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«Non possiamo restare a guardare, chiudere i porti significa soltanto una cosa: lasciare morire ogni giorno persone nel Mediterraneo. “Proponiamo un piccolo segno visibile, pubblico: un digiuno a staffetta con un presidio davanti al parlamento italiano per dire che non possiamo accettare questa politica delle porte chiuse…”: un appello di Alex Zanotelli, Alessandro Santoro, suor Rita Giaretta e altri, rivolto non solo ai credenti, mostra un pezzo di società che si ostina a ribellarsi»

Appello e presidio contro i porti chiusi

«Avete mai pianto, quando avete visto affondare un barcone di migranti?» così papa Francesco ci interpellava durante la Messa da lui celebrata a Lampedusa per le33.000 vittime accertate (secondo il giornale inglese The Guardian che ne ha pubblicato i nomi) perite nel Mediterraneo per le politiche restrittive della “Fortezza Europa”.

È il naufragio dei migranti, dei poveri, dei disperati, ma è anche il naufragio dell’Europa, e dei suoi ideali di essere la «patria dei diritti umani». La Carta dell’Unione Europa afferma: «La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata».

È un crimine contro l’umanità, un’umanità impoverita e disperata, perpetrato dall’opulenta Europa che rifiuta chi bussa alla sua porta.

Un rifiuto che è diventato ancora più brutale con lo scorso vertice della UE dove i capi di governo hanno deciso una politica di non accoglienza. Anche l’Italia, decide ora di non accogliere, di chiudere i porti alle navi delle Ong e affida invece tale compito alla Guardia Costiera libica, che se salverà i migranti, li riporterà nell’inferno che è la Libia. Perfino la Commissione Europea ha detto: «Non riportate i profughi in Libia, lì ci sono condizioni inumane».

Per questo stiamo di nuovo assistendo a continui naufragi. L’Onu parla di oltre mille morti in questi mesi.

Papa Francesco ha fatto sue le parole dell’arcivescovo Hyeronymous di Grecia pronunciate nel campo profughi di Lesbos: «Chi vede gli occhi dei bambini che incontriamo nei campi profughi, è in grado di riconoscere immediatamente la ‘bancarotta dell’umanità».

È il sangue degli impoveriti, degli ultimi che interpella tutti noi, in particolare noi cristiani che saremo giudicati su: «Ero straniero… e non mi avete accolto”. Noi chiediamo a tutti i credenti, di reagire, di gridare il proprio dissenso davanti a queste politiche disumane.

Noi proponiamo un piccolo segno visibile, pubblico: un digiuno a staffetta con un presidio davanti al Parlamento italiano per dire che non possiamo accettare questa politica delle porte chiuse che provoca la morte nel deserto e nel Mediterraneo di migliaia di migranti.

«Il digiuno che voglio – dice il profeta Isaia in nome di Dio – non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo senza trascurare i tuoi parenti?».

Alex Zanotelli a nome dei Missionari Comboniani.
Raffaele Nogaro, vescovo Emerito di Caserta
Alessandro Santoro a nome della Comunità delle Piagge di Firenze.
Rita Giaretta, suora della Casa Ruth di Caserta
Giorgio Ghezzi, Religioso Sacramentino.
«La Comunità del Sacro Convento aderisce e partecipa nella preghiera» è quanto riferisce padre Enzo Fortunato, direttore della Sala Stampa del Sacro Convento di Assisi.

Martedì 10 luglio 2018 alle ore 12 ci ritroviamo a Roma, in piazza San Pietro, per una giornata di digiuno. Da lì proseguiremo a Montecitorio per testimoniare con il digiuno contro le politiche migratorie di questo governo. E continueremo a digiunare per altri dieci giorni con un presidio davanti a Montecitorio dalle ore 8 alle 14.

Per adesioni al digiuno e partecipazione scrivere a questa email: digiunodigiustizia@hotmail.com

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

Re:common

Pubblicato anche in italiano (con la collaborazione e il rilancio di Re:Common e Rete Italiana per il Disarmo) il Report elaborato da Corruption Watch sui possibili casi di corruzioni che coinvolgono il gigante italiano degli armamenti.

Una serie di scandali e possibili episodi di corruzione in almeno tre Paesi, che riguardavano contratti del valore di centinaia di milioni di euro e da cui sono scaturiti controversi versamenti per decine di milioni di euro ad agenti e intermediari collegati a figure militari e politiche. Uno spaccato di notizie e documenti sulla “zona grigia” che caratterizza in molti casi i principali appalti militari internazionali, tanto che il comparto produttivo militare-industriale risulta in testa a tutte le classifiche mondiali sulla corruzione. Tutti legati ad uno dei maggiori produttori armieri del mondo, il principale in Italia: Leonardo S.p.A (fino al gennaio 2016 denominata Finmeccanica). E’ questo il contenuto di “Anglo Italian job”, il Rapporto elaborato da Corruption Watch e da oggi disponibile anche in italiano grazie alla collaborazione con Re:Common e Rete Italiana per il Disarmo.

“Scorrendo gli elementi e documenti grazie ai quali siamo riusciti a ricostruire diversi casi problematici in cui è stata coinvolta Leonardo – commentano gli autori del Rapporto – risulta particolarmente inquietante il fatto che gli episodi di corruzione abbiano coinvolto i massimi dirigenti dell’azienda”. Società a partecipazione statale (con il Governo che detiene per legge una quota di controllo e nomina i vertici) frutto della fusione ed agglomerazione dei principali segmenti produttivi italiani del settore, Leonardo negli ultimi dieci anni è stata coinvolta in numerosi scandali per corruzione in tutto il mondo. Il Rapporto “Anglo Italian job” esamina i più eclatanti ed emblematici di questi scandali, rivelando in particolare le dinamiche interne di tre casi di possibile corruzione in cui l’azienda, le sue controllate o i suoi funzionari sono stati implicati in azioni illecite con il coinvolgimento dei più alti vertici.

Si parte dalla vendita di elicotteri Wildcat alle forze armate della Corea del Sud. AgustaWestland (controllata di Leonardo ora inserita integralmente nella divisione Elicotteri) avrebbe versato somme di denaro a favore di persone collegate all’establishment militare sudcoreano per garantire l’accordo. Fra i beneficiari di tali pagamenti figurerebbe un lobbista sotto la diretta supervisione di Geoff Hoon, già Segretario alla Difesa durante il mandato di Tony Blair e, dal 2011 al 2016, International Business Manager di AgustaWestland con sede nel Regno Unito. Il secondo caso riguarda invece la discussa vendita di Elicotteri VVIP all’India, nel cui contratto sarebbe compreso anche il pagamento di oltre 60 milioni di euro ad agenti e intermediari. AgustaWestland avrebbe inoltre effettuato dei versamenti ad uno di questi agenti per ottenere altri appalti in India. Le autorità indiane hanno dichiarato che, riguardo a tali lavori aggiuntivi, non è stata svolta alcuna operazione legittima, cosa che l’agente nega. Infine, la vendita di varie attrezzature (tra cui quelle per sorveglianza) al Governo di Panama. Proprio la diffusione sulla stampa di accuse di tangenti all’ex presidente di Panama, gestite attraverso un imprenditore italiano strettamente legato all’entourage di Silvio Berlusconi, avrebbero poi fatto svanire il contratto. Panama ha revocato l’affare sulla base di un accordo negoziale con Leonardo che ha comportato l’annullamento dei procedimenti giudiziari nel Paese.

Lo scenario che deriva da questi casi fa sorgere il dubbio che la società possa essere considerata sistemicamente corrotta con forti sospetti che possa essere nuovamente coinvolta in casi di corruzione anche in futuro. A riguardo, la risposta sembra essere positiva: stando alle ultime informazioni tratte da un’analisi sulla società recentemente pubblicata dal Comitato Etico norvegese si direbbe che Leonardo S.p.A. possa dare ancora motivi di dubitare sul rischio di corruzione.

Dopo l’analisi e la ricostruzione dei casi specifici il Rapporto si conclude con diverse raccomandazioni di intervento atte a ridurre gli impatti negativi e problematici di possibili percorsi corruttivi. In particolare viene suggerito:

Alle forze dell’ordine italiane di intraprendere senza ulteriori ritardi un’inchiesta sugli accordi di consulenza e rappresentanza passati e presenti di Leonardo S.p.A. in tutto il mondo per stabilire se la società sia stata coinvolta in episodi di corruzione in passato o potrebbe essere a rischio di ripetere tale condotta nel presente.
Al governo italiano, in quanto principale azionista di Leonardo S.p.A., di intraprendere una revisione urgente delle pratiche commerciali di Leonardo S.p.A., sia passate che presenti, e intervenire per garantire che la società metta in atto riforme immediate e sostanziali volte a limitare la propria esposizione al rischio di corruzione.
A Leonardo S.p.A. di impegnarsi a rivedere e riformare i propri meccanismi di compliance, adottando le misure necessarie per limitare il rischio di corruzione, compreso lo sviluppo di un piano concreto atto a ridurre il numero di agenti utilizzati dall’azienda in tutto il mondo. In tal senso sarebbe opportuno pubblicare un elenco completo degli agenti e degli intermediari attualmente e precedentemente utilizzati dalla società per ottenere commesse di vendita di apparecchiature e sistemi di difesa all’estero in nome della piena trasparenza e responsabilità.
Corruption Watch UK si è rivolta a Leonardo chiedendo all’azienda di commentare il contenuto e le conclusioni di questo rapporto fra aprile e maggio del 2018. La società ha risposto evidenziando la forza del suo programma di conformità anticorruzione e ha sottolineato che non è stata condannata in nessuna giurisdizione in relazione ai procedimenti trattati; inoltre, ha esposto la sua versione dei fatti per ciascun caso.
La risposta completa dell’azienda è disponibile su www.cw-uk.org/angloitalianjob.

Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile.

Nigrizia

Il libro di Francisco Bethencourt "Razzismi. Dalle crociate al XX secolo Crociate" narra agli inconsapevoli della società contemporanea la vicenda grazie alla quale noi e i nostri simili dalla pelle bianca siamo diventati padroni del mondo, e aiuta a ricordare (quelli di noi che lo avessero dimenticato) che i campi di sterminio e le altre efferatezza del nazifascismo non siano stati una momentanea eclissi nella gran luce della civiltà eurocentrica, ma uno dei suoi molti momenti barbarici. Lavoriamo perchè non ritornino, ricordando con Bertold Brecht che, finché il capitalismo vivrà, il ventre che generò quei crimini è sempre fertile. (e.s.)



Nigrizia, 6 giugno 6 giugno 2018
In pellegrinaggio alla casa degli schiavi
di Gad Lerner
Quando mi sono imbarcato al porto di Dakar, capitale delSenegal, per raggiungere subito lì di fronte l’isola di Gorée, avvertivo dentro di me la sensazionedi compiere un pellegrinaggio. Gorée non è un campo di sterminio comeAuschwitz, oggi con linguaggio crudo potremmo definirla semmai un supermercatodi carne umana vivente che qui veniva selezionata, soppesata, palpeggiata,ingrassata, umiliata, marchiata, deprivata del suo nome, per esportarla a bassoprezzo (meno del caucciù) nelle piantagioni di cotone e di canna da zuccherodell’altra sponda dell’Atlantico.
Un luogo di memoria, dunque, di uno deipiù grandi crimini di cui si è resa colpevole la nascente civiltà occidentale.Senza dimenticare che agli oltre tre secoli di tratta transatlantica va sommataanche la tratta transahariana che i mercanti arabi hanno proseguito fino intempi più recenti.
La Casa degli Schiavi di Gorée è solo unodei tanti luoghi di partenza allestiti sulla costa occidentale dell’Africa daitrafficanti portoghesi, spagnoli, inglesi, francesi. Colui che noi celebriamocome un grande navigatore fiorentino, Amerigo Vespucci, fu tra gli iniziatoridi questo ignobile commercio. E ancora oggi che coltiviamo con la dovutaattenzione storica e morale la memoria della Shoah, fatichiamo invece ariconoscere nelle giuste proporzioni la ferita arrecata ai popoli africani contanto di giustificazioni dottrinarie fornite almeno fino alla metà deldiciannovesimo secolo dalle nostre autorità religiose.
Nell’ottimo libro di Francisco Bethencourtintitolato Razzismi. Dallecrociate al XX secolo (Il Mulino) ho trovato queste cifre:12,5 milioni di neri trascinati in catene nelle Americhe fra il XV e il XVIIIsecolo. Di questi, arrivarono vivi solo 10,7 milioni di deportati, con un tassodi mortalità durante il viaggio pari al 15%. Circa 5 milioni di neri furonosbarcati in Brasile. L’America britannica ne importò 2,7 milioni. Le coloniefrancesi 1,1 milioni. L’America spagnola meno di 900 mila, seguita dagliinsediamenti coloniali olandesi e danesi. Più di 4 milioni di schiavi vennerodestinati alle isole caraibiche. Da notare che fino al 1800 gli europeiemigrati in America furono circa 3,5 milioni. Dunque il rapporto fu di 4schiavi per ogni uomo libero.
Ho visitato le celle in cui venivanoseparati gli uomini dalle donne. Quella destinata ai bambini e quella riservataalle giovani fanciulle che, in quanto vergini, avevano un valore più alto. Nonmancano le celle di rigore destinate ai prigionieri indisciplinati. Quandoveniva il loro turno, tutti passavano dalla Porta del non ritorno attraversocui erano stipati fino all’inverosimile sulle navi negriere. Chi si ribellava,così come chi si ammalava, veniva gettato da lì direttamente in un oceanoinfestato di squali.
Quando ci sono arrivato, insieme aicolleghi della troupe di Rai3 con la quale stiamo realizzando latrasmissione La Difesa della Razza,la Casa degli Schiavi era affollata di bambini delle scuole senegalesi. Lo soche quel luogo ci sembra lontano, ma sarebbe giusto che lo visitassero anchetanti giovani italiani. Se non altro perché lo schiavismo è un fenomeno chetende a riprodursi anche in casa nostra.
Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

Ciavula, Sacrosanto appello ai responsabili dell'incredibile deficit d'informazioni veritiere sui fatti che contano per il destino dell'umanità, e per il continente che ha pagato e paga il prezzo più alto per il benessere dei paesi ricchi. Con commento (e.s)

«Ma i disperati della storia nessuno li fermerà» queste parole sono il cuore dell’appello di Alex Zanotelli. Sono parole pronunciate da chi sa che la paura è il sentimento che domina su tutti gli animi degli uomini di oggi. Se non si fa ricorso alla paura nessuno ascolterà parole diverse del tranquilizzante senso comune provocato da un’azione di rimodellamento dei cervelli e dei cuori compiuto con un lavoro di decenni da “persuasori occulti”. Zanotelli ci ricorda che la sofferenza che patisce gran parte dell’umanità è destinata a crescere intensamente se non ne cessano le cause, si esprimerà nelle forme nelle quali si esprime una sofferenza inaccettabile dell’uomo e quindi travolgerà quanti non hanno avuto orecchie per ascoltare né occhi per vedere né mani per operare per ristabilire l’equilibrio tra e i diritti e doveri.

