«». Il manifesto
Ho trascorso la settimana in Spagna, a Malaga, a una Scuola estiva della Cattedra Unesco di quella Università. Il tema della sezione a cui ho partecipato come relatore era “L’impegno degli intellettuali”. Seguivo, naturalmente, la notizie sempre più angosciose provenienti dalla terra martire di Palestina, constatando l’assoluta “distrazione” del ceto politico, rispetto a quei fatti di sconvolgente gravità, e il totale disinteresse, salvo pochissime eccezioni, del “mondo della cultura”.
Ricordo altre stagioni, come l’invasione del Libano e la guerra contro Hezbollah, del luglio 2006, o il bombardamento di Gaza del dicembre 2008-gennaio 2009: stagioni in cui fiorirono appelli, e la mobilitazione di professori, giornalisti, letterati, scienziati,artisti fu vivace e intensa. Si denunciavano le responsabilità di Israele, la sua proterva volontà di schiacciare i palestinesi, invece di riconoscer loro il diritto non solo a una patria, ma alla vita. Oggi, silenzio. La macchina schiacciasassi di Matteo Renzi , nel suo micidiale combinato disposto con Giorgio Napolitano, si sta rivelando un efficacissimo apparato egemonico.
E devo constatare che mai in passato si erano raggiunti simili livelli: dove sono le zone franche? Fa impressione sfogliare la balbettante Unità, che un tempo non lontano, con tutti i suoi limiti, accanto a Liberazione (defunta) e al manifesto (che resiste!), era una delle poche voci critiche nel deprimente panorama all’insegna del più esangue conformismo.
Sulle pagine del manifesto (15 luglio) Manlio Dinucci ha spiegato bene le ragioni reali del “conflitto” in corso, e non ci tornerò. Qui mi preme piuttosto evidenziare, con sgomento, che il “silenzio degli intellettuali” che qualche anno fa Alberto Asor Rosa denunciava, deplorandolo fortemente, è divenuto non soltanto una condizione di fatto, ma una posizione “teorica” che, accanto a quella dell’equidistanza, sta trovando i suoi alfieri. Appunto, rientrando dalla mia settimana spagnola, di intense discussioni sulla necessità di impegnarsi, a cominciare dal mondo universitario, cado dalle nuvole leggendo lacerti di pensiero che configurano la nascita di una sorta di “Partito del silenzio”.
Il silenzio non viene soltanto praticato, sia «perché dovrei espormi?», sia perché la pressione della lobby sionista è fortissima e induce a tacere se proprio non vuoi esprimere la tua gioiosa adesione alla “necessità” degli israeliani “di difendersi”. Il silenzio, oggi, a quanto pare, è divenuto una divisa, una bandiera, e una ideologia.
Molto praticato il genere “commenti” agli articoli on line, per esempio: sono tutti uguali, anche se variamente dosati nel tasso di violenza verbale. Mentre un gran lavorio di informazione al contrario, di diretta provenienza da fonti israeliane, viene dispiegato dagli innumerevoli piccoli dispensatori di verità nostrani. Per esempio un pur prudente articolo di Claudio Magris sul Corriere della Sera (17 luglio) che si permetteva di accennare alle ragioni dei palestinesi, ha ricevuto la sua buona dose di ingiurie. Non c’è che dire, il sistema funziona. E finisce per indurre al silenzio, o quanto meno alla prudenza. Che è l’altro nome del silenzio.
Ma non è questo silenzio, il silenzio del ricatto, che mi preoccupa di più. È, invece, il silenzio della scelta. Il silenzio teorizzato come terza via, tra coloro che incondizionatamente sono con Israele, e gli altri, quelli che sostengono la causa palestinese. Il silenzio come rispetto del dolore, o come via della ragionevolezza: contro gli opposti estremismi. Esemplare in tal senso Roberto Saviano, che, quasi commettendo autogol, cita Euromaidan per denunciare il tardivo schierarsi anche italiano dalla parte giusta, che per lui, ovviamente, è quella dei golpisti nazisti diKiev. E ora, a suo dire, occorre schierarsi non con gli uni né con gli altri, ma «dalla parte della pace»: i “terroristi” di Hamas sono indicati come il primo nemico della pace, ovviamente.
È la linea (solita) di Adriano Sofri (la Repubblica, 17 luglio), altro guerriero democratico, che ripartisce torti e ragioni, equiparando i razzi di Hamas alle bombe israeliane, e invoca implicitamente silenzio, discrezione, rispetto: mette sullo stesso piano tutti. Tutte le vittime innocenti. Ma si può confondere la pietà umana, doverosa, col giudizio politico? Si può trasformare l’opinione in saggezza?
Sul medesimo giornale, Michele Serra sostiene che occorre tacere, che si devono abbassare la voce e gli occhi, davanti alla “tragedia” della guerra, lo stesso termine usato da Magris. Ma quale tragedia? Qui abbiamo la politica, e la politica ha degli attori, dei responsabili: come in passato la divisione tra vittime e carnefici è netta ed evidente (so che qualche anima bella mi accuserà di semplificare: la cosa è più complessa, non si può dividere così nettamente, ciascuna delle due parti ha un pezzo di responsabilità e via di seguito). Serra scrive: «Evidentemente il ‘ciclo dell’indignazione’ è un meccanismo logoro».
Dal ceto intellettuale mi aspetto assai più che l’indignazione, mi aspetto una rivolta morale: tutti, se non in perfetta malafede, oggi sanno quanta verità ci sono nelle parole di Primo Levi: «Quello che non potrò mai perdonare ai nazisti è di averci fatto diventare come loro».
Quanto bisogno avremo di sentire la sua voce risuonare, pacata e ferma, scandendo le parole, a voce bassa, ma chiarissima: «La tragedia è di vedere oggi le vittime diventate carnefici». E se questo era evidente a lui negli anni Ottanta del Novecento, cosa potrebbe mai dire oggi, davanti a quei corpi straziati di bimbi, alla vita cancellata in tutta la Striscia di Gaza, davanti a quelle macerie che occupano, quartiere dopo quartiere, isolato dopo isolato, di ora in ora, lo spazio affollato di case e persone?
Se non denunciamo le menzogne dei media, le complicità dei governi occidentali, con quello di Tel Aviv, in particolare l’oscena serie di accordi (militari, innanzi tutto) dell’Italia con Israele… Se ci consegniamo al silenzio, oggi, davanti a una ingiustizia così grave,così palese, così drammatica, quando parleremo? Insomma, non intendo tacere, e ricorrendo proprio alle parole di quel grande uomo, gridare: «Se non ora, quando?».
«». La Repubblica
La vicenda dell’insegnante messa sotto inchiesta dalla madre superiora di una scuola privata di orientamento cattolico e parificata non ha dell’incredibile. È incredibile che ci si stupisca e si continui a sostenere — come da anni si fa — che la scuola pubblica comprende sia le scuole statali sia quelle private parificate. Il pubblico è uno, dicono i sostenitori del finanziamento pubblico alle scuole private per raggirare l’Art. 33 della Costituzione che afferma chiaramente essere le scuole private libere e “senza oneri per lo Stato”. I retori che non vedono di buon occhio questa norma hanno sofisticamente ridefinito il pubblico e... abracadabra, ecco che tutte le scuole paritarie sono pubbliche come quelle statali! All’insegnante (che per proteggere l’anonimato si presenta come Silvia) la madre superiora della scuola cattolica in questione ha detto di voler verificare le “voci secondo le quali lei aveva una compagna”. Poiché era suo dovere «tutelare questo istituto cattolico” se quelle voci fossero state fondate allora il suo contratto sarebbe stato a rischio (l’insegnante ha un contratto annuale rinnovabile). Perché è quanto meno irragionevole stupirsi?
Storie di commessi viaggiatori dei poteri forti:quelli che hanno aiutato la scalata del successore di Silvio, sulle macerie d'una gloriosa eredità distrutta.
Green report, 21 luglio 201421 luglio 2014
Dopo la tappa in Mozambico, dove ha firmato gli accordi già stesi dall’Eni con il governo di Maputo per gli immensi giacimenti gasieri del Paese africano, Renzi nel suo tour petrolifero si è recato in altri due Paesi già marxisti-leninisti: la Repubblica del Congo (Brazzaville) e l’Angola, ora convertiti al liberismo familistico/tribale più sfrenato, ma gestito sempre dagli stessi uomini che hanno cambiato casacca ideologica.
La visita di Renzi in Africa sembra più quella di un piazzista dell’Eni che quella di un premier di uno Stato democratico, e la “tecnica” utilizzata sembra ormai essere quella “cinese”, adottata anche da democrazie che poi si scoprono “selettive” se si parla di Ucraina o Gaza: accordi e pacche sulle spalle con tutti e nessuna domanda sui diritti umani e le libertà di opinione.
Comunque, se l’accordo in Mozambico – il più democratico tra i Paesi visitati – era più o meno ordinaria amministrazione (al di là dell’enormità delle riserve di gas scoperte da Eni) come ben sanno i lettori di greenreport che hanno seguito le scoperte di Eni nell’offshore di quel Paese, diversa è la situazione per quanto riguarda il Congo-Brazzaville, dove Renzi ha incontrato l’inossidabile presidente Dennis Sassour Nguesso, prima dittatore marxista-leninista e poi autoritario e ricchissimo presidente eletto.
Alla presenza di Renzi e Nguesso, l’amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi, e il ministro degli Idrocarburi congolese, Andre Raphael Loemba, hanno firmato un accordo di cooperazione che conferma la storica presenza della nostra multinazionale nel Paese e «nel quale si afferma – spiega un comunicato Eni – la volontà di perseguire nuove iniziative nel bacino costiero congolese, che si estende dall’onshore Mayombe al deep-offshore».
Eni opera nella Repubblica del Congo dal 1968, ininterrottamente (anche ai tempi della dittatura filo-sovietica). Nel 2013 la compagnia italiana ha estratto circa 120.000 barili di olio equivalente al giorno. Descalzi, che in questo tour africano è sembrato fare le funzioni di ministro degli Esteri dell’Italia, ha confermato «l’importanza storica e strategica del Paese per Eni e ha riaffermato il massimo impegno della compagnia a proseguire nello sviluppo delle proprie attività, in particolare dei giacimenti rispetto ai quali, in seguito a un negoziato strategico, il governo congolese a fine 2013 ha prolungato i permessi (Madingo, Marine VI e Marine VII)».
Nell’Africa Sub-Sahariana, dove produce circa 450.000 di olio equivalente al giorno, Eni è presente inoltre in Ghana, Gabon, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Togo, Kenya e Liberia e Angola, ed è proprio in quest’ultimo Paese che Renzi ha fatto tappa per incontrare il presidente Jose Eduardo Dos Santos, del partito egemonico ex marxista-leninista dell’Mpla, e soprattutto suo figlio Jose Filomeno Sousa, presidente del Fondo sovrano angolano, creato con i proventi del petrolio.
Anche qui Renzi era stato preceduto il 19 luglio da Eni, che in un comunicato ha annunciato: «N’Goma FPSO è pronta a salpare in direzione dell’area offshore del blocco angolano 15/06, dopo la cerimonia di battesimo che si è tenuta ieri a Port Amboim. In seguito inizierà le operazioni di ormeggio e aggancio. Questa è per Eni e i suoi partner una tappa fondamentale per il conseguimento del first oil del West Hub Development Project previsto per la fine del 2014. Il progetto segnerà il ritorno di Eni in Angola come operatore in acque profonde». Eni è presente in Angola dal 1980, in piena guerra civile tra i marxisti dell’Mpla, appoggiati da cubani e sovietici, che avevano liberato l’Angola dal colonialismo portoghese, e i ribelli dell’Unita appoggiati dal Sudafrica razzista e dagli occidentali, e nel 2013 ha avuto una produzione netta di 87.000 barili al giorno.
La visita di Renzi in Angola, che a Lunada ha parlato davanti ad una platea composta quasi interamente composta da investitori italiani e occidentali (vedi foto), serve quindi a mettere il suggello definitivo al West Hub Project, tra i blocchi assegnati in Angola nel 2006 con un bid internazionale, la prima area di sviluppo che andrà in produzione. Questo progetto, spiega Eni, «comprende i campi Sangos, Cinguvu e Mpungi e prevede la perforazione di 21 pozzi sottomarini di cui 12 produttori, 4 iniettori acqua e gas alternativi e 5 iniettori d’acqua. La profondità d’acqua è compresa tra i 1000 e i 1500 metri. Un secondo progetto di sviluppo simile è inoltre in corso di esecuzione (East Hub) per sfruttare le riserve scoperte nella zona nord-orientale dello stesso blocco».
«Se in Laguna il Consorzio Venezia Nuova ha sponsorizzato di tutto per procacciarsi le simpatie dei veneziani, in Salento le cose hanno preso una piega diversa».
La Repubblica, 21 luglio 2014 (m.p.r.)
Marina di Melendugno (Lecce). Le canne sono queste piante sottili e dinoccolate che spuntano dalle dune di sabbia e, oggi, che è giorno di maestrale, vengono strappate e sbattute in un mare cristallino. «Ecco, noi non possiamo lasciarci trascinare dall’opportunità, come se fossimo canne al vento. Non svendiamo il territorio. Abbiamo l’obbligo di tutelare il territorio e la nostra festa». Con queste parole qualche giorno fa l’arcivescovo di Lecce, monsignor Domenico D’Ambrosio, ha spiegato che l’Italia non è tutta uguale.
Ricordiamo le «ragioni di fondo del movimento sceso in piazza nel 2001», a Genova: un momento importante del movimento di contrasto alla nuova devastante fase globale della storia del capitalismo. Le ragioni di allora, i torti dello stato, l’impegno di oggi.
Il manifesto online, 20 Luglio 2014
In queste giornate per noi così evocative, con tredici anni difficili alle spalle, due pensieri si sovrappongono. Uno riguarda la dimensione politica del movimento nato per contrastare il pensiero unico neoliberista, l’altro le dinamiche repressive e di limitazione della democrazia. Questioni che si intrecciano e che sono oggi il fondamento di una nuova consapevolezza.
In questo 2014 con la cosiddetta crisi – giunta al suo settimo anno – che si rivela in realtà un sistema di governo e di dominio destinato a durare, può sembrare perfino superfluo rimarcare la fondatezza e l’attualità delle ragioni di fondo del movimento sceso in piazza nel 2001. Potremmo parlare a lungo del dominio della finanza, delle oligarchie sovranazionali che sottraggono democrazia, del neocolonialismo e del debito come leva di potere del forte contro il debole, della logica di guerra che ispira l’ideologia del libero mercato, cioè dei temi affrontati nei seminari, nei forum e nelle iniziative pubbliche di allora, ma possiamo limitarci a far notare che in questi anni si è avuta una radicalizzazione del pensiero unico e dei suoi strumenti di dominio.
E che le chiavi di lettura introdotte dal movimento contro il neoliberismo a cavallo del millennio sono oggi imprescindibili se vogliamo capire quel che davvero accade nell’economia globale e nel suo sistema di governo. Altro che “crisi”, altro che “crescita da rilanciare”: siamo più che mai di fronte alla necessità di uscire dalle gabbie mentali, sociali e politiche di un sistema destinato a sopravvivere a se stesso accrescendo il livello di autoritarismo.
