Per capire la politica economica del nuovo governo di Matteo Renzi si è tentati di partire dalla sua intervista al “Foglio” dell’8 giugno 2012: “Dimostreremo che non è vero che l’Italia e l’Europa sono state distrutte dal liberismo ma che al contrario il liberismo è un concetto di sinistra, e che le idee degli Zingales, degli Ichino e dei Blair non possono essere dei tratti marginali dell’identità del nostro partito, ma ne devono essere il cuore” (www.ilfoglio.it/soloqui/13721). L’economista della Chicago School Luigi Zingales è ora vicino agli ultrà liberisti di “Fermare il declino”, Pietro Ichino è senatore di Scelta Civica e Tony Blair consiglia i governi di Albania, Kazakistan, Colombia.
Il quadro, tuttavia, è molto più complicato. L’orizzonte economico del Renzismo ha quattro punti cardinali. Il primo è l’ancoraggio internazionale. Matteo Renzi è il primo leader politico italiano con un rapporto prioritario con la finanza internazionale, attraverso il finanziere di Algebris Davide Serra, suo stretto consigliere. La capitale della finanza che ci riguarda è la City di Londra, che si avvia a contare più di Berlino, dove Merkel già rimpiange Enrico Letta. Bruxelles resta un passaggio obbligato, ma possiamo aspettarci un Matteo Renzi meno integrato nella faticosa costruzione istituzionale dell’Unione, pronto a smontarne qualche pezzo e a muoversi con le mani più libere, come spiega qui accanto l’articolo di Anna Maria Merlo. Nessuna attenzione – si direbbe – invece per Parigi e le periferie dell’Europa, dove Roma potrebbe diventare un importante “contrappeso” rispetto a Berlino. La regola numero uno della finanza è che il cartello lo fanno i creditori, tutti insieme contro chi è in debito, preso da solo. Guai ai debitori che osassero coalizzarsi, e il governo Renzi – come quelli che l’hanno preceduto – riconosce che i poteri della finanza hanno la precedenza sugli interessi materiali del paese più indebitato d’Europa, il nostro.
Il secondo punto cardinale del Renzismo è il sostegno interno – “dall’alto” – da parte del blocco d’interessi che lo sostiene. Rendita finanziaria e immobiliare, le grandi imprese protette dallo stato – dalle banche a Mediaset, dall’energia alle telecomunicazioni –, Confindustria e le piccole imprese con l’acqua alla gola, scivolando nel ceto medio impoverito, che teme di perdere quel poco che ha, più di quanto immagini di poter ottenere in più da lavoro, conoscenza, investimenti. Resta da vedere come si collocheranno gli interessi che, soprattutto nel Mezzogiorno, sconfinano con l’economia criminale. Il Renzismo eredita così buona parte del blocco d’interessi che erano stati garantiti dal Berlusconismo, e ne raccoglie la bandiera unificante dell’ostilità alla tassazione dei patrimoni. Ma nel Renzismo c’è qualcosa di più, il rinnovamento della seduzione imprenditoriale esposta alla Leopolda, da Eataly alla moda, un’“economia dell’offerta” fatta in casa che promette protagonismo a giovani e nuove imprese, temi del primo Berlusconi poi sotterrati da decenni di scandali e manovre di potere.
Il terzo punto cardinale è il suo radicamento “dal basso”. Può questo blocco d’interessi rinnovare l’egemonia, trasformarsi in un blocco sociale che alimenti il consenso al Renzismo? È questo il compito più difficile. Un italiano su sei è oggi senza lavoro, tra chi lavora uno su quattro è precario, l’industria ha perso un quarto della produzione rispetto a prima della crisi, la povertà dilaga. L’agenda economica di Renzi garantisce il dieci per cento più ricco del paese, che possiede quasi metà della ricchezza. Come si può convincere almeno un quarto di italiani impoveriti che ciò che fa bene ad Alain Elkann fa bene anche a loro? Qui non c’è nulla da inventare, è un gioco riuscito a Ronald Reagan 35 anni fa e che ha funzionato abbastanza bene in tutto l’occidente (e oltre), Berlusconismo compreso. Si smontano le identità e gli interessi collettivi – comunità locali, reti di solidarietà, sindacati – e si spiega a tutti che siamo individui che dobbiamo cogliere le opportunità offerte dai mercati globali, siano queste le speculazioni sui derivati o l’emigrazione per fare pizze a Berlino. Lo stato e le sue tasse sono il nemico principale che abbiamo tutti in comune. Se le opportunità si rivelano illusioni – come succede in Italia da vent’anni – sarà soltanto colpa nostra. La politica non ha più la responsabilità di garantire sviluppo, diritti, uguaglianza.
Il quarto punto cardinale è il più efficace: il populismo. Finora c’è stata la “rottamazione” della vecchia politica, ora verranno nuove disinvolte operazioni per impaurire e convincere i perdenti che potrebbero perdere molto di più. Giovani precari a cui distribuire qualche briciola contro vecchi “garantiti” a cui togliere diritti. L’efficienza del privato contro la burocrazia pubblica che blocca il paese. E, naturalmente, gli italiani da tutelare contro gli immigrati. La politica e l’economia sono trasformate in caricature buone per la dichiarazione del giorno in tv. Gli argomenti possono rovesciarsi da un giorno all’altro, retorica e contenuti sono dissociati, accordi e alleanze sono guidate dall’opportunismo.
Con una bussola di questo tipo il Renzismo non ha nulla in comune con la tradizione socialdemocratica e l’esperienza delle coalizioni di centro-sinistra. Margaret Thatcher pensava che il suo risultato politico più importante fosse proprio la nascita del New Labour di Blair, costretto a “trascinarsi nel mondo moderno”, a sostenere “il mercato, le privatizzazioni, la riforma delle leggi sul lavoro e meno tasse su individui e imprese”. Silvio Berlusconi – e il fantasma della Lady di ferro – potrebbero presto dire lo stesso di Matteo Renzi.
La Repubblica, 24 febbraio 2014
Il primo, sessantenne, ha percorso tutte le tappe del cursus honorum dei politici francesi. Brillante negli studi, accede a una carica di alto funzionario e nel 1979 aderisce al partito socialista di François Mitterrand, che servirà fedelmente. Primo segretario del Ps dal 1997 al 2008, François Hollande è un uomo di partito a tutto tondo. Per restare alla guida del Ps ha realizzato di volta in volta sintesi morbide tra le varie correnti. Condizionato com’era dalle molteplici contraddizioni politiche e ideologiche della sinistra francese, ha dovuto attendere il gennaio scorso — un periodo di crescente impopolarità della sua figura e di degrado della situazione economica e sociale in Francia — per esprimere con chiarezza i propri convincimenti social-liberali. Questo professionista della politica, che ha profonde radici nel suo dipartimento, conosce perfettamente i leader e gli eletti dei partiti e sa tutto dei meccanismi e degli arcani della vita politica. Aveva incentrato la sua campagna sul tema del “presidente normale” proprio quando la congiuntura mondiale, europea e francese erano lontanissime dalla normalità, e le istituzioni della V Repubblica avrebbero avuto bisogno di una personalità forte per poter funzionare al meglio. Poco carismatico, legato alla cultura dell’uguaglianza, François Hollande non è a suo agio nella comunicazione moderna; preferisce le riunioni vecchio stile o i dibattiti con un avversario, nei quali brilla per eloquenza e presenza di spirito e per l’efficacia delle sue battute. Intelligente, molto preparato, scaltro, smaliziato, sa essere duro quando serve. Vero artista della tattica, Hollande simboleggia la figura del politico tradizionale di sinistra persino nell’ineleganza dei suoi completi di taglio scadente, con la cravatta perennemente di traverso.
Matteo Renzi è l’esatto opposto, e proprio per questo affascina e intriga, in Italia come all’estero. Con i suoi trentotto anni, gioca la carta del cambiamento generazionale. È riuscito a presentarsi come l’uomo nuovo, pur essendo entrato in politica appena ventunenne, in seno al Ppi e nei comitati di sostegno a Romano Prodi. Per lui il partito è solo un mezzo, che ha dovuto innanzitutto neutralizzare per strumentalizzarlo d’ora in poi al servizio della sua persona e del suo progetto. Vero animale politico, è in sintonia con le attese di molti italiani, e risponde perfettamente al loro bisogno di un uomo nuovo. La profusione dei qualificativim cui ricorrono giornalisti e analisti per tentare di definirlo dà la misura dell’originalità che rappresenta: “erede a sinistra di Berlusconi”, “leader postberlusconiano”, “post-ideologico”, “anti-politico”, “populista”, “outsider” — e l’elenco non finisce qui. Ma si è anche dimostrato un “killer” — avendo cacciato dal Partito democratico gran parte della vecchia guardia — e un abile manovratore: di fatto non ha esitato a fare il contrario di quanto aveva annunciato in relazione al governo di Enrico Letta, ricorrendo a procedimenti degni del costume di quella prima Repubblica che si compiace di aver conosciuto solo indirettamente. Virtuoso della comunicazione e dei media, appare a suo agio sia in tv che sui social network o nei suoi show all’americana. Ha cura della sua immagine disinvolta, usando e abusando del linguaggio dei giovani; ai completi classici preferisce jeans e giubbotti. Il vasto programma di riforme che annuncia a gran voce stravolge i canoni della sinistra classica — ad esempio sulla questione del mercato del lavoro. Matteo Renzi incarna un centro-sinistra disinibito, pragmatico, innovativo, e rivendica senza turbamenti il primato del leader.
Il paradosso sta nel fatto che al di là delle differenze personali e delle diverse caratteristiche dei rispettivi Paesi, Hollande e Renzi devono fare i conti con sfide analoghe: le tre sfide che ogni formazione di sinistra si trova ad affrontare quando va al potere. Innanzitutto, come governare, soprattutto quando si è privi di esperienza in materia, e sempre esposti al sospetto di scarsa competenza? È la grande domanda che si pone Matteo Renzi; la stessa — tuttora irrisolta — posta anche nel caso di François Hollande, che al pari del suo primo ministro, e nonostante la sua lunga carriera, non era mai stato investito di responsabilità a livello nazionale. In secondo luogo, quale politica adottare? Matteo Renzi e il François Hollande del 2014 sono assai vicini tra loro, sia sui temi economici e sociali che su talune riforme della società. Ma come promulgarle, con quali procedimenti e mezzi d’azione, in funzione di quale narrativa? E infine, come dare nuovo slancio all’Europa in crisi di ispirazione?
Quale dei due — la volpe francese o il giovane lupo italiano — sarà in grado di raccogliere queste sfide nel modo più efficace? L’Italia, la Francia e tutta la sinistra europea sono in attesa, con un misto di ansia e speranza.
Traduzione di Elisabetta Horvat
Un commercialista all'Ambiente, favorevole al nucleare. Una tenace sostenitrice degli F35 alla Difesa, il solito Maurizio Lupi alle infrastrutture, una nuclearista esponente diretta del Caimano allo Eviluppo economico. E poi..e poi...e poi...Siamo proprio ben messi.
Greenreport, 24 febbraio 2014
Sì, in evidenza, perché in pochi lo hanno fatto, andando forse dietro all’idea – che dimostra di avere lo stesso Renzi – che il ministero dell’Ambiente non conti niente: una roba che si deve mettere perché ce l’ha tutta l’Europa ma che può essere lasciato alla fine, come casella da riempire per soddisfare questo o quel partitino post-democristiano. E può darsi pure che sia così, di certo non lo è per noi che lo avremmo sacrificato per un ministero dello Sviluppo sostenibile, ma che in mancanza di quest’ultimo lo riteniamo ancora fondamentale. Per questo la scelta di Galletti appare inadeguata, perché se non si voleva confermare Orlando – che nonostante l’incompetenza iniziale almeno si era fatto ben guidare – c’erano personalità con bel altro pedigree. Facile dire Ermete Realacci [mah...n.d.r], ma non era il solo.
Invece si è preferito pescare una brava persona – ci mancava pure fosse cattiva – dell’Udc, un partito di cui non si sentiva nemmeno più parlare (e non se ne sentiva nemmeno la mancanza) recintato attorno a quel nulla ben vestito di Pierferdinando Casini. La domanda che ingenuamente ci facciamo è semplice: perché? Se la risposta è che è il gioco della politica, per noi è solo la conferma di ciò che pensiamo della spregiudicatezza esibita e rivendicata da Renzi. Se è perché l’idea – per certi versi assolutamente giusta – di sburocratizzare il Paese si vuol far passare da uno yes man al ministero dell’Ambiente, allora c’è anche da preoccuparsi maggiormente. Tertium non datur, ma qualora ci fosse un altro motivo, speriamo ovviamente che sia qualcosa di sorprendentemente positivo e di ambientalmente sostenibile.
Un commercialista all’Ambiente, come la giri la giri, suona assai male anche se un vecchio film ci ricorda che pure loro “hanno un’anima” (con tutto il rispetto per i nostri e gli altrui commercialisti). Speriamo che sia un’anima verde, ma di certo sembra uno mandato lì a fare i conti con quel pochissimo che di solito viene dato al ministero più subissato di tagli della storia italiana.
Poco dopo il suo insediamento Galletti ha detto comunque che «in Italia abbiamo un problema idrogeologico che si perpetua da anni: ritengo che i primi provvedimenti debbano riguardare questo tema», e sarebbe un bell’inizio. Ma facciamo fede a quanto ha detto Renzi, ovvero che questo governo non è quello degli spot, e quindi aspettiamo i fatti, che nel caso significano un piano nazionale e una dote di euro assai pingue. Diversamente saranno pure queste chiacchiere e allora – chiacchiere per chiacchiere – dovremmo tener di conto che il 9 gennaio, lo stesso neo ministro, scrisse perentorio sul suo profilo Twitter che “Se matteorenzi decide di mandare a casa il governo si assume la responsabilità di far tornare il Paese nel caos”. Certo, in quanto a coerenza fa il paio con i tweet di Renzi sul non volere la poltrona di Letta, e malignamente si potrebbe pensare che è su questo modus operandi che si sono trovati.
