cerchiamo di praticare», aveva detto in un’intervista rilasciata a questo giornale. E l’incontro si farà.
Lucano è stato invitato, «su desiderio di Papa Francesco», a partecipare al summit europeo, il 9 e il 10 dicembre, presso la Casina Pio IV in Vaticano. Con lui anche l’alcadesa di Madrid, l’ex magistrato Manuela Carmena. Si tratta di un summit sulle buone pratiche messe in atto nel mondo a favore di rifugiati e sans papier. Un tema notoriamente caro al papa argentino. «Innalzare altri muri e recinzioni – è scritto nella nota che anticipa il convegno – non fermerà i milioni di migranti in fuga. Urge che i sindaci, in quanto autorità più vicine alla cittadinanza, mettano a disposizione le loro competenze per accogliere e regolarizzare tutti i migranti e i rifugiati. È necessario che la voce dei sindaci venga ascoltata per promuovere la costruzione di ponti e non di muri».
Ma la bella notizia mitiga solo in parte l’indignazione di Lucano per quel che è accaduto dalle parti del Viminale qualche giorno fa. Il servizio centrale per l’immigrazione ha, infatti, comunicato che d’ora in poi sono vietate le banconote inventate nel 2011 da Lucano per superare le pastoie burocratiche in cui spesso il sistema Sprar si impantana. Un meccanismo rivoluzionario: Lucano ha istituito una moneta locale, una sorta di bonus sociale convertibile, mediante il quale i commercianti riacesi fanno credito ai migranti. Sono banconote con l’effigie di Martin Luther King, Che Guevara, Peppino Impastato, Pio La Torre, Charlie Chaplin e altre icone di libertà e giustizia.
Hanno un valore di 1,2,5,10, 20 e 50 euro. I debiti contratti vengono saldati in pochi mesi, e, nel mentre, si tiene in piedi un esperimento tanto pratico quanto efficace. Ciò, al fine di sopperire al ritardo dei fondi pubblici e per assicurare ai profughi un reale potere d’acquisto. Ma tutto questo evidentemente dà fastidio a qualcuno. Non è la prima volta che si cerca di ostacolare il “modello Riace”. Ci hanno già provato. Ecco dunque l’ordine di ritirare i bonus-moneta dalla circolazione.
Lucano è infuriato ed è pronto scendere in piazza con tutti i migranti accolti se il divieto non verrà ritirato. In settimana incontrerà il capo del dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione del Viminale, Mario Morcone.
Il manifesto, 11 ottobre 2016 (p.d.)
Ogni mese 640 mila italiani possono prendere la loro pensione grazie agli 11 miliardi di euro di contributi pagati ogni anno dai due milioni di lavoratori stranieri occupati regolarmente nel nostro paese. Contributi ai quali vanno aggiunti anche 7 miliardi euro di Irpef. Ma non basta: le oltre 550 mila imprese straniere presenti in Italia producono 96 miliardi di euro all’anno di valore aggiunto. A rivelarlo, smentendo così tanti luoghi comuni sugli immigrati, è uno studio condotto dalla fondazione Moressa dedicato a «L’impatto fiscale dell’immigrazione» secondo il quale complessivamente «gli stranieri che lavorano in Italia producono 127 miliardi di ricchezza, paragonabile al fatturato del gruppo Fiat». In cambio la spesa dedicata agli immigrati è apri al 2% della spesa pubblica italiana (15 miliardi di euro)
«Nel nostro Paese l’immigrazione è sempre più importante», sostiene il dossier. «Per mantenere i benefici attuali anche nel lungo periodo sarà necessario aumentare la produttività degli stranieri, non relegandoli a basse professioni».
Dal punto di vista demografico «nel 2015 gli italiani in età lavorativa rappresentano il 63,2%, mentre tra gli stranieri la quota raggiunge il 78,1%» anche se nella maggior parte dei casi si tratta di lavori a basa qualifica. A livello di singoli settori di attività economica, la presenza degli immigrati è concentrata nel comparto del commercio (oltre 200mila imprese su 550mila totali a guida straniera). Seguono le costruzioni. Per quanto riguarda la distribuzione geografica, invece, la maggior parte dei lavoratori stranieri risiede in Lombardia, anche se non mancano presenze significative nel lazio in Emilia Romagna e in Veneto. Romani, Albania e Marocco sono i paesi di origine maggiormente rappresentati.
I lavoratori stranieri rappresentano una realtà importante già oggi per l’economia italiana e destinata ad assumerne un peso sempre maggiore in futuro. Utilizzando i dati della fondazione Moressa, la Cisl ha calcolato che nel 2013, tra soli 15 anni, il numero dei lavoratori stranieri sarà raddoppiato, passando dagli attuali 2 milioni (pari al 10% del totale) a 4 milioni del 2013 (18% del totale), con un contributo al Pil che salirà dall’attuale 9% al 15%. Nel complesso, con gli attuali flussi migratori, nello stesso periodo gli immigrati sulla popolazione totale italiana aumenteranno dal 8,2% del 2015 al 14,6% di cui il 21,7% nella fascia 0/14 anni ed il 17,4% nella fascia 15/64 anni.
Sempre secondo la Cisl dei 2.294.000 attualmente immigrati nel nostro Paese con un regolare contratto di lavoro, 1.238.000 sono uomini ed 1.056.000 donne, occupati al 70% come operai, con un reddito che, per il 40% degli occupati, è inferiore agli 800 euro mensili.
Infine le richieste di asilo, che nel 2015 sono aumentate passando da 626.960 a 1.321.600, (+110,8%) nell’Unione europea. L’Italia riceve prevalentemente profughi africani che seguono la rotta centrale (dal Camerun, dalla Nigeria, dal Niger, dalla Repubblica Centrafricana ai porti libici di Zawra, Zwiya, Tripoli, Sabrata o cirenaici di Bengasi dai quali si imbarcano per Lampedusa) e la rotta orientale che arriva, a sua volta ai porti libici e cirenaici ed alla Sicilia partendo dal Corno d’Africa (Uganda, Kenya, Somalia, Eritrea, Etiopia, Sudan, Sud Sudan). La rotta occidentale, che attinge al bacino territoriale compreso fra Senegal, Guinea e Mali attraversa la Mauritania ed il Marocco, arriva, come destinazione prevalente, in Spagna.
». La
Repubblica, 11 ottobre 2016 (c.m.c.)
Ashis Nandy vede venditori di nazionalismo far danni in tutto il mondo, compresa la sua India. Ma qui questa ideologia mescolata prima al secolarismo del modello Nehru, ora all’induismo di Narendra Modi non ha funzionato bene, tanto meno ora. Il celebre intellettuale, psicologo e sociologo, – 78 anni – ha fatto sua la battuta di Rabinandrath Tagore, uno dei padri della moderna India: l’impresa di costruire un nazionalismo indiano è tanto assurda quanto per la Svizzera sarebbequella di darsi una marina militare. Ma Nandy è prima di tutto studioso della mentalità coloniale. Ha lavorato per la «decolonizzazione» della mente indiana e la liberazione dal suo «nemico intimo»: gli inglesi. Si è occupato dei poteri coloniali europei, tra i quali ha individuato i «perdenti nel Primo Mondo», con il loro «machismo», o come meglio dice lui, il loro «androcratico dominio».
E dunque la prima cosa che le chiedo è: se la mente indiana è da decolonizzare che cosa si ha da fare con la mente europea?
«Sono d’accordo con la formula che piace a Taylor e Chakrabarty: smetterla di immaginarsi come il centro. Ma aggiungo che il «West», Europa e Nord America, in virtù dell’esperienza coloniale con il «Rest », sono portatori di un trionfalismo e della visione del proprio stile di vita come superiore a quello di altre parti del mondo. E banalmente osservo che il mondo non ha il genere di risorse che serve per produrre una mezza dozzina di Stati Uniti d’America. In Europa va un po’ meglio, ma non riesco a credere a quanto gli europei siano ostili verso gli immigrati, a quanto esageratamente pensino che il loro arrivo possa rendere la loro esistenza miserabile. Hanno invece qualcosa di importante da imparare».
Che cosa?
«Quello che è vero per l’Europa come è vero per l’India e per tutti: una certa apertura ad altri stili di vita e di pensiero è necessaria ed implica che, in alcuni casi, i livelli dei consumi debbano abbassarsi, invece di salire. C’è qualcosa di sbagliato nella difficoltà europea e americana di affrontare questa possibilità. La nostra idea di progresso è viziata dal dogma della crescita perpetua. Nel 1972 il Club di Roma ha prodotto un manifesto intitolato ai “limiti dello sviluppo”. E ora? Non riusciremo a rendere popolare la “crescita zero”, ma almeno prepariamo la gente a uno stato di cose in cui si dica: “Va bene, è abbastanza, non vogliamo crescere di più”».
Lei, bengalese, ha vissuto la separazione tra musulmani e induisti, la nascita del Pakistan e poi del Bangladesh. Avvennero quelle che restano forse le più grandi migrazioni umane della storia.
«Appartengo al Bengala. E lì ho assistito alla stessa ostilità nei confronti degli immigrati, un numero altissimo di rifugiati, quasi dieci milioni in un colpo solo. E poi ancora molti altri. Fu una catastrofe. E lo stesso è accaduto nel Punjab, il Pakistan a occidente. Anche quando il governo ha cercato di trattare bene i profughi, mostrandosi aperto nei loro confronti, le stesse comunità di appartenenza, gli stessi parenti! sono stati ben più ostili e implacabili».
Ma che cosa è il nazionalismo in India? Ci sono sondaggi secondo i quali l’India è il paese più nazionalista al mondo.
«A dispetto di questi dati le dico che il nazionalismo non è un’opzione qui di successo, perché è troppo specifico per soddisfare i bisogni di tutti gli indiani. L’India è caratterizzata da una serie di anelli comunitari concentrici, e ciascun individuo non appartiene solo a una, ma a una serie di comunità, dal paese alla regione, fino al gruppo linguistico, alla setta, alla religione e, infine, alla casta. Il quadro è davvero molto complesso. Ogni comune individuo indiano, vive un “io” sfaccettato, ma ci si trova abbastanza a suo agio, perché è abituato a questa varietà».
«Sono antisecolarista», lei ha detto una volta.
«Il progetto secolare era tarato nella sostanza. Partiva dal presupposto che, così come in Europa, la religione si indebolisse. La gente si dichiarava non credente, agnostica o atea e molto spesso l’ideologia ha fatto da surrogato della religione. Ci si aspettava che quelle ideologie servissero a fornire una struttura etica alle nostre esistenze pubbliche, ma così la sfera pubblica è apparsa dominata dalla legge della giungla, priva di valori, in preda alla anomia».
Ha ragione allora il filosofo cattolico tedesco, Wolfgang Boeckenfoerde che dice: «Gli stati liberali e secolari vivono di premesse che non sono capaci di riprodurre»?
«Il problema nasce prima dello stato liberale, con la Rivoluzione francese e il giacobinismo: senza terrore nulla si ottiene. Tale convinzione si è radicata nel profondo nella cultura delle élites del potere e da lì sono penetrare in profondità nel complesso della società intera. La società tedesca dopo la Prima Guerra mondiale era alla deriva dal punto di vista morale, e l’ascesa del nazismo si collega a questa crisi della vita pubblica. L’Illuminismo europeo ha prodotto di tutto: grandi pensatori, grandi innovatori, grandi riformatori sociali, grandi scienziati, ma non ha prodotto un pensatore che abbia dato priorità alla non violenza, un aspetto cruciale nella vita pubblica del nostro tempo».
Lei propone una alternativa al secolarismo, cerca nuovi concetti.
E che nome darebbe a questa alternativa?
«Pluralismo culturale è un termine abbastanza consono, perché ogni sistema religioso, in questa parte del mondo, può dare il suo contributo, anche il cristianesimo, quello di San Francesco d’Assisi. In quest’area del mondo Chiesa e Stato non sono così distinti, perché non esiste una Chiesa. Ciò rende il contesto caotico ed eterogeneo, ma facilita anche l’instaurarsi di un dialogo».
Quella in corso è la recrudescenza del nazionalismo induista e sta vanificando il progetto laico.
«Il progetto nazionalista induista è un prodotto diretto del progetto secolarista, perché la persona che l’ha istituito era un ateo dichiarato. Sia il leader degli induisti, che ha prodotto la Bibbia del nazionalismo (Vinayak Damodar Savarkar) sia il leader del nazionalismo musulmano, che ha forgiato nel subcontinente uno Stato musulmano, il Pakistan (Mohammad Ali Jinnah), erano entrambi personalità non religiose e nutrivano un profondo disprezzo nei confronti dei comuni induisti e dei comuni musulmani».
Un’ideologia contro la natura del popolo cui è stata imposta.
«Il disprezzo nei confronti degli induisti e dei musulmani è iscritto chiaramente nelle vite e nelle opere di quei due campioni. Si è trattato dello sfruttamento di una identità religiosa per consolidare una convivenza democratica. È un po’ come quello che è accaduto in Palestina. Lì le relazioni tra ebrei e musulmani e virtualmente ovunque, in Magreb, nell’impero ottomano, nella Spagna dei mori, erano migliori che nel resto d’Europa. Oggi invece si azzuffano come cani e gatti e questa contrapposizione va avanti in Palestina da sessantacinque anni. Così in Asia meridionale si azzuffano musulmani e induisti da sessantacinque anni. Non ha funzionato e ancora non vedo una facile via d’uscita».
L'autore è fra i protagonisti di “ Identità e democrazia in un’epoca di paura” , il convegno internazionale di Reset-Dialogues on Civilizations che si terrà dal 12 al 14 ottobre alla Fondazione Cini di Venezia in collaborazione con l’Università di Ca’Foscari e la Fondazione FIND
Parole sagge su Renzi (che non è un ragazzotto di provincia ma un politico lucido e determinato, «che esprime una visione di fondo della democrazia e del potere) sulla necessità di contrastare il suo perverso disegna strategico con una nuova capacità progettuale, dopo l'indispensabile vittoria del NO.
ilmanifesto, 9 ottobre 2016
Tutti dicono che sarebbe preferibile un confronto di merito sui singoli aspetti della riforma costituzionale, ma sia nei confronti tra partiti che nelle motivazioni di voto dei singoli elettori, prevalgono valutazioni politiche di carattere generale. Come mai?
La verità è che il voto del 4 Dicembre è un voto «politico», politico nel senso nobile di questa parola oggi tanto disprezzata.
Certo sarebbe stato più facile se la riforma fosse stata suddivisa in più provvedimenti separati in modo che il singolo elettore avrebbe potuto dire dei si e dei no secondo le sue specifiche valutazioni. Così come sarebbe stato preferibile discutere della riforma costituzionale in presenza di una legge elettorale «neutra» cioè che non interferisse con la riforma.
Ma così non è stato. Il governo ha voluto fare della riforma la sua carta di identità ed ha voluto anticipare una riforma elettorale che è addirittura valida solo per la Camera dando per scontato che il Senato elettivo non esisterà più (con la conseguenza, se vincerà il no, che si dovrà rifare la legge elettorale). Quindi la scelta iniziale del governo di fare di queste due leggi un unicum e di legare le sorti di Renzi al loro esito è stata una scelta consapevole e chiara.
Ha fatto male? Ed i tentativi di aggiustare il tiro dicendo che non si vota per Renzi e che la legge elettorale si potrà anche cambiare sono sinceri? Vedremo come evolverà la situazione. Personalmente penso che dovremo saper distinguere tra scelte tattiche e scelte strategiche e che, una volta per tutte, dobbiamo riconoscere al progetto renziano una sua coerenza ed una sua vision senza ridurlo ad un berlusconismo d’accatto. Berlusconi aveva una sua visione, ma essa era fortemente intrecciata con interessi personali che la rendevano permeabile e disponibile a compromessi.
Renzi a mio parere si colloca su quella traccia ideale, ma è un animale politico, contaminato certo anche da interessi locali ed amical-familiari, ma che esprime una visione di fondo della democrazia e del potere. Una visione coltivata dalle sue parti già prima dell’avvento di Berlusconi, ma che, come si sta vedendo nel suo sapersi muovere a livello internazionale, è nuova ed è funzionale alle attuali esigenze del capitalismo globalizzato e finanziarizzato. In questa fase terminale del capitalismo, infatti, i livelli decisionali si sono spostati sempre più in alto verso organismi sovranazionali ed in questo contesto assetti istituzionali che danno voce ai popoli ed alle loro rappresentanze istituzionali sono considerati lussi che non ci possiamo più permettere.