Genova 2001 portò novità dirompenti anche nel modo di fare politica, d’essere attivi nella società. Imparammo in quei giorni a ragionare in termini globali, a lavorare con spirito di cooperazione, a prendere decisioni cercando di allargare il consenso, a favorire la partecipazione dal basso. Questa lezione di metodo è il tesoro più prezioso di cui ancora disponiamo, ed è da questo tesoro che dovremmo attingere nel guardare al domani, in una fase storica pervasa da un senso di sconfitta che rischia d’essere paralizzante.
Le migliori esperienze di movimento emerse in questi anni – pensiamo a Occupy Wall Street, agli Indignados spagnoli e anche del Movimento italiano per l’acqua pubblica — sono tutte caratterizzate da un alto livello di competenza, dalla centralità di nuove figure sociali ignorate dalla politica ufficiale (il precariato giovanile, i migranti), da un’originale attitudine al pluralismo, da una forte capacità di attrarre partecipazione popolare, da una tendenza a svilupparsi per vie orizzontali senza derive gerarchiche o leaderistiche.
Se una nuova convincente idea di sinistra non si è ancora affermata nella società e negli ambiti istituzionali, è anche perché in questi anni, nei vari tentativi messi in campo, si è caduti nelle antiche logiche del personalismo, delle forme verticali di organizzazione, soffocando di fatto la creatività diffusa e la voglia stessa di partecipare. E non si è investito abbastanza, a nostro avviso, nella concreta elaborazione di un credibile progetto politico di “conversione” dell’economia, in grado di dare risposte alle urgenze del momento – in testa la disoccupazione di massa — e d’essere “capace di futuro”.
Dicevamo che un altro pensiero preme in questi giorni in cui cade la ricorrenza del G8 genovese. Riguarda l’esercizio dei diritti civili, la qualità della democrazia italiana. E’ un punto sul quale non possiamo farci illusioni, ma che dev’essere dal centro della nostra attenzione. La prepotenza istituzionale, al limite dell’eversione, che caratterizzò le giornate del luglio 2001 è ormai consegnata alla storia, sotto forma di sentenze della magistratura.
Sotto questo profilo abbiamo ottenuto risultati di portata storica, con le condanne per la Diaz e per Bolzaneto e la sospensione dai pubblici uffici di altissimi dirigenti della polizia di stato. Risultati che certo non mitigano la sofferenza al pensiero che dieci persone sono state imprigionate con condanne pesantissime e sproporzionate, persone che stanno pagando sulla loro pelle – in maniera profondamente ingiusta e inumana – quella specie di compensazione che è stata concessa all’istituzione-stato, insieme con i mancati processi per l’omicidio di Carlo Giuliani e per il vilipendio del suo cadavere, a fronte della miserabile prova offerta in piazza, nelle scuole, nelle caserme e nei tribunali di Genova da numerosi funzionari e dirigenti delle forze dell’ordine.
Molti, troppi abusi e violenze fino all’omicidio hanno macchiato negli ultimi anni le varie forze di polizia per poter dire che la “lezione di Genova” è stata accolta ed elaborata dentro gli apparati di sicurezza. Forse è avvenuto il contrario. Si è cioè affermata, in risposta alle condanne di Genova e al fallimento del tentativo di ostacolare il corso della giustizia, un’evasione dai canoni della democrazia che rischia d’essere inarrestabile.
E’ dunque tutto perduto? Noi crediamo di no e pensiamo che valga ancora la pena coltivare l’idea che l’etica democratica dev’essere la bussola per tutte le istituzioni statali, anche per gli apparati di polizia. E’ una sfida che può essere affrontata a patto che ciascuno faccia la sua parte: in parlamento, nella società, fra gli stessi agenti coscienti della deriva antidemocratica che sono costretti a subire.
Le nostre proposte sono note: dai codici di riconoscimento sulle divise, alla revisione dei criteri di formazione degli agenti, all’abolizione della riserva dei posti in polizia per chi abbia prestato servizio nelle forze armate. Fino a una vera legge sulla tortura. Quindi una legge diversa da quella approvata in prima lettura al senato, un testo inadeguato perché non qualifica la tortura come reato specifico del pubblico ufficiale né prevede il principio della non prescrivibilità.
Ecco un concreto fronte d’impegno per le prossime settimane e mesi: una campagna per cambiare un testo di legge che pare pensato in un paese diverso dall’Italia, come se a Genova nel 2001 o dentro caserme e carceri anche negli anni seguenti, non fosse avvenuto niente. Come se i giudici non avessero scritto la parola tortura – senza poter applicare una pena congrua – nella sentenza di condanna per i fatti di Bolzaneto.
E’ il minimo che possiamo fare per chi ha vissuto sulla propria pelle ciò che una volta abbiamo chiamato l’eclisse della democrazia.
«La fine del Marcianum creato dal cardinale Scola fa affiorare un retroscena del 2008: la Regione governata da Galan dirottò, per quel progetto, 50 milioni di fondi della Legge speciale originariamente destinati al disinquinamento della laguna».
La Nuova Venezia, 20 luglio 2014 (m.p.r.)
«Nell’affollata assemblea nazionale tenuta ieri al teatro Vittoria di Roma, più di 500 persone hanno cercato di sviluppare un metodo difficile basato sul consenso e sulle soluzioni condivise, più che su quello basato su una "testa, un voto"».
Il manifesto, 20 luglio 2014 con postilla
Anni di contrasti non si cancellano con un colpo di spugna. In un tempo ragionevole, ma non breve, Sinistra Ecologia e Libertà e Rifondazione Comunista, le associazioni e i gruppi che compongono l’«Altra Europa con Tsipras» stanno cercando di fare tesoro delle differenze e delle debolezze di tutti.
Nell’affollata assemblea nazionale tenuta ieri al teatro Vittoria di Roma, più di 500 persone hanno cercato di sviluppare un metodo difficile basato sul consenso e sulle soluzioni condivise, più che su quello basato su «una testa, un voto».
Gli equilibri restano precari e rischiano di creare precipitazioni in vista delle prossime elezioni regionali in Calabria e in Emilia Romagna, dove si voterà a novembre e i partiti della sinistra con i Verdi e il Pd sono stati in maggioranza negli ultimi cinque anni. O in Puglia dove, ad un anno dalla scadenza del mandato da governatore di Nichi Vendola, il presidente della giunta per le elezioni del senato Dario Stefàno (Sel) ha ufficializzato la sua candidatura alle primarie del centro-sinistra, agitando le acque tra le componenti dell’Altra Europa favorevoli ad una consultazione della base prima di definire le alleanze.
Allearsi, o meno, localmente con il partito democratico di Renzi [su eddyburg lo definiamo il PMR- n.d.r] può essere un boccone indigesto per la lista Tsipras, un ’esperienza che ha fatto dell’anti-renzismo, della lotta contro l’austerità e contro quello che Marco Revelli definisce il «populismo dall’alto», bandiere da sventolare in Italia e in Europa contro le larghe intese tra popolari e socialisti.
Il posizionamento elettorale non è l’unico problema dell’Altra Europa con Tsipras, ma può condizionare la credibilità della sua proposta politica. Lo sdoppiamento delle alleanze alle ultime regionali in Piemonte e in Abruzzo dove Sel si è alleata con il Pd mentre dava indicazioni di voto per Tsipras alle Europee ha penalizzato il risultato della lista. Lo stesso problema è tornato a galla nei gruppi di lavoro che, nel pomeriggio di ieri, hanno affrontato le questioni organizzative e programmatiche.
Le posizioni in campo sono almeno due: quella più netta «mai con il Pd» sostenuta in un documento promosso dal candidato alle europee Domenico Finiguerra e quella, più sfumata, proposta da Eleonora Forenza (Prc) sulle consultazioni territoriali con la base prima di stabilire le alleanze. Per l’eurodeputata la questione è sostanziale: «Sono le alleanze sociali a definire il posizionamento politico, non viceversa. Se candidi tre attivisti No Tav, è difficile allearsi con il Pd che difende il Tav». Il rischio è quello di fare sparire il tentativo unitario che ha contraddistinto l’Altra Europa.
Al momento, non c’è in questo spazio politico un livello decisionale riconosciuto capace di dirimere la questione. Nel corso dei lavori del pomeriggio, Paolo Cento (Sel) ha sostenuto che «l’assemblea nazionale dell’Altra Europa non ha titolo per decidere sulle alleanze alle regionali ed è preferibile lasciare decidere i territori». La discussione resta aperta alla possibilità di sperimentare alleanze con le liste civiche sul modello della «rete delle città solidali» che ha avuto una buona affermazione in città come Pisa.
È stata così prospettata una soluzione interlocutoria: creare una consultazione nei territori prima di definire una collocazione politica, abbandonando il percorso verticistico che ha contraddistinto la lista fino ad oggi. «Le amministrative restano un problema anche per Syriza – ha riconosciuto Massimo Torelli di Alba – Anche se è il primo partito in Grecia, alle ultime elezioni non è riuscita ad affermarsi in due regioni importanti perché alcuni componenti della sua rete hanno preferito altre alleanze. Il modello politico adottato a livello nazionale è difficile da esportare sul piano locale in Grecia come in Italia».
Il dilemma non è solo tattico, ma politico. E mette in discussione la recente storia della «sinistra radicale». Barbara Spinelli ne è consapevole. «Rischiamo di restare prigionieri di una sindrome che può creare divisioni — afferma l’eurodeputata — Non ci salveremo se ci concentriamo solo sulle elezioni. La nostra forza nascerà da un programma incentrato su un “New Deal” della democrazia, della cultura e del lavoro in Italia e in Europa e non dalla collocazione elettorale. Se non ci riusciremo alle regionali, saremo pronti per le politiche. Non dividiamoci sulle regionali quando un soggetto politico ancora non c’è».
Sandro Medici, già candidato alle europee, vede una «reticenza» sulle forme organizzative da dare all’Altra Europa: «Andiamo avanti per approssimazioni successive — afferma — ma l’incastro è difficile. Se spingi sul pedale dell’opposizione, si possono creare divisioni. E quindi c’è chi non vuole iniziare dividendosi. È sempre possibile che, alla lunga, questo processo porterà ad una nitidezza, ma per il momento si galleggia. Siamo in una situazione tragica: la sinistra è irrilevante mentre cresce la povertà, la disoccupazione e la repressione». L’urgenza è uscire da questo incantesimo.
«La differenza si fa sulle pratiche e non sulla tattica. Solo così è possibile recuperare la credibilità che a mio avviso è stata persa quando Spinelli non ha mantenuto l’impegno di lasciare il seggio a Bruxelles dopo l’elezione» sostiene Luca Spadon che partecipa alla campagna Act! lanciata da studenti e precari della lista Tsipras. La prospettiva dell’Altra Europa dovrebbe essere quella di «farsi lievito» e «moltiplicatore» dei comitati politici esistenti e delle istanze dei movimenti che «oggi ci guardano con diffidenza o si rivolgono al movimento 5 Stelle» sostiene Finiguerra.
È fitta l’agenda in vista dell’autunno.L’Altra Europa si schiererà in molte manifestazioni di opposizione al governo. Il momento «clou» sarà un corteo programmato a Roma il 13 dicembre. Si andrà in piazza il 18 ottobre con la Fiom, il 14 novembre con gli studenti contro il «Jobs Act» Renzi-Poletti. Giorgio Cremaschi, dell’associazione Ross@, ha invitato l’Altra Europa a partecipare all’assemblea di fine settembre che proseguirà il «controsemestre popolare» a cui partecipa un ampio cartello di sindacati di base, partiti e gruppi della sinistra.
L’assemblea di ieri ha deciso l’allargamento dell’attuale coordinamento formato da 44 persone ai membri dei comitati territoriali. Questo gruppo esteso coordinerà le attività fino a settembre. Verranno eletti portavoce locali che rispetteranno la parità di genere. Per quelli nazionali si vedrà nelle prossime settimane. Un nuovo incontro nazionale dell’Altra Europa verrà fissato a novembre.
postilla.
A mio parere la direzione di marcia deve essere la rinuncia alle molteplici identità, ieri aggregate nella lista "con Tsipras", e la costruzione di un nuovo soggetto politico caratterizzato da una nuova identità (ideale, sociale strategica, programmatica, organizzativa). La base della nuova identità è rinvenibile nei documenti su cui è nata la lista "con Tsipras". Senza nascondersi i problemi del transito, né le sue difficoltà, le incertezze e gli errori che potranno compiersi, non vedo altre strade. Il rischio di ripetere i fallimenti storici delle sinistre italiane e i tentativi rivelatisi velleitari dei movimenti sociali è molto elevato.
La fine della centralità della classe operaia e l'individuazione del nuovo soggetto sociale da assumere come riferimento di classe è forse la direzione nella quale le intelligenze devono lavorare di più. "Cercare ancora", diceva ieri Claudio Napoleoni e ripete oggi Marco Revelli.
«Dalla cessione del gruppo Pirelli ai russi per pochi euro all'annunciata vendita di Saipem da parte dell'Eni. Fino alle ultime vicende che riguardano Alitalia, Ilva e Indesit. Il governo italiano resta alla finestra mentre l'industria italiana finisce nelle mani dei grandi gruppi industriali stranieri».
Sbilanciamoci.info, 12 luglio 2014 (m.p.r.)
Per quanto riguarda il controllo delle imprese grandi e medio-grandi del nostro paese le notizie non sono più quelle di una lenta ritirata del capitale nazionale, ma di una rotta sostanzialmente disordinata. Nell’ultimo periodo abbiamo così assistito, tra l’altro, alla pratica cessione del gruppo Pirelli ai russi per pochi euro e del controllo del Monte dei Paschi, tra l’altro a investitori sudamericani, sempre per una manciata di soldi. Intanto l’Eni annuncia la vendita di quella grande impresa che è la Saipem e, naturalmente, dal momento che non si troveranno investitori nazionali disponibili, l’ambita preda finirà in mani lontane. Anche la annunciata e insensata privatizzazione di Fincantieri -un’impresa che da qualche tempo naviga sulla giusta rotta e che dovrebbe semmai essere aiutata ad espandersi ancora-, potrebbe portare qualche sgradevole sorpresa sul fronte della proprietà; con questo governo c’è sempre da aspettarsi il peggio.
Ma ora, in attesa di altri annunci della stessa natura, fanno notizia soprattutto le vicende di Indesit, Ilva, Alitalia.
Per quanto riguarda quest’ultima, l’epilogo della vicenda sembra vicino, con i sindacati posti di fronte alla drammatica alternativa di accettare, e in fretta, dei pesanti tagli all’occupazione o vedere a questo punto la chiusura definitiva della compagnia; non esistono in effetti altre soluzioni, di fronte tra l’altro ad un interlocutore, quello arabo, che, sapendo di avere il coltello dalla parte del manico, ha avanzato richieste molto pesanti anche alle banche, tra l’altro indurendo le sue richieste nei loro confronti diverse volte negli ultimi mesi. Con una conclusione in qualche modo positiva della vicenda si chiuderebbe peraltro uno scandalo, che dura da sessanta anni, di spreco di risorse pubbliche, di immistione senza freni della politica più deteriore nelle vicende della compagnia, di gravi incompetenze di gestione.
Per quanto riguarda l’Indesit, si è chiusa una falsa asta tra produttori americani, tedeschi e cinesi per la conquista della compagnia. In realtà, si sapeva da tempo che avrebbe vinto la statunitense Whirlpool, anche se, ad esempio, l’offerta cinese era economicamente migliore e quella tedesca politicamente più opportuna. Si sussurra, in effetti, che l’attuale amministratore delegato della società marchigiana fosse da tempo in relazioni di amicizia con il responsabile europeo della stessa Whirlpool e che i due, di fronte anche ad azionisti disorientati e passivi, si fossero messi d’accordo sulla transazione già da molto tempo. Bisognerà stare almeno attenti, ora, perché la nuova proprietà rispetti le decisioni di quella vecchia in merito ai recenti impegni assunti in termini di investimenti ed occupazione, anche se, di nuovo, con l’attuale governo non c’è da sperare molto in questo senso.