L’appello, di Zanotelli ricorda puntualmente tutti i delitti compiuti dalle nazioni dei Nord del mondo nelle varie regioni dell’Africa (e non solo): il continente più saccheggiato, sfruttato incendiato dal mondo cosiddetto "sviluppato". Da quel mondo che non si rende conto che il suo benessere è stato pagato, e continua a essere pagato, da quel colonialismo che ha saccheggiato, incendiato, ridotto alla miseria e alla fame popoli che oggi tentano di fuggirne, e vengono rigettati nei loro inferni da quelli stessi che li hanno creato.

L’appello, anzi l’anatema di Alex Zanotelli è un testo che andrebbe non solo pubblicizzato, reso dai giornalisti a cui è più rivolto l’autore, ma dovrebbe essere letto nelle scuole a partire dalle elementari.
Appello di padre Alex Zanotelli
ai giornalisti italiani:
“Rompiamo il silenzio sull’Africa”

Condividete e fate in modo che gli italiani sappiano
cosa sta veramente vivendo gran parte della popolazione africana.

Non vi chiedo atti eroici, ma solo di tentare di far passare ogni giorno qualche notizia per aiutare il popolo italiano a capire i drammi che tanti popoli africani stanno vivendo.

Scusatemi se mi rivolgo a voi in questa torrida estate, ma è la crescente sofferenza dei più poveri ed emarginati che mi spinge a farlo. Per questo, come missionario e giornalista, uso la penna per far sentire il loro grido, un grido che trova sempre meno spazio nei mass-media italiani, come in quelli di tutto il modo del resto. Trovo infatti la maggior parte dei nostri media, sia cartacei che televisivi, così provinciali, così superficiali, così ben integrati nel mercato globale. So che i mass-media , purtroppo, sono nelle mani dei potenti gruppi economico-finanziari, per cui ognuno di voi ha ben poche possibilità di scrivere quello che veramente sta accadendo in Africa.

Mi appello a voi giornalisti/e perché abbiate il coraggio di rompere l’omertà del silenzio mediatico che grava soprattutto sull’Africa.

È inaccettabile per me il silenzio sulla drammatica situazione nel Sud Sudan (il più giovane stato dell’Africa) ingarbugliato in una paurosa guerra civile che ha già causato almeno trecentomila morti e milioni di persone in fuga. È inaccettabile il silenzio sul Sudan, retto da un regime dittatoriale in guerra contro il popolo sui monti del Kordofan, i Nuba, il popolo martire dell’Africa e contro le etnie del Darfur.

È inaccettabile il silenzio sulla Somalia in guerra civile da oltre trent’anni con milioni di rifugiati interni ed esterni.
È inaccettabile il silenzio sull’Eritrea, retta da uno dei regimi più oppressivi al mondo, con centinaia di migliaia di giovani in fuga verso l’Europa.

È inaccettabile il silenzio sul Centrafrica che continua ad essere dilaniato da una guerra civile che non sembra finire mai.
È inaccettabile il silenzio sulla grave situazione della zona saheliana dal Ciad al Mali dove i potenti gruppi jihadisti potrebbero costituirsi in un nuovo Califfato dell’Africa nera.
È inaccettabile il silenzio sulla situazione caotica in Libia dov’è in atto uno scontro di tutti contro tutti, causato da quella nostra maledetta guerra contro Gheddafi.
È inaccettabile il silenzio su quanto avviene nel cuore dell’Africa , soprattutto in Congo, da dove arrivano i nostri minerali più preziosi.
È inaccettabile il silenzio su trenta milioni di persone a rischio fame in Etiopia, Somalia , Sud Sudan, nord del Kenya e attorno al Lago Ciad, la peggior crisi alimentare degli ultimi 50 anni secondo l’ONU.
È inaccettabile il silenzio sui cambiamenti climatici in Africa che rischia a fine secolo di avere tre quarti del suo territorio non abitabile.
È inaccettabile il silenzio sulla vendita italiana di armi pesanti e leggere a questi paesi che non fanno che incrementare guerre sempre più feroci da cui sono costretti a fuggire milioni di profughi. (Lo scorso anno l’Italia ha esportato armi per un valore di 14 miliardi di euro!).

Non conoscendo tutto questo è chiaro che il popolo italiano non può capire perché così tanta gente stia fuggendo dalle loro terre rischiando la propria vita per arrivare da noi. Questo crea la paranoia dell’“invasione”, furbescamente alimentata anche da partiti xenofobi. Questo forza i governi europei a tentare di bloccare i migranti provenienti dal continente nero con l’Africa Compact, contratti fatti con i governi africani per bloccare i migranti.

Ma i disperati della storia nessuno li fermerà.

Questa non è una questione emergenziale, ma strutturale al sistema economico-finanziario. L’ONU si aspetta già entro il 2050 circa cinquanta milioni di profughi climatici solo dall’Africa. Ed ora i nostri politici gridano: «Aiutiamoli a casa loro», dopo che per secoli li abbiamo saccheggiati e continuiamo a farlo con una politica economica che va a beneficio delle nostre banche e delle nostre imprese, dall’ENI a Finmeccanica. E così ci troviamo con un Mare Nostrum che è diventato Cimiterium Nostrum dove sono naufragati decine di migliaia di profughi e con loro sta naufragando anche l’Europa come patria dei diritti.

Davanti a tutto questo non possiamo rimane in silenzio (i nostri nipoti non diranno forse quello che noi oggi diciamo dei nazisti?).

Per questo vi prego di rompere questo silenzio-stampa sull’Africa, forzando i vostri media a parlarne. Per realizzare questo, non sarebbe possibile una lettera firmata da migliaia di voi da inviare alla Commissione di Sorveglianza della RAI e alla grandi testate nazionali? E se fosse proprio la Federazione Nazionale Stampa Italiana (FNSI) a fare questo gesto? Non potrebbe essere questo un’Africa Compact giornalistico, molto più utile al Continente che non i vari Trattati firmati dai governi per bloccare i migranti?

Non possiamo rimanere in silenzio davanti a un’altra Shoah che si sta svolgendo sotto i nostri occhi.

Diamoci tutti/e da fare perché si rompa questo maledetto silenzio sull’Africa.

*Alex Zanotelli è missionario italiano della comunità dei Comboniani, profondo conoscitore dell'Africa e direttore della rivista Mosaico di Pace

Huffington postpriva di prospettive che non siano quelle delle più feroci tirannidi, che caratterizzano ormai una UE alla quale sempre più vergognarsi di appartenere (e.s.)

Alla fine Giuseppe Conte ha trovato d’accordo tutti. A spese dell’Italia. E, ovviamente, dei profughi. Il documento finale del vertice di Bruxelles è praticamente vuoto, ma mette in chiaro che le differenze in seno all’Unione europea non sono poi così profonde, anche se tra non molto la porteranno allo sfascio.

Destre e sinistre sono infatti unite dall’assunto che il nemico dell’Europa, quello da cui dobbiamo difenderci e contro cui occorre erigere barriere sempre più alte, sono i profughi: gli esseri più miseri e disgraziati della Terra. Ma le unisce anche il fatto che Salvini, sul sentiero già tracciato da Minniti - benché con toni decisamente meno educati - sta lavorando, e continuerà a lavorare, “per il bene” di tutti gli Stati membri. Grazie anche a lui, infatti, il regolamento di Dublino è stato blindato: avrebbe potuto, forse, essere cambiato a maggioranza; adesso ci vuole l’unanimità. Resterà com’è. Poi sono stati previsti dei “centri di controllo” (veri e propri campi di concentramento) che però nessuno vuole; se mai si faranno, sarà solo, come dice Macron, nei paesi di arrivo: Grecia, Italia e Spagna.

È anche passato, in termini indefiniti, il principio di riprendersi i profughi registrati nel paese di arrivo che sono riusciti a raggiungerne un altro: per l’Italia comporterebbe l’arrivo di altre 100mila persone, più della metà dei richiedenti asilo già in carico alle strutture di accoglienza nazionali. È stata confermata alla Libia un’esclusiva sui salvataggi nella sua fantomatica zona sar: di fatto, un vero e proprio respingimento verso un paese dove si praticano torture, stupri, estorsioni, schiavismo e assassini senza alcun controllo.
Una operazione che senza la regia di Salvini non potrebbe funzionare. “Salvataggi” che si concluderanno spesso con l’annegamento di centinaia di persone, come è successo mentre il vertice di Bruxelles era ancora in corso, senza che nessuno dei presenti sentisse il bisogno di dire una sola parola di cordoglio.

Certo, arriverà, forse, anche qualche soldo in più (500 milioni, sottratti ai fondi di cooperazione allo sviluppo) da spendere in opere di difesa: che vuol dire pagare le bande che controllano sia il traffico di esseri umani che il loro “salvataggio” (per riportarli da dove cercavano di scappare), come ben si evince dalle circostanze rilevate da Oscar Camps, dell’Ong Proactiva Open Arms, che ha segnalato la partenza di dieci gommoni carichi di circa mille profughi, tutti dallo stesso punto e alla stessa ora, contemporaneamente alla partenza delle vedette libiche che dovevano dimostrare la loro capacità di salvarli mentre tutte le navi delle Ong erano state bloccate con le motivazioni più varie; il tutto alla vigilia della visita di Salvini in Libia: una dimostrazione di efficienza costata almeno cento morti, ma forse molti di più. In cambio di quei 500 milioni Conte ha accettato di contribuire ai 6 miliardi da devolvere alla Turchia perchè continui a trattenere sul suo territorio i profughi siriani e irakeni che vorrebbero raggiungere l’Europa, lasciando a Erdogan la libertà di fare quello che vuole tanto ai “suoi” profughi che ai “suoi” sudditi, sia kurdi che turchi “dissidenti”, cioè democratici.

Così l’Unione europea gli ha messo in mano la possibilità di tenerla sotto un ricatto permanente. E ora si cerca di istituire lo steso meccanismo con la Libia, che però non è uno Stato; sia perché il governo di Al Serraj non controlla che una parte del paese, sia perché in realtà è lui a essere controllato dalle bande che gestiscono i flussi dei migranti: sia in uscita, nella veste di smuggler, che nel riportarli a terra, indossando le divise della guardia costiera. Così si consegnano anche a loro le chiavi degli equilibri europei: ma con una valvola di sicurezza. Se le bande libiche non staranno ai patti, o vorranno qualcosa di più, ci sarà una seconda linea di difesa della Fortezza Europa: e sarà l’Italia. Dove dovranno sbarcare i profughi sfuggiti alla - o imbarcati dalla - rete libica o all’annegamento, una volta raccolti da una nave commerciale o della istituenda Guardia costiera europea; perché, e su questo l’accordo è stato pieno, le navi delle Ong non dovranno più sbarcare, né rifornirsi, né navigare e, meno che mai salvare qualcuno nel Mediterraneo. E anche di questo si farà carico Salvini. Ma, come ha detto Macron, il porto di sbarco non potrà che essere italiano (e in effetti ha poco senso far navigare una nave dal canale di Sicilia fino a Marsiglia o a Valencia).

Poi, dopo la selezione negli hotspot già in essere, o nei centri di controllo che nessuno vuole e che per questo non si faranno, i “veri profughi” prenderanno la strada dei paesi che “volontariamente” se li spartiranno. Ma siccome, quando la spartizione era obbligatoria, non li ha presi quasi nessuno, da ora in poi i paesi disposti ad accoglierli saranno ancor meno e i più resteranno in Italia. E gli altri? I cosiddetti “migranti economici”? Quelli verranno rimpatriati tutti, come ha promesso, tuonando, Capitan Fracassa in campagna elettorale (in questo preceduto, per la verità, da Berlusconi), pronti entrambi a imbarcare per destinazioni ignote i 500mila “clandestini” presenti in Italia. Con i soldi dell’UE, che non li ha stanziati e non li stanzierà. E con gli accordi con i paesi di provenienza (se identificati), che non ne vogliono assolutamente sapere, se non per mettere in scena qualche volo dimostrativo. E allora?

Allora, dopo aver riempito qualche Cie, ai “migranti economici” verrà consegnato, come è stato fatto finora, un foglio di via con l’ingiunzione di abbandonare il paese entro 7 giorni. Ovviamente non se ne andranno: non saprebbero né dove né come. Entreranno ufficialmente nella categoria giuridica dei “clandestini” e si trascineranno da un campo di pomodori a uno di frutta (a due euro all’ora); da una baraccopoli all’altra; da un marciapiede all’altro, se donne; e da un sottopasso all’altro se saranno ancora una famiglia; con la certezza di incappare prima o dopo in un progrom o nella malavita.

È questo abbandono, accoppiato con un sistema di accoglienza truffaldino messo in capo ai Prefetti (nessuno dei quali è ancora finito in galera, nonostante le malversazioni gigantesche perpetrate senza alcun controllo da molti dei loro affidatari) ad aver screditato anche i tanti operatori onesti impegnati nell’accoglienza fino allo spasimo. Ma anche ad aver creato allarme sociale e rancore da entrambe le parti. Sono questi due meccanismi, e non il numero degli arrivi, a permettere a Salvini&Co di presentare i profughi come un’invasione, riscuotendone un dividendo elettorale crescente. Fino a quando le forze sparse impegnate nei salvataggi e nell’accoglienza non si uniranno per mettere a punto un’alternativa per mettere a punto un’alternativa alle politiche dell’Unione europea più umana, più costruttiva, più realistica,

.

Il dramma dei popoli fuggiti dagli inferno creati dal capitalismo dei paesi ricchi raccontato con emozione e sapienza. Una cantata che meriterebbe di circolare ben al di là del piccolo mondo di eddyburg.