L’ideologia renziana, la rottamazione ed il cambiamento, la velocità ed il decisionismo, la relazione diretta premier-popolo facilitata dai nuovi media, non sono elementi di colore del «ragazzotto di Rignano», ma pilastri fondanti di una ideologia precisa. Ed i disegni collegati di una costituzione velocizzata, di poteri del premier rafforzati con una sola Camera composta da candidati da lui scelti ed un partito super premiato, sono i pilastri di un nuovo edificio. Un edificio tenuto insieme, nelle intenzioni, da un nuovo partito ricostruito dal basso con i comitati per il sì che nascono a sua immagine e somiglianza. Quindi un unicum ben preciso: nuova costituzione, nuova legge elettorale, nuovo partito.
Questo è il disegno! Ambizioso e sul quale oggi gran parte dei vertici del partito sembra ritrovarsi.
Che fare da sinistra per contrastarlo? Certamente far cogliere la grande portata dello scontro in atto: se con un solo Sì si portano a casa tre risultati – nuova costituzione, nuova legge elettorale, nuovo partito – questo vale anche per il No. Un No che vale tre potrebbe essere il nostro slogan.
Ma nei pochi giorni che abbiamo davanti dobbiamo guardare anche al dopo e cercare di dare alla politica una nuova dignità. Certo che dovremo saper argomentare il nostro no alla riforma costituzionale, criticando il tipo di Senato che viene proposto, contestando la strumentalizzazione sulla riduzione dei costi… Penso che in questo contesto dobbiamo pure riconoscere la validità di certe scelte (Cnel, limiti ai rimborsi dei consiglierei regionali…) e la necessità comunque di accelerare l’iter legislativo, anche se in modo diverso manifestando la nostra disponibilità ad un altro Senato… Ma attenzione allo stop and go di Renzi, che prima ci propone i referendum su di lui, poi di separare la riforma costituzionale dalla legge elettorale portandoci a spasso dietro ai suoi tatticismi.
Prendiamolo sul serio questo Renzi, riconosciamogli la dignità di una sua visione politica, avversiamolo nel merito del suo progetto politico. Ed ai suoi elettori che tendono a votare Sì per senso di appartenenza, rendiamo chiaro che non siamo i conservatori dell’esistente, ma quelli che nel passato hanno saputo difendere valori e diritti, ma anche cambiare e conquistare. E che l’abbiamo fatto insieme a tanti di loro. Che non è vero che dal ’44 ad oggi nulla è cambiato e che aspettavamo il venticello renziano per poter respirare.
E che, passato il referendum con la vittoria del No che auspichiamo, sappiamo che dobbiamo affrontare problemi enormi: la crisi economica e sociale dalla quale non si esce ancora, i rischi di populismo ed i pericoli del riaffacciarsi delle vecchie destre. Problemi tutti che richiedono una capacità di riaggregazione del fronte democratico e di messa al centro dei problemi del paese. Tutto il contrario delle politiche di annunci e divisioni che hanno caratterizzato questi ultimi anni.
Prosegue il dibattito sulla democrazia e sulla de-forma costituzionale di Renzi SI, mah, non so, se.., forse NO, ma in fondo SI. La Repubblica, 9 ottobre 2016, con postilla
SONO stato molto contento come vecchio fondatore di questo giornale che il nostro direttore Mario Calabresi abbia deciso di aprire un dibattito sulle varie tesi che riguardano il referendum costituzionale che sarà votato dai cittadini il 4 dicembre prossimo e la vigente legge elettorale che molti (e io tra questi) considerano malfatta o addirittura pessima.
Il dibattito sulle nostre pagine è avvenuto anche perché Repubblica ha ricevuto una quantità di lettere e di messaggi via web su quei medesimi argomenti, esprimendo variamente il loro atteggiamento sul voto Sì o il voto No o l’astensione attiva (come l’ha definita Fabrizio Barca in un suo memorandum in circolazione nelle sezioni del partito democratico). Sono infine molto grato a Gustavo Zagrebelsky che ha dato il via a questa discussione nel suo incontro televisivo di qualche giorno fa con Matteo Renzi.
Desidero subito chiarire un punto: io non sono contrario al referendum per ciò che contiene e che in sostanza consiste nell’abolizione del bicameralismo perfetto. Esso esiste già in quasi tutti i Paesi democratici dell’Occidente, rappresenta un elemento a favore della stabilità governativa che non significa necessariamente autoritarismo: può significarlo però se la legge elettorale è fatta in modo da conferirgli questa fisionomia. Ragion per cui mi sembra onesto dichiarare fin d’ora quale sarà il mio voto al referendum.
Se il governo cambierà prima del 4 dicembre alcuni punti sostanziali della legge elettorale o quanto meno presenterà alla Camera e al Senato una legge elettorale adeguata che sarà poi approvata dopo il referendum, voterò Sì; se invece questo non avverrà o se eventuali modifiche a quella legge saranno di pura facciata, allora voterò No.
Coloro che non vedono (o fanno finta di non vedere) la connessione che esiste tra un Parlamento monocamerale e l’attuale legge elettorale sono in malafede o capiscono ben poco di politica ed oppongono il renzismo all’antirenzismo, cioè la simpatia o l’antipatia verso l’attuale presidente del Consiglio in quanto uomo. Evidentemente questo è un modo sbagliato di pensare. Ricordo a chi non lo sapesse o lo avesse dimenticato che Napoleone Bonaparte difese da capitano d’artiglieria dell’esercito francese (lui era stato fino ad allora di nazionalità corsa) il Direttorio termidoriano eletto dalla Convenzione dopo la caduta di Robespierre che aveva provocato la reazione di piazza dei giacobini. Questo avvenne nel 1795. Pochi anni dopo il 18 brumaio Napoleone decise di sciogliere il Direttorio, lo sostituì con il Consolato composto da tre Consoli due dei quali non contavano nulla e il terzo che era lui aveva tutti i poteri. Di fatto era l’inizio dell’impero che fu dopo un paio d’anni definito come tale.
Come vedete e già sapete gli umori cambiano secondo le circostanze sicché votare pro o contro deve riguardare soltanto il merito e non il nome di chi lo propone.
***
Fatte queste premesse debbo ora affrontare le questioni dell’oligarchia e della democrazia, che hanno diviso Zagrebelsky e me. Crazia è un termine greco che significa potere. Oli significa pochi, demos significa molti, cioè in politica popolo sovrano. Il potere a pochi o il potere a molti. Così dicono i vocabolari, così pensa la maggior parte della gente e così ha sostenuto Zagrebelsky nel suo dibattito con Renzi prima e con me due giorni dopo.
Al contrario io penso che la democrazia, di fatto, sia guidata da pochi e quindi, di fatto, altro non sia che un’oligarchia. Una sola alternativa esiste ed è la cosiddetta democrazia diretta che funziona attraverso il referendum. In quella sede infatti il popolo si esprime direttamente, ognuno approva o boccia con un voto di due monosillabi, il Sì e il No, il suo parere su un quesito. I singoli cittadini quando raggiungono il numero previsto dalla legge, possono presentare quesiti sotto forma di domanda e sottoporli al voto. Naturalmente quel Paese è uno Stato che ha una sua Costituzione la quale, preparata dai partiti o da un gruppo dei saggi, viene sempre approvata per via referendaria.
Tutto ciò premesso riguardo alla democrazia diretta, va detto che dirigere un Paese soltanto con i referendum è tecnicamente impossibile in Stati la cui popolazione ammonti a milioni di abitanti e convive con miriadi di Stati diversi con i quali esistono complessi rapporti di amicizia o di conflitto, scambi economici o sociali, pace o guerra. Pensare e supporre che tutta questa vita pubblica possa essere governata attraverso i referendum è pura follia e non si può parlare neppure in astratto di questa ipotesi.
Il dibattito dunque è un altro e le posizioni sono già state presentate: io sostengo che la vera democrazia non può che essere oligarchica, molti invece e Zagrebelsky per primo sostengono che quei due temi sono opposti e che non possiamo da veri uomini liberi che preferire i molti ai pochi. Quindi: partiti dove tutti i militanti determinano la linea, il Parlamento (bicamerale o monocamerale che sia) è la fonte delle leggi. Chi rafforza il Parlamento, eletto dalla totalità dei cittadini aventi diritto o comunque dagli elettori che usano il loro diritto di voto, rafforza la democrazia, cioè il governo dei molti.
Questo è dunque il dissenso che personalmente giudico soltanto formale e non sostanziale poiché non tiene conto della realtà. Naturalmente questa mia affermazione va dimostrata.
Gli elettori il giorno del voto hanno davanti a loro la lista dei candidati dei vari partiti. Qualche nome lo conoscono perché sono rappresentanti di quei partiti, ma la maggior parte di quei nomi è sconosciuta. Se comunque hanno scelto il partito per cui votano condividendone il programma o addirittura l’ideologia, votano quel partito e anche il nome di uno dei candidati. Ma chi ha scelto quei candidati?
Dipende dalla dimensione dei singoli partiti. Se sono di molto piccole dimensioni la scelta viene fatta dai leader e dai suoi consiglieri. Così avvenne quando Fini e poco dopo Casini decisero di abbandonare Berlusconi e così avvenne allo stesso Berlusconi che non ha mai avuto un partito. Forza Italia non fu mai un partito ma un gruppo di funzionari della società di pubblicità dello stesso Berlusconi. Così avvenne anche per Vendola e per i radicali di Pannella. Ma se il partito è di ampie dimensioni, come la Dc, il Partito socialista e quello comunista, la scelta avveniva nel Comitato centrale. Il Congresso, una volta terminato, si scioglieva dopo avere appunto eletto il Comitato centrale. Era questo il solo organo governante di quel partito, che eleggeva la direzione che a sua volta eleggeva il segretario.
Ho già fatto un elenco di nomi che guidarono quei partiti e quindi non mi ripeterò. Ricordo soltanto che mettendo insieme il Comitato centrale, i sindaci delle maggiori città ed i loro più stretti collaboratori, si trattava al massimo di un migliaio di persone. Il ponte di comando era quello, che decideva la linea del partito, i candidati e i capilista nelle elezioni amministrative e in quelle politiche.
Un migliaio di persone cioè indicavano i loro rappresentanti in Parlamento il quale rappresentava e tuttora rappresenta i milioni di cittadini che li hanno votati. Non è un’oligarchia di pochissimi che determinano la partecipazione di moltissimi i quali nel loro insieme rappresentano la sovranità del popolo e quindi il Demos che chiamano democrazia?
È sempre stato così, nella civiltà antica, medievale, moderna. L’alternativa è la dittatura.
Oligarchia democratica o dittatura: questa è stata, è e sarà il sistema politico dell’Occidente. Nelle altre parti del mondo la dittatura è la normalità con rare eccezioni di Paesi a struttura federale come l’India e l’Indonesia.
Per quanto mi riguarda non ho altro da aggiungere a quanto qui ho scritto. Se Zagrebelsky vorrà prendere atto o contestare queste mie conclusioni siamo ben lieti di leggerlo.
postilla
Oligarchiademocratica o dittatura: questo è stato, e sarà il sistema politicodell’Occidente, sostiene Eugenio Scalfari. La fede nelle sue convinzioni è cosìforte che il fondatore di Repubblica diventa profeta, e prevede che il futurosarà come il passato (per tutto il mondo, sembra di capire, poiché l’Occidente èil modello unico). Si avvicina così a Margareth Thatcher, che prometteva (ominacciava) che There Is No Alternative: il mondo è così com’è e sarà sempre,se non vi piace arrangiatevi. A differenzadi Winston Churchill Scalfari nonammette neppure che la democrazia che conosciamo sia piena di difetti.
Ma la suafoga a sostenere la bontà della sostanza della legge sottoposta al referendum lo spinge a cadere in apertecontraddizioni e a commettere alcuni pesanti travisamenti della realtà. Come avvienequando – pur essendo un fervido apostolo della democrazia rappresentativa -mostra di non accorgersi che il senato proposto da Renzi non è affattorappresentativo dei cittadini, ma solo dalle istituzioni substatuali. O quandofinge di non sapere che il Comitato centrale del PCI era solo una dellestrutture di quel partito nelle quali si discuteva, si decideva ai diversilivelli della vita politica, e si partecipava alle decisioni delle istanze nazionali.Oppure quando trascura il fatto che il bicameralismo non “perfetto” dellariforma Renzi, che dovrebbe sostituire quello “perfetto” attualmente in vigore,è così pieno di imperfezioni da essere, come molti studiosi hanno dimostrato,assolutamente paralizzante.
Nonè malizioso ritenere che la discesa in campo di Scalfari, in apparente difesadella materia in discussione, altro non sia che un goffo tentativo di proteggereMatteo Renzi dalle critiche dei “gufi”. Lo conferma del resto il fatto che per aderireal SI gli basterebbe la promessa di Renzi di modificare sostanzialmente l’Italicum.Come se non avesse imparato che il suo protetto è prodigo, oltre che di spotpubblicitari, di reiterate menzogne. (e.s.)

il manifesto, 9 ottobre 2016 (c.m.c.)
Ogni giorno quarantaduemila persone si mettono in cammino nel mondo per fuggire dalla morte e dalla disperazione. Oggi, in tanti e diversi, ci aggiungeremo a loro, camminando da Perugia ad Assisi. Il loro dolore, la loro angoscia, sono, in qualche modo, anche i nostri perché li sentiamo vicini, sentiamo le loro grida di aiuto, vogliamo fare qualcosa, reagire, rispondere, proteggere. Per molti, noi siamo semplicemente matti, anime belle ma inconcludenti perché pensiamo di affrontare questi problemi con una marcia della pace e della fraternità. Ma è solo un altro modo per tirarsi fuori e restare comodamente seduti nel proprio giardino di privilegi e illusioni.
Il problema è che si sentono in pace mentre siamo in guerra. Una guerra vera, anche se molto diversa da quelle del passato. Una guerra mascherata da pace. Una guerra combattuta in gran parte da altri, lontano da noi, che ci consente di pensare ai fatti nostri, al nostro tornaconto, a ciò che ci interessa e ci conviene. Per questo il momento è difficile: perché dobbiamo cambiare radicalmente mentre sembra che possiamo continuare la vita di sempre.
Ogni tanto una foto, un’immagine, un attentato, una tragedia, un fatto ci colpisce e abbiamo un soprassalto di consapevolezza, di coinvolgimento. Ma dura poco. Ciascuno è interessato ai fatti che lo coinvolgono direttamente, sul momento. I fatti che hanno un impatto sul medio o lungo periodo o che non ci coinvolgono immediatamente, vengono costantemente rimossi o derubricati. Per egoismo, per indifferenza o per ignoranza. Ma anche per un problema di prospettiva. Questo è tempo di chiusure. Non solo di frontiere.
Non alziamo più la testa dal francobollo di terra che calpestiamo. Chiudiamo gli occhi sul mondo mentre il mondo diventa sempre più interconnesso e interdipendente. Chiudiamo gli occhi sul futuro perché continua a sorprenderci e ci inquieta. Non c’è niente che possa competere con le cose che ci occupano o preoccupano, qui e ora. Del resto, siamo ostaggio di un sistema mediatico che accende e spegne le nostre attenzioni con la stessa velocità con cui cambiamo il canale in televisione.
Nel frattempo, i fatti si muovono, si susseguono, si moltiplicano, si complicano modificando rapidamente la realtà, sconvolgendo le nostre convinzioni, costringendoci a fare i conti con problemi sempre più difficili e complessi.
Di fronte a questa realtà pressante, partecipare ad una marcia della pace e della fraternità vuol dire vincere l’indifferenza, la rassegnazione, la sfiducia, recuperare la capacità di pensare, di agire e non solo re-agire, di farlo assieme e non da isolati.
Con la Marcia Perugi-Assisi, noi proviamo a fare un certo numero di cose allo stesso tempo.
Riconnetterci con il dolore del mondo perché il dolore ci rende tutti più umani. La sofferenza delle persone sta crescendo in tante parti del mondo come nelle nostre città, nelle nostre famiglie. Grazie alle tecnologie della comunicazione aumenta la conoscenza e la percezione di questo dolore diffuso. C’è il dolore terribile, angosciante di tutte le persone che stanno agonizzando per la fame, la sete e la mancanza di cure (di questi giorni la Nigeria, lo Yemen,..), di quelle che sono martoriati dalle bombe e dal terrore ad Aleppo o in qualche altro mattatoio dimenticato, di quelle che cercano di scappare, di quelle che perdono il lavoro, che non riescono a trovarlo, delle donne abusate, violentate,… E c’è il dolore dell’anima.
Il dolore che ci portiamo dentro, il dolore profondo della vita che viene da un malessere diffuso e accompagna il senso di inquietudine e smarrimento. E poi c’è, sempre più evidente, il dolore della natura che a forza di alte temperature, di bombe d’acqua, di scioglimento dei ghiacciai, di innalzamento del livello dei mari e di desertificazione manifesta le conseguenze dei disastri che abbiamo causato. «Restiamo umani» ci implorava Vittorio Arrigoni dalla Striscia di Gaza. È arrivato il tempo di andare a ripescare la nostra umanità nel mare in cui l’abbiamo lasciata sprofondare.
Ri-unire gli operatori di pace, invitarli a uscire allo scoperto, radunare le forze sparse, ri-unire le energie positive, le persone che hanno deciso di non rassegnarsi, di assumere le proprie responsabilità, di cercare di capire cosa non va nel nostro modo di vivere e di «fare società», di cambiare qualcosa nella propria vita e di unirsi ad altri per capire come costruire nuovi rapporti economici, sociali, internazionali e con la natura. «Da isolati – diceva Aldo Capitini – non si risolvono i problemi».
Accendere i riflettori sulle tante cose positive che succedono, le cose semplici che moltissime persone fanno senza aspettare qualcun altro, i tanti modi in cui si fa «pace», i tanti piccoli passi quotidiani verso una società di pace. E così, rendere le nostre azioni individuali e collettive più forti e contagiose.
Investire sui giovani e sulla scuola. Alla Perugi-Assisi partecipano più di cento scuole di tutt’Italia con migliaia di giovani studenti. Per ciascuno di loro la marcia è l’occasione per dare avvio o proseguire un percorso di educazione alla cittadinanza glocale avviato da dirigenti scolastici e insegnanti che cercano di trasformare la scuola in un luogo dove si studia e s’impara la pace. Preparare i giovani a vivere da cittadini consapevoli e responsabili in un mondo globalizzato, interconnesso e interdipendente, in continuo, rapido cambiamento, è uno dei compiti più urgenti della scuola e della nostra società. Partecipare alla Marcia, organizzarne un pezzetto, vuol dire fare uno dei tanti «esercizi» di pace necessari per imparare a farla tutti i giorni.
Fare pace a km 0. Affrontare il tempo difficile che è arrivato imparando a fare pace nelle cose che facciamo, nei luoghi in cui operiamo, nelle nostre città-mondo. Le nostre città non sono isole ma spazi attraversati, spesso investiti, dalle correnti di tutto il mondo. Dobbiamo pensare alle nostre città-mondo come un laboratorio del mondo nuovo che vogliamo costruire.
Nelle nostre città, nei territori possiamo fare molte cose: svelare le basi militari evidenti e nascoste e gli interessi collegati, fare pace con la nostra gente sempre più sola, ansiosa, rancorosa, ritrovare il noi che può aiutare l’io, ricomporre le comunità, un pensiero comune, imparare a prenderci cura gli uni degli altri e dell’ambiente, investire sui giovani e sulla loro formazione, lottare contro ogni forma di violenza e di esclusione sociale, organizzarci per accogliere chi arriva da altri mondi, rimettere al centro il lavoro, costruire un’economia solidale… Se lo possiamo fare, abbiamo la responsabilità di farlo! Nella convinzione che tutto quello che faremo per la pace nelle nostre città contribuirà alla costruzione della pace nel mondo.
Gettare le basi per una politica nuova. «Il mondo si sta riscaldando pericolosamente e i nostri governi si rifiutano ancora di prendere i provvedimenti necessari per fermare questa tendenza» ha detto qualche tempo fa Naomi Klein. Ma il problema come sappiamo non è solo climatico. Non c’è uno spazio pubblico internazionale dove non si respiri un’aria di tensione e di scontro: tutti contro tutti. Veniamo da un lungo tempo dominato dalla cecità e dalla sordità politica ed economica. E ora che cominciano a essere tragicamente evidenti i segni dei disastri che abbiamo provocato, a spadroneggiare sono gli egoismi e la sfiducia.
Tutti i mali che per un certo tempo avevamo rimosso sono tornati: guerre, nazionalismi, muri, xenofobia, corsa al riarmo, trafficanti di armi e di spese militari…E, all’ombra di una democrazia e libertà sempre più virtuali, scorrazzano gli imprenditori della paura e i fomentatori d’odio.
Per fermare le guerre, fare le paci, azzerare la fame, debellare la sete, sradicare la miseria, proteggere il pianeta avremmo bisogno di politici straordinari, dotati di visione e molto coraggio. Se non li troviamo, non possiamo fare altro che assumerci anche questa responsabilità. Non ci sarà mai pace senza una vera politica di pace. La speranza che coltiviamo anche oggi è che, insieme, possiamo generarne una davvero nuova.
Internazionale online, 8 ottobre 2016
Dovendo scegliere se lasciare l’azienda fondata da papà Aurelio cinquant’anni fa nelle mani di avventurieri americani e cinesi o provare a riprendersela insieme ai dipendenti, Lorenzo Onofri non ha avuto dubbi. Ha scelto la strada apparentemente più impervia, quella di affidare la fabbrica agli operai, aiutandoli a recuperarla, e da appena un mese è il presidente della neonata cooperativa Stile, un acronimo che recupera il nome dell’azienda fondata nel 1965 da suo padre: Società Tiberina legnami.
È una storia lunga più di un secolo, quella della sua famiglia e dei loro soci, i Colcelli, cominciata alla fine dell’ottocento con la produzione di legna da ardere e culminata nell’apertura di una fabbrica specializzata nella produzione di pavimenti in legno. I parquet di Città di Castello nel tempo sono diventati un’eccellenza del cosiddetto made in Italy e gli affari fino alla prima decade del nuovo millennio sono andati a gonfie vele. Nel 2014, però, dopo la morte di Aurelio Onofri e soprattutto a causa del crollo del mercato dell’edilizia, la Tiberina legnami si è trovata in difficoltà, al punto da essere costretta ad avviare una procedura di concordato preventivo per evitare il fallimento giudiziario.
Per provare a risollevarla con capitali freschi, Lorenzo Onofri si è messo alla ricerca di investitori internazionali, riuscendo a mettere in piedi una “compagine straniera”, composta di statunitensi e cinesi, che si è presentata con un piano di rilancio che prevedeva una forte espansione sui mercati europei e mondiali. Con loro aveva costituito una nuova società, la Anbo-Stile, che aveva affittato l’azienda dal liquidatore giudiziale, evitando la chiusura dello stabilimento.
Cinesi, americani e umbri
Ma ben presto i nuovi padroni hanno rivelato il loro vero volto: “Volevano solo svuotare il nostro magazzino, lasciandoci il cadavere dello stabilimento”, ristrutturato con sistemi all’avanguardia dalla vecchia azienda quando ancora le cose andavano bene, poco prima del crac di Lehman Brothers che aveva fatto esplodere la crisi economica.
«Purtroppo, non tutti i dipendenti mi hanno creduto, perché pensavano che fosse una manovra architettata da me per riprendermi l’azienda», spiega oggi Onofri. Ne è nato un “lungo dibattito” all’interno della fabbrica tra gli scettici e chi invece aveva capito che la ex Tiberina legnami sarebbe stata solo spolpata e abbandonata.
I fatti hanno dato ragione ai secondi. All’inizio del 2016 la situazione è precipitata. L’amministratore delegato si è improvvisamente dimesso, gli stipendi hanno cominciato a tardare e così gli altri pagamenti. I sindacati hanno chiesto a più riprese incontri alla proprietà per conoscere il piano industriale, ma inutilmente. A giugno i lavoratori sono entrati in sciopero e la vecchia società Tiberina legnami fondata da Aurelio Onofri ne ha approfittato per chiedere al tribunale di Perugia la revoca dell’affitto all’Anbo-Stile per «gravi inadempienze nel pagamento dei canoni di affitto e delle merci prelevate».
I magistrati gli hanno dato ragione e il 20 giugno hanno deciso di riconsegnare le chiavi dello stabilimento ai vecchi proprietari, che però non avevano i mezzi economici per proseguire.
A questo punto i lavoratori si sono trovati di fronte a un bivio: in piena estate si è consumato lo scontro tra chi era disposto a rischiare il tutto per tutto, «a qualunque costo», provando a recuperare la fabbrica rischiando in prima persona, e chi invece, «per formazione o per interessi diversi», avrebbe auspicato la ricerca di un altro padrone. Alla fine, in venti hanno abbandonato e altrettanti hanno deciso di proseguire. Per non rimanere chiusi troppo a lungo e pregiudicare il riavvio, gli ex operai della Tiberina legnami si sono mossi contemporaneamente su più fronti.
Hanno costituito in tutta fretta una cooperativa, la Stile, che ha chiesto al liquidatore giudiziale di poter affittare l’azienda. Nello stesso tempo, si sono messi alla ricerca dei soldi. Hanno bussato alle porte degli istituti di credito, ottenendo un prestito da Banca Etica, che ha anticipato le liquidazioni.
Sono andati al ministero per lo sviluppo economico, che ha garantito un finanziamento del fondo Cfi (Cooperazione finanza impresa), istituito dalla legge Marcora del 1984 per sostenere il recupero delle fabbriche da parte dei lavoratori, già sospeso dopo una sentenza europea che lo considerava “aiuto di stato” e poi ripristinato grazie ad alcune modifiche (sostanzialmente la concessione a fondo perduto è stata trasformata nell’anticipazione delle indennità di disoccupazione).
Dalla Cuin factory a Fenix Pharma
Infine, si sono rivolti alla Legacoop, che li ha sostenuti attraverso Coopfond, un fondo destinato ai lavoratori che costituiscono una cooperativa per rilevare un’impresa e alimentato con il 3 per cento degli utili di tutti gli iscritti.
Nel giro di un mese, la Tiberina legnami, dopo l’infelice parentesi sinoamericana, si è rimessa in moto, andando ad aggiungersi alle 252 fabbriche recuperate censite in tutta Italia dall’Euricse, l’Istituto europeo di ricerca sull’impresa cooperativa e sociale. Con una particolarità: la Stile è il primo caso in cui è stato recuperato pure il padrone.
Non si tratta di una prima assoluta: già in Spagna il proprietario della Cuin factory, una fabbrica di mobili di Vilanova i la Geltrú, vicino Barcellona, per evitare la chiusura aveva accettato l’offerta dei suoi ex dipendenti di lavorare con loro, accettando una retribuzione di 900 euro al mese.
Sono ripartiti da dove avevano lasciato, sfornando un farmaco contro l’osteoporosi
In Italia, invece, c’è un altro caso atipico, dove il workers buyout non l’hanno realizzato degli operai in tuta blu bensì ex manager di una multinazionale. Si tratta della FenixPharma, una compagnia farmaceutica nata a Roma dalle ceneri della Warner Chilcott. A fondarla sono stati cinque ex manager licenziati da quest’ultima.
Salvatore Manfredi, che ho incontrato nella sede della prima cooperativa farmaceutica d’Italia, nel quartiere Laurentino di Roma, era il responsabile delle vendite quando facevano capo alla Procter&Gamble. Il giorno in cui l’azienda è stata ceduta alla Warner Chilcott ha capito che era l’inizio della fine e ha lasciato, andando a lavorare per un’altra compagnia.
«Era tutto pianificato dall’inizio: appena rientrati dall’investimento e dopo essersi divisi una discreta torta di stock option, i manager della big company d’oltreoceano hanno chiuso e venduto la licenza del farmaco, senza curarsi di lasciare per strada 550 persone in tutta Europa, 151 delle quali solo in Italia», racconta.
Quando gli americani hanno deciso di dismettere le attività in Europa, dopo appena tre mesi, perché il brevetto del farmaco contro l’osteoporosi che assicurava loro guadagni molto forti stava scadendo, Manfredi è tornato sui suoi passi, decidendo con un pugno di colleghi di sfidare i colossi di big pharma.
In cinque, riunendosi puntualmente in un bar della Montagnola, nella periferia sud della capitale, hanno messo in piedi un piano industriale e l’hanno sottoposto agli ex dipendenti, convincendoli a riprovarci tutti insieme. Poi hanno cominciato a cercare fondi, a contattare le banche per avere prestiti e mutui, a negoziare licenze e brevetti.
Dice Manfredi: «Abbiamo scelto la forma cooperativa perché ci piaceva uscire dalle logiche che avevamo conosciuto fino ad allora e nelle quali eravamo rimasti immersi per anni, dove il lavoro è solo un fattore della produzione che si può cancellare quando i profitti attesi non sono quelli sperati, senza tenere in considerazione i drammi personali e delle famiglie». Sono ripartiti da dove avevano lasciato, sfornando un farmaco contro l’osteoporosi.
Un modello che funziona
La prima tranche della licenza per la commercializzazione del medicinale, di 240mila euro, l’hanno pagata investendo le loro liquidazioni: 25mila euro a testa i cinque della Montagnola, diecimila gli altri settanta lavoratori. Poi sono arrivati i soldi di Coopfond, che è entrato nel capitale sociale di Fenix Pharma con 300mila euro, e quelli di Cfi, che ha dato 200mila euro più altri centomila di obbligazioni convertibili.
Grazie alle garanzie fornite da Legacoop e altre individuali hanno avuto inoltre un mutuo da Banca Intesa e un altro da Cooperfidi, l’organismo nazionale di garanzia della cooperazione al quale partecipa l’Alleanza delle cooperative italiane. Inoltre, ogni socio ha fatto un prestito sociale da dieci o quindicimila euro, vincolando i soldi per due anni in cambio di un piccolo dividendo.
Nonostante le difficoltà nel rilevare e far ripartire uno stabilimento chiuso, quello dei workers buyout, come sono definiti i salvataggi operati dai lavoratori che acquistano il loro luogo di lavoro, è un fenomeno in costante crescita, soprattutto nelle regioni del centronord: tra Emilia-Romagna, Toscana e Veneto, regioni dove il movimento cooperativo è tradizionalmente forte, si trova il 76 per cento delle imprese recuperate.
Dai dati dell’Euricse emerge un modello che funziona: il tasso di sopravvivenza medio di un’azienda senza padroni è di 13 anni, contro i 13,5 di un’impresa tradizionale e i 17 di una cooperativa che parte ex novo. Di quelle che hanno riaperto negli ultimi anni, l’86 per cento ha avuto successo, nella metà dei casi innovando la produzione e aumentando il fatturato rispetto alla vecchia società. Per questo i ricercatori europei la considerano una “misura anticiclica”, vale a dire capace di invertire il ciclo economico, creando posti di lavoro laddove si vanno perdendo e facendo aumentare il prodotto interno lordo quando è in discesa.
Nello stabilimento di Città di Castello appena riaperto, Lorenzo Onofri lo sta sperimentando sulla sua pelle: se non ci fossero stati i suoi ex dipendenti, l’eredità di famiglia con ogni probabilità sarebbe andata dispersa. Sostiene che «il passaggio culturale da padrone a socio-lavoratore» non è stato per lui «un grande trauma», a dispetto di quello che si potrebbe immaginare, perché «la Tiberina legnami è sempre stata una fabbrica atipica, nella quale non esistevano gerarchie precise e c’era un rapporto molto amichevole tra la proprietà e i dipendenti».
Piuttosto, si lamenta dei «muri di gomma» contro i quali si sono scontrati per poter riprendere a lavorare: la freddezza e a volte l’ostilità dei sindacati «che hanno scoraggiato i lavoratori» e «ci hanno tagliato le gambe in ogni modo», le porte chiuse delle banche, le risposte poco chiare delle istituzioni, una burocrazia «troppo complessa», fatta di funzionari che «non conoscono le procedure» e di «competenze che si sovrappongono».
Dalla nuovissima sede al Laurentino, Salvatore Manfredi è fiero di ciò che ha fatto: avrebbe potuto agevolmente lavorare per una grande compagnia, ma ha preferito mettersi insieme ai suoi ex colleghi, «pur sapendo che mettevo a rischio la famiglia e che avevo un mutuo da pagare». Dice di aver seguito l’istinto: voleva costruire un’azienda su altre basi, dando «centralità al lavoro e alle persone, quello che mancava quando eravamo dipendenti degli americani».
Al modello delle big companies, dove tutto viene deciso in luoghi inaccessibili dall’altra parte del mondo, contrappongono la gestione collettiva. La sfida si può considerare vinta: la Fenix Pharma commercializza diversi tipi di farmaci e ha una linea di integratori alimentari, fattura sei milioni di euro all’anno e chiude i bilanci in attivo. Il loro slogan è: «Multinazionali? Se le conosci, le eviti».
«». il manifesto
Si è da poco conclusa a New York l’assemblea generale delle nazioni Unite, l’ultima della presidenza Obama e l’ultima con Ban Ki-Moon segretario ma la prima ad avere come tema centrale migranti e rifugiati.
Le aspettative intorno a questa assemblea erano altissime ed in molti sono stati delusi dal risultato, ritenuto piú una promessa di buone intenzioni che un impegno preso dai leader del mondo nei confronti di un problema umanitario globale.
«Bisogna tener presente la complessità di questi incontri – spiega Andrea Milan di UN Woman, specializzato in tematiche di genere correlate ai flussi migratori – UN Woman ha lavorato a stretto contatto con il team che ha supportato i negoziati, ed il risultato che è stato raggiunto, nel clima politico che conosciamo, viste le dichiarazioni sul tema rilasciate da molti dei capi di Stato coinvolti, è stato quello che poteva essere, si è arrivati dove si poteva arrivare. Si è scelto, in pratica, di non forzare i tempi ma di accordarsi almeno su dei messaggi chiari e importanti nell’immediato. Ad esempio gli stati membri delle nazioni unite si sono impegnati sul fatto che tutti i bambini possano avere accesso al sistema educativo entro pochi mesi dal loro arrivo a destinazione. Ma la cosa importante è che se ne sia cominciato a discutere e che ora si prepara un processo di due anni che porterà all’approvazione di un global compact per i rifugiati».
E questo per UN Woman è un passo in avanti?
Certo che lo è; si è messo un approccio al problema dei rifugiati che tenga conto delle tematiche di genere, che comprenda i diritti umani, e sia centrato sulle persone e non su i numeri, visto che di solito si parla solo dei grandi numeri e non delle persone che li compongono. Si creerà un compact molto complesso su le migrazioni e su i rifugiati, Questo summit di settembre è stato determinato a fine dicembre 2015, il team si è composto ad inizio 2016, in pochi mesi era difficile arrivare ad una conclusione risolutiva sul tema, con posizioni tanto diverse tra i vari governi.
I paragoni venivano fatti tra i risultati ottenuti al summit di Parigi sul climate change e quelli ottenuti fa questo summit.
Prima che ad UN Woman ho lavorato all’universitá dell’Onu e sono stato coinvolto nei negoziati verso Parigi. La differenza che c’è stata, ad esempio con il fallimento dei negoziati sul clima di Copenaghen, ed il successo ottenuto a Parigi, è da ricercare nel processo lungo che ha preceduto il summit francese. La difficoltá sul tema dei rifugiati è che qua bisogna agire su due fronti perché abbiamo da un lato l’urgenza e l’emergenza di persone che muoiono, emergenza che va affrontata, e dove bisogna dare una risposta ai bisogni immediati, dall’altra abbiamo la necessitâ di una risoluzione di lungo periodo e più complessa che va negoziata in parallelo.
Oltre al summt dell’Onu, il giorno immediatamente successivo c’è stato anche un summit di Obama sullo stesso tema. Questo non depaupera il ruolo dell’Onu?
Il summit di Obama è stato importante in quanto aveva come obiettivo quello di portare degli impegni concreti sul campo, ed alcuni Paesi lo hanno fatto, si sono impegnati. C’è stata una forte collaborazione tra l’Onu che organizzava il proprio summit e gli Stati Uniti che organizzavano quello del giorno seguente.
Quando si considerano i risultati del summit su i rifugiati, bisogna considerare entrambi gli eventi. Le Nazioni unite si sono concentrate su i due global compact, rifugiati e migrazioni, che sono complessi, ad esempio il compact su i migranti ha una parte imponente che riguarda il mondo del lavoro, e richiederanno lunghi negoziati, mentre il summit di Obama si è concentrato sull’immediato, in special modo sulla crisi dei rifugiati siriiani e la loro ricollocazione nei vari Paesi.
In che modo UN Woman affronta il problema delle tratte?
Lavoriamo su vari livelli, cercando di assicurarci che le misure che vengono adottate tengano conto dei bisogni specifici delle donne. Le donne hanno sempre un carico maggiore di problemi. Tornando alla situazione dei rifugiati, le donne corrono più rischi ed hanno più discriminazioni ad esempio come lavoratrici in quanto migranti, straniere. Nell’ambito delle tratte di essere umani cerchiamo di assicurarci che le misure normative per combattere la tratta comprendano le aree di vulnerabilità specifica in cui si possono trovare le donne. All’interno delle risposte fornite dal sistema delle Nazioni unite, una parte importante del lavoro di UN Woman è proprio fare in modo che la violenza sulle donne, in ogni sua forma vada prevenuta, e può esserlo solo tramite un lavoro congiunto con le parti normative e la società civile.
il manifesto, 7 ottobre) equella Antonio Esposito (il Fatto quotidiano 8 ottobre). Noi preferiamo parlare di "neofeudalesimo"
il manifesto, 7 ottobre 2016
CARO SCALFARi
OLIGARCHIA NON È DEMOCRAZIA
di Valentino Parlato
Dopo la seconda guerra mondiale e la caduta del fascismo, la regola era che la politica doveva essere di tutti: tutti dovevamo impegnarci in politica perché questo era il fondamento della democrazia: “governo del popolo”. Ma ora l’aria è cambiata: Per il referendum del prossimo 4 di dicembre è assai chiaro. C’è un manifesto assai eloquente: «Cara Italia, vuoi diminuire il numero dei politici? Basta un SI».
Siamo arrivati al punto da ritenere malfattori quelli che si occupano di politica? Al punto che dire: «tu sei un politico» è un insulto? Quindi, basta anche con la democrazia che significa “governo del popolo”? Meglio il governo di pochi o di uno solo.
Il governo di pochi si chiama “oligarchia”, che già a scuola ci insegnavano che è una brutta cosa. Dire che un personaggio era un “oligarca” non era proprio un complimento. Ma ora anche Eugenio Scalfari ci spiega che sbagliamo: «Il primo errore – scrive nel suo editoriale su Repubblica di domenica 2 ottobre – riguarda proprio la contrapposizione tra oligarchia e democrazia: l’oligarchia è la sola forma di democrazia».
Questo inatteso innamoramento per l’oligarchia stupisce e preoccupa ed è contro tutto quello che avevamo imparato a scuola.
Preso dal dubbio sono andato a leggere la voce “oligarchia” nell’enciclopedia Treccani: «Caratteristica della o. (oligarchia) è l’esclusione di notevole parte dei liberi, spesso la maggioranza, dal pieno godimento dei diritti politici e la menomazione conseguente della dignità individuale, dei diritti e della libertà stessa degli esclusi dal potere».
Ma Treccani a parte, resta il fatto che tra democrazia (governo del popolo) e oligarchia (governo di pochi) c’è una bella differenza che Scalfari non può cancellare, come noi non possiamo ignorare che l’identificazione di democrazia e oligarchia è una deriva della finanziarizzazione e globalizzazione del capitalismo di questi nostri tempi.
Il Fatto quotidiano, 8 ottobre 2016
SCALFARI, UNA STRANA IDEA DI DEMOCRAZIA
di Antonio Esposito
Eugenio Scalfari, nel suo editoriale su la Repubblica di domenica scorsa dal titolo “Zagrebelsky è un amico ma il match con Renzi l’ha perduto”, sostiene due tesi: la prima è che il dibattito su La7 tra Renzi e Zagrebelsky sulla riforma costituzionale si è concluso con un 2-0 per di Renzi; la seconda è che Zagrebelsky ritiene erroneamente che la “politica renziana tende all’oligarchia” e che l’errore è dovuto al fatto che il costituzionalista “forse non sa bene che cosa significhi oligarchia”.
Entrambe le tesi sono profondamente errate.
Quanto alla prima, è vero esattamente il contrario: alla competenza con cui il Presidente emerito della Consulta ha spiegato e dimostrato, con tono pacato e dialogante e con ineccepibili argomentazioni, i gravi errori della legge di riforma e i pericoli che corre la democrazia parlamentare ove la legge venisse approvata con il referendum, si è contrapposta la “spocchia”, l’arroganza e l’improvvisazione dell’istrione Renzi che ha eluso le domande, ha fatto la solita demogagia sui costi della politica, ha cercato – (egli che è il campione del trasformismo) – di trovare inesistenti contraddizioni nei ragionamenti lineari e coerenti dell’altro, lo ha irriso ripetendo beffardamente “io ho studiato sui suoi libri”, sicché quanto mai appropriato è l’invito a lui rivolto su questo giornale da Antonio Padellaro nell’articolo di domenica scorsa “La ‘coglionella’ del mellifluo rottamatore costituzionale”: “Se davvero qualcosa ha letto (e imparato) da Zagrebelsky cominci a esibire il suo libretto universitario e ci dia la possibilità di consultare la sua tesi di laurea. Con rispetto parlando”.
Quanto alla seconda tesi, Scalfari ci ha impartito una lezione su “che cosa significhi oligarchia”. È partito da Platone per passare a Pericle, alle Repubbliche Marinare e ai Comuni per arrivare nel “passato prossimo” alla Dc e al Pci fino a concludere che “oligarchia e democrazia sono la stessa cosa” e che “Renzi non è oligarchico, magari lo fosse ma ancora non lo è. Sta ancora nel cerchio magico dei suoi più stretti collaboratori. Credo e spero che alla fine senta la necessità di avere intorno a sé una classe dirigente che discute e a volte contrasti le sue decisioni e poi cercare la necessaria unità d’azione. Ci vuole appunto una oligarchia”.
Per anni è stato insegnato che l’oligarchia – e, cioè, “il comando di pochi” (“olìgoi” e “arché”), quel tipo di governo i cui poteri sono accentrati nelle mani di pochi – è qualcosa di molto diverso dalla democrazia, il “governo del popolo” (“dèmos” e “Kràtos”) che si esercita, negli Stati moderni, attraverso la rappresentanza parlamentare. Dall’Antichità al Medioevo, l’oligarchia è stata considerata dal pensiero politico (in primis Aristotele) una forma di governo “cattiva”. Parimenti, nell’età moderna e contemporanea si è rafforzata la tesi che un governo di pochi è un “cattivo” governo. Il sistema oligarchico è in antitesi a quello democratico.
Orbene, non vi è dubbio che nel nostro Paese il Parlamento sia stato, di fatto, esautorato dall’esecutivo che – legato a ben individuati “poteri forti” che hanno chiesto ed ottenuto norme riduttive dei diritti dei lavoratori – ha esteso sempre più la sua sfera di influenza sulla informazione, sui vertici della Pa, delle forze di sicurezza, e delle aziende pubbliche e pone sistematicamente in atto una campagna, da un lato, di disinformazione e, dall’altro, di propaganda ingannevole.
Il Fatto Quotidiano, nel febbraio di quest’anno (“Le Ragioni del no”, 9/2), denunciò che la riforma costituzionale e la nuova legge elettorale – le quali, nel loro perverso, inestricabile intreccio, riducono il ruolo dei contrappesi, azzerano la rappresentatività del Senato, sottraggono poteri alle Regioni, consentono ad una minoranza di elettori di conquistare la maggioranza della Camera, unica rilevante (anche per la fiducia al Governo) di fronte ad un Senato delegittimato e composto della peggiore classe politica oggi esistente – avrebbero contribuito a portare a compimento un disegno autoritario diretto a concentrare tutto il potere nelle mani dell’esecutivo e, segnatamente, nel capo del Governo, (che da tempo è anche segretario del partito di maggioranza, e la doppia carica preoccupa), e di un gruppo di oligarchi da lui designati. Basti pensare a quei personaggi, ben noti, che lo stesso Scalfari inserisce nel c.d. “cerchio magico” di Renzi e che però, definisce, eufemisticamente, “i suoi più stretti collaboratori”.
Questo spiega la impropria discesa in campo degli oligarchi e del loro capo – (che si sarebbero dovuti astenere dal partecipare alla campagna referendaria) – ed il loro attivismo, (anche all’estero), ogni giorno sempre più frenetico, ossessivo, invasivo con la promessa – da veri imbonitori – di stabilità e benessere se vincerà il SÌ e con il prospettare catastrofi e caos nel caso opposto.
Solo votando NO sarà possibile evitare la deriva autoritaria.
Riferimenti
«Le privatizzazioni servono a ridurre il debito, o è lo shock artefatto del debito ad essere messo in campo per poter proseguire con le privatizzazioni?»
ilmanifesto
, 8 ottobre 2016 (c.m.c.)
Se qualcuno avesse ancora dubbi sull’uso ideologico del debito come «shock» per procedere all’espropriazione di diritti e beni comuni, è ancora una volta la drammatica esperienza della Grecia a diradarli.
Con 152 voti a favore e 141 contrari, lo scorso 27 settembre il Parlamento greco ha approvato le nuove misure di austerità, proposte dal governo Tsipras per ottenere la nuova tranche di prestiti dalla Troika, finalizzata al pagamento del debito.
Con i nuovi provvedimenti, la Grecia, come previsto dal Terzo Memorandum, viene posta letteralmente in vendita: tutte le proprietà pubbliche vengono trasferite all’Hellenic Company of Assests and Partecipations (HCAP), un superfondo finanziario con l’obiettivo esplicito di «ricavare liquidità a breve termine, facendo fruttare il patrimonio pubblico oppure vendendolo».
Basta scorrere l’elenco per vedere quanti settori strategici e proprietà pubbliche saranno coinvolte in quello che è già stato definito il più grande piano di privatizzazioni messo in campo in Europa dopo l’istituzione nel 1990 del Treuhandanstalt tedesco, l’ente di gestione fiduciaria che, tra il 1990 e il 1994, garantì, per la riunificazione della Germania, la dismissione di circa 8.000 aziende dell’ ex Ddr, per un valore patrimoniale pari a 307 miliardi di euro attuali.
Il piano di Tsipras prevede la vendita dell’aeroporto internazionale di Atene (a Lambda Development, con la costruzione di una città privata su 3 milioni di mq davanti al mare) e di 14 aeroporti regionali (già acquistati dal consorzio tedesco Fraport-Slentel); del porto del Pireo (consorzio cinese Cosco) e di quello di Salonicco (capitali russi); della Ferrovia Tranoise (questa volta arrivano i «nostri» di Trenitalia); delle autostrade; delle società pubbliche di energia elettrica, gas e petrolio; delle poste, della società di telecomunicazioni e –last but non least- delle compagnie Eydap e Eyath, che gestiscono rispettivamente l’acqua ad Atene e a Salonicco.
Il superfondo HCAP avrà la durata di 99 anni e sarà gestito da tre tecnici nominati dal governo greco e da due dell’ESM (European Stability Mechanism).
È l’ennesimo sacrificio per uscire dalla spirale del debito? Naturalmente no, e i dati sono lì a dimostrarlo: mentre l’economia greca è sprofondata del 40% (la stessa caduta delle economie europee durante la seconda guerra mondiale), il 95% degli «aiuti» finanziari dati alla Grecia è servito a mettere in sicurezza le banche europee che lì si erano sovra esposte; e il rapporto debito/Pil, che prima della crisi era del 130%, oggi veleggia sopra il 180%.
Alla luce di quanto sopra, alcune domande tornano utili: le privatizzazioni servono a ridurre il debito, o è lo shock artefatto del debito ad essere messo in campo per poter proseguire con le privatizzazioni?
La resa di Tsipras, dopo che la Commissione per la verità sul debito greco, istituita nella primavera del 2005 per iniziativa dell’allora Presidente del Parlamento Zoe Konstantopoulou, aveva dimostrato la totale illegittimità e insostenibilità del debito stesso, e soprattutto dopo lo straordinario «No» del referendum popolare contro le misure imposte dalla Troika, era inevitabile?
L’attualità dimostra dove ha portato quella strada: oggi la Grecia è un paese in vendita e la democrazia un abito formale, dietro il quale i poteri finanziari estendono la propria sfera d’influenza sull’intera società greca.
A Tsipras non rimane che raccomandare alle forze dell’ordine di non usare i gas lacrimogeni contro le manifestazioni dei pensionati.
«È sempre più evidente che la lunga, e per molti versi violenta, campagna elettorale, ha già determinato profonde divisioni proprio sul terreno costituzionale, dove la logica dovrebbe essere piuttosto quella del reciproco riconoscimento di principi comuni». La
Repubblica, 8 ottobre 2016 (c.m.c.)
Guardando alle discussioni sul referendum costituzionale, sembra ogni giorno più difficile segnare un confine tra politica e antipolitica, stabilire dove finisce l’una e comincia l’altra. Un manifesto come quello che chiede ai cittadini “Vuoi diminuire il numero dei politici? Basta un Sì”, incorpora clamorosamente l’antipolitica, le attribuisce una legittimazione che finora le era mancata. Ma quali rischi accompagnano questa legittimazione in un periodo in cui è forte la sfiducia dei cittadini verso le istituzioni, grande il loro bisogno di partecipazione, sempre più intensa la ricerca di modalità di rappresentanza diretta?
È sempre più evidente che la lunga, e per molti versi violenta, campagna elettorale, tutt’altro che conclusa, ha già determinato profonde divisioni proprio sul terreno costituzionale, dove la logica dovrebbe essere piuttosto quella del reciproco riconoscimento di principi comuni. E gli interventi continui, e assai spesso aggressivi, del presidente del Consiglio certo non contribuiscono a crearne le condizioni.
Il rischio è che, quale che sia l’esito del referendum, una parte significativa dei cittadini possa non riconoscersi nel risultato del voto. Bisogna ricordare che ai tempi dell’Assemblea costituente la preoccupazione era stata proprio quella di non dividersi, tanto che fu possibile un accordo sui temi fondamentali malgrado la guerra fredda e l’estromissione dal governo di comunisti e socialisti.
Il legame stretto tra la legge elettorale, l’Italicum, e la riforma costituzionale aveva suscitato legittime preoccupazioni per le forme di concentrazione di potere che avrebbe determinato, cambiando in maniera significativa gli stessi equilibri istituzionali. Le modifiche all’Italicum, più ventilate che tradotte in impegni effettivamente vincolanti e alle quali si era riferita la minoranza del Pd, condizionando ad esse il suo consenso, non potrebbero comunque avere l’effetto di rendere accettabile la riforma.
È persino imbarazzante, per la pochezza dei contenuti e del linguaggio, leggere il testo al quale è stato consegnato il compito impegnativo di riscrivere ben quarantatré articoli della Costituzione. L’intenzione dichiarata è quella di semplificare le dinamiche costituzionali, in particolare il procedimento legislativo. Ma per liberarsi dal tanto deprecato bicameralismo paritario si è approdati invece a un bicameralismo che generosamente potrebbe esser detto pasticciato.
Neppure gli studiosi più esperti sono riusciti a dare una lettura univoca del numero delle nuove e diverse procedure di approvazione delle leggi. Ma l’attenzione critica si è giustamente rivolta anche alla composizione del nuovo Senato, che sembra essere stata concepita per renderne quanto mai arduo, e per certi versi impossibile, il funzionamento.
Il compito affidato ai nuovi senatori, infatti, è assai difficile da conciliare con il loro primario compito istituzionale. Si tratta, infatti, di consiglieri regionali e sindaci. E proprio il ruolo assunto in particolare dai sindaci nell’ultimo periodo, divenuti determinanti per il rapporto tra cittadini e istituzioni, rende inaccettabile o concretamente impossibile una loro presenza attiva e informata come senatori.
Non potendo svolgere una vera e incisiva funzione istituzionale, i nuovi senatori frequenteranno Palazzo Madama come una sorta di dopolavoro?
».
Comune.info, 7 ottobre 2016 (c.m.c.)
Todo cambia, cantava l’argentina Mercedes Sosa con la sua inconfondibile voce. E non fa eccezione l’edizione italiana dell’Agenda latinoamericana, opera aconfessionale, ecumenica e macroecumenica ideata da Pedro Casaldáliga e José Maria Vigil nel solco dell’educazione popolare liberatrice dell’America Latina intesa come continente spirituale (www.latinoamericana.org): dopo averla diffusa per dieci anni nel nostro Paese, i curatori italiani (Gruppo America Latina della Comunità di Sant’Angelo, Sal e Adista) hanno infatti deciso di farne un libro – Ecologia integrale. Una radicale riconversione. I testi dell’Agenda Latinoamericana – convinti, a fronte del declino irreversibile che lo strumento dell’agenda cartacea registra nell’era dell’informatica, di potere così più facilmente ed estesamente divulgarne i contenuti (il libro, il cui ricavato andrà in massima parte a sostenere un progetto ecologico in El Salvador, può essere richiesto ad Adista, tel. 06/68801924, e-mail: abbonamenti@adista.it, oppure acquistato online sul sito www.adista.it).
Contenuti mai come quest’anno imperdibili, considerando l’assoluta rilevanza del tema – non una questione tra tante, ma “la” questione, quella da cui tutto dipende -: il tema, per l’appunto, dell’ecologia integrale, un concetto che ha preso piede in particolare grazie alla Laudato si’, l’enciclica di papa Francesco sulla cura della casa comune (a cui non a caso si richiamano molti testi dell’Agenda), centrata sul riconoscimento che la natura non è appena una cornice della nostra vita, in quanto noi siamo parte di essa («noi stessi siamo terra»), di modo che, evidenzia il papa, «non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale», a cui pertanto siamo chiamati a dare risposta tenendo insieme tutte le dimensioni della realtà, «per ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri».
Un tema che l’, e dunque il libro da cui è tratto, esplora e approfondisce in tre sezioni distinte – secondo la tradizionale metodologia latinoamericana del vedere, giudicare a agire – introdotte da una sintetica proposta pedagogica, “Invito all’ecologia integrale”, che è un richiamo a «fare nostra questa Causa in misura tanto consapevole e coerente da trasformarla in un quadro di riferimento centrale», in maniera tale che la dimensione ecologica non sia «soltanto una tra le tante della nostra vita, quanto piuttosto il contesto più ampio nel quale si trovano integrate tutte le nostre ulteriori esperienze e preoccupazioni».
E se l’obiettivo dei testi raccolti nel libro, quello di provocare una reale conversione ecologica, non potrebbe essere più ambizioso, è evidente che non rimane più molto tempo: come evidenzia l’équipe dell’Agenda Latinoamericana, siamo ormai a un passo dal punto di non ritorno, quello in cui la temperatura del pianeta raggiungerà «un livello tale da innescare processi che si autoalimenteranno reciprocamente, senza più la possibilità di intervenire su di essi».
E, quel che è peggio, «ci troviamo su un piano inclinato» in cui è praticamente impossibile fermarsi, in quanto «non sarebbe possibile fare a meno, da domani, di colpo, dell’energia fossile, perché resteremmo anche senza elettricità, non sarebbero possibili i trasporti, le fabbriche si paralizzerebbero, comincerebbero a scarseggiare beni di ogni genere, non funzionerebbero gli ospedali… la società collasserebbe». E se frenare con dolcezza è la nostra unica possibilità, per farlo è necessario attuare, da subito, «una colossale riconversione sociopolitica, economica e produttiva della nostra società e una trasformazione radicale del nostro stile di vita».
Di fronte all’immane pericolo che ci sovrasta, non basta, allora, neppure la semplice misura concreta, pur indispensabile, a favore di questo o quell’ecosistema: serve una nuova visione in grado di superare le «smodate ed egocentriche ambizioni di una specie che si è autoproclamata diversa, superiore, padrona della creazione», anziché sentirsi imparentata con tutti gli esseri viventi, membri di un’unica famiglia, di un medesimo corpo vivo, il corpo di Gaia, tutti – dai primi batteri comparsi sulla terra passando per i dinosauri e arrivando fino a noi – fatti degli stessi elementi chimici, della stessa materia vivente. Una specie che ha finito per guardare alla Natura come a un mero deposito di risorse materiali, anziché vederla per quello che realmente è: «la placenta che ci ha generato», il nostro ambito di appartenenza, la Casa Comune da cui ci siamo autoesiliati a un certo punto del nostro passato.
Serve, insomma, un nuovo modo di intendere il mondo, la materia, la vita, e noi stessi come parte di un universo pieno di mistero e di incanto, cogliendone la sacralità – «Tutto è sacro, per chi sa vedere», diceva Teilhard de Chardin – e amandolo come noi stessi/e, giungendo a sentirci cosmo, a sapere che siamo, letteralmente, polvere di stelle. Che, come evidenzia nel suo intervento Manuel Gonzalo, in ciascuno di noi «vi sono atomi che prima sono stati presenti, chissà, nelle montagne, negli invertebrati, nei colibrì, nei dinosauri, negli uccelli che hanno sorvolato i monti, nei pesci che hanno attraversato oceani… e anche in altri umani». Che «siamo il risultato, la somma di conquiste che la Comunità della Vita su questo pianeta è andata faticosamente realizzando nel corso di vari miliardi di anni», secondo la nuova visione, il nuovo racconto sacro, che, grazie all’esplosione scientifica degli ultimi tempi, l’umanità sta ricevendo dalla natura stessa, dal cosmo, dalla sua «forza trasformatrice ed evolutiva finora sconosciuta».
Solo abbracciando questa nuova visione, assumendo la coscienza della dimensione sacra della natura e del nostro carattere pienamente e orgogliosamente naturale, sarà possibile, dopo aver addirittura dato vita a una nuova era geologica, l’Antropocene – caratterizzata proprio dall’impatto senza precedenti dell’azione umana sull’ambiente terrestre, in un sempre più drammatico stravolgimento degli equilibri naturali -, cambiare pagina e avviare una nuova era del pianeta, l’«era ecozoica» (Thomas Berry), in cui la vita umana diventerà un elemento integrante della natura di cui è parte e la dimensione ecologica apparirà come il contesto più ampio nel quale troveranno posto tutte le esperienze e le preoccupazioni degli esseri umani, finalmente «cosmocentrati, con i piedi per terra e le radici nella Vita».
Finalmente consapevoli di non essere i signori della Terra, ma, come sottolinea Roberto Malvezzi, «parte della catena della vita che essa protegge», magari, «qualche volta, la sua coscienza e il suo cuore, ma mai i suoi padroni».
Riportiamo il testo integrale dell'intervento di apertura tenuto dall'eurodeputata Barbara Spinelli al convegno internazionale "Il secolo dei rifugiati ambientali?" tenutosi a Milano il 24 settembre 2016. In calce il link peri video integrali dell'evento.
barbara-spinelli.it, 7 ottobre 2016 (p.d.)
Convegno internazionale: "Milano, 24 settembre 2016 | Palazzo Reale
Promosso da: Barbara Spinelli – GUE/NGL Co-promotori: Costituzione Beni Comuni | Diritti e Frontiere – ADIF | Laudato si’ – Credenti e non credenti per la casa comune. Patrocinio: Consiglio Comunale di Milano, Milano in Comune | Università degli Studi, Centro d’eccellenza Jean Monne
Il titolo del convegno può apparire a molti una provocazione, e certamente lo è. Già l’Europa non riesce ad accogliere i profughi di guerra e di persecuzioni che approdano ai nostri confini (e su questo si sta disfacendo), anche se i fuggitivi rappresentano solo lo 0,2 per cento delle nostre popolazioni, ed ecco che lanciamo un nuovo allarme: ben più ampio, anzi cataclismico. Si tratta della fuga in massa provocata dai cambiamenti climatici, e dalle politiche in particolare – fatte dall’uomo – che sempre più costringeranno le popolazioni ad abbandonare le proprie terre. Saskia Sassen parla appropriatamente di politiche di espulsioni. Una parte della popolazione umana sarà semplicemente estromessa da quella che Slavoj Žižek chiama la “casa di vetro” dentro la quale crediamo di poterci proteggere, e in cui crediamo di veder riflessa la cosiddetta, inesistente “comunità internazionale”. Stiamo oltrepassando categorie come quella dell’emarginazione, dell’esclusione sociale, dello sradicamento.
Se queste cifre creano confusione e sembrano una provocazione, è perché non siamo ancora abituati mentalmente a una visione globale dei fenomeni di fuga e migrazione. Perché confondiamo le parole senza analizzare nel loro insieme i fenomeni, perché separiamo le guerre e le persecuzioni dagli effetti del modello di sviluppo globale adottato in primis da Occidente e Cina. Questa confusione non è alimentata solo da governanti politici. Lo è anche dalle sinistre e dalle Ong. Tutti siamo chiamati a divenire più chiari, e non solo a vedere le cose da un punto di vista globale ma anche a legare vari fenomeni tra loro e al tempo stesso a distinguerli nettamente, e a vedere non solo le insufficienze del diritto internazionale ma le difficoltà del suo mutamento.
Le parole innanzitutto: quando si parla di 200-250 milioni di rifugiati ambientali previsti entro il 2050 (dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni, OIM), dobbiamo subito chiarire e appunto distinguere. Le cifre spaventano perché sono spesso gettate al pubblico per allarmare (o anche per riscaldare i cuori, cosa che qui non vorremmo fare). Nella maggior parte, le persone colpite non sono veri e propri rifugiati, così come li intende la Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati e richiedenti asilo. Sono Internally Displaced People, sfollati interni ai Paesi dove avviene il disastro ambientale. Meglio sarebbe dunque dire migranti interni o sradicati forzati, e i migranti interni sono già fortunati perché una parte non riesce nemmeno a spostarsi ed è aggrappata al territorio devastato, a meno che il territorio non sia sprofondato nell’acqua come le isolette di Kiribati, la cui popolazione si trova alle prese con la riluttante accoglienza di Nuova Zelanda e Australia.
Di loro bisogna prioritariamente occuparsi, non solo di quella parte di sfollati che alla fine, non trovando più protezione nei Paesi di origine, proveranno a varcare le frontiere avvalendosi delle labili regole del diritto internazionale. I più sono concentrati in Africa, dove vive la maggior parte di rifugiati del mondo (su 65 milioni, l’85 per cento), sotto forma appunto di sfollati interni. L’Africa è il continente più colpito dal cambiamento climatico, pur non essendo di certo il maggiore colpevole del degrado. Nel 2015, gli sfollati africani sono stati 27,8 milioni: l’equivalente di New York, Londra, Parigi e il Cairo messi insieme.
Quel che occorre cominciare a capire è come e quando avviene la congiunzione fra lo sfollato interno e il rifugiato che varca le frontiere, e cosa si possa fare per individuare la congiunzione e prevenire il catastrofico precipitare delle crisi.
Propongo tre tracce di riflessione che riassumo con schematismo estremo per mancanza di tempo:
1) Studiare i processi di espulsione nel loro insieme, che dal disastro ambientale conducono allo stato di guerra e/o persecuzione, e dunque al bisogno di trovare risposte d’emergenza all’insorgere della questione rifugiati internazionali;
2) Studiare lo sviluppo economico e la politica sul clima che permettono questo fenomeno aggrovigliato;
3) Individuare gli strumenti legali del diritto internazionale e fare eventuali proposte.
1) Vedere il processo nella sua globalità.
Gli esempi che si possono fare sono molti, ma vorrei cominciare dalla crisi siriana, perché è un caso paradigmatico. Tra il 2006 e il 2010, il Paese ha conosciuto una siccità record, dovuta a sfruttamento di terre e irrigazioni eccessive che hanno ingigantito la scarsità dell’acqua e la desertificazione (sono i fenomeni di land grabbing e water grabbing: attività sistematicamente perseguite nel Terzo Mondo dalle grandi multinazionali, con la complicità di regimi locali). Quasi un milione e mezzo di siriani ha perso i mezzi di sussistenza ed è stato sradicato, l’85 per cento del bestiame è morto, sono del tutto scomparse culture essenziali tra cui il grano, l’orzo, il famoso peperoncino di Aleppo. Gli agricoltori senza più terre sono fuggiti in massa nelle città (a Daraa soprattutto) con problemi di occupazione e di scarsità d’acqua che crescevano esponenzialmente. A ciò si sono aggiunte le dighe costruite dalla Turchia sul Tigri e l’Eufrate, che hanno privato di acqua la Siria oltre che l’Iraq. Le prime rivolte siriane nascono da questi eventi, e l’islamismo ne ha approfittato scatenando una guerra per l’accaparramento delle risorse (petrolio soprattutto). L’oppressione politica non è la sola causa delle guerre. Il cambiamento del clima causato dall’uomo ha svolto nel caso della Siria caso un ruolo ancora maggiore. In questo processo si è inserito il conflitto geostrategico – un ennesimo regime change promosso dall’Occidente, che ha decretato lo Stato fallito in Siria – e gli sfollati interni sono in parte divenuti popoli in fuga da guerre e violenze generalizzate. Lo stesso fenomeno avviene in regioni dell’India o in Indonesia. Clima, sviluppo economico, terrorismo, guerre: tutto è legato. Si potrebbe dire che se la temperatura media sale di 2 gradi celsius, l’esplodere di terrorismi e guerre è inevitabile.
2) Rivedere le teorie dello sviluppo.
Parliamo di teorie che continuano a essere difese secondo modalità immutate nonostante i disastri manifesti che provocano. Penso in particolare agli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (Millennium Development Goals) lanciati dall’Onu nel 2005 e al loro rapporto molto ambiguo con sostenibilità e diritti. Lo scopo continua a essere la crescita, quale che sia il costo, senza concentrarsi su quella che è ormai in gran parte del mondo un’economia di sussistenza o sopravvivenza. Gli Obiettivi sottolineano il legame tra sviluppo e rule of law, ma i diritti sono di fatto al servizio di uno sviluppo la cui insostenibilità non è messa in questione. L’accrescersi di sfollati e migranti (essenzialmente interni) è in grandissima parte il risultato di quest’agenda dello sviluppo e del commercio, patrocinata dall’Onu o dai piani di risanamento di Fondo Monetario o Banca Mondiale, perseguiti senza badare alla resilienza locale.
3) La legge internazionale.
È il punto dolente del fenomeno in questione, delicatissimo da affrontare. La Convenzione ONU sui rifugiati è stata ideata nel ’51 dopo due guerre mondiali, e non è ancora adattata al terzo fenomeno che è quello degli sfollati o rifugiati causati dalla globalizzazione e dal degrado climatico. L’articolo A,2 della Convenzione è molto esplicito e limitativo. Sono titolati a chiedere asilo coloro che hanno un “valido motivo fondato su timore giustificato” di essere perseguitati per cinque ragioni (razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale, opinioni politiche). Lo sfollato o il potenziale profugo ambientale non fugge una persecuzione, anche se esistono responsabilità evidenti di sfruttamento coloniale delle risorse e delle terre. Né fugge un genocidio o un crimine contro l’umanità – nonostante varie denunce in questo senso – perché dal un punto di vista legale le corporazioni o multinazionali responsabili di land grabbing o water grabbing non sono colpevoli del dolus specialis – o intento specifico – implicito nell’imputazione di sterminio. Per il momento esistono alcune convenzioni ad hoc. Penso ai Principi guida dell’Onu del 1998 sugli Internally Displaced People, alla Convenzione dell’Organizzazione dell’Unità Africana del 1969, alla Dichiarazione di Cartagena sui rifugiati dell’84. Tutte queste convenzioni affrontano le responsabilità di disastri climatici causati dall’uomo e dalle agende globali di sviluppo, ma sono miglioramenti di facciata: il più delle volte non sono vincolanti e sono state ratificate solo da un numero esiguo di Stati. Inoltre – e non è questione minore – l’assistenza agli sfollati interni deve tener conto della questione della sovranità, come prescritto dal diritto internazionale.
In altre parole, perché possano scattare meccanismi di protezione internazionale occorre spesso arrivare fino all’acme del processo distruttivo, quando il disastro climatico è ormai già sfociato in guerre e/o persecuzioni e la Convenzione di Ginevra può, ma con estrema difficoltà, essere invocata. È importante proporre innovazioni in questo campo, e tanti ci provano da decenni. Diciamoci che non è una cosa semplice.
Per questo dico che siamo interpellati come sostenitori dei diritti dell’uomo, e anche le Ong sono interpellate, perché spesso il loro sguardo è concentrato su un unico segmento del processo di devastazione: l’ultimo. Non so se avremo tempo di affrontare questa questione, ma il problema c’è e non possiamo nascondercelo.
Il problema è quello dell’ambiguità dei diritti che giustamente difendiamo. Il rischio che si corre infatti – come sinistra che invoca frontiere aperte e come Ong – è quello di divenire gli infermieri di disastri che debbono essere risolti a monte, molto prima. Ed è quello di non capire che la protezione delle frontiere non è parola scandalosa, se specifichiamo che l’obiettivo deve essere la protezione di frontiere che possano aprirsi in maniera non caotica, ordinata.
Avanzare richieste concernenti un segmento soltanto di questi processi (quello dei rifugiati internazionali) rischia non solo di andare contro un muro dal punto di vista legale, ma di divenire complice del fenomeno, non occupandosi delle sue cause. È un difetto che ritroviamo anche nelle Ong. Penso in particolare a quelle legate alla Fondazione Soros: a parole Soros sostiene i diritti dei popoli colpiti da disastri ambientali, ma poi lui stesso ha fatto investimenti di enormi proporzioni nel carbone, acquisendo nell’estate 2015 azioni dei giganti Peabody Energy and Arch Coal. Ecco come l’ONG interviene per riparare le falle di qualcosa che non ha intenzione alcuna di aggiustare.
Bisogna insomma pensare l’intera catena del disastro ambientale, diritti compresi, che vanno disgiunti dall’agenda dominante concernente lo sviluppo, perché non diventino semplici ausiliari del suo pervertimento. Vorrei concludere con quanto affermato da Oscar Wilde nel 1891, nell’Anima dell’uomo sotto il socialismo: “È tanto facile aver simpatia per la sofferenza, e tanto difficile aver simpatia per il pensiero”.
Noi siamo vicini ai sofferenti, ma il nostro dovrebbe essere il tentativo di pensare meglio quel che ci accade. Non di dire: “Ce la faremo ad accogliere tutti i rifugiati”, per confortare le nostre certezze morali ma senza prospettive reali di successo.
Naturalmente è essenziale proteggere le vittime ambientali, ma suonando l’allarme occorre misurare i rischi di un irrigidirsi delle posizioni xenofobe sulla migrazione in generale, in Europa. E dobbiamo sapere che se l’attenzione si fissa sulla fuga finale, vorrà dire che avremo fallito. La doverosa accoglienza dei fuggitivi non deve quindi distoglierci dal compito prioritario, che è quello di rimettere in questione il modello di sviluppo che fonda la mondializzazione dagli anni ’70. È un modello neocoloniale che produce espropriazioni, urbanizzazioni di massa, fame, povertà, guerre: incentrato su investimenti nel commercio, ha distrutto le agricolture locali. Per questo ho detto che bisogna concentrarsi sull’economia della sopravvivenza, ripartire da essa: sopravvivenza di popoli minacciati che devono – ove ancora possibile – potersi riappropriare dei loro territori e anche essere risarciti, che devono – sempre dove ancora possibile – poter contare sulla messa in salvo dei territori stessi, e tornare a produrre il cibo e a trovare l’acqua di cui abbisognano, nei luoghi e nelle terre da cui sono espulsi. Se ci limiteremo a fare dell’accoglienza, non li avremo veramente salvati ma avremo solo suggellato il loro sradicamento.
Riferimenti
I rifugiati fantasma senza diritto d’asilo. “Salviamo chi fugge dai disastri naturali”, La Repubblica, 12 settembre 2012, Ogni anno 6 milioni di rifugiati a causa dei disastri ambientali, il manifesto, 25 settembre 2016, nonchè, su eddyburg, gli articoli di Guido Viale e di Dante Carraro.
A questo link trovate i video integrali delle sessioni mattutina e pomeridiana del convegno.
«Il rapporto 2015: in 107mila via dall’Italia».
Il Fatto Quotidiano, 7 ottobre 2016 (p.d.)
Il grave problema dell’Italia, oggi, è l’incapacità di evitare il depauperamento dei giovani e dei più preparati a favore di altri Paesi”: il succo del rapporto Migrantes Italiani nel Mondo, presentato ieri a Roma, è nell'introduzione dello studio. Gli espatriati aumentano, sono stati 107mila nel 2015, e vanno via soprattutto gli under 35 più preparati, insieme a una buona fetta d’età compresa tra 35 e 49 anni. Forza lavoro qualificata, che emigra soprattutto perché in Italia i salari sono più bassi.
A Milano, qualche giorno fa, in una brochure per gli investitori esteri (con logo del ministero dello Sviluppo economico) si leggeva che “un ingegnere in Italia guadagna mediamente in un anno 38.500 euro, mentre in altri Paesi ha una retribuzione media di 48.500” e che più in generale “i costi del lavoro in Italia sono al di sotto dei competitor”. E ancora, che “la crescita del costo del lavoro nel 2012-14 è stata la più bassa dell’Eurozona”.
I dati. I numeri della Fondazione Migrantes vengono soprattutto dall’anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire): in un anno, hanno lasciato l’Italia 39.410 giovani tra i 18 e i 34 anni – 6.232 in più rispetto al 2014 – pari al 37 per cento circa del totale. Non vanno via dall’Europa (gli spostamenti intercontinentali sono costanti e, in alcuni casi, in lieve diminuzione) ma migrano soprattutto verso la Germania (16.568), il Regno Unito (16.503) e la Svizzera (11.441). Restano in Europa. E se chi ha meno di 35 anni si sposta a seconda delle opportunità, la fascia 35-49 anni (il 25,8% del totale) lo fa con un progetto di vita. Aumenta, poi, l’emigrazione dal Nord Italia. “Pur restando indiscutibilmente primaria l’origine meridionale dei flussi – si legge – si sta progressivamente assistendo a un abbassamento dei valori percentuali del Sud a favore di quelli del Nord”. Lombardia e Veneto prima di tutto. Totale: a gennaio, gli italiani residenti all’estero erano più di 4,8 milioni, il 3,7%in più rispetto al 2014, +54,9% rispetto al 2006. Peggio dell’Italia fa solo la Spagna, dove in dieci anni l’incremento è stato del 155,2%.
La globalizzazione non è una spiegazione sufficiente. “Oggi il fenomeno degli italiani migranti ha caratteristiche e motivazioni diverse rispetto al passato – ha detto ieri il presidente della Repubblica Sergio Mattarella –. Un segno di impoverimento piuttosto che
una libera scelta ispirata alla circolazione dei saperi e delle esperienze”.
“Sono dati che non stupiscono – spiega al Fatto Ugo Fratesi, docente di Economia regionale al Politecnico di Milano, studioso degli effetti delle migrazioni sui differenziali economici tra regioni – e che mostrano un cambiamento rispetto alle migrazioni del Dopoguerra e del periodo pre-crisi”. Il dato più evidente è che ci si sposta all’estero da tutte le regioni, non più solo dal sud. “Pur considerando che la Lombardia è la regione più popolosa d’Italia, è comunque significativa l’inversione del trend. Segnala che il ruolo di assorbimento che il nord Italia svolgeva prima della crisi economica è svanito”.
Chi va via è giovane e ha un titolo di studio medio-alto: la fuoriuscita di persone qualificate impoverisce il Paese di capitale umano, portando con sé anche l’investimento fatto su di loro dalla collettività (attraverso l’istruzione pubblica, ad esempio). Sempre più gente emigra, mentre il numero di chi rientra in Italia è rimasto lo stesso negli ultimi dieci anni. “Bisogna capire se queste persone emigrano per sempre o se rientreranno – dice Fratesi – Perché questa perdita di capitale umano potrebbe non danneggiarci del tutto in futuro, a patto che queste persone mantengano rapporti con l'Italia e che magari rientrino portandosi dietro esperienze e network di relazioni”.
In questo contesto, c’è chi ne trae beneficio, Germania su tutti. I programmi speciali del governo tedesco per la “Promozione della mobilità dei giovani stranieri interessati alla formazione professionale” – spesso pagati con fondi Ue – non sono un investimento a fondo perduto,ma una strategia precisa. Corsi teorico-pratici di almeno tre anni, l’insegnamento del tedesco, stipendi di 800 euro al mese nel periodo di formazione. Senza contare che gli ultimi dati demografici sulla Germania, confermati anche dall’Istituto tedesco di studi demografici, parlano di più di 64 milioni di morti previsti nel prossimo mezzo secolo e meno di 40 milioni di nascite. Berlino ha quindi un bisogno disperato di forza lavoro per evitare una crisi demografica.
“Per quanto riguarda i salari – spiega Fratesi – bisogna invece ragionare non tanto sul loro livello medio, quanto sul differenziale relativo a certi tipi di qualifiche”. In pratica, la ricercadi migliori opportunità in altri Paesi dà vantaggi economici soprattutto alle persone più qualificate e per le quali, come mostra la letteratura scientifica, è anche più facile inserirsi in contesti diversi. La moneta unica poi, non aiuta. “Un’area monetaria che non è ottimale – spiega Fratesi – cioè formata da economie che funzionano in modo diverso e hanno diversi livelli di inflazione, non rende possibile recuperare competitività con la normale svalutazione del cambio”. Quindi si svaluta il lavoro. “Non c’è una relazione diretta col fenomeno migratorio ma contribuisce a spiegare perché sono più bassi e non stanno crescendo”.
«Il 3 ottobre a Varsavia e in altre città polacche le donne vestite di nero hanno marciato contro il divieto d’aborto. Respinto il ddl dei teo-con. Governo intimorito dalle manifestazioni oceaniche». Articoli da
ilmanifesto e la Repubblica , 7 ottobre 2016 (c.m.c.)
Il manifesto
VITTORIA DELLE DONNE.
IL PARLAMENTO BOCCIA
IL DIVIETO TOTALE DI ABORTO
di Giuseppe Sedia
Non ci sarà divieto totale di aborto a Varsavia. Il Sejm, la camera bassa del parlamento polacco, ha bocciato un disegno di legge proposto dal movimento civile teo-con Ordo Iuris per mettere al bando le interruzioni volontarie di gravidanza senza se e senza ma. Già due giorni fa la maggioranza della destra populista di Diritto e giustizia (PiS) aveva chiesto di ritirare il provvedimento che era finito sul tavolo di una commissione del Senat, la camera alta polacca.
«Le manifestazioni da parte delle donne ci hanno spinto a riflettere dandoci anche una lezione di umiltà», ha dichiarato il ministro dell’Istruzione Jaroslaw Gowin, smettendo così le esternazioni del collega degli Esteri Witold Waszczykowski che aveva invece derubricato le proteste a una forma di «happenning». A dire vero, più che di un bagno di umiltà, si tratta di un mero calcolo politico per la dirigenza del PiS, disposta a tutto per prevenire un’emorragia di consensi, ora che il governo procede a ritmo spedito con il suo piano di “orbanizacja” del paese.
È una piccola ma grande vittoria per le migliaia di donne vestite a lutto che hanno inondato le strade dei maggiori centri della Polonia nelle ultime due settimane. Le proteste culminate nel «lunedì nero» segnano invece la sconfitta degli iniziatori della legge, e più in generale, della politica intransigente del governo nei palazzi del potere. Ma il dietrofront del Sejm è anche la testimonianza della débâcle ideologica di Ordo Iuris e della Conferenza episcopale polacca. A nulla è servito lo zelo pro-life nelle zone rurali del paese dei «berretti di mohair», seguaci dell’emittente xenofoba Radio Maryja del pastore redentorista Tadeusz Rydzyk.
La legge del 1993, frutto di un compromesso al ribasso dopo la discesa in campo della Chiesa negli anni della transizione al capitalismo, non sarà dunque stracciata. E per questo che resterà difficile vedere tutto rosa per quelli che sono scesi in piazza ammantandosi di nero per dire «nie» al divieto totale. Gli aborti resteranno infatti punibili con un massimo di 8 anni di carcere per i medici che eseguono l’intervento. Non è prevista invece nessuna pena per le donne che decidono di sottoporsi all’operazione. Su quest’ultimo punto, nemmeno la gerarchia ecclesiastica locale sembra disposta a criminalizzare le donne.