Ma indubbiamente la partita più rilevante per il paese si gioca in questo momento sull’Ilva. Le notizie di queste ore parlano di una garanzia da parte del governo verso il sistema bancario perché continui almeno per il momento ad alimentare le casse della società ormai al limite dell’asfissia; di una pratica defenestrazione di Ronchi, sub-commissario per le questioni ambientali, in pratica costretto a dare le dimissioni; del mancato e parallelo rifiuto, almeno per il momento, dello stesso governo ad utilizzare gli 1,8 miliardi di euro, a suo tempo sequestrati dalla magistratura, per il risanamento ambientale e per i nuovi investimenti necessari alla ripresa dell’azienda. Intanto proseguono le trattative, sembra esclusive, con Arcelor Mittal per una cessione della compagnia.
Le notizie che arrivano non sono dunque confortanti. Il governo, con una rappresentante della Confindustria come la Guidi nella sua compagine, cerca di dare il minor fastidio possibile ai capitalisti nostrani, trattando con i guanti gialli la stessa famiglia Riva; intanto esso, apparentemente, si disinteressa del risanamento ambientale, mentre a Taranto si continua a morire e ad ammalarsi e mentre il calo recente delle emissioni nocive sembra dovuto in buona misura alla chiusura, più o meno momentanea, di una parte degli impianti; d’altro canto, si è scelto per l’intervento nel capitale l’interlocutore sbagliato, quella indiana Arcelor Mittal che è già fortemente presente in Europa, dove ha già una capacità produttiva largamente in eccesso. Un suo intervento nel capitale dell’Ilva, motivato quindi semplicemente con il tentativo di impedire l’ingresso nella compagine azionaria dei concorrenti cinesi o coreani, significherebbe probabilmente un taglio abbastanza drastico degli impianti e conseguentemente dell’occupazione. La vicenda continua a svolgersi peraltro con il possibile ed ulteriore intervento della magistratura.
Auspichiamo da tempo che, a difesa degli interessi dei lavoratori e dello stesso sviluppo dell’economia nazionale, che nella nuova compagine azionaria entri, in posizione di rilievo, una qualche entità pubblica, la Cassa Depositi e Prestiti o lo stesso Tesoro. Ma c’è da sperare qualcosa in tale direzione visto l’orientamento fanaticamente liberista dell’attuale governo e avendo la sensazione che ai posti di comando siano presenti molti dilettanti allo sbaraglio?
Il testo integrale della relazione che aprirà l'Assemblea della lista "L'altra Europa con Tsipras, che si tiene il 19 luglio 2014 a Roma. Un'analisi ineccepibile del nuovo quadro politico Un premessa alla formazione delle liste di un' alternativa politica nelle prossime scadenze elettorali. E soprattutto la traccia di un percorso difficile ma indispensabile per uscire dall'abisso
Partiamo di qui, l’unico dato incontestabile: il 25 maggio abbiamo raggiunto la famigerata soglia del 4%. Per 8.333 voti (tre centesimi di punto percentuale) siamo entrati tra le realtà politiche che “esistono”. Sarebbe un grave errore sottovalutare l’importanza di questo dato. Intanto perché nell’universo mediatico e politico (che ormai tendono a coincidere) non c’era quasi nessuno disposto a scommettere nemmeno un centesimo bucato su quella “esistenza”, tanto abituati erano ai nostri naufragi. E poi perché la differenza tra l’esser sopra o sotto quell’asticella (ricordiamolo, incostituzionale), anche di un solo pelo in più o in meno, è enorme. Un fallimento avrebbe significato la liquidazione di ogni possibilità anche solo di immaginare una sinistra alternativa in Italia per lungo tempo. Certo anni. Forse decenni, in un momento in cui l’approfondimento e la cronicizzazione della crisi economica e sociale pongono la questione del destino della democrazia in termini drammatici. L’essere invece tra i “salvati” anziché tra i “sommersi”, se di per sé non ci garantisce con sicurezza, lascia però aperto il discorso sul futuro.
Certo, il nostro 4,03% può apparire poca cosa se confrontato con il peso delle altre sinistre europee a noi simili, quasi tutte comprese nella fascia tra il 10 e il 20 per cento che costituisce oggi il campo di oscillazione delle nostre potenzialità: non parliamo di Syriza, che con il suo 26,6% (1.516.699 voti, in un Paese con una popolazione di quasi sei volte inferiore all’Italia!) ha costituito la vera notizia di queste elezioni, ma di Podemos in Spagna (il cui straordinario 8% si somma al quasi 10% di Izquierda Plural, sfiorando il 18%), del Sinn Féin in Irlanda, con il suo 19,5%, della stessa Linke che sfiora l’8% nelle condizioni proibitive per la sinistra in Germania oggi… Nel valutarlo nella sua giusta misura però non dobbiamo dimenticare lo stato comatoso in cui si trovava la sinistra di alternativa italiana alla vigilia della scadenza elettorale, delegittimata dalle sue sconfitte e dalle sue divisioni. Minacciata e svuotata in larga parte del proprio elettorato da due, simmetriche e devastanti, innovazioni del sistema politico italiano come il “grillismo” (prima) e il “renzismo” (poi), entrambi determinati a impiegare spregiudicatamente, su opposti versanti, l’appello in chiave populista alla “discontinuità” di sistema. Né possiamo trascurare le condizioni, per certi versi improbe, in cui si è dovuta combattere la battaglia elettorale, anomale pur in un quadro europeo plumbeo per l’inedita compattezza con cui il sistema mediatico nel suo complesso (pressoché tutta la stampa di diffusione di massa, l’universo televisivo al completo) ha cancellato ogni forma di vita al di fuori del duopolio personale Renzi-Grillo. E la confraternita dei sondaggisti al gran completo (esclusa la Demos di Ilvo Diamanti) impegnata a sfornare profezie che si auto-adempiono accreditandoci su percentuali ridicole.
Per questo è giusto considerare quel milione centotremila duecentotre voti come un “piccolo miracolo”. Ed è di lì, dalla sua dimensione ma soprattutto dalla sua composizione, che dobbiamo partire per ragionare su come andare avanti. Ma ragionando sul serio. In modo spregiudicato. Cioè sforzandoci di non raccontarcela. Di guardare le cose per come sono e non per come vorremmo che fossero. E allora, diciamocelo subito, quel “piccolo esercito” non è un insieme omogeneo. Non è nemmeno un campione rappresentativo della popolazione. Non è un “esercito popolare”. Il voto ha selezionato un settore molto particolare di elettorato: i “refrattari”, potremmo dire, di un po’ tutte le famiglie politiche dell’articolata sinistra. Gli eretici per vocazione o per convinzione. Quelli che “non ci stanno”.
Intanto è un voto differenziato geograficamente. Non è vero quanto affermato da molti commentatori politici, secondo cui i nostri elettori sarebbero distribuiti omogeneamente sul territorio nazionale. Siamo andati bene al Centro – nell’Italia in fondo socialmente e politicamente più stabile -, dove abbiamo fatto il 4,70, in particolare in Toscana (5,12), nel Lazio (4,78, con Roma provincia al 5,29 e Roma comune al 6,16!); e dove abbiamo preso quasi 270.000 voti (80.000 in più del Nuovo Centro Destra, 150.000 in più della Lega di Salvini in versione populista nazionale), più di un quarto del nostro elettorato. Bene anche al Sud (con 239.000 voti e il 4,15%): la sola altra circoscrizione dove abbiamo superato la soglia, con un risultato eccezionale in Basilicata (5,67%), quasi incredibile in Molise (4,54), onorevole in Calabria (4,21) e in Puglia (4,27), un po’ meno in Campania (3,80, con l’eccezione della provincia di Avellino – 4,80 – dove Franco Arminio ha evidentemente lasciato il segno). In una circoscrizione “difficile”, solitamente considerata esposta al voto di scambio e alla presenza della destra, siamo praticamente alla pari con gli eredi di AN e di soli 40.000 voti sotto il partito di Alfano.
E’ un voto, d’altra parte, prevalentemente urbano. Siamo andati generalmente bene nelle città, in quelle grandi e grandissime: Roma, come si è detto, ma anche a Milano (6,48) e Torino (6,57), mentre nei capoluoghi di Regione ci si è tenuti mediamente intorno al 6% (con i picchi di Firenze 8,91 e Bologna 8,89) e in quelli di provincia difficilmente si è scesi sotto il 4-4,5%. Molto meno, o addirittura male in molti piccoli centri (è significativo che sia a Milano che a Torino si abbia un dislivello di 1,5-2 punti tra il risultato relativo al comune e quello della provincia, che sale a 3 punti per Bologna e Firenze).
E’ un voto “informato”, come si suol dire (e come avrebbe potuto essere diverso?). Concentrato nelle fasce di scolarizzazione alta, tra chi si informa con la carta stampata o con la rete, chi legge fuori dal mainstream, chi discute di politica: secondo l’ Ipsos il 27% dei nostri elettori sono laureati (è la percentuale più alta in assoluto, contro l’11% della media generale, il 14% del PD, l’11% del M5S, l’8% di FI e Lega). Il 38% sono diplomati, e appena l’11% ha solo la licenza elementare o è senza nessun titolo, contro una media generale del 26% (un 23% del PD, un 31% di FI…). D’altra parte abbiamo fatto registrare la percentuale di voti più elevata (il 7,8% - quasi 4 punti percentuali in più rispetto al nostro risultato complessivo) tra “chi si informa prevalentemente con Internet”, e siamo comunque sovrastimati tra chi “si informa prevalentemente sui giornali” (5,2%), mentre crolliamo tra chi “si informa solo con la Tv” (un miserabilissimo 1,6%!).
Siamo anche, potremmo dire, un partito di giovani – anche se non il “partito dei giovani” . Sempre secondo l’indagine Ipsos il 18% dei nostri elettori avrebbe tra i 18 e i 24 anni: è la percentuale più alta in assoluto, contro il 9% del totale generale, l’8% dell’elettorato PD, il 7% di quello leghista. Nemmeno i 5 stelle ci stanno alla pari, all’11%, indietro di 7 punti percentuali. Se si considera anche la fascia d’età successiva si scopre che quasi il 40% dei nostri elettori ha meno di 34 anni, mentre siamo debolissimi nella fascia tra i 35 e i 44 anni (solo l’8% del nostro corpo elettorale sta qui) e tra gli ultra-sessantacinquenni (nonostante l’età avanzata dei “garanti”) dove siamo al penultimo posto (22%), superati verso il basso solo dei 5 Stelle (tra i cui elettori solo il 7% sta in questa fascia d’età mentre, per fare un esempio, nel Pd sono il 30%, in FI il 32, per Alfano il 28…).
Questo dei giovani – e quindi dell’area variegata del “precariato” – è forse l’unico insediamento sociale visibile e corposo a cui possiamo riferirci. Perché per il resto il nostro profilo sociale è molto sfumato, difficile da identificare con precisi “soggetti”. Potremmo dire tipico di un “voto di opinione”, per fastidioso che questo ci possa apparire. La categoria nella quale avremmo raccolto la più alta adesione (per quanto può valere questo tipo di analisi, credibile allo stesso modo dei sondaggi) è quella degli studenti (l’8,2%, esattamente il doppio della percentuale complessiva), seguita a ruota dagli insegnanti/impiegati (5,7%). La più bassa è quella degli operai (sic!), solo al 2,2%. Seguita dalla casalinghe (2,5%) e dai lavoratori autonomi (2,8%). In media invece i disoccupati (4,1%). Forte la presenza tra i “dipendenti pubblici”, tra i quali si calcola che abbiamo raccolto il 7,1% mentre tra i privati ci saremmo fermati al 3,5%.
Più complessa, infine, la composizione per “genere”, perché qui i dati sono tra loro contraddittori. Secondo Ipr, infatti, il nostro sarebbe stato un voto prevalentemente femminile con una percentuale di consenso tra le donne del 5,7%, più che doppia rispetto a quella degli uomini (2,5%); situazione esattamente rovesciata – lo dico per curiosità – rispetto al M5S dove gli uomini sarebbero quasi il doppio delle donne (26,3 contro 15,5%). Secondo l’IPSOS, invece, ci sarebbe un sostanziale equilibrio, con una leggera prevalenza del voto maschile (4,1%) su quello femminile (3,9%). A dimostrazione della precarietà degli strumenti utilizzati dai sondaggisti.
Questo per quanto riguarda la composizione del nostro elettorato. E’ però l’analisi dei flussi (“da dove provengono i nostri elettori”) quella che più ci interessa per tentare di rispondere alle domande che oggi più ci riguardano urgentemente: “chi siamo?” (da dove veniamo, appunto). E soprattutto quella fatidica: “che fare?”. Ne abbiamo un paio, di analisi, fatte immediatamente a ridosso del voto, entrambi da prendere con le pinze per il grado di incertezza di questi strumenti, ma comunque utili per darci un quadro indicativo di massima.
La prima, della SWG, direbbe che circa 440.000 dei nostri elettori provengono dal bacino di chi nelle politiche del 2013 aveva votato Sel; altri 200.000 da quello di Rivoluzione civile (ci starebbero dunque dentro i voti del Prc e di Azione civile) e 230.000 dal Pd (di Bersani); 120.000 provengono dal precedente elettorato 5 Stelle mentre 80.000 li avremmo ricuperati tra gli astenuti (il resto da frammenti di elettorato poco rilevanti).
La seconda, dell’IPSOS, indica in 586.000 i voti provenienti da Sel e da Rivoluzione civile (che qui sono conteggiati insieme), in 248.000 quelli provenienti dal PD, e in 95.000 gli ex voto M5S (il resto diviso tra ex astenuti e piccoli frammenti). In compenso ci dice che del resto di quei quasi due milioni di voti che nel 2013 erano andati a Sel e Rivoluzione civile la parte più grossa è andata al Pd (485.000 voti) e all’astensione (409.000), mentre Grillo se ne sarebbe preso solo una parte minore (150.000).
Che cosa ci dicono questi dati, da assumere – non lo ripeterò mai abbastanza - con beneficio di inventario? In primo luogo una cosa che sappiamo benissimo e che ci siamo ripetuti un’infinità di volte: che il nostro risultato è il prodotto di una molteplicità di tasselli, nessuno dei quali può essere assunto come decisivo, e senza nessuno dei quali avremmo potuto stare sopra la soglia. E che nessuna delle formazioni politiche della tradizionale “sinistra a sinistra del Pd” avrebbe potuto affrontare e sopravvivere da sola alla prova elettorale. Probabilmente di più: che sono tutte, in maggiore o minore misura, in via di logoramento o in preda a emorragie tendenzialmente irreversibili. Le fallimentari esperienze prima della Sinistra arcobaleno, poi di Rivoluzione civile hanno tracciato una linea di non ritorno. Organizzarsi separatamente o praticare frettolose alleanze elettorali di cartello significa votarsi all’irrilevanza elettorale e politica. Può forse illudere della possibilità di mantenersi le mani libere per spregiudicate alleanze, o al contrario permettere forme di purezza testimoniale, ma non porta da nessuna parte. A voler essere più radicali e impertinenti, si potrebbe dire anche che la forma organizzativa plasmata sul modello di partito novecentesco, riprodotta in sedicesimo in una democrazia stravolta dalla logica del maggioritario e ferita (forse a morte) dalla mediatizzazione dello spazio pubblico, è messa brutalmente fuori gioco. Non serve nemmeno più come contenitore dei lasciti ereditari.