Sembra di essere dentro ad Alice nel (bel)paese delle meraviglie che ci ricorda come «se io avessi un mondo come piace a me», e forse come piace a Renzi, «là tutto sarebbe assurdo: niente sarebbe com’è, perché tutto sarebbe come non è, e viceversa! Ciò che è non sarebbe, e ciò che non è sarebbe!». Ma purtroppo, come abbiamo già detto, non siamo nelle condizioni, oppure siamo nelle tragiche condizioni, di non potersi di certo augurare che fallisca anche il governo Renzi delle inopinate larghe intese, compresi i ministri dell’Ambiente e dello Sviluppo economico nuclearisti. Perché appare sempre più come il jolly del mazzo, uscito però per ultimo… e quindi come estrema chance. Dunque non tagliamogli la testa. Ma che fatica essere italiani, ambientalisti poi non ne parliamo.
la Repubblica, 24 febbraio 2014) offrono elementi interessanti, in relazione ad aspetti della crisi che attraversiamo: ambiente, lavoro, welfare, trasformazione dei beni in merci.
In quei numeri tutti i ritardi del nostro paese.
di Chiara Saraceno
Insieme all’ambiente e al capitale fisico, il capitale umano rappresenta il patrimonio di una nazione. Ed ecco perché l’investimento in capitale umano è diventata la parola d’ordine delle politiche sociali europee (ancorché non con la stessa forza e cogenza del pareggio di bilancio). Parallelamente, il concetto di capitale umano e la sua stessa misurazione si sono affinati, superando una visione strettamente economicistica.
I risultati della misurazione fatta dall’Istat sul capitale umano degli italiani sono a prima vista sconcertanti. Se si tiene conto solo del potenziale di reddito, il capitale umano delle donne vale molto meno di quello degli uomini: 231mila euro contro 453mila. Il gap si chiude quasi del tutto solo se si tiene conto delle attività non di mercato. Il valore di questa attività è stimato in 431 mila euro per le donne, 384 mila per gli uomini. La differenza è dovuta principalmente al fatto che le donne svolgono la gran parte del lavoro famigliare, ovvero il lavoro a favore dei membri della famiglia, uomini adulti inclusi. Significa che le donne hanno meno capacità degli uomini e quindi non vale la pena di investire nel capitale umano delle donne, specie nelle dimensioni più rilevanti per la partecipazione al mercato del lavoro (istruzione, servizi)?
Al contrario. Il basso valore di mercato del capitale umano femminile deriva da due fattori molto italiani, che contribuiscono a comprimere il potenziale complessivo del capitale umano italiano. Il primo è il più basso tasso di occupazione femminile, dovuto anche al carico di lavoro famigliare. Il secondo è la minore valorizzazione, a parità di competenze, delle donne che stanno nel mercato del lavoro. In altri termini, in Italia si spreca allegramente una grossa fetta del capitale umano teoricamente disponibile. Allo stesso tempo, le donne contribuiscono parecchio, a titolo gratuito, al benessere complessivo.
Vi è un secondo risultato sconcertante dell’esercizio effettuato dall’Istat. I giovani sono teoricamente portatori di un capitale umano più consistente di chi è più anziano. Non solo, infatti, sono mediamente più istruiti, ma hanno una vita (di lavoro nel mercato) davanti a sé più lunga. Il reddito da loro generato nel corso della vita è stimato in oltre 556 mila euro, contro i 293 mila euro dei lavoratori nella classe centrale (35-54anni) e ai soli 46 mila euro dei lavoratori tra 55 e 64 anni. Questa stima teorica, tuttavia, come segnala anche l’Istat, non tiene conto della crescente e prolungata disoccupazione giovanile, specie negli anni successivi al 2008. La disoccupazione non solo accorcia la durata del tempo in cui si può mettere a frutto il proprio capitale umano, ma rischia di depauperarlo, invece di farlo ulteriormente sviluppare. Anche nel caso dei giovani, quindi, l’Italia sta minando alle basi la propria ricchezza. Per questo si colloca ultima, per valore del capitale umano, nel gruppo di paesi Ocse che hanno fatto lo stesso esercizio: Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Francia e Spagna.
Anche senza farne un caso di equità e democrazia, questi due dati dovrebbero indurre i politici italiani ed europei a fare in modo che le politiche di investimento e valorizzazione del capitale umano — istruzione, salute, strumenti di conciliazione tra famiglia e lavoro, di sostegno all’accesso alle risorse di valorizzazione delle capacità — sono altrettanto, se non più, importanti delle politiche di investimento nelle infrastrutture. Perciò devono rientrare a pieno titolo nelle negoziazioni sul patto di stabilità e il pareggio di bilancio.
Ricerca-shock sul capitale umano in Italia
“Una donna vale la metà di un uomo”
di Maria Novella De Luca
Il capitale umano di una donna è esattamente la metà di quello di un uomo. Tradotto in cifre: un maschio in termini economici ha una potenzialità produttiva nell’arco della vita stimata in 453mila euro, una femmina in 231mila euro. In Italia cioè ci vogliono due donne per creare il reddito di un uomo... E poi: il capitale umano di un over sessanta vale, soltanto, 46mila euro. Non importa quanta esperienza o saggezza abbia egli accumulato nella vita già vissuta, il suo futuro è dietro le spalle e quindi parlando di contributo al Pil del paese, è redditizio poco o nulla. Sono i dati, sorprendenti e amari, diffusi ieri dall’Istat che per la prima volta ha calcolato sulla base dei parametri Ocse, “l’ammontare” in euro degli italiani e delle italiane in quanto individui, arrivando a definire il nostro valore medio intorno ai 342mila euro. Mescolando una serie di parametri che sulla base del genere, dell’età, della preparazione scolastica e delle potenzialità professionali, indica il nostro capitale umano, che non è in questo caso una categoria morale, bensì un puro modellomatematico.
Alessandra Righi ricercatrice Istat, ha curato il volume “Il valore monetario dello stock di capitale umano”, promosso dall’Ocse. E spiega: «Sulla base di questi indicatori possiamo monetizzare le potenzialità di un individuo e quindi il suo impatto sul Pil. L’anomalia dell’Italia, che si colloca comunque in basso nella classifica mondiale, è la conferma della distanza profonda tra donne e uomini. Nella quale si manifesta tutto il dramma della disoccupazione femminile». Soltanto il 50% delle donne italiane infatti lavora, e quando anche ha un’occupazione, prosegue Righi, «il suo stipendio è inferiore a quello maschile».
Dunque nel computo del capitale umano il suo “peso” sarà di 231mila euro contro i 453mila del partner. Se invece a questo si sommasse il lavoro invisibile delle donne e cioè quello di cura, la famiglia, i figli, la casa, ecco che ai 231mila euro si dovrebbero aggiungere altri ben 431mila euro di attività domestiche. Il famoso e mai riconosciuto né monetizzato welfare familiare.
«Sono dati che mi indignano ma da studiosa non mi stupiscono», dice Daniela Del Boca, docente di Economia politica all’università di Torino. «Nel conteggio del capitale umano l’occupazione
femminile viene ulteriormente penalizzata dalla sottrazione dei periodi di maternità, dai congedi... Le donne subiscono poi una doppia discriminazione: non soltanto negli stipendi, ma anche in quella che si chiama discriminazione preventiva. Sapendo cioè di dover fare una scelta inconciliabile tra famiglia e occupazione, si autoescludono dal mercato. E tutto questo viene naturalmente calcolato nella potenzialità o meno di produrre reddito».
Per arrivare a quantificare in euro il capitale umano, l’Istat si è basato sulla capacità degli individui di generare reddito nell’arco della vita e il valore complessivo che ne viene fuori, riferito al 2008 (non esistono altri aggiornamenti), è di 13.475 miliardi di euro, pari a oltre otto volte e mezzo il Pil dello stesso anno. Una cifra che porta a 340 mila euro a testa il “prezzo” di un italiano medio. Interessante osservare come un giovane tra i 15 e i 34 anni, valga 556mila euro, visto il tempo e le energie che potrà mettere nel fabbricare ricchezza, contro i 139mila euro di una donna over sessanta. La quale comunque in questa età della vita produce assai più di un suo coetaneo maschio, che per le statistiche vale non più di 46mila euro. Tutto abbastanza gelido e terribile se ci si ferma riflettere. E infatti l’economista Del Boca invita a fare delle distinzioni. «Un conto è applicare modelli, e ipotizzare cifre. Altro è intendere il capitale umano come l’insieme anche non monetizzabile di ciò che si è, e di ciò che si è fatto nella vita». Perché infatti questa è un’altra storia.
Una domanda al giovane portavoce fiorentino del neocostituito governo Renzusconi: rinuncerete alle spese di guerra per dare agli italiani lavoro, salute, formazione, sicurezza sociale?
Sbilanciamoci.info, 21 febbraio 2014
721 milioni: è il costo dei contratti di acquisto per gli F-35 che l’Italia ha già sottoscritto tra il 2011 e il 2013. Ovvero nella fase più acuta della crisi, che ha provocato la chiusura di migliaia di piccole imprese, ha cancellato migliaia di posti di lavoro e in cui l’unica ricetta proposta è stata quella della spending review, i soldi per l’acquisto dei cacciabombardieri non sono stati toccati. Non si potevano finanziare i fondi sociali (il Fondo Nazionale per le politiche sociali tra il 2010 e il 2011 praticamente dimezzato con 218 milioni; azzerato nel 2011 il Fondo per la Non Autosufficienza e rifinanziato solo a partire dal 2013 con stanziamenti inadeguati); si doveva “fare cassa” congelando i salari dei dipendenti pubblici per un valore pari a 1 miliardo di euro (2011-2013); si doveva riformare il sistema pensionistico abbandonando a loro stessi i cosiddetti “esodati”; si doveva aumentare l’Iva dal 20% al 22%. Ma il programma di acquisto degli F-35, strumenti di guerra per altro parecchio difettosi, no, quello non si tocca.
In un nuovo dossier “La verità oltre l’opacità”, la campagna Taglia le ali alle armi, ha aggiornato i dati relativi ai costi del programma fornendo per la prima volta informazioni dettagliate sui contratti di acquisto stipulati: i 721 milioni di euro per la sottoscrizione dei contratti di acquisto si aggiungono agli oltre 2,7 miliardi spesi per lo sviluppo e per la costruzione dell’impianto FACO di Cameri). Con un costo medio unitario che tende a crescere nel corso del tempo e che ad oggi la campagna stima prudentemente in 135 milioni di euro.
L’impegno italiano attualmente previsto nel programma per l’acquisto di 8 F35 per il triennio 2014-2016 è pari a 1,950 milioni di euro: 540 milioni nel 2014, 660 milioni nel 2015 e 750 milioni nel 2016, in media 650 milioni l’anno.
Parallelamente, solo per fare un confronto esemplare, la Legge di stabilità 2014 ha previsto per gli anni 2015-2016 un taglio degli stanziamenti per il Servizio Sanitario Nazionale di 1 miliardo e 150 milioni di euro.
Il cittadino comune avrà meno letti a disposizione negli ospedali, dovrà pagare ticket più alti per accedere ai servizi sanitari, ma potrà sempre rifugiarsi sotto l’ala di un F35.
Forse tra qualche giorno si insedierà un nuovo governo. Molte le riforme annunciate.
Con i 650 milioni l’anno previsti per l’acquisto di strumenti di morte si potrebbero fare non tutte, ma almeno una delle cose che servirebbero per attutire gli effetti della crisi e che, ne siamo sicuri, sono quelle richieste da gran parte dei cittadini italiani: rinunciare ai tagli al Servizio Sanitario Nazionale, creare 26.000 posti di lavoro qualificati nel settore della ricerca, mettere in sicurezza circa 600 scuole, oppure costruire 1950 nuovi asili nido creando 17.500 posti di lavoro o ancora garantire il diritto all’abitare recuperando 16.250 alloggi di edilizia residenziale pubblica non agibile.
Il Presidente del Consiglio incaricato avrà il coraggio di prenderne atto inserendo nella sua agenda la cancellazione della partecipazione al programma F-35?
rugalità, Il Mulino pp. 144, euro 12) l'autore, con la sua consueta lucidità e chiarezza, aiuta a riflettere sulla natura di una parola che ha risvolti psicologici ed economici, ed è parente stretta di parole. Sarebbe utile, seguendo un analogo schema, interrogarsi su parole la cui deformazione ha assunto un ruolo centrale nel discorso politico attuale, come “austerità". La Repubblica, 21 febbraio 2014
Giulio Nascimbeni, sul Corriere della Sera dell’ 8 maggio 1994, raccontava di una crociata avviata dal mensile Il Migliore, diretto da Sergio Claudio Perroni. Si trattava di salvare parole «che rischiano di diventare arcaiche e quindi svanire». Una di queste parole era frugale, una parola con una lunga storia. Compare nella prima metà del Trecento in un testo di Giovanni Cassiano dove si parla di «virtù frugali». Oggi, grazie all’uso del motore di ricerca Google Trend, potete scrivere «frugalità, abbondanza» e accorgervi che la crociata di Perroni non ha sortito grandi effetti. La vittoria dell’abbondanza sulla frugalità è schiacciante. Se però consultate i due termini inglesi « frugality, abundance », scoprite che il primo termine riaffiora grazie ad articoli come quello di Arthur Frommer sul Francisco Chronicle del 20 luglio 2009, dal titolo: Frugality Now Fashionable - And Necessary. Quando si parla di frugalità, di che cosa stiamo esattamente parlando?
1. La frugalità non è la povertà. È una scelta, non una costrizione. Se si sembra frugali perché si è poveri, in realtà non si è frugali. Oggi, in Italia i poveri sono circa cinque milioni. Si tratta di persone che l’Istat, nel suo rapporto, classifica come «poveri assoluti». Si potrebbe pensare che, in una società ricca, gli «assolutamente poveri» diminuiscano. E invece aumentano. Dal 5,7 per cento delle famiglie assolutamente povere del 2011 siamo passati all’8 per cento delle famiglie del 2012.
