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Un'analisi acuta del cuore del renzismo. «Meno attenzione per Parigi e le periferie europee e più legami con la City di Londra. Il sostegno dall'alto di un blocco di interessi che va dalla rendita finanziaria e immobiliare alla Confindustria fino alle piccole imprese con l'acqua alla gola». Sbilanciamoci.info, 24 febbraio 2014

Per capire la politica economica del nuovo governo di Matteo Renzi si è tentati di partire dalla sua intervista al “Foglio” dell’8 giugno 2012: “Dimostreremo che non è vero che l’Italia e l’Europa sono state distrutte dal liberismo ma che al contrario il liberismo è un concetto di sinistra, e che le idee degli Zingales, degli Ichino e dei Blair non possono essere dei tratti marginali dell’identità del nostro partito, ma ne devono essere il cuore” (www.ilfoglio.it/soloqui/13721). L’economista della Chicago School Luigi Zingales è ora vicino agli ultrà liberisti di “Fermare il declino”, Pietro Ichino è senatore di Scelta Civica e Tony Blair consiglia i governi di Albania, Kazakistan, Colombia.

Il quadro, tuttavia, è molto più complicato. L’orizzonte economico del Renzismo ha quattro punti cardinali. Il primo è l’ancoraggio internazionale. Matteo Renzi è il primo leader politico italiano con un rapporto prioritario con la finanza internazionale, attraverso il finanziere di Algebris Davide Serra, suo stretto consigliere. La capitale della finanza che ci riguarda è la City di Londra, che si avvia a contare più di Berlino, dove Merkel già rimpiange Enrico Letta. Bruxelles resta un passaggio obbligato, ma possiamo aspettarci un Matteo Renzi meno integrato nella faticosa costruzione istituzionale dell’Unione, pronto a smontarne qualche pezzo e a muoversi con le mani più libere, come spiega qui accanto l’articolo di Anna Maria Merlo. Nessuna attenzione – si direbbe – invece per Parigi e le periferie dell’Europa, dove Roma potrebbe diventare un importante “contrappeso” rispetto a Berlino. La regola numero uno della finanza è che il cartello lo fanno i creditori, tutti insieme contro chi è in debito, preso da solo. Guai ai debitori che osassero coalizzarsi, e il governo Renzi – come quelli che l’hanno preceduto – riconosce che i poteri della finanza hanno la precedenza sugli interessi materiali del paese più indebitato d’Europa, il nostro.

Il secondo punto cardinale del Renzismo è il sostegno interno – “dall’alto” – da parte del blocco d’interessi che lo sostiene. Rendita finanziaria e immobiliare, le grandi imprese protette dallo stato – dalle banche a Mediaset, dall’energia alle telecomunicazioni –, Confindustria e le piccole imprese con l’acqua alla gola, scivolando nel ceto medio impoverito, che teme di perdere quel poco che ha, più di quanto immagini di poter ottenere in più da lavoro, conoscenza, investimenti. Resta da vedere come si collocheranno gli interessi che, soprattutto nel Mezzogiorno, sconfinano con l’economia criminale. Il Renzismo eredita così buona parte del blocco d’interessi che erano stati garantiti dal Berlusconismo, e ne raccoglie la bandiera unificante dell’ostilità alla tassazione dei patrimoni. Ma nel Renzismo c’è qualcosa di più, il rinnovamento della seduzione imprenditoriale esposta alla Leopolda, da Eataly alla moda, un’“economia dell’offerta” fatta in casa che promette protagonismo a giovani e nuove imprese, temi del primo Berlusconi poi sotterrati da decenni di scandali e manovre di potere.

Il terzo punto cardinale è il suo radicamento “dal basso”. Può questo blocco d’interessi rinnovare l’egemonia, trasformarsi in un blocco sociale che alimenti il consenso al Renzismo? È questo il compito più difficile. Un italiano su sei è oggi senza lavoro, tra chi lavora uno su quattro è precario, l’industria ha perso un quarto della produzione rispetto a prima della crisi, la povertà dilaga. L’agenda economica di Renzi garantisce il dieci per cento più ricco del paese, che possiede quasi metà della ricchezza. Come si può convincere almeno un quarto di italiani impoveriti che ciò che fa bene ad Alain Elkann fa bene anche a loro? Qui non c’è nulla da inventare, è un gioco riuscito a Ronald Reagan 35 anni fa e che ha funzionato abbastanza bene in tutto l’occidente (e oltre), Berlusconismo compreso. Si smontano le identità e gli interessi collettivi – comunità locali, reti di solidarietà, sindacati – e si spiega a tutti che siamo individui che dobbiamo cogliere le opportunità offerte dai mercati globali, siano queste le speculazioni sui derivati o l’emigrazione per fare pizze a Berlino. Lo stato e le sue tasse sono il nemico principale che abbiamo tutti in comune. Se le opportunità si rivelano illusioni – come succede in Italia da vent’anni – sarà soltanto colpa nostra. La politica non ha più la responsabilità di garantire sviluppo, diritti, uguaglianza.

Il quarto punto cardinale è il più efficace: il populismo. Finora c’è stata la “rottamazione” della vecchia politica, ora verranno nuove disinvolte operazioni per impaurire e convincere i perdenti che potrebbero perdere molto di più. Giovani precari a cui distribuire qualche briciola contro vecchi “garantiti” a cui togliere diritti. L’efficienza del privato contro la burocrazia pubblica che blocca il paese. E, naturalmente, gli italiani da tutelare contro gli immigrati. La politica e l’economia sono trasformate in caricature buone per la dichiarazione del giorno in tv. Gli argomenti possono rovesciarsi da un giorno all’altro, retorica e contenuti sono dissociati, accordi e alleanze sono guidate dall’opportunismo.

Con una bussola di questo tipo il Renzismo non ha nulla in comune con la tradizione socialdemocratica e l’esperienza delle coalizioni di centro-sinistra. Margaret Thatcher pensava che il suo risultato politico più importante fosse proprio la nascita del New Labour di Blair, costretto a “trascinarsi nel mondo moderno”, a sostenere “il mercato, le privatizzazioni, la riforma delle leggi sul lavoro e meno tasse su individui e imprese”. Silvio Berlusconi – e il fantasma della Lady di ferro – potrebbero presto dire lo stesso di Matteo Renzi.

La Repubblica, 24 febbraio 2014

Il primo, sessantenne, ha percorso tutte le tappe del cursus honorum dei politici francesi. Brillante negli studi, accede a una carica di alto funzionario e nel 1979 aderisce al partito socialista di François Mitterrand, che servirà fedelmente. Primo segretario del Ps dal 1997 al 2008, François Hollande è un uomo di partito a tutto tondo. Per restare alla guida del Ps ha realizzato di volta in volta sintesi morbide tra le varie correnti. Condizionato com’era dalle molteplici contraddizioni politiche e ideologiche della sinistra francese, ha dovuto attendere il gennaio scorso — un periodo di crescente impopolarità della sua figura e di degrado della situazione economica e sociale in Francia — per esprimere con chiarezza i propri convincimenti social-liberali. Questo professionista della politica, che ha profonde radici nel suo dipartimento, conosce perfettamente i leader e gli eletti dei partiti e sa tutto dei meccanismi e degli arcani della vita politica. Aveva incentrato la sua campagna sul tema del “presidente normale” proprio quando la congiuntura mondiale, europea e francese erano lontanissime dalla normalità, e le istituzioni della V Repubblica avrebbero avuto bisogno di una personalità forte per poter funzionare al meglio. Poco carismatico, legato alla cultura dell’uguaglianza, François Hollande non è a suo agio nella comunicazione moderna; preferisce le riunioni vecchio stile o i dibattiti con un avversario, nei quali brilla per eloquenza e presenza di spirito e per l’efficacia delle sue battute. Intelligente, molto preparato, scaltro, smaliziato, sa essere duro quando serve. Vero artista della tattica, Hollande simboleggia la figura del politico tradizionale di sinistra persino nell’ineleganza dei suoi completi di taglio scadente, con la cravatta perennemente di traverso.

Matteo Renzi è l’esatto opposto, e proprio per questo affascina e intriga, in Italia come all’estero. Con i suoi trentotto anni, gioca la carta del cambiamento generazionale. È riuscito a presentarsi come l’uomo nuovo, pur essendo entrato in politica appena ventunenne, in seno al Ppi e nei comitati di sostegno a Romano Prodi. Per lui il partito è solo un mezzo, che ha dovuto innanzitutto neutralizzare per strumentalizzarlo d’ora in poi al servizio della sua persona e del suo progetto. Vero animale politico, è in sintonia con le attese di molti italiani, e risponde perfettamente al loro bisogno di un uomo nuovo. La profusione dei qualificativim cui ricorrono giornalisti e analisti per tentare di definirlo dà la misura dell’originalità che rappresenta: “erede a sinistra di Berlusconi”, “leader postberlusconiano”, “post-ideologico”, “anti-politico”, “populista”, “outsider” — e l’elenco non finisce qui. Ma si è anche dimostrato un “killer” — avendo cacciato dal Partito democratico gran parte della vecchia guardia — e un abile manovratore: di fatto non ha esitato a fare il contrario di quanto aveva annunciato in relazione al governo di Enrico Letta, ricorrendo a procedimenti degni del costume di quella prima Repubblica che si compiace di aver conosciuto solo indirettamente. Virtuoso della comunicazione e dei media, appare a suo agio sia in tv che sui social network o nei suoi show all’americana. Ha cura della sua immagine disinvolta, usando e abusando del linguaggio dei giovani; ai completi classici preferisce jeans e giubbotti. Il vasto programma di riforme che annuncia a gran voce stravolge i canoni della sinistra classica — ad esempio sulla questione del mercato del lavoro. Matteo Renzi incarna un centro-sinistra disinibito, pragmatico, innovativo, e rivendica senza turbamenti il primato del leader.

Il paradosso sta nel fatto che al di là delle differenze personali e delle diverse caratteristiche dei rispettivi Paesi, Hollande e Renzi devono fare i conti con sfide analoghe: le tre sfide che ogni formazione di sinistra si trova ad affrontare quando va al potere. Innanzitutto, come governare, soprattutto quando si è privi di esperienza in materia, e sempre esposti al sospetto di scarsa competenza? È la grande domanda che si pone Matteo Renzi; la stessa — tuttora irrisolta — posta anche nel caso di François Hollande, che al pari del suo primo ministro, e nonostante la sua lunga carriera, non era mai stato investito di responsabilità a livello nazionale. In secondo luogo, quale politica adottare? Matteo Renzi e il François Hollande del 2014 sono assai vicini tra loro, sia sui temi economici e sociali che su talune riforme della società. Ma come promulgarle, con quali procedimenti e mezzi d’azione, in funzione di quale narrativa? E infine, come dare nuovo slancio all’Europa in crisi di ispirazione?

Quale dei due — la volpe francese o il giovane lupo italiano — sarà in grado di raccogliere queste sfide nel modo più efficace? L’Italia, la Francia e tutta la sinistra europea sono in attesa, con un misto di ansia e speranza.

Traduzione di Elisabetta Horvat

Un commercialista all'Ambiente, favorevole al nucleare. Una tenace sostenitrice degli F35 alla Difesa, il solito Maurizio Lupi alle infrastrutture, una nuclearista esponente diretta del Caimano allo Eviluppo economico. E poi..e poi...e poi...Siamo proprio ben messi.

Greenreport, 24 febbraio 2014

Non è competente in materia; nelle rare occasioni in cui se ne è occupato lo ha fatto per schierarsi a favore del nucleare; la sua nomina è molto più degna del manuale Cencelli della primissima repubblica che del rottamatore della seconda; però è una brava persona. Di chi stiamo parlando? Ma del neo ministro all’Ambiente Gianluca Galletti, naturalmente, e di come i lettori di greenreport hanno interpretato la sua nomina. Una notizia che in migliaia hanno voluto approfondire proprio sul nostro giornale, che abbiamo avuto se non altro il merito di metterla in evidenza.

Sì, in evidenza, perché in pochi lo hanno fatto, andando forse dietro all’idea – che dimostra di avere lo stesso Renzi – che il ministero dell’Ambiente non conti niente: una roba che si deve mettere perché ce l’ha tutta l’Europa ma che può essere lasciato alla fine, come casella da riempire per soddisfare questo o quel partitino post-democristiano. E può darsi pure che sia così, di certo non lo è per noi che lo avremmo sacrificato per un ministero dello Sviluppo sostenibile, ma che in mancanza di quest’ultimo lo riteniamo ancora fondamentale. Per questo la scelta di Galletti appare inadeguata, perché se non si voleva confermare Orlando – che nonostante l’incompetenza iniziale almeno si era fatto ben guidare – c’erano personalità con bel altro pedigree. Facile dire Ermete Realacci [mah...n.d.r], ma non era il solo.

Invece si è preferito pescare una brava persona – ci mancava pure fosse cattiva – dell’Udc, un partito di cui non si sentiva nemmeno più parlare (e non se ne sentiva nemmeno la mancanza) recintato attorno a quel nulla ben vestito di Pierferdinando Casini. La domanda che ingenuamente ci facciamo è semplice: perché? Se la risposta è che è il gioco della politica, per noi è solo la conferma di ciò che pensiamo della spregiudicatezza esibita e rivendicata da Renzi. Se è perché l’idea – per certi versi assolutamente giusta – di sburocratizzare il Paese si vuol far passare da uno yes man al ministero dell’Ambiente, allora c’è anche da preoccuparsi maggiormente. Tertium non datur, ma qualora ci fosse un altro motivo, speriamo ovviamente che sia qualcosa di sorprendentemente positivo e di ambientalmente sostenibile.

Un commercialista all’Ambiente, come la giri la giri, suona assai male anche se un vecchio film ci ricorda che pure loro “hanno un’anima” (con tutto il rispetto per i nostri e gli altrui commercialisti). Speriamo che sia un’anima verde, ma di certo sembra uno mandato lì a fare i conti con quel pochissimo che di solito viene dato al ministero più subissato di tagli della storia italiana.

Poco dopo il suo insediamento Galletti ha detto comunque che «in Italia abbiamo un problema idrogeologico che si perpetua da anni: ritengo che i primi provvedimenti debbano riguardare questo tema», e sarebbe un bell’inizio. Ma facciamo fede a quanto ha detto Renzi, ovvero che questo governo non è quello degli spot, e quindi aspettiamo i fatti, che nel caso significano un piano nazionale e una dote di euro assai pingue. Diversamente saranno pure queste chiacchiere e allora – chiacchiere per chiacchiere – dovremmo tener di conto che il 9 gennaio, lo stesso neo ministro, scrisse perentorio sul suo profilo Twitter che “Se matteorenzi decide di mandare a casa il governo si assume la responsabilità di far tornare il Paese nel caos”. Certo, in quanto a coerenza fa il paio con i tweet di Renzi sul non volere la poltrona di Letta, e malignamente si potrebbe pensare che è su questo modus operandi che si sono trovati.

Sembra di essere dentro ad Alice nel (bel)paese delle meraviglie che ci ricorda come «se io avessi un mondo come piace a me», e forse come piace a Renzi, «là tutto sarebbe assurdo: niente sarebbe com’è, perché tutto sarebbe come non è, e viceversa! Ciò che è non sarebbe, e ciò che non è sarebbe!». Ma purtroppo, come abbiamo già detto, non siamo nelle condizioni, oppure siamo nelle tragiche condizioni, di non potersi di certo augurare che fallisca anche il governo Renzi delle inopinate larghe intese, compresi i ministri dell’Ambiente e dello Sviluppo economico nuclearisti. Perché appare sempre più come il jolly del mazzo, uscito però per ultimo… e quindi come estrema chance. Dunque non tagliamogli la testa. Ma che fatica essere italiani, ambientalisti poi non ne parliamo.

la Repubblica, 24 febbraio 2014) offrono elementi interessanti, in relazione ad aspetti della crisi che attraversiamo: ambiente, lavoro, welfare, trasformazione dei beni in merci.

In quei numeri tutti i ritardi del nostro paese.
di Chiara Saraceno

Insieme all’ambiente e al capitale fisico, il capitale umano rappresenta il patrimonio di una nazione. Ed ecco perché l’investimento in capitale umano è diventata la parola d’ordine delle politiche sociali europee (ancorché non con la stessa forza e cogenza del pareggio di bilancio). Parallelamente, il concetto di capitale umano e la sua stessa misurazione si sono affinati, superando una visione strettamente economicistica.

I risultati della misurazione fatta dall’Istat sul capitale umano degli italiani sono a prima vista sconcertanti. Se si tiene conto solo del potenziale di reddito, il capitale umano delle donne vale molto meno di quello degli uomini: 231mila euro contro 453mila. Il gap si chiude quasi del tutto solo se si tiene conto delle attività non di mercato. Il valore di questa attività è stimato in 431 mila euro per le donne, 384 mila per gli uomini. La differenza è dovuta principalmente al fatto che le donne svolgono la gran parte del lavoro famigliare, ovvero il lavoro a favore dei membri della famiglia, uomini adulti inclusi. Significa che le donne hanno meno capacità degli uomini e quindi non vale la pena di investire nel capitale umano delle donne, specie nelle dimensioni più rilevanti per la partecipazione al mercato del lavoro (istruzione, servizi)?

Al contrario. Il basso valore di mercato del capitale umano femminile deriva da due fattori molto italiani, che contribuiscono a comprimere il potenziale complessivo del capitale umano italiano. Il primo è il più basso tasso di occupazione femminile, dovuto anche al carico di lavoro famigliare. Il secondo è la minore valorizzazione, a parità di competenze, delle donne che stanno nel mercato del lavoro. In altri termini, in Italia si spreca allegramente una grossa fetta del capitale umano teoricamente disponibile. Allo stesso tempo, le donne contribuiscono parecchio, a titolo gratuito, al benessere complessivo.

Vi è un secondo risultato sconcertante dell’esercizio effettuato dall’Istat. I giovani sono teoricamente portatori di un capitale umano più consistente di chi è più anziano. Non solo, infatti, sono mediamente più istruiti, ma hanno una vita (di lavoro nel mercato) davanti a sé più lunga. Il reddito da loro generato nel corso della vita è stimato in oltre 556 mila euro, contro i 293 mila euro dei lavoratori nella classe centrale (35-54anni) e ai soli 46 mila euro dei lavoratori tra 55 e 64 anni. Questa stima teorica, tuttavia, come segnala anche l’Istat, non tiene conto della crescente e prolungata disoccupazione giovanile, specie negli anni successivi al 2008. La disoccupazione non solo accorcia la durata del tempo in cui si può mettere a frutto il proprio capitale umano, ma rischia di depauperarlo, invece di farlo ulteriormente sviluppare. Anche nel caso dei giovani, quindi, l’Italia sta minando alle basi la propria ricchezza. Per questo si colloca ultima, per valore del capitale umano, nel gruppo di paesi Ocse che hanno fatto lo stesso esercizio: Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Francia e Spagna.