Dall’altra parte tuttavia bisogna subito aggiungere – e fa parte dell’ossimoro in cui ci dibattiamo – che senza quei pezzi di organizzazione sopravvissuti a diversi tzunami, non si sarebbe non dico potuto sopravvivere, ma neppure esistere. Difficilmente si sarebbe potuto raccogliere quelle 220.000 firme benedette che ci hanno fatto da trampolino di lancio e la cui raccolta ci ha permesso di prendere contatto con territori da cui eravamo assenti, oltre che di presentare il nostro simbolo fino ad allora del tutto sconosciuto. E ancor più difficilmente, per usare un eufemismo, si sarebbe potuto doppiare il capo di buona speranza del milione e centomila voti, dal momento che almeno la metà di esso arrivava da dentro le mura della vecchia “nuova sinistra” organizzata, e l’altra metà da fuori di quelle mura ma da una terra incognita, la cui dimensione e reale aspettativa ci erano sconosciute.
Ora qualcuno potrà dire – e sicuramente lo dirà, anche qui, nella nostra discussione – che se fossimo stati più fermi sui nostri contenuti e sui nostri simboli tradizionali, le nostre bandiere rosse, la parola “sinistra” nel simbolo, un linguaggio più rude, meno da “salotto intellettuale”, magari un rifiuto esplicito dell’Europa in quanto creatura del capitale – insomma se ci fossimo mostrati “più identitari” avremmo fatto meglio. Magari riportando a casa tutti quelli che l’avevano abitata un tempo e che ora sono sparsi chissà dove. Così come nello stesso modo, e specularmente, altri potranno dire all’opposto che se fossimo stati più radicali nella critica delle forme politiche del passato, dei partiti politici in quanto tali, delle vecchie sinistre, tutte, senza pietà, dei loro leader e delle loro forme di militanza, saremmo decollati, dando voce allo scontento (che, indubbiamente, è enorme), alla domanda di radicalità (che è persino inflazionata, a trecentossessanta gradi), al bisogno spasmodico di discontinuità. L’ha appena detto, nell’editoriale della sua rivista, Paolo Flores d’Arcais, parlando di “una Lista Tsipras che avrebbe potuto partorire un elefante (politico) e che invece – pur di tenere in vita le nomenklature dei partitini – ha prodotto un topolino”. E Paolo è uno dei “padri” della Lista, tra i proponenti dell’Appello iniziale e tra i “garanti” della prima ora.
Sono tutte opinioni rispettabili. Ed è bene che nella discussione di questi giorni vengano espresse, se qualcuno davvero le condivide, perché quello in corso deve essere un confronto franco, senza reticenze o non detti. Val la pena tuttavia, per quanto riguarda la seconda, tener presente la realistica considerazione di chi ritiene che quasi sempre, come la natura, anche la politica “non facit saltus”, soprattutto quando si tratta di fenomeni elettorali. Forse una rivolta di piazza può esplodere senza preavviso, istantaneamente. Ma un’esplosione elettorale dal nulla non si è vista quasi mai. Nemmeno quando è apparsa tale, come nel caso del quasi 26% del M5S nel febbraio scorso, o della comparsa di Forza Italia partito vincente nel 1994. Perché a ben guadare il successo grillino era stato preceduto da più di un quinquennio di lavoro sotto traccia, tramite un sito web che figura da anni al vertice delle graduatorie mondiali per frequenza, nei meet up ramificati sul territorio, in una lunga serie di prove intermedie e di tentativi locali. E l’epifania berlusconiana del ’94 era il prodotto di una macchina da guerra come Publitalia, del lavorio sommerso della mafia, di una potenza economica e finanziaria senza precedenti messa in campo da un padre padrone già potente prima di “scendere in politica”. Il “partito istantaneo” descritto dai politologi in realtà non esiste, presuppone spesso un “decennio di preparazione” magari invisibile e un lavoro magari sommerso ma capillare. Il voto d’opinione non si materializza in milioni senza un sopporto di radicamento e di organizzazione, forse informale, ma non semplicemente spontanea, solo per la “magia di un appello”. D’altra parte Syriza ce lo insegna: non è esplosa nelle attuali dimensione da forza di governo al suo primo apparire. Ha impiegato 7 anni, i primi dei quali stentati, con percentuali elettorali inferiori alla nostra, prima di arrivare dove è arrivata.
Quanto alla prima opinione, di chi vorrebbe coltivare le proprie eredità “dentro le mura” nel timore di, per voler troppo, rischiare di perdere anche il poco che si ha – che non ha trovato finora un’esplicita dichiarazione pubblica, un Flores d’Arcais alla rovescia che la esprimesse platealmente, ma che forse è più condivisa, sotto traccia, di quanto non sembri in particolare tra i quadri di partito-, può sembrare orientata a una realistica prudenza, se ci trovassimo in un quadro di ordinaria stabilità politico-elettorale. Con i pezzi ben definiti, su una scacchiera ben delimitata e ferma. In realtà non è così. Siamo nell’occhio di un ciclone politico che rende instabili e mobili tutte le variabili del gioco, al centro di una rosa dei venti che scompagina e rende fluide tutte le identità e le posizioni facendo prevalere, come d’altra parte in economia e negli assetti sociali, le logiche dinamiche di flusso su quelle radicate di luogo. Rendendo liquida non solo la società, come dice Baumann, ma anche il panorama politico. Sradicando pezzi di elettorato fino a ieri “fidelizzati”, insediamenti politici fino a ieri non intaccati né intaccabili… Basta dare, anche qui, un’occhiata alle analisi dei flussi elettorali del 25 maggio…
Può sembrare che molto sia ritornato al proprio posto, col Pd che espande la propria base elettorale (il proprio zoccolo duro) ridotta da Bersani al 25% nel 2013, conquistando nuovi consensi “renziani” fino al fatidico 40,8%. Che il M5S ridimensioni un po’ il proprio peso rientrando in un più “normale” 21-22% (quello che sarebbe il suo elettorato più congruo). Che Berlusconi paghi l’inevitabile declino biologico e giudiziario, mantenendo comunque per il futuro una capacità di attrazione coalittiva forte (con Lega e NCD potrebbe ritornare verso il 30%). E che per noi rimanga uno spazio residuale di opposizione testimoniale nell’angolo in basso a sinistra del campo. C’è persino chi si è lasciato andare all’affermazione, spericolata, che si sia avviato un processo di ri-normalizzazione in direzione di un nuovo bipolarismo (la solita, sciagurata opzione maggioritaria bipolare che da Veltroni in poi ci ha portati al disastro mentale, oggi innestata sul programma di scasso costituzionale, perché a questo servirebbero le cosiddette “riforme”). Altri hanno parlato, un po’ affrettatamente, del Pd di Renzi come nuova Balena bianca, partito “pigliatutto” del nuovo secolo, paragonabile per stazza e corposità a quella che fu nella prima Repubblica la Democrazia cristiana. Qualcuno si è lasciato andare prevedendo addirittura un nuovo ciclo ventennale di egemonia… Per la verità i numeri ci parlano di un’altra realtà. Suggeriscono che sotto la superficie visibile c’è stato un gran movimento, in tutte le direzioni, con veri e propri esodi biblici di sciami di elettori in transumanza.
Intanto il Pd di Renzi: non si è limitato a espandersi oltre i suoi vecchi confini; ad attrarre nuovi elettori da sommare a quelli di prima. I suoi 11 milioni e 913mila voti (che sono in valori assoluti più di quanto preso da Bersani quando ha perso contro Grillo nel 2013 ma meno di quelli presi da Veltroni nel 2008 quando perse contro Berlusconi) sono il prodotto di entrate e di uscite complesse. Di un gran via vai attraverso un’infinità di porte girevoli. Per esempio della fuoriuscita di altri 2 milioni di elettori, un po’ verso di noi, come si è visto, un po’ verso Grillo, ma con il grosso, 1.700.000, verso l’astensione. E dell’ingresso di più di 5 milioni dai quattro angoli del mondo (politico): da Scelta civica e dall’Udc in primo luogo, da cui provengono quasi un milione e 200mila voti e che sono stati letteralmente cancellati dal quadro con una vera e propria annessione. Quasi 900mila dal M5S (che potrebbero essere considerati elettori piddini in libera uscita nel ’13 e ora ritornati a casa, ma non ne sarei del tutto sicuro, nel quadro mobile attuale potrebbero essere anche ex berlusconiani convertiti provvisoriamente al grillismo e poi sedotti dal più simpatico Renzi). D’altra parte più o meno un altro mezzo milione di neoconvertiti al renzismo provengono direttamente da Forza Italia. E addirittura 2 milioni ritornano dall’astensione dove si erano rifugiati alle politiche.
Nonostante questo ritorno, comunque, l’esercito dell’astensione è ulteriormente cresciuto rispetto al livello, già considerato record, delle politiche ed anche rispetto alle europee del 2009: ha superato la soglia impressionante dei 20 milioni (sono 20.348.000 per la precisione, quasi il doppio del trionfante PD, a una dimensione ormai molto vicina alla metà dell’intero corpo elettorale: il vero “partito della nazione”). Rispetto alle politiche, quando gli astenuti furono 12.899.000, si contano dunque 10.400.000 nuovi fuoriusciti, solo parzialmente compensati dai quasi 3 milioni di ritornanti. Più di dieci milioni di elettori che hanno deciso di “uscire”, perché evidentemente non si sentono rappresentati da nessuno! Provengono un po’ da tutti, dal M5S massicciamente (2.550.000), dal PD come si è visto, da Scelta civica e dall’UDC (tanti viste le loro piccole dimensione: 1.270.000), da Rivoluzione civile (357.000), da Sel (225.000), dalle diverse destre più o meno radicali (Fratelli d’Italia, Destra-Mpa: 350.000), dalla Lega (129.000)… Ma soprattutto provengono dal defunto Pdl, che ha perso verso l’astensione quasi 3 milioni di elettori nell’ultimo anno (2.700.000) dopo che già alle politiche aveva subito un salasso spaventoso: il 24 e 25 febbraio del 2013 Berlusconi aveva preso infatti 7.332.134 voti, 6.297.330 in meno rispetto al 2008 (13.629.464). Ora Forza Italia si è ridotta a 4.605.331, meno della metà di quello che aveva preso alle europee del 2009 (10.767.965), meno di un terzo rispetto ai tempi d’oro prima dell’inizio della crisi e prima di Ruby…
Per questo non si può ragionare sul quadro politico con i parametri di prima. Non solo con quelli dell’altro ieri, ma con quelli di ieri. Non solo con quelli del Novecento, ma neppure con quelli del 2013. Perché ci troviamo in un panorama politico che definire “allo stato liquido” è dir poco. Dovremmo dire “allo stato gassoso”.
Il che ci conduce al secondo nodo che dovremo incominciare ad affrontare ora. E cioè alla questione del rapporto tra l’esperienza della lista L’Altra Europa con Tsipras e il suo prolungamento futuro, con la stessa ambizione di lavorare a un processo di costruzione di una soggettività politica nuova, nazionale questa volta anche se concepita come parte integrante di un progetto europeo.
Lo dico subito: credo che sarebbe un grosso sbaglio pensare che questo percorso possa essere una semplice continuazione di quello già fatto. Una proiezione sul piano nazionale dell’esperienza elettorale europea. Sbaglieremmo se non considerassimo la discontinuità che c’è tra quel modello di iniziativa, di organizzazione (se così si può dire), di pratica e di progetto, e quello che ci attende nei prossimi mesi. Così come sbaglieremmo se considerassimo quel 1.103.203 di elettori una “proprietà” acquisita, un “patrimonio” stabile: dire che è da quello che bisogna partire non significa non pensare che, così come si è materializzato dietro quel simbolo nuovo, alla stessa velocità non possa anche disperdersi, se non manterremo fede alla responsabilità che ci siamo assunti quando li abbiamo chiamati a raccolta. Tanto più che il percorso che abbiamo di fronte non sarà simile a quello che abbiamo appena percorso. Per varie ragioni.
Intanto perché l’”avventura” della lista Tsipras è iniziata sotto il segno di una emergenza e di una circostanza d’eccezione (potremmo dire nel quadro di uno “stato d’eccezione”): nell’imminenza di una campagna elettorale anomala com’è in generale quella delle europee, nella quale c’era, quest’anno, il concreto rischio (il paradosso ha detto ieri Alexis) che, unica in Europa, la sinistra italiana non avesse neppure un rappresentante. E in cui, d’altra parte, c’era l’occasione (insperata, da non lasciarsi sfuggire!) di un leader vincente della sinistra di un Paese esemplare come la Grecia che poneva la propria candidatura alla guida della Commissione e svolgeva, per così dire, un ruolo di supplenza ai tanti deficit locali oltre ad offrire la possibilità di ridare un senso al termine rappresentanza. Si spiegano così, con quello “stato d’eccezione”, le tante anomalie che hanno caratterizzato la “Lista Tsipras”. A cominciare dall’anomalia della nascita: non è quasi mai accaduto che una lista elettorale sia nata da un appello. Non dalla negoziazione tra soggetti politici, non da accordi tra gruppi dirigenti o da decisioni di organismi, ma da un’aggregazione di qualche decina di migliaia di persone intorno a un testo, a cui è seguita poi la convergenza di forze via via più ampia.
Proprio per l’importanza di quella condizione da “stato d’eccezione” tenderei a paragonare i due mesi di battaglia elettorale al “comunismo di guerra”, nel quale appunto si dovevano per necessità praticare e accettare forme che in condizioni normali non sarebbero praticabili, a cominciare dal tipo di “governance” (senza dubbio oligarchica, affidata com’era alla verticalità dell’organismo dei “garanti”), e dallo spazio limitato per la discussione collettiva (affidata all’eterogeneità delle forme di aggregazione locale, al funzionamento a macchia di leopardo dei Comitati), oltre alla formazione in qualche misura “per cooptazione” del Gruppo operativo, rappresentativo più per delega fiduciaria che per effettiva elettività. Tutte condizioni che, fuori dalla situazione “d’eccezione” (finita appunto “la guerra”) non si possono più riproporre tali e quali, e richiedono meccanismi di realizzazione della condivisione stabili.
La seconda ragione di discontinuità riguarda il quadro politico. Lo stesso esito della tornata elettorale europea ha infatti prodotto una “frattura di teatro” – come si direbbe in gergo bellico -; una modificazione strutturale dell’ambiente stesso nel quale si svolge la lotta politica, che non è più paragonabile a quello nel quale la campagna elettorale era iniziata, e un mutamento genetico dei suoi protagonisti principali. Ci illuderemmo se pensassimo di applicare alla situazione attuale gli stessi codici con cui ragionavamo prima, e le stesse “forme” della politica: centrodestra, centrosinistra, maggioranza, opposizione, alleanze, il Partito democratico come possibile avversario o interlocutore, le sue componenti interne, più o meno orientate a destra o a sinistra… Stiamoci attenti a questo cambio di scenario, perché corriamo il rischio concreto che la discussione che si sta avviando sulle prossime elezioni regionali, sul rapporto con il PD, sulle alleanza, ripercorra vecchi schemi, da una parte o dall'altra, riducendo i termini della questione a un si o un no sulla base di presupposti a priori senza cogliere il disordine nuovo del contesto tutt'intero e la dinamicità vertiginosa dei tempi politici.