3. La frugalità non è nemmeno una decisione di risparmio. A questo proposito, vorrei raccontare quella che credevo fosse una semplice leggenda familiare, tramandata da mio «nonno Tano».
Questo episodio chiarisce bene il rapporto che c’era un tempo tra frugalità e risparmio. Sembrano due concetti imparentati ma, a ben vedere, ciò che li avvicina è soltanto il non consumo opulento, il rifiuto del superfluo. Il risparmio ci rende robusti, meno vulnerabili, perché la riserva costituita dal risparmio ci permette di affrontare avversità future, oggi non prevedibili. Inoltre il risparmio lascia un margine di manovra nelle scelte di vita, una sorta di cuscino di sicurezza. La frugalità, invece, produce risparmi solo come effetto collaterale: l’abitudine al poco è una difesa preventiva che ci rende invulnerabili ai rovesci della sorte. Utilizzo qui un’opposizione approfondita da Nassim Taleb nel suo ultimo saggio.
Taleb distingue tra robustezza e antifragilità: la seconda implica il sapersela cavare in ambienti ostili, l’aver bisogno di poco, e non solo in termini materiali. Per Taleb la distinzione tra robusto, fragile e antifragile si applica a molti ambiti della vita: «Quel che s’impara in modo esplicito a scuola è fragile, le conoscenze tacite che discendono dalla vita pratica sono robuste, ma è solo l’insieme di scuola e di pratica che è antifragile». La frugalità è un concetto darwiniano, nel senso che ci rende più adattabili a scenari in rapido mutamento. La robustezza economica, invece, è più ostaggio degli eventi, e ci difende solo dalle avversità finanziarie, non da quelle della vita. La frugalità è un sapere tacito, che s’impara da piccoli in famiglia, non un sapere che s’impara a scuola. Mazzarò è una persona fragile, la possibilità della morte lo coglie impreparato. In lui i consumi ridotti non sono la via per raggiungere un obiettivo, la ricchezza è fine a se stessa. Alessandro Rossi è invece antifragile. Per uno dei più ricchi industriali di allora, il costo di un pony e di un carrettino sarebbe stato irrilevante rispetto all’entità dei suoi averi, in termini cioè di robustezza economica. E tuttavia quello che desiderava la nuora era cosa da non farsi
Conto alla rovescia per presentare le candidature alla lista «L’altra Europa, con Tsipras» per le elezioni europee. Entro mezzanotte di oggi i moduli scaricabili sul sito www.listatsipras.eu dovranno essere compilati e inviati all’indirizzo mail sostegno@istipras. it. In questa operazione sono impegnati sia i promotori della lista che associazioni, comitati e partiti (Sel e Rifondazione) che hanno deciso di partecipare insieme a questa esperienza elettorale. Stanno partecipando anche gruppi con almeno 50 aderenti che sono stati invitati a presentare le proposte ad un comitato operativo che inizierà a vagliarle subito dopo la scadenza dei termini stabiliti. Ieri sera erano arrivate 48 candidature, 120 quelle stimate in arrivo, mentre dal sito erano state scaricati 2299 moduli. Alla fine verranno decisi 73 candidati da distribuire sulle cinque circoscrizioni nazionali. I criteri della selezione per quelle che i sei garanti della lista (Barbara Spinelli, Andrea Camilleri, Paolo Flores, Guido Viale, Marco Revelli e Luciano Gallino) chiamano «proposte dal basso» sono la notorietà dell’impegno politico del candidato per determinare le cosiddette «teste di lista»; la sua rappresentatività rispetto ai movimenti di opinione e di lotta negli ultimi anni; la parità di genere e la presenza giovanile. L’altro criterio è quello di non essere stati eletti negli ultimi dieci anni.
Sono state ufficializzate le candidature dell’intellettuale ed ex leader del 77 bolognese Franco Berardi Bifo che sostiene di volersi candidare «con Tsipras e contro l’assolutismo finanziario». Tra le altre ci sono quelle di Franco Arminio e Tonino Perna; di esponenti del comitato «Articolo 33» che ha vinto il referendum sulle scuole paritarie a Bologna, del forum dell’acqua e dei comitati No Triv. Hanno comunicato le loro candidature anche gli attivisti No Tav Nicoletta Dosio e Gigi Richetto. Un’adesione significativa, visto che alle ultime elezioni politiche, il movimento No Tav aveva comunicato il suo appoggio al Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo. Entrambi gli attivisti ribadiscono che i NoTav non sono un movimento assimilabile solo al M5S o solo alla lista dell’«altra Europa, con Tsipras». Sembrano certe le candidature dell’ex portavoce delle tute bianche, e dei centri sociali del Nord-Est, Luca Casarini, del giornalista Loris Campetti e di Franco Gesualdi. I giornalisti Curzio Maltese, Andrea Scanzi, Sandra Bonsanti e Vauro hanno già comunicato il loro sostegno alla lista, così come Gustavo Zagrebelsky, la filosofa Roberta De Monticelli e l’intellettuale Pierfranco Pellizzetti.
Prima casualmente, poi in maniera più lenta ma più convinta, la lista sembra crescere in maniera trasversale alle appartenenze politiche, intellettuali, associative e di movimento talvolta distanti tra loro. Un aspetto che i «garanti» hanno preferito ad una caratterizzazione più netta, e più classica, di «sinistra». La decisione di escludere questo concetto dal logo della lista (il suo restyling definitivo dovrebbe terminare oggi) ha provocato polemiche, soprattutto con Rifondazione Comunista che ha spiegato la sua partecipazione in vista della costituzione di uno «spazio pubblico di sinistra» e non solo una «lista civica antiliberista».
Al momento è arrivato un numero ridotto di candidature femminili. I promotori della lista confidano che aumenteranno nelle prossime ore. Da domani, una volta concluse le operazioni di raccolta, inizierà ad entrare in funzione la macchina organizzativa e, entro la prossima settimana, inizierà la raccolta delle firme circorscrizione per circoscrizione. Il coordinamento è stato affidato a Corrado Oddi, una delle anime del gruppo che riuscì nell’impresa storica di raccogliere le firme necessarie ad ottenere il referendum sull’acqua pubblica e poi a vincerlo nel giugno del 2011. Nelle ultime ore si sta definendo l’albero organizzativo di una struttura nazionale basata su responsabili regionali e provinciali. I tempi saranno da cardiopalma, brevissimi. Si inizierà dalla temutissima Val D’aosta dove, considerata la popolazione, sono necessarie tremila firme per presentare i candidati scelti in lista. Sul sito, ma soprattutto su facebook, stanno nascendo comitato proTsipras un po’ ovunque nel paese. Così come crescono le prime iniziative spontanee: da Torino a Caserta. Domenica è prevista un’assemblea del comitato romano al teatro Valle occupato
Una fulminante invettiva contro le nuove modalità e procedure della cosiddetta politica.
LaRepubblica, 21 febbraio 2013
Terrificante l’idea che la politica “in streaming” possa prendere piede e dilagare, costringendoci a simulare competenza e esprimere giudizi sull’intero scibile tecnico-tattico della nostra faticosa comunità: dagli incontri al vertice alle minute faccende che per fortuna qualcuno ha l’incarico di affrontare anche per nostro conto, grazie a quel geniale espediente che è la delega politica.
Sappiamo bene di avere delegato spesso e volentieri chi difettava di competenza o ci rappresentava male o tradiva il nostro mandato; e che questo è il nodo della presente, drammatica crisi politica. Ma se il rimedio è improvvisarci tutti esperti di questioni inevitabilmente a noi ignote, mipiacciando e midispiacciando con velocità ebete, beh è un rimedio peggiore del male.
Non “il popolo del web”, che non esiste, ma una nuova casta veloce di polpastrello e avida di potere è destinata, in quel caso, a soppiantare la vecchia democrazia rappresentativa. Tutti gli altri - milioni di altri - saranno solo il pubblico (mipiacciante e midispiacciante) di un gioco ancora più ristretto e ancora più oscuro, disputato tra nuove consorterie presuntuose e, nella peggiore delle ipotesi, tra bande di fanatici o di manipolatori.
Perché l’ortodossia classica (liberista e keynesiana) che suggerisce di passare a produzioni ad alto valore aggiunto non risolve più, oggi, la crisi industriale italiana. Che chiede un’altra riconversione possibile. I contenuti di un possibile nuovo "piano del lavoro".
Il manifesto, 18 febbraio 2014. In calce qualche riferimento
Che fare quando il padrone di un’azienda decide di chiuderla, o di trasferirla all’estero per pagare meno tasse, o per pagare meno gli operai, o per poter inquinare l’ambiente senza tante storie? A lume di naso, la prima cosa da fare è requisire l’azienda (i sindaci hanno il potere di farlo, se non altro per motivi di ordine pubblico) e impedirgli di portar via i macchinari. Poi bisognerebbe bloccargli i conti e farsi restituire i fondi che, 90 probabilità su 100, ha già ricevuto dallo Stato sotto forma di contributi a fondo perduto, credito agevolato, sconti fiscali e contributivi (ma qui dovrebbero intervenire anche altre istituzioni: Governo e magistratura). A maggior ragione questo vale se l’imprenditore in questione pone delle condizioni inaccettabili per “restare”: per esempio dimezzare i salari, come all’Electrolux.
Le minacce di “andarsene” o la decisione di chiudere o vendere sono altrettante mosse di una corsa al ribasso per spremere sempre di più i lavoratori: la vicenda Electrolux insegna. Se si accettano le regole della globalizzazione liberista, che affida alla concorrenza al ribasso l’organizzazione e la distribuzione territoriale e settoriale della produzione, a questa logica non c’è scampo. Ma, obiettano i cultori dell’ortodossia economica (che in questo ambito accomuna liberisti e keynesiani), per non sottostare a questa logica una strada c’è: passare a produzioni a più alto valore aggiunto e maggiori margini: invece di produrre utilitarie, produrre Maserati e Jeep, invece di lavatrici e frigo, impianti industriali di refrigerazione, ecc. Più in generale, passare a produzioni a maggior contenuto di tecnologie e di ricerca.
Intanto per i prodotti ad alto valore aggiunto bisogna trovare un mercato, per lo più già occupato da qualcun altro. Per esempio, la Fiat (ora Fca) ha ben poche carte in mano per sottrarre quote del mercato europeo di fascia alta a Mercedes, Bmw o Audi. Per questo la produzione automobilistica di Fca Italia, e con essa i suoi stabilimenti, sono in gran parte condannati a morte. Per additare una via di uscita i teorici dell’ortodossia ricorrono a una vecchia teoria dello sviluppo degli anni ’60 di Albert Hirschman, detta delle “anitre volanti”: le economie sono come uno stormo di anatre che volano una dietro l’altra. Mano a mano che quelle di testa passano a livelli tecnologici e più avanzati, quelle che seguono vanno a occupare le posizioni abbandonate dalle prime; e così, tutte insieme, promuovono lo sviluppo globale. Ma quella teoria rispecchiava l’andamento delle cose cinquant’anni fa (Stati uniti in testa e, a seguire, Europa, Giappone, Corea, ecc.). Ma oggi non funziona più per il semplice motivo che molti dei paesi a più bassi livelli salariali e di protezione dell’ambiente, che proprio per questo sono diventate le manifatture del mondo (prima tra essi, la Cina), oggi sono anche molto più avanti di noi — e non solo dell’Italia, ma anche dell’Europa — nella ricerca scientifica e tecnologica: è devastante competere con loro sui livelli salariali, anche se molte imprese non vedono altra strada per cercare di sopravvivere; ma in molti casi è anche impossibile competere sui livelli tecnologici; soprattutto in Italia dove istruzione e ricerca sono ambiti disprezzati e negletti.
È questo il presupposto di una ricostruzione su basi federaliste di un’economia europea autosufficiente (ma non autarchica), non competitiva (nel senso di non più impegnata in quella corsa al ribasso che è sotto gli occhi di tutti), che sappia utilizzare le tecnologie disponibili e i saperi diffusi, sia tecnici che “esperienziali”, per riagganciare la produzione ai bisogni condivisi della popolazione attraverso il potenziamento di una nuova “generazione” di servizi pubblici locali in forme partecipate, sotto il controllo dei governi dei territori: in campo energetico (impianti diffusi, differenziati e interconnessi di utilizzo delle fonti rinnovabili ed efficientamento dei carichi energetici) e in quello agroalimentare (agricoltura di qualità ed industria alimentare a km0); nel campo di una mobilità flessibile, integrando trasporto di massa e trasporto personalizzato, sia di merci che di passeggeri, attraverso la condivisione dei veicoli; nel campo del recupero e della valorizzazione delle risorse (quello che noi oggi chiamiamo gestione dei rifiuti), nella salvaguardia e nella valorizzazione del territorio (assetti idrogeologici, urbanistici, paesaggistici, monumentali, industria turistica, ecc.) e, soprattutto, nei campi della cultura, della ricerca, dell’istruzione, della difesa della salute fisica e mentale di tutti.
Ecco, allora, profilarsi un destino diverso per le aziende abbandonate e senza più sbocchi; ecco un ruolo strategico per le amministrazioni locali che intendono farsi carico delle condizioni di vita, ma anche del patrimonio di esperienza, di conoscenza, di saperi tecnici, di abitudine alla cooperazione delle maestranze messe alla porta dai loro datori di lavoro; ed ecco, infine, il presupposto irrinunciabile per promuovere un’alternativa di governo, a partire dall’iniziativa locale, per far fronte al caos a cui ci sta condannando l’attuale governance europea. Detta così sembra un’utopia: ma andiamo incontro a tempi in cui prospettare soluzioni estreme e finora “impensabili” diventerà necessario.
«Quel che sconcerta, nella presunta ansia modernista di Renzi, è la formidabile vecchiezza dei modelli prescelti: rifarsi oggi a Tony Blair vuol dire correre a ritroso nel tempo, mettere i piedi su orme che sette anni di crisi hanno coperto di sabbia.».