MARE NOSTRO
Artista: Storie Storte (ft. MC Bible)
Autore: Giorgia Dalle Ore

Non lo sapevo che in Italia si potesse arrivare ancheper mare
E che se il mare lo bevi e lo appoggi al palato è puresalato
D’altronde il viaggio mio non è organizzato, è un po’improvvisato
È più che altro una fuga, un’urgenza, è sopravvivenza
Io sono nato dove il cielo ogni giorno rimbomba,
e ad ogni passo una tomba
Ho perso tutto nello sporco gioco della violenza, neltempo di una danza
Eppure con gli amici miei cantavo canzoni, avevograndi ambizioni
Eravamo i Benin City Boys e c’era posto anche per noi
Mare nostro, vostro.
Di chi è ‘sto mare?!
Mare nostro, vostro. Tutti giù ad affogare.
Mare nostro, vostro.
Di chi è ‘sto mare?!
Mare nostro, vostro. Tutti giù ad affogare.
Insieme a James sono partito per cercare un lavoro,
non cercavamo il tesoro
Non credo mai nelle partenze per cercare fortuna, machi la vuole la luna?!
Ho solamente in tasca i sogni di un qualunque ragazzo,
no, non pensarmi pazzo, cantare, ballare, guardare lestelle.
Tenere cara la pelle.
Dopo due mesi di viaggio, di fatiche e speranze, distrade e di mancanze
Siamo approdati in Libia, una nuova terra, ma anchequi solo guerra
Ad ogni angolo di strada una camionetta e tutti con laBeretta
Sarò un bambino e c’avrò pure la testa dura,
ma a me la guerra fa paura
Ora sono quattro giorni che viaggio per mare
E non ho idea di dove voglio arrivare
Ma mi permetto di varcare il confine, per un solomotivo:
Il tuo diritto di esser libero, il mio diritto diesser vivo
Mare nostro, vostro.
Di chi è ‘sto mare?!
Mare nostro, vostro. Tutti giù ad affogare.
Mare nostro, vostro. Di chi è ‘sto mare?!
Mare nostro, vostro.
Tutti giù ad affogare.

il Manifesto,

Per saperne di più sull'esternalizzazione delle frontiere dell'Unione Europea si legga "Le piattaforme infernali dell'EU". (i.b.)

Lo scontro tra l’Italia e il resto dell’Europa sui migranti sta probabilmente arrivando alla fine e il risultato, qualunque dovesse essere, rischia di decretare molti perdenti e nessun vincitore. Le speranze che dal Consiglio europeo di oggi possano uscire soluzioni condivise per quanto riguarda la gestione dei migranti, col passare delle ore si sono infatti ridotte sempre più al lumicino al punto che già ieri sera a Bruxelles giravano voci preoccupate circa non solo la possibilità che l’Italia possa non firmare il documento finale del vertice, ma anche che i 28 leader europei possano ritrovarsi presto a far fronte a un’eventuale chiusura delle frontiere tra Germania e Austria e tra Austria e Italia. Decisione catastrofica che comporterebbe di fatto la fine di Schengen e il definitivo isolamento dell’Italia.

Intervenendo ieri in parlamento proprio per illustrare i contenuti del Consiglio europeo di oggi, il premier Conte è stato chiaro: per l’Italia punti come la condivisione tra gli Stati della responsabilità dei migranti, l’apertura dei porti europei alle navi che effettuano i salvataggi e il superamento del regolamento di Dublino rappresentano condizioni imprescindibili. «Bisogna scindere il piano dell’individuazione del porto sicuro da quello dello Stato competente a esaminare le richieste di asilo», ha spiegato tra gli applausi della maggioranza.

Senza avere prima incassato questi risultati, per Conte non vale neanche la pena discutere di come bloccare i movimenti secondari dei richiedenti asilo, praticamente l’ultima boa alla quale è aggrappata la sopravvivenza politica della cancelliera Angela Merkel. Ma il premier ha anche fatto suo, senza citarli, il lavoro svolto negli ultimi cinque anni dai governi Letta e Renzi, ricordando come l’Italia abbia salvato l’onore dell’Europa prestando soccorso a decine di migliaia di vite nel Mediterraneo. Un riconoscimento attribuito per la verità nel 2017 al nostro Paese dal presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker, che probabilmente all’epoca non pensava certo di dover discutere un giorno con il leader di un Paese il cui ministro degli Interni liquida come «retorica» le torture subite dai migranti in Libia.

Proprio il rapporto con Salvini è del resto per Conte uno dei punti più complicati da gestire. Giusto per facilitare il lavoro del premier in vista del consiglio di oggi, ieri il leghista è tornato a insultare il presidente francese: «Macron fa il matto perché è al minimo della popolarità nel suo Paese», ha esternato lasciando la Camera dopo aver sentito l’intervento del premier. Una complicazione in più per Conte, diviso dalla necessità di muoversi senza marcare in maniera evidente la distanza con il suo vicepremier e quella di non urtare leader europei con i quali seppure sottotraccia – vedi la cena segreta di due sere fa a Roma proprio con Macron e consorte – cerca disperatamente di scongiurare una possibile rottura. Raccomandazione che ieri sera, in un incontro al Quirinale, gli avrebbe rivolto anche il presidente Mattarella.

La strada è dunque in salita, anche se a Conte arrivano segnali incoraggianti. Il leader spagnolo Pedro Sanchez, che ha scelto di schierarsi con Germania e Francia – ha fatto sue alcune richieste italiane chiedendo «l’individuazione di porti sicuri» in modo che la responsabilità de migranti sia distribuita tra tutti i Paesi membri. E aperture in questo senso sarebbero arrivate anche dalla Francia e dalla cancelliera Merkel. Decisa, però, a far rispettare lo stop dei richiedenti asilo che dopo aver presentato domanda di protrzione nello Stato di arrivo si muovono all’interno dell’Unione europea. Punto sul quale l’ennesima bozza di documento finale del vertice non a caso ribadisce come fondamentale, chiedendo agli Stati di adottare «misure interne legislative amministrative» per bloccare i movimenti secondari.

Unico punto in comune a tutti a questo punto è la volontà di esternalizzare le frontiere europee aprendo campi profughi in Paesi terzi. Anche questa però, a poche ore dall’inzio del vertice, sembra essere una strada tutta in salita. In un documento circolato ieri la Commissione Juncker ha escluso che i campi profughi possano sorgere in Paesi europei che non fanno parte dell’Ue, come possono essere i Balcani nella proposta avanzata dall’Austria. E per quanto riguarda la possibilità di collocarli in Nordafrica continuano ad arrivare rifiuti da parte dei Paesi in teoria interessati. Tutti segnali che non lasciano prevedere niente di buono. «La posta in gioco è molto alta e c’è poco tempo per trovare una soluzione», spiegava ieri il presidente del Consiglio Ue Donald Tusk.

Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

Il prossimo vertice europeo sulla questione dei migranti non promette nulla di buono, e rischia di vedere approvato una nuova strategia criminale, le "piattaforme di sbarco regionali".

Il 28 e 29 giugno si terrà a Bruxelles una riunione di emergenza dei leader dei paesi dell'Unione Europea per discutere su un approccio unitario alla questione migranti e superare le divisioni emerse già nella 'crisi migratoria' del 2015 e diventate più accese con l'ascesa di forze di estrema destra e populiste in Europa (1).

Non che l'Europa abbia dimostrato la volontà di applicare una politica di accoglienza o di lungimirante strategia per affrontare le problematiche connesse ai flussi migratori. Tutt'altro,il dramma degli oltre 66 milioni di sfollati nel mondo sembra turbare la coscienza europea solo quando i riflettori dei media si accendono su una qualche una tragedia ai confini dell'Europa, Calais, Lampedusa, Lesvo, Bardonecchia.

L'approccio europeo è incentrato: sulla fortificazione delle frontiere con la messa in campo di una sorveglianza sempre più sofisticata; e sulle persone con una ascesa delle deportazioni e diminuzione delle opzioni legali per ottenere permesso di soggiorno o residenzialità. Questo approccio aumenta il numero di sfollati che entrano illegalmente, costringendoli a intraprendere vie sempre più pericolose per sfuggire ai conflitti, alla violenza, alla povertà.. Ma questa strategia di creare una fortezza non si svolge solo sui confini europei, ma è sempre più esternalizzata, e delegata a paesi terzi, con i quali si stipulano accordi tali da estendere a questi paesi le stesse politiche adottate dall'Europa (2).

Le proposte che possono emergere da questo summit non sono rincuoranti, saranno comunque totalmente inadeguate al problema, ma rischiano anche di legalizzare atti criminali di violazione dei diritti umani. Infatti, anche trovare un consenso politico comunque moderato sulle riforme in materia di asilo sembra improbabile in quanto i capi di stato e i primi ministri sembrano invece convergere sull'idea di rafforzare le frontiere esterne. Inclusa la strategia di creazione di 'piattaforme di sbarco regionali' (regional disembarkation platforms) e periferiche dove smistare e distinguere tra migranti economici e coloro che necessitano di protezione internazionale. Definito anche come il "modello australiano", in quanto adottato dall'Australia verso i migranti arrivati in barca, questa strategia comporta l'internamento dei migranti in 'centri' fuori dall'Europa. Nella bozza di questo progetto del Consiglio Europeo si menziona che questi centri verrebbero istituiti in stretta collaborazione con l'agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) e l'Organizzazione internazionale per le migrazioni (IOM), ma un portavoce dell'UNHCR ha dichiarato di non essere ancora stato interpellato su questo, ma invece di avere notato che l'Europa sta lavorando a programmi di reinsediamento dalla Libia e dal Niger con il progetto di crearne un altro in Burkina Faso.

Come espresso nella lettera preparata da Miguel Urban Crespo (Podemos) e indirizzata a Donald Tusk, Jean-Claude Juncker e ai membri del Consiglio europeo, il modello australiano - a cui le piattaforme di sbarco regionali si ispirano - è stato denunciato come inumano dall'ONU.
"La segretezza e la mancanza di responsabilità hanno portato a gravi violazioni della legge internazionale sui diritti umani, inclusa la detenzione arbitraria; crudele, inumano o degradante trattamento o punizione; tortura; e persino un omicidio di un rifugiato per mano del personale. Autolesionismo e i tentativi di suicidio sono frequenti e i detenuti, tra cui donne e bambini, sono stati oggetto di abuso sessuale e fisico. C'è grande disperazione nel centro mentre la disperazione ha derubato la gente della voglia di vivere. [...] L'obbligatorio e prolungato centro di detenzione sia a terra che su una piattaforma impedisce l'accesso alla giustizia, ai servizi di base come assistenza sanitaria o istruzione e diventa discriminante in tutti i settori della vita sulla base dello status attribuito al migrante o alla sua famiglia."

Eddyburg vi terrà aggiornati sugli sviluppi.

Note

(1) Per ulteriori informazioni si legga su eddyburg i due articoli di Bernard Guetta e Pierre Haski.

(2) A questo proposito si veda la copertina No. 32 del 5 giugno per una mappa dei paesi con i quali l'Europa ha o sta stipulando accordi.

Internazionale (i.b.)

Internazionale, 26 giugno 2018
SUI MIGRANTI L’EUROPA SI PRESENTA SEMPRE PIÙ DIVISA

di Bernard Guetta

Gli argomenti al centro del Consiglio europeo del 28 e 29 giugno saranno due: i migranti e l’eurozona. Questo significa che il vertice dei leader dell’Unione, capi di stato o di governo, sarà molto difficile.

Sui migranti esistono tre posizioni diverse. I paesi dell’Europa centrale, quelli del gruppo di Visegrád, sono aperti all’idea di un controllo comune delle frontiere dell’Unione e di un’azione europea nei paesi di transito, ma rifiutano la possibilità di ripartire il peso dei migranti che hanno diritto all’asilo politico.

Poi ci sono le proposte francesi, ormai condivise da Germania, Spagna, Commissione europea e, tutto sommato, anche dai paesi scandinavi e dai Paesi Bassi. Già parzialmente applicate, queste proposte consistono prima di tutto in un’azione collettiva nei paesi di transito per dissuadere (anche con aiuti per il rimpatrio) i migranti economici che vorrebbero rischiare la vita per raggiungere la loro destinazione. In secondo luogo, tra le proposte, c’è il sostegno alla guardia costiera libica affinché intercetti quelli che decidono comunque di attraversare il Mediterraneo. Infine ci sono il rafforzamento del controllo comune delle frontiere e un trasferimento di tutti quelli che vengono salvati in centri chiusi dove sia possibile fare distinzione tra migranti economici e rifugiati politici.

Oltre a queste posizioni c’è la manovra del ministro dell’interno e leader della Lega Matteo Salvini, che in piena contraddizione con il presidente del consiglio italiano e con il resto della coalizione di governo orchestra la tensione con la Francia e limita la sua azione e le sue proposte alla chiusura dei porti italiani per le imbarcazioni cariche di migranti, con lo scopo (finora raggiunto) di guadagnare voti mostrando i muscoli.

A Bruxelles l’obiettivo sarà duplice. Innanzitutto bisognerà trovare un’intesa sull’insieme delle proposte francesi e non soltanto sul controllo delle frontiere e, in secondo luogo, rompere il fronte tra l’estrema destra italiana e centro-europea proponendo che i rifugiati politici possano chiedere asilo in un paese diverso da quello che raggiungono per primo. È quello che spera l’Italia ed è ciò che rifiutano i centro-europei.

Riforme basilari
Non è una chimera, ma resta difficilmente realizzabile, perché la percezione generale è che i flussi migratori continuino ad aumentare, quando in realtà stanno calando sensibilmente dopo il picco del 2015 legato alla tragedia siriana.

Quanto alle riforme dell’eurozona proposte da Francia e Germania, si scontrano con reticenze talmente forti che difficilmente possiamo sperare che vengano adottate dal Consiglio. Nel migliore dei casi potrebbero essere accettate come una “base di discussione”. Il vertice si annuncia davvero complicato.

(Traduzione di Andrea Sparacino)


Internazionale, 25 giugno 2018
SE VINCE LA LINEA DELLA CHIUSURA IL FUTURO DELL’EUROPA È A RISCHIO
di Pierre Haski

La questione dei migranti si è inserita nel cuore della crisi europea. Paradossalmente, più che come questione umanitaria, come oggetto di scontro culturale: una kulturkampf, come si diceva nel diciannovesimo secolo, ovvero una lotta per un ideale di società.

Il soggetto evidentemente non è nuovo e, senza risalire troppo in là nel tempo, divide concretamente gli europei dai tempi della crisi dei rifugiati e dei migranti del 2015. Allora emerse l’incapacità dell’Europa a 28 di trovare un accordo su un piano comune e su una solidarietà minima per affrontare una situazione difficile per alcuni stati membri.

La questione è diventata letteralmente esplosiva nel corso delle elezioni degli ultimi 18 mesi in Europa, segnate dalla vittoria o dalla forte ascesa dei partiti populisti e/o d’estrema destra. L’elezione di Emmanuel Macron, con i suoi ideali liberali ed europeisti, appare col senno di poi più un’eccezione che una battuta d’arresto per l’onda populista.

La questione dei migranti si è inserita nel cuore della crisi europea. Paradossalmente, più che come questione umanitaria, come oggetto di scontro culturale: una kulturkampf, come si diceva nel diciannovesimo secolo, ovvero una lotta per un ideale di società.

Il soggetto evidentemente non è nuovo e, senza risalire troppo in là nel tempo, divide concretamente gli europei dai tempi della crisi dei rifugiati e dei migranti del 2015. Allora emerse l’incapacità dell’Europa a 28 di trovare un accordo su un piano comune e su una solidarietà minima per affrontare una situazione difficile per alcuni stati membri.