Il renzismo – come già in buona parte a suo tempo il grillismo – ha modificato la logica (e la geografia) profonda del sistema politico italiano, con un potenziale distruttivo estremo. Per la verità aveva incominciato già prima, il proprio sistematico lavoro di decostruzione, fin dalla conquista, dopo breve assedio da fuori delle mura, del vertice del Pd con l’arma non convenzionale delle primarie, e poi dalla successiva occupazione mediante una classica congiura di palazzo del governo. Ma il 40,8% delle europee ha sanzionato con l’unico segno ormai riconoscibile nella logorata antropologia politico-istituzionale - il successo - quel “cambiamento di verso” che è un vero e proprio mutamento di natura del nostro estenuato sistema politico. Che da pluralistico e collegiale si è trasformato in sistema tendenzialmente e potenzialmente monocratico, in cui la tirannia dell’urgenza travolge qualunque progettualità non allineata, qualunque alterità non subalterna, e la retorica dell’ultima spiaggia impone senza residui la logica dell’uomo solo al comando.
Con Renzi – e col patto del Nazzareno, che costituisce l’anima subliminare della sua visione politica – è cancellata (non a parole, ma nella pratica) ogni distinzione tra destra e sinistra, così come ogni sia pur umbratile riflesso etico nella politica, per affermare l’assoluta sovranità della pratica del potere in quanto tale. Funzione salvifica a prescindere, energia virtuale di cui non importa il contenuto né il fine, ma la pura rappresentazione di sé. L’esserci, e il vincere. E’, con un abile gioco di prestigio, la drammaticità della crisi che viviamo trasformata, con un colpo di bacchetta magica, in instrumentum regni. In mezzo (potentissimo) di potere e della sua legittimazione extra-democratica. Che cancella, non tanto e non solo come progetto, ma con il suo solo apparire, l’essenza stessa del parlamentarismo, della democrazia parlamentare e rappresentativa basata al contrario sul confronto tra opzioni diverse e sulla deliberazione. E che ci sbalza, di colpo, in una terra sconosciuta dove nessuna delle vecchie tavole vale più. L’unanimismo con cui l’intero sistema mediatico ne canta il Te Deum e ne tesse le lodi, indifferente all’immagine di servilismo che offre, è indicativo di questo “mutamento di stato” (nemmeno con Berlusconi si era arrivati a un tale conformismo servile). C’è davvero qualcosa di mefistofelico in questa determinazione, in sé profondamente nichilistica, di mettere al lavoro, sistematicamente, tutte le linee di crisi che ci stanno affliggendo per alimentare il proprio personale ruolo di comando, rovesciandone in qualche modo le polarità: l’apparente irrisolvibilità della crisi economica per giustificare la delega al buio alla sua mal assortita squadra di yes men; lo sfacelo della società e del mondo del lavoro per farne la platea privilegiata delle proprie elargizioni liberali; l’impresentabilità della fauna parlamentare selezionatasi in questi anni (della “casta”) per accreditare il suo progetto (intrinsecamente populista) di delegittimazione e di liquidazione delle istituzioni rappresentative. Renzi non è uno dei tanti capi di governo che si sono cimentati nella missione impossibile di mettere una toppa o di rallentare i numerosi processi di crisi che ci assediano: impresa che avrebbe richiesto un salto di scala nella capacità di progettazione e di pensiero, oltre che una esplicita rottura con le dogmatiche dominanti. E’ invece il primo ad aver deciso, cinicamente e spregiudicatamente, di quotarli – quei processi di crisi - alla propria borsa. Di metterli al lavoro tutti, a proprio vantaggio, compresa la crisi del proprio partito. Anzi, a cominciare dalla crisi del proprio partito.
Non se ne sono accorti, e hanno creduto che quel 40,8% del 25 maggio fosse anche una vittoria loro, del loro partito, del Partito democratico, ma in realtà quella è stata una vittoria di Matteo Renzi più che del suo partito. Anzi, per molti aspetti, una vittoria di Renzi contro il suo partito. E’ stato incoronato, con quel suffragio trasversale, più in quanto rottamatore del Pd che non come suo leader e rappresentate. Come liquidatore di quel ceto politico assemblato, con gli strumenti del Porcellum, da Bersani, e rivelatosi nella sua miseria prima in occasione dell’elezione del Presidente della Repubblica, poi nelle pieghe del passaggio da Bersani a Letta, infine datosi senza nemmeno trattare sul prezzo, alla velocità della luce, al nuovo conquistatore. Buona parte del successo elettorale alle europee Renzi lo deve proprio all’ostilità ostentata per mesi nei confronti non solo del gruppo dirigente, ma anche del corpo militante del Pd. E fa di tutto per dimostrare di meritare quella simpatia liquidandolo giorno dopo giorno in quanto “partito”, da buon populista quale è (se per “populista” si intende chi tende a saltare ogni mediazione tra leader e “popolo” eliminando tutti i corpi intermedi e i diversi livelli di rappresentanza sia politica che sociale). In questo senso Renzi non costituisce l’inversione di tendenza nella crisi storica del Partito democratico (iniziata praticamente dalla sua nascita, col fallimento di Veltroni), ma ne rappresenta il compimento. L’estremo punto di arrivo. In un certo senso la fase terminale. A ben guardare, infatti, il Pd renziano non è più un partito. Non dico un “partito” nel senso novecentesco del termine: quello aveva già cessato di esserlo da tempo, per lo meno da quando, tra gli anni Novanta e il primo decennio del nuovo secolo, si era consumato il passaggio tra la “democrazia dei partiti” e quella che Bernard Manin chiama la “democrazia del pubblico”: un modello di democrazia rappresentativa in cui l’elettorato cessava di essere un partecipante e si trasformava in spettatore, mentre la rappresentanza sfumava in rappresentazione, e gli attori politici si affidavano sempre più al marketing per attrarre il voto di quel pubblico volubile e distratto. Ma il Pd cessa oggi di essere “partito” anche nella sua versione post-novecentesca, quando pure la personalizzazione aveva fatto strada, e il partito politico si specializzava sempre più come “macchina” finalizzata a scegliere il leader e a sostenerne l’azione, un po’ come la compagnia teatrale supporta il proprio capocomico.
Il partito renziano va oltre quel modello. Si direbbe che incarni in senso proprio quella che Ilvo Diamanti indica come la fase immediatamente successiva all’esaurimento della stessa “democrazia del pubblico”, caratterizzata da “partiti senza società” e da “leader senza partiti”, in cui “il legame [che pur era sopravvissuto prima] tra leader, partiti e società si è consumato” sotto la pressione di una sfiducia pervasiva e dissolvente di tutte le forme collettive, e sopravvive appunto solo il modello dell’”uomo solo al comando”, connesso al proprio “pubblico” esclusivamente attraverso il filo potente ma fragile della comunicazione in tutte le sue fantasmagoriche forme. Impegnato non più a tentare di produrre un fiducia sempre più impossibile, ma piuttosto determinato a “lavorare” sulla sfiducia dilagante piegandola a proprio favore, impiegandola come arma contro amici e concorrenti. Per questa via il partito si viene trasformando da supporto che era, in estroflessione del capo (quando ne segue docilmente la volontà) o, alla peggio, in zavorra. Da strigliare o mollare, a seconda dei casi. Comunque da guidare dall’esterno e dall’alto (dal Governo, appunto). E destinato a dissolversi nell’aria nel caso in cui il Capo dovesse fallire (è questa in fondo la ragione per cui seguaci e avversari interni finiranno, volenti o nolenti, per sostenerlo all’estremo, nella consapevolezza che “dopo di lui il diluvio”).
Siamo ormai direttamente, bisogna ammetterlo, in una “democrazia ibrida” come la chiama Diamanti, o in una “post-democrazia” come sempre più sussurrano i politologi. Comunque fuori dal quadro di una normale democrazia rappresentativa. E lo dico non certo per essere disfattista, o per sostenere che ormai tutto è perduto e che sarebbero inutili le battaglie di difesa della democrazia e della rappresentanza che si stanno combattendo o preparando. Al contrario. Per sottolineare la maggiore responsabilità che ci incombe. E la necessità, appunto, di rendere più forte e più ampia la nostra azione. Più al livello delle sfide che ci toccheranno nei prossimi mesi.
Ma proprio per questo, perché stiamo dentro a una mutazione genetica radicale del nostro contesto politico e sociale, e perché per uscirne in avanti sono indispensabili una credibilità e un radicamento enormemente più ampi di quanto abbiamo raccolto finora, è necessaria una nuova verifica delle ragioni che ci tengono insieme. E un processo di innovazione delle nostre categorie di analisi, della nostra lettura delle trasformazioni sociali, e della nostra concezione dell’organizzazione e della soggettività politica, radicale. Senza trascurare quelli che sono stati i nostri punti di forza nella campagna elettorale, le “virtù” che ci hanno permesso di restare sopra il pelo dell’acqua: il traino europeo, in primo luogo – perché senza uno scardinamento delle politiche europee attuali, senza far saltare la cerniera neoliberista che domina a Bruxelles e a Francoforte, non solo non c’è salvezza qui, ma neanche politica; i dieci punti del nostro programma elettorale, che sono e restano quanto mai attuali come programma d’azione nel corso del semestre italiano, in primo luogo, e oltre, come cemento per una sempre più stretta rete di relazioni continentali; il riferimento a una figura potentemente unificante come Alexis Tsipras; la natura polifonica della Lista, intreccio di identità e ambienti differenti, capace di intrecciare la dimensione dell’iniziativa “di cittadinanza” con quella “d’organizzazione”, nuovi protagonismi e consolidate militanze, non in un assemblaggio estrinseco per giustapposizione ma in un rapporto di contaminazione reciproca e di pedagogia della cooperazione… Sapendo, tuttavia, che bisogna andare molto al di là: nel radicamento sociale, in primo luogo. Nella ricerca di un “nostro popolo”, che finora ci è mancato e che si conquista solo frequentandolo. Standogli dentro, e insieme. Facendoci “vedere” (dal 25 maggio siamo scomparsi da quasi tutti i luoghi che avevamo frequentato). Ma anche nell’interlocuzione politica, che dovrà essere ad ampio raggio, attraversare molte delle culture politiche che hanno caratterizzato la vita civile di ieri e che stentano oggi a riposizionarsi o riconfigurarsi, non per stemperare i nostri contenuti – inevitabilmente radicali – o per aprire il serraglio degli incroci ibridi, ma per guardare finalmente fuori dagli steccati, e allargare l’orizzonte del nostro pubblico potenziale. Nello spazio esploso della “post-democrazia”, non ci sono più “soggetti politici” con cui intavolare trattative, gruppi o correnti da selezionare come alleati o concorrenti. Il “Partito unico della Nazione” se avrà successo (e per un po’ lo avrà) emulsiona tutto come una gigantesca turbina, fagocita le forze marginali, scioglie le aggregazioni interne, cancella l’eterogeneità politica nel vettore verticale della decisione dall’alto. E quando collasserà non lascerà molto di strutturato dietro di sé. Ma in quello spazio non possiamo pensare di essere i soli ad muoverci in direzione ostinata e contraria. Ci saranno frammenti di rappresentanza politica in sofferenza, e anche di rappresentanza sociale alla deriva. Settori che si staccheranno dal corpo dell’iceberg e cercheranno connessioni. Movimenti bisognosi di sponde politiche su cui non appoggiarsi ma con cui interloquire. Dovremo proporci come catalizzatori, se vogliamo davvero seguire le tracce di Syriza, che ha sempre operato come fattore aggregante, mai escludente, senza presunzione né primogeniture. Dovremo imparare a parlare con tanti, senza negarci pregiudizialmente ma anche senza concederci opportunisticamente a nessuno.
Abbiamo bisogno di “manifestare” – di prendere l’iniziativa e la piazza, contro la rassegnazione e l’isolamento -, ma anche, e tanto, di pensare. Di mobilitare quel potenziale culturale che ha fatto la differenza nella campagna elettorale, e che non deve restare nel ruolo passivo del testimonial. Che è indispensabile per “cercare ancora”. E questo dovremo fare, testardamente: Cercare ancora. Perché quello che abbiamo, e sappiamo, non basta. Ci vuole di più: in termini di idee, di comprensione di quanto ci accade sotto gli occhi, e un po’ ci sconvolge un po’ non lo vediamo nemmeno, di lettura delle trasformazioni antropologiche che maturano sempre più rapide dentro il tritacarne della crisi: come si viene configurando il rapporto tra le generazioni? Tra i generi? Tra le aree geografiche? Tra lavoro e ambiente? Tra compagni? Dobbiamo inventare una modalità di decisione collettiva che non ci schiacci nella routine burocratica o all'opposto nella conflittualità permanente, che sappia tenere insieme le differenze in un rispetto che non sia indifferenza, che riesca a produrre una capacità di parola collettiva in tempi di individualismo devastante. Vi pare poco?
Ce n’è abbastanza per lasciare da parte i dettagli, su cui spesso ci dividiamo, e concentrarci sulle cose importanti, su cui è indispensabile che ci uniamo.
Marco Revelli, 18 luglio 2014
«Il dibattito sulla “riforma” si è caratterizzato dal silenzio sulle proposte alternative. Ma ora che siamo al momento dell’aula, le carte sono tutte sul tavolo: e grazie alla pubblicazione del testo integrale della proposta di Gustavo Zagrebelsky inviata al ministro Boschi, nessuno può più accusare il pensiero critico di non essere anche propositivo».
Il Fatto Quotidiano, 18 luglio 2014
Nulla di tutto questo è stato offerto agli italiani come materia programmatica su cui esprimere un voto in una elezione politica. Ma proprio questo non conta nella visione del premier, poco disposto ad ascoltare obiezioni e preoccupazioni. Come un ragazzo a cui si chiede di rinunciare a un giocattolo a cui è molto affezionato. Pazienza se “dopo” la democrazia sarà ancora più fragile di quanto lo sia già oggi: Renzi dice che è una grande “occasione” e che il Paese (quale Paese?) non può permettersi il lusso di perderla.
Il dibattito sulla “riforma” si è caratterizzato dal silenzio sulle proposte alternative, rotto soltanto da gesti estremi di oppositori, comunque derisi e alla fine messi a tacere con censura e violenti interventi di sostituzioni al momento del voto in commissione. Ma ora che siamo al momento dell’aula, le carte sono tutte sul tavolo: e grazie alla pubblicazione su Il Fatto del testo integrale della proposta di Gustavo Zagrebelsky inviata al ministro Boschi, nessuno può più accusare il pensiero critico di non essere anche propositivo. Oggi sappiamo che le proposte sono almeno due e anche se una appare già al traguardo sarà il traguardo della Storia che giudicherà il valore dell’una e la saggia lungimiranza dell’altra.
La riscrittura della seconda parte della Costituzione riduce a poco più di passacarte l’assemblea di Palazzo Madama e assegna alla Camera dei deputati nominati e scelti dai capi partito il ruolo di ancelle del governo. Così mortificare un ramo del Parlamento non esalta l’altro ramo, ma il tutto si conclude con una generale mortificazione e perdita di dignità di deputati e senatori. Assieme ad essi mortificati sono tutti i cittadini italiani a cui viene sottratto il potere di eleggere i propri rappresentanti, incidendo contemporaneamente sulla legge elettorale e sulla Costituzione. Due progetti, due visioni, due mondi.