La Repubblica, 18 febbraio 2014
PER il modo in cui è stata congegnata, per le doppiezze che l’hanno contraddistinta, per i regolamenti di conti con cui s’è conclusa, l’ascesa di Matteo Renzi alla guida del governo ha il sapore di certi cambi di guardia al Cremlino. Un esorbitante partito-Stato si fa macchina di potere, usa i propri uomini come pedine, li uccide politicamente se ingombrano, tradisce la parola data senza spiegazioni. Il tutto avviene «a porte chiuse», come nel dramma claustrofobico di Sartre: lontano dal Parlamento, dalla prova elettorale che era stata assicurata, da una società che il partito-Stato non sa più ascoltare senza vedere, dietro ogni cittadino, l’inferno molesto di qualche populismo. La liquidazione di Enrico Letta è avvenuta in streaming, ma sostanzialmente fuori scena: secondo Carmelo Bene, questa è l’essenza dell’osceno. Non sarà forse così, Renzi riuscirà forse a realizzare quel che promette: un piano lavoro entro marzo, soprattutto. Ma l’inizio incoraggia poco. Per la terza volta, in un Parlamento di nominati, il Pd designa per Palazzo Chigi un nominato.
È già accaduto in passato: basti ricordare il sotterraneo lavorio contro il governo Prodi, nel ’98. E più di recente, in aprile, il tradimento di 101 parlamentari Pd che avevano giurato di votare Prodi capo dello Stato e in un baleno l’affossarono. Colpisce la coazione a ripetere il gesto violento, e a scordare subito i traumi lasciati dalle coltellate. Una famosa giornalista francese, Françoise Giroud, scrisse una volta: «Ogni capo politico deve avere l’istinto dell’assassino». Il coltello non è più un incidente. S’è fatto istinto, tendenza innata. La cosa straordinaria, e solo in apparenza paradossale, è che la macchina del Pd cresce in potenza, man mano che organizza autodafé e perde i contatti con la società. Già da tempo ha smesso di identificarsi con la sinistra: parola da cui fugge, quasi fosse un fuoco che scotta e incenerisce. Già da tempo non si preoccupa di parlare in nome degli oppressi, degli emarginati, ed è mossa da un solo obiettivo: il potere nello Stato, attraverso lo Stato. Letta ha preparato il terreno, ma non guidava il Pd. Ora è un capo-partito a ultimare la metamorfosi: l’abbandono della rappresentatività, la governabilità che diventa movente unico, l’oblio della sinistra e della sua storia. Ovvio che l’istinto a tradire si tramuti in normalità.
Può darsi che Renzi cambi l’Italia in meglio, che renda lo Stato addirittura più giusto. Che non si spenga in lui la memoria del consenso popolare ottenuto alle primarie. Ma il come ancora non lo sappiamo, la coalizione è quella di ieri, e la macchia della defenestrazione di Letta gli resta appiccicata al vestito. Difficile dimenticarla. Difficile dimenticare le parole carpite lunedì a Fabrizio Barca. Il quale grosso modo ha detto questo: «C’è chi mi vuole ministro dell’Economia. Ma per fare che? Per imporre una patrimoniale di 400 miliardi di euro, cosa che secondo me va fatta e però non è nei piani? ».
Questo svanire della sinistra è un fenomeno europeo diffuso, ma in Italia è particolarmente accentuato. Nell’Unione sono ormai undici i Paesi governati da Grandi Coalizioni, in teoria non siamo molto diversi. Quel che è anomalo, nei connubi ideologici italiani, è il discredito profondissimo gettato sulla stessa parola sinistra, l’annebbiarsi della sua storia, del suo patrimonio, della sua vocazione alla rappresentanza. Altrove la sinistra classica, quella che dà voce ai deboli, possiede ancora uno spazio. Perfino laddove ha le tenebre alle spalle, come in Germania (la Linke è erede di un regime totalitario, nell’Est tedesco) non cancella d’un colpo quel che la lega alla società. Nel Congresso sull’Europa dello scorso fine settimana la Linke ha provato a cambiare la propria storia evolvendo, ha aperto all’Unione che esecrava. Ma il nome che porta non lo cambia. Non così in Italia, dove la sinistra precipita dalle scale e si ritrova vocabolo non grato.
È la vittoria postuma di Bettino Craxi ed è il lascito di Berlusconi, con cui il Pd di Renzi intende riformare la Costituzione. Della grande idea avanzata da Prodi negli anni Novanta - unire il solidarismo universalista cristiano e quello comunista - non resta che brace spenta. La scomparsa della sinistra non significa tuttavia che siano scomparsi i mali che la giustificarono in passato: la questione sociale è di ritorno, la disuguaglianza di redditi e opportunità s’è estesa in questi anni di crisi, nessun Roosevelt è in vista che la freni. E la riduzione della disuguaglianza, secondo la classificazione di Norberto Bobbio, rimane il più antico e vivo retaggio della sinistra.
È sperabile che il piano-lavoro di Renzi non sacrifichi per l’ennesima volta una lotta che deve essere di rottura, e non per motivi ideologici ma perché l’Italia è rotta da sofferenze e avvilimenti. Che non lasci il proprio elettorato inerme, senza rappresentanza, e non ascolti solo quegli economisti politici che Marx chiamava «bravi sicofanti del capitale», dediti «nell’interesse della cosiddetta ricchezza nazionale a cercare mezzi artificiosi per produrre la povertà delle masse ».
Quel che sconcerta, nella presunta ansia modernista di Renzi, è la formidabile vecchiezza dei modelli prescelti: rifarsi oggi a Tony Blair vuol dire correre a ritroso nel tempo, mettere i piedi su orme che sette anni di crisi hanno coperto di sabbia. Se le disuguaglianze sono aumentate vertiginosamente, se si parla oggi di un 1% della popolazione che continua imperturbato ad arricchirsi e di un 99% di impoveriti (classi medie comprese), lo si deve alle destre più legate ai mercati ma anche alla Terza Via di Blair. Le ricette di Margaret Thatcher non morirono con il Nuovo Labour, e sopravvissero nella battaglia accanita contro un’Europa più unita e solidale. L’idea thatcheriana che «la società non esiste se non come concetto», che esistono «solo individui e famiglie con doveri e convinzioni», è interiorizzata dal Pd nel preciso momento in cui la realtà l’ha smentita e sconfitta. L’homo novus di Firenze suscita grandi aspettative, ed è vero quel che dice: leadership non è una parolaccia. Ma fin dalla prime sue mosse, negoziando con il pregiudicato Berlusconi la legge elettorale, il leader ha fatto capire che la rappresentatività è un bene minore. Il suo Pd stenta a mediare fra società e Stato. È degenerato in «cartello elettorale stato-centrico», sostiene Piero Ignazi: è parte dello Stato anziché controparte; ha un potere che tanto più si dilata al centro, quanto più si sfilaccia il legame con gli iscritti, le periferie, la democrazia locale (Ignazi, Forza senza legittimità, Laterza 2012). Per questo l’odierno sviluppo partitocratico è solo in apparenza paradossale. Mandare in fumo l’eredità della sinistra — la lotta alla disuguaglianza, la difesa del bene pubblico — induce il Pd a trascurare l’arma principale evocata da Barca: la tassazione progressiva dei patrimoni più elevati (articolo 53 della Costituzione). L’economista Joseph Stiglitz fa calcoli più che plausibili, anche per l’Italia: «Se chi appartiene al primo 1 per cento incassa più del 20 per cento del reddito della nazione, un incremento del 10 per cento dell’imposta sul reddito (senza possibilità di sfuggirvi) potrebbe generare entrate pari a circa il 2 per cento del Pil del Paese».
Renzi punta sulla propria lontananza dai giochi partitici, sul successo che gli ha garantito la base. Ma quel che avviene nelle ultime ore rischia di vanificare la sua diversità: il Parlamento costretto a tacere sulle modalità bolsceviche della liquidazione di Letta, il cambio deciso «fuori scena», sono segnali nefasti. Torna alla ribalta la politica, ma impoverita democraticamente. Tornano i partiti; mentre i cittadini coi loro rappresentanti stanno a guardare. Come meravigliarsi che la società si radicalizzi, quando è la realtà a farsi sempre più radicale?
Buone notizia dalla Sardegna. In un'intervista del presidente Pìgliaru la conferma che, dopo gli anni infausti della "giunta del mattone" del vicerè di Berlusconi, riprenderà il cammino giusto all'insegna della difesa del lavoro e dell'ambiente.
Il manifesto, 19 febbraio 2014
E' stata una mattinata di relax per il neopresidente della Regione Sardegna, Francesco Pigliaru, dopo i festeggiamenti di lunedì sera. Fresco di vittoria, ieri mattina il professore è uscito a piedi di casa per andare a fare visita al rettore dell’università di Cagliari, Giovanni Melis. Pigliaru, infatti, dal 2009 e sino al 6 gennaio scorso ha ricoperto l’incarico di prorettore dell’ateneo del capoluogo, con delega alla ricerca scientifica. Un incontro di cortesia tra professori. Poi di nuovo a piedi verso casa, con qualche sosta forzata con i cittadini che lo hanno incrociato per le strade del centro. Ma già dal pomeriggio sono cominciati i contatti con i partiti della colazione di centrosinistra per disegnare la nuova giunta.
«Innanzitutto le competenze e un equilibro tra uomini e donne», ha più volte detto Pigliaru nel corso della campagna elettorale. Si profila una giunta con diversi tecnici. In cima alla lista dei papabili c’è Raffaele Paci, ordinario di Economia applicata a Cagliari, che dovrebbe andare al bilancio e alla programmazione. Spicca anche il nome di Gian Valerio Sanna (Pd), già assessore all’urbanistica con Soru e padre del piano paesaggistico del 2006, al centro della contestata revisione da parte di Cappellacci proprio negli ultimi giorni della legislatura.
Da queste elezioni arriva un segnale forte innanzitutto sui programmi. Si è vinto sui contenuti? E in particolare su quali?
Abbiamo fatto una proposta seria e non demagogica. La gente l’ha capito e ci ha premiati. Abbiamo parlato fin da principio di competenza e serietà, mettendo da parte un modo di fare politica che non condividiamo ed enunciando con chiarezza pochi capisaldi ma essenziali: semplificazione della burocrazia per far ripartire il mondo imprenditoriale, alleggerimento delle tasse eliminando i balzelli inutili, bonifiche nelle zone industriali e recupero del rispetto per l’ambiente e il paesaggio minacciati da Cappellacci e dalla sua giunta del mattone, pari opportunità per tutti a partire dai primi livelli dell’istruzione. Dobbiamo rimettere in marcia la Sardegna infondendo forti dosi di speranza, a partire dalla qualità dell’istruzione, in luoghi belli e sicuri, e dalla creazione di nuovo lavoro. Dare gambe al piano straordinario per l’istruzione e l’edilizia scolastica significa sostenere il settore delle costruzioni e contemporaneamente investire sulle prossime generazioni. Migliorare l’oggi, guardando al domani. Questo è stato il nostro principio ispiratore. E si è rivelato vincente.
Ma anche i modi hanno avuto una loro importanza: una campagna elettorale ragionata, non gridata. In controtendenza rispetto alla deriva iper mediatica e populista?
Non sono più tempi per le parole vuote o i proclami. La situazione è tale, in Sardegna, che la voce grossa, le promesse irrealizzabili o le barzellette non attecchiscono più. Continuare a voler imbrogliare le persone con specchietti per allodole quali la zona franca integrale, è inaccettabile. Abbiamo fatto bene a mostrare immediatamente l’altra faccia della medaglia, evidenziando che il prezzo da pagare sarebbero stati i tagli alla sanità. Abbiamo voluto avere rispetto per gli elettori attenendoci alla realtà, avanzando proposte realizzabili e oneste, senza nasconderci dietro un dito. La serietà non deve venir mani meno, neanche in campagna elettorale, per il rispetto dovuto ad ogni cittadino, anche di chi si è rifiutato di andare alle urne. Eravamo tutti al corrente che ci sarebbe stata una forte percentuale di astenuti, come è avvenuto. Adesso è un impegno mio, e dev’esserlo di tutta la politica, recuperare i delusi.
Nelle sue dichiarazioni ha sottolineato il ruolo svolto da tutta la coalizione. C’è stato un apporto importante della forze di sinistra?
L’aver ricompattato la coalizione è stata la nostra forza. Gli apporti dalle diverse componenti saranno, d’ora in poi, un’ulteriore ricchezza. Vedo una forte sintonia sulle principali questioni programmatiche. Abbiamo tutti una gran voglia di cambiare la Sardegna, di voltare pagina rispetto ai cinque anni devastanti di governo Cappellacci. Sappiamo come farlo, anche se non ci illudiamo che sarà semplice. Sono certo che metteremo assieme tutte le nostre migliori energie, per questo.
Che rapporto si può ipotizzare tra la sua giunta e il governo nazionale guidato da Matteo Renzi?
I rapporti istituzionali sono importantissimi. La Sardegna ha sofferto molto per colpa delle mascalzonate del governo Berlusconi, reo di averci negato mille occasioni di crescita. Dalle telefonate a Putin al furto del G8 a La Maddalena e dei milioni della vertenza entrate. Avere Matteo Renzi a Palazzo Chigi sarà uno sprint in più perché Renzi è una persona seria e capace. Ho sempre condiviso la sua attenzione verso i temi del lavoro e per le politiche attive. Impegnarsi in questi ambiti, oggi in particolar modo, significa cercare le risposte da dare alla gente. Con il governo nazionale abbiamo da riaprire immediatamente l’importante vertenza sulle entrate, abbandonata da Cappellacci, e l’annosa questione delle servitù militari, che ancora pretende dai sardi, in termini di territorio e potenzialità di sviluppo, sacrifici spropositati ed ingiustificati
Fa discutere l’esclusione della parola «sinistra» dai quattro simboli proposti sul sito lista tsi pras .eu. Tutti su sfondo rosso e con il nome di Alexis Tsipras, leader di Syriza che è un acronimo in greco di «Coalizione della Sinistra-Fronte sociale unitario». Nessuno di questi simboli ripropone però l’augusto concetto. La decisione del comitato dei sei garanti (Guido Viale, Barbara Spinelli, Andrea Camilleri, Marco Revelli, Luciano Gallino, Paolo Flores) è stata accettata da Tsipras, cofirmatario dell’appello per la lista italiana a sostegno della sua candidatura alla presidenza della Commissione Europea che ha raccolto 23 mila adesioni online.
La decisione ha creato malumori tra gli iscritti di Rifondazione Comunista. La segreteria del partito ha diffuso un comunicato in cui critica duramente i garanti. «La nostra richiesta di costruire un percorso democratico nella definizione dei simboli e della composizione della lista è stata completamente disattesa – si legge – È un grave errore politico. Questa è una lista civica antiliberista e non la costruzione di uno spazio pubblico di sinistra». Per i vertici di Rifondazione l’obiettivo delle europee dovrebbe essere l’avvio di un percorso per costruire una «Syriza italiana». Un obiettivo, sia pur ancora non troppo esplicitato, anche di altri ambienti.
Per Rifondazione l’errore politico» dei promotori non mette tuttavia in discussione «l’importanza di fare una lista unitaria contro le politiche di austerità». Lo spettro di una Sel che presenta una lista separata, e del mancato raggiungimento del quorum al 4% segnerebbe un nuovo, tremendo, fallimento per tutti. Il giudizio negativo allora si stempera e il partito di Paolo Ferrero rivendica infine l’operazione politica che ha portato Tsipras a essere il candidato della sinistra europea.
I promotori della lista hanno spiegato la loro decisione perché «la parola sinistra non ha un contenuto programmatico definito — spiega Guido Viale — A questo concetto si appellano sia i Si Tav che i No Tav, i liberisti più scatenati e i comunitaristi più radicali». «Per il suo programma europeista, democratico e radicale — aggiunge Viale — questa lista ha una chiarissima connotazione di sinistra. Riteniamo impossibile che chi si identifichi nella sinistra non possa identificarsi con questi contenuti. La scelta si spiega anche perché intendiamo rivolgerci a una fascia di cittadini che non si identifica direttamente con quella che è stata la sinistra radicale».
Ai «garanti» della lista è stata anche rivolta l’accusa di «dispotismo illuminato». «Sono sciocchezze — risponde Viale — Questo dispotismo lo vorrebbero esercitare i partiti, mettendo le candidature ai voti nelle assemblee che, come abbiamo visto con l’esperienza fallimentare della lista “Cambiare si può”, si trasformano in rodei molto negativi, oppure mobilitando gli iscritti come fa Grillo nelle sue votazioni online, con risultati non sempre brillanti. Da tempo Rifondazione ci critica perché non siamo disponibili per le assemblee. Adesso chiedono che metà dei candidati vengano votati online. Ma per noi è assurdo anche perché non si capisce quali candidati dovrebbero sottoporsi al voto on line e chi a quello dell’assemblea. Per le europee questo discorso è difficile da fare: in circoscrizioni con cinque sei regioni è impossibile contare su candidati conosciuti».
Integrare l’orizzontalità della rete con le pratiche della partecipazione diretta (l’assemblea, ad esempio) rappresenta in effetti uno dei rompicapo della democrazia oggi. I «garanti» hanno affidato la soluzione a un comitato di 15 persone che dal 21 febbraio si riunirà per valutare le candidature caricate sul sito lista tsi pras .eu. Il numero dei partecipanti al comitato nel frattempo dovrebbe aumentare, considerato la quantità dei moduli scaricati in poche ore: 710 alle 18 di ieri. Sulla scelta influiranno, tra gli altri, questi criteri: i candidati non devono essere stati eletti negli ultimi 10 anni, anche se c’è un’apertura agli eletti negli enti locali; la parità dei genere; spazio ai giovani. La consultazione sulla scelta di nome e simbolo è stata posticipata a causa del sovraccarico del server che non ha retto il numero dei contatti.
Il referendum si conclude oggi alle 15, ieri avevano votato solo in 13 mila, probabilmente a causa delle disfunzioni telematiche. «Può anche darsi perché non ci sia il termine sinistra nel simbolo» ipotizza Viale. Si parla della possibilità, tutta da verificare, di candidare anche Andrea Camilleri e Barbara Spinelli
Dalla vittoria di Pìgliaru in Sardegna una speranza non solo per la difesa del territorio e del paesaggio (beni di cui nessuno sembra preoccuparsi) ma anche per una nuova sinistra unita per il dopo-Renzi.
Il manifesto, 18 febbraio 2014
Questo voto parla di una disoccupazione che doppia la percentuale nazionale, di una deindustrializzazione che lascia solo disperazione, di un drammatico dissesto del territorio abbandonato alla furia dell’alluvione, con la credibilità dei politici inghiottita dagli ultimi scandali dei consiglieri regionali. Che ancora un cittadino sardo su due creda nel voto ha del prodigioso, né può stupire che il risultato elettorale sia specchio fedele e crudele della sfiducia profonda verso la classe dirigente, dell’isola e di un paese, il continente, sempre più lontano.
Le ragioni profonde e i fondamenti del programma della lista della sinistra europea per le prossime elezioni nell'intervista di Jacopo Rosatelli all'autorevole sostenitore della lista Tsipras.
Il manifesto, 16 febbraio 2014
«Siamo in un momento cruciale. Ciascuno dia il contributo che è nelle sue possibilità». Gustavo Zagrebelsky, ex presidente della Corte costituzionale, giurista e intellettuale di fama, guarda con molto interesse all’iniziativa che fa capo ad Alexis Tsipras, in vista delle prossime elezioni europee: «C’è bisogno di un sussulto di consapevolezza. E c’è poco tempo: dedichiamolo a spiegare perché l’Europa ha bisogno di una scossa e a chiarirne i contenuti da presentare agli elettori».
Professore, lei sostiene che questa scossa può venire soltanto da un’affermazione del progetto che incarna il 39enne leader della sinistra greca. Perché?
Prescindiamo un momento dai nomi, guardiamo prima al quadro d’insieme. Alle elezioni di maggio si affronteranno due mastodonti: da una parte, gli antieuropeisti, che sono tali in nome della reazione all’Europa della finanza che sta influendo pesantemente sulle libertà democratiche dei Paesi in difficoltà; dall’altra, l’Europa degli interessi della finanza incarnati dagli Stati forti che impongono la loro legge ai deboli. I primi vogliono il ritorno alle sovranità chiuse, al nazionalismo. Gli altri vogliono il mantenimento dello status quo. Di fronte a questi due giganti, c’è una terza possibilità, rappresentata dall’iniziativa di Tsipras: è il recupero dell’idea di Europa dei padri fondatori, che pensavano che l’integrazione economica fosse solo il primo passo verso una piena integrazione politica. Inoltre, essendo un leader greco, la figura di Tsipras ha anche un aspetto simbolico, sia perché lì stanno le origini della nostra civiltà, sia per la situazione in cui attualmente versa quel Paese: non so se ci rendiamo conto che qualche mese fa ha chiuso l’Università di Atene.
Lei esclude, dunque, che un simile ruolo di rottura possano giocarlo i socialisti guidati dal tedesco Martin Schulz…
Non lo escludo affatto. Temo, però, che se si confronteranno le due forze di cui dicevo — nazionalisti e «mercatisti» — alla fine la socialdemocrazia farà blocco con i conservatori, nella logica delle larghe intese, per far fronte al nemico comune. Sarebbe la paralisi. So bene che quest’iniziativa della lista Tsipras è accusata di essere l’ennesimo tentativo minoritario, settario, che fa il gioco di altri… Ma ormai non se ne può più di questo modo di ragionare. Penso che la questione Europa non si esaurisca nell’allentamento del vincolo del 3% deficit/pil o simili: c’è ben altro in gioco. Intendiamoci: mettere in discussione i rigidi vincoli finanziari, come dicono di voler fare i socialisti, è propedeutico alle necessarie politiche di sviluppo, ma è pur sempre un aggiustamento all’interno della logica che attualmente regge l’Ue. Noi vogliamo riappropriarci dell’idea dei padri fondatori, che non si limitava alla dimensione mercantile, ma mirava a un’idea politico-culturale: l’Europa come punto di riferimento per il mondo, basato sulle sue acquisizioni civili e sociali. E se ciò potesse esistere, sarebbe anche un elemento d’equilibrio nei rapporti internazionali: una dimensione totalmente estranea all’Ue di oggi, che non gioca alcun ruolo nella scena mondiale e che non fa nulla affinché, ad esempio, i diritti sociali siano riconosciuti anche nei Paesi di nuova industrializzazione. Ma per farlo, dovrebbe prima esistere come entità politica: per me, la lista Tsipras, scontrandosi con gli interessi delle nazionalità chiuse e con quelli dei mercati globali de-regolati, è un progetto che ha come primo obbiettivo costruire l’Europa come autentico spazio politico democratico. Siamo persino ancora «al di qua» di una divisione fra destra e sinistra.
Anche lei condivide, come i promotori dell’appello per la lista Tsipras, la necessità di cambiare i trattati, magari attraverso un processo costituente. Sbaglio?
No, non sbaglia. Questo è ciò che dicono giustamente il movimento federalista e, in generale, tutti gli europeisti più avvertiti. Siamo in un momento in cui o si pone seriamente il tema della democratizzazione delle istituzioni europee o andremo incontro a un progressivo deperimento dell’idea di Europa unita».
A proposito del processo costituente non sarebbe come fare una costituzione senza popolo, senza un demos europeo…
Anche secondo me non si può fare una costituzione senza un popolo europeo, che attualmente ancora non c’è. Ma ciò non significa che abbiano ragione coloro che sostengono l’ipotesi «funzionalista». Senza un popolo, c’è solo l’oligarchia. Senza democrazia, c’è solo la tecnocrazia. Non può reggere l’Ue senza una sorta di «patriottismo» europeo, legato alla nostra consapevolezza orgogliosa di quella parte della storia dell’Europa che ha generato tolleranza, diritti civili e sociali, uguale dignità degli esseri umani, amore per scienze e arte, protezione per i deboli, rifiuto di quel darwinismo sociale che, sotto forma di iperliberismo, sta invadendo il mondo. Una storia fatta anche dalle sue culture politiche: illuminismo, socialismo e solidarismo cristiano. Oggi, purtroppo, c’è un impedimento oggettivo alla possibilità di una costituzione europea: l’indisponibilità alla solidarietà fra Paesi. E se non c’è disponibilità dei forti a condividere la fragilità dei deboli, non c’è costituzione che tenga.
Pensa che la Carta dei diritti fondamentali di Nizza sia una leva per aprire delle contraddizioni all’interno del diritto comunitario vigente?
Quella Carta doveva essere la base di tutto, perché fondava la cittadinanza europea. È stata criticata per essere sbilanciata sul piano dei diritti individuali rispetto a quelli sociali, ma il problema è che non è mai entrata davvero nel «sangue» che circola nella Ue: è vigente, ma è anche effettiva? Decisamente più «viva» è la Convenzione europea dei diritti umani, quella su cui vigila la Corte di Strasburgo. Va detto, tuttavia, che il terreno puramente giuridico è importante, ma non è quello determinante: di fronte alla bufera finanziaria, il mondo del diritto non può fare molto. Ha bisogno di essere alimentato dal basso, dalla partecipazione, dal fatto che «si avverta» che le carte e le corti hanno un ruolo. In ogni caso, bisogna certamente insistere sul fatto che una realtà come la troika (Commissione, Bce e Fondo monetario, ndr) non ha alcun fondamento giuridico: in base a cosa vanno a controllare i conti dei Paesi come la Grecia? Non c’è né legittimità né legalità. Eppure, i suoi controlli e responsi contabili contano molto di più dell’Europarlamento, e possono addirittura aprire la strada al fallimento degli stati. Un tema, quello del fallimento, su cui occorre porre molto di più l’attenzione.
In che senso?
Fino a qualche tempo fa, l’accostamento stato-fallimento sarebbe apparso un’aberrazione: lo Stato non poteva fallire. Se oggi non respingiamo questo accostamento è perché accettiamo senza accorgercene la degradazione dello Stato a società commerciale. Ma non può essere così, è una contraddizione in termini: lo Stato è un’altra cosa. Noi non possiamo partecipare a un’istituzione come la Ue se essa prevede, tra i suoi strumenti, il fallimento dei suoi membri: uno strumento capace di annullarne le istituzioni democratiche. Da costituzionalista, osservo che l’adesione dell’Italia alla Ue si fonda sull’art.11 della nostra Costituzione, che dice che si può limitare la sovranità a favore di istituzioni sovranazionali, ma a condizione che esse servano la pace e la giustizia tra i popoli. Se servono non a questi, ma ad altri scopi, che si fa? Diciamo: con la lista Tsipras ci si impegna per sconfiggere i due mastodonti di cui dicevo prima, essendo aperti a ogni possibile collaborazione per una Europa di pace e di giustizia.
C’è chi ha criticato l’idea di questa lista perché sarebbe ostile ai partiti, quasi il frutto di una sorta di grillismo da intellettuali. Come risponde?
Io credo al ruolo insostituibile dei partiti, e penso che la politica — come insegna Max Weber — debba essere anche una professione. Se ci guardiamo attorno, però, dobbiamo dire che in Italia non sempre ciò che si chiama «partito politico», è davvero «politico». Abbiamo idea di che cosa deve essere la politica? Dietro la lista Tsipras, per come la vedo io, c’è invece un’idea pienamente politica di organizzazione di bisogni, interessi e prospettive: mi auguro che questa esperienza possa servire a motivare una parte di elettorato che non va più a votare, sceglie il Movimento 5Stelle o è delusa del partito cui finora ha dato il suo voto. Una parte sempre più grande di popolazione, che — non credo ci sia nemmeno bisogno di dirlo — è composta di molte persone di valore, di una parte buona di società
«Nel miracolo italiano la finanza, che allora non puramente speculativa investiva nelle imprese, ricoprì un ruolo decisivo». Il problema si chiama "capitalismo".
www.sbilanciamoci.info 14 febbraio 2014
È una mia opinione, ma ben più che il New Deal di Roosevelt fu la seconda guerra mondiale con le sue immense distruzioni e milioni di morti a far uscire il capitalismo dalla pesante crisi del 1929 e produrre i vari "miracoli", tra i quali quello italiano. In questo miracolo italiano un ruolo importante, direi decisivo, ebbe la finanza, che allora non era puramente speculativa come adesso (fare denaro con denaro), ma investiva nelle imprese produttive, o, addirittura, le creava. I protagonisti di questa vecchia finanza produttiva sono ancora ricordati e celebrati.
Penso a Cuccia, principe indiscusso di Mediobanca, a Mattioli della Banca commerciale, a Menichella, governatore di Bankitalia, a Beneduce capo dell'Iri (che oggi sarebbe quanto mai necessario) e tra i banchieri di allora ricorderei anche il mio amico Nerio Nesi. Allora – ripeto – le banche non investivano nelle banche o nei pericolosi derivati, ma nella produzione e in quella stagione grande fu la crescita di piccola e media industria. Come non ricordare i nomi di imprese prestigiose che oggi non ci sono più o sono emigrate: pensiamo solo alla Fiat. È il capitale finanziario quello che molti anni fa ci è stato illustrato da Rudolf Hilferding nel suo Il capitale finanziario , pubblicato da Feltrinelli con l'introduzione del bravissimo e dimenticato Giulio Pietranera.
Per tutto questo, pensare che la vecchia finanza fosse buona e quella di oggi cattiva sarebbe sbagliato: è cambiata la fase storica e siamo in una crisi epocale. È passato il tempo in cui crescevano occupazione e imprese. Montecatini, Edison, Montedison non ci sono più. Pensiamo alle imprese automobilistiche, alla Fiat che aveva inglobato Lancia e Alfa Romeo: tutto in Olanda e Inghilterra. Sarebbe lunghissimo l'elenco delle imprese scomparse e delocalizzate. Certamente negli anni cinquanta e sessanta c'era una finanza benigna, ma non possiamo cavarcela dicendo che la finanza è diventata cattiva. Non possiamo chiudere gli occhi di fronte alla crisi globale che sta investendo tutta l'economia, non solo quella italiana. Ma anche la vecchia finanza virtuosa non durò a lungo. Cominciarono scalate e imbrogli quasi delittuosi. Vale ricordare che le banche francesi si impadronirono della Banca Nazionale del Lavoro. E, ancora peggio, va ricordato l'intervento di Michele Sindona e lo scandalo pesante del Banco Ambrosiano con la morte, a Londra sotto il ponte dei Blackfriars del banchiere Roberto Calvi. Ma adesso che fare? Spargere lacrime sulla vecchia e generosa finanza non servirebbe a niente e direi che non avremmo neppure i fazzoletti per asciugarle. Io credo che dovremmo leggere la lezione del passato e ricordare che in quella crescita decisivo fu l'Iri, cioè l'intervento dello Stato e un blocco alle privatizzazioni in corso. Si tratta di affrontare questa crisi con l'intervento pubblico e con il netto rifiuto dell'austerità: aver messo in Costituzione il pareggio di bilancio è precludersi ogni avvenire, è delittuoso. Siamo in una situazione nella quale la conclamata virtù del risparmio diventa una pratica suicida.
NB. Per chi voglia approfondire la questione raccomando la lettura dei due volumi del CiriecProtagonisti dell'intervento pubblico in Italia, pubblicati da Aragno Editore.
Con Civati e Fassina, e altri che stanno ancora nel PD, siamo d'accordo sull'Europa: ma «il problema sorge quando dalle dichiarazioni ideali si passa al comportamento pratico
». Il manifesto, 15 febbraio 2014
Sostiene Stefano Fassina (vedi il manifesto dell’11 febbraio), e con ottime ragioni, che l’eurozona è sulla rotta del Titanic: l’iceberg è sempre più vicino, l’Unione già è fratturata in più punti. Ma non nascondiamoci che a costruire una nave così malfatta, e a imboccare una rotta così rovinosa, c’è purtroppo la sinistra classica europea, e in prima fila il Pd. Anche per questo abbiamo scelto Alexis Tsipras come punto di riferimento e imbarcazione alternativa. Il suo giudizio su socialdemocratici e socialisti europei è molto severo, e per parte mia lo condivido.
A partire dalla metà degli anni ‘90, la loro rotta è stata precisamente quella che ci ha portato a sbattere contro l’iceberg. Non dimentichiamo poi che Tony Blair ha fatto di tutto per sfasciare quel poco di unione che c’era in Europa. Ha lavorato contro ogni proposta federale nella Convenzione che negoziò il Trattato di Lisbona; ha sistematicamente difeso la rinazionalizzazione delle politiche comunitarie; ha contribuito in larga misura al ritorno della vecchia balance of powers nel continente: a quell’equilibrio fra sovranità nazionali assolute che lo precipitò nel ‘900 in due guerre mondiali e contro cui si scaglia, da anni, Jürgen Habermas. È questa balance of powers ad aver creato un predominio tedesco del tutto esorbitante, non una qualche malefica natura della Germania.
La linea Blair è oggi vincente nell’Unione, ed è distruttiva al massimo grado. Lo è anche per quanto riguarda la storia della sinistra: il patrimonio della sinistra era ed è ancora la battaglia per l’uguaglianza sociale e il bene pubblico, e Blair l’ha polverizzato, dando vita a quella che Marco Revelli chiamò, sin dal 1996, la funesta rivalità fra «Due Destre». È all’elettorato in rivolta contro quest’involuzione che si rivolge la Lista Tsipras, oltre che a tutti gli europeisti insubordinati che — lo dicono i sondaggi — sono in Italia una grande maggioranza, presente in varie formazioni politiche, in iniziative e comitati cittadini, in gran parte dell’astensionismo. Per inciso, ricordo qui che Tony Blair resta ancor oggi, nonostante le devastazioni che ha lasciato in eredità, il modello principale cui Matteo Renzi promette di attenersi. L’involuzione del Pd, con Renzi, non subisce battute d’arresto.
So benissimo che nel Partito democratico e anche nel gruppo socialista europeo esistono forze contrarie a questa rotta. Tra queste forze ci sono Giuseppe Civati e – in alcuni momenti e di nuovo nell’articolo che ha scritto sul manifesto – anche Fassina. Il problema sorge quando dalle dichiarazioni ideali si passa al comportamento pratico. Il Pd, che dal 2011 è tornato al governo – prima coalizzato con Berlusconi, poi con il Centro destra di Alfano, per prepararsi oggi a una nuova Grande o Piccola Intesa – non ha esitato un secondo ad accettare, nel 2012, che il Fiscal Compact venisse inserito nella Costituzione. La verità è che non c’era obbligo alcuno di farlo. La Commissione europea s’era limitata a dire che tale soluzione era «preferibile», e senza provocare strappi il governo francese si è rifiutato di costituzionalizzare il pareggio di bilancio. Di questa schiavitù volontaria, terribilmente costosa per gli italiani già piegati dalla crisi, non scorgo traccia nell’articolo di Fassina, né tantomeno nelle parole di Renzi.
Stesso peccato di omissione per quanto riguarda la trojka, che il gruppo socialista a Strasburgo ha recentemente giudicato illegale dal punto di vista comunitario, e fonte di gravi conflitti di interesse (sia per quanto riguarda la Commissione che la Bce). Ma critiche simili giungono davvero in ritardo – la decisione di alzare la voce è stata presa solo nel gennaio scorso! – a disastro ormai avvenuto.
Analogo divario tra parole e comportamenti reali è ritrovabile nella politica fin qui seguita da Martin Schulz, candidato-presidente dei socialisti europei e del Pd. Tra le numerose sue incoerenze, vorrei qui rammentare il ruolo che ha svolto nel negoziato per la Grande Coalizione in Germania, dopo le elezioni di settembre: la parte europea dell’accordo lo ha visto protagonista, nella veste di Presidente del Parlamento di Strasburgo, e ciascuno ha potuto constatare come il capitolo europeo riprenda in toto le idee di Angela Merkel, comprese le obiezioni che fin dall’inizio della crisi il suo governo e la Bundesbank hanno mosso a un maggiore coinvolgimento della Banca centrale europea, agli eurobond, a una gestione solidale dei debiti pubblici, al Piano Marshall che il partito socialdemocratico aveva difeso in campagna elettorale. Se c’è una certezza che anima oggi Schulz è la seguente: è da una Grande Coalizione social-conservatrice che dipende la sua aspirazione a essere eletto Presidente dell’esecutivo europeo, o anche solo Commissario.
Detto questo, concordo su molti punti di sostanza elencati da Fassina: occorre scardinare gli equilibri esistenti nel Parlamento europeo, uscire dalle chiusure della sinistra radicale impersonata dal Gue, sventare un’ennesima Larga Intesa fra socialisti e partito popolare (ma come giustifica, a questo punto, l’intesa Renzi-Alfano-Berlusconi su governo e riforme istituzionali?). Occorre creare un vasto schieramento di europeisti contro i difensori dello status quo. Uno schieramento che potrebbe includere un Gue in maggiore sintonia con Tsipras, dunque trasformato, i Verdi, i socialisti contrari al patto con il centro destra, i futuri deputati Cinque Stelle, e anche i liberali che fortunatamente hanno indicato come candidato-Presidente una persona di chiara fama europeista, Guy Verhofstadt.
Ma prima, toccherà vedere quali saranno le forze che emergeranno dalla competizione di maggio, e se sarà realizzabile una maggioranza trasversale in favore di scelte essenziali, che riassumerei così: sì all’euro, ma in un’Unione che abbandoni le politiche di austerità e il Fiscal compact, che si dia istituzioni democratiche e dunque un Parlamento costituente, che faccia nascere una Banca centrale che sia prestatrice di ultima istanza, non continuamente alla mercé del più influente Istituto di emissione nazionale, la Bundesbank tedesca. No all’Europa delle Costituzioni violate e dei cittadini inascoltati, no alla trojka Commissione-Banca centrale-Fondo monetario; sì a un bilancio europeo in crescita, da utilizzare per piani di comuni investimenti in una ripresa economica ecosostenibile, sulla scia della proposta «New Deal 4», che prevede un’Iniziativa di cittadini europei (Ice) sulla base dell’articolo 11 del Trattato di Lisbona. Il che vuol dire, conseguentemente, sì all’’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie e sull’emissione di anidride carbonica, ma con l’impegno a devolvere il gettito al comune bilancio comunitario. E ancora: no a un Trattato commerciale con gli Stati Uniti che metta fra parentesi le due tasse (Tobin tax e carbon tax) e scavalchi le norme e gli standard di qualità che l’Europa impone al commercio di prodotti nocivi alla salute e al clima, e la cura di servizi pubblici come acqua o energia. Sì, infine, ai diritti dei vecchi e nuovi cittadini europei – e no a un Mediterraneo che già oggi è tomba di decine di migliaia di immigrati.
Il Manifesto per un’altra Europa suggerito da Fassina si costruirà dopo questa competizione fra idee e comportamenti radicalmente lontani, al momento, gli uni dagli altri. Difficile pensarlo nel momento in cui assistiamo all’ennesimo fratricidio avvenuto dentro il Pd. Un fratricidio che ci riconsegna la formula delle Grande Intese, e un semplice cambio di maschera al vertice (la maschera di Renzi al posto di quella di Letta). Se da questo sconquasso e da questi sotterranei tradimenti nascerà a Strasburgo un accordo sulle linee prospettate da Fassina, sarà una di quelle «divine sorprese» di cui prenderemo atto, senza smettere di vigilare sulla coerenza tra parole e azioni

Futura umanità, 14 febbraio 2014
La questione dell’austerità si eleva, nella proposta di Berlinguer, al livello di una visione del mondo, fondata sulla storicità delle formazioni economico-sociali e quindi sul principio di trasformabilità delle relazioni tra gli esseri umani, e tra questi e l’ambiente naturale in cui avviene la loro riproduzione. Forse, proprio per questa visione dinamica, volta al cambiamento dei fondamenti sociali e del senso comune, la questione dell’austerità è stata una delle più contrastate e falsificate tra le elaborazioni e le proposte politiche del segretario del Pci.
«Noi – disse Berlinguer agli operai comunisti nel discorso di Milano il 30 gennaio 1977 – dobbiamo tenere la testa sopra il pelo dell’acqua, per continuare a pensare, a ragionare, a guardare lontano, cioè più in là dell’immediato, per staccarci dalle vecchie rive e approdare a lidi nuovi». Quindi, l’austerità, al contrario di quanto sostenevano i critici più rozzi e interessati, non era l’annuncio di una politica lacrime e sangue, come sarà praticata sistematicamente a danno dei lavoratori dai governi imperniati sulla pregiudiziale anticomunista. Tanto meno era la predicazione dell’indigenza generalizzata da parte di un «frate zoccolante», come qualcuno definì Berlinguer. Era invece un’altra visione della società e della vita fondata sulla solidarietà e l’uguaglianza, rispetto al consumismo e all’egoismo esasperati, vellicati e sospinti dalla controrivoluzione liberista.
Ma Berlinguer – e questo aspetto non andrebbe mai smarrito – non era un solitario sognatore. Bensì il segretario di un partito, denominato comunista, che si proponeva allora di trasformare la società in una civiltà più avanzata secondo il disegno costituzionale, che fonda sul lavoro la Repubblica democratica. In tale contesto (cito dal famoso discorso dell’Eliseo), «l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo», dunque «un’occasione per uno sviluppo economico e sociale nuovo». Viene così in primo piano il nodo della qualità e delle finalità dello sviluppo, del perché e per chi produrre. Ovvero, del senso da dare all’austerità, e perciò il nodo dell’uso delle risorse, umane e naturali.
Se lo scopo da perseguire non è l’incremento indefinito del profitto, ma il soddisfacimento dei grandi bisogni umani in consonanza con la riproduzione equilibrata dei fattori naturali, allora c’è bisogno di un altro ordine dei fattori economici e di un altro paradigma sociale. E per ottenere ciò non basta una più equa distribuzione della ricchezza, sebbene si tratti di una questione essenziale. Occorre intervenire nei rapporti di produzione e nel processo di accumulazione. Insomma, precisa Berlinguer, c’è bisogno di «un intervento innovatore nell’assetto proprietario» e di introdurre criteri, valori e obiettivi «propri del socialismo» nella conformazione materiale e ideale della società.
Secondo il segretario del Pci, l’Italia vive uno di quei momenti della storia nei quali o si avvia «una trasformazione rivoluzionaria della società» o si può andare incontro «alla decadenza di una civiltà, alla rovina di un Paese». Perciò la fuoriuscita «dal quadro e dalla logica del capitalismo» attraverso l’austerità verso una civiltà più avanzata, nella quale l’economia sia al servizio dell’uomo e non viceversa, secondo il suo pensiero è interesse non solo della classe operaia e dei comunisti, bensì di strati ben più vasti di popolo, in definitiva dell’intera nazione.
All’impostazione modernamente rivoluzionaria di Enrico Berlinguer, che nasce non da pregiudizi ideologici ma da una visione dinamica del cambiamento basata su ragioni oggettive, è stato contrapposto il pregiudizio, questo sì ideologico, della non trasformabilità del sistema. Un dogma laico, diventato la stella polare di Thatcher e di Reagan, costruito sul vecchio ideologismo che trasforma le relazioni sociali tipiche del rapporto di produzione capitalistico in immutabili leggi di natura valide per l’eternità, dalla cui gabbia per definizione non si può uscire.
Mi sembra emblematico il fatto che Eugenio Scalfari, il quale sempre con grande sensibilità e rispetto ricorda i suoi incontri con Berlinguer, ancora nel settembre 2006, alla vigilia della crisi nella quale tuttora siamo immersi, concludendo un lungo e problematico dibattito sul tema del socialismo abbia sinteticamente affermato che (cito testualmente) «uscire dal capitalismo è una bubbola». Questo perché, spiega il fondatore di Repubblica, l’accumulazione del capitale «non è – testuale -un fenomeno del capitalismo», «ma della scarsità di risorse». Quindi non si può cambiare. Di conseguenza, anche le disuguaglianze (parliamo ovviamente delle disuguaglianze sociali non delle diversità biologiche), che sono (ancora testuale) «un fenomeno naturale» e «fanno parte della natura della nostra specie», non sono a loro volta eliminabili.
Dove portano queste premesse? Anche in questo caso la risposta di Scalfari è perentoria: «Esattamente all’accettazione del riformismo, cioè alla gradualità per temperare processi comunque inevitabili». Dove è evidente che il riformismo gradualista non è concepito come un processo di superamento dei rapporti sociali esistenti, ma come un tentativo di temperare, appunto, le contraddizioni laceranti del capitalismo per consolidarne la presa sulla società.
In conclusione, mi pare che per uscire da questo tempo di crisi senza fine una riflessione s’imponga sulla necessità di rovesciare i canoni della cultura dominante, a cominciare proprio dal dogma della non trasformabilità del sistema, come fece ai suoi tempi il segretario del Pci. Il valore della sua azione e della sua ricerca appare oggi tanto più rilevante, sebbene fortemente sottovalutata, perché in un mondo diviso dalla guerra fredda, in cui si fronteggiavano due sistemi entrambi declinanti, il capitalismo ad Ovest (poi risultato vincente sotto la spinta neoliberale) e il «socialismo realizzato» ad Est (poi imploso), Enrico Berlinguer fu l’unico dirigente politico di levatura internazionale che pose in termini concreti nel cuore d’Europa il problema della costruzione di una società nuova, diversa dai modelli esistenti a Est come a Ovest.
Superata a suo giudizio la fase del movimento per il socialismo scaturita dalla Rivoluzione d’Ottobre, d’altra parte anche la fase socialdemocratica del movimento operaio era venuta esaurendosi, giacché – precisava Berlinguer – nessuno degli «esperimenti socialdemocratici ha portato al superamento del capitalismo» in Paesi dove crescono non solo gravi disagi per grandi masse di lavoratori. Ma anche il malessere, le ansie, le angosce, «quella che si potrebbe definire l’infelicità dell’uomo di oggi».
La morte ha colpito il segretario comunista come un operaio sul lavoro, mentre nella tempesta dell’offensiva liberista stava guidando il Pci lungo un percorso inesplorato, alla ricerca di una società più giusta e avanzata, in cui il socialismo si coniughi con la democrazia e l’uguaglianza con la libertà. L’austerità fu pensata in un’altra fase della storia, oggi tutto è diverso. Ma i problemi di quel mondo che Berlinguer con la sua lotta voleva cambiare restano, e si sono aggravati. Perciò chi voglia cambiare davvero lo stato di cose presente oggi dal suo pensiero e dal suo esempio non può prescindere.
Parole chiare, conclusione ineccepibile: «Chi vota Renzi in Parlamento vota esplicitamente per la decadenza della democrazia rappresentativa in questo paese: cioè vota contro gli organismi stessi in cui vive ed opera» L'unico lumicino è fuori dal PD.
Il manifesto, 15 febbraio 2014.
Ho passato buona parte della mia vita (politica e civile, s’intende) a combattere le sclerosi conservatrici dell’assetto politico-istituzionale italiano, la sua genetica propensione a percorrere e ripercorrere senza fine le vecchie abitudini e i vecchi vizi. Dopo il mio ultimo articolo (“Nuovi, ma diversi”, il manifesto, 16 gennaio) sono stato attaccato da destra e da sinistra (si fa per dire) come difensore intransigente dello status quo, sordo alle esigenze del nuovo che avanza. Ancora una volta era tutto il contrario: mi sono sforzato, come sempre, di mostrare di quale vecchiume grondasse, dietro le superficiali apparenze, il nuovo che avanza.
Non mi sarei aspettato però, — lo dico con grande sincerità, — che nel giro di pochi giorni il nuovo che avanza svelasse così chiaramente il grumo di ottusa brutalità e di atavica ripetitività, che esso nasconde. Mi riferisco ovviamente a quanto è accaduto in seno alla (sedicente) Direzione del Pd, e nei suoi dintorni. Sempre più provo l’impressione che interpreti e commentatori della vicenda politica italiana, ottusi (in questo caso uso il termine in senso strettamente tecnico) dal loro lungo mestiere, abbiano perso il senso delle cose che accadono.
Ossia un politico di cui in realtà non si sa nulla, né capacità amministrative nazionali né relazioni internazionali né cultura politica, ma solo la “smisurata ambizione” di raggiungere il “suo” risultato il prima possibile, rovesciando il tavolo, offrendo i sodali, ignorando le regole, esibendo attitudini cabarettistiche.
Ma c’è di più, c’è qualcosa che rende il tutto - in sè grottesco e addirittura inverosimile - pericoloso e da guardare con il massimo dell’attenzione. In un regime democratico-rappresentativo il potere, anche quello personale, si forma lungo i raggi di una filiera che presenta, a ogni suo snodo, un’occasione di verifica e, nel caso, di promozione. Sappiamo benissimo che questo modello, — che può anche non esserci piaciuto molto in passato, ma di cui finora non s’è trovato uno migliore, — è già stato, ed è tuttora, almeno in Italia, logorato da molteplici motivi di decadenza. Berlusconi e il berlusconismo, Grillo e il grillismo, ne costituiscono gli esempi più clamorosi.
Renzi e il renzismo costituiscono l’improvviso e improvvisato adeguamento del centrosinistra e della sinistra a tale modellizzazione politico-istituzionale non democratico-rappresentativa (forse potremmo dire, da questo momento in poi, più francamente antidemocratico-rappresentativa). Ma questo già lo sapevamo, e l’abbiamo per giunta già detto. Cos’è successo allora per stupirci e preoccuparci di più, molto di più? E’ successo che lo schema non democratico-rappresentativo viene ora trasferito, senza sforzo apparente, dal livello di una forza politico-partitica, sia pure di prim’ordine, a quello del governo del paese. Ossia: anche il governo del paese viene sottratto al meccanismo delle verifiche e delle promozioni connesse tradizionalmente con il sistema democratico-rappresentativo, e delegato a una problematica, anzi oscura consultazione extra-democratico-rappresentativa.
E cioè: l’unica fonte (chiedo a tutti di riflettere su questa specificazione che spiega tutto: l’unica, l’unica, l’unica) del potere renziano è il risultato delle primarie dell’8 dicembre 2013, in cui ha sconfitto i due candidati alternativi, Cuperlo e Civati. Io contesto (posso farlo tranquillamente: l’ho fatto da sempre) il valore legittimante, in senso democratico-rappresentativo, delle cosiddette primarie. Le primarie possono avere un valore orientativo per la scelta di un candidato di coalizione in presenza di una prova elettorale. Sono un’aberrazione inenarrabile quando ne derivano la carica di Segretario di un Partito, e il pratico, conseguente impossessamento di questo (maggioranza assoluta in direzione, ecc. ecc.). Sarebbe come se gli organi dirigenti della Shell o dell’Eni fossero scelti dai passanti che si trovano a transitare in un giorno casualmente scelto nella strada sotto le loro sedi. Se tale procedura, per giunta, è stata messa in statuto, affaracci loro, e cioè degli stupidi uomini della Shell o dell’Eni, o di quel partito di cui stiamo parlando. Ma se il meccanismo viene trasferito di peso alla formazione di un Governo, che dovrebbe rappresentarci tutti, non sono più affaracci loro, sono affari nostri. Che c’entriamo noi con l’arroganza e insieme con la stupidità del gruppo dirigente del Pd, passato e presente?
Di conseguenza io contesto duramente anche la leggittimità di un Governo che sulla base di codeste procedure fondi la genesi della sua costituzione come formazione di potere nella gestione delle cose italiane, cioè le nostre. E’ la prima volta che accade nella storia dell’Italia repubblicana. Perfino il Cavaliere è andato più volte al Governo con la forza del voto. Quando non ne aveva abbastanza, li comprava. Ma al dunque, comprati o no, sempre voti in Parlamento erano. I voti su cui Renzi fonda la propria pretesa di andare ipso facto al Governo sono quelli della massa che politicamente non si esprime, resta a guardare, è capace soltanto di quel gesto plebiscitario che affida a qualcuno, il Predestinato, le proprie sorti. Disprezzo per la “democrazia diretta”, per la “democrazia dal basso”? Figuriamoci. Disprezzo soltanto per tutto ciò che delega ad altri, senza sforzarsi di emergere, il proprio destino. L’Italia, ahimè, ha una solida tradizione in questo campo, e la coazione a ripetere, in tempi, obiettivamente, di crisi interna del sistema democratico-rappresentativo, torna a riemergere.
In attesa di organizzare una risposta al di fuori della cerchia attuale del potere, — qualcosa come sappiamo si è già cominciato a fare, — l’ultima trincea resta per ora il Parlamento, questo Parlamento. Dio mio. Una buona discussione sull’illegittimità politico-istituzionale e costituzionale delle procedure fin qui seguite servirebbe comunque in tale sede a definire, precisare e confinare nei suoi limiti questa inedita, ed ennesima, sciagura italiana. Chi vota Renzi in Parlamento vota esplicitamente per la decadenza della democrazia rappresentativa in questo paese: cioè vota contro gli organismi stessi in cui vive ed opera.
Né s’invochino, per favore, come ormai si fa da decenni, le sorti politiche, economiche ed europee della povera Italia. L’ultimo a poterlo fare con qualche leggittimità, almeno formale, è stato Enrico Letta. Tolto di mezzo Letta, l’Italia sta altrove.
«Solo Civati (in sedici hanno votato contro) non si è unito al coro. Denunciando il rischio che tutto il Pd, e quel che più conta il paese, affondi definitivamente nella palude. Dove solo un animale può sopravvivere: il caimano» . Il
manifesto, 14 febbraio 2014
Una maggioranza che un tempo si sarebbe definita bulgara ha applaudito la scelta di una crisi a prescindere (anche Totò era un poeta ma non ha avuto l’onore della citazione). A prescindere perché non una parola è stata spesa per i contenuti di questo governo renziano (e tantomeno del programma offerto da Letta alla discussione). A prescindere perché niente è stato detto sullo schieramento alternativo che dovrebbe sorreggere e giustificare questo cambio della guardia con incorporata garanzia di blindatura fino al 2018. Tanto che la sinistra dei Cuperlo e dei Fassina ha messo agli atti che se la discontinuità rivendicata da Renzi per la sua ascesa al comando è quella ascoltata da alcuni interventi in direzione, «siamo più a destra» del governo che oggi se ne va. Ma solo Civati (in sedici hanno votato contro[v. nota in calce]) non si è unito al coro. Denunciando il rischio che tutto il Pd, e quel che più conta il paese, affondi definitivamente nella palude. Dove solo un animale può sopravvivere: il caimano.
In realtà l’unica vera discontinuità del governo renziano sta nella sottolineatura della natura non più tecnica, emergenziale, ma politica e di legislatura dell’operazione in corso. In altre parole non più un “governo del presidente”, con Napolitano ispiratore della sua missione e di alcuni ministri-chiave, come è avvenuto per i governi Monti e Letta. Proprio l’ipotesi più invisa ai diversamente berlusconiani che ieri, con Alfano, hanno scartato questa ipotesi («accetteremo solo un governo d’emergenza»), e chiesto, come anche Berlusconi, di parlamentarizzare la crisi, mettendo sul tavolo la carta delle elezioni anticipate.
Per il condannato resuscitato da Renzi al ruolo di padre costituente delle riforme si apre una fase politica promettente. Poter sparare non su un traballante governicchio di piccole intese ma sul bersaglio grosso. Oltretutto avendo dalla parte del manico quella maggioranza per le riforme di cui è sempre stato un esperto affossatore.
Nota
Ecco chi ha detto no al documento Renzi Pippo Civati, Enzo Martines, Elly Schlein, Paolo Cosseddu, Marco Sarracino, Marina Terragni, Rita Castellani, Carla Rocca, Luca Pastorino, Andrea Ranieri, Maria Carmela Lanzetta, Samuele Agostini, Felice Casson, Annapaola Cova, Brignone Beatrice, Mirko Tutino
Era facile prevedere ciò che è avvenuto. Il casino italiano (epicentro nel PD), esploso il 13 febbraio era già chiaro a chi, come Dominijanni, sa vedere i ciechi prima che finiscano nel burrone.
Idadominijanni.com, 13 febbraio 2014
Una crisi drammatica, una gestione ridicola, scrive Lucia Annunziata sull’Huffington Post commentando «il clima da ragazzi del muretto, sbracato nei modi, nello stile e nella sostanza» che ci tocca respirare. Sullo stile da ragazzi del muretto, argomento tutt’altro che secondario, torno dopo. Prima, due punti sul dramma e sulla farsa.
Primo punto. Salvo improbabili colpi di scena alla direzione del Pd di oggi, fra pochi giorni avremo il terzo presidente del consiglio nominato dal Colle (e stavolta largamente autonominato), senza alcun rapporto, né diretto né indiretto, con il pronunciamento elettorale. Siccome però le cose ripetendosi peggiorano, questa terza volta è peggiore, se possibile, delle due precedenti: non c’è l’emergenza dello spread con cui fu coperta l’operazione Monti, né l’impossibilità di costruire una maggioranza coerente con il voto con cui fu coperta l’operazione Letta. C’è solo, rivendicato da Napolitano a Lisbona, il rifiuto fobico di un ritorno alle urne, unito all’arrogante fretta di Matteo Renzo di insediarsi a Palazzo Chigi, fretta a sua volta accompagnata da un consumismo della leaderhip che ha raggiunto, nel Pd, livelli patologici.
Poco da eccepire se fossimo realmente, come tutt’ora siamo formalmente, in una Repubblica parlamentare, dove i governi li formano le Camere (e tuttavia anche in questo caso tornare alle urne sarebbe a questo punto necessario, essendosi il quadro politico profondamente modificato nell’ultimo anno, con la decadenza di Berlusconi da un lato e l’avvento di Renzi dall’altro, ed avendoci la Consulta liberati dal Porcellum). Ma noi siamo da più di vent’anni in una terra di nessuno, dove la Costituzione formale è continuamente sfidata, contraddetta e delegittimata da un senso comune, di destra e di sinistra, che i governi li vuole eletti, o indicati, dal popolo. Di più: la stessa crisi di questi giorni è figlia di questo senso comune, la leadership di Renzi essendosi costruita precisamente sulla promessa di non varcare la soglia di palazzo Chigi senza mandato popolare, e sull’impegno di varare una legge elettorale che garantisca governi stabili, duraturi e legittimati dal voto. Il paradosso dunque è il seguente: si forma con una manovra di palazzo un governo, il terzo, col mandato di varare le mitiche ‘riforme’ contro le manovre di palazzo (e magari incapace, come i precedenti, di vararle). Un imbroglio che sfugge al principio di non contraddizione.
Secondo punto. Quando il principio di non contraddizione in politica salta, è perché operano altri principi che rispondono ad altre logiche, come quello dei rapporti di forza allo stato duro e puro. Il passaggio dirimente e illuminante di questa crisi resta, da questo punto di vista, quello del cosiddetto scoop della premiata coppia Corriere della Sera- Financial Times. Inconsistente giornalisticamente – si sapeva ed era già stato scritto tutto o quasi già nell’estate del 2011, quando il Corsera peraltro taceva e approvava -, inequivocabile politicamente: una richiesta perentoria di cambio del cavallo spedita dall’establishment che conta a Napolitano, e da Napolitano prontamente raccolta in poche ore con la convocazione accelerata di Renzi al Quirinale. Di nuovo ha ragione Lucia Annunziata: il combinato disposto fra questa traiettoria dei cosiddetti ”poteri forti” – non da oggi privi peraltro di un qualsivoglia progetto sul paese – e il personalismo mediatico degli uomini politici in campo – ma in primis di Matteo Renzi, dico io – accentuano in modo dirompente la deriva oligarchica del sistema-Italia. Oltre a gettare finalmente la luce giusta sull’ideologia della rottamazione: quando il gioco si fa duro, non è ai e alle quarantenni acqua e sapone che lo si lascia in mano. Riportare la gestione della crisi nell’alveo e nelle forme istituzionali è a questo punto il minimo che si possa fare, e bene fa Enrico Letta, con tutti i limiti che gli si possono e devono imputare, ad esigerlo.
Vengo infine allo stile ”ragazzi del muretto”. Sulle cui più patenti manifestazioni – irresponsabilità, leggerezza, senso di onnipotenza, personalismi e maleducazione – non merita neanche insistere. Vale la pena piuttosto di soffermarsi sull’ennesimo capolavoro politico-simbolico che il Pd è riuscito a realizzare ribaltando, anche su questo piano, il vantaggio del rinnovamento in cui si trovava rispetto al partito padronale di Berlusconi in un disastroso svantaggio, complice il coro mediatico affabulato dalla rottamazione di cui sopra, dalla loquace intraprendenza del sindaco di Firenze e dalle garanzie rivoluzionarie delle smart blu. Adesso però non dovrebbe sfuggire a nessuno quanto sia più rassicurante per il grande pubblico la transizione generazionale soft di cui Berlusconi si atteggia a garante rispetto allo spettacolo che la new generation del Pd sta offrendo di sé, superando di molti punti quella precedente già affollata di campioni nella specialità del fratricidio. C’è voluto del talento nel consegnare questo vantaggio al leader decadente e decaduto, amorale e illegale, cinico e gaudente del bunga-bunga. E non è solo un talento maschile. Siamo state tutte adolescenti e tutte sappiamo che sul muretto i ragazzi esagerano finché le ragazze non dicono basta. Ma sul muretto del centrosinistra italiano non ce n’è una sola a dirlo, tutte impegnate come sono o a fare diligentemente da coro o a contare meticolosamente di quante parolacce sono vittime.
«Anomalia per anomalia... ».
Un'analisi terribilmente acuta d'una inoppugnabile realtà terribile. Ma colpevole è chi non resiste e si oppone il manifesto, 15 febbraio 2014
Stiamo assistendo alla presa del potere da parte di una nuova, giovane e dinamica classe dirigente libera dai legami del passato, senza vincoli d’appartenenza; anzi impegnata a cancellare ogni relazione di solidarietà ideologica e a ridurre gli spazi di discussione anche all’interno delle proprie formazioni politiche. L’unico rapporto che residua è quello personale. Tra i partiti, ma anche all’interno dello stesso partito, quel che conta è l’identificazione con il leader: non si è più «democratici», ma solo «renziani» (oppure «antirenziani»).
Persino una persona mite come Enrico Letta alla fine ha perso le staffe. Ed, in effetti, abbiamo assistito – nella sostanza se non nella forma — al più aggressivo attacco politico personale dentro un partito e contro un governo in carica. Il parallelo con il più maltrattato Romano Prodi non regge. Prodi è stato lasciato solo, è stato tradito dai franchi tiratori o da importanti esponenti politici della «sua» parte, ma mai nessuno – tra i sodali di governo — lo ha accusato di essere inadeguato. Dal punto di vista personale ha fatto bene Letta a rivendicare il proprio operato e a chiamare in causa la responsabilità politica di ciascuno: non ha governato da solo e le evidenti difficoltà del suo esecutivo devono essere almeno equamente ripartite. Il maggiore partito di governo non può essere ritenuto esente da colpe.
È anche evidente però che non v’è una possibilità di dialogo tra due mondi non più comunicanti. Letta avrebbe avuto ragione se Renzi avesse potuto accettare l’idea che esiste ancora una responsabilità collettiva, dei partiti e dei governi intesi come istituzioni. Ma è proprio quel che il nuovo leader non vuol più ammettere. È solo un problema di persone, dunque un fatto che riguarda esclusivamente «me» e «te», Matteo e Enrico. Non c’è responsabilità di partito, né il nuovo segretario può essere condizionato dall’apparato, dai ruoli o dagli obblighi che essi comportano. Questi sono tutti limiti della «vecchia» politica, intralci che impediscono il cambiamento.
La crisi di governo si sta svolgendo oltre ogni precedente. Non sembrano neppure più idonee le tradizionali classificazioni che la scienza costituzionalistica – ma poi lo stesso linguaggio politico – ha sin qui utilizzato per valutare la formazione degli esecutivi e il rispetto dei principi costituzionali. Così, si ripete in questi giorni, saremo di fronte ad una «crisi extraparlamentare», Le tipiche crisi «extraparlamentari» sono quelle che – con grande frequenza in passato – scaturivano dalla rottura del patto di coalizione: erano i diversi partiti politici – ovvero alcune componenti di essi — che facevano venir meno il sostegno al governo in carica. La crisi nasceva sì fuori dal parlamento, ma pur sempre in conseguenza di una divergenza tra le diverse forze politiche della maggioranza. Per il governo Letta, invece, tutto s’è consumato entro un organo di partito (la direzione del Pd) che ha sfiduciato il proprio premier. Senza alcuna discussione con le altre componenti del governo. Una sorta di autodafé. Una crisi con qualche assonanza con la tradizione inglese, più che con quella italiana. In Gran Bretagna, in effetti, sono i partiti di governo che decidono le sorti dei loro premier. Sebbene, anche in questo caso, una differenza appare assai rilevante. La Thatcher fu «dimissionata» dal proprio partito a seguito di un congresso perduto dalla Lady di ferro. Ma, appunto, ci fu bisogno di un congresso e la critica riguardò l’indirizzo politico del partito conservatore, non fu una sfiducia alla persona.
Così anche la richiesta di parlamentarizzare questa crisi in questo caso non ha molto senso. Questa crisi non è parlamentarizzabile, perché non ha nulla a che vedere con le logiche virtuose della rappresentanza politica.
Il diagramma della crisi della sinistra in Italia non è stata lineare: ha avuto molti picchi e molte valli. La cronaca di oggi ne registra una, questo articolo, ne racconta un'altra. che fu l'alba delle "larghe intese".
Il Fatto Quotidiano, 13 febbraio 2014
Il governo guidato dal professore – ministro della Difesa Nino Andreatta, alla Giustizia Giovanni Maria Flick, al Tesoro Carlo Azeglio Ciampi, non un governicchio, per intenderci – restò in carica per due anni, cinque mesi e quattro giorni, ma venne affossato da quello che sostanzialmente le cronache di allora ci raccontarono come un complotto dello stesso D’Alema, appoggiato nel suo disegno da Franco Marini. E D’Alema, ieri, forse richiamato in causa da molti che vedono quello tra Letta e Renzi come un remake di quelle trame, o forse spinto da altri giochi, ridisegna la storia di quei giorni. Ma lo fa spostando troppe pedine e persone. In sostanza dice che gli errori furono tutti di Prodi, che avrebbe voluto il voto, mentre il presidente della Repubblica di allora, Oscar Luigi Scalfaro, non voleva e non aveva la minima intenzione di sciogliere le Camere. E così la scelta, dopo aver sondato Ciampi, ricadde su lui, Massimo D’Alema. Non solo: secondo l’ex premier diessino, fu determinante l’azione esclusiva di Francesco Cossiga che bocciò Prodi e affossò la possibilità di un governo Ciampi.
Prodi, raggiunto al telefono dal Fatto Quotidiano, non solo dice che così le cose non andarono, ma spiega di far “molta fatica a capire perché sia stata scritta quella lettera”. E, aggiunge, disarmante, ma tutt’altro che disarmato: “Ormai siamo in una gabbia di matti e qualcuno ha buttato via la chiave. Ma non voglio andare oltre. Quei giorni del 1998 hanno una loro storia, ci sono dei fatti. E quelli restano”.
Cosa accadde, retroscena a parte, è noto. E che un complotto di D’Alema ai danni di Prodi ci fu, lo sappiamo anche grazie a una intervista che Franco Marini rilasciò nel maggio 2001 al Corriere della Sera. Sia Marini, sia D’Alema in quei giorni avevano l’interesse di affossare Prodi. C’era un patto tra i due per far saltare Prodi e con lui lo spirito ulivista della coalizione. Obiettivo dell’accordo, ricordava nel 2001 Marini, era esaltare piuttosto il potere dei due partiti, Ds e Ppi. Al primo, con D’Alema a Palazzo Chigi, sarebbe spettata la presidenza del Consiglio. Al secondo sarebbe spettato nel 1999 il Quirinale. Poi il patto saltò quando al Quirinale andò Ciampi e Marini non la prese bene, ma questa è un’altra storia. Quel 9 ottobre 1998 Prodi rimase stritolato e con lui il futuro del centrosinistra.
In quell’autunno del 1998 a Marini spettò il compito di lavorare ai fianchi gli umori di Cossiga, decisivo in quell’equilibrio fragile (il governo Prodi non ottenne la fiducia per un voto) e D’Alema invece dovette ingraziarsi il Vaticano. Perché in quel momento un post comunista alla presidenza del Consiglio non era assolutamente gradito nella Chiesa. Ma c’è un passaggio chiave in tutto questo: il leader degli allora Ds, proprio in quei giorni, da presidente del Consiglio quasi incaricato, riesce a farsi ricevere pochi minuti da papa Giovanni Paolo II. Clemente Mastella definirà il colloquio “amorevole”.
Sembra storia vecchia, archeologia, ma in realtà, da quel momento in poi, D’Alema aprirà la breccia per quelle che sono le larghe intese che – pur essendosi materializzate solo anni dopo – già erano nell’aria da tempo. L’epilogo lo conosciamo. D’Alema a Palazzo Chigi durò abbastanza poco. Il primo a voltargli le spalle fu proprio quel Marini che oggi il nostro ha dimenticato nella lettera al Corriere della Sera. Così come vengono dimenticati un’altra serie di particolari. A chi voglia rivolgersi D’Alema non lo sappiamo. Forse invita Renzi a darsi una calmata. Prodi non ne ha proprio idea. Più maliziosi, invece, sono i pensieri dei prodiani che non vedono altra lettura possibile: “Si tratta del seguito della guerra dei 101, secondo noi molti di più, e della mancata elezione di Prodi al Quirinale. Solo a questo gioca D’Alema”.