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Dante Carraro
Migranti, da dove e perché?
3 Ottobre 2016
2015-EsodoXXI
In occasione della "giornata dell'accoglienza" riprendiamo l'articolo di don Dante Carraro, ulteriore testimonianza del fatto che il fenomeno dei migranti, così come lo viviamo dall'Europa, è solo la punta do un iceberg, che dobbiamo vedere nella sua interezza per agire in modo umanamente corretto. Il Bo online, 26 settembre 2016

IIl Bo online, 26 settembre 2016

In questi giorni mi trovo in Etiopia. Sono qui per incontrare i nostri medici impegnati in questo paese, verificare il lavoro che stiamo compiendo, incontrare la controparte locale. Arrivare ad Addis Abeba, anche a distanza di pochi mesi, mi suscita sempre grande curiosità e tante domande. Questa metropoli è un cantiere aperto, un fermento continuo, un via vai compulsivo e caotico. È simbolo di un continente in cammino: l’Africa. L’Africa è in movimento, da sempre, da quando la conosciamo. Appena ti sposti un po’ dalla città, ecco comparire la terra rossa, le capanne, la gente vestita di stracci, i bambini, tantissimi, che corrono e sbucano da qualsiasi parte guardi, le donne che compiono anche chilometri a piedi, con le doglie, per andare a partorire in un centro di salute o in un ospedale. Vedi tanta povertà e miseria.

Un continente in cammino, ma verso dove? Talvolta mi trovo a pensare cosa farei al loro posto. Cosa proverei, come riuscirei a vivere in una capanna, senza acqua corrente e luce, con un solo pasto al giorno, senza la possibilità di accedere alle cure quando sono malato o magari senza poter mangiare, a causa di una lunga siccità. “Se tutti i bianchi capissero che a meno di un millimetro da questa pelle nera si trova lo stesso sangue rosso, gli stessi nostri tessuti, le stesse terminazioni nervose che portano al nostro cervello le pene o il ristoro”. Questo scriveva nel lontano 1957, Lido Rossi, un medico Cuamm morto a causa di una nefrite in Swaziland. Sotto la pelle, scorre lo stesso sangue, le medesime sensazioni, gli stessi sogni e desideri.

Migranti da dove e perché? Le migrazioni ci sono sempre state. Quello che spesso non vediamo è che la maggior parte di questi flussi rimane all’interno del continente africano. Le immagini degli sbarchi sulle coste del sud Italia sono ingannevoli. Meno di un terzo della migrazione in Africa occidentale, per esempio, si sta muovendo verso l’Europa. I movimenti più consistenti si registrano all’interno della sub-regione e dell’Africa centrale. Nel 2015, ben 65,3 milioni di persone sono state costrette ad abbandonare la propria casa per fuggire a guerre, persecuzioni, violenze, secondo i dati di Unhcr. I flussi maggiori sono dai paesi in conflitto e da quelli bloccati da condizioni climatiche particolarmente avverse. Siria, Afghanistan, Somalia, Sudan, Congo, Iraq sono in primo piano nei flussi migratori.

Per fare alcuni esempi, nel 2015, il Sud Sudan ha visto oltre 600.000 persone fuggire dal paese, cioè il 5% della popolazione.

Le rotte sono incerte, oltre che insicure, molti si sono fermati in Etiopia, per esempio dove in un anno è arrivato oltre 1 milione di migranti provenienti principalmente da Somalia, Sud Sudan, Eritrea.

In Italia, dall’inizio del 2016, sono arrivate 124.475 persone, attraversando il Mediterraneo, più o meno la stessa quantità di persone che dal Sud Sudan è emigrato verso l’Uganda nei soli mesi di luglio e agosto di quest’anno. I paesi che ospitano più rifugiati nel mondo sono Pakistan (1.616.500), Iran (857.400), Libano, Giordania, Kenya, Etiopia, Ciad.

Vediamo ogni giorno che molti rifugiati arrivano in Europa, ma la maggior parte di chi emigra rimane in paesi vicini, paesi già di per sé fragili, che si trovano a dover affrontare la criticità dell’accoglienza.

A lavorare nelle periferie del mondo non ci si abitua mai del tutto, però si impara a “mettersi al servizio”, si apprendono metodi e si affinano strumenti che possano essere efficaci e sostenibili, pienamente consapevoli della fragilità del sistema in cui si opera. Una fragilità dovuta a mille cause: l’ambiente, il clima, le guerre, l’insicurezza alimentare, le epidemie, il terrorismo. Ciò che i conflitti lasciano alle popolazioni sono miseria, una rete sociale e di lavoro quasi inesistente, l’indebolimento delle forme di aiuto. Ed è così che un paese già fragile sembra andare in pezzi. La riposta della popolazione a tutto ciò è molto spesso la fuga. Si fugge dalla guerra, dalla siccità, dai disastri ambientali, dalla fame. Penso a paesi come la Sierra Leone alle prese con la difficile ricostruzione di una società dopo lo tsunami dell’Ebola; o al Sud Sudan dove la guerra civile impera, dove violenza e morte sono all’ordine del giorno.

Da parte nostra, la risposta è lavorare con i governi locali e in sinergia con le istituzioni internazionali, ma anche lavorare dal basso e portare cura. Di fronte all’insicurezza alimentare crescente, per esempio, abbiamo attivato servizi che rispondano concretamente ai bisogni della popolazione. In Etiopia, nell’ospedale di Wolisso, è funzionante un’unità di terapia nutrizionale che cura ogni anno 3.000 bambini. Anche in Sud Sudan è attivo un servizio di screening nutrizionale, affiancato da un’attività di formazione per le mamme: sono 2.000 i bambini che vengono monitorati ogni mese. Un altro esempio? John, un autista sud sudanese impegnato con il Cuamm a Yirol. Nel 2007, appena conosciuto, gli ho chiesto “What is your dream, John?” E lui: “Andare in Europa e dare un futuro ai miei figli”. Oggi, se gli chiedi, quale sia il suo sogno, fiero, ti risponde: “Rimanere nel mio paese e fare quanto mi è possibile per migliorare la nostra situazione. Ora abbiamo un ospedale, c’è una scuola, ho un lavoro. C’è una speranza per i miei figli”.

Se non possiamo incidere su guerre, disastri climatici e ambientali, possiamo agire sui sistemi sanitari dei paesi in cui operiamo e sulla formazione per migliorare la qualità della vita di chi incontriamo nel nostro cammino, possiamo arginare la miseria più estrema e contenere il numero di persone costrette a fuggire alla ricerca di dignità.

Lo abbiamo visto in Karamoja, una regione molto povera dell’Uganda: grazie anche al miglioramento delle condizioni sanitarie, la sua popolazione di circa 1,5 milioni abitanti non emigra verso altri paesi. Ben venga quindi l’idea di una sorta di “Piano Marshall” per l’Africa perché solo investendo nello sviluppo dell’Africa e credendo nelle potenzialità di questa gente, si può migliorare la loro condizione e, di conseguenza, anche ridurre il flusso delle migrazioni.

Il Bo è il giornale online dell'Università degli studi di Padova

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