La costituzione di Renzi, no: è prendere o lasciare, mangiare la minestra o saltare dalla finestra. È o così o si scioglie il Parlamento. Dice Renzi che questa è la grande “occasione”. In sostanza oggi c’è una situazione generale che consente di fare quello che ieri non fu possibile: manomettere la carta fondamentale dei diritti e dei doveri, la Carta dello Stato italiano. L’unica occasione a cui viene di pensare è la disperazione generata dalla grande crisi: e come ci hanno sempre ricordato gli storici è in tempi come questi che i popoli accettano cose che in altre condizioni mai avrebbero accettato. Dunque, la chiusura di mezzo Parlamento italiano avviene anche perché gli italiani sono “distratti” dalla difficoltà di sopravvivere. Una grande “occasione” davvero, un’occasione da non perdere.
Come riuscire a distruggere, frettolosamente e rozzamente, i principi della democrazia borghese del XIX secolo e quella popolare del XX. Un'analisi chiara e sintetica del pasticcio renzusconiano.
Il manifesto, 17 luglio 2014Una valanga di 7000 emendamenti può sembrare un ostacolo insormontabile per la riforma Renzi-Boschi. Ma è un’illusione. Regolamento e prassi conoscono raffinate tecniche anti-ostruzionistiche. Per le regole in atto, un ostruzionismo di minoranza che blocchi l’assemblea non è possibile. Siamo di fronte a qualche giorno di lavoro parlamentare, niente che non si possa gestire accorciando (di poco) le vacanze. A meno che la maggioranza riformatrice non si dissolva. Per questo è decisiva la tenuta del patto Renzi-Berlusconi, difeso dai due stipulanti a spada tratta, accada quel che accada.
In qualche misura l’esito rimane incerto, essendo stata pura rappresentazione teatrale la soporifera assemblea di Renzi con i parlamentari Pd, e rimanendo alta la febbre in Fi. C’è da sperare che la migliore politica ritrovi fiato e iniziativa. Perché il testo approvato in commissione prefigura un’architettura istituzionale distorta e priva di equilibrio. Si è parlato di blando autoritarismo, si è richiamato il progetto Gelli-P2. Di certo, si può temere una riduzione degli spazi di democrazia.
Come? Vediamo alcuni punti salienti. Azzeramento della rappresentatività e del peso politico-istituzionale del senato con il carattere non elettivo e il taglio dei poteri; riduzione della camera a obbediente braccio armato del governo attraverso una legge elettorale che riduce la rappresentatività, taglia le voci in dissenso, crea una artificiale maggioranza numerica, garantisce la fedeltà al capo attraverso le liste bloccate; potere di ghigliottina permanente del governo, che può strozzare a suo piacimento il dibattito imponendo il voto a data certa su un testo proposto o comunque accettato dal governo; innalzamento del numero di firme richiesto per l’iniziativa legislativa popolare a 250.000 (ora 50.000); innalzamento delle firme richieste per il referendum abrogativo a 800.000 (ora 500.000).
Un colpo grave ed evidente alla rappresentanza politica da un lato, alla partecipazione dall’altro. Sono poco più che una foglia di fico le disposizioni che rinviano ai regolamenti parlamentari la garanzia dell’iniziativa legislativa popolare, o riducono in qualche misura il requisito del quorum strutturale per il referendum. Assai più contano altri effetti, magari indotti e non immediatamente visibili, delle modifiche proposte. Ad esempio, il Capo dello Stato viene eletto da deputati e senatori. Ma la riduzione drastica del numero dei senatori, rimanendo immutato quello dei deputati, lascia in sostanza la elezione del capo dello stato nelle mani della sola camera, consegnata alla maggioranza di governo dalla legge elettorale, con l’aggiunta di una manciata di sindaci e consiglieri regionali amici. Basterà aspettare il nono scrutinio per avere un capo dello stato di maggioranza, rimanendo mero flatus vocis che sia rappresentante dell’unità nazionale, e garante della costituzione. E non dimentichiamo che il capo dello stato presiede il Csm, organo di autogoverno della magistratura. E che per gli stessi componenti elettivi del Csm vale il discorso appena fatto. Mentre i tre membri della Corte Costituzionale eletti dalla camera sono rimessi alla scelta della maggioranza garantita dal premio, con qualche sostegno sottobanco che non si nega a nessuno. Per non dire della revisione della Costituzione ancora rimessa alla maggioranza di governo della camera, e agli equilibri politici del tutto occasionali e imprevedibili del senato. In quali mani finiranno diritti e libertà? La Costituzione come statuto di una maggioranza?
Una struttura priva di equilibrio. Dove sono i checks and balances? Invece, molto altro si poteva fare. Come ad esempio l’impugnativa ex ante davanti alla Corte Costituzionale di leggi non limitata alla legge elettorale, da parte di una minoranza parlamentare (come in Francia); o il ricorso diretto del cittadino alla stessa Corte in materia di diritti e libertà (Germania e altri paesi); o il referendum popolare approvativo automatico in caso che l’iniziativa legislativa popolare venga disattesa dal legislatore (Svizzera); o l’anticipo del giudizio di ammissibilità della Corte sul referendum in base all’avvenuta raccolta di un numero inferiore di firme rispetto al totale di quelle richieste (ad esempio, centomila), in modo da consentire ai promotori di raccogliere le restanti firme a quesiti ammessi.
Né va dimenticato il contesto più generale, e l’indebolimento di partiti politici, sindacati, associazioni. Si pensi alla cancellazione del finanziamento pubblico, alla diatriba sui contratti nazionali di lavoro, al rifiuto di concertazione. La stessa ascesa di Renzi è stata la negazione della funzione tipica e propria di un partito politico. In sostanza, nelle primarie Renzi ha usato il voto dei non iscritti contro il voto degli iscritti, per conquistare il partito degli iscritti.
Un tempo, se qualcuno voleva metter mano alla costituzione si parlava di ingegneria istituzionale. Ma almeno si presupponeva una laurea. Capiamo bene che oggi è chiedere troppo. Ma almeno dateci un geometra o un capomastro.
Marx, Il comunismo e la lotta di classe raccontati da Gérard Thomas. «I bambini capitalisti quando nascono sono dei bambini uguali a tutti gli altri. Non sono ancora dei bambini capitalisti».
Il manifesto, 15 luglio 2014
«I bambini capitalisti quando nascono sono dei bambini uguali a tutti gli altri. Non sono ancora dei bambini capitalisti. E non lo sono nemmeno nei primissimi anni della loro vita. Poi a un certo punto succede qualcosa nella loro testa e invece di continuare ad essere bambini uguali a tutti gli altri diventano dei bambini capitalisti».
Apprezzato in patria, Thomas ha anche ricevuto delle critiche. L’accusa più pesante è stata voler omettere gli orrori e gli eccessi che il socialismo reale ha prodotto in alcuni casi della sua storia. Tesi curiosa, perché l’autore non rinuncia mai a biasimare i crimini commessi da Pol Pot in Cambogia, o l’accentramento burocratico e autoritario avvenuto in differenti periodi della storia sovietica. Ciò che non gli si perdona, presumibilmente, è l’aver tracciato con estrema correttezza e onestà la linea divisoria tra responsabilità individuali e teoria politica, fra aspirazione alla giustizia e sua realizzazione terrena. È in questa distinzione che si coglie la forza persuasiva del libro, e si arriva alla risposta del quesito iniziale.
Sbilanciamo l'Europa . Il trentennio neoliberista ha divorato la democrazia liberale, facendo carta straccia dei diritti sociali, lasciando spadroneggiare la finanza e riducendo i poteri degli Stati. La questione democratica si ripropone con la partecipazione e la resistenza contro l'assolutismo dei privilegi.
Sbilanciamoci.info, 17 luglio 2014
Di recente, il sociologo tedesco Wolfgang Streeck ha argomentato che la fine del capitalismo può venire dalla debolezza, piuttosto che dalla forza, dell’opposizione anti-neoliberista.Lasciato a se stesso, senza limiti, l’ingordigia del capitalismo porterebbe infatti alla distruzione (al momento in stadio avanzato) di quelle risorse umane a materiali di cui esso stesso ha bisogno per sopravvivere. Un argomento simile si potrebbe articolare anche rispetto alla Unione Europea.
All’indomani di elezioni che, per (mancanza di) partecipazione ed esiti hanno mostrato tutta la insofferenza dei cittadini europei rispetto a questa Europa, il Partito Popolare Europeo (principale perdente in termini di elettori in uscita) e, quel che è peggio, un Partito Socialista Europeo che non è riuscito a presentarsi come alternativa, procedono come se nulla fosse stato: con il sostegno bi-partisan al Popolare Jean-Claude Juncker—Mister Crisi, nonché Mister Austerità—alla presidenza della Commissione Europea e l’elezione (con accordo di rotazione Pse-Ppe di Martin Schultz, Socialista criticato persino in patria per un peregrino poster elettorale dove si leggeva «solo se voti per Martin Schultz e l’Spd può un tedesco diventare presidente della Commissione Europea».
In più, esponenti di entrambi i partiti vantano la salda maggioranza europeista nel parlamento europeo—rimuovendo la presenza, in quella presunta maggioranza, di presenze imbarazzanti e ben poco europeiste, da Forza Italia di Silvio Berlusconi al Fidesz di Victor Orban. Ppe, Pse e chi con loro sembrano avere fretta di dimenticare che, secondo i sondaggi dell’Eurobarometro, la percentuale dei cittadini che ha fiducia nella Ue è scesa dal 57% nel 2007 al 31% nel 2013.
La percentuale di cittadini che ha una immagine positiva dell’Europa è scesa nello stesso periodo dal 52 al 31% e quella di coloro che sono ottimisti rispetto ai futuri sviluppi della Ue è crollata dai due terzi alla metà della popolazione. E che, se questi sono i valori medi, la situazione è di gran lunga più drammatica nei paesi più colpiti dalla crisi. Questi dati riflettono una profonda crisi di responsabilità della versione politica del neoliberismo, nella quale la Ue è considerata principale promotrice. NeL 1970, Habermas aveva collegato la crisi economica ad una crisi di legittimità, prodotta dalla incapacità dello stato di risolvere i problemi del mercato. Se Habermas si riferiva allo stato interventista della versione fordista, nel capitalismo oggi l’effetto di delegittimazione delle istituzioni politiche viene da una crisi di responsabilità legata alla rinuncia delle istituzioni politiche di garantire fondamentali diritti di cittadinanza. In estrema sintesi, mentre negli anni ’80 gli Stati furono accusati di spendere troppo e si allontanarono dalle politiche economiche keynesiane di pieno impiego, il post-fordismo ha portato a una riduzione del welfare e a un aumento delle disuguaglianze sociali.
Deregolamentazioni, privatizzazioni hanno rappresentato i principali indirizzi di policy giustificati dal bisogno di ristabilire l’efficienza del mercato. Tali interventi non hanno aiutato a migliorare la concorrenza, ma piuttosto incentivato la concentrazione del potere nelle mani di poche multinazionali, con una conseguente crisi economica che affonda le sue radici non nella scarsità o nell’inflazione, ma piuttosto in un processo di mancata redistribuzione. Dal 2008, il debito pubblico è aumentato, non a causa di investimenti in servizi sociali o a supporto di gruppi sociali vulnerabili, ma piuttosto a causa di ingenti iniezioni di denaro pubblico a favore di banche e istituzioni finanziarie in dissesto finanziario che avevano operato drastici tagli sulle tassazione dei capitali. Questo sviluppo nelle interazioni fra stato e mercato si è trasformato in corruzione della democrazia rappresentativa attraverso la sovrapposizione fra potere economico e politico. Dal punto di vista del sistema politico, questo comporta una rinuncia di responsabilità da parte delle istituzioni rappresentative di fronte alle istanze dei cittadini.
Contro le promesse neoliberiste di difesa del mercato dallo stato, studiosi di varie discipline focalizzano l’attenzione su due elementi. Da un lato, la separazione fra economia e politica è presente raramente, i governi devono infatti rimediare la presenza di fallimenti del mercato, e i mercati hanno bisogno di leggi. Dall’altro, la capacità degli stati di garantire i diritti dei cittadini è drasticamente ridimensionata dalle politiche di privatizzazione, liberalizzazione, e deregolamentazione che hanno permesso la concentrazione del capitale attraverso legislazioni favorevoli. Gli stati sono accusati di abrogare i diritti sociali al fine di aumentare i profitti e le rendite di pochi privilegiati, poiché infatti il neoliberismo implica l’abolizione di molte leggi e regolamentazioni orientate al controllo dell’economia. Inoltre, il neoliberismo si è fondato – e, come Colin Crouch ha sottolineato, è stranamente sopravvissuto alla sua stessa crisi– soprattutto attraverso il trasferimento di un’ampia quantità di denaro dalle multinazionali ai politici. Liberalizzazioni, deregolamentazioni e privatizzazioni hanno infatti portato a corruzione e lobby selvagge, anche a livello europeo. Allo stesso tempo così come le multinazionali comprano le decisioni politiche, emerge il tentativo di presentare queste stesse decisioni come «apolitiche», con l’obiettivo di legittimarne il risultato come un benigno intervento di regolamentazione che l’UE ha cercato di raggiungere.
Lo spazio per le decisioni politiche è stato negato da politici di differenti bandiere sulla base di un’assunta predominanza di «logiche di mercato», soprattutto nel caso dei mercati internazionali. L’obiettivo democratico di ottenere fiducia da parte dei cittadini è stato, nei fatti, retoricamente sostituito dalla ricerca di una «fiducia del mercato», che è ottenuta anche a spese di una insensibilità verso le istanze dei cittadini. La responsabilità degli stati democratici di fronte ai loro cittadini è stata rimossa in nome del rispetto di condizionalità esterne – incluse quelle imposte dall’Ue agli Stati per l‘accesso a prestiti– che hanno imposto tagli alla spesa pubblica, con conseguenze drammatiche in termini di violazioni dei diritti umani fondamentali quali diritto al cibo, alla salute, e all’abitazione. La responsabilità democratica è pertanto ridotta dall’irresponsabilità delle organizzazioni internazionali che impone queste condizionalità, mettendo a repentaglio le scelte politiche.
Senza controlli e limiti, la crisi di responsabilità che investe le istituzioni politiche ai vari livelli in Europa è destinata a incancrenirsi. È importante la capacità di opporsi a queste visioni di Europa da parte di quelle forze che — anche nel parlamento (da Siryza a Podemos, ai Verdi e anche, nonostante le stolide alleanze, il M5s — possono essere portatrici di un’altra Europa
Dalle storie degli operai la conferma: innovare si può, ma tornando all'indietro; cambiare verso si può, ma all'indietro; fare si può, ma di masole in peggio.
Il manifesto, 10 luglio 2014
Non voglio offrire statistiche e sguardi di insieme, ma raccontare una storia, una vicenda come tante, esemplare, ritengo. Famiglia proletaria, nell’ex capitale: del Ducato di Savoia, del Regno d’Italia, dell’automobile, della Fiat. Il padre operaio specializzato giunto al reparto progettazione auto, aristocrazia operaia, insomma, che al lavoro ha sempre guardato con rispetto e persino con amore; qualche sciopero, ma via via sempre meno nel corso dei decenni; una moglie con un lavoro non qualificato, due figli, che fanno le scuole tecniche.
Il maschio frequenta l’Istituto per Geometri, ma comincia a frequentare i cantieri, nel tempo libero e nelle vacanze, si impratichisce del lavoro, e quando finisce trova subito un impiego. Lavora sodo negli anni seguenti, diventa capocantiere, per la ditta che lo ha assunto, mette su famiglia: compra una casetta, col mutuo, fuori città, nel luogo dove ha sede la sua ditta: casa e bottega. Come suo padre vive per il lavoro, lo ama, si impegna, e non bada a straordinari.