La questione è diventata letteralmente esplosiva nel corso delle elezioni degli ultimi 18 mesi in Europa, segnate dalla vittoria o dalla forte ascesa dei partiti populisti e/o d’estrema destra. L’elezione di Emmanuel Macron, con i suoi ideali liberali ed europeisti, appare col senno di poi più un’eccezione che una battuta d’arresto per l’onda populista.

Salvini ha fatto volontariamente esplodere il fragile equilibrio moltiplicando le dichiarazioni violente

La vittoria in Italia della coalizione eterogenea tra la Lega di Matteo Salvini, di estrema destra, e il Movimento 5 stelle di Luigi Di Maio, è stato il culmine di questa serie di elezioni. Diventato ministro dell’interno, e quindi incaricato della questione migratoria, Salvini ha fatto volontariamente esplodere il fragile equilibrio, moltiplicando le dichiarazioni violente e bloccando l’attracco dell’Aquarius, l’imbarcazione umanitaria che si occupa di soccorrere i migranti in mare.

Laddove l’Europa procedeva a colpi di fragili compromessi e accordi improvvisati, il cambiamento di maggioranza in Italia ha imposto chiarezza, rendendo dunque evidente la crisi.

L’Unione europea è quindi entrata, suo malgrado, in un periodo di alta tensione, che durerà almeno fino alle elezioni europee della primavera del 2019. Ammesso che riesca a sopravvivere fino ad allora.

Due discorsi pronunciati negli ultimi giorni danno il tono dello scontro culturale che si profila all’orizzonte, e senza dubbio del tono della campagna per le elezioni europee, solitamente le meno accese di tutto il calendario elettorale.

Giovedì scorso Emmanuel Macron ha deciso di suonare la carica usando termini non abituali, denunciando “la lebbra che si diffonde” in Europa, in occasione di un discorso pronunciato a Quimper. Il presidente francese ha usato toni solenni per denunciare “la rinascita del nazionalismo” nel continente, senza per questo sostenere una politica migratoria più morbida.

Matteo Salvini si è sentito chiamato in causa e ha replicato con virulenza al capo di stato francese, in particolare sul suo account Twitter, imitando Donald Trump e la sua quotidiana logorrea sul social network.

Ma è un altro il discorso che va analizzato in opposizione a quello di Macron, ed è quello di Viktor Orbán, il presidente ungherese, il quale, il 16 giugno, in occasione del primo anniversario della morte di Helmut Kohl, l’ex cancelliere cristiano-democratico tedesco, ha esposto la sua strategia e il cuore del suo pensiero. Questo testo merita tutta la nostra attenzione.

Ancor più dei nuovi dirigenti italiani, che devono ancora dimostrare la loro capacità di resistere e di agire, è Viktor Orbán a incarnare la “resistenza” all’ordine liberale. È lui che nel 2015, chiudendo l’Ungheria al passaggio dei rifugiati e dei migranti e innalzando il filo spinato alle frontiere, ha preso il controllo della fazione cosiddetta “illiberale”, ovvero non più del tutto democratica.

Viktor Orbán, l’ex dissidente del periodo comunista, che ha avuto una precedente vita liberale prima di diventare illiberale, non parla dai margini estremi del mondo politico, come molti nemici dell’immigrazione, come Salvini o la francese Marine Le Pen, ma dal cuore del sistema, dal Partito popolare europeo (Ppe), la prima formazione del Parlamento europeo, del quale fa parte il suo movimento, Fidesz. La stessa confederazione politica della Cdu di Angela Merkel o dei Repubblicani francesi di Laurent Wauquiez.

Il presidente ungherese sostiene un cambiamento del centro di gravità europeo verso destra

In questo discorso del 16 giugno, Viktor Orbán dice con fermezza “no” a qualsiasi compromesso con gli altri paesi sulla questione migratoria, oggetto di un minivertice europeo il 28 e 29 giugno. Un “no” diretto in primis contro Emmanuel Macron e Angela Merkel.

“Possiamo raggiungere un compromesso nel dibattito sui migranti? No, e non è necessario farlo. Ci sono quelli che sono convinti che la parte avversa debba fare concessioni, che debbano discutere e poi stringersi la mano. È un approccio sbagliato. Alcune questioni non potranno essere risolte con un consenso. Non succederà, e non è necessario. L’immigrazione è una di queste questioni”.

Ma il presidente ungherese non si ferma qui. Suona la carica contro la Commissione europea, paragonata a “Mosca” (!), e da lui accusata di favorire sistematicamente i grandi paesi dell’Europa occidentale. E sostiene un cambiamento del centro di gravità europeo verso destra, molto più a destra. Denuncia il modello tedesco, ovvero la “Groko” (grande coalizione) tra la destra cristianodemocratica e cristianosociale da una parte, e la sinistra socialdemocratica dall’altra, opponendo a essa il modello austriaco, ovvero l’alleanza tra destra ed estrema destra. È quello che Orbán definisce “prendere sul serio le questioni sollevate dai nuovi partiti e dare risposte serie”.

“Noi crediamo che sia venuto il tempo di una rinascita democraticocristiana, e non di un fronte popolare antipopulista. Contrariamente alla politica liberale, la politica cristiana è in grado di proteggere i nostri popoli, le nostre nazioni, le nostre famiglie, la nostra cultura, radicata nel cristianesimo e nell’uguaglianza tra uomini e donne: in altri termini, il nostro stile di vita europeo”, prosegue il presidente ungherese, esprimendosi senza mezzi termini: “Dobbiamo tutti capire che l’islam non farà mai parte dell’identità dei paesi europei”.

Le ultime parole di Viktor Orbán annunciano il programma dei prossimi mesi: “Aspettiamo che il popolo europeo esprima la sua volontà nel corso delle elezioni del 2019. Poi quel che dovrà succedere, succederà”.

Questa dichiarazione del presidente ungherese deve fare riflettere tutti gli attori politici del continente: non bisogna sottovalutare la capacità di quest’ala all’estrema destra del Ppe – che può contare su alleati forti come una parte della destra tedesca, e il cui messaggio non è molto lontano dai dibattiti che agitano la destra francese – di modificare l’equilibrio in seno al Parlamento europeo, e quindi paralizzare o riorientare la costruzione europea.

Utilizzando un termine particolarmente forte, la “lebbra”, anche Emmanuel Macron vuole rendere più drammatica la posta in gioco, dando l’idea di voler lanciare la sua campagna per le elezioni europee con una modalità di “muro contro muro”. Anche se, da vari mesi, evoca la sua inquietudine nel vedere la democrazia liberale europea cedere il passo di fronte alle sirene delle forze illiberali.

Il problema è che lo fa nel momento in cui lui stesso si è indebolito, a causa del suo silenzio sulle sorti dell’Aquarius e sul giro di vite del suo ministro dell’interno Gérard Collomb sulla questione migratoria. Malgrado le critiche Emmanuel Macron ha difeso la sua politica migratoria intermedia “della quale non dobbiamo vergognarci”, ovvero integrare meglio quanti ottengono asilo ed espellere sistematicamente tutti gli altri. Ha peraltro risposto ai suoi detrattori utilizzando accenti populisti, accusando le “élite economiche, giornalistiche e politiche” di avere “un’immensa responsabilità” nel rifiuto dell’Europa.

Sarà difficile, nei prossimi mesi, evitare le trappole politiche di questi dibattiti troncati. Perché se è vero che la posta in gioco è altissima per tutta l’Europa, esistono anche linee di scontro nazionali che possono modificarne la percezione.

Quel che è certo è che il clima si è fatto teso, ed è improbabile che si rassereni con l’avvicinarsi delle elezioni europee. La campagna elettorale per le europee si annuncia brutale e propizia alla manipolazione dell’opinione pubblica, come dimostrato in tutte le recenti elezioni nel mondo. E soprattutto si svolgeranno in un mondo destabilizzato e ansiogeno, con un’Europa che deve fare i conti con il fenomeno Trump. Un mondo nel quale torna nuovamente a porsi la grave questione della guerra e della pace.

(Traduzione di Federico Ferrone)

il Manifesto 26, giugno 2018. Il consenso a Erdogan non viene meno, mentre cresce quello al'ultradestra dell'Mhp, i Lupi Grigi. Al presidente poteri quasi assoluti in un paese sempre più diviso dove il nazionalismo diventa lo strumento di gestione e mantenimento del potere.

il Post e il Manifesto, 26 giugno 2018. Con l'appoggio di altro partito ultra-nazionalista, Erdogan vince con il 52,5% dei voti, mantenendo la Turchia sotto un regime autoritario e repressivo, nel silenzio quasi assoluto dell'Europa. Due articoli per comprenderne le ragioni. (i.b.)

il Post, 26 giugno 2018
COSA ASPETTARCI ORA DALLA TURCHIA
Traduzione dell'articolo "Five Takeaways From Turkey’s Election" di Palko Karasz
comparso sul New York Times del 25 giugno 2018

Recep Tayyip Erdoğan è stato rieletto domenica presidente della Turchia, vincendo le prime elezioni presidenziali dopo la controversa riforma con la quale aveva accentrato in quel ruolo la gran parte dei poteri politici del paese. Grazie alla vittoria di domenica – ottenuta con il 52,5 per cento dei voti – Erdoğan rimarrà al potere in Turchia almeno fino al 2023: saranno passati vent’anni esatti da quando giurò la prima volta come primo ministro, e a quel punto potrà candidarsi ancora per un altro mandato da presidente.

Intanto, la Turchia è uscita da un lungo periodo di crescita economica, che aveva fatto la grande fortuna politica di Erdoğan, e sta attraversando un momento di crisi, anche politica. Il paese sta ancora facendo i conti con i postumi del tentato colpo di stato di due anni fa, centinaia di persone sono ancora a processo accusate di complicità con i golpisti e i principali giornali di opposizione sono stati messi sotto il controllo di figure vicine ad Erdoğan.
Il New York Times ha provato a fare un punto per capire dove sia la Turchia oggi e dove possiamo aspettare di trovarla tra cinque anni.


Il controllo di Erdoğan sul potere esecutivo è ufficiale, ma cambierà poco
La riforma costituzionale voluta da Erdoğan ha trasformato il sistema istituzionale turco da un modello parlamentare simile a quello italiano a un sistema presidenziale, con un grandissimo accentramento di poteri politici nella figura del presidente. Ora Erdoğan avrà grandissima libertà nella nomina di giudici e ministri e potrà approvare decreti o avviare indagini sull’operato di funzionari governativi.

Se ufficialmente quella del presidente era prima una figura terza e imparziale, è bene però ricordare che da quando Erdoğan fu eletto presidente la prima volta nel 2014 le cose avevano già cominciato a cambiare. Anche prima della riforma Erdoğan dirigeva i lavori del Consiglio dei ministri al posto del primo ministro e aveva un quasi totale controllo del sistema giudiziario del paese, controllo che era ulteriormente cresciuto con la repressione dopo il tentato colpo di stato del 2016.Le elezioni sono state libere, quasi

Gli osservatori internazionali non hanno rilevato casi di brogli di misura tale da aver compromesso il risultato delle elezioni di domenica, ma questo non significa che il voto sia stato completamente libero. Il campo di gioco – come si dice – non era in piano.

Negli ultimi anni Erdoğan è arrivato ad avere un controllo quasi totale sui media di stato e, indirettamente, è arrivato a controllare anche gran parte dei giornali e delle televisioni private del paese. Nel 2016 si era parlato molto del commissariamento di uno dei principali giornali di opposizione, Zaman, la cui direzione era stata sostituita nel giro di poche ore per un intervento dell’autorità giudiziaria considerato da molti come politicamente motivato. Pochi mesi prima delle elezioni, uno dei più importanti e rispettati giornali turchi – Hurriyet – era stato comprato da un gruppo molto vicino a Erdoğan. In generale, tra persecuzioni giudiziarie e inserzionisti che stanno alla larga per paura di ritorsioni del governo, la vita per qualsiasi giornale indipendente e di opposizione è diventata durissima.

A questo bisogna aggiungere gli arresti degli ultimi due anni tra i principali esponenti dell’opposizione, le molte limitazioni ai loro comizi in campagna elettorale e in generale il clima di paura che molti descrivono nel paese.

L’economia turca potrebbe peggiorare ancora

L’ascesa politica di Erdoğan, dal 2003 in avanti, aveva coinciso con un momento di grandissima crescita economica della Turchia, ed Erdoğan ne era diventato il simbolo. Non si può evidentemente dire che nel paese non ci sia più fiducia nelle capacità di Erdoğan, ma l’economia ha molto rallentato e qualche recente decisione del presidente ha fatto spaventare esperti e investitori.

Prima delle elezioni, per esempio, Erdoğan aveva promesso e minacciato di aumentare il suo controllo sulla banca centrale turca nel caso avesse vinto le elezioni e il solo annuncio delle sue intenzioni era stato sufficiente per far precipitare il valore della lira turca. Ora non è chiaro cosa farà Erdoğan, ma se mantenesse fede alle sue promesse sarebbe «un disastro per la lira, per l’inflazione e per quelli che hanno investito nel debito turco», ha detto al New York Times l’analista Emre Deliveli, ex editorialista del quotidiano Hurriyet.

La Turchia si avvicinerà alla Russia?
Quando Erdoğan arrivò al potere per la prima volta nel 2003 sembrava voler portare la Turchia più vicina all’Occidente e inizialmente accelerò il processo che avrebbe dovuto portare il paese a fare parte dell’Unione Europea. La Russia, fino a poco meno di tre anni fa, sembrava un nemico della Turchia e i rapporti tra Erdoğan e Vladimir Putin erano tutto fuorché buoni.

Le cose sono cambiate velocemente. Gli attriti tra l’Unione Europea e il governo turco si sono fatti sempre più intensi e nel 2017 Erdoğan ha esplicitamente detto di aver cambiato idea sull’ingresso della Turchia nella UE. Nello stesso periodo, Russia e Turchia hanno fatto la pace e trovato un’importante intesa su un grande gasdotto che fino a quel punto aveva molto fatto litigare i due paesi. A questo, si è aggiunto l’accordo con cui nel 2017 la Russia ha venduto alla Turchia un efficace sistema missilistico: però la Turchia fa parte della NATO e una tale vicinanza militare con la Russia è quantomeno strana.

È probabile che la tendenza di avvicinamento della Turchia alla Russia non cambierà nei prossimi anni, scrive il New York Times. Per assicurarsi le grandi vittorie politiche degli ultimi anni, Erdoğan ha stretto sempre più forti alleanze con i partiti nazionalisti di estrema destra, da sempre su posizioni anti-occidentali e anti-curde, e dovrà accontentarli. Questo, oltre che per l’Europa, potrebbe diventare un grosso problema anche per gli Stati Uniti, storici alleati della Turchia con cui da tempo però i rapporti non vanno benissimo. Le cose si sono già mostrate complicate in Siria negli ultimi mesi quando la Turchia ha attaccato direttamente le forze dei curdi siriani nel nord del paese, da tempo alleate degli Stati Uniti nella guerra contro il regime di Bashar al-Assad.

L’opposizione è in una posizione difficile
Prima del voto di domenica in molti pensavano – o speravano – che il risultato avrebbe potuto essere una brutta sorpresa per Erdoğan. Il principale candidato dell’opposizione – Muharrem Ince del Partito Popolare Repubblicano – aveva condotto una campagna elettorale molto apprezzata e, sebbene abbia perso le elezioni, il fatto che sia arrivato al 30 per cento dei voti è stato di incoraggiamento per qualcuno. Il problema, dice il New York Times, è che continuare a partecipare alle elezioni in un contesto “falsato” come quello turco non fa che rafforzare la posizione di Erdoğan, legittimando le sue vittorie.

«È arrivato il momento che le opposizioni decidano se vogliono continuare a facilitare lo status quo nella speranza che a un certo punto cambino le cose, o se vogliono provare ad attirare l’attenzione sul fatto che le regole democratiche siano di fatto state svuotate», ha detto al New York Times Howard Eissenstat, esperto di Turchia e professore alla St. Lawrence University.

Tratto dalla pagina qui raggiungibile.
il Manifesto, 26 giugno 2018
NATO E RUSSIA ALLA CORTE DEL RÈIS,
CRITICHE DALLA UE

di Chiara Cruciati

Le prime reazioni alla vittoria di Erdogan: l'Alleanza Atlantica e Mosca mandano le loro congratulazioni, Mogherini denuncia le condizioni inique della campagna elettorale ma il patto sui migranti non è in pericolo. Sullo sfondo l'escalation militare tra Siria e Iraq.

Fa buon viso a cattivo gioco Angela Merkel, la cancelliera che prima ha pavimentato la strada turca verso l’incasso di sei miliardi di euro europei per bloccare i rifugiati siriani e poi ha attraversato una delle peggiori crisi diplomatiche tra Berlino e Ankara, dal no ai comizi dell’Akp in Germania nei mesi del referendum costituzionale fino alla detenzione del reporter turco-tedesco Deniz Yucel.

Con il milione e mezzo di turchi residenti in Germania che ha votato per Erdogan con percentuali più alte di quelle domestiche (65,7%), a poche ore dalla vittoria del Rèis il portavoce di Merkel, Steffen Seibert, ha parlato dell’intenzione di continuare a lavorare «in modo costruttivo e vantaggioso» con Ankara.

A vantaggio di chi si sa: della Ue interessata a mantenere chiusa la rotta balcanica; di Berlino che alla Turchia vende armi poi usate in Rojava, secondo le denunce delle unità curdo-siriane Ypg; e del presidente vittorioso che si garantisce la seconda tranche da tre miliardi di euro.

L’Europa opta per gli stessi toni: prende atto e spera. A parlare per prima ieri è stata la Commissione Ue che si augura che «la Turchia rimanga impegnata con l’Unione europea sui principali temi comuni come migrazioni, sicurezza e stabilità regionale». Quella che Ankara devasta con operazioni unilaterali nei paesi vicini, dalla Siria all’Iraq.

Molto più critica Federica Mogherini, alto rappresentante Ue agli esteri, che prima dice di voler attendere i risultati definitivi (secondo la Commissione elettorale turca disponibili il 5 luglio) prima di rilasciare dichiarazioni di merito e poi definisce «iniqua» la campagna elettorale e condanna la riduzione delle «libertà di associazione e di espressione per i media».

Sull’altro fronte, quello del doppiogiochismo regionale turco, è un susseguirsi di felicitazioni. Russia e Nato, protagonisti di un tiro alla giacchetta molto apprezzato e ben sfruttato da Erdogan, ieri hanno inviato le rispettive congratulazioni: via lettera il presidente russo Putin ha sottolineato «la grande autorità politica» di Erdogan e ribadito la volontà di mantenere vivo il dialogo con uno degli sponsor del negoziato siriano di Astana (a tal proposito congratulazioni sono giunte anche dall’Iran, dai tempi degli imperi ottomano e persiano tra i principali competitori dell’attuale Turchia); mentre il segretario generale della Nato Stoltenberg ha espresso il suo plauso e ricordato a Erdogan quello che chiama «il nucleo di valori» che caratterizzano il Patto atlantico, «democrazia, Stato di diritto, libertà individuale» in primis (alcuni popoli avrebbero da dissentire).

Parole non da poco, soprattutto alla luce delle prime dichiarazioni post-vittoria del presidente turco: «Libereremo la Siria», ha detto lunedì notte dal terrazzo del quartier generale dell’Akp ad Ankara, aprendo a un’escalation dell’operazione militare contro i curdi in Siria e Iraq che è già realtà quotidiana.

Tratto dalla pagina qui raggiungibile

Avvenire


Non ha speso una parola il nostro presidente della Repubblica per ricordare quali sono le cause della migrazione che è in corso da qualche decennio.
Le cause di quella migrazione sono la politica di sfruttamento forsennato delle risorse di quei popoli che l’Europa e il mondo cosiddetto sviluppato ha fatto in Africa, ma non una parola si è spesa sul colonialismo di ieri e di oggi. Anzi a leggere bene il suo intervento emerge con chiarezza che i provvedimenti che si prefigurano sono di stampo neocolonialista. Infatti, quello che si prefigge è che le imprese italiane continuino a costruire grandi opere infrastrutturali, che l'hanno sempre contraddistinta, soprattutto in quelle zone dove hanno origine i flussi migratori. Peccato che queste "grandi opere" fanno moltissimi danni: sfrattano intere popolazioni, dirottano fiumi, lasciando a secco altre intere popolazioni e servono soprattutto agli sfruttamenti intensivi e all'economia capitalistica, da cui migliaia e migliaia di Africani sono esclusi. Vi ricordiamo un articolo scritto per eddyburg.it, in cui si spiega appunto chi sono i migranti dello sviluppo, ovvero quelle popolazioni vittime del nostro modello di sviluppo, di cui fanno parte tantissime "grandi opere" costruite sotto il falso nome della cooperazione o aiuto internazionale.
Se non si comprendono le cause dei fenomeni che si intende combattere o di cui si intende curare gli effetti, le nostre rimarranno solo parole di propaganda per giustificare il perpetuarsi dello sfruttamento e sottomissione di terre e popoli ricchi a favore di altri. (a.b.)

«Messaggio del capo dello Stato, che oggi vede Tusk, in occasione della giornata mondiale del rifugiato: “Tragedia drammaticamente attuale. Intervenire con la prevenzione, su conflitti e povertà”»

«Nel sollecitare la comunità internazionale e l'Unione Europea a compiere passi crescenti su questo terreno, la Repubblica Italiana si conforma alle norme sancite dal diritto internazionale relative all'accoglienza di coloro che hanno diritto a protezione». Il messaggio di Sergio Mattarella in occasione della giornata mondiale del rifugiato ribadisce la richiesta del nostro Paese di maggiore condivisione del dovere di accoglienza.

Ma le parole del capo dello Stato - che oggi vedrà, al pari del premier Giuseppe Conte, il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk – suonano anche come monito per il nuovo governo a non sottrarsi ai propri doveri di carattere umanitario, pur chiedendo a gran voce a una cambio di passo nelle politiche e negli stessi regolamenti comunitari.

«La tragedia dei rifugiati - donne, uomini e bambini costretti ad abbandonare le proprie case in cerca di un luogo dove poter vivere - è oggi sempre più drammaticamente attuale, come hanno sottolineato anche le Nazioni Unite» scrive il presidente della Repubblica. Che rivendica innanzitutto i grandi meriti acquisiti dal nostro Paese: «Da tempo, l'Italia contribuisce al dovere di solidarietà, assistenza e accoglienza nei confrontidi quanti, costretti a fuggire dalle proprie terre, inseguono la speranza di un futuro migliore per sè e per i propri figli. Obbedisce a sentimento di responsabilità l'impegno dei moltissimi concittadini che, sul suolo nazionale, nel mediterraneo e in altre più lontane aree di crisi del pianeta, tengono vivo lo spirito di umanità che - profondamente radicato nella nostra Costituzione - contraddistingue il popolo italiano». Ne discende un «vivo ringraziamento» da parte del capo dello Stato per «tutti coloro che, in Italia e nel mondo, si adoperano con passione, impegno e dedizione, per questa causa».

Ma ecco la richiesta pressante. Per Mattarella «la comunità internazionale deve operare con scelte politiche condivise e lungimiranti per gestire un fenomeno che interessa il globo intero». E soprattutto, «l'Unione Europea, in particolare, deve saper intervenire nel suo insieme, non delegando solamente ai Paesi di primo ingresso l'onere di affrontare le emergenze. La gestione attuale dei fenomeni migratori deve lasciare il posto a interventi strutturali che rimuovano le cause politiche, climatiche, economiche e sociali che alimentano tante tristi vicende».

Esiste poi un grande tema, che tocca la comunità internazionale nel suo insieme, sul piano della prevenzione delle cause delle grandi migrazioni, dalle guerre alle povertà: «Per governare i grandi spostamenti di esseri umani - afferma il Presidente - occorre prevenire i conflitti e mettere fine a quelli in corso, sostenere i Paesi di origine dei flussi aiutandoli a combattere carestie e malnutrizione, fornire adeguato sostegno ai Paesi limitrofi e alle aree soggette a ostilità». Occorrono, sul piano globale, politiche ispirate ai «principi della responsabilità, della solidarietà e della condivisione dei doveri e dei compiti tra tutti i Paesi interessati». Principi che possono trovare un loro rilancio solo in ambito Onu, dove «l'Italia è fortemente impegnata nei negoziati in vista dell'adozione di un patto mondiale sui rifugiati, che rappresenta lo strumento per offrire risposte concrete e universalmente accettate».

Ma, ammonisce Mattarella «nel sollecitare la comunità internazionale e l'Unione Europea a compiere passi crescenti su questo terreno la Repubblica Italiana si conforma alle norme sancite dal diritto internazionale relative all'accoglienza di coloro che hanno diritto a protezione».

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Gli Stati Uniti hanno deciso ieri di uscire dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite per il suo “continuo pregiudizio” nei confronti d’Israele. Ad annunciarlo è stato la rappresentante statunitense alle Nazioni Unite, Nikki Haley. “Compiamo questo passo perché il nostro impegno non ci permette di essere parte di una organizzazione ipocrita, che pensa solo a sé stessa e che si fa beffa dei diritti umani” ha spiegato Haley nel corso di una conferenza stampa dove era presente anche il Segretario alla difesa Usa Mike Pompeo.

Haley ha poi subito precisato che la scelta degli Usa – che giunge a suo dire dopo i tanti sforzi americani volti a riformare il Consiglio – “non significherà che verremo meno agli impegni presi nel campo dei diritti umani”, ma è figlia delle posizioni del Consiglio che “protegge chi viola i diritti umani ed è una fogna di pregiudizio politico”. “Guardate i suoi membri e vedrete una sconcertante mancanza di rispetto per i diritti umani basilari” ha poi aggiunto citando il Venezuela, la Cina, Cuba e la Repubblica democratica del Congo.

La decisione è stata criticata dall’Alto Commissario Onu per i diritti umani, Zeid Ra’ad al-Hussein, che ha parlato di annuncio “deludente anche se non così sorprendente”. “Visto lo stato dei diritti umani nel mondo oggi – ha detto al-Hussein – gli Usa dovrebbero incrementare [il loro contributo], non fare passi indietro”.

Duro è anche il commento di Human Rights Watch (HRW): “Il ritiro dell’Amministrazione Trump riflette tristemente la sua politica unidimensionale sui diritti umani: difendere gli abusi israeliani dalle critiche ha la precedenza su tutto” ha detto il direttore esecutivo della ong statunitense, Kenneth Roth.

La decisione di Washington – senza precedenti nei 12 anni di storia del Consiglio – giunge dopo che a metà maggio il Consiglio dei diritti umani dell’Onu aveva votato per indagare sulle uccisioni compiute da Israele contro i manifestanti palestinesi nella Striscia di Gaza e aveva condannato Tel Aviv per aver usato eccessiva forza per reprimere le “proteste del ritorno” gazawi. Allora gli Usa e l’Australia scelsero di non votare, schierandosi con Israele che accusò il Consiglio di “diffondere bugie contro lo stato ebraico”.

La scelta americana giunge però anche dopo le dure critiche che l’Amministrazione Trump ha ricevuto in questi giorni per aver separato i bambini migranti dai loro genitori al confine tra Messico e Usa. Proprio al-Hussein aveva invitato lunedì Washington a rivedere questa sua decisione: “Il pensiero che uno stato possa cercare di scoraggiare i genitori infliggendo tali abusi ai bambini è immorale”. L’uscita americana dal Consiglio dei diritti dell’Onu rappresenta il terzo ritiro americano da impegni multilaterali dopo l’abbandono dell’accordo climatico di Parigi e l’intesa sul nucleare iraniano.

Il rapporto tra l’organismo internazionale e Washington è sempre stato conflittuale. Quando il Consiglio fu stabilito 12 anni fa, il presidente americano Bush decise di boicottarlo per tre anni per gli stessi motivi addotti ieri da Haley. Allora a convincere Bush fu John Bolton, all’epoca rappresentate degli Usa all’Onu e oggi scelto da Trump come Consigliere nazionale per la Sicurezza. Washington si sarebbe unito all’organismo tre anni dopo (nel 2009) quando alla Casa Bianca fu eletto l’ex presidente Barack Obama e ne fece parte, come regolamento prevede, per due termini consecutivi (ciascuno della durata di tre anni). Dopo un anno di stop, gli Usa sono stati rieletti nel 2016. Il Consiglio è formato da 47 membri eletti dall’Assemblea Generale dell’Onu. Un numero specifico di posti è riservato per ogni area del mondo.

Il ritiro americano giunge mentre si è registrata una nuova notte di tensione a Gaza dove l’aviazione israeliana ha sapere di aver colpito 25 “obiettivi di Hamas” in risposta al lancio palestinese di colpi di mortaio e 30 missili (7 dei quali intercettati dal Sistema difensivo israeliano Iron Dome). Secondo fonti locali, due agenti della sicurezza di Hamas sarebbero rimasti leggermente feriti in uno dei raid israeliani nel sud della Striscia. Le sirene di allarme sono risuonate nelle cittadine israeliane a confine con la piccola enclave palestinese assediata da Tel Aviv da oltre 10 anni.

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Nigrizia.it,

Non basta perseguitare chi fugge da condizioni disumane; nel cosiddetto ‘mondo civile’ ci si accanisce persino contro i bambini: qui in Italia si vuole agire nei confronti dei rom, minacciando la perdita della potestà genitoriale se i loro figli non frequentano le scuole; nell’America di Trump e della ‘tolleranza zero’ si agisce con crudeltà nei confronti dei migranti dal Centro America, separando e mettendo letteralmente in prigione i bambini di famiglie che sono riuscite a varcare il confine. Neanche il pianto disperato degli innocenti commuove questi novelli Erode!
Che fare? Non solo la società civile e le comunità cristiane, come invita a fare Zanotelli, ma anche le amministrazioni locali 'progressiste' dovrebbero prendere esempio dal movimento USA dei Sanctuary States (sono già 7) e delle Sanctuary Cities (sono decine le contee e le grandi città che vi aderiscono...): un movimento che si oppone alle politiche razziste e xenofobe contro gli immigrati 'illegali' attuate da Trump e che si sta impegnando in iniziative di contrasto alle leggi federali e in azioni penali, rischiando severi tagli di fondi da parte del governo federale. Per ora, di iniziative analoghe nel nostro paese non se ne vedono... (m.c.g.)

L’onda nera del razzismo e della xenofobia che sta dilagando in Europa – dall’Ungheria all’Austria, dalla Polonia alla Slovenia – travolge oggi anche il nostro paese. Il volto più noto di questo razzismo nostrano è certamente Matteo Salvini, segretario della Lega e ora ministro degli interni nel nuovo governo giallo-verde (non dimentichiamoci che Salvini è apprezzato da Bannon, ex consigliere di Trump e portabandiera dell’ultra destra sovranista mondiale!).

In queste prime settimane di governo giallo-verde, Salvini ha subito rivelato la sua strategia politica con degli slogan che fanno paura. «È finita la pacchia dei migranti», «i clandestini devono fare le valigie, se ne devono andare», «nessun vice-scafista deve attraccare nei porti italiani», «siamo sotto attacco e chiediamo alla Nato di difenderci dai migranti e terroristi», «l’Italia non può essere il campo profughi d’Europa».

Pesante l’attacco contro la Tunisia, definito come paese «esportatore di galeotti». La politica leghista vuole creare “più centri di espulsione” per sbarazzarsi di 500.000 irregolari rimandandoli ai loro paesi. Pesanti le parole del ministro degli interni contro il sindaco Mimmo Lucano che ha fatto rifiorire il paese di Riace (Calabria) accogliendo migranti: «È lo zero!». Altrettanto dura la politica del ministro degli interni contro i rom: vuole smantellare i loro campi con le ruspe e attuare quanto concordato nel “contratto di governo”: l’obbligo della frequenza scolastica, pena la perdita della responsabilità e potestà genitoriale. Siamo alle leggi speciali per i rom? Inoltre egli promette il pugno duro per la sicurezza e il decoro urbano, a spese dei senza fissa dimora, dei poveri, degli ultimi.

E il segretario della Lega è passato subito dalle parole ai fatti, negando alla nave “Acquarius”, che portava oltre 600 migranti, di potere attraccare ai porti italiani. Un atto vergognoso giocato sulla pelle dei poveri, ma anche illegale perché viola la nostra Costituzione e i trattati internazionali firmati dall’Italia sulla ricerca e salvataggio marittimo.

È ormai un Salvini che impazza a tutto campo, mentre i Cinque Stelle sono già prigionieri del campo di forza della Lega che ha sempre più consensi e riceve gli elogi di Bannon e di Marine Le Pen e del gruppo di Visegrad. Dobbiamo riconoscerlo: siamo davanti a un “razzismo di Stato” preparato in questo ventennio da leggi come la Turco-Napolitano, la Bossi-Fini, i decreti Maroni, la realpolitik di Minniti e da un crescente razzismo degli italiani.

E i conventi cosa fanno?

È un fenomeno questo che ci interpella tutti: società civile, cittadinanza attiva, movimenti popolari, Chiese, comunità cristiane. Come missionario mi appello per primo alla Chiesa italiana perché faccia un serio esame di coscienza cercando di capire quanto i cristiani abbiano contribuito a questo disastro. È mai possibile che le nostre comunità abbiano dimenticato quelle parole così chiare di Gesù: “Ero affamato…, ero assetato…, ero forestiero… e non mi avete accolto?”. Non è forse questo il momento più opportuno per aprire le nostre comunità ed accogliere coloro che sono minacciati di espulsione? A che cosa servono i conventi o le case religiose se non ad accogliere coloro che la società opulenta non vuole?

Dovrebbe farci riflettere che negli Usa tante chiese e comunità cristiane si siano dichiarate “sanctuary”, luoghi di rifugio per coloro che Trump (altro razzista!) ha deciso di deportare ai loro paesi dove rischiano la vita! Non è forse il momento in cui lanciare il “Sanctuary movement” anche in Italia per salvare tanti migranti da morte sicura? È mai possibile che negli USA lo stato della California si sia dichiarato “santuario” per gli irregolari che Trump vuole espellere e in Italia nessuna comunità cristiana ancora abbia fatto un tale passo?

Creare anticorpi

Mi appello alla cittadinanza attiva di questo paese perché in fretta crei gli anticorpi per reagire al fascio-leghismo nostrano. È fondamentale imboccare seriamente la strada della disobbedienza civile per tutte quelle leggi che disumanizzano i nostri fratelli e disumanizzano anche noi. «Una legge che degrada la personalità umana è ingiusta», così scriveva dal carcere di Birmingham, Martin Luther King. E aggiungeva: «I primi cristiani si rallegravano per essere considerati degni di soffrire per quello in cui credevano. Allora la Chiesa non era un semplice termometro che misurava le idee e i principi dell’opinione pubblica: era un termostato che trasformava il costume della società. Quando i primi cristiani entravano in una città, le autorità si allarmavano e subito cercavano di imprigionare i cristiani perché “disturbavano l’ordine pubblico” ed erano “agitatori venuti da fuori”. Ma i cristiani non cedettero, chiamati ad obbedire a Dio e non agli uomini».

È questo lo spirito che deve ritornare ad animare le comunità cristiane per poter sconfiggere, insieme a tanti uomini di buona volontà, l’onda nera del razzismo e xenofobia che ci sta travolgendo. Dobbiamo farlo insieme, credenti e laici, memori di quanto afferma il danese Kaj Munk, pastore luterano antinazista, ucciso come un cane nel 1944: «Quello che a noi manca è una santa collera!».

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micromega on-line
Aula Clementina, 16 giugno 2018, «Forum delle associazioni familiari», recita la titolazione del testo scritto che Bergoglio ha con sé, ma non legge. Va a braccio. Ed è tutto un tuonare: a favore della più rigida ortodossia della Chiesa sulla famiglia cattolica – con annesso ruolo della donna vocata al sacrificio –, e contro l’interruzione volontaria di gravidanza.
Posizioni del resto che papa Francesco aveva sempre sostenuto, al di là delle frasi ad uso mediatico, tipo «chi sono io per giudicare un gay». Oppure quelle su una Chiesa, dove la dottrina non sia «da imporre con insistenza», e che procede «misericordiando».

Con buona pace di quanti continuano a fantasticare su supposte rivoluzioni di questo papa. E nella bergoglite che li affligge, continuano nell’autoconvincimento che, Lui vuole, ma le gerarchie Lo ostacolano. E imbrigliati in questo gioco illusionistico hanno sorvolato ad esempio sulle benedizioni papali elargite ai pro-life in marcia su Roma in buona compagnia di Militia Christi e Forza Nuova, o su quelle ai ginecologi cattolici per l’opera di boicottaggio contro interruzioni volontarie di gravidanza, anticoncezionali, fecondazione assistita... e quanto altro ancora.

Adesso, glisseranno anche di fronte alle affermazioni di papa Francesco al Forum delle famiglie di questo 16 giugno?

«Oggi – ha detto Bergoglio – si parla di famiglie diversificate, di diversi tipi di famiglia... Ma la famiglia immagine di Dio è una sola, quella tra uomo e donna. Può darsi che non siano credenti ma se si amano e uniscono in matrimonio sono a immagine e somiglianza di Dio». Siamo alla più classica riproposizione dell’ontologia clericale che si regge sulla concatenazione di idee supposte a cominciare da quella di un Dio di cui la Chiesa sarebbe interprete e maestra, nel dettare schemi e leggi.

Ognuno nel suo ruolo. E su questa strada papa Bergoglio nella definizione catechistica di famiglia, non ha dimenticato di elogiare la sopportazione di tante “sante donne” che «nel silenzio hanno aspettato guardando da un'altra parte, aspettando che il marito tornasse alla fedeltà. La santità che perdona tutto perché ama».

Ma forse vale appena riflettere, che proprio su questa strada della donna “vocata” alla dedizione per l’altro si è costruita la mala educazione maschilista, che tanto spazio trova nella Chiesa a cominciare dal suo ideologo Paolo di Tarso, che ad esempio nella Lettera a Timoteo I, 2, 11-15 prescriveva: «La donna impari in silenzio con ogni sottomissione. Perché non permetto alla donna d’insegnare, né d’usare autorità sul marito, ma stia in silenzio».

Una mala educazione che vale anche per la responsabilità della Chiesa cattolica nello stigma contro l’omosessualità, ribadita nel catechismo vigente che la definisce «oggettivo disordine morale», (canone 2357), e che vorrebbe gli omosessuali casti ed espianti, prostrati nel vivere nel «sacrificio della croce del Signore le difficoltà che possono incontrare in conseguenza della loro condizione» (canone 2358). Sarebbe irriverente chiedere se anche la violenza omofoba rientra nella croce da sopportare misericordiosamente? E per le famiglie gay con figli annessi a seguire?

Misericordiando... misericordiando, il 16 giugno al Forum delle famiglie (cattoliche) papa Bergoglio è arrivato ad equiparare l’aborto allo stragismo nazista.

«Il secolo scorso – ha detto – tutto il mondo era scandalizzato per quello che facevano i nazisti per curare la purezza della razza. Oggi facciamo lo stesso ma con i guanti bianchi. È di moda o almeno abituale, che quando in gravidanza si vede che il bambino non sta bene o viene con qualche cosa: la prima offerta è lo mandiamo via? L'omicidio dei bambini: per risolvere la vita tranquilla si fa fuori un innocente».

Ovviamente non poteva mancare in questo Forum del 16 giugno la lode all’opera profusa dalle associazioni cattoliche – come aveva scritto anche nel testo ufficiale – «stabilendo un rapporto di fiducia e di collaborazione con le Istituzioni».

Ma dietro quella parola apparentemente pacata “collaborazione” non continua forse il vizio antico di una Chiesa che pretende di essere accreditata come univoca agenzia morale? Una Chiesa che identifica il cittadino col credente, e per questo pretende che la sua libertà sia superiore a quella di chiunque altro.

Una Chiesa insomma che non ha ancora accettato l’ingresso nella modernità, che ha un pilastro fondamentale nella separazione tra leggi umane e leggi divine.

Cosa che continua a ignorare anche papa Bergoglio. In questo – sembrerebbe – in perfetta sintonia col ministro della famiglia e delle disabilità del nuovo Governo, l’ultrà cattolico Lorenzo Fontana (il suo matrimonio religioso ha voluto fosse celebrato col rito tridentino), che nei giorni scorsi si era speso (“santa” collaborazione istituzionale?) in un profluvio di affermazioni razziste contro le coppie omosessuali da far restare sommerse, invisibili, nel non-essere del diritto di avere diritti.

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Il Fatto Quotidiano, 19 giugno 2018. Un'analisi quantitativa dell'esodo in corso. I numeri dell'esodo in corso potranno essere utili a quanti hanno conservato il lume della ragione, saranno inutili per chi usa la testa come i governanti italiani ed Europei. Con commento. (e.s.)
L'analisi delle dimensioni dell'esodo ne conferma il carattere dirompente sia per i paesi di provenienza sia per quelli assunti come obiettivi dai flussi dei migranti. Ma non si comprende ancora che é necessario individuare e praticare sia soluzioni immediate per l'accoglienza coerente con una «migrazione sicura, ordinata e regolare», secondo le parole di papa Francesco, sia il progressivo smantellamento del sistema economia e di potere che con lo sfruttamento dei colonialismo vecchi e nuovi, sta portando il pianeta e l'umanità alla catastrofe. Chiamalo, se vuoi, capitalismo. (e.s.)

Il Fatto quotidiano, 19 giugno 2018
Giornata mondiale del Rifugiato, oltre 68 milioni di persone costrette alla fuga. “Nel 53% dei casi sono minori”
di Luisiana Gaita

Un nuovo patto globale per i rifugiati non è più rinviabile. A renderlo cruciale sono gli oltre 68 milioni di persone costrette alla fuga a causa di guerre, violenze e persecuzioni. Nel 2017 questo numero ha raggiunto un nuovo record per il quinto anno consecutivo. I motivi sono da riscontrarsi soprattutto nella crisi nella Repubblica Democratica del Congo, nella guerra in Sud Sudan e nella fuga in Bangladesh di centinaia di migliaia di rifugiati rohingya provenienti dal Myanmar. I Paesi maggiormente colpiti sono per lo più quelli in via di sviluppo.

Nel rapporto annuale ‘Global Trends’, pubblicato in occasione della Giornata mondiale del Rifugiato, che cade il 20 giugno, l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) traccia una mappa dei flussi di uomini, donne e bambini che abbandonano le proprie case e si lasciano alle spalle il proprio passato per un futuro incerto, spesso altrettanto drammatico. Ogni giorno sono costrette a fuggire 44.500 persone, una ogni due secondi. “Siamo a una svolta, dove il successo nella gestione degli esodi forzati a livello globale richiede un approccio nuovo e molto più complessivo, per evitare che Paesi e comunità vengano lasciati soli ad affrontare tutto questo” dichiara dichiarato Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati.

I dati sui rifugiati – Nel totale dei 68,5 milioni di persone in fuga sono inclusi anche i 25,4 milioni di rifugiati che hanno lasciato il proprio Paese a causa di guerre e persecuzioni, 2,9 milioni in più rispetto al 2016. Si tratta dell’aumento maggiore registrato dall’Unhcr in un solo anno. Nel frattempo, i richiedenti asiloche al 31 dicembre 2017 erano ancora in attesa della decisione in merito alla loro richiesta di protezione sono passati da circa 300mila a 3,1 milioni. Sul numero totale, le persone sfollate all’interno del proprio Paese, invece, sono 40 milioni, poco meno dei 40.3 milioni del 2016. In pratica il numero di persone costrette alla fuga nel mondo è quasi pari al numero di abitanti della Thailandia. Considerando tutte le nazioni nel mondo, una persona ogni 110 è costretta alla fuga. Il Global Trends non esamina il contesto globale relativo all’asilo, a cui l’Unhcr dedica pubblicazioni separate “e che – spiega l’Agenzia – nel 2017 ha continuato a vedere casi di rimpatri forzati, di politicizzazione e uso dei rifugiati come capri espiatori, di rifugiati incarcerati o privati della possibilità di lavorare e di diversi Paesi che si sono opposti persino all’uso del termine ‘rifugiato’”.

La risposta alla crisi – Domenica scorsa Papa Francesco ha evidenziato che la Giornata mondiale dei Rifugiati quest’anno cade nel vivo delle consultazioni tra i governi per l’adozione di un patto mondiale “che si vuole adottare entro l’anno, come quello per una migrazione sicura, ordinata e regolare”. Secondo l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati c’è motivo di sperare: “Quattordici Paesi stanno già sperimentando un nuovo piano di risposta alle crisi di rifugiati e, in pochi mesi, sarà pronto un nuovo Global Compact sui rifugiati e potrà essere adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite”. Da qui l’appello di Filippo Grandi agli Stati e l’invito a sostenersi a vicenda: “Nessuno diventa un rifugiato per scelta, ma noi tutti possiamo scegliere come aiutare”.

Si fugge soprattutto dai paesi in via di sviluppo – Il rapporto offre numerosi spunti di riflessione: l’85% dei rifugiati risiede nei Paesi in via di sviluppo, molti dei quali versano in condizioni di estrema povertà e non ricevono un sostegno adeguato ad assistere tali popolazioni. Quattro rifugiati su cinque rimangono in Paesi limitrofi ai loro. Gli esodi di massa oltre confine sono meno frequenti di quanto si potrebbe pensare guardando il dato dei 68 milioni di persone costrette alla fuga a livello globale. “Quasi due terzi di questi – spiega il rapporto – sono infatti sfollati all’interno del proprio Paese. Dei 25.4 milioni di rifugiati che hanno lasciato il proprio Paese a causa di guerre e persecuzioni, poco più di un quinto sono palestinesi sotto la responsabilità dell’Unrwa(l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente). Dei restanti, che rientrano nel mandato dell’Unhcr, due terzi provengono da soli cinque Paesi: Siria, Afghanistan, Sud Sudan, Myanmar e Somalia. “La fine del conflitto in ognuna di queste nazioni – sottolinea l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati – potrebbe influenzare in modo significativo il più ampio quadro dei movimenti forzati di persone nel mondo”. Il Global Trends offre altri due dati, forse inattesi: il primo è che la maggior parte dei rifugiati vive in aree urbane(58%) e non nei campi o in aree rurali; il secondo è che le persone costrette alla fuga nel mondo sono giovani, nel 53% dei casi si tratta di minori, molti dei quali non accompagnati o separati dalle loro famiglie.

I paesi ospitanti – Come per il numero di Paesi caratterizzati da esodi massicci di persone, anche il numero di quelli che ospitano un elevato numero di rifugiati è relativamente basso: in termini di numeri assoluti la Turchia è rimasta il principale Paese ospitante al mondo, con una popolazione di 3.5 milioni di rifugiati, per lo più siriani. Nel frattempo, il Libano ha ospitato il maggior numero di persone in rapporto alla sua popolazione nazionale. Complessivamente, il 63% di tutti i rifugiati di cui si occupa l’Unhcr si trova in soli 10 Paesi. “Purtroppo le soluzioni a tali situazioni sono state poche – rileva il rapporto – mentre guerre e conflitti hanno continuato a essere le principali cause di fuga, con progressi assai limitati verso la pace”.

Pochi quelli che tornano a casa – Circa cinque milioni di persone hanno potuto tornare alle loro case nel 2017, la maggior parte delle quali però era sfollata all’interno del proprio Paese. Tra queste, inoltre, in migliaia sono rientrate in maniera forzata o in contesti assai precari. A causa del calo dei posti messi a disposizione dagli Stati per il reinsediamento, sono 100mila i rifugiati che sono potuti tornare a casa, un numero diminuito di oltre il 40 per cento. Una sconfitta.

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la Repubblica

La truffa è semplice, basta adoperare le parole con fraudolenta malizia, magari usando espressioni in inglese. Ciò che è "piatto" non è la tassa, ma la percentuale di prelievo sul reddito, cioè l'aliquota. Chi guadagna molto dovrebbe, in base alla nostra Costituzione, pagare una percentuale del proprio reddito molto più alta di chi guadagna meno, invece con la flat tax pagano una uguale percentuale del reddito sia chi guadagna 1000 al mese sia chi ne guadagna 10.000, 100mila o 1milione. (e.s.)

la Repubblica, 17 maggio 2018
Che cos'è la flat tax: maxi taglio fiscale per i ricchi,
rischio beffa per i poveri

«La scheda. Le caratteristiche della "tassa piatta" che si prepara ad entrare nel programma di governo gialloverde e che costa almeno 50 miliardi. Chi avvantaggia e perché»

Che cos’è?

Nel gergo anglofilo della politica economica e delle tasse viene chiamata flattax, significa tassa piatta, ma anche con la traduzione in mano non si capisce.“Piatta”, ma perché? L’aggettivo viene dal linguaggio degli economisti cheparlano riferendosi ad un grafico con una curva dove sono rappresentati ilreddito (ascisse) e il peso delle tasse (ordinate). Se la curva cresce alcrescere del reddito, si parla di tasse progressive, se invece resta ferma alcrescese del reddito appare piatta e dunque le tasse sono meramenteproporzionali.

incidenza media delle due imposte, irpef attuale e flat tax con due aliquote, per un dipendente single. (Fonte: Massimo Baldini)
Detto questo dobbiamo spiegare che cosa sono le tasse progressive e quelleproporzionali. Il principio di progressività non è così intuitivo, perchéprevede che chi guadagna di più paghi più che proporzionalmente, mentre nelsentire comune il termine “proporzionale” già sembra sinonimo di equità. Invecequando si parla di soldi non è così perché, come diceva Einaudi (un grandeeconomista che è stato anche presidente della Repubblica) le stesse dieci lirenon hanno lo stesso valore per il povero che ci compra la minestra e per ilricco che ci compra la poltrona al teatro, dunque il ricco può pagare di più. Quello che diceva Einaudi è talmente vero che la nostra Costituzioneall’articolo 53 impone che che le tasse siano ispirate al principio diprogressività.

La flat tax è stata mai applicata?

Il 19 novembre del 2004 il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi diritorno da una visita ufficiale nella giovane democrazia della Repubblicaslovacca, dove aveva esaltato le ricette dell’economista, consigliere diReagan, Arthur Laffer, rilanciò l’idea della flat tax che del rasto, fin dalprogramma del 2001 era stato uno dei suoi cavalli di battaglia. E’ vero chemolti paesi dell’Est hanno adottato l’aliquota unica ma bisogna considerare chequei paesi, usciti dai regimi non di mercato, non avevano un sistema fiscalesviluppato, quindi la certezza di una aliquota al 15 o 16 per cento era giù unsuccesso.

E gli americani?

Anche i falchi americani delle tasse non hanno mai avuto vita facile. MiltonFriedman consigliò la flat tax a Reagan che tuttavia non la adottò e nel 1986si limitò a tagliare l'aliquota massima con il celebre Tax Reform Act. Piùtardi, lo specialista Alvin Rabushka, tentò di dare consigli a George W. Bush:ma persino George junior si limitò a limare l'aliquota più alta in vigore negliUsa di circa 5 punti portandola al 35 per cento e rifiutò di introdurrel'aliquota unica proposta dal miliardario Steve Forbes (che per questo loattaccò duramente). Obama la riportò all'attuale 39,6 nel 2013. L'esercizio deltaglio delle tasse non è facile. Da qualsiasi sponda dell'Atlantico si cerchi diattuarlo.

Ora veniamo all’Italia.

La flat tax contenuta nel programma gialloverde è un grosso cambiamentorispetto all’attuale sistema. I puristi possono dire che non si tratta di unavera e propria flat tax, perché non ha una sola aliquota ma ne ha due, ma se siguarda la curva della progressività (vedi sopra) ci si accorge che il risultatodella “quasi flat tax” non cambia molto: invece di una linea retta c’è unpiccolo scalino.

Come funziona?

Le due aliquote sono del 15 e del 20 per cento, invece delle cinque attuali.Sui redditi fino ad 80 mila euro lordi si pagherà il 15 per cento e sulla parteche eccede gli 80 mila euro si pagherà il 20 per cento. Per attenuare larozzezza delle due aliquote e dare un po’ di progressività anche il progetto diflat tax gialloverde introduce delle deduzioni per i familiari (3.000 euro perciascun familiare a carico) che diminuiscono fino ad azzerarsi al crescere delreddito oltre gli 80 mila euro. La novità fondamentale da tenere presente chela nuova flat tax, almeno nei progetti, si propone come familiare, cioèl’aliquota si calcola sulla somma del reddito dei coniugi, creando delledifferenze con le coppie monoreddito tutte da valutare.

Chi ci guadagna e chi ci perde?

Il risultato della flat tax, secondo l’economista Massimo Baldinidell’Università di Modena, che ha scritto un dettagliato articolo sullavoce.info, si verificherà un gigantesco trasferimento di ricchezza a favore deipiù abbienti: così come è congegnata la riforma ci guadagneranno solo i redditialti e i poveri resteranno a guardare.

La palazzina a cinque piani.

Immaginiamo che i contribuenti italiani abitino un palazzo a cinque piani: alprimo i più modesti, nell’attico i più benestanti. Ebbene al primo piano c’è ilnucleo che si affaccerà alla finestra con un po’ di irritazione ma anche conqualche brivido: solo grazie ad una pesante clausola di salvaguardia, in basealla quale non si può essere penalizzati, con un costo complessivo stimato in 8miliardi, potrà pagare le stesse tasse che pagava prima. Senza clausola, con ilpuro calcolo del nuovo sistema, questa famiglia media, dove i due partnerlavorano e portano a casa 15 mila euro di reddito lordo ciascuno, sarebbecostretta a sborsare 2490 euro in più.

Il paracadute?

Il rischio che i poveri debbano pagare più di oggi è così concreto, tanto cheil progetto prevede un paracadute. Infatti la nuova deduzione sull’imponibiledi 3.000 euro non compensa la prevista cancellazione delle due detrazioni dalavoro dipendente che spettano oggi ai due coniugi e l’azzeramento delledetrazioni per i due figli: infatti oggi la famiglia del primo piano pagatranquillamente solo 210 euro di Irpef. Necessaria dunque la «salvaguardia»: macome funzionerà? E chi garantisce che il fisco non si presenti con un conto diversoe che il contribuente sia chiamato a dimostrare quanto pagava l’anno prima diIrpef?

I piani bassi

Anche al secondo piano, dove insieme al primo si affolla l’80 per cento dellefamiglie italiane, cioè il grosso del ceto medio basso della Penisola, non c’èda stare allegri. Due coniugi che guadagnano 25 mila euro annui lordi ciascuno,dunque con un reddito familiare di 50 mila euro, rientrano nell’aliquota del 15per cento. Con le deduzioni abbattono l’imponibile e alla fine risparmiano,rispetto ad oggi, 469 euro, con un guadagno sull’attuale reddito nettofamiliare di appena l’1 per cento.

I piani alti
Quando si arriva con l’ascensore fiscale al terzo piano della palazzina sicomincia a scorgere qualche sorriso. Lì i due partner che guadagnano 40 milaeuro ciascuno, e dunque hanno un imponibile familiare di 80 mila euro,pagheranno il 15 per cento ma risparmieranno 8.744 euro d’imposta e il lororeddito familiare aumenterà del 15 per cento. Al quarto piano, dove entrano 110mila euro si stappano bottiglie di pregio: 15.866 euro di tasse in meno, parial 21 per cento di aumento del reddito. Al quinto piano non si stappa perchémagari è meglio non farsi sentire dai vicini: in casa entrano già 300 mila euroe il taglio delle tasse sarà, con il progetto gialloverde, quasi del 40 percento. Euro più, euro meno, in casa ne arriveranno quasi 68 mila in più.

I costi

E’ l’aspetto più dolente, anche per i patiti della flat tax: ci vogliono 50miliardi per applicare la flat tax in Italia- ndr].

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Il manifesto

Questa volta la lotta contro lo sfruttamento non coinvolge solo gli sfruttati nell'area "bianca" dei paesi del benessere, ma chiama alla ribalta anche la più ampia umanità delle regioni, saccheggiate dai colonialismi vecchi e nuovi. É un altro passo verso la comprensione del fatto che i diversi sfruttamenti in atto sono tutte le diverse facce del padre di tutti (o quasi) gli sfruttamenti sul terreno dell'economia: quello del capitalismo, che ha trasformato ogni cosa in merce (e.s.)

Il manifesto, 17 giugno 2018
In ventimila a Roma contro il governo: «Prima gli sfruttati»
di Roberto Ciccarelli

Il corteo. Corteo Usb per la «giustizia sociale». Abo Soumahoro: «La pacchia è finita per Salvini». Ricordato Soumaila Sacko ucciso in Calabria. In piazza, tra gli altri, Potere al Popolo, Eurostop, Rifondazione Comunista. A Padova manifestazione Adl Cobas».

In ventimila hanno partecipato alla manifestazione indetta a Roma dall’Unione Sindacale di Base (Usb) dedicata a Soumaila Sacko, il bracciante maliano e sindacalista Usb ucciso nella piana di Gioia Tauro mentre raccoglieva delle lamiere per costruirsi una baracca nel campo di San Ferdinando. «Prima gli sfruttati» era lo slogan, stampato sullo striscione d’apertura disegnato da Zerocalcare, è la citazione rovesciata della parola d’ordine razzista «prima gli italiani» usato come passepartout della politica pentaleghista al governo.

In negativo, lo sfruttamento restituisce un’unità che va oltre le appartenenze nazionali. Contiene l’elemento unificante in cui possono riconoscersi italiani e stranieri che rivendicano tutele e diritti per tutti: la solidarietà internazionalista e la condivisione della stessa condizione sociale. È il controcanto alla contrapposizione artificiale tra immigrati e autoctoni, intensificata dalla propaganda e dagli urlatori da social media. È un buon segno perché chiarisce l’equivoco di fondo grazie al quale il potere mantiene intatte le diseguaglianze e le accresce.

Il ragionamento è sofisticato, considerata la polarizzazione del dibattito esistente, manel corteo di ieri era onnipresente. È stato sottolineato nei comizi finali in piazza San Giovanni e negli slogan urlati nei megafoni da uomini statuari e orgogliosi arrivati dal Mali o dalla Costa d’Avorio che lavorano a 1,5 euro al giorno nelle campagne pugliesi o calabresi. Parole ripetute come un mantra che mette i brividi: «No razzismo»; «Tocca uno, tocca tutti», «Schiavi mai». In mano, insieme a folte bandiere Usb, questi lavoratori reggevano cartelli con queste scritte: «Reddito di base incondizionato», «No lavoro gratuito», «No Jobs Act, No Fornero». Emidia Papi, sindacalista Usb ha ricordato che il problema dello sfruttamento in agricoltura riguarda anche i lavoratori italiani e il caso di Paola Clemente, morta di fatica nei campi di Andria. «Il problema della grande distribuzione, che fissa prezzi sempre più bassi per i prodotti è alla base dello sfruttamento».

Un’onda di entusiasmo è stata prodotta dall’intervento di Aboubakar Soumahoro, dirigente Usb, in piazza San Giovanni. Concreto e colto, acuminato e combattivo, il sindacalista italo-ivoriano di 38 anni ha declinato con eloquenza le linee di un pensiero politico che supera i confini delle identità politiche acquisite, ma che ancora si esita a declinare in una politica comune. Il concetto ricorrente nel ragionamento è stato la «giustizia sociale», un appello alla solidarietà contro la guerra tra poveri. «La solidarietà non è buonismo – ha detto Abo – ma è uno strumento di costruzione che mette insieme ciò che stanno dividendo: bianchi contro neri, etero contro gay e lesbiche. Un bracciante deve invece camminare gomito a gomito con un rider, i precari e tutti gli invisibili». Il riferimento è all’elaborazione critica dell’eredità subita del «colonialismo» e dello «schiavismo», ma non contrapposta all’identità sessuale. Questo è un ragionamento sulla composizione sociale di una forza lavoro che intreccia molteplici identità e non contrappone, come avviene anche a «sinistra», diritti civili e diritti sociali.

Il riferimento al «meticciato» nei discorsi in piazza, è un veicolo di una politica intesa come coalizione tra istanze molteplici: «Noi riteniamo che non esiste giustizia sociale senza anti-sessismo, anti-razzismo e anti-fascismo – ha aggiunto Abo – La solidarietà è la carne viva della nostra società e guarda ai bisogni comuni e connette le istanze materiali: come uguale lavoro e uguale salario. Noi partiamo da qui». Soumahoro ha inoltre decostruito l’imbroglio linguistico di chi usa la grammatica dei diritti per contrapporre gli oppressi. E ha denunciato il «linguaggio barbaro e incendiario di chi ritiene che si può parlare di diritti senza argomentarli con la giustizia sociale». «Altro che taxi del mare – ha aggiunto – siamo di fronte alla banalizzazione dei concetti della solidarietà». «Non possiamo solo difenderci, noi dobbiamo andare all’attacco. Diciamo a Salvini che la pacchia è finita per lui, noi vogliamo giustizia».

Insieme al corteo «contro il razzismo istituzionale di Salvini & Co.», indetto a Padova da Adl Cobas con associazioni, sindacati (Cub Poste e Cobas Scuola), centri sociali (Pedro) e partiti (Coalizione civica), quello di ieri a Roma è stato «il biglietto da visita» per l’autunno di un’opposizione embrionale. In attesa di sviluppi, si spera larghi, la tragedia di un sindacalista maliano ha mobilitato realtà in lotta nella logistica, nelle campagne e per il diritto alla casa.

Sono i soggetti oggi nel mirino del «contratto di governo» fuori e dentro i confini. «Sono 20 anni che ci stanno abituando alla guerra tra poveri: ora dicono che se fermano un barcone avremo una casa e il lavoro. È una falsità ignobile, la respingiamo» sostiene Giorgio Cremaschi (Eurostop). «Con la Flat Tax il governo toglierà soldi dalle tasche dei lavoratori – ha aggiunto Viola Carofalo (Potere al Popolo) – Il problema non sono i migranti o gli occupati di casa. Ci vuole lavoro sicuro e redistribuzione delle ricchezze». «Il razzismo e la xenofobia di Salvini è un prezzo che non dobbiamo pagare, rischiamo di essere ricordati per avere abbandonato centinaia di migliaia di persone» sostiene Eleonora Forenza (europarlamentare di Rifondazione).

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Adn Kronos, 17 giugno 2018. I nostri governanti non si segnalano solo per mancanza di umanità, ma anche per l'ipocrita arroganza con la quale capovolgono la realtà. Ma c'è chi, dall'Italia, ristabilisce la verità. Con commento (e.s.)

Il nostro ministro degli interni Matteo Salvini ha fatto e sta facendo fuoco e fiamme per chiudere i porti, perseguitare le Ong che salvano i fuggiaschi migranti, ricacciare questi ultimi nei paesi che l'Europa ha distrutto e dai quali tentano di fuggire. La presidente di Medici senza Frontiere Italia dichiara che «il governo italiano e altri governi europei hanno vergognosamente fallito nelle loro responsabilità umanitarie e anteposto la politica alla vita di persone vulnerabili». Eppure il nostro Salvini ha l'incredibile faccia tosta da trasformarsi - per il grosso pubblico, - da orco quale è in fatina azzurra (e.s)

ADN Kronos, 17 giugno 2018 Medici senza frontiere: «Salvini, non c'è proprio nulla da festeggiare»
«Mentre la Lega e i 5Stelle esultano, su Adn Kronos il comunicato di MsF Italia: Msf Italia: "Non c'è niente da festeggiare"»

Anche se siamo sollevati per la fine di questo inutile viaggio, oggi non c'è proprio niente da festeggiare. Ci auguriamo che sia la prima e ultima volta che persone soccorse in mare, sopravvissute all’attraversamento del deserto e ad orribili violenze in Libia, si trasformino in moneta di scambio per un gioco politico tra stati europei”. A dichiararlo Claudia Lodesani, presidente di Medici Senza Frontiere Italia.

“Arrivare a Valencia - continua la presidente di Msf - è stato inutile e disumano. Finché ci sarà un bisogno umanitario nel Mediterraneo, noi continueremo ad operare sotto il coordinamento della Guardia Costiera italiana, come abbiamo sempre fatto. Al tempo stesso ci auguriamo che in Europa finisca il tempo delle ipocrisie e dell'inumanità, auspicio condiviso dai tantissimi partecipanti che hanno animato le numerose manifestazioni di solidarietà in tutta Italia di questi giorni”.
In vista della riunione del Consiglio europeo della prossima settimana, Msf chiede ai governi europei di "mettere al primo posto la vita delle persone". Devono "facilitare lo sbarco rapido nei porti sicuri più vicini in Europa", dove le persone soccorse devono poter ricevere cure adeguate, devono "garantire a coloro che necessitano di protezione internazionale di essere in grado di richiedere asilo o altre forme di protezione". I governi europei "non devono ostacolare le operazioni di ricerca e soccorso in mare delle organizzazioni non governative" e devono "istituire un meccanismo proattivo e dedicato di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale".

Inoltre per Karline Kleijer, responsabile per le emergenze di Msf, “gli uomini, le donne e i bambini a bordo dell'Aquarius sono fuggiti da conflitti e povertà e sono sopravvissuti ad orribili abusi in Libia. Sono stati trasferiti da una barca all'altra come merci e hanno dovuto sopportare un inutile e lungo viaggio in mare”. Ecco perché, aggiunge, "siamo grati alla Spagna per essere intervenuta, anche se il governo italiano e altri governi europei hanno vergognosamente fallito nelle loro responsabilità umanitarie e anteposto la politica alla vita di persone vulnerabili”

Ho ascoltato un'intervista rilasciata dal leader del M5S, Luigi Di Maio, a proposito dei porti da chiudere e dei migranti da respingere. Orribile: ecco perché Di Maio e Salvini sono due facce della stessa medaglia

Mi vergogno d’essere italiano. Ho ascoltato ieri l’intervista rilasciata da Luigi Di Maio a proposito della chiusura dei porti, e mi sono vergognato anche di essere, come lui, napoletano. Ma l’orrore di quella intervista mi è stato utile perché mi ha fatto capire una cosa: Di Maio e Salvini non sono due facce distinte e diverse della destra: sono le due facce della stessa medaglia, non so quale delle due sia la più disgustosa.

Non ha senso, quindi, guardare con occhio diverso il Movimento 5 stelle e la Lega, sostenendo che il primo è un aggregato di persone diversamente orientate, riunite solo dalla volontà di “superare” la Prima Repubblica.

Ciò che mi ha particolarmente colpito non è che i due energumeni avessero una visione simile della questione dei migranti. Sono tanti, ancora, quelli che non hanno compreso che l’esodo dalle regioni, che l’Europa ha sfruttato fino allo sfinimento, è inarrestabile. E ci sono tantissime altre persone, nell’Italia e nell’Europa di oggi, che covano nelle loro viscere profondi rigurgiti di razzismo sciovinista e nazista: Hitler ha seminato largo, e il terreno fertilizzato dal capitalismo era pronto a trasformare i semi in randelli da usare contro i diversi. Ha ragione Bertold Brecht, è cominciato con gli zingari[1] e prosegue senza tregua.

Mi ha indignato particolarmente la proposta, supinamente accettata da troppi, che sia possibile rovesciare il segno che distingue quelle singolarissime strutture della nostra civiltà che sono i porti. Ho imparato che la vera, profonda ricchezza della civiltà umana è nella concreta possibilità di incontrare, conoscere, esplorare le mille diversità che caratterizzano le diverse storie, costumi, credenze, saperi che contrassegnano le numerose etnie, patrie, città, lingue, culture che rendono ogni luogo e ogni persona diversi tra loro. E se separare gli uni dagli altri dignifica renderli sterili, la loro colloquiale diversità diventa invece un patrimonio di tutti.

Soprattutto nell’area geografica alla quale apparteniamo i porti sono sempre stati, al tempo stesso, il simbolo e la struttura dedicata all’incontro e allo scambio, quindi lo strumento per la crescita comune della comune civiltà. E chiudere i porti è una decisione molto vicina a quella di imporre una vasectomia generalizzata a tutti i maschi della razza umana.

[1] «Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c'era rimasto nessuno a protestare».

Avvenire, 15 giugno 2018. Mentre i disperati sfuggono dall'inferno
(e.s.)

La realtà della cronaca quotidiana supera le analisi più crude e veritiere del comportamento dell'Europa e dei suoi governanti, ma non sembra provocare nessun soprassalto nell'atteggiamento dalla maggioranza dei media, nè in quella dei cittadini. Un manto d'ipocrisia e un furbesco capovolgimento dei fatti tentano di celare l'abisso nel quale la "nostra" parte del mondo è caduta. La denuncia pubblicata dal giornale dei vescovi italiani è un efficace contrappunto di quello di Franco Berardi Bifo, L'effetto Italia e la fine dell'Occidente, che abbiamo ripreso ieri(e.s.)

Avvenire, 15 giugno 2018 L'avvilente «ruota della fortuna». La sofferenza di chi migra e le realtà capovolte
di Angelo Scelzo

L’ultimo affronto al popolo dei naufraghi è ormai questo. Anche i “salvagenti” possono servire a poco, se insieme non si pesca il jolly della combinazione giusta, un avvilente e angoscioso “filotto” che, tra caso e fortuna, schiera la serie degli elementi in gioco: l’imbarcazione di soccorso – se “privata” o “militare” – il Paese d’origine e soprattutto il porto d’approdo, nel quale il via libera è regolato dal semaforo impazzito di governi che, da un giorno all’altro, cambiano di segno, se non proprio di natura. Ai migranti dell’Aquarius saranno forse sfuggiti gli sviluppi delle situazioni politiche in Italia e in Spagna, e neppure avranno prestato molta attenzione al repentino cambio di scena avvenuto sui due rispettivi fronti, con i porti italiani già divenuti poco a poco più lontani improvvisamente chiusi e quelli iberici diventati a un tratto più accoglienti.

E per sovrappiù ci sono i francesi: erano arrivati a respingere in malo modo donne incinte alle frontiere e ora si sono riscoperti polemicamente solleciti e solidali... Una realtà capovolta, e nel giro di poche settimane. Non solo parole, ma regole cambiate sul campo, nel giro di poche ore. Come quella della netta differenziazione tra salvataggi operati da Guardia costiera italiana e altri navi militari e quelli effettuati, in lealissima e legalissima collaborazione con la stessa Guardia costiera, da imbarcazioni di Organizzazioni non governative (di tredici che erano, ora ne è rimasta una sola nelle vaste acque del Canale di Sicilia, e messa in condizione di non soccorrere). Queste ultime confinate senza scampo nell’orbita dei sospetti.

È probabile che anche di questa diffidenza, chi viene a trovarsi nella disperata ricerca di salvezza, non sia al corrente, e finisca per non riflettere sul fatto che una nave non vale l’altra, come pure un Paese non vale l’altro, e infine - quel che più conta - un porto può essere alla fine non uguale all’altro. La differenza può risultare infatti fondamentale: si può trattare - e d’ora in poi, in Italia sarà così - di un porto chiuso, quasi un ossimoro pensando al senso dell’approdo.

È difficile aggiungere anche solo un’oncia di oltraggio, all’odissea di chi, per mare o per terra, va in cerca di salvezza o di patria in un mondo scosso dalle ondate telluriche di un caotico cambio d’epoca. Ma l’indecenza di questa sorta di “ruota della fortuna” da “giocarsi” in mezzo al mare, è grande. Grande e insopportabile, perché è certo la peggiore e la più odiosa delle derive di una tragedia di fronte alla quale sarebbero le “politiche” a doversi inchinare, evitando l’incongruo rifugio nell’ipocrisia e nella meschinità delle regole cieche e sorde.

Come può sfuggire l’enormità del divario tra le tragedie in atto e la pochezza delle regole vigenti? Prima delle regole viene infatti una scelta di campo; più forte e più efficace delle norme è l’attitudine, l’atteggiamento, un «sì» o un «no» all’accoglienza del povero e del perseguitato, alla capacità di vedere, finanche nelle visioni offuscate del momento, i lineamenti di un mondo come casa comune della famiglia umana.

Quello a cui si assiste è per il momento solo un gigantesco e misero spot all’industria dello scarto, più volte evocata da papa Francesco. Per la natura e gli elementi in campo, siamo anzi di fronte alla sua massima rappresentazione: lo sprezzo e la noncuranza della vita umana, trattata come la variabile indipendente di un 'fenomeno' da contrastare e sconfiggere con ogni mezzo. La fortuna o il caso potranno assistere perfino l’una o l’altra imbarcazione con il carico di persone – uomini, donne, bambini a bordo. Si potrà essere salvati dall’equipaggio sbagliato. E nel posto sbagliato.

All’Aquarius, finita anche in mezzo alla bufera politica e alle tempeste marine nel lungo tratto tra Italia e Spagna, è toccata una sorte inedita: accompagnata e scortata fino al porto di Valencia da due navi della Marina italiana. Come dire: ponti d’oro ai fuggitivi. E salva, così, la politica della fermezza, la “voce alzata” che “paga”. Passano i giorni, ma ancora non paga il senso di scoramento e di sconfitta che si accompagna a tutto questo.

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Qui il link al testo integrale del discorso di papa Francesco

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