L’attuale legislazione consente di eseguire l’intervento soltanto in tre casi: quando la gravidanza mette a repentaglio la salute della madre, quando il feto è danneggiato, e in caso di stupro. L’ondata di indignazione popolare del «Black Monday» dovrebbe anche distogliere il PiS dall’idea di presentare un proprio disegno di legge sul modello brasiliano che eliminirebbe la possibilità di eseguire l’aborto in caso di malformazioni del feto.
Con il mantenimento dello status quo il turismo abortivo verso Ovest continuerà ad andare a gonfie vele. Un vero e proprio «soggiorno della speranza», spesso in direzione Praga e Bratislava, dove le interruzioni volontarie di gravidanza non sono rimborsate dai servizi sanitari nazionali.
La Repubblica
IL NO DEI POLACCHI AL DIVIETO DI ABORTO
HA VINTO SUIBARBARI
di Andrea Tarquini
Adam Michnik, veterano della lotta non violenta per la libertà del centroest europeo contro l’”Impero del Male”, intellettuale di punta europeo e fondatore diGazeta Wyborcza, non ha dubbi: la rinuncia del governo polacco alla legge antiaborto di divieto totale è una nuova fase del conflitto tra il potere e la società civile, e grande vittoria dei diritti umani e delle donne nell’Europa intera.
Come valuta la situazione, che cosa ha spinto i onservatori del PiS alla svolta?
«Siamo in una nuova fase del conflitto tra potere politico e società civile, la quale è organizzata nel Kod (Comitato di difesa della democrazia, ndr), nei partiti d’opposizione come Platforma o Nowoczesna (I moderni) e in diverse organizzazioni. E specialmente è una grande vittoria del movimento delle donne nel mondo globale contro quella legge assolutamente barbara e anacronista che vietava di abortire anche a donne stuprate, una legge da Medioevo».
Come ha fatto questo eterogeneo movimento a vincere contro una maggioranza assoluta di governo liberamente eletta e così solida?
«Mobilitandosi in ogni città. Nelle piazze come sul web, sui social forum. Lanciando messaggi che hanno convinto donne e cittadini d’ogni opinione politica. È la prima volta che il PiS (il partito di maggioranza,
ndr) capitola. Grazie ai suoi parlamentari convintisi alla fine ad ascoltare il paese reale è stata bocciata la legge voluta dai più oscurantisti, dai falchi della Chiesa, altri grandi sconfitti ».
E adesso come evolverà il confronto politico in Polonia?
«Tre aspetti sono decisivi. Primo, insisto, il conflitto tra il regime autoritario e la società civile e democratica è entrato in una nuova fase, la società civile si è rafforzata. Secondo, è una grande vittoria della civiltà: nella cattolica Polonia le donne hanno conquistato un nuovo ruolo nella politica e nella vita pubblica, contro l’animo del sistema patriarcale. Terzo, ora è chiaro che la maggioranza del PiS non coincide necessariamente con la maggioranza nella società civile».
È rimasto sorpreso?
«Sì. Ora vedremo come la situazione andrà avanti. Il movimento deve continuare a lottare, ma deve stare molto attento: posizioni pro aborto troppo massimaliste spaccherebbero la società, sarebbe un regalo per il governo. Questo governo, come Orbàn in Ungheria, ritiene di essere più forte quando il paese reale si spacca».
Che succede nel mondo del cattolicesimo polacco, che molti accusano di oscurantismo?
«Il cattolicesimo polacco è diviso, anche in seno alla Conferenza episcopale. Vedremo chi vincerà al suo interno, perché finora la prevalenza di linee fondamentaliste ha portato la società verso sempre più secolarizzazione totale, ha indebolito il cattolicesimo».
Qual è il rapporto tra chiesa polacca e papa Francesco?
«Complesso. Per i cattolici fondamentalisti è impossibile contestare apertamente il Papa, eppure nell’episcopato polacco vive forte una eresia nazionalista di fatto anticristiana, come ha scritto Tygodnik Powszechny (il settimanale cattolico liberal di qualità di Cracovia, città di Giovanni Paolo II, ndr). È una sfida al Papa, pericolo mortale per il cattolicesimo in Polonia. Vedremo chi vincerà, io laico da sempre sono a fianco di Francesco. Anche in questo scontro tra Francesco e i nostri vescovi conservatori si è aperta ora una nuova fase».
L’Europa come deve reagire?
«Dico una cosa sola: sono completamente d’accordo con il commissario europeo Timmermans, secondo cui in Polonia la democrazia è minacciata ».
Dalle polemiche al ricorso al Tar: i sostenitori del No portano il quesito davanti ai giudici amministrativi. Il decreto Mattarella che fissa il voto il 4 dicembre non rispetterebbe la legge: testo troppo sommario. Il Quirinale replica agli avvocati: è stata la suprema Corte a validare quella formula (ideata dal governo)». il manifesto, 6 ottobre 2016
Le polemiche sulla scheda del referendum costituzionale prendono la strada della giustizia amministrativa. Arriva al Tar del Lazio un ricorso contro il decreto del presidente della Repubblica che ha indetto il referendum il 4 dicembre, stabilendo anche il testo del quesito. Testo che non riporta l’intero elenco degli articoli della Costituzione modificati o soppressi dalla riforma che gli elettori devono approvare o respingere – sono in totale 47 articoli -, così come previsto dalle legge che ha introdotto i referendum nel 1970. Ma solo una sintesi del contenuto del disegno di legge, soluzione già adottata in occasione dei due precedenti referendum costituzionali nel 2001 e nel 2006.
Si chiese allora ai cittadini di approvare o respingere le «modifiche al Titolo V» (2001) e le «modifiche alla seconda parte» della Costituzione (2006). Due quesiti sintetici eppure neutri, se paragonati a quello che il presidente del Consiglio Renzi ha cominciato a esibire in comizi e trasmissioni tv anche prima di fissare la data del referendum. Agli elettori, oggi, viene chiesto di approvare o respingere le «Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione». Una formula ingannevole, per i sostenitori del No. Secondo i quali il quesito contiene più gli auspici del governo che la realtà della riforma, visto che il bicameralismo non è affatto superato, vengono ridotti solo i senatori e non i deputati, il contenimento dei costi è al massimo una possibilità e la soppressione del Cnel è assai meno rilevante di una serie di novità costituzionali neanche citate, come la modifica dei quorum per l’elezione del presidente della Repubblica [e l'abolizione dell'elettività del Senato - ndr]].
I sondaggi sul referendum testimoniano di una grande incertezza, la preoccupazione degli avversari della riforma è che una quota di indecisi possa essere convinta, direttamente nell’urna, dal testo accattivante del quesito.
A firmare il ricorso al Tar sono due avvocati del comitato del No (Enzo Palumbo e Giuseppe Bozzi) e due senatori (Vito Crimi del M5S e Loredana De Petris di Sinistra italiana) che sono tra i firmatari della prima richiesta di referendum sulla riforma, ammessa dalla Cassazione il 6 maggio scorso. Una richiesta che per la verità era fatta indicando come testo da sottoporre a referendum lo stesso che adesso il No considera ingannatore. Ma, sostiene l’avvocato Palumbo, è proprio la legge sul referendum a distinguere tra il momento in cui si avanza la richiesta di referendum, dov’è consentita una indicazione generica della legge che si intende fermare con il referendum (articolo 4 della legge 352/70) e il momento in cui si stabilisce il quesito, che andrebbe scritto sulla scheda indicando tutti i punti della Costituzione soggetti a modifica, così come impone l’articolo 16 della stessa legge.
Il decreto del presidente della Repubblica che indice il referendum, invece, riporta solo il titolo del disegno di legge Renzi-Boschi, chiaramente concepito dal governo in vista del referendum e passato indenne attraverso il percorso – blindato – di approvazione parlamentare.
Il Quirinale, ieri, con una nota dell’ufficio stampa, ha scaricato la responsabilità sull’Ufficio centrale per il referendum della Cassazione, che ha svolto le verifiche formali sulle richieste di referendum: «Il quesito è stato valutato e ammesso, con proprio provvedimento, dalla corte di Cassazione e riproduce il titolo della legge approvato dal parlamento». «Ma la legge – è la replica dell’avvocato Palumbo – all’articolo 16 che il Quirinale nel suo decreto ha anche dimenticato di citare, indica in termini precisi e senza equivoci che il quesito dev’essere scritto citando gli articoli oggetto del referendum».
In realtà, già al tempo della prima richiesta di referendum, il vecchio democristiano Peppino Gargani, oggi schierato con il No, si era accorto che era il caso di riformulare la domanda alla Cassazione, ma la sua istanza era stata respinta dai giudici della suprema Corte che avevano già ammesso il referendum. A tempo di record: a maggio sembrava infatti che il governo volesse votare il prima possibile. E velocissimo dovrebbe essere adesso il Tar del Lazio, se volesse accogliere quest’ultimo ricorso: per confermare la data del 4 dicembre eventualmente cambiando il quesito resta poco più di una settimana.
È vero o no che la riforma Renzi-Boschi dell'assetto costituzionale delle istituzioni pubbliche è un vulnus grave alla democrazia in Italia? Le opinioni sono diverse, e per fortuna non tutti twittano e insultano invece di parlare. La Repubblica, 6 ottobre 2016, con postilla
LA RIFORMA
E L’ELEZIONE DEL PRESIDENTE
di Salvatore Settis
Distrattamente, Guido Crainz scrive su Repubblica di ieri che «si è considerato addirittura un la norma che in realtà innalza il quorum necessario per l’elezione del Presidente della Repubblica, portandolo dalla maggioranza assoluta ai tre quinti dei votanti, e quindi al di fuori della portata di chi governa (a meno di non ipotizzare un’assemblea letteralmente dimezzata nelle presenze, come ha fatto ieri Salvatore Settis)». Non è così. Nella Costituzione vigente, il Presidente si elegge coi due terzi dei voti degli aventi diritto (tutti i deputati e senatori) nei primi tre scrutini, con la maggioranza assoluta dell’intera assemblea dal quarto in poi. Secondo la riforma, il Presidente è eletto coi tre quinti dell’assemblea dal quarto al sesto scrutinio, coi tre quinti dei votanti dal settimo in poi (art. 83), il che vuol dire che gli assenti non si contano ai fini del risultato. Secondo l’art 64, «le deliberazioni del Parlamento non sono valide se non è presente la maggioranza dei componenti», dunque nell’assemblea che elegge il Presidente, composta di 630 deputati e 100 senatori, devono esservi almeno 366 presenti in aula. I tre quinti di 366, provare per credere, fa 220. Ergo, il Capo dello Stato potrebbe essere eletto da soli 220 votanti, e questo in un Parlamento dove, stando al vigente Italicum, il partito al governo avrà 340 seggi nella sola Camera: l’elezione pilotata del Presidente è dunque tutt’altro che «al di fuori della portata di chi governa». Crainz sembra credere che tante assenze non ci saranno mai. Ma se è così, perché prevederle in Costituzione?
LA RISPOSTA
di Guido Crainz
Salvatore Settis ribadisce tutto quello che avevo attentamente scritto: sino ad oggi dal quarto scrutinio in poi era necessaria la maggioranza assoluta dell’assemblea (ovviamente a disposizione di chi governa), con la riforma dal settimo scrutinio saranno necessari i tre quinti dei votanti (non raggiungibili da chi vince le elezioni). Settis ribadisce inoltre che l’elezione del Presidente della Repubblica potrà comunque essere pilotata: nel caso, appunto, che la metà dei senatori e dei deputati sia misteriosamente assente (e le assenze riducano soprattutto le fila degli oppositori). Le elezioni del Presidente della Repubblica vedono da sempre la presenza pressoché totale degli aventi diritto, come è naturale, e quindi l’ipotesi di un’aula letteralmente dimezzata mi sembra davvero poco plausibile: a meno che non si tratti di una scelta consapevole, volta a rendere meno dura la propria opposizione (e questa è la possibilità che quell’articolo apre). Nel suo recente libro,
Costituzione!, Settis spiegava: “se al settimo scrutinio dovessero votare solo 15 fra deputati e senatori basteranno 10 voti” (p.16). Evidentemente ha tenuto poi conto dell’art.64 ed ha provveduto ad aggiornare la contabilità ma non il senso di quel che sostiene. A mio avviso “interpretazioni” come queste, relative a un nodo centrale come le figure e gli organi di garanzia, alimentano la paura di un Annibale alle porte e rendono incandescente un dibattito che dovrebbe rinsaldare invece il nostro “essere comunità”.
postilla
Crainz non s'è accorto che Annibale è gia dentro le porte. Per rendersene conto basta leggere con pazienza i numerosi articoli che abbiamo inserito nella nostra cartella Renzi e il renzismo. E' da tempo che il regime feudale, avente al suo vertice Matteo I, si è consolidato, proseguendo con giovanile ardore e volpesca furbizia il cammino aperto da Bettino Craxi e Silvio Berlusconi, nella direzione tracciata tanti anni fa dalla Mont Pèlerin Society. La riforma Renzi-Boschi non cancella il Senato, ma lo rende un organo dei partiti anzicchè una rappresentanza degli elettori.
Prosegue senza tregua e senza speranza il suicidio dell'Europa, con una perfetta sintonia tra la cecità dei suoi governanti e l'inumanità di porzioni crescenti dei suoi popoli. Ma le rabbie s'accumulano, dentro e fuori le mura.
Il manifesto, 6 ottobre 2016 (p.d.)
Contro i migranti l’Europa rafforza con mezzi e uomini una delle frontiere che considera più a rischio. Accade al confine tra Bulgaria e Turchia dove oggi debutta la nuova guardia costiera e di confine europea alla presenza del premier bulgaro Boyko Borissov, del commissario Ue all’Immigrazione Dimitri Avramopoulos e dell’ex direttore di Frontex – ora responsabile del nuovo corpo di polizia – Fabrice Leggeri. Un debutto che è stato preceduto dalla decisione di Bruxelles di stanziare in settimana 108 milioni di euro che Sofia dovrà spendere per costruire nuove barriere anti-migranti, oltre a quella già realizzata alla frontiera con la Turchia, e per l’acquisto di 50 veicoli per la sorveglianza dei confini. Altri 52 milioni di euro aggiuntivi sono inoltre in attesa di ottenere il via libera da parte della Commissione europea.
La Bulgaria – uno dei paesi più poveri dell’Unione europea – acquisisce così un’importanza cruciale nella strategia messa in atto da Bruxelles per fermare i flussi di migranti e di profughi che vorrebbero raggiungere l’Europa. E il fatto che tra tutti i confini esterni si sia deciso di puntare ancora una volta su uno Stato confinante con la Turchia sembra confermare i dubbi di quanti ritengono sempre più a rischio l’accordo sui migranti siglato a marzo con Ankara. Da oggi quindi altri 130 uomini andranno ad aggiungersi ai 192 già inviati in precedenza nel Paese da Frontex.
Approvata lo scorso mese di luglio dal Consiglio europeo, l’Eu border and coast guard agency può contare per il 2016 su un budget di 238 milioni di euro destinato a crescere fino a 322 milioni entro il 2020. Quella che prende avvio oggi rappresenta una sorta di prova generale in attesa che il 6 dicembre diventi attivo il corpo di «intervento rapido» forte di 1.500 uomini messi a disposizione dai singoli Stati (l’Italia contribuirà con 125 persone). Il suo compito sarà quello di intervenire – su decisione del Consiglio Ue – nelle eventuali situazioni di emergenza che si potrebbero creare nel caso in cui uno Stato non sia in grado di difendere le proprie frontiere mettendo così a rischio l’area Schengen. Per il 6 gennaio, infine, è invece previsto l’avvio di un nucleo di guardie impegnato esclusivamente nei rimpatri dei migranti.
Stando ai dati forniti dalla Sar, l’Agenzia di stato bulgara per i rifugiati, dall’inizio dell’anno alla fine di settembre sono stati 14.728 i rifugiati entrati nel paese, la maggior parte dei quali provenienti dall’Afghanistan. Altri diecimila avrebbero invece lasciato i centri cercando un alloggio in altre località dove attendere una risposta alla domanda di asilo. Nonostante questo, i nuovi arrivi hanno creato una situazione di sovraffollamento nei centri, all’interno dei quali si trovano oggi 5.568 migranti, il 7% in più rispetto alla reale capacità di ricezione. Numeri che hanno spinto il governo a ordinare la costruzione di due ulteriori centri per un totale di 800 nuovi posti.
Di fronte a questa emergenza legata al sovraffollamento, ma anche alla difficile convivenza tra migranti e popolazioni locali, il governo pensa di intervenire con un giro di vite destinato a peggiorare le già difficili condizioni di vita dei primi. Due giorni fa il presidente della commissione per la sicurezza interna del paese, Tsvetan Tsvetanov, ha reso noto che si sta valutando la possibilità di trasformare i centri di accoglienza in luoghi chiusi dai quali i migranti non potranno più uscire come avviene oggi, proclamando per di più al loro interno un coprifuoco che verrà fatto rispettare con un impiego massiccio di forze dell’ordine. Tutto questo, ha spiegato Tsvetanov, «per evitare disordini e tensioni con la popolazione».
Purtroppo nei mesi scorsi non sono mancati casi d anche gravi di intolleranza nei confronti de migranti nei confronti dei quali sono entrate in azione anche formazioni paramilitari il cui scopo era quello di fermare quanti riuscivano a passare la frontiera provenendo dalla Turchia. La nuova guardia di confine europea si spera che possa almeno mettere fine a esperienze simili.
Non c'è necessariamente contraddizione tra oligarchia e demagogia. Quando l'oligarchia è incardinata su un Capo come Renzi, dotato di capacità demagogiche e di strumenti che gli consentono di raggiungere il demos, divenuto "liquido" la sintesi tra i due termini avviene. L'avevamo già visto con Mussolini. La Repubblica, 6 ottobre 2016
DEMAGOGIA, non oligarchia è la forma corrotta della democrazia che rischiamo in questi tempi. Il timore della formazione di una nuova oligarchia paventata da Gustavo Zagrebelsky nel suo dibattito con Matteo Renzi, e commentata con accenti diversi da Eugenio Scalfari e Nadia Urbinati, non è altro che la rappresentazione di una realtà. Ma non sul versante politico. Piccoli gruppi portatori di interessi particolari dominano l’economia, non la politica. In politica, semmai scontiamo un deficit di rappresentatività e rispondenza delle élite, non l’arroccarsi al potere di un ristretta componente in grado di determinare i destini di una nazione. Pensiamo alla campagna “napoleonica” con cui Matteo Renzi ha sbaragliato avversari consolidati, sulla scena da decenni. Grazie alla sua Austerlitz, una nuova generazione è arrivata nella stanza dei bottoni. Lo stesso vale, piacciano o meno i loro messaggi e il loro stile, per i 5 Stelle che hanno immesso in Parlamento un’ampia schiera di matricole. La politica italiana è quindi in una fase di tumultuoso rinnovamento che sta mescolando le carte in maniera frenetica. Chi poteva pensare che nell’arco di due anni un “giovanotto” (detto in termini puramente anagrafici) sconosciuto a tutti come Luigi di Maio fosse un potenziale aspirante al ruolo di presidente del consiglio? Tutto bene allora? Ovviamente no, per una ragione molto semplice: questi due esempi di rinnovamento sono avvenuti tumultuosamente, fuori da binari definiti, in una sorta di processo rivoluzionario, scuotendo dalle fondamenta il ruolo e il prestigio del partito politico in quanto tale. Guardiamo al caso britannico per capire la differenza. Passata la Brexit, il partito conservatore ha attivato il ricambio della leadership al suo interno, in maniera rapida ed efficiente, seguendo regole ben rodate. Questo perché i partiti in Gran Bretagna hanno ancora l’autorevolezza per guidare la politica. Non devono “appellarsi al popolo” per governare. Hanno ricevuto un mandato e lo esercitano. E se falliscono, come nel caso di David Cameron, rassegnano le dismissioni lasciando ad altri il compito di proseguire.
In Italia, la tensione che si respira con l’avvicinarsi del referendum, di cui hanno parlato, con accenti diversi, Guido Crainz e Roberto Esposito, riflette lo smarrimento per la perdita di ancoraggi collettivi, rappresentati un tempo dai partiti. Il loro sgretolamento identitario ed organizzativo — o la loro reinvenzione in forme ancora indefinite come nel caso dei grillini — lascia un vuoto nella società. Privi di un riferimento consolidato i cittadini fluttuano in un ambiente politico liquido e sono per questo più sensibili di un tempo a richiami “essenziali”, anche brutali nella loro schematicità: pensiamo allo slogan leghista “padroni in casa nostra”, a quanto di primordiale — ma di efficace — esso faccia riferimento. Pura, devastante demagogia.
La radicalità del confronto sul referendum, con tutto il disagio che Esposito segnalava, viene dal deterioramento di attori collettivi capaci di metabolizzare e delimitare i conflitti. L’onda anti-partitica viene da lontano nel nostro Paese e continua a montare. Certo, i partiti hanno mille difetti, e sono ai livelli minimi nella considerazione dei cittadini, in Italia come altrove. Ma sono l’unica stanza di compensazione possibile per gestire le diverse posizioni. Senza partiti radicati nella società, impegnati — ancora e di nuovo — a trasmettere le esigenze e le domande dei cittadini, si apre un varco all’irruzione dei demagoghi. Donald Trump non sarebbe mai arrivato alla nomination se il partito repubblicano non fosse stato squassato dal Tea party. L’antidoto ad un imbarbarimento della politica sta in partiti forti ed aperti alla società. Purtroppo è un auspicio più che una realtà.

SLa Repubblica, 6 ottobre 2016
Quando i giovani medici mi dicono: «Dottore, voglio lavorare in Africa», rispondo che «non occorre andarci, perché l’Africa è qui». Piove sulle terre sterminate del Tavoliere.
Enzo Limosano, chirurgo vascolare in pensione, ci guida per una strada infame tra uliveti e campi di carciofi sopra una terra grassa e lustra come groppa di bufala. Destinazione, il “ghetto” chiamato Ghana, uno dei tanti bacini di manodopera sottocosto del baricentro agroalimentare d’Italia. È la provincia di Foggia, oltre un milione di tonnellate l’anno di soli pomodori. Il camper è l’unico ambulatorio possibile in questo pantano. A bordo, una piccola task force sanitaria (chirurgo toracico, dentista e infettivologo con alcuni aiutanti) targata Cuamm, una Ong di solida reputazione che da sessant’anni opera fra Etiopia e Mozambico. È gente che non si tira indietro davanti a epidemie come Ebola o a guerre civili, ma che qui, mi accorgo, esita un attimo, come ai confini dell’indicibile. «Vuole la verità? L’Africa è meglio. Si sorride, lavori rilassato. Qui invece la tensione è ovunque».
Si va a zig zag tra le pozzanghere sotto un cielo piatto come un ferro da stiro. Qua e là, casupole semi-abbandonate della riforma agraria fascista rattoppate da teli. Ripari miseri, eppure lussuosi rispetto alle baracche dell’Inferno vero, il famigerato Gran Ghetto di Rignano, 40 chilometri a Nordest. È un agglomerato di quattromila schiavi ben visibile dagli aerei di linea in atterraggio su Bari ma stranamente invisibile ai terrestri del Foggiano. Non lo vedono nemmeno le folle di fedeli, vicinissime, che a San Giovanni Rotondo innalzano canti per Padre Pio. Nemmeno lui, qui, fa miracoli per gli ultimi della Terra.
Da Cerignola, il Ghetto Ghana dista sette chilometri, ma bastano a separare le Ombre dal mondo dei vivi. Le facce bianche sono scomparse. Passano solo medici e caporali. E cani. Quelli abbandonati, attirati dai reietti come loro. Dopo, non è più Italia. Un barbiere improvvisato insapona un cliente sotto una tettoia, tra galline, questuanti, bottiglie di birra e trattori arrugginiti. Poco lontano, qualche tenda a pagoda, coperta di nylon per via dell’acquazzone. È giorno di pausa, e si va a salutare Alexander, ghanese brizzolato, piccolo boss di questo spazio di case sparse, in una baracca trasformata in bar. È lui che detta legge, e i salamelecchi diventano necessari in un mondo di gerarchie spietate. Zanzare microscopiche trapanano l’aria in un odore dolciastro inconfondibile. Lo stesso della Bosnia ai tempi dell’ultimo conflitto. Polvere, sudore, marciume e benzina. L’olfatto non distingue tra guerra e miseria.
Michele Alberga, 68 anni, il dentista, porta alla cintura un diffusore sottocutaneo di insulina ma, nonostante l’età e il diabete, spende il tempo libero a curare migranti con animo lieto, senza ipocrisie pietistiche o assistenzialismi. Gli chiedo se non gli venga mai il dubbio, con la sua dedizione, di essere funzionale a un sistema di sfruttamento. Risposta netta: «Loro ci aspettano». È la stessa che mi veniva data in Uganda e in Sudan, negli ospedali del Cuamm. «Se non lo fai tu — ti dicono — chi altro? ». Non ci si può tirare indietro, se ci si vuol guardare allo specchio a giornata finita.
E loro ci aspettano davvero, in fondo allo stradone. Tanti, anche se il Ghetto è mezzo vuoto, perché le avanguardie sono già partite per gli aranceti della Calabria, a farsi sfruttare in modo ancora più bestiale dalla ‘ndrangheta. Ogni settore ha le sue patologie. Dietro ai pomodori sciatiche e lombalgie, dietro all’uva emicranie e dolori al collo. Gli agrumi si pagano con spalle indolenzite, le coltivazioni in serra con disidratazioni gravi, i carciofi con infiammazioni al gomito simili a quelle del tennista. Il tutto senza contare gli incidenti gravi e le malattie sommerse. Quelle della miseria: Aids, tubercolosi, meningite, sifilide o epatite. Solo i più forti ce la fanno a tornare a casa.
Ha smesso di piovere. Attorno al camper si affollano i reduci della campagna — appena finita — del pomodoro, tirate di dieci ore a riempir cassoni per le aziende di trasformazione del Salernitano. Aspettano il medico anche per quindici giorni, perché i pochi medici e infermieri volontari di Puglia non ce la fanno a coprire più di due viaggi al mese. Fino al dicembre dell’anno scorso funzionava un servizio di Emergency, solidamente finanziato e poi burrascosamente interrotto dalla Regione per una serie di gravi incomprensioni. Ora bisogna ripartire da zero, e la giunta ha allo studio un piano triennale d’intervento per il quale si sono messi a disposizione, oltre al Cuamm, i missionari comboniani e i Medici senza frontiere.
Sembra una retrovia della Grande Guerra. Mettere in fila i pazienti, distribuire i numeri, evitare liti fra ghanesi e altri africani. Marcella Schiavone, 28 anni, chirurga col Mozambico alle spalle, riceve nel camper. Il divano per il paziente è minimo. Le domande semplici, in italiano o inglese elementare. Come ti chiami. Quale problema. Quando è cominciato. Dimmi come stai. Una donna sola davanti a quarantaquattro maschi in meno di tre ore, e non è mai visita sommaria.
Ognuno è tastato, auscultato con attenzione. Passa Ibra, disidratato con dolori allo stomaco. Alì, con una cisti sul naso da rimuovere. Richmond, con un’ernia inguinale. Franco, con una ferita al dito medio, che stringe i denti mentre gli fanno uscire pus come dentifricio dal tubetto. Daniel ha un piede mangiato dal diabete. Gli vedo l’osso nella ferita. Non lavora più, ma chiede l’elemosina, e quella ferita da ostentare è il suo unico capitale. Dorme in un’auto abbandonata, una cuccia immonda, e non pensa al dopodomani.
Ogni volta che apriamo un barattolo di “pummarola”, sarebbe cosa buona pensare che in quel barattolo c’è la disidratazione di Ibra, l’ernia di Richmond, l’avitaminosi di Ahmed, lo sterno mezzo sfondato di George. Ci sono chilometri di spine dorsali lesionate, il fango, la pioggia, e il sole implacabile del Sud. E le mosche, i veleni, le zanzare, i cani, i materassi sfondati, le prostitute a seguito di un esercito di uomini stremati. Il naufragio dei barconi, i centri di raccolta e quelli che ci campano sopra, i carrozzoni della finta assistenza, e il nostro razzismo che cresce. I caporali, i trasportatori della Camorra, un sistema produttivo dove pochi campano sulle spalle di molti, una grande distribuzione che strangola il contadino. Per un barattolo di pomodoro.
«Ho tenuto la mia bambina reclusa per mesi nella baracca perché non vedesse l’orrore che c’era fuori», racconta tra le lacrime un reduce del ghetto di Rignano. C’è anche chi si porta la moglie e i figli all’inferno. E c’è chi tace, non svela i suoi aguzzini nemmeno se ha il corpo coperto di ferite da taglio. E ci sono — raccontano i medici — storie come quella di una giovane africana senza nome, drogata e violentata dal branco fino ai limiti della medicina d’urgenza, capace a malapena di balbettare monosillabi. Da dove vieni? Non so. Come sei arrivata qui?Non ricordo. Come ti chiami? Non ne ho idea. Il capolinea della disumanizzazione.
L’Italia può essere peggio dell’Africa.
Tanti tornerebbero a casa. Ma non hanno i soldi per farlo. E se lo facessero, non oserebbero ammettere la sconfitta. Alla Regione sembrano decisi a dire basta allo scandalo. Stefano Fumarulo, braccio operativo del governatore per la sanità e le migrazioni, annuncia uno smantellamento imminente in nome della dignità dei lavoratori. Con quali alternative di alloggio? Ci sono Comuni spopolati che chiedono abitanti e sono disposti ad accogliere stranieri, aziende che cercano uomini capaci di mestieri disertati dagli italiani. E intanto si sperimentano forme associative per strappare i migranti dalla tirannia dei caporali. Ma resta sempre il dubbio che, una volta fuori dai ghetti, questi stranieri escano anche dal sistema-lavoro e si vedano costretti a rientrarvi con mezzi ancora più precari.
«Senza una riforma della catena produttiva che imponga la tracciabilità, e senza una certificazione etica del marchio, come avviene per altri beni, questa bestialità non avrà fine», dice con ferrea convinzione Yvan Signet, sindacalista partito dalle Malebolge di Rignano e uomo-simbolo della lotta per l’affrancamento dei lavoratori stranieri. Uno che, non a caso, vive sotto minaccia da parte dell’intero caporalato pugliese. «La cosa più grave è che non si prende atto che nei ghetti si sperimenta un tipo di sfruttamento perfettamente integrato nel sistema-Paese, uno sfruttamento che sta già ricadendo sugli italiani. Pensi alla donna morta di fatica quest’estate nei campi fra Taranto e Brindisi. Tutti sanno tutto, si fanno articoli e talk show, ma per questa gente non cambia nulla».
Nelle quattro ore che siamo al Ghetto Ghana, da Cerignola non arriva anima viva. Come per un ordine silenzioso, gli “indigeni” stanno alla larga. Nessuno aggiusta la strada, e nemmeno l’Asl passa la frontiera tra i mondi. Non si deve sapere, non si deve vedere. Anzi, non si vuole vedere, perché altrimenti l’imbroglio sarebbe chiaro e la verità intollerabile. Quando torniamo a Bari — tre quarti d’ora di macchina dal ghetto di Cerignola — lo struscio in corso Vittorio è già iniziato. Fiumane di giovani ignari, incollati a telefonini accesi come lucciole nel buio. Sono lontani mille miglia dai ghetti. E non sanno di essere destinati, forse anch’essi, ad appartenere a una manovalanza senza nome, in aziende senza patria che li sfrutteranno ottanta ore la settimana.
Francesco Di Gennaro, 28 anni, brillante specialista in malattie infettive con una forte esperienza in Mozambico per conto del Cuamm: «Questa potrebbe essere una regione simbolo del domani, un luogo dove sperimentare il futuro... Siamo o no la terra degli sbarchi? In Puglia potremmo capire come sarà il mondo fra trent’anni... e invece la gente si è chiusa nel suo tornaconto. Persino i giovani hanno smesso di chiedersi se questa è una società giusta o sbagliata».