Il babbo è orgoglioso, ha fatto studiare il primogenito, che è salito nella scala sociale; ma c’è di più. Il nostro operaio specializzato ha una seconda figlia, che fa le scuole commerciali, prende il suo diploma, e vuole a tutti i costi andare all’università. Il babbo le dice d’accordo, ma non possiamo permettercelo. E lei si mantiene lavorando per tutto il periodo degli studi. E dopo la laurea — ottenuta nei quattro anni, e bene — continua, avrebbe aspirazioni intellettuali, ma sa di non poterselo permettere; conserva la passione per i libri, per lo studio, e rifiuta le proposte di continuare nella vita degli studi, che il suo relatore di tesi le fa.Le riesce impossibile conciliare quella dimensione, a cui pure terrebbe, con la vita reale.
Una vita reale nella quale è passata ormai dai lavoretti nelle fiere o come aiuto parrucchiera, ad assunzioni a tempo determinato in un’azienda, con rinnovi semestrali.
È seria come tutti in famiglia: sarà l’etica del lavoro tipica della cultura piemontese? E i datori di lavoro le rinnovano il contratto, fino a che si stabilizza: è una lavoratrice che si fa sfruttare fino in fondo. Piega la testa, ed è brava: perciò, a un certo punto il lavoro a tempo indeterminato arriva. Il miraggio diviene realtà. E questo le fa credere che può, come suo fratello, comprare un piccolo appartamento, con un mutuo trentennale.
Ma fa fatica, troppa fatica, i costi aumentano mese dopo mese, le utenze, le spese condominiali, il cibo, i detersivi, e il suo compagno che ha messo su un’attività nel momento sbagliato, con la crisi galoppante, non ce la fa ad aiutarla. Anzi: chiede un fido bancario, e le rate strozzano lui e lei, che intanto vende gli oggettini d’oro, salta il pasto di mezzodì e usa i buoni pasto della ditta per fare la spesa a fine settimana. In casa i pranzi sono ridotti a farinacei, patate e, di rado, proteine, a cui provvedono perlopiù i genitori nei pasti domenicali, quando i due “giovani” (ormai entrambi sui 40) ritornano nelle dimore di nascita; le mamme li provvedono con cibarie, olio, caffè. Una vita di stenti. E lei sa di doversi considerare “fortunata” con i suoi circa 1.100 euro mensili, anche se alla quarta settimana non riesce ad arrivare, e cerca occupazioni per arrotondare. Va a fare le pulizie in una dimora privata dopo l’ufficio un paio di volte alla settimana.
Intanto, la crisi ha colpito il fratello maggiore: la ditta ha perso mese dopo mese, le commesse in precedenza numerose. E un anno e mezzo fa ha chiuso. Era una piccola, ma fiorente azienda. Kaputt. Il geometra quarantenne viene messo con gli altri dipendenti in cassa integrazione: finita la cassa, comincia a cercare. Prima fa il giro dei cantieri, poi manda curricula alle ditte edili: non riceve risposte. Quando gliene danno sono sconsolate e sconfortanti.
Spulcia gli annunci sui giornali: ma settimana dopo settimana allarga il raggio della sua ricerca. Cerca qualunque cosa. Va a scaricare frutta ai mercati generali, quando capita. E continua a salir l’altrui scale. A bussare a porte che rimangono ostinatamente chiuse. I genitori condividono le ambasce del figlio, e le difficoltà della figlia. Sono impotenti. E probabilmente il padre pensa che suo figlio che era la prova del miglioramento della condizione familiare, ora testimonia un fallimento, una sconfitta. Ma arriva infine la buona notizia: forse il figlio sarà “preso”, ossia assunto. In una ditta metalmeccanica. Come operaio semplice, manovale. Ma avrà un salario. Basso, poco più di 900 euro trattandosi di un primo impiego, ma pur sempre un salario.
Infine, non sarà superfluo aggiungere che questo posto, se sarà davvero confermato, è stato ottenuto solo grazie al fatto che all’Ufficio del personale della ditta c’è qualcuno che è amico di un amico che è amico di…Insomma, anche per essere assunti, come operaio generico, in una grande azienda del Nord, occorre una raccomandazione.
Ma questo è solo un dettaglio: siamo pur sempre in Italia. Quello che conta è la forza simbolica di questa piccola storia, una come tante. Sentiamo parlare di “cambio di passo”, di mobilità, di riforme, di modernità, di ascensore sociale, della generazione di Telemaco che sostituisce quella di Ulisse (che sciocchezza, Renzi!): ebbene, l’ascensore quando funziona, va in discesa.
Ricorre l’8 luglio, l’anniversario della nascita di Ernst Bloch, il grande filosofo della speranza, dell’utopia e della liberazione umana qui e ora. Lo ricordiamo con questa nota di Peppe Sini, Comune.info, 8 luglio 2014
Anche se la speranza non fa altro che sormontare l’orizzonte, mentre solo la conoscenza del reale tramite la prassi lo sposta in avanti saldamente, è pur sempre essa e soltanto essa che fa conquistare l’incoraggiante e consolante comprensione del mondo, a cui essa conduce, come la più salda ed insieme la più tendenzialmente concreta. [...] L’importante è imparare a sperare. Il lavoro della speranza non è rinunciatario perché di per sé desidera aver successo invece che fallire. [...] Contro l’aspettare è d’aiuto lo sperare. Ma non ci si deve solo nutrire di speranza, bisogna anche trovare in essa qualcosa da cucinare. [...] L’utopia concreta sta all’orizzonte di ogni realtà; la possibilità reale circonda fino alla fine le tendenze-latenze dialettiche aperte, l’utopia non è fuga nell’irreale, è scavo per la messa in luce delle possibilità oggettive insite nel reale e lotta per la loro realizzazione
Ricordare Ernst Bloch e lottare per la dignità umana e la liberazione dell’umanità sono dunuqe una cosa sola: non si è fedeli alla sua lezione se non ci si impegna concretamente e coerentemente per la vita, la dignità e i diritti di tutti gli esseri umani e per la difesa della biosfera; e nella effettuale ed autocosciente lotta per difendere la biosfera e la vita, la dignità e i diritti di tutti gli esseri umani la sua lezione appronta e dona strumenti teorici ed ermeneutici di fondamentale importanza.
Nell’anniversario della nascita di Ernst Bloch, nel ricordo e alla scuola della sua testimonianza e del suo pensiero, la commemorazione più degna e sincera resta proseguire la lotta nonviolenta contro tutte le guerre e tutte le uccisioni, contro tutte le distruzioni e tutte le persecuzioni, per l’eguaglianza di diritti di tutti gli esseri umani e per la liberazione dell’umanità, per la solidarietà che tutte le persone riconosce, raggiunge, sostiene, e si prende cura del mondo vivente.
Peppe Sini, è responsabile del Centro di ricerca per la pace e i diritti umani di Viterbo, cura una la mailing list quotidiana “La nonviolenza è in cammino”
A leggere le cronache di questi giorni (e relativi commenti) sembra esistere soltanto la responsabilità penale. Un fatto diventa censurabile unicamente se viene aperta un'inchiesta da parte della Procura. E, parallelamente, se l'inchiesta penale viene archiviata, qualsiasi comportamento acquisisce una "patente" di correttezza. Ma non è cosi. Non può essere cosi. Non tutto (fortunatamente) ha rilievo penale. Ci sono, però, comportamenti che ugualmente sono (e dovrebbero) essere censurabili (e censurati), almeno sul piano politico e, perché no, etico.
Perché succede? Elementare Watson spendono nelle Grandi opere inutili e dannose, negli armamenti, nei favori alle banche autrici della crisi, - e perciò mancano le risorse per le cose necessarie.
Il Fatto Quotidiano, 10 luglio 2014
La morbosa politica “culturale” dei Grandi Eventi rende praticamente inimmaginabile che un ministro o un sindacotrovino conveniente annunciare una campagna di manutenzione ordinaria a tappeto: troppo poco, troppo grigio, troppo umilmente anonimo. Ma il problema è ancora più profondo, e riguarda la mentalità indotta dal consumismo di massa nella sua fase estrema e (chissà) finale: è l’idea stessa della conservazione, della cura quotidiana degli oggetti ad essere uscita dal nostro orizzonte mentale. Se questo è vero per il nostro stesso corpo, lo è ancora di più per il corpo delle nostre città.
Non è difficile oggi capire l’ardimento visionario con cui nacque, per esempio, Venezia: difficile è capire il lavoro quotidiano della Repubblica Serenissima, che incessantemente ha curato la Laguna ogni giorno di ogni mese di ogni anno di ogni secolo. Eppure, senza quel lavoro quotidiano non avremmo Venezia. Oggi, quando va bene, la manutenzione si identifica con l’intervento eccezionale (vedi il Mose): meglio se spettacolare, e meglio ancora se costosissimo.
Nulla potrà ridare Salvatore ai suoi cari, ma noi questa lezione dobbiamo impararla: prima che non solo Napoli, ma tutte le nostre città storiche ci cadano, letteralmente, sulla testa.
«». Il granello di sabbia
Per andare oltre le semplificazioni tipiche delle rappresentazioni mediatiche della violenza sessista che tendono a eluderne contorni, portata e ragioni, conviene smontare alcuni pregiudizi, stereotipi, luoghi comuni. Anzitutto, il sistema gerarchico di relazione fra i generi, quindi il sessismo e la violenza sulle donne, non sono l’esito fatale di qualche fatto naturale (per esempio, l’aggressività maschile, la passività femminile), bensì di un processo storico e di una costruzione sociale e culturale. Vi sono società che mai hanno conosciuto il patriarcato o altre forme di dominio-appropriazione delle donne. Il che dimostra che la natura non è determinante. Vi sono state e vi sono società considerate “arretrate” che ignorano non solo la gerarchia ma anche una rigida distinzione in base al sesso detto naturale(1).
In secondo luogo, il sistema di dominio, discriminazione e violenza sessisti non rappresenta un rigurgito dell’arcaico o un’anomalia della modernità. Anche se eredita credenze, pregiudizi, strutture, simbologie e mitologie del passato, appartiene al nostro tempo e al nostro ordine sociale ed economico. Del tutto infondato, quindi, è il dogma secondo il quale la modernità occidentale sarebbe caratterizzata da un progresso assoluto e indiscutibile nel campo delle relazioni di genere, mentre a essere immerse nelle tenebre del patriarcato sarebbero sempre le altre. Per dirne una, nell’ultimo rapporto (2013) sul Gender Gap del World Economic Forum (2), le Filippine figurano al 5° posto su scala mondiale per parità fra i generi (dopo Islanda, Finlandia, Norvegia e Svezia), mentre l’Italia è solo al 71°, dopo la Cina e la Romania (3).
Insomma, conviene diffidare degli schemi evoluzionisti e dei facili ottimismi progressisti: la discriminazione e/o la violenza in base al genere – come quelle in base alla “razza”, alla classe, all’orientamento sessuale - non sono necessariamente residuo del passato, segno di arretratezza o di modernità incompiuta, destinato a dissolversi presto, bensì un tratto che appartiene intrinsecamente anche alla tarda modernità (o alla modernità decadente, si potrebbe dire). In più, oggi, particolarmente in Italia, il neoliberismo, le privatizzazioni, la crisi economica, le politiche di austerità e le pesanti ricadute sull’occupazione e sul Welfare State hanno significato per le donne arretramento in molti campi.
Perciò sono molto scettica rispetto a quei femminismi deboli che si limitano a promuovere il progresso individuale e la meritocrazia in ambito femminile. Penso, invece, che la lotta per trasformare l’ordine fondato sulla gerarchia di genere debba essere collettiva e coniugata con quella per la giustizia economica e l’uguaglianza sociale, civile, politica. Infine: se è vero, come ha scritto più volte Etienne Balibar, che la comunità razzista e la comunità sessista si identificano sostanzialmente, allora la battaglia contro il sessismo è inscindibile da quella contro il razzismo. Ma per articolare il tema della liberazione delle donne con quello dei diritti delle/dei migranti, occorre un pensiero critico complesso, affrancato da semplificazioni, cliché, luoghi comuni, disposto a mettere in discussione alla radice anche la tradizione cui si appartiene(4).
Note
1 In proposito, riporto un esempio, tratto dal mio La Bella, la Bestia e l’Umano (Ediesse, Roma 2010). Per gli Inuit (uno dei due gruppi principali che costituiscono gli “Eschimesi”), ogni essere umano è la reincarnazione di un certo antenato, di cui alla nascita l’individuo assume il nome-anima: quindi anche l’identità sessuata e la personalità sociale, qualunque sia il proprio sesso “naturale” e quello dell’antenato/a. Solo alla pubertà egli/ella torna a “riprendere” il sesso con cui è nato/a.
2 Il Gender Gap è misurato in base a quattro criteri principali: salute, formazione, lavoro e partecipazione al sistema politico. In particolare, l’Italia è al 65° posto per il livello di scolarizzazione, al 72° per il diritto alla salute, al 44° per l’accesso al potere politico e al 97° per la partecipazione alla vita economica.
3 Ricordo che la maggior parte dei paesi europei si trova nelle prime trenta posizioni, su 136 paesi.
4 Qui posso solo enunciare il tema. Per un’analisi approfondita, si può vedere il mio, già citato, La Bella, la Bestia e l’Umano.
Annamaria Rivera è docente di antropologia sociale all’Università di Base, editorialista, scrittrice e saggista, una vita da attivista dei movimenti
«project financing degna del più radicale dei No-Tav»Il Fatto Quotidiano, 9 luglio 2014
Un fantasma si aggira per l’inchiesta sul Mose: è l’affare della nuova autostrada Orte-Mestre, nota anche come Nuova Romea. Costerà quasi dieci miliardi di euro, e dagli interrogatori si capisce che è il vero affare che calamita le attenzioni. Claudia Minutillo, ex segretaria del governatore veneto Giancarlo Galan, passata come manager al gruppo Mantovani, racconta che il suo nuovo capo, Piergiorgio Baita, non pensava ad altro. Quando li arrestano, nella primavera 2013, non c’è ancora il sospirato via libera del governo, che arriverà l’8 novembre 2013, in una riunione del Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) presieduta dal premier Enrico Letta. Il 24 aprile 2012 Minutillo chiama Baita per parlare della riunione Cipe di tre giorni dopo. Sintesi giudiziaria della chiamata: “Baita voleva sapere se ci fosse la Romea e comunque chiederà ad Albanese... omissis...”.
Bisogna tirare il filo per vedere dove porta. Gioacchino Albanese, detto Nino, era già famoso negli anni 70 come braccio destro di Eugenio Cefis, poi è stato manager dell’Eni, coinvolto nello scandalo Eni-Petromin (1980), e nel 1981 è risultato iscritto alla loggia P2 con la tessera numero 913. Oggi ha 82 anni e ricopre ancora un ruolo decisivo: è amministratore delegato della Ilia Spa di Genova, promotrice della Orte-Mestre. Si tratta di un , il modo più moderno di scavare buche nei conti dello Stato: in apparenza il privato costruisce un’opera pubblica a sue spese e recupera l'investimento incassando i pedaggi, in questo caso per 49 anni.