Anche senza farne un caso di equità e democrazia, questi due dati dovrebbero indurre i politici italiani ed europei a fare in modo che le politiche di investimento e valorizzazione del capitale umano — istruzione, salute, strumenti di conciliazione tra famiglia e lavoro, di sostegno all’accesso alle risorse di valorizzazione delle capacità — sono altrettanto, se non più, importanti delle politiche di investimento nelle infrastrutture. Perciò devono rientrare a pieno titolo nelle negoziazioni sul patto di stabilità e il pareggio di bilancio.

Ricerca-shock sul capitale umano in Italia
“Una donna vale la metà di un uomo”
di Maria Novella De Luca

Il capitale umano di una donna è esattamente la metà di quello di un uomo. Tradotto in cifre: un maschio in termini economici ha una potenzialità produttiva nell’arco della vita stimata in 453mila euro, una femmina in 231mila euro. In Italia cioè ci vogliono due donne per creare il reddito di un uomo... E poi: il capitale umano di un over sessanta vale, soltanto, 46mila euro. Non importa quanta esperienza o saggezza abbia egli accumulato nella vita già vissuta, il suo futuro è dietro le spalle e quindi parlando di contributo al Pil del paese, è redditizio poco o nulla. Sono i dati, sorprendenti e amari, diffusi ieri dall’Istat che per la prima volta ha calcolato sulla base dei parametri Ocse, “l’ammontare” in euro degli italiani e delle italiane in quanto individui, arrivando a definire il nostro valore medio intorno ai 342mila euro. Mescolando una serie di parametri che sulla base del genere, dell’età, della preparazione scolastica e delle potenzialità professionali, indica il nostro capitale umano, che non è in questo caso una categoria morale, bensì un puro modellomatematico.

Alessandra Righi ricercatrice Istat, ha curato il volume “Il valore monetario dello stock di capitale umano”, promosso dall’Ocse. E spiega: «Sulla base di questi indicatori possiamo monetizzare le potenzialità di un individuo e quindi il suo impatto sul Pil. L’anomalia dell’Italia, che si colloca comunque in basso nella classifica mondiale, è la conferma della distanza profonda tra donne e uomini. Nella quale si manifesta tutto il dramma della disoccupazione femminile». Soltanto il 50% delle donne italiane infatti lavora, e quando anche ha un’occupazione, prosegue Righi, «il suo stipendio è inferiore a quello maschile».

Dunque nel computo del capitale umano il suo “peso” sarà di 231mila euro contro i 453mila del partner. Se invece a questo si sommasse il lavoro invisibile delle donne e cioè quello di cura, la famiglia, i figli, la casa, ecco che ai 231mila euro si dovrebbero aggiungere altri ben 431mila euro di attività domestiche. Il famoso e mai riconosciuto né monetizzato welfare familiare.

«Sono dati che mi indignano ma da studiosa non mi stupiscono», dice Daniela Del Boca, docente di Economia politica all’università di Torino. «Nel conteggio del capitale umano l’occupazione

femminile viene ulteriormente penalizzata dalla sottrazione dei periodi di maternità, dai congedi... Le donne subiscono poi una doppia discriminazione: non soltanto negli stipendi, ma anche in quella che si chiama discriminazione preventiva. Sapendo cioè di dover fare una scelta inconciliabile tra famiglia e occupazione, si autoescludono dal mercato. E tutto questo viene naturalmente calcolato nella potenzialità o meno di produrre reddito».

Per arrivare a quantificare in euro il capitale umano, l’Istat si è basato sulla capacità degli individui di generare reddito nell’arco della vita e il valore complessivo che ne viene fuori, riferito al 2008 (non esistono altri aggiornamenti), è di 13.475 miliardi di euro, pari a oltre otto volte e mezzo il Pil dello stesso anno. Una cifra che porta a 340 mila euro a testa il “prezzo” di un italiano medio. Interessante osservare come un giovane tra i 15 e i 34 anni, valga 556mila euro, visto il tempo e le energie che potrà mettere nel fabbricare ricchezza, contro i 139mila euro di una donna over sessanta. La quale comunque in questa età della vita produce assai più di un suo coetaneo maschio, che per le statistiche vale non più di 46mila euro. Tutto abbastanza gelido e terribile se ci si ferma riflettere. E infatti l’economista Del Boca invita a fare delle distinzioni. «Un conto è applicare modelli, e ipotizzare cifre. Altro è intendere il capitale umano come l’insieme anche non monetizzabile di ciò che si è, e di ciò che si è fatto nella vita». Perché infatti questa è un’altra storia.

Una domanda al giovane portavoce fiorentino del neocostituito governo Renzusconi: rinuncerete alle spese di guerra per dare agli italiani lavoro, salute, formazione, sicurezza sociale?

Sbilanciamoci.info, 21 febbraio 2014

721 milioni: è il costo dei contratti di acquisto per gli F-35 che l’Italia ha già sottoscritto tra il 2011 e il 2013. Ovvero nella fase più acuta della crisi, che ha provocato la chiusura di migliaia di piccole imprese, ha cancellato migliaia di posti di lavoro e in cui l’unica ricetta proposta è stata quella della spending review, i soldi per l’acquisto dei cacciabombardieri non sono stati toccati. Non si potevano finanziare i fondi sociali (il Fondo Nazionale per le politiche sociali tra il 2010 e il 2011 praticamente dimezzato con 218 milioni; azzerato nel 2011 il Fondo per la Non Autosufficienza e rifinanziato solo a partire dal 2013 con stanziamenti inadeguati); si doveva “fare cassa” congelando i salari dei dipendenti pubblici per un valore pari a 1 miliardo di euro (2011-2013); si doveva riformare il sistema pensionistico abbandonando a loro stessi i cosiddetti “esodati”; si doveva aumentare l’Iva dal 20% al 22%. Ma il programma di acquisto degli F-35, strumenti di guerra per altro parecchio difettosi, no, quello non si tocca.

In un nuovo dossier “La verità oltre l’opacità”, la campagna Taglia le ali alle armi, ha aggiornato i dati relativi ai costi del programma fornendo per la prima volta informazioni dettagliate sui contratti di acquisto stipulati: i 721 milioni di euro per la sottoscrizione dei contratti di acquisto si aggiungono agli oltre 2,7 miliardi spesi per lo sviluppo e per la costruzione dell’impianto FACO di Cameri). Con un costo medio unitario che tende a crescere nel corso del tempo e che ad oggi la campagna stima prudentemente in 135 milioni di euro.

L’impegno italiano attualmente previsto nel programma per l’acquisto di 8 F35 per il triennio 2014-2016 è pari a 1,950 milioni di euro: 540 milioni nel 2014, 660 milioni nel 2015 e 750 milioni nel 2016, in media 650 milioni l’anno.

Parallelamente, solo per fare un confronto esemplare, la Legge di stabilità 2014 ha previsto per gli anni 2015-2016 un taglio degli stanziamenti per il Servizio Sanitario Nazionale di 1 miliardo e 150 milioni di euro.

Il cittadino comune avrà meno letti a disposizione negli ospedali, dovrà pagare ticket più alti per accedere ai servizi sanitari, ma potrà sempre rifugiarsi sotto l’ala di un F35.

Forse tra qualche giorno si insedierà un nuovo governo. Molte le riforme annunciate.

Con i 650 milioni l’anno previsti per l’acquisto di strumenti di morte si potrebbero fare non tutte, ma almeno una delle cose che servirebbero per attutire gli effetti della crisi e che, ne siamo sicuri, sono quelle richieste da gran parte dei cittadini italiani: rinunciare ai tagli al Servizio Sanitario Nazionale, creare 26.000 posti di lavoro qualificati nel settore della ricerca, mettere in sicurezza circa 600 scuole, oppure costruire 1950 nuovi asili nido creando 17.500 posti di lavoro o ancora garantire il diritto all’abitare recuperando 16.250 alloggi di edilizia residenziale pubblica non agibile.

Il Presidente del Consiglio incaricato avrà il coraggio di prenderne atto inserendo nella sua agenda la cancellazione della partecipazione al programma F-35?

rugalità, Il Mulino pp. 144, euro 12) l'autore, con la sua consueta lucidità e chiarezza, aiuta a riflettere sulla natura di una parola che ha risvolti psicologici ed economici, ed è parente stretta di parole. Sarebbe utile, seguendo un analogo schema, interrogarsi su parole la cui deformazione ha assunto un ruolo centrale nel discorso politico attuale, come “austerità". La Repubblica, 21 febbraio 2014

Giulio Nascimbeni, sul Corriere della Sera dell’ 8 maggio 1994, raccontava di una crociata avviata dal mensile Il Migliore, diretto da Sergio Claudio Perroni. Si trattava di salvare parole «che rischiano di diventare arcaiche e quindi svanire». Una di queste parole era frugale, una parola con una lunga storia. Compare nella prima metà del Trecento in un testo di Giovanni Cassiano dove si parla di «virtù frugali». Oggi, grazie all’uso del motore di ricerca Google Trend, potete scrivere «frugalità, abbondanza» e accorgervi che la crociata di Perroni non ha sortito grandi effetti. La vittoria dell’abbondanza sulla frugalità è schiacciante. Se però consultate i due termini inglesi « frugality, abundance », scoprite che il primo termine riaffiora grazie ad articoli come quello di Arthur Frommer sul Francisco Chronicle del 20 luglio 2009, dal titolo: Frugality Now Fashionable - And Necessary. Quando si parla di frugalità, di che cosa stiamo esattamente parlando?

1. La frugalità non è la povertà. È una scelta, non una costrizione. Se si sembra frugali perché si è poveri, in realtà non si è frugali. Oggi, in Italia i poveri sono circa cinque milioni. Si tratta di persone che l’Istat, nel suo rapporto, classifica come «poveri assoluti». Si potrebbe pensare che, in una società ricca, gli «assolutamente poveri» diminuiscano. E invece aumentano. Dal 5,7 per cento delle famiglie assolutamente povere del 2011 siamo passati all’8 per cento delle famiglie del 2012.

2. La frugalità non è neppure l’avarizia. L’avarizia, come la povertà, non è una vera e propria scelta: alla povertà siamo costretti dalle circostanze esterne, all’avarizia dalle nostre ossessioni mentali. Da questo punto di vista il prototipo dell’avarizia è la figura tragica di Mazzarò, il protagonista della novella La roba di Giovanni Verga (1883). Vi si narra di Mazzarò che, partendo da zero, col passare del tempo, accumula una fortuna appropriandosi delle terre di un barone: «Tutta quella roba se l’era fatta lui, colle sue mani e colla sua testa, col non dormire la notte, col prendere la febbre dal batticuore o dalla malaria, coll’affaticarsi dall’alba alla sera, e andare in giro, sotto il sole e sotto la piaggia, col logorare i suoi stivali e le sue mule - egli solo non si logorava pensando alla sua roba [...] quando uno è fatto così, vuol dire che è fatto per la roba». Mazzarò diventa vecchio. Pensa che sia «un’ingiustizia di Dio» dover lasciare la roba dopo essersi logorata la vita per accumularla: «Sicché quando gli dissero che era tempo di lasciare la sua roba, per pensare all’anima, uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava: — Roba mia, vientene con me!». Non sempre l’avarizia è un’ossessione che arriva a coinvolgere l’aldilà, più spesso è una passione terrena, solitaria e triste. Comunque è ben lontana dalla frugalità, almeno nelle forme in cui l’avarizia si manifestava ai tempi di Verga.

3. La frugalità non è nemmeno una decisione di risparmio. A questo proposito, vorrei raccontare quella che credevo fosse una semplice leggenda familiare, tramandata da mio «nonno Tano».

Il «nonno Tano» (in realtà era il mio bisnonno Gaetano Rossi, e morì l’8 giugno del 1947) mi è rimasto impresso perché ero l’unico nipote ammesso nella sua camera e, quando lo vidi morire, credevo si trattasse di un sonno prolungato. Il papà di Gaetano, Alessandro, industriale tessile, aveva una nuora, Maria, madre dei suoi nipoti prediletti. Maria gli chiede di acquistare un carrettino per far giocare i nipoti: lei aveva già comprato un pony a Verona. Ecco la risposta di Alessandro: «Duolmi, o mia carissima, di non poter aderire alla tua richiesta: non comprerò la charrette, e non approvo l’acquisto del cavallino. Con lo stesso corriere, insieme alla tua letterina, m’è pervenuta la relazione settimanale di Fochesato (direttore del lanificio) il quale mi avverte doversi licenziare due operai recentemente assunti in prova, perché il loro rendimento non corrisponde al salario che per conto loro inciderebbe sul bilancio dell’opificio. Considera, figliola carissima, che prezzo di poney e charrette corrisponde al salario dei due che devonsi licenziare ». In questa risposta c’è l’essenza della frugalità, che è una scelta di stile e di buon gusto. A differenza delle decisioni collegate al risparmio, e finalizzate all’acquisto di beni, o a sconfiggere l’incertezza del futuro, la frugalità non ha altro scopo se non se stessa. Una volta, chi faceva scelte frugali spesso non si accorgeva di farle, semplicemente perché gli sembravano ovvie: si viveva così. A quei tempi, la frugalità si palesava solo se trascurata, come nel caso di Maria, che vi è costretta da un’imposizione di Alessandro, il suocero. Maria avrebbe dovuto rendersi conto che non è di buon gusto fare un regalo che costa come lo stipendio di due operai, per giunta da licenziare a beneficio della produttività dell’opificio.

Questo episodio chiarisce bene il rapporto che c’era un tempo tra frugalità e risparmio. Sembrano due concetti imparentati ma, a ben vedere, ciò che li avvicina è soltanto il non consumo opulento, il rifiuto del superfluo. Il risparmio ci rende robusti, meno vulnerabili, perché la riserva costituita dal risparmio ci permette di affrontare avversità future, oggi non prevedibili. Inoltre il risparmio lascia un margine di manovra nelle scelte di vita, una sorta di cuscino di sicurezza. La frugalità, invece, produce risparmi solo come effetto collaterale: l’abitudine al poco è una difesa preventiva che ci rende invulnerabili ai rovesci della sorte. Utilizzo qui un’opposizione approfondita da Nassim Taleb nel suo ultimo saggio.

Taleb distingue tra robustezza e antifragilità: la seconda implica il sapersela cavare in ambienti ostili, l’aver bisogno di poco, e non solo in termini materiali. Per Taleb la distinzione tra robusto, fragile e antifragile si applica a molti ambiti della vita: «Quel che s’impara in modo esplicito a scuola è fragile, le conoscenze tacite che discendono dalla vita pratica sono robuste, ma è solo l’insieme di scuola e di pratica che è antifragile». La frugalità è un concetto darwiniano, nel senso che ci rende più adattabili a scenari in rapido mutamento. La robustezza economica, invece, è più ostaggio degli eventi, e ci difende solo dalle avversità finanziarie, non da quelle della vita. La frugalità è un sapere tacito, che s’impara da piccoli in famiglia, non un sapere che s’impara a scuola. Mazzarò è una persona fragile, la possibilità della morte lo coglie impreparato. In lui i consumi ridotti non sono la via per raggiungere un obiettivo, la ricchezza è fine a se stessa. Alessandro Rossi è invece antifragile. Per uno dei più ricchi industriali di allora, il costo di un pony e di un carrettino sarebbe stato irrilevante rispetto all’entità dei suoi averi, in termini cioè di robustezza economica. E tuttavia quello che desiderava la nuora era cosa da non farsi

Col fiato sul collo (la scadenza è vicinissima) avviata la formazione delle liste di candidati alle elezioni del Parlamento europeo: per un'Europa dei popoli, non dei governi. Il manifesto, 21 febbraio 2014

Conto alla rove­scia per pre­sen­tare le can­di­da­ture alla lista «L’altra Europa, con Tsi­pras» per le ele­zioni euro­pee. Entro mez­za­notte di oggi i moduli sca­ri­ca­bili sul sito www.listatsipras.eu dovranno essere com­pi­lati e inviati all’indirizzo mail sostegno@istipras. it. In que­sta ope­ra­zione sono impe­gnati sia i pro­mo­tori della lista che asso­cia­zioni, comi­tati e par­titi (Sel e Rifon­da­zione) che hanno deciso di par­te­ci­pare insieme a que­sta espe­rienza elet­to­rale. Stanno par­te­ci­pando anche gruppi con almeno 50 ade­renti che sono stati invi­tati a pre­sen­tare le pro­po­ste ad un comi­tato ope­ra­tivo che ini­zierà a vagliarle subito dopo la sca­denza dei ter­mini sta­bi­liti. Ieri sera erano arri­vate 48 can­di­da­ture, 120 quelle sti­mate in arrivo, men­tre dal sito erano state sca­ri­cati 2299 moduli. Alla fine ver­ranno decisi 73 can­di­dati da distri­buire sulle cin­que cir­co­scri­zioni nazio­nali. I cri­teri della sele­zione per quelle che i sei garanti della lista (Bar­bara Spi­nelli, Andrea Camil­leri, Paolo Flo­res, Guido Viale, Marco Revelli e Luciano Gal­lino) chia­mano «pro­po­ste dal basso» sono la noto­rietà dell’impegno poli­tico del can­di­dato per deter­mi­nare le cosid­dette «teste di lista»; la sua rap­pre­sen­ta­ti­vità rispetto ai movi­menti di opi­nione e di lotta negli ultimi anni; la parità di genere e la pre­senza gio­va­nile. L’altro cri­te­rio è quello di non essere stati eletti negli ultimi dieci anni.

Sono state uffi­cia­liz­zate le can­di­da­ture dell’intellettuale ed ex lea­der del 77 bolo­gnese Franco Berardi Bifo che sostiene di volersi can­di­dare «con Tsi­pras e con­tro l’assolutismo finan­zia­rio». Tra le altre ci sono quelle di Franco Armi­nio e Tonino Perna; di espo­nenti del comi­tato «Arti­colo 33» che ha vinto il refe­ren­dum sulle scuole pari­ta­rie a Bolo­gna, del forum dell’acqua e dei comi­tati No Triv. Hanno comu­ni­cato le loro can­di­da­ture anche gli atti­vi­sti No Tav Nico­letta Dosio e Gigi Richetto. Un’adesione signi­fi­ca­tiva, visto che alle ultime ele­zioni poli­ti­che, il movi­mento No Tav aveva comu­ni­cato il suo appog­gio al Movi­mento 5 Stelle di Beppe Grillo. Entrambi gli atti­vi­sti riba­di­scono che i NoTav non sono un movi­mento assi­mi­la­bile solo al M5S o solo alla lista dell’«altra Europa, con Tsi­pras». Sem­brano certe le can­di­da­ture dell’ex por­ta­voce delle tute bian­che, e dei cen­tri sociali del Nord-Est, Luca Casa­rini, del gior­na­li­sta Loris Cam­petti e di Franco Gesualdi. I gior­na­li­sti Cur­zio Mal­tese, Andrea Scanzi, San­dra Bon­santi e Vauro hanno già comu­ni­cato il loro soste­gno alla lista, così come Gustavo Zagre­bel­sky, la filo­sofa Roberta De Mon­ti­celli e l’intellettuale Pier­franco Pellizzetti.

Prima casual­mente, poi in maniera più lenta ma più con­vinta, la lista sem­bra cre­scere in maniera tra­sver­sale alle appar­te­nenze poli­ti­che, intel­let­tuali, asso­cia­tive e di movi­mento tal­volta distanti tra loro. Un aspetto che i «garanti» hanno pre­fe­rito ad una carat­te­riz­za­zione più netta, e più clas­sica, di «sini­stra». La deci­sione di esclu­dere que­sto con­cetto dal logo della lista (il suo resty­ling defi­ni­tivo dovrebbe ter­mi­nare oggi) ha pro­vo­cato pole­mi­che, soprat­tutto con Rifon­da­zione Comu­ni­sta che ha spie­gato la sua par­te­ci­pa­zione in vista della costi­tu­zione di uno «spa­zio pub­blico di sini­stra» e non solo una «lista civica antiliberista».

Al momento è arri­vato un numero ridotto di can­di­da­ture fem­mi­nili. I pro­mo­tori della lista con­fi­dano che aumen­te­ranno nelle pros­sime ore. Da domani, una volta con­cluse le ope­ra­zioni di rac­colta, ini­zierà ad entrare in fun­zione la mac­china orga­niz­za­tiva e, entro la pros­sima set­ti­mana, ini­zierà la rac­colta delle firme cir­cor­scri­zione per cir­co­scri­zione. Il coor­di­na­mento è stato affi­dato a Cor­rado Oddi, una delle anime del gruppo che riu­scì nell’impresa sto­rica di rac­co­gliere le firme neces­sa­rie ad otte­nere il refe­ren­dum sull’acqua pub­blica e poi a vin­cerlo nel giu­gno del 2011. Nelle ultime ore si sta defi­nendo l’albero orga­niz­za­tivo di una strut­tura nazio­nale basata su respon­sa­bili regio­nali e pro­vin­ciali. I tempi saranno da car­dio­palma, bre­vis­simi. Si ini­zierà dalla temu­tis­sima Val D’aosta dove, con­si­de­rata la popo­la­zione, sono neces­sa­rie tre­mila firme per pre­sen­tare i can­di­dati scelti in lista. Sul sito, ma soprat­tutto su face­book, stanno nascendo comi­tato pro­Tsi­pras un po’ ovun­que nel paese. Così come cre­scono le prime ini­zia­tive spon­ta­nee: da Torino a Caserta. Dome­nica è pre­vi­sta un’assemblea del comi­tato romano al tea­tro Valle occupato

Una fulminante invettiva contro le nuove modalità e procedure della cosiddetta politica.

LaRepubblica, 21 febbraio 2013

Terrificante l’idea che la politica “in streaming” possa prendere piede e dilagare, costringendoci a simulare competenza e esprimere giudizi sull’intero scibile tecnico-tattico della nostra faticosa comunità: dagli incontri al vertice alle minute faccende che per fortuna qualcuno ha l’incarico di affrontare anche per nostro conto, grazie a quel geniale espediente che è la delega politica.

Sappiamo bene di avere delegato spesso e volentieri chi difettava di competenza o ci rappresentava male o tradiva il nostro mandato; e che questo è il nodo della presente, drammatica crisi politica. Ma se il rimedio è improvvisarci tutti esperti di questioni inevitabilmente a noi ignote, mipiacciando e midispiacciando con velocità ebete, beh è un rimedio peggiore del male.

Non “il popolo del web”, che non esiste, ma una nuova casta veloce di polpastrello e avida di potere è destinata, in quel caso, a soppiantare la vecchia democrazia rappresentativa. Tutti gli altri - milioni di altri - saranno solo il pubblico (mipiacciante e midispiacciante) di un gioco ancora più ristretto e ancora più oscuro, disputato tra nuove consorterie presuntuose e, nella peggiore delle ipotesi, tra bande di fanatici o di manipolatori.

Perché l’ortodossia classica (liberista e keynesiana) che suggerisce di passare a produzioni ad alto valore aggiunto non risolve più, oggi, la crisi industriale italiana. Che chiede un’altra riconversione possibile. I contenuti di un possibile nuovo "piano del lavoro".

Il manifesto, 18 febbraio 2014. In calce qualche riferimento

Che fare quando il padrone di un’azienda decide di chiu­derla, o di tra­sfe­rirla all’estero per pagare meno tasse, o per pagare meno gli ope­rai, o per poter inqui­nare l’ambiente senza tante sto­rie? A lume di naso, la prima cosa da fare è requi­sire l’azienda (i sin­daci hanno il potere di farlo, se non altro per motivi di ordine pub­blico) e impe­dir­gli di por­tar via i mac­chi­nari. Poi biso­gne­rebbe bloc­car­gli i conti e farsi resti­tuire i fondi che, 90 pro­ba­bi­lità su 100, ha già rice­vuto dallo Stato sotto forma di con­tri­buti a fondo per­duto, cre­dito age­vo­lato, sconti fiscali e con­tri­bu­tivi (ma qui dovreb­bero inter­ve­nire anche altre isti­tu­zioni: Governo e magi­stra­tura). A mag­gior ragione que­sto vale se l’imprenditore in que­stione pone delle con­di­zioni inac­cet­ta­bili per “restare”: per esem­pio dimez­zare i salari, come all’Electrolux.

Ma quello che non biso­gne­rebbe asso­lu­ta­mente fare è cer­care un nuovo padrone, che è invece il modo in cui il Governo ita­liano finge di affron­tare le situa­zioni di crisi (sul tema sono aperti al mini­stero dello Svi­luppo eco­no­mico più di 160 “tavoli”). Se ci fosse un “impren­di­tore” o un gruppo dispo­sto a rile­vare l’impresa alle con­di­zioni esi­stenti si sarebbe già fatto avanti per conto suo. E infatti, le poche aziende ita­liane che vanno ancora bene, soprat­tutto sui mer­cati esteri, tro­vano facil­mente dei com­pra­tori: sono state sven­dute quasi tutte. Ma quelle che non reg­gono più hanno biso­gno di un’altra cura: devono ricon­ver­tire la pro­du­zione e cer­care nuovi sboc­chi, pos­si­bil­mente nei campi che hanno un futuro, per­ché sono quelli nei quali la crisi ambien­tale ren­derà pre­sto inde­ro­ga­bile inve­stire.
Natu­ral­mente una ricon­ver­sione del genere non può gra­vare solo sulle spalle delle mae­stranze abban­do­nate. Devono far­sene carico, accanto a loro, sin­daci e ammi­ni­stra­tori locali, sin­da­cati, uni­ver­sità e cen­tri di ricerca, asso­cia­zioni. Per­ché è pro­prio nel ter­ri­to­rio, o nei ter­ri­tori che sono tea­tro di vicende ana­lo­ghe, che si devono andare a cer­care gli sboc­chi per i nuovi assetti pro­dut­tivi.
Vice­versa, se un nuovo padrone - o impren­di­tore - si fa avanti solo ora, è per­ché si aspetta dallo Stato con­di­zioni di favore — cioè un sacco di soldi - e pos­siamo essere sicuri che lo fa per inta­scar­seli. Un esem­pio illu­mi­nante: i due ban­ca­rot­tieri che si erano fatti avanti per rile­vare l’impianto Fiat di Ter­mini Ime­rese. I risul­tati si vedono: l’impianto è ancora a lì, vuoto, a quat­tro anni da quando si sa per certo che sarebbe stato dismesso; e que­gli aspi­ranti impren­di­tori si sono dis­solti nel nulla; o sono in galera.
Un’azienda che “se ne vuole andare” non ha alcun inte­resse a lasciare a un poten­ziale con­cor­rente mar­chio, bre­vetti, mer­cati, o anche solo una mano­do­pera ben adde­strata; e quindi farà di tutto per ren­dere one­roso e non red­di­ti­zio il suben­tro. La Jabil di Cas­sina de’ Pecchi fa scuola; li c’era tutto per andare avanti: mano­do­pera com­pe­tente, impianti e pro­dotti di avan­guar­dia, clienti inte­res­sati; ma la pro­prietà non intende favo­rire un poten­ziale con­cor­rente e pre­fe­ri­sce man­dare tutto in malora. Tante le espe­rienze sotto i nostri occhi: Alcoa, Alca­tel, Jabil, Nokia, Lucent, Luc­chini, Maflow, Micron Tech­no­logy, e chi più ne ha più ne metta. Quando il Governo dice che biso­gna attrarre inve­sti­tori esteri, non è certo a impianti come que­sti che pensa. Pensa solo a “fare cassa” ven­dendo quello che fun­ziona ancora o che comun­que rende: auto­strade, fer­ro­vie, poste, Eni, Enel, Terna, ecc.

Le minacce di “andar­sene” o la deci­sione di chiu­dere o ven­dere sono altret­tante mosse di una corsa al ribasso per spre­mere sem­pre di più i lavo­ra­tori: la vicenda Elec­tro­lux inse­gna. Se si accet­tano le regole della glo­ba­liz­za­zione libe­ri­sta, che affida alla con­cor­renza al ribasso l’organizzazione e la distri­bu­zione ter­ri­to­riale e set­to­riale della pro­du­zione, a que­sta logica non c’è scampo. Ma, obiet­tano i cul­tori dell’ortodossia eco­no­mica (che in que­sto ambito acco­muna libe­ri­sti e key­ne­siani), per non sot­to­stare a que­sta logica una strada c’è: pas­sare a pro­du­zioni a più alto valore aggiunto e mag­giori mar­gini: invece di pro­durre uti­li­ta­rie, pro­durre Mase­rati e Jeep, invece di lava­trici e frigo, impianti indu­striali di refri­ge­ra­zione, ecc. Più in gene­rale, pas­sare a pro­du­zioni a mag­gior con­te­nuto di tec­no­lo­gie e di ricerca.

Intanto per i pro­dotti ad alto valore aggiunto biso­gna tro­vare un mer­cato, per lo più già occu­pato da qual­cun altro. Per esem­pio, la Fiat (ora Fca) ha ben poche carte in mano per sot­trarre quote del mer­cato euro­peo di fascia alta a Mer­ce­des, Bmw o Audi. Per que­sto la pro­du­zione auto­mo­bi­li­stica di Fca Ita­lia, e con essa i suoi sta­bi­li­menti, sono in gran parte con­dan­nati a morte. Per addi­tare una via di uscita i teo­rici dell’ortodossia ricor­rono a una vec­chia teo­ria dello svi­luppo degli anni ’60 di Albert Hir­sch­man, detta delle “ani­tre volanti”: le eco­no­mie sono come uno stormo di ana­tre che volano una die­tro l’altra. Mano a mano che quelle di testa pas­sano a livelli tec­no­lo­gici e più avan­zati, quelle che seguono vanno a occu­pare le posi­zioni abban­do­nate dalle prime; e così, tutte insieme, pro­muo­vono lo svi­luppo glo­bale. Ma quella teo­ria rispec­chiava l’andamento delle cose cinquant’anni fa (Stati uniti in testa e, a seguire, Europa, Giap­pone, Corea, ecc.). Ma oggi non fun­ziona più per il sem­plice motivo che molti dei paesi a più bassi livelli sala­riali e di pro­te­zione dell’ambiente, che pro­prio per que­sto sono diven­tate le mani­fat­ture del mondo (prima tra essi, la Cina), oggi sono anche molto più avanti di noi — e non solo dell’Italia, ma anche dell’Europa — nella ricerca scien­ti­fica e tec­no­lo­gica: è deva­stante com­pe­tere con loro sui livelli sala­riali, anche se molte imprese non vedono altra strada per cer­care di soprav­vi­vere; ma in molti casi è anche impos­si­bile com­pe­tere sui livelli tec­no­lo­gici; soprat­tutto in Ita­lia dove istru­zione e ricerca sono ambiti disprez­zati e negletti.

C’è un ambito in cui l’Italia e l’Europa man­ten­gono ancora qual­che van­tag­gio “com­pe­ti­tivo” (ma meglio sarebbe dire, in que­sto caso, coo­pe­ra­tivo), anche se è anch’esso in via di sman­tel­la­mento per via delle teo­rie libe­ri­ste che ridu­cono tutto al dollar-value, al denaro. Quest’ambito è la com­ples­sità sociale, l’abitudine alla vita asso­ciata, una dimen­sione fon­da­men­tale della socia­lità, il radi­ca­mento in una tra­di­zione di cui il patri­mo­nio cul­tu­rale rap­pre­senta la stra­ti­fi­ca­zione incom­presa (e per que­sto tra­scu­rata). È un fat­tore che non può essere costruito, rico­struito, o recu­pe­rato in pochi anni e di cui lo svi­luppo tumul­tuoso delle eco­no­mie emer­genti ha pri­vato gran parte delle rispet­tive comu­nità pro­prio nei loro punti di mag­gior forza; senza l’accortezza di con­ser­varlo o di sosti­tuirlo con qual­cosa di equivalente.

È que­sto il pre­sup­po­sto di una rico­stru­zione su basi fede­ra­li­ste di un’economia euro­pea auto­suf­fi­ciente (ma non autar­chica), non com­pe­ti­tiva (nel senso di non più impe­gnata in quella corsa al ribasso che è sotto gli occhi di tutti), che sap­pia uti­liz­zare le tec­no­lo­gie dispo­ni­bili e i saperi dif­fusi, sia tec­nici che “espe­rien­ziali”, per riag­gan­ciare la pro­du­zione ai biso­gni con­di­visi della popo­la­zione attra­verso il poten­zia­mento di una nuova “gene­ra­zione” di ser­vizi pub­blici locali in forme par­te­ci­pate, sotto il con­trollo dei governi dei ter­ri­tori: in campo ener­ge­tico (impianti dif­fusi, dif­fe­ren­ziati e inter­con­nessi di uti­lizzo delle fonti rin­no­va­bili ed effi­cien­ta­mento dei cari­chi ener­ge­tici) e in quello agroa­li­men­tare (agri­col­tura di qua­lità ed indu­stria ali­men­tare a km0); nel campo di una mobi­lità fles­si­bile, inte­grando tra­sporto di massa e tra­sporto per­so­na­liz­zato, sia di merci che di pas­seg­geri, attra­verso la con­di­vi­sione dei vei­coli; nel campo del recu­pero e della valo­riz­za­zione delle risorse (quello che noi oggi chia­miamo gestione dei rifiuti), nella sal­va­guar­dia e nella valo­riz­za­zione del ter­ri­to­rio (assetti idro­geo­lo­gici, urba­ni­stici, pae­sag­gi­stici, monu­men­tali, indu­stria turi­stica, ecc.) e, soprat­tutto, nei campi della cul­tura, della ricerca, dell’istruzione, della difesa della salute fisica e men­tale di tutti.

Ecco, allora, pro­fi­larsi un destino diverso per le aziende abban­do­nate e senza più sboc­chi; ecco un ruolo stra­te­gico per le ammi­ni­stra­zioni locali che inten­dono farsi carico delle con­di­zioni di vita, ma anche del patri­mo­nio di espe­rienza, di cono­scenza, di saperi tec­nici, di abi­tu­dine alla coo­pe­ra­zione delle mae­stranze messe alla porta dai loro datori di lavoro; ed ecco, infine, il pre­sup­po­sto irri­nun­cia­bile per pro­muo­vere un’alternativa di governo, a par­tire dall’iniziativa locale, per far fronte al caos a cui ci sta con­dan­nando l’attuale gover­nance euro­pea. Detta così sem­bra un’utopia: ma andiamo incon­tro a tempi in cui pro­spet­tare solu­zioni estreme e finora “impen­sa­bili” diven­terà necessario.

Riferimenti
Vedi, su eddyburg, tra i numerosi scritti dedicati all'argomento l'eddytoriale 144 del novembre 2010, gli articoli Un piano economico e sociale alternativo di Giprgio Cremaschi, Neo-operaismo e neo-ambientalismo di Alberto Asor Rosa, Un'altra economia per una nuova Europa di Guido Viale, L'economia e il lavoro fuori del mercato di Laura Balbo. Un approfondimento del tema da un punto di vista dell’economia come dimensione dell’uomo lo trovate in alcuni testi di Claudio Napoleoni, quali Scienza economica e lavoro dell’uomo nella definizione di Lionel Robbins, e nella sintetica ricostruzione del suo pensiero nella relazione introduttiva alla sesta edizione (2009) della Scuola di eddyburg.
«Quel che sconcerta, nella presunta ansia modernista di Renzi, è la formidabile vecchiezza dei modelli prescelti: rifarsi oggi a Tony Blair vuol dire correre a ritroso nel tempo, mettere i piedi su orme che sette anni di crisi hanno coperto di sabbia.».

La Repubblica, 18 febbraio 2014
PER il modo in cui è stata congegnata, per le doppiezze che l’hanno contraddistinta, per i regolamenti di conti con cui s’è conclusa, l’ascesa di Matteo Renzi alla guida del governo ha il sapore di certi cambi di guardia al Cremlino. Un esorbitante partito-Stato si fa macchina di potere, usa i propri uomini come pedine, li uccide politicamente se ingombrano, tradisce la parola data senza spiegazioni. Il tutto avviene «a porte chiuse», come nel dramma claustrofobico di Sartre: lontano dal Parlamento, dalla prova elettorale che era stata assicurata, da una società che il partito-Stato non sa più ascoltare senza vedere, dietro ogni cittadino, l’inferno molesto di qualche populismo. La liquidazione di Enrico Letta è avvenuta in streaming, ma sostanzialmente fuori scena: secondo Carmelo Bene, questa è l’essenza dell’osceno. Non sarà forse così, Renzi riuscirà forse a realizzare quel che promette: un piano lavoro entro marzo, soprattutto. Ma l’inizio incoraggia poco. Per la terza volta, in un Parlamento di nominati, il Pd designa per Palazzo Chigi un nominato.

È già accaduto in passato: basti ricordare il sotterraneo lavorio contro il governo Prodi, nel ’98. E più di recente, in aprile, il tradimento di 101 parlamentari Pd che avevano giurato di votare Prodi capo dello Stato e in un baleno l’affossarono. Colpisce la coazione a ripetere il gesto violento, e a scordare subito i traumi lasciati dalle coltellate. Una famosa giornalista francese, Françoise Giroud, scrisse una volta: «Ogni capo politico deve avere l’istinto dell’assassino». Il coltello non è più un incidente. S’è fatto istinto, tendenza innata. La cosa straordinaria, e solo in apparenza paradossale, è che la macchina del Pd cresce in potenza, man mano che organizza autodafé e perde i contatti con la società. Già da tempo ha smesso di identificarsi con la sinistra: parola da cui fugge, quasi fosse un fuoco che scotta e incenerisce. Già da tempo non si preoccupa di parlare in nome degli oppressi, degli emarginati, ed è mossa da un solo obiettivo: il potere nello Stato, attraverso lo Stato. Letta ha preparato il terreno, ma non guidava il Pd. Ora è un capo-partito a ultimare la metamorfosi: l’abbandono della rappresentatività, la governabilità che diventa movente unico, l’oblio della sinistra e della sua storia. Ovvio che l’istinto a tradire si tramuti in normalità.

Può darsi che Renzi cambi l’Italia in meglio, che renda lo Stato addirittura più giusto. Che non si spenga in lui la memoria del consenso popolare ottenuto alle primarie. Ma il come ancora non lo sappiamo, la coalizione è quella di ieri, e la macchia della defenestrazione di Letta gli resta appiccicata al vestito. Difficile dimenticarla. Difficile dimenticare le parole carpite lunedì a Fabrizio Barca. Il quale grosso modo ha detto questo: «C’è chi mi vuole ministro dell’Economia. Ma per fare che? Per imporre una patrimoniale di 400 miliardi di euro, cosa che secondo me va fatta e però non è nei piani? ».

Questo svanire della sinistra è un fenomeno europeo diffuso, ma in Italia è particolarmente accentuato. Nell’Unione sono ormai undici i Paesi governati da Grandi Coalizioni, in teoria non siamo molto diversi. Quel che è anomalo, nei connubi ideologici italiani, è il discredito profondissimo gettato sulla stessa parola sinistra, l’annebbiarsi della sua storia, del suo patrimonio, della sua vocazione alla rappresentanza. Altrove la sinistra classica, quella che dà voce ai deboli, possiede ancora uno spazio. Perfino laddove ha le tenebre alle spalle, come in Germania (la Linke è erede di un regime totalitario, nell’Est tedesco) non cancella d’un colpo quel che la lega alla società. Nel Congresso sull’Europa dello scorso fine settimana la Linke ha provato a cambiare la propria storia evolvendo, ha aperto all’Unione che esecrava. Ma il nome che porta non lo cambia. Non così in Italia, dove la sinistra precipita dalle scale e si ritrova vocabolo non grato.

È la vittoria postuma di Bettino Craxi ed è il lascito di Berlusconi, con cui il Pd di Renzi intende riformare la Costituzione. Della grande idea avanzata da Prodi negli anni Novanta - unire il solidarismo universalista cristiano e quello comunista - non resta che brace spenta. La scomparsa della sinistra non significa tuttavia che siano scomparsi i mali che la giustificarono in passato: la questione sociale è di ritorno, la disuguaglianza di redditi e opportunità s’è estesa in questi anni di crisi, nessun Roosevelt è in vista che la freni. E la riduzione della disuguaglianza, secondo la classificazione di Norberto Bobbio, rimane il più antico e vivo retaggio della sinistra.

È sperabile che il piano-lavoro di Renzi non sacrifichi per l’ennesima volta una lotta che deve essere di rottura, e non per motivi ideologici ma perché l’Italia è rotta da sofferenze e avvilimenti. Che non lasci il proprio elettorato inerme, senza rappresentanza, e non ascolti solo quegli economisti politici che Marx chiamava «bravi sicofanti del capitale», dediti «nell’interesse della cosiddetta ricchezza nazionale a cercare mezzi artificiosi per produrre la povertà delle masse ».

Quel che sconcerta, nella presunta ansia modernista di Renzi, è la formidabile vecchiezza dei modelli prescelti: rifarsi oggi a Tony Blair vuol dire correre a ritroso nel tempo, mettere i piedi su orme che sette anni di crisi hanno coperto di sabbia. Se le disuguaglianze sono aumentate vertiginosamente, se si parla oggi di un 1% della popolazione che continua imperturbato ad arricchirsi e di un 99% di impoveriti (classi medie comprese), lo si deve alle destre più legate ai mercati ma anche alla Terza Via di Blair. Le ricette di Margaret Thatcher non morirono con il Nuovo Labour, e sopravvissero nella battaglia accanita contro un’Europa più unita e solidale. L’idea thatcheriana che «la società non esiste se non come concetto», che esistono «solo individui e famiglie con doveri e convinzioni», è interiorizzata dal Pd nel preciso momento in cui la realtà l’ha smentita e sconfitta. L’homo novus di Firenze suscita grandi aspettative, ed è vero quel che dice: leadership non è una parolaccia. Ma fin dalla prime sue mosse, negoziando con il pregiudicato Berlusconi la legge elettorale, il leader ha fatto capire che la rappresentatività è un bene minore. Il suo Pd stenta a mediare fra società e Stato. È degenerato in «cartello elettorale stato-centrico», sostiene Piero Ignazi: è parte dello Stato anziché controparte; ha un potere che tanto più si dilata al centro, quanto più si sfilaccia il legame con gli iscritti, le periferie, la democrazia locale (Ignazi, Forza senza legittimità, Laterza 2012). Per questo l’odierno sviluppo partitocratico è solo in apparenza paradossale. Mandare in fumo l’eredità della sinistra — la lotta alla disuguaglianza, la difesa del bene pubblico — induce il Pd a trascurare l’arma principale evocata da Barca: la tassazione progressiva dei patrimoni più elevati (articolo 53 della Costituzione). L’economista Joseph Stiglitz fa calcoli più che plausibili, anche per l’Italia: «Se chi appartiene al primo 1 per cento incassa più del 20 per cento del reddito della nazione, un incremento del 10 per cento dell’imposta sul reddito (senza possibilità di sfuggirvi) potrebbe generare entrate pari a circa il 2 per cento del Pil del Paese».

Renzi punta sulla propria lontananza dai giochi partitici, sul successo che gli ha garantito la base. Ma quel che avviene nelle ultime ore rischia di vanificare la sua diversità: il Parlamento costretto a tacere sulle modalità bolsceviche della liquidazione di Letta, il cambio deciso «fuori scena», sono segnali nefasti. Torna alla ribalta la politica, ma impoverita democraticamente. Tornano i partiti; mentre i cittadini coi loro rappresentanti stanno a guardare. Come meravigliarsi che la società si radicalizzi, quando è la realtà a farsi sempre più radicale?

Buone notizia dalla Sardegna. In un'intervista del presidente Pìgliaru la conferma che, dopo gli anni infausti della "giunta del mattone" del vicerè di Berlusconi, riprenderà il cammino giusto all'insegna della difesa del lavoro e dell'ambiente.

Il manifesto, 19 febbraio 2014

E' stata una mat­ti­nata di relax per il neo­pre­si­dente della Regione Sar­de­gna, Fran­ce­sco Pigliaru, dopo i festeg­gia­menti di lunedì sera. Fre­sco di vit­to­ria, ieri mat­tina il pro­fes­sore è uscito a piedi di casa per andare a fare visita al ret­tore dell’università di Cagliari, Gio­vanni Melis. Pigliaru, infatti, dal 2009 e sino al 6 gen­naio scorso ha rico­perto l’incarico di pro­ret­tore dell’ateneo del capo­luogo, con delega alla ricerca scien­ti­fica. Un incon­tro di cor­te­sia tra pro­fes­sori. Poi di nuovo a piedi verso casa, con qual­che sosta for­zata con i cit­ta­dini che lo hanno incro­ciato per le strade del cen­tro. Ma già dal pome­rig­gio sono comin­ciati i con­tatti con i par­titi della cola­zione di cen­tro­si­ni­stra per dise­gnare la nuova giunta.

«Innan­zi­tutto le com­pe­tenze e un equi­li­bro tra uomini e donne», ha più volte detto Pigliaru nel corso della cam­pa­gna elet­to­rale. Si pro­fila una giunta con diversi tec­nici. In cima alla lista dei papa­bili c’è Raf­faele Paci, ordi­na­rio di Eco­no­mia appli­cata a Cagliari, che dovrebbe andare al bilan­cio e alla pro­gram­ma­zione. Spicca anche il nome di Gian Vale­rio Sanna (Pd), già asses­sore all’urbanistica con Soru e padre del piano pae­sag­gi­stico del 2006, al cen­tro della con­te­stata revi­sione da parte di Cap­pel­lacci pro­prio negli ultimi giorni della legislatura.

Da que­ste ele­zioni arriva un segnale forte innan­zi­tutto sui pro­grammi. Si è vinto sui con­te­nuti? E in par­ti­co­lare su quali?
Abbiamo fatto una pro­po­sta seria e non dema­go­gica. La gente l’ha capito e ci ha pre­miati. Abbiamo par­lato fin da prin­ci­pio di com­pe­tenza e serietà, met­tendo da parte un modo di fare poli­tica che non con­di­vi­diamo ed enun­ciando con chia­rezza pochi capi­saldi ma essen­ziali: sem­pli­fi­ca­zione della buro­cra­zia per far ripar­tire il mondo impren­di­to­riale, alleg­ge­ri­mento delle tasse eli­mi­nando i bal­zelli inu­tili, boni­fi­che nelle zone indu­striali e recu­pero del rispetto per l’ambiente e il pae­sag­gio minac­ciati da Cap­pel­lacci e dalla sua giunta del mat­tone, pari oppor­tu­nità per tutti a par­tire dai primi livelli dell’istruzione. Dob­biamo rimet­tere in mar­cia la Sar­de­gna infon­dendo forti dosi di spe­ranza, a par­tire dalla qua­lità dell’istruzione, in luo­ghi belli e sicuri, e dalla crea­zione di nuovo lavoro. Dare gambe al piano straor­di­na­rio per l’istruzione e l’edilizia sco­la­stica signi­fica soste­nere il set­tore delle costru­zioni e con­tem­po­ra­nea­mente inve­stire sulle pros­sime gene­ra­zioni. Miglio­rare l’oggi, guar­dando al domani. Que­sto è stato il nostro prin­ci­pio ispi­ra­tore. E si è rive­lato vincente.

Ma anche i modi hanno avuto una loro impor­tanza: una cam­pa­gna elet­to­rale ragio­nata, non gri­data. In con­tro­ten­denza rispetto alla deriva iper media­tica e populista?
Non sono più tempi per le parole vuote o i pro­clami. La situa­zione è tale, in Sar­de­gna, che la voce grossa, le pro­messe irrea­liz­za­bili o le bar­zel­lette non attec­chi­scono più. Con­ti­nuare a voler imbro­gliare le per­sone con spec­chietti per allo­dole quali la zona franca inte­grale, è inac­cet­ta­bile. Abbiamo fatto bene a mostrare imme­dia­ta­mente l’altra fac­cia della meda­glia, evi­den­ziando che il prezzo da pagare sareb­bero stati i tagli alla sanità. Abbiamo voluto avere rispetto per gli elet­tori atte­nen­doci alla realtà, avan­zando pro­po­ste rea­liz­za­bili e one­ste, senza nascon­derci die­tro un dito. La serietà non deve venir mani meno, nean­che in cam­pa­gna elet­to­rale, per il rispetto dovuto ad ogni cit­ta­dino, anche di chi si è rifiu­tato di andare alle urne. Era­vamo tutti al cor­rente che ci sarebbe stata una forte per­cen­tuale di aste­nuti, come è avve­nuto. Adesso è un impe­gno mio, e dev’esserlo di tutta la poli­tica, recu­pe­rare i delusi.

Nelle sue dichia­ra­zioni ha sot­to­li­neato il ruolo svolto da tutta la coa­li­zione. C’è stato un apporto impor­tante della forze di sinistra?
L’aver ricom­pat­tato la coa­li­zione è stata la nostra forza. Gli apporti dalle diverse com­po­nenti saranno, d’ora in poi, un’ulteriore ric­chezza. Vedo una forte sin­to­nia sulle prin­ci­pali que­stioni pro­gram­ma­ti­che. Abbiamo tutti una gran voglia di cam­biare la Sar­de­gna, di vol­tare pagina rispetto ai cin­que anni deva­stanti di governo Cap­pel­lacci. Sap­piamo come farlo, anche se non ci illu­diamo che sarà sem­plice. Sono certo che met­te­remo assieme tutte le nostre migliori ener­gie, per questo.

Che rap­porto si può ipo­tiz­zare tra la sua giunta e il governo nazio­nale gui­dato da Mat­teo Renzi?

I rap­porti isti­tu­zio­nali sono impor­tan­tis­simi. La Sar­de­gna ha sof­ferto molto per colpa delle mascal­zo­nate del governo Ber­lu­sconi, reo di averci negato mille occa­sioni di cre­scita. Dalle tele­fo­nate a Putin al furto del G8 a La Mad­da­lena e dei milioni della ver­tenza entrate. Avere Mat­teo Renzi a Palazzo Chigi sarà uno sprint in più per­ché Renzi è una per­sona seria e capace. Ho sem­pre con­di­viso la sua atten­zione verso i temi del lavoro e per le poli­ti­che attive. Impe­gnarsi in que­sti ambiti, oggi in par­ti­co­lar modo, signi­fica cer­care le rispo­ste da dare alla gente. Con il governo nazio­nale abbiamo da ria­prire imme­dia­ta­mente l’importante ver­tenza sulle entrate, abban­do­nata da Cap­pel­lacci, e l’annosa que­stione delle ser­vitù mili­tari, che ancora pre­tende dai sardi, in ter­mini di ter­ri­to­rio e poten­zia­lità di svi­luppo, sacri­fici spro­po­si­tati ed ingiustificati

Si discute sul rosso della lista Tsipras per l'Europa. Per fortuna idee e persone disposte a lottare per una alternativa al neoliberismo ci sono. Il manifesto, 18 febbraio 2014

Fa discu­tere l’esclusione della parola «sini­stra» dai quat­tro sim­boli pro­po­sti sul sito lista tsi pras .eu. Tutti su sfondo rosso e con il nome di Ale­xis Tsi­pras, lea­der di Syriza che è un acro­nimo in greco di «Coa­li­zione della Sinistra-Fronte sociale uni­ta­rio». Nes­suno di que­sti sim­boli ripro­pone però l’augusto con­cetto. La deci­sione del comi­tato dei sei garanti (Guido Viale, Bar­bara Spi­nelli, Andrea Camil­leri, Marco Revelli, Luciano Gal­lino, Paolo Flo­res) è stata accet­tata da Tsi­pras, cofir­ma­ta­rio dell’appello per la lista ita­liana a soste­gno della sua can­di­da­tura alla pre­si­denza della Com­mis­sione Euro­pea che ha rac­colto 23 mila ade­sioni online.

La deci­sione ha creato malu­mori tra gli iscritti di Rifon­da­zione Comu­ni­sta. La segre­te­ria del par­tito ha dif­fuso un comu­ni­cato in cui cri­tica dura­mente i garanti. «La nostra richie­sta di costruire un per­corso demo­cra­tico nella defi­ni­zione dei sim­boli e della com­po­si­zione della lista è stata com­ple­ta­mente disat­tesa – si legge – È un grave errore poli­tico. Que­sta è una lista civica anti­li­be­ri­sta e non la costru­zione di uno spa­zio pub­blico di sini­stra». Per i ver­tici di Rifon­da­zione l’obiettivo delle euro­pee dovrebbe essere l’avvio di un per­corso per costruire una «Syriza ita­liana». Un obiet­tivo, sia pur ancora non troppo espli­ci­tato, anche di altri ambienti.

Per Rifon­da­zione l’errore poli­tico» dei pro­mo­tori non mette tut­ta­via in discus­sione «l’importanza di fare una lista uni­ta­ria con­tro le poli­ti­che di auste­rità». Lo spet­tro di una Sel che pre­senta una lista sepa­rata, e del man­cato rag­giun­gi­mento del quo­rum al 4% segne­rebbe un nuovo, tre­mendo, fal­li­mento per tutti. Il giu­di­zio nega­tivo allora si stem­pera e il par­tito di Paolo Fer­rero riven­dica infine l’operazione poli­tica che ha por­tato Tsi­pras a essere il can­di­dato della sini­stra europea.

I pro­mo­tori della lista hanno spie­gato la loro deci­sione per­ché «la parola sini­stra non ha un con­te­nuto pro­gram­ma­tico defi­nito — spiega Guido Viale — A que­sto con­cetto si appel­lano sia i Si Tav che i No Tav, i libe­ri­sti più sca­te­nati e i comu­ni­ta­ri­sti più radi­cali». «Per il suo pro­gramma euro­pei­sta, demo­cra­tico e radi­cale — aggiunge Viale — que­sta lista ha una chia­ris­sima con­no­ta­zione di sini­stra. Rite­niamo impos­si­bile che chi si iden­ti­fi­chi nella sini­stra non possa iden­ti­fi­carsi con que­sti con­te­nuti. La scelta si spiega anche per­ché inten­diamo rivol­gerci a una fascia di cit­ta­dini che non si iden­ti­fica diret­ta­mente con quella che è stata la sini­stra radicale».

Ai «garanti» della lista è stata anche rivolta l’accusa di «dispo­ti­smo illu­mi­nato». «Sono scioc­chezze — risponde Viale — Que­sto dispo­ti­smo lo vor­reb­bero eser­ci­tare i par­titi, met­tendo le can­di­da­ture ai voti nelle assem­blee che, come abbiamo visto con l’esperienza fal­li­men­tare della lista “Cam­biare si può”, si tra­sfor­mano in rodei molto nega­tivi, oppure mobi­li­tando gli iscritti come fa Grillo nelle sue vota­zioni online, con risul­tati non sem­pre bril­lanti. Da tempo Rifon­da­zione ci cri­tica per­ché non siamo dispo­ni­bili per le assem­blee. Adesso chie­dono che metà dei can­di­dati ven­gano votati online. Ma per noi è assurdo anche per­ché non si capi­sce quali can­di­dati dovreb­bero sot­to­porsi al voto on line e chi a quello dell’assemblea. Per le euro­pee que­sto discorso è dif­fi­cile da fare: in cir­co­scri­zioni con cin­que sei regioni è impos­si­bile con­tare su can­di­dati conosciuti».

Inte­grare l’orizzontalità della rete con le pra­ti­che della par­te­ci­pa­zione diretta (l’assemblea, ad esem­pio) rap­pre­senta in effetti uno dei rom­pi­capo della demo­cra­zia oggi. I «garanti» hanno affi­dato la solu­zione a un comi­tato di 15 per­sone che dal 21 feb­braio si riu­nirà per valu­tare le can­di­da­ture cari­cate sul sito lista tsi pras .eu. Il numero dei par­te­ci­panti al comi­tato nel frat­tempo dovrebbe aumen­tare, con­si­de­rato la quan­tità dei moduli sca­ri­cati in poche ore: 710 alle 18 di ieri. Sulla scelta influi­ranno, tra gli altri, que­sti cri­teri: i can­di­dati non devono essere stati eletti negli ultimi 10 anni, anche se c’è un’apertura agli eletti negli enti locali; la parità dei genere; spa­zio ai gio­vani. La con­sul­ta­zione sulla scelta di nome e sim­bolo è stata posti­ci­pata a causa del sovrac­ca­rico del ser­ver che non ha retto il numero dei contatti.

Il refe­ren­dum si con­clude oggi alle 15, ieri ave­vano votato solo in 13 mila, pro­ba­bil­mente a causa delle disfun­zioni tele­ma­ti­che. «Può anche darsi per­ché non ci sia il ter­mine sini­stra nel sim­bolo» ipo­tizza Viale. Si parla della pos­si­bi­lità, tutta da veri­fi­care, di can­di­dare anche Andrea Camil­leri e Bar­bara Spinelli

Dalla vittoria di Pìgliaru in Sardegna una speranza non solo per la difesa del territorio e del paesaggio (beni di cui nessuno sembra preoccuparsi) ma anche per una nuova sinistra unita per il dopo-Renzi.

Il manifesto, 18 febbraio 2014

Un forte vento di bur­ra­sca batte la Sar­de­gna, una delle regioni ita­liane più col­pite dalla crisi eco­no­mica e dalla vorace colo­niz­za­zione della gens ber­lu­sco­niana. E’ il vento gelido dell’astensionismo che lascia lon­tano dal seg­gio elet­to­rale un elet­tore su due, facendo pre­ci­pi­tare la per­cen­tuale di chi è rima­sto a casa dal 33% del 2009 al 48% di oggi, gon­fiando del 15% l’area del non voto. L’iceberg gril­lino che alle ele­zioni poli­ti­che del 2013 aveva sfio­rato il 30% è rima­sto con­ge­lato, lon­tano dal richiamo del pur largo ven­ta­glio di liste e volti nuovi, come quello della scrit­trice Michela Mur­gia che resta fuori dal Consiglio.

Que­sto voto parla di una disoc­cu­pa­zione che dop­pia la per­cen­tuale nazio­nale, di una dein­du­stria­liz­za­zione che lascia solo dispe­ra­zione, di un dram­ma­tico dis­se­sto del ter­ri­to­rio abban­do­nato alla furia dell’alluvione, con la cre­di­bi­lità dei poli­tici inghiot­tita dagli ultimi scan­dali dei con­si­glieri regio­nali. Che ancora un cit­ta­dino sardo su due creda nel voto ha del pro­di­gioso, né può stu­pire che il risul­tato elet­to­rale sia spec­chio fedele e cru­dele della sfi­du­cia pro­fonda verso la classe diri­gente, dell’isola e di un paese, il con­ti­nente, sem­pre più lon­tano.

Quel che oggi basta al can­di­dato Fran­ce­sco Pigliaru per brin­dare alla vit­to­ria (il 43%) è pro­prio la per­cen­tuale che segnò la scon­fitta di Renato Soru (e le suc­ces­sive dimis­sioni del segre­ta­rio di allora, Wal­ter Vel­troni) alle regio­nali del 2009. Quando si cele­bra­vano i fasti del G8, con le bande del Cava­liere e di pezzi della Con­fin­du­stria sguin­za­gliati nell’arrembaggio dei gio­ielli natu­rali, salvo poi tra­sfe­rirsi tra le red­di­ti­zie mace­rie dell’Aquila ter­re­mo­tata lasciando ai sardi l’indelebile ricordo del loro passaggio.

E sem­brano tanto più stri­denti, di fronte alla cru­dezza dei numeri, le dichia­ra­zioni trion­fa­li­sti­che dei fede­lis­simi di Mat­teo Renzi, seguite all’immancabile tweet di feli­ci­ta­zioni del segre­ta­rio a Pigliaru («comin­ciamo il domani»). Tra par­titi più pena­liz­zati dallo scon­tento spicca pro­prio il Pd che perde il 2,5 rispetto alle poli­ti­che e il 2 rispetto alle regio­nali. Solo il Pdl oggi Forza Ita­lia fa peg­gio scen­dendo di 2,4 sul 2013 e del 12,5 sulle regionali.
Se dun­que un effetto-Renzi c’è stato non sem­bra di buon auspi­cio per il futuro di un Pd che anche in Sar­de­gna paga il prezzo, salato, alla cami­cia di forza delle lar­ghe intese. Come del resto si rende evi­dente dall’avanzamento, vice­versa, delle forze di sini­stra, Sel e Rifon­da­zione, ma anche delle espres­sioni di sini­stra delle liste auto­no­mi­ste. A riprova del fatto che se oggi, Ugo Cap­pel­lacci, il can­di­dato ex com­mer­cia­li­sta di Ber­lu­sconi perde la pre­si­denza della regione, di que­sta scon­fitta dob­biamo rin­gra­ziare, a livello regio­nale, quel che viene per­vi­ca­ce­mente negato nel nuovo-vecchio governo nazio­nale in for­ma­zione: la spinta vin­cente del cen­tro­si­ni­stra, un soc­corso rosso che com­pensa pro­prio la per­dita di voti del Pd renziano
Le ragioni profonde e i fondamenti del programma della lista della sinistra europea per le prossime elezioni nell'intervista di Jacopo Rosatelli all'autorevole sostenitore della lista Tsipras.

Il manifesto, 16 febbraio 2014

«Siamo in un momento cru­ciale. Cia­scuno dia il con­tri­buto che è nelle sue pos­si­bi­lità». Gustavo Zagre­bel­sky, ex pre­si­dente della Corte costi­tu­zio­nale, giu­ri­sta e intel­let­tuale di fama, guarda con molto inte­resse all’iniziativa che fa capo ad Ale­xis Tsi­pras, in vista delle pros­sime ele­zioni euro­pee: «C’è biso­gno di un sus­sulto di con­sa­pe­vo­lezza. E c’è poco tempo: dedi­chia­molo a spie­gare per­ché l’Europa ha biso­gno di una scossa e a chia­rirne i con­te­nuti da pre­sen­tare agli elettori».

Pro­fes­sore, lei sostiene che que­sta scossa può venire sol­tanto da un’affermazione del pro­getto che incarna il 39enne lea­der della sini­stra greca. Perché?

Pre­scin­diamo un momento dai nomi, guar­diamo prima al qua­dro d’insieme. Alle ele­zioni di mag­gio si affron­te­ranno due masto­donti: da una parte, gli anti­eu­ro­pei­sti, che sono tali in nome della rea­zione all’Europa della finanza che sta influendo pesan­te­mente sulle libertà demo­cra­ti­che dei Paesi in dif­fi­coltà; dall’altra, l’Europa degli inte­ressi della finanza incar­nati dagli Stati forti che impon­gono la loro legge ai deboli. I primi vogliono il ritorno alle sovra­nità chiuse, al nazio­na­li­smo. Gli altri vogliono il man­te­ni­mento dello sta­tus quo. Di fronte a que­sti due giganti, c’è una terza pos­si­bi­lità, rap­pre­sen­tata dall’iniziativa di Tsi­pras: è il recu­pero dell’idea di Europa dei padri fon­da­tori, che pen­sa­vano che l’integrazione eco­no­mica fosse solo il primo passo verso una piena inte­gra­zione poli­tica. Inol­tre, essendo un lea­der greco, la figura di Tsi­pras ha anche un aspetto sim­bo­lico, sia per­ché lì stanno le ori­gini della nostra civiltà, sia per la situa­zione in cui attual­mente versa quel Paese: non so se ci ren­diamo conto che qual­che mese fa ha chiuso l’Università di Atene.

Lei esclude, dun­que, che un simile ruolo di rot­tura pos­sano gio­carlo i socia­li­sti gui­dati dal tede­sco Mar­tin Schulz…

Non lo escludo affatto. Temo, però, che se si con­fron­te­ranno le due forze di cui dicevo — nazio­na­li­sti e «mer­ca­ti­sti» — alla fine la social­de­mo­cra­zia farà blocco con i con­ser­va­tori, nella logica delle lar­ghe intese, per far fronte al nemico comune. Sarebbe la para­lisi. So bene che quest’iniziativa della lista Tsi­pras è accu­sata di essere l’ennesimo ten­ta­tivo mino­ri­ta­rio, set­ta­rio, che fa il gioco di altri… Ma ormai non se ne può più di que­sto modo di ragio­nare. Penso che la que­stione Europa non si esau­ri­sca nell’allentamento del vin­colo del 3% deficit/pil o simili: c’è ben altro in gioco. Inten­dia­moci: met­tere in discus­sione i rigidi vin­coli finan­ziari, come dicono di voler fare i socia­li­sti, è pro­pe­deu­tico alle neces­sa­rie poli­ti­che di svi­luppo, ma è pur sem­pre un aggiu­sta­mento all’interno della logica che attual­mente regge l’Ue. Noi vogliamo riap­pro­priarci dell’idea dei padri fon­da­tori, che non si limi­tava alla dimen­sione mer­can­tile, ma mirava a un’idea politico-culturale: l’Europa come punto di rife­ri­mento per il mondo, basato sulle sue acqui­si­zioni civili e sociali. E se ciò potesse esi­stere, sarebbe anche un ele­mento d’equilibrio nei rap­porti inter­na­zio­nali: una dimen­sione total­mente estra­nea all’Ue di oggi, che non gioca alcun ruolo nella scena mon­diale e che non fa nulla affin­ché, ad esem­pio, i diritti sociali siano rico­no­sciuti anche nei Paesi di nuova indu­stria­liz­za­zione. Ma per farlo, dovrebbe prima esi­stere come entità poli­tica: per me, la lista Tsi­pras, scon­tran­dosi con gli inte­ressi delle nazio­na­lità chiuse e con quelli dei mer­cati glo­bali de-regolati, è un pro­getto che ha come primo obbiet­tivo costruire l’Europa come auten­tico spa­zio poli­tico demo­cra­tico. Siamo per­sino ancora «al di qua» di una divi­sione fra destra e sinistra.

Anche lei con­di­vide, come i pro­mo­tori dell’appello per la lista Tsi­pras, la neces­sità di cam­biare i trat­tati, magari attra­verso un pro­cesso costi­tuente. Sbaglio?

No, non sba­glia. Que­sto è ciò che dicono giu­sta­mente il movi­mento fede­ra­li­sta e, in gene­rale, tutti gli euro­pei­sti più avver­titi. Siamo in un momento in cui o si pone seria­mente il tema della demo­cra­tiz­za­zione delle isti­tu­zioni euro­pee o andremo incon­tro a un pro­gres­sivo depe­ri­mento dell’idea di Europa unita».

A pro­po­sito del pro­cesso costi­tuente non sarebbe come fare una costi­tu­zione senza popolo, senza un demos europeo…

Anche secondo me non si può fare una costi­tu­zione senza un popolo euro­peo, che attual­mente ancora non c’è. Ma ciò non signi­fica che abbiano ragione coloro che sosten­gono l’ipotesi «fun­zio­na­li­sta». Senza un popolo, c’è solo l’oligarchia. Senza demo­cra­zia, c’è solo la tec­no­cra­zia. Non può reg­gere l’Ue senza una sorta di «patriot­ti­smo» euro­peo, legato alla nostra con­sa­pe­vo­lezza orgo­gliosa di quella parte della sto­ria dell’Europa che ha gene­rato tol­le­ranza, diritti civili e sociali, uguale dignità degli esseri umani, amore per scienze e arte, pro­te­zione per i deboli, rifiuto di quel dar­wi­ni­smo sociale che, sotto forma di iper­li­be­ri­smo, sta inva­dendo il mondo. Una sto­ria fatta anche dalle sue cul­ture poli­ti­che: illu­mi­ni­smo, socia­li­smo e soli­da­ri­smo cri­stiano. Oggi, pur­troppo, c’è un impe­di­mento ogget­tivo alla pos­si­bi­lità di una costi­tu­zione euro­pea: l’indisponibilità alla soli­da­rietà fra Paesi. E se non c’è dispo­ni­bi­lità dei forti a con­di­vi­dere la fra­gi­lità dei deboli, non c’è costi­tu­zione che tenga.

Pensa che la Carta dei diritti fon­da­men­tali di Nizza sia una leva per aprire delle con­trad­di­zioni all’interno del diritto comu­ni­ta­rio vigente?

Quella Carta doveva essere la base di tutto, per­ché fon­dava la cit­ta­di­nanza euro­pea. È stata cri­ti­cata per essere sbi­lan­ciata sul piano dei diritti indi­vi­duali rispetto a quelli sociali, ma il pro­blema è che non è mai entrata dav­vero nel «san­gue» che cir­cola nella Ue: è vigente, ma è anche effet­tiva? Deci­sa­mente più «viva» è la Con­ven­zione euro­pea dei diritti umani, quella su cui vigila la Corte di Stra­sburgo. Va detto, tut­ta­via, che il ter­reno pura­mente giu­ri­dico è impor­tante, ma non è quello deter­mi­nante: di fronte alla bufera finan­zia­ria, il mondo del diritto non può fare molto. Ha biso­gno di essere ali­men­tato dal basso, dalla par­te­ci­pa­zione, dal fatto che «si avverta» che le carte e le corti hanno un ruolo. In ogni caso, biso­gna cer­ta­mente insi­stere sul fatto che una realtà come la troika (Com­mis­sione, Bce e Fondo mone­ta­rio, ndr) non ha alcun fon­da­mento giu­ri­dico: in base a cosa vanno a con­trol­lare i conti dei Paesi come la Gre­cia? Non c’è né legit­ti­mità né lega­lità. Eppure, i suoi con­trolli e responsi con­ta­bili con­tano molto di più dell’Europarlamento, e pos­sono addi­rit­tura aprire la strada al fal­li­mento degli stati. Un tema, quello del fal­li­mento, su cui occorre porre molto di più l’attenzione.

In che senso?

Fino a qual­che tempo fa, l’accostamento stato-fallimento sarebbe apparso un’aberrazione: lo Stato non poteva fal­lire. Se oggi non respin­giamo que­sto acco­sta­mento è per­ché accet­tiamo senza accor­ger­cene la degra­da­zione dello Stato a società com­mer­ciale. Ma non può essere così, è una con­trad­di­zione in ter­mini: lo Stato è un’altra cosa. Noi non pos­siamo par­te­ci­pare a un’istituzione come la Ue se essa pre­vede, tra i suoi stru­menti, il fal­li­mento dei suoi mem­bri: uno stru­mento capace di annul­larne le isti­tu­zioni demo­cra­ti­che. Da costi­tu­zio­na­li­sta, osservo che l’adesione dell’Italia alla Ue si fonda sull’art.11 della nostra Costi­tu­zione, che dice che si può limi­tare la sovra­nità a favore di isti­tu­zioni sovra­na­zio­nali, ma a con­di­zione che esse ser­vano la pace e la giu­sti­zia tra i popoli. Se ser­vono non a que­sti, ma ad altri scopi, che si fa? Diciamo: con la lista Tsi­pras ci si impe­gna per scon­fig­gere i due masto­donti di cui dicevo prima, essendo aperti a ogni pos­si­bile col­la­bo­ra­zione per una Europa di pace e di giustizia.

C’è chi ha cri­ti­cato l’idea di que­sta lista per­ché sarebbe ostile ai par­titi, quasi il frutto di una sorta di gril­li­smo da intel­let­tuali. Come risponde?

Io credo al ruolo inso­sti­tui­bile dei par­titi, e penso che la poli­tica — come inse­gna Max Weber — debba essere anche una pro­fes­sione. Se ci guar­diamo attorno, però, dob­biamo dire che in Ita­lia non sem­pre ciò che si chiama «par­tito poli­tico», è dav­vero «poli­tico». Abbiamo idea di che cosa deve essere la poli­tica? Die­tro la lista Tsi­pras, per come la vedo io, c’è invece un’idea pie­na­mente poli­tica di orga­niz­za­zione di biso­gni, inte­ressi e pro­spet­tive: mi auguro che que­sta espe­rienza possa ser­vire a moti­vare una parte di elet­to­rato che non va più a votare, sce­glie il Movi­mento 5Stelle o è delusa del par­tito cui finora ha dato il suo voto. Una parte sem­pre più grande di popo­la­zione, che — non credo ci sia nem­meno biso­gno di dirlo — è com­po­sta di molte per­sone di valore, di una parte buona di società

«Nel miracolo italiano la finanza, che allora non puramente speculativa investiva nelle imprese, ricoprì un ruolo decisivo». Il problema si chiama "capitalismo".

www.sbilanciamoci.info 14 febbraio 2014

È una mia opinione, ma ben più che il New Deal di Roosevelt fu la seconda guerra mondiale con le sue immense distruzioni e milioni di morti a far uscire il capitalismo dalla pesante crisi del 1929 e produrre i vari "miracoli", tra i quali quello italiano. In questo miracolo italiano un ruolo importante, direi decisivo, ebbe la finanza, che allora non era puramente speculativa come adesso (fare denaro con denaro), ma investiva nelle imprese produttive, o, addirittura, le creava. I protagonisti di questa vecchia finanza produttiva sono ancora ricordati e celebrati.

Penso a Cuccia, principe indiscusso di Mediobanca, a Mattioli della Banca commerciale, a Menichella, governatore di Bankitalia, a Beneduce capo dell'Iri (che oggi sarebbe quanto mai necessario) e tra i banchieri di allora ricorderei anche il mio amico Nerio Nesi. Allora – ripeto – le banche non investivano nelle banche o nei pericolosi derivati, ma nella produzione e in quella stagione grande fu la crescita di piccola e media industria. Come non ricordare i nomi di imprese prestigiose che oggi non ci sono più o sono emigrate: pensiamo solo alla Fiat. È il capitale finanziario quello che molti anni fa ci è stato illustrato da Rudolf Hilferding nel suo Il capitale finanziario , pubblicato da Feltrinelli con l'introduzione del bravissimo e dimenticato Giulio Pietranera.

Per tutto questo, pensare che la vecchia finanza fosse buona e quella di oggi cattiva sarebbe sbagliato: è cambiata la fase storica e siamo in una crisi epocale. È passato il tempo in cui crescevano occupazione e imprese. Montecatini, Edison, Montedison non ci sono più. Pensiamo alle imprese automobilistiche, alla Fiat che aveva inglobato Lancia e Alfa Romeo: tutto in Olanda e Inghilterra. Sarebbe lunghissimo l'elenco delle imprese scomparse e delocalizzate. Certamente negli anni cinquanta e sessanta c'era una finanza benigna, ma non possiamo cavarcela dicendo che la finanza è diventata cattiva. Non possiamo chiudere gli occhi di fronte alla crisi globale che sta investendo tutta l'economia, non solo quella italiana. Ma anche la vecchia finanza virtuosa non durò a lungo. Cominciarono scalate e imbrogli quasi delittuosi. Vale ricordare che le banche francesi si impadronirono della Banca Nazionale del Lavoro. E, ancora peggio, va ricordato l'intervento di Michele Sindona e lo scandalo pesante del Banco Ambrosiano con la morte, a Londra sotto il ponte dei Blackfriars del banchiere Roberto Calvi. Ma adesso che fare? Spargere lacrime sulla vecchia e generosa finanza non servirebbe a niente e direi che non avremmo neppure i fazzoletti per asciugarle. Io credo che dovremmo leggere la lezione del passato e ricordare che in quella crescita decisivo fu l'Iri, cioè l'intervento dello Stato e un blocco alle privatizzazioni in corso. Si tratta di affrontare questa crisi con l'intervento pubblico e con il netto rifiuto dell'austerità: aver messo in Costituzione il pareggio di bilancio è precludersi ogni avvenire, è delittuoso. Siamo in una situazione nella quale la conclamata virtù del risparmio diventa una pratica suicida.

NB. Per chi voglia approfondire la questione raccomando la lettura dei due volumi del CiriecProtagonisti dell'intervento pubblico in Italia, pubblicati da Aragno Editore.

Con Civati e Fassina, e altri che stanno ancora nel PD, siamo d'accordo sull'Europa: ma «il pro­blema sorge quando dalle dichia­ra­zioni ideali si passa al com­por­ta­mento pra­tico

». Il manifesto, 15 febbraio 2014
Sostiene Ste­fano Fas­sina (vedi il manifesto dell’11 feb­braio), e con ottime ragioni, che l’eurozona è sulla rotta del Tita­nic: l’iceberg è sem­pre più vicino, l’Unione già è frat­tu­rata in più punti. Ma non nascon­dia­moci che a costruire una nave così mal­fatta, e a imboc­care una rotta così rovi­nosa, c’è pur­troppo la sini­stra clas­sica euro­pea, e in prima fila il Pd. Anche per que­sto abbiamo scelto Ale­xis Tsi­pras come punto di rife­ri­mento e imbar­ca­zione alter­na­tiva. Il suo giu­di­zio su social­de­mo­cra­tici e socia­li­sti euro­pei è molto severo, e per parte mia lo condivido.

A par­tire dalla metà degli anni ‘90, la loro rotta è stata pre­ci­sa­mente quella che ci ha por­tato a sbat­tere con­tro l’iceberg. Non dimen­ti­chiamo poi che Tony Blair ha fatto di tutto per sfa­sciare quel poco di unione che c’era in Europa. Ha lavo­rato con­tro ogni pro­po­sta fede­rale nella Con­ven­zione che nego­ziò il Trat­tato di Lisbona; ha siste­ma­ti­ca­mente difeso la rina­zio­na­liz­za­zione delle poli­ti­che comu­ni­ta­rie; ha con­tri­buito in larga misura al ritorno della vec­chia balance of powers nel con­ti­nente: a quell’equilibrio fra sovra­nità nazio­nali asso­lute che lo pre­ci­pitò nel ‘900 in due guerre mon­diali e con­tro cui si sca­glia, da anni, Jür­gen Haber­mas. È que­sta balance of powers ad aver creato un pre­do­mi­nio tede­sco del tutto esor­bi­tante, non una qual­che male­fica natura della Germania.

La linea Blair è oggi vin­cente nell’Unione, ed è distrut­tiva al mas­simo grado. Lo è anche per quanto riguarda la sto­ria della sini­stra: il patri­mo­nio della sini­stra era ed è ancora la bat­ta­glia per l’uguaglianza sociale e il bene pub­blico, e Blair l’ha pol­ve­riz­zato, dando vita a quella che Marco Revelli chiamò, sin dal 1996, la fune­sta riva­lità fra «Due Destre». È all’elettorato in rivolta con­tro quest’involuzione che si rivolge la Lista Tsi­pras, oltre che a tutti gli euro­pei­sti insu­bor­di­nati che — lo dicono i son­daggi — sono in Ita­lia una grande mag­gio­ranza, pre­sente in varie for­ma­zioni poli­ti­che, in ini­zia­tive e comi­tati cit­ta­dini, in gran parte dell’astensionismo. Per inciso, ricordo qui che Tony Blair resta ancor oggi, nono­stante le deva­sta­zioni che ha lasciato in ere­dità, il modello prin­ci­pale cui Mat­teo Renzi pro­mette di atte­nersi. L’involuzione del Pd, con Renzi, non subi­sce bat­tute d’arresto.

So benis­simo che nel Par­tito demo­cra­tico e anche nel gruppo socia­li­sta euro­peo esi­stono forze con­tra­rie a que­sta rotta. Tra que­ste forze ci sono Giu­seppe Civati e – in alcuni momenti e di nuovo nell’articolo che ha scritto sul mani­fe­sto – anche Fas­sina. Il pro­blema sorge quando dalle dichia­ra­zioni ideali si passa al com­por­ta­mento pra­tico. Il Pd, che dal 2011 è tor­nato al governo – prima coa­liz­zato con Ber­lu­sconi, poi con il Cen­tro destra di Alfano, per pre­pa­rarsi oggi a una nuova Grande o Pic­cola Intesa – non ha esi­tato un secondo ad accet­tare, nel 2012, che il Fiscal Com­pact venisse inse­rito nella Costi­tu­zione. La verità è che non c’era obbligo alcuno di farlo. La Com­mis­sione euro­pea s’era limi­tata a dire che tale solu­zione era «pre­fe­ri­bile», e senza pro­vo­care strappi il governo fran­cese si è rifiu­tato di costi­tu­zio­na­liz­zare il pareg­gio di bilan­cio. Di que­sta schia­vitù volon­ta­ria, ter­ri­bil­mente costosa per gli ita­liani già pie­gati dalla crisi, non scorgo trac­cia nell’articolo di Fas­sina, né tan­to­meno nelle parole di Renzi.

Stesso pec­cato di omis­sione per quanto riguarda la tro­jka, che il gruppo socia­li­sta a Stra­sburgo ha recen­te­mente giu­di­cato ille­gale dal punto di vista comu­ni­ta­rio, e fonte di gravi con­flitti di inte­resse (sia per quanto riguarda la Com­mis­sione che la Bce). Ma cri­ti­che simili giun­gono dav­vero in ritardo – la deci­sione di alzare la voce è stata presa solo nel gen­naio scorso! – a disa­stro ormai avve­nuto.
Ana­logo diva­rio tra parole e com­por­ta­menti reali è ritro­va­bile nella poli­tica fin qui seguita da Mar­tin Schulz, candidato-presidente dei socia­li­sti euro­pei e del Pd. Tra le nume­rose sue incoe­renze, vor­rei qui ram­men­tare il ruolo che ha svolto nel nego­ziato per la Grande Coa­li­zione in Ger­ma­nia, dopo le ele­zioni di set­tem­bre: la parte euro­pea dell’accordo lo ha visto pro­ta­go­ni­sta, nella veste di Pre­si­dente del Par­la­mento di Stra­sburgo, e cia­scuno ha potuto con­sta­tare come il capi­tolo euro­peo riprenda in toto le idee di Angela Mer­kel, com­prese le obie­zioni che fin dall’inizio della crisi il suo governo e la Bun­de­sbank hanno mosso a un mag­giore coin­vol­gi­mento della Banca cen­trale euro­pea, agli euro­bond, a una gestione soli­dale dei debiti pub­blici, al Piano Mar­shall che il par­tito social­de­mo­cra­tico aveva difeso in cam­pa­gna elet­to­rale. Se c’è una cer­tezza che anima oggi Schulz è la seguente: è da una Grande Coa­li­zione social-conservatrice che dipende la sua aspi­ra­zione a essere eletto Pre­si­dente dell’esecutivo euro­peo, o anche solo Commissario.

Detto que­sto, con­cordo su molti punti di sostanza elen­cati da Fas­sina: occorre scar­di­nare gli equi­li­bri esi­stenti nel Par­la­mento euro­peo, uscire dalle chiu­sure della sini­stra radi­cale imper­so­nata dal Gue, sven­tare un’ennesima Larga Intesa fra socia­li­sti e par­tito popo­lare (ma come giu­sti­fica, a que­sto punto, l’intesa Renzi-Alfano-Berlusconi su governo e riforme isti­tu­zio­nali?). Occorre creare un vasto schie­ra­mento di euro­pei­sti con­tro i difen­sori dello sta­tus quo. Uno schie­ra­mento che potrebbe inclu­dere un Gue in mag­giore sin­to­nia con Tsi­pras, dun­que tra­sfor­mato, i Verdi, i socia­li­sti con­trari al patto con il cen­tro destra, i futuri depu­tati Cin­que Stelle, e anche i libe­rali che for­tu­na­ta­mente hanno indi­cato come candidato-Presidente una per­sona di chiara fama euro­pei­sta, Guy Verhofstadt.

Ma prima, toc­cherà vedere quali saranno le forze che emer­ge­ranno dalla com­pe­ti­zione di mag­gio, e se sarà rea­liz­za­bile una mag­gio­ranza tra­sver­sale in favore di scelte essen­ziali, che rias­su­me­rei così: sì all’euro, ma in un’Unione che abban­doni le poli­ti­che di auste­rità e il Fiscal com­pact, che si dia isti­tu­zioni demo­cra­ti­che e dun­que un Par­la­mento costi­tuente, che fac­cia nascere una Banca cen­trale che sia pre­sta­trice di ultima istanza, non con­ti­nua­mente alla mercé del più influente Isti­tuto di emis­sione nazio­nale, la Bun­de­sbank tede­sca. No all’Europa delle Costi­tu­zioni vio­late e dei cit­ta­dini ina­scol­tati, no alla tro­jka Commissione-Banca centrale-Fondo mone­ta­rio; sì a un bilan­cio euro­peo in cre­scita, da uti­liz­zare per piani di comuni inve­sti­menti in una ripresa eco­no­mica eco­so­ste­ni­bile, sulla scia della pro­po­sta «New Deal 4», che pre­vede un’Iniziativa di cit­ta­dini euro­pei (Ice) sulla base dell’articolo 11 del Trat­tato di Lisbona. Il che vuol dire, con­se­guen­te­mente, sì all’’introduzione di una tassa sulle tran­sa­zioni finan­zia­rie e sull’emissione di ani­dride car­bo­nica, ma con l’impegno a devol­vere il get­tito al comune bilan­cio comu­ni­ta­rio. E ancora: no a un Trat­tato com­mer­ciale con gli Stati Uniti che metta fra paren­tesi le due tasse (Tobin tax e car­bon tax) e sca­val­chi le norme e gli stan­dard di qua­lità che l’Europa impone al com­mer­cio di pro­dotti nocivi alla salute e al clima, e la cura di ser­vizi pub­blici come acqua o ener­gia. Sì, infine, ai diritti dei vec­chi e nuovi cit­ta­dini euro­pei – e no a un Medi­ter­ra­neo che già oggi è tomba di decine di migliaia di immigrati.

Il Mani­fe­sto per un’altra Europa sug­ge­rito da Fas­sina si costruirà dopo que­sta com­pe­ti­zione fra idee e com­por­ta­menti radi­cal­mente lon­tani, al momento, gli uni dagli altri. Dif­fi­cile pen­sarlo nel momento in cui assi­stiamo all’ennesimo fra­tri­ci­dio avve­nuto den­tro il Pd. Un fra­tri­ci­dio che ci ricon­se­gna la for­mula delle Grande Intese, e un sem­plice cam­bio di maschera al ver­tice (la maschera di Renzi al posto di quella di Letta). Se da que­sto scon­quasso e da que­sti sot­ter­ra­nei tra­di­menti nascerà a Stra­sburgo un accordo sulle linee pro­spet­tate da Fas­sina, sarà una di quelle «divine sor­prese» di cui pren­de­remo atto, senza smet­tere di vigi­lare sulla coe­renza tra parole e azioni


Per respirare un po', riflettiamo su una concezione di "austerità" agli antipodi di quella che oggi, nell'età renzusconiana, i più sembrano avere. Un intervento al convegno sul tema "Berlinguer e la serietà della politica",Roma 11 febbraio 2014.

Futura umanità, 14 febbraio 2014

La questione dell’austerità si eleva, nella proposta di Berlinguer, al livello di una visione del mondo, fondata sulla storicità delle formazioni economico-sociali e quindi sul principio di trasformabilità delle relazioni tra gli esseri umani, e tra questi e l’ambiente naturale in cui avviene la loro riproduzione. Forse, proprio per questa visione dinamica, volta al cambiamento dei fondamenti sociali e del senso comune, la questione dell’austerità è stata una delle più contrastate e falsificate tra le elaborazioni e le proposte politiche del segretario del Pci.

«Noi – disse Berlinguer agli operai comunisti nel discorso di Milano il 30 gennaio 1977 – dobbiamo tenere la testa sopra il pelo dell’acqua, per continuare a pensare, a ragionare, a guardare lontano, cioè più in là dell’immediato, per staccarci dalle vecchie rive e approdare a lidi nuovi». Quindi, l’austerità, al contrario di quanto sostenevano i critici più rozzi e interessati, non era l’annuncio di una politica lacrime e sangue, come sarà praticata sistematicamente a danno dei lavoratori dai governi imperniati sulla pregiudiziale anticomunista. Tanto meno era la predicazione dell’indigenza generalizzata da parte di un «frate zoccolante», come qualcuno definì Berlinguer. Era invece un’altra visione della società e della vita fondata sulla solidarietà e l’uguaglianza, rispetto al consumismo e all’egoismo esasperati, vellicati e sospinti dalla controrivoluzione liberista.

Ma Berlinguer – e questo aspetto non andrebbe mai smarrito – non era un solitario sognatore. Bensì il segretario di un partito, denominato comunista, che si proponeva allora di trasformare la società in una civiltà più avanzata secondo il disegno costituzionale, che fonda sul lavoro la Repubblica democratica. In tale contesto (cito dal famoso discorso dell’Eliseo), «l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo», dunque «un’occasione per uno sviluppo economico e sociale nuovo». Viene così in primo piano il nodo della qualità e delle finalità dello sviluppo, del perché e per chi produrre. Ovvero, del senso da dare all’austerità, e perciò il nodo dell’uso delle risorse, umane e naturali.

Se lo scopo da perseguire non è l’incremento indefinito del profitto, ma il soddisfacimento dei grandi bisogni umani in consonanza con la riproduzione equilibrata dei fattori naturali, allora c’è bisogno di un altro ordine dei fattori economici e di un altro paradigma sociale. E per ottenere ciò non basta una più equa distribuzione della ricchezza, sebbene si tratti di una questione essenziale. Occorre intervenire nei rapporti di produzione e nel processo di accumulazione. Insomma, precisa Berlinguer, c’è bisogno di «un intervento innovatore nell’assetto proprietario» e di introdurre criteri, valori e obiettivi «propri del socialismo» nella conformazione materiale e ideale della società.

Secondo il segretario del Pci, l’Italia vive uno di quei momenti della storia nei quali o si avvia «una trasformazione rivoluzionaria della società» o si può andare incontro «alla decadenza di una civiltà, alla rovina di un Paese». Perciò la fuoriuscita «dal quadro e dalla logica del capitalismo» attraverso l’austerità verso una civiltà più avanzata, nella quale l’economia sia al servizio dell’uomo e non viceversa, secondo il suo pensiero è interesse non solo della classe operaia e dei comunisti, bensì di strati ben più vasti di popolo, in definitiva dell’intera nazione.

All’impostazione modernamente rivoluzionaria di Enrico Berlinguer, che nasce non da pregiudizi ideologici ma da una visione dinamica del cambiamento basata su ragioni oggettive, è stato contrapposto il pregiudizio, questo sì ideologico, della non trasformabilità del sistema. Un dogma laico, diventato la stella polare di Thatcher e di Reagan, costruito sul vecchio ideologismo che trasforma le relazioni sociali tipiche del rapporto di produzione capitalistico in immutabili leggi di natura valide per l’eternità, dalla cui gabbia per definizione non si può uscire.

Mi sembra emblematico il fatto che Eugenio Scalfari, il quale sempre con grande sensibilità e rispetto ricorda i suoi incontri con Berlinguer, ancora nel settembre 2006, alla vigilia della crisi nella quale tuttora siamo immersi, concludendo un lungo e problematico dibattito sul tema del socialismo abbia sinteticamente affermato che (cito testualmente) «uscire dal capitalismo è una bubbola». Questo perché, spiega il fondatore di Repubblica, l’accumulazione del capitale «non è – testuale -un fenomeno del capitalismo», «ma della scarsità di risorse». Quindi non si può cambiare. Di conseguenza, anche le disuguaglianze (parliamo ovviamente delle disuguaglianze sociali non delle diversità biologiche), che sono (ancora testuale) «un fenomeno naturale» e «fanno parte della natura della nostra specie», non sono a loro volta eliminabili.

Dove portano queste premesse? Anche in questo caso la risposta di Scalfari è perentoria: «Esattamente all’accettazione del riformismo, cioè alla gradualità per temperare processi comunque inevitabili». Dove è evidente che il riformismo gradualista non è concepito come un processo di superamento dei rapporti sociali esistenti, ma come un tentativo di temperare, appunto, le contraddizioni laceranti del capitalismo per consolidarne la presa sulla società.

In conclusione, mi pare che per uscire da questo tempo di crisi senza fine una riflessione s’imponga sulla necessità di rovesciare i canoni della cultura dominante, a cominciare proprio dal dogma della non trasformabilità del sistema, come fece ai suoi tempi il segretario del Pci. Il valore della sua azione e della sua ricerca appare oggi tanto più rilevante, sebbene fortemente sottovalutata, perché in un mondo diviso dalla guerra fredda, in cui si fronteggiavano due sistemi entrambi declinanti, il capitalismo ad Ovest (poi risultato vincente sotto la spinta neoliberale) e il «socialismo realizzato» ad Est (poi imploso), Enrico Berlinguer fu l’unico dirigente politico di levatura internazionale che pose in termini concreti nel cuore d’Europa il problema della costruzione di una società nuova, diversa dai modelli esistenti a Est come a Ovest.

Superata a suo giudizio la fase del movimento per il socialismo scaturita dalla Rivoluzione d’Ottobre, d’altra parte anche la fase socialdemocratica del movimento operaio era venuta esaurendosi, giacché – precisava Berlinguer – nessuno degli «esperimenti socialdemocratici ha portato al superamento del capitalismo» in Paesi dove crescono non solo gravi disagi per grandi masse di lavoratori. Ma anche il malessere, le ansie, le angosce, «quella che si potrebbe definire l’infelicità dell’uomo di oggi».

La morte ha colpito il segretario comunista come un operaio sul lavoro, mentre nella tempesta dell’offensiva liberista stava guidando il Pci lungo un percorso inesplorato, alla ricerca di una società più giusta e avanzata, in cui il socialismo si coniughi con la democrazia e l’uguaglianza con la libertà. L’austerità fu pensata in un’altra fase della storia, oggi tutto è diverso. Ma i problemi di quel mondo che Berlinguer con la sua lotta voleva cambiare restano, e si sono aggravati. Perciò chi voglia cambiare davvero lo stato di cose presente oggi dal suo pensiero e dal suo esempio non può prescindere.

L’Unità, 15 febbraio 2014


Dopo due mesi di (quasi) silenzio dopole primarie dell’8 dicembre, Pippo Civati sembra deciso a tornare a far rumore.Il successo di pubblico del suo no al governo Renzi giovedì in direzione (ilsuo intervento ha ottenuto più visualizzazioni di quello del segretario suYoudem) lo ha spinto ad alzare i toni. E così ieri sul blog è apparso un postdal titolo: «Quasi quasi fondo il Nuovo Centro Sinistra. Recupero una dozzinadi senatori. Poi vado da Renzi e gli dico il contrario di quello che propongonoFormigoni e Sacconi. Nuovo Centro Destra contro Nuovo Centro Sinistra». Segueuna lista di temi di sinistra, dalle nozze gay alla legalizzazione delle drogheleggere. «E vediamo come va a finire...».

Sembra una provocazione, una dellebattute che hanno reso celebre il deputato di Monza. Ma non lo è. È un’idea, ancorain embrione. «Non è una battuta, perché sicuramente noi il protagonismo dentroe fuori il Parlamento lo vorremmo. Quando ci saranno le trattative per questopatto per il governo ci va Renzi e Alfano o c’è anche una soggettività del Pddiversa? C'è ancora la sinistra in questo Paese?», ha detto Civati a Genova,durante un tour nel Nord a sostegno dei suoi candidati alle segreterieregionali. E ancora: «È tutto il giorno che incontro persone che mi chiedono diuscire dal Pd». «Scissione? Più che altro si stanno scindendo gli elettori», haaggiunto Civati. «Noi governiamo il Paese con una maggioranza che nonrappresenta nemmeno il 50% degli elettori. È una cosa enorme. Pensiamo diandare avanti così con un governo non di emergenza ma politico fino alla finedella legislatura? Al congresso del Pd nessuno aveva fatto una proposta diquesto tipo».

Civati si schiera a difesa di Letta,definisce «ingeneroso» il trattamento ricevuto dal premier uscente, una«manovra da vecchia politica». E spiega: «Il problema non è cambiare Letta conRenzi. Il problema è fare un governo di legislatura con Alfano. E le ragionidella sinistra devono pesare almeno quanto quelle di Formigoni...».

I numeridel Senato fanno riflettere. Con Civati si sono schieratialle primarie 7 senatori. Tra questi LauraPuppato, che in direzione ha votato con la maggioranza. Ne restano sei, tra cuiFelice Casson, Walter Tocci e Corradino Mineo. Considerati i margini ristrettidella maggioranza, anche una piccola pattuglia di dissidenti potrebbe renderela vita del nuovo governo complicata. Soprattutto se non arriverà nessunsoccorso da Sel e dal M5S. «Con Ncd non siamo d’accordo su quasi nulla», spiegaCasson. «E in questi mesi gli scontri in Senato sono stati continui. Se ilnuovo governo pensa di appiattirsi sull’asse con Ncd sarà un disastro». «Siamogente responsabile, non abbiamo nessuna intenzione di fare la guerra al Pd e aRenzi», aggiunge l’ex pm. «Ma daremo battaglia sui contenuti, come abbiamofatto su F35 e voto di scambio politico mafioso».

Mineo rincara: «Un governo sotto ilricatto di Alfano non conviene neppure a Renzi, forse fa comodo anche a lui chesi coaguli un’area di sinistra che consenta al premier di riequilibrare il pesodi Ncd. Un’area a cui potrebbero guardare anche i senatori di Sel e alcunidissidenti del M5S». «Noi non vogliamo rompere o sabotare», aggiunge Mineo. «Maserve una mossa per evitare una maggioranza fotocopia di quella di Letta, chesarebbe la fine del Pd».

Parole chiare, conclusione ineccepibile: «Chi vota Renzi in Par­la­mento vota espli­ci­ta­mente per la deca­denza della demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva in que­sto paese: cioè vota con­tro gli orga­ni­smi stessi in cui vive ed opera» L'unico lumicino è fuori dal PD.

Il manifesto, 15 febbraio 2014.

Ho pas­sato buona parte della mia vita (poli­tica e civile, s’intende) a com­bat­tere le scle­rosi con­ser­va­trici dell’assetto politico-istituzionale ita­liano, la sua gene­tica pro­pen­sione a per­cor­rere e riper­cor­rere senza fine le vec­chie abi­tu­dini e i vec­chi vizi. Dopo il mio ultimo arti­colo (“Nuovi, ma diversi”, il manifesto, 16 gen­naio) sono stato attac­cato da destra e da sini­stra (si fa per dire) come difen­sore intran­si­gente dello sta­tus quo, sordo alle esi­genze del nuovo che avanza. Ancora una volta era tutto il con­tra­rio: mi sono sfor­zato, come sem­pre, di mostrare di quale vec­chiume gron­dasse, die­tro le super­fi­ciali appa­renze, il nuovo che avanza.

Non mi sarei aspet­tato però, — lo dico con grande sin­ce­rità, — che nel giro di pochi giorni il nuovo che avanza sve­lasse così chia­ra­mente il grumo di ottusa bru­ta­lità e di ata­vica ripe­ti­ti­vità, che esso nasconde. Mi rife­ri­sco ovvia­mente a quanto è acca­duto in seno alla (sedi­cente) Dire­zione del Pd, e nei suoi din­torni. Sem­pre più provo l’impressione che inter­preti e com­men­ta­tori della vicenda poli­tica ita­liana, ottusi (in que­sto caso uso il ter­mine in senso stret­ta­mente tec­nico) dal loro lungo mestiere, abbiano perso il senso delle cose che accadono.

Dun­que:
La Dire­zione di un Par­tito rove­scia a lar­ghis­sima mag­gio­ranza un Pre­si­dente del Con­si­glio che fa parte di quella Dire­zione ed è espo­nente auto­re­vole e rispet­tato di quel Partito;
Di tale deci­sione non viene data nes­suna (non intendo dire: nes­suna cre­di­bile, sia poli­tica, sia sociale, sia eco­no­mica, sia per­so­nale; dico nes­suna) spie­ga­zione, che non sia l’energizzazione vita­li­stica del processo;
Non c’è pro­gramma, non c’è pro­po­sta, non c’è dire­zione di mar­cia, non c’è (una pos­si­bile e nuova) meto­do­lo­gia del con­fronto e dell’agire poli­tico, non c’è indi­ca­zione di una nuova maggioranza;
L’energizzazione vita­li­stica del pro­cesso viene per­ciò affi­data inte­ra­mente alle pre­sunte (molto pre­sunte) capa­cità spet­ta­co­lari di un pro­ta­go­ni­sta, Mat­teo Renzi.

Ossia un poli­tico di cui in realtà non si sa nulla, né capa­cità ammi­ni­stra­tive nazio­nali né rela­zioni inter­na­zio­nali né cul­tura poli­tica, ma solo la “smi­su­rata ambi­zione” di rag­giun­gere il “suo” risul­tato il prima pos­si­bile, rove­sciando il tavolo, offrendo i sodali, igno­rando le regole, esi­bendo atti­tu­dini cabarettistiche.

Ma c’è di più, c’è qual­cosa che rende il tutto - in sè grot­te­sco e addi­rit­tura inve­ro­si­mile - peri­co­loso e da guar­dare con il mas­simo dell’attenzione. In un regime democratico-rappresentativo il potere, anche quello per­so­nale, si forma lungo i raggi di una filiera che pre­senta, a ogni suo snodo, un’occasione di veri­fica e, nel caso, di pro­mo­zione. Sap­piamo benis­simo che que­sto modello, — che può anche non esserci pia­ciuto molto in pas­sato, ma di cui finora non s’è tro­vato uno migliore, — è già stato, ed è tut­tora, almeno in Ita­lia, logo­rato da mol­te­plici motivi di deca­denza. Ber­lu­sconi e il ber­lu­sco­ni­smo, Grillo e il gril­li­smo, ne costi­tui­scono gli esempi più clamorosi.

Renzi e il ren­zi­smo costi­tui­scono l’improvviso e improv­vi­sato ade­gua­mento del cen­tro­si­ni­stra e della sini­stra a tale model­liz­za­zione politico-istituzionale non democratico-rappresentativa (forse potremmo dire, da que­sto momento in poi, più fran­ca­mente antidemocratico-rappresentativa). Ma que­sto già lo sape­vamo, e l’abbiamo per giunta già detto. Cos’è suc­cesso allora per stu­pirci e pre­oc­cu­parci di più, molto di più? E’ suc­cesso che lo schema non democratico-rappresentativo viene ora tra­sfe­rito, senza sforzo appa­rente, dal livello di una forza politico-partitica, sia pure di prim’ordine, a quello del governo del paese. Ossia: anche il governo del paese viene sot­tratto al mec­ca­ni­smo delle veri­fi­che e delle pro­mo­zioni con­nesse tra­di­zio­nal­mente con il sistema democratico-rappresentativo, e dele­gato a una pro­ble­ma­tica, anzi oscura con­sul­ta­zione extra-democratico-rappresentativa.

E cioè: l’unica fonte (chiedo a tutti di riflet­tere su que­sta spe­ci­fi­ca­zione che spiega tutto: l’unica, l’unica, l’unica) del potere ren­ziano è il risul­tato delle pri­ma­rie dell’8 dicem­bre 2013, in cui ha scon­fitto i due can­di­dati alter­na­tivi, Cuperlo e Civati. Io con­te­sto (posso farlo tran­quil­la­mente: l’ho fatto da sem­pre) il valore legit­ti­mante, in senso democratico-rappresentativo, delle cosid­dette pri­ma­rie. Le pri­ma­rie pos­sono avere un valore orien­ta­tivo per la scelta di un can­di­dato di coa­li­zione in pre­senza di una prova elet­to­rale. Sono un’aberrazione ine­nar­ra­bile quando ne deri­vano la carica di Segre­ta­rio di un Par­tito, e il pra­tico, con­se­guente impos­ses­sa­mento di que­sto (mag­gio­ranza asso­luta in dire­zione, ecc. ecc.). Sarebbe come se gli organi diri­genti della Shell o dell’Eni fos­sero scelti dai pas­santi che si tro­vano a tran­si­tare in un giorno casual­mente scelto nella strada sotto le loro sedi. Se tale pro­ce­dura, per giunta, è stata messa in sta­tuto, affa­racci loro, e cioè degli stu­pidi uomini della Shell o dell’Eni, o di quel par­tito di cui stiamo par­lando. Ma se il mec­ca­ni­smo viene tra­sfe­rito di peso alla for­ma­zione di un Governo, che dovrebbe rap­pre­sen­tarci tutti, non sono più affa­racci loro, sono affari nostri. Che c’entriamo noi con l’arroganza e insieme con la stu­pi­dità del gruppo diri­gente del Pd, pas­sato e presente?

Di con­se­guenza io con­te­sto dura­mente anche la leg­git­ti­mità di un Governo che sulla base di code­ste pro­ce­dure fondi la genesi della sua costi­tu­zione come for­ma­zione di potere nella gestione delle cose ita­liane, cioè le nostre. E’ la prima volta che accade nella sto­ria dell’Italia repub­bli­cana. Per­fino il Cava­liere è andato più volte al Governo con la forza del voto. Quando non ne aveva abba­stanza, li com­prava. Ma al dun­que, com­prati o no, sem­pre voti in Par­la­mento erano. I voti su cui Renzi fonda la pro­pria pre­tesa di andare ipso facto al Governo sono quelli della massa che poli­ti­ca­mente non si esprime, resta a guar­dare, è capace sol­tanto di quel gesto ple­bi­sci­ta­rio che affida a qual­cuno, il Pre­de­sti­nato, le pro­prie sorti. Disprezzo per la “demo­cra­zia diretta”, per la “demo­cra­zia dal basso”? Figu­ria­moci. Disprezzo sol­tanto per tutto ciò che delega ad altri, senza sfor­zarsi di emer­gere, il pro­prio destino. L’Italia, ahimè, ha una solida tra­di­zione in que­sto campo, e la coa­zione a ripe­tere, in tempi, obiet­ti­va­mente, di crisi interna del sistema democratico-rappresentativo, torna a riemergere.

In attesa di orga­niz­zare una rispo­sta al di fuori della cer­chia attuale del potere, — qual­cosa come sap­piamo si è già comin­ciato a fare, — l’ultima trin­cea resta per ora il Par­la­mento, que­sto Par­la­mento. Dio mio. Una buona discus­sione sull’illegittimità politico-istituzionale e costi­tu­zio­nale delle pro­ce­dure fin qui seguite ser­vi­rebbe comun­que in tale sede a defi­nire, pre­ci­sare e con­fi­nare nei suoi limiti que­sta ine­dita, ed enne­sima, scia­gura ita­liana. Chi vota Renzi in Par­la­mento vota espli­ci­ta­mente per la deca­denza della demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva in que­sto paese: cioè vota con­tro gli orga­ni­smi stessi in cui vive ed opera.

Né s’invochino, per favore, come ormai si fa da decenni, le sorti poli­ti­che, eco­no­mi­che ed euro­pee della povera Ita­lia. L’ultimo a poterlo fare con qual­che leg­git­ti­mità, almeno for­male, è stato Enrico Letta. Tolto di mezzo Letta, l’Italia sta altrove.

Chi come me non ha smesso di pra­ti­care sonde che con­sen­tono di rile­vare rea­zioni nel corpo vivo del paese, coglie tutt’intorno una stu­pe­fa­zione pro­fonda, un senso di smar­ri­mento senza pari. Forse il (mode­sto) Con­du­ca­tor sta per­dendo la sua ener­gia vita­li­stica pro­prio nel momento in cui essa sem­bre­rebbe por­tarlo al ver­tice. Que­sto paese, cui si vor­rebbe negare tutto, si sta indi­gnando. Non è poco.

«Solo Civati (in sedici hanno votato con­tro) non si è unito al coro. Denun­ciando il rischio che tutto il Pd, e quel che più conta il paese, affondi defi­ni­ti­va­mente nella palude. Dove solo un ani­male può soprav­vi­vere: il caimano» . Il

manifesto, 14 febbraio 2014

Per pro­fu­mare l’odore acre della mano­vra di palazzo, per dis­si­mu­lare la bru­ta­lità di uno scon­tro fra­tri­cida, per coprire la gra­vità di una crisi extra­par­la­men­tare decisa da un solo par­tito che smen­ti­sce le pri­ma­rie e si fa beffe del dram­ma­tico distacco tra eletti e elet­tori, nel con­clave del Pd la parte del leone l’hanno fatta gli incol­pe­voli poeti. Il segretario-sindaco-futuro pre­mier ne ha tirati in ballo due o tre, per far­gli dire che ambi­zione smi­su­rata e corag­gio sono due virtù, pro­prio quelle che lo spin­gono a cogliere “l’attimo fug­gente” per disar­cio­nare Enrico Letta dalla pol­trona di palazzo Chigi.
L’atto finale è durato un paio d’ore e pochi minuti dopo la vota­zione di un ordine del giorno della dire­zione che gli dava il ben­ser­vito, il pre­si­dente del con­si­glio ha annun­ciato la for­ma­liz­za­zione delle pro­prie dimis­sioni, oggi, nelle mani del Capo dello Stato.

Una mag­gio­ranza che un tempo si sarebbe defi­nita bul­gara ha applau­dito la scelta di una crisi a pre­scin­dere (anche Totò era un poeta ma non ha avuto l’onore della cita­zione). A pre­scin­dere per­ché non una parola è stata spesa per i con­te­nuti di que­sto governo ren­ziano (e tan­to­meno del pro­gramma offerto da Letta alla discus­sione). A pre­scin­dere per­ché niente è stato detto sullo schie­ra­mento alter­na­tivo che dovrebbe sor­reg­gere e giu­sti­fi­care que­sto cam­bio della guar­dia con incor­po­rata garan­zia di blin­da­tura fino al 2018. Tanto che la sini­stra dei Cuperlo e dei Fas­sina ha messo agli atti che se la discon­ti­nuità riven­di­cata da Renzi per la sua ascesa al comando è quella ascol­tata da alcuni inter­venti in dire­zione, «siamo più a destra» del governo che oggi se ne va. Ma solo Civati (in sedici hanno votato con­tro[v. nota in calce]) non si è unito al coro. Denun­ciando il rischio che tutto il Pd, e quel che più conta il paese, affondi defi­ni­ti­va­mente nella palude. Dove solo un ani­male può soprav­vi­vere: il caimano.

In realtà l’unica vera discon­ti­nuità del governo ren­ziano sta nella sot­to­li­nea­tura della natura non più tec­nica, emer­gen­ziale, ma poli­tica e di legi­sla­tura dell’operazione in corso. In altre parole non più un “governo del pre­si­dente”, con Napo­li­tano ispi­ra­tore della sua mis­sione e di alcuni ministri-chiave, come è avve­nuto per i governi Monti e Letta. Pro­prio l’ipotesi più invisa ai diver­sa­mente ber­lu­sco­niani che ieri, con Alfano, hanno scar­tato que­sta ipo­tesi («accet­te­remo solo un governo d’emergenza»), e chie­sto, come anche Ber­lu­sconi, di par­la­men­ta­riz­zare la crisi, met­tendo sul tavolo la carta delle ele­zioni anticipate.

Per il con­dan­nato resu­sci­tato da Renzi al ruolo di padre costi­tuente delle riforme si apre una fase poli­tica pro­met­tente. Poter spa­rare non su un tra­bal­lante gover­nic­chio di pic­cole intese ma sul ber­sa­glio grosso. Oltre­tutto avendo dalla parte del manico quella mag­gio­ranza per le riforme di cui è sem­pre stato un esperto affossatore.

Dieci mesi dopo la disa­strosa scelta delle lar­ghe, poi pic­cole, intese la fase che si apre è figlia natu­rale di quel pec­cato ori­gi­nale, ne porta addosso tutti i segni, a comin­ciare dal modo, dalle forme in cui si è pro­dotta la crisi. In con­fronto, la repub­blica delle banane è un faro di democrazia

Nota
Ecco chi ha detto no al documento Renzi Pippo Civati, Enzo Martines, Elly Schlein, Paolo Cosseddu, Marco Sarracino, Marina Terragni, Rita Castellani, Carla Rocca, Luca Pastorino, Andrea Ranieri, Maria Carmela Lanzetta, Samuele Agostini, Felice Casson, Annapaola Cova, Brignone Beatrice, Mirko Tutino

Era facile prevedere ciò che è avvenuto. Il casino italiano (epicentro nel PD), esploso il 13 febbraio era già chiaro a chi, come Dominijanni, sa vedere i ciechi prima che finiscano nel burrone.

Idadominijanni.com, 13 febbraio 2014

Una crisi drammatica, una gestione ridicola, scrive Lucia Annunziata sull’Huffington Post commentando «il clima da ragazzi del muretto, sbracato nei modi, nello stile e nella sostanza» che ci tocca respirare. Sullo stile da ragazzi del muretto, argomento tutt’altro che secondario, torno dopo. Prima, due punti sul dramma e sulla farsa.

Primo punto. Salvo improbabili colpi di scena alla direzione del Pd di oggi, fra pochi giorni avremo il terzo presidente del consiglio nominato dal Colle (e stavolta largamente autonominato), senza alcun rapporto, né diretto né indiretto, con il pronunciamento elettorale. Siccome però le cose ripetendosi peggiorano, questa terza volta è peggiore, se possibile, delle due precedenti: non c’è l’emergenza dello spread con cui fu coperta l’operazione Monti, né l’impossibilità di costruire una maggioranza coerente con il voto con cui fu coperta l’operazione Letta. C’è solo, rivendicato da Napolitano a Lisbona, il rifiuto fobico di un ritorno alle urne, unito all’arrogante fretta di Matteo Renzo di insediarsi a Palazzo Chigi, fretta a sua volta accompagnata da un consumismo della leaderhip che ha raggiunto, nel Pd, livelli patologici.

Poco da eccepire se fossimo realmente, come tutt’ora siamo formalmente, in una Repubblica parlamentare, dove i governi li formano le Camere (e tuttavia anche in questo caso tornare alle urne sarebbe a questo punto necessario, essendosi il quadro politico profondamente modificato nell’ultimo anno, con la decadenza di Berlusconi da un lato e l’avvento di Renzi dall’altro, ed avendoci la Consulta liberati dal Porcellum). Ma noi siamo da più di vent’anni in una terra di nessuno, dove la Costituzione formale è continuamente sfidata, contraddetta e delegittimata da un senso comune, di destra e di sinistra, che i governi li vuole eletti, o indicati, dal popolo. Di più: la stessa crisi di questi giorni è figlia di questo senso comune, la leadership di Renzi essendosi costruita precisamente sulla promessa di non varcare la soglia di palazzo Chigi senza mandato popolare, e sull’impegno di varare una legge elettorale che garantisca governi stabili, duraturi e legittimati dal voto. Il paradosso dunque è il seguente: si forma con una manovra di palazzo un governo, il terzo, col mandato di varare le mitiche ‘riforme’ contro le manovre di palazzo (e magari incapace, come i precedenti, di vararle). Un imbroglio che sfugge al principio di non contraddizione.

Secondo punto. Quando il principio di non contraddizione in politica salta, è perché operano altri principi che rispondono ad altre logiche, come quello dei rapporti di forza allo stato duro e puro. Il passaggio dirimente e illuminante di questa crisi resta, da questo punto di vista, quello del cosiddetto scoop della premiata coppia Corriere della Sera- Financial Times. Inconsistente giornalisticamente – si sapeva ed era già stato scritto tutto o quasi già nell’estate del 2011, quando il Corsera peraltro taceva e approvava -, inequivocabile politicamente: una richiesta perentoria di cambio del cavallo spedita dall’establishment che conta a Napolitano, e da Napolitano prontamente raccolta in poche ore con la convocazione accelerata di Renzi al Quirinale. Di nuovo ha ragione Lucia Annunziata: il combinato disposto fra questa traiettoria dei cosiddetti ”poteri forti” – non da oggi privi peraltro di un qualsivoglia progetto sul paese – e il personalismo mediatico degli uomini politici in campo – ma in primis di Matteo Renzi, dico io – accentuano in modo dirompente la deriva oligarchica del sistema-Italia. Oltre a gettare finalmente la luce giusta sull’ideologia della rottamazione: quando il gioco si fa duro, non è ai e alle quarantenni acqua e sapone che lo si lascia in mano. Riportare la gestione della crisi nell’alveo e nelle forme istituzionali è a questo punto il minimo che si possa fare, e bene fa Enrico Letta, con tutti i limiti che gli si possono e devono imputare, ad esigerlo.

Vengo infine allo stile ”ragazzi del muretto”. Sulle cui più patenti manifestazioni – irresponsabilità, leggerezza, senso di onnipotenza, personalismi e maleducazione – non merita neanche insistere. Vale la pena piuttosto di soffermarsi sull’ennesimo capolavoro politico-simbolico che il Pd è riuscito a realizzare ribaltando, anche su questo piano, il vantaggio del rinnovamento in cui si trovava rispetto al partito padronale di Berlusconi in un disastroso svantaggio, complice il coro mediatico affabulato dalla rottamazione di cui sopra, dalla loquace intraprendenza del sindaco di Firenze e dalle garanzie rivoluzionarie delle smart blu. Adesso però non dovrebbe sfuggire a nessuno quanto sia più rassicurante per il grande pubblico la transizione generazionale soft di cui Berlusconi si atteggia a garante rispetto allo spettacolo che la new generation del Pd sta offrendo di sé, superando di molti punti quella precedente già affollata di campioni nella specialità del fratricidio. C’è voluto del talento nel consegnare questo vantaggio al leader decadente e decaduto, amorale e illegale, cinico e gaudente del bunga-bunga. E non è solo un talento maschile. Siamo state tutte adolescenti e tutte sappiamo che sul muretto i ragazzi esagerano finché le ragazze non dicono basta. Ma sul muretto del centrosinistra italiano non ce n’è una sola a dirlo, tutte impegnate come sono o a fare diligentemente da coro o a contare meticolosamente di quante parolacce sono vittime.

La Repubblica, 14 febbraio 2014
ROMA — «Èstato Renzi a rilegittimare Berlusconi... e adesso Napolitano non può dire dino». La pensa così Lorenza Carlassare, la costituzionalista di Padova che si èschierata anche contro la legge elettorale.
Hasentito la notizia che sarà Berlusconi a guidare la delegazione di Forza Italiaal Quirinale?
«Certoche l’ho sentita, e se non fosse un momento tragico sarebbe divertente».

E perchémai?
«Certamentenon è consueto che le consultazioni con il capo dello Stato vengano guidate dauna persona che, a parte i processi in corso,ha subito una condanna definitivaper un reato infamante come la frode fiscale, e che è anche decaduto dasenatore. Tutto è abbastanza inconsueto. Il modo stesso in cui si è fattocadere il governo Letta, del tutto fuori dal Parlamento, quasi che quest’organosia ormai un inutile orpello così come gli elettori, lascia esterrefatti».

Le leggiconsentono a Berlusconi di salire sul Colle perché la sua interdizione daipubblici uffici non è ancora definitiva.
«Dipendese guardiamo alla forma o alla sostanza. È sempre una questione di sensibilità.Certamente, in tal modo, mi sembra che si metta in imbarazzo il Quirinale».

Il capodello Stato potrebbe rifiutare l’incontro con un condannato definitivo?
«È unasituazione talmente inconsueta che non saprei rispondere. L’imbarazzo cresce difronte al fatto che si tratta della persona che guida il terzo partito italianoe, in termini di coalizione, quella che dai sondaggi risulta al primo posto».

La mossadi Berlusconi crea un grave imbarazzo al Colle?
«A mepare proprio di sì, anche perché già la situazione politica e le modalità chehanno determinato la caduta di questo governo già di per sé sono anomale.Quindi ad imbarazzo si aggiunge imbarazzo».

Com’èpossibile che Berlusconi sia decaduto da senatore, ma possa guidare un partito?
«Questofa parte dell’anomalia italiana. Non bisogna dimenticare che la sua potenzialeemarginazione è stata risolta proprio dall’attuale segretario del Pd Renzi, checon lui si è messo d’accordo per la riforma elettorale, portandolo addiritturanella sede del partito. Semprefuori dal Parlamento e tra loro due, hannoconcordato un testo da presentare nella sede istituzionale come un fattocompiuto, visto che i margini di modificabilità sono ristrettissimi».

Se Renziha accettato Berlusconi come interlocutore politico privilegiato questo metteNapolitano di fronte al fatto compiuto di non poter rifiutare di riceverlo?
«Temo chela risposta debba essere affermativa».

Però c’èchi trova anomalo che al Colle salga anche Grillo, visto che anche lui è uncondannato definitivo.

«Anomalia per anomalia... ».

Un'analisi terribilmente acuta d'una inoppugnabile realtà terribile. Ma colpevole è chi non resiste e si oppone il manifesto, 15 febbraio 2014

Stiamo assi­stendo alla presa del potere da parte di una nuova, gio­vane e dina­mica classe diri­gente libera dai legami del pas­sato, senza vin­coli d’appartenenza; anzi impe­gnata a can­cel­lare ogni rela­zione di soli­da­rietà ideo­lo­gica e a ridurre gli spazi di discus­sione anche all’interno delle pro­prie for­ma­zioni poli­ti­che. L’unico rap­porto che resi­dua è quello per­so­nale. Tra i par­titi, ma anche all’interno dello stesso par­tito, quel che conta è l’identificazione con il lea­der: non si è più «demo­cra­tici», ma solo «ren­ziani» (oppure «antirenziani»).

Per­sino una per­sona mite come Enrico Letta alla fine ha perso le staffe. Ed, in effetti, abbiamo assi­stito – nella sostanza se non nella forma — al più aggres­sivo attacco poli­tico per­so­nale den­tro un par­tito e con­tro un governo in carica. Il paral­lelo con il più mal­trat­tato Romano Prodi non regge. Prodi è stato lasciato solo, è stato tra­dito dai fran­chi tira­tori o da impor­tanti espo­nenti poli­tici della «sua» parte, ma mai nes­suno – tra i sodali di governo — lo ha accu­sato di essere ina­de­guato. Dal punto di vista per­so­nale ha fatto bene Letta a riven­di­care il pro­prio ope­rato e a chia­mare in causa la respon­sa­bi­lità poli­tica di cia­scuno: non ha gover­nato da solo e le evi­denti dif­fi­coltà del suo ese­cu­tivo devono essere almeno equa­mente ripar­tite. Il mag­giore par­tito di governo non può essere rite­nuto esente da colpe.

È anche evi­dente però che non v’è una pos­si­bi­lità di dia­logo tra due mondi non più comu­ni­canti. Letta avrebbe avuto ragione se Renzi avesse potuto accet­tare l’idea che esi­ste ancora una respon­sa­bi­lità col­let­tiva, dei par­titi e dei governi intesi come isti­tu­zioni. Ma è pro­prio quel che il nuovo lea­der non vuol più ammet­tere. È solo un pro­blema di per­sone, dun­que un fatto che riguarda esclu­si­va­mente «me» e «te», Mat­teo e Enrico. Non c’è respon­sa­bi­lità di par­tito, né il nuovo segre­ta­rio può essere con­di­zio­nato dall’apparato, dai ruoli o dagli obbli­ghi che essi com­por­tano. Que­sti sono tutti limiti della «vec­chia» poli­tica, intralci che impe­di­scono il cambiamento.

La crisi di governo si sta svol­gendo oltre ogni pre­ce­dente. Non sem­brano nep­pure più ido­nee le tra­di­zio­nali clas­si­fi­ca­zioni che la scienza costi­tu­zio­na­li­stica – ma poi lo stesso lin­guag­gio poli­tico – ha sin qui uti­liz­zato per valu­tare la for­ma­zione degli ese­cu­tivi e il rispetto dei prin­cipi costi­tu­zio­nali. Così, si ripete in que­sti giorni, saremo di fronte ad una «crisi extra­par­la­men­tare», Le tipi­che crisi «extra­par­la­men­tari» sono quelle che – con grande fre­quenza in pas­sato – sca­tu­ri­vano dalla rot­tura del patto di coa­li­zione: erano i diversi par­titi poli­tici – ovvero alcune com­po­nenti di essi — che face­vano venir meno il soste­gno al governo in carica. La crisi nasceva sì fuori dal par­la­mento, ma pur sem­pre in con­se­guenza di una diver­genza tra le diverse forze poli­ti­che della mag­gio­ranza. Per il governo Letta, invece, tutto s’è con­su­mato entro un organo di par­tito (la dire­zione del Pd) che ha sfi­du­ciato il pro­prio pre­mier. Senza alcuna discus­sione con le altre com­po­nenti del governo. Una sorta di auto­dafé. Una crisi con qual­che asso­nanza con la tra­di­zione inglese, più che con quella ita­liana. In Gran Bre­ta­gna, in effetti, sono i par­titi di governo che deci­dono le sorti dei loro pre­mier. Seb­bene, anche in que­sto caso, una dif­fe­renza appare assai rile­vante. La That­cher fu «dimis­sio­nata» dal pro­prio par­tito a seguito di un con­gresso per­duto dalla Lady di ferro. Ma, appunto, ci fu biso­gno di un con­gresso e la cri­tica riguardò l’indirizzo poli­tico del par­tito con­ser­va­tore, non fu una sfi­du­cia alla persona.

Così anche la richie­sta di par­la­men­ta­riz­zare que­sta crisi in que­sto caso non ha molto senso. Que­sta crisi non è par­la­men­ta­riz­za­bile, per­ché non ha nulla a che vedere con le logi­che vir­tuose della rap­pre­sen­tanza politica.

Il diagramma della crisi della sinistra in Italia non è stata lineare: ha avuto molti picchi e molte valli. La cronaca di oggi ne registra una, questo articolo, ne racconta un'altra. che fu l'alba delle "larghe intese".

Il Fatto Quotidiano, 13 febbraio 2014

Al professor Romano Prodi, come sempre, bastano poche parole. “Le cose non andarono così e non capisco neppure perché lo abbia fatto”. Si riferisce alla lunghissima lettera al Corriere della Sera nella quale Massimo D’Alema ricostruisce gli ultimi giorni del primo governo Prodi, quando l’allora segretario dei Democratici di sinistra prese il posto a Palazzo Chigi dell’unico esponente del centrosinistra che sia mai riuscito a sconfiggere Silvio Berlusconi.

Il governo guidato dal professore – ministro della Difesa Nino Andreatta, alla Giustizia Giovanni Maria Flick, al Tesoro Carlo Azeglio Ciampi, non un governicchio, per intenderci – restò in carica per due anni, cinque mesi e quattro giorni, ma venne affossato da quello che sostanzialmente le cronache di allora ci raccontarono come un complotto dello stesso D’Alema, appoggiato nel suo disegno da Franco Marini. E D’Alema, ieri, forse richiamato in causa da molti che vedono quello tra Letta e Renzi come un remake di quelle trame, o forse spinto da altri giochi, ridisegna la storia di quei giorni. Ma lo fa spostando troppe pedine e persone. In sostanza dice che gli errori furono tutti di Prodi, che avrebbe voluto il voto, mentre il presidente della Repubblica di allora, Oscar Luigi Scalfaro, non voleva e non aveva la minima intenzione di sciogliere le Camere. E così la scelta, dopo aver sondato Ciampi, ricadde su lui, Massimo D’Alema. Non solo: secondo l’ex premier diessino, fu determinante l’azione esclusiva di Francesco Cossiga che bocciò Prodi e affossò la possibilità di un governo Ciampi.

Prodi, raggiunto al telefono dal Fatto Quotidiano, non solo dice che così le cose non andarono, ma spiega di far “molta fatica a capire perché sia stata scritta quella lettera”. E, aggiunge, disarmante, ma tutt’altro che disarmato: “Ormai siamo in una gabbia di matti e qualcuno ha buttato via la chiave. Ma non voglio andare oltre. Quei giorni del 1998 hanno una loro storia, ci sono dei fatti. E quelli restano”.

Cosa accadde, retroscena a parte, è noto. E che un complotto di D’Alema ai danni di Prodi ci fu, lo sappiamo anche grazie a una intervista che Franco Marini rilasciò nel maggio 2001 al Corriere della Sera. Sia Marini, sia D’Alema in quei giorni avevano l’interesse di affossare Prodi. C’era un patto tra i due per far saltare Prodi e con lui lo spirito ulivista della coalizione. Obiettivo dell’accordo, ricordava nel 2001 Marini, era esaltare piuttosto il potere dei due partiti, Ds e Ppi. Al primo, con D’Alema a Palazzo Chigi, sarebbe spettata la presidenza del Consiglio. Al secondo sarebbe spettato nel 1999 il Quirinale. Poi il patto saltò quando al Quirinale andò Ciampi e Marini non la prese bene, ma questa è un’altra storia. Quel 9 ottobre 1998 Prodi rimase stritolato e con lui il futuro del centrosinistra.

In quell’autunno del 1998 a Marini spettò il compito di lavorare ai fianchi gli umori di Cossiga, decisivo in quell’equilibrio fragile (il governo Prodi non ottenne la fiducia per un voto) e D’Alema invece dovette ingraziarsi il Vaticano. Perché in quel momento un post comunista alla presidenza del Consiglio non era assolutamente gradito nella Chiesa. Ma c’è un passaggio chiave in tutto questo: il leader degli allora Ds, proprio in quei giorni, da presidente del Consiglio quasi incaricato, riesce a farsi ricevere pochi minuti da papa Giovanni Paolo II. Clemente Mastella definirà il colloquio “amorevole”.

Sembra storia vecchia, archeologia, ma in realtà, da quel momento in poi, D’Alema aprirà la breccia per quelle che sono le larghe intese che – pur essendosi materializzate solo anni dopo – già erano nell’aria da tempo. L’epilogo lo conosciamo. D’Alema a Palazzo Chigi durò abbastanza poco. Il primo a voltargli le spalle fu proprio quel Marini che oggi il nostro ha dimenticato nella lettera al Corriere della Sera. Così come vengono dimenticati un’altra serie di particolari. A chi voglia rivolgersi D’Alema non lo sappiamo. Forse invita Renzi a darsi una calmata. Prodi non ne ha proprio idea. Più maliziosi, invece, sono i pensieri dei prodiani che non vedono altra lettura possibile: “Si tratta del seguito della guerra dei 101, secondo noi molti di più, e della mancata elezione di Prodi al Quirinale. Solo a questo gioca D’Alema”.

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