Il ministro dell’Economia dell’epoca, Fabrizio Saccomanni, era contrario. Baita soffriva. Minutillo spiega: “L’Economia, il Tesoro, si opponeva a questa cosa qua, quindi veniva... è stata rinviata più volte. Baita teneva i contatti con il dottor Albanese del gruppo di Bonsignore, e poi avevano dentro al ministero le persone”. Il capo di Albanese è Vito Bonsignore, ex andreottiano diventato imprenditore con la liquidazione da 2-300 milioni che gli dette Marcellino Gavio per farlo fuori dall’Autostrada Milano-Torino e legatissimo all’ex senatore Luigi Grillo e a Sergio Cattozzo i due uomini dell’Ncd arrestati a Milano nell’inchiesta Expo. Europarlamentare fino allo scorso 25 maggio, Bonsignore è stato insignito, durante Mani pulite, di una condanna definitiva a due anni per corruzione. Oggi è tra i fondatori del partito di Angelino Alfano e soprattutto di Lupi. Bonsignore ha buone amicizie. Il presidente della Ilia a cui il governo sta affidando l’autostrada da 10 miliardi è Giovanni Berneschi, momentaneamente agli arresti per lo scandalo della Carige, banca che supporta Bonsignore nella Orte-Mestre. Ma nessuno batte ciglio. Anzi. La delibera Cipe dell’8 novembre scorso è ancora segreta. Non è dato conoscere il piano economico-finanziario su cui si basa la previsione che i proventi del traffico ripagheranno l’opera. Sicuramente c’è una clausola secondo la quale ricavi inferiori al previsto comporteranno l’impegno dello Stato a pagare la differenza. Insomma, il rischio d’impresa è tutto a carico dei contribuenti, ed è per questo che delibere, piani e contratti con cui si impegnano miliardi pubblici non vengono pubblicati.
Vasco Errani, che è di Ravenna, attacca: “La scelta delle opere da fare non è compito dei privati”. Ma poco tempo dopo lo stesso Errani si batterà come un leone per chiedere al governo lo sblocco del della Ilia. Come mai?
Nella rissa Bonsignore e Lunardi sfoderano la loro abilità. Racconta Minutillo: “Furono bravissimi, misero subito d’accordo cinque presidenti di Regione”. L’intesa arriva nel 2005 e prevede lavoro per tutti: per la Mantovani nelle tratte venete, per le coop rosse in Emilia e via spartendo. Il 27 luglio 2005 l’Anas dà il via libera al progetto di Bonsignore. Due settimane prima il regista della Orte-Mestre aveva discusso con il suo amico Massimo D’Alema le modalità di partecipazione alla scalata alla Bnl della Unipol di Gianni Consorte. L’ex premier riferisce al manager presunto rosso: “Voleva dirmi... voleva sapere se io gli chiedevo di fare quello che tu gli hai chiesto di fare, oppure no [ridacchia]... Che voleva altre cose, diciamo... a latere su un tavolo politico. [...] Ti volevo informare che io ho... ho regolato da parte mia”. I magistrati di Venezia stanno portando alla luce i contesti trasversali e opachi con cui la politica spartisce denaro pubblico tra le imprese amiche.
«Riforme. Del bicameralismo si è discusso abbastanza. Con una mossa mai vista, Napolitano interviene sui lavori del senato. In aiuto al premier e sostituendosi al presidente del senato che era stato chiamato in causa». Tirannide o consolato? comunque dai principi della democrazia liberal-borghese (fra poco è il 14 luglio) e dalla Costituzione italiana, siamo fuori.
Il manifesto, 8 luglio 2014
Che si debba correre lo sostiene Renzi, eppure il presidente della Repubblica assicura di parlare «senza pronunciarsi sui termini delle scelte in discussione». Ma i termini, adesso, sono proprio questi: bisogna necessariamente chiudere al senato entro la pausa estiva, o c’è il tempo di correggere l’esecutivo? Non c’è tempo, dice il Quirinale. Secondo il Colle bisogna evitare «ulteriori spostamenti in avanti dei tempi di un confronto che non può scivolare, come troppe volte è già accaduto, nell’inconcludenza».
A Napolitano si erano rivolti in molti in questi giorni. Ma per la ragione opposta: invitavano il presidente, garante di tutti, a tutelare la separazione di ruoli tra il parlamento e l’esecutivo, specie in materia di leggi di revisione costituzionale. La legge in discussione, in particolare, è stata scritta direttamente dal presidente del Consiglio. Gli emendamenti accolti sono stati tutti discussi a palazzo Chigi. E i tempi della discussione sono quelli che vuole il capo del governo, che da marzo sta andando avanti di ultimatum in ultimatum. Tant’è che un gruppo di senatori, i cosiddetti «dissidenti» di tutti i partiti, era pronto a chiedere al presidente del senato di esprimersi, e di assegnare alla commissione e all’aula un congruo tempo di approfondimento. Chiedevano alla seconda carica dello stato, Grasso, di frenare la corsa di Renzi. È stato proprio in questo momento che ha deciso di intervenire la prima carica, Napolitano. Per accelerare.
La nota del Colle sposa in tutto l’impostazione renziana, e abbonda di riferimenti per dimostrare che ormai del bicameralismo paritario e «delle sue ricadute negative sul processo di formazione delle leggi» si è discusso abbastanza. Il presidente dice che c’è stata «un’ampia apertura di dibattito» e che si è «prolungata notevolmente rispetto agli annunci iniziali», cioè la promessa di Renzi di chiudere al senato in un mese, entro lo scorso 25 maggio. Non solo: il capo dello stato si spinge a valutare la quantità di audizioni che sono state svolte in commissione affari costituzionali al senato — «larghe audizioni» — e non trascura un giudizio sul numero di correzioni suggerite dai relatori al testo del governo (con l’ok del governo) — «ricca messe di emendamenti».
La cronaca parlamentare del Colle spalanca al disegno di legge Renzi-Boschi le porte dell’aula del senato. Che ha bisogno di accogliere la «grande riforma» renziana tra la fine di questa settimana e l’inizio della prossima, al massimo. È questa la condizione indispensabile per provare a mandare gli italiani, e i parlamentari, in vacanza con un primo passaggio compiuto sulle riforme costituzionali. È la prima emergenza nazionale? Non pare, ma a Renzi importa così e il parlamento, sezione distaccata di palazzo Chigi, deve adeguarsi. Ieri sera c’è stata l’ennesima riunione dei senatori del Pd, anche questa dedicata non a discutere l’impostazione governativa ma a richiamare all’ordine i dissidenti. Tant’è che Renzi non si è neanche presentato: non c’era nulla da spiegare. Nessuna risposta neanche sulle questioni rimaste senza soluzione, quelle che anche i renziani ammettono che andranno registrate.
osì è ancora previsto che il presidente della Repubblica sia eleggibile da un solo partito, che i deputati non diminuiscano di un’unità (vanificando il decantato «risparmio» sul senato), che un sindaco o un consigliere regionale nei guai con la giustizia possano trovare riparo nell’immunità senatoriale… Si correggerà? E come? Solo a chiederlo si finisce tra i frenator. La fretta è persino maggiore di quella che guidò alla camera l’approvazione della legge elettorale, quella che adesso tutti vogliono cambiare. O in altre legislature ispirò le riforme costituzionali dell’articolo 81 e di tutto il Titolo V, due fallimenti riconosciuti.
Da ieri sera il «patto del Nazareno» tra Renzi e Berlusconi è più forte. La guardia di Napolitano indebolisce i senatori critici e lascia poco spazio ai tentativi di correzione della riforma. Sono oltre quaranta gli articoli della Costituzione da modificare e l’importante, dice Napolitano, è farlo. Se c’è un argomento che il presidente della Repubblica dimentica, ecco a ricordarlo il capogruppo Pd Zanda: è urgente trasformare sindaci e consiglieri regionali in senatori perché «ce lo chiede l’Europa».
«Un indicatore più completo è quello per le Nazioni Unite di Amartya Sen e altri, lo Human Development Index: misura la qualità della salute e dell’istruzione». Istat ha pubblicato il "Rapporto Bes 2014: il benessere equo e sostenibile". La
Repubblica, 6 luglio 2014 (m.p.r.)
Un'analisi impeccabile dell'ideologia e della prassi che hanno provocato il successo dell'uomo che ha costruito e rafforzato il suo potere divorando i suoi antagonisti e assorbendone così i nefasti caratteri.
Sbilanciamoci info, newsletter, 4 luglio 2014
L'Italia, paese di populisti e di populismi. Ne ha conosciuti ben tre (e mezzo), nel ultimi vent'anni, un record mondiale. Populismo: che è concetto classico della politica e della sociologia ma che tuttavia è un processo culturale prima che politico. E oggi economico prima che culturale e politico, nel senso che è appunto l'economia capitalista ad essere oggi un processo culturale prima che economico, producendo - prima delle merci e del denaro - le mappe concettuali, cognitive, relazionali, affettive necessarie per la navigazione nel mercato; trasformando quello che era il cittadino dell'illuminismo in lavoratore, merce, capitale umano - ovvero in mero homo oeconomicus. Tre populismi interi: Berlusconi, Grillo e Renzi. E il mezzo populismo della Lega. Tre padri politici invocati dal popolo perché lo sorreggano, lo portino da qualche parte, gli dicano cosa deve fare, perché questo stesso popolo si ritiene incapace (o non più desideroso) di assumersi la responsabilità di essere sovrano di se stesso. Effetto culturale - questo - dell'antipolitica capitalista, che per essere sovrano assoluto e culturalmente monopolista deve rimuovere ogni sovrano concorrente.
Berlusconi: il populista che prometteva la modernizzazione neoliberale del paese. In realtà, un populismo del cambiare tutto per non cambiare nulla (soprattutto i suoi interessi personali e aziendali). Un populismo aziendalista, con la figura del padre/leader sostituita da quella dell'imprenditore che si è fatto da solo (o quasi), perfetta nell'esprimere il modello culturale che tutti dovevano apprendere: l'edonismo, il godimento immediato, la deresponsabilizzazione egoistica ed egotistica. Per legittimare - questa l'azione appunto culturale, pedagogica prima che economica - le retoriche neoliberiste dell'essere imprenditori di se stessi e della competizione come unica forma di vita.
Bossi e la Lega: il mezzo populismo (non solo perché limitato a una parte del territorio), apparentemente il più classico dei populismi con il richiamo alla tradizione, ai simboli di terra e di sangue. All'essere padroni a casa nostra: da intendere però non come sovrani sulla nostra terra ma come padroni nel senso antico del capitalismo. Populismo da piccola impresa, da capitalismo molecolare come versione localistica dell'ordoliberalismo tedesco e della sua pedagogia per imporre il modello impresa all'intera società.
Grillo: il populista contestatore, il teorico del net-populismo come forma perfetta della democrazia. Grillo come l'uomo del cambiamento ma incapace di cambiare (dice solo no) e forse populista anche di se stesso.
E Matteo Renzi. Un populismo di tipo nuovo ma evoluzione dei precedenti. Perché anch'egli cerca il rapporto diretto con il popolo e lo invoca come propria totalizzante legittimazione. Perché aspira ad essere insieme Partito di Renzi e Partito della Nazione. Un partito-non-partito tuttavia, ormai anch'esso trasversale - e quasi un non-luogo nel senso di Marc Augé: come un aeroporto, un supermercato, un luogo di consumo di politica.
Un populismo che invoca il popolo contro le caste e il sindacato salvando invece le oligarchie che lo sostengono come un sol uomo; che ha grandi mass-media schierati dalla sua parte e che gli consentono ciò che mai avrebbero consentito a Berlusconi; un populismo fideistico e teologico-politico (noi contro loro, noi il tutto che non accetta il due e il tre e il molteplice e gli eretici; noi il nuovo, gli altri il vecchio).
Un populismo che vuole rottamare appunto il vecchio, ma che non rottama, non corregge (una volta si chiamava autocritica, ma il nuovo che avanza travolge anche la memoria) i molti errori del passato: il sì all'austerità, all'articolo 81 della Costituzione sul pareggio di bilancio.
Un populismo finalizzato alla modernizzazione dell'Italia - e ogni populismo è stato, storicamente anche una via per la modernizzazione, facendo accettare al popolo, in nome del popolo quelle trasformazioni che altrimenti non sarebbero state possibili per trasformare un paese e quel popolo. Per questo, quello di Renzi è un populismo tecnocratico: che produce quella modernizzazione neoliberista che Berlusconi non è riuscito a produrre e Grillo fatica a poter produrre.
Un populismo nel nome della tecnocrazia, che la tecnocrazia ama; un populismo che trasforma (forse questa volta per davvero) il potere politico nel senso richiesto dalla tecnocrazia: meno democrazia (la riforma del Senato, le proposte di nuova legge elettorale); meno diritti sociali e quindi politici (diventati un costo); più decisionismo; meno partecipazione e più adattamento alla realtà immodificabile del mercato; meno cittadinanza attiva e più accettazione della ineluttabilità del reale. Perché le sue pratiche politiche - al di là delle apparenze e delle discussioni con Angela Merkel e di alcuni interventi comunque virtuosi - sono tutte dentro alla cultura della modernizzazione richiesta dall'ideologia neoliberista (flessibilità del lavoro, privatizzazioni, un nuovo modo di essere imprenditori di se stessi, riduzione ulteriore dello stato sociale, crescita invece di sviluppo, competizione invece di solidarietà); e la flessibilità sul Fiscal compact (invece della sua abolizione, per evidente irrazionalità e surrealtà economica), pure invocata, è un pannicello caldo rispetto al nuovo new deal che sarebbe invece necessario (e urgente). Un populismo futurista, inoltre: nel nome della velocità, delle macchine, delle parole in libertà, dell'azione per l'azione.
Il populismo di Renzi è dunque più di un classico neopopulismo, che ha dominato la scena per trent'anni coniugando populismo e neoliberismo, mercato e popolo, modernizzazione e impoverimento e disuguaglianze. E' un neopopulismo tecnocratico - per altro discendenza diretta di quello neoliberista - che scardina ancor più di quello neoliberista le forme e le pratiche della democrazia; riduce a niente la società e la società civile; attacca il sindacato o lo rende inutile (in coerenza con le tecnocrazie globali); che spettacolarizza se stesso proponendosi come outsider, come rottura, come alternativa, in realtà portandoci nella società dello spettacolo della tecnocrazia.
Una tecnocrazia che non si espone più direttamente con i noiosi e antipatici tecnici, ma con la fantasia e l'estro di un populismo mediatico e spettacolare, moderno e postmoderno insieme, dove twittare è più importante che ascoltare.
L'economia questaquesta politica, e il 99 per cento della società paga. Se questa è l'equità...Greenreport, 3 luglio 2014
Oops, ci siamo sbagliati – ma non ditelo alla Fiom – e ora vogliamo tanto tornare in Italia, come spiega Anie sempre in modo asettico: «Nell’ambito dei cambiamenti delle dinamiche manifatturiere, stiamo assistendo ad un fenomeno nuovo, noto come back reshoring, che consiste nel riportare in patria i siti produttivi precedentemente delocalizzati all’estero. Secondo recenti studi realizzati dal professor Fratocchi e dal suo gruppo di ricerca Uni-Club MoRe Back Reshoring, l’Italia è il secondo Paese nel mondo per rimpatri produttivi, alle spalle solo degli Stati Uniti e quindi primo in Europa». Perché? Alla domanda “quali sono gli interventi di politica industriale che il Governo dovrebbe approntare per favorire il ritorno del manifatturiero in Italia”, il 30% delle aziende intervistate ritiene che la priorità sia la riduzione del cuneo fiscale, più di un quarto di esse la semplificazione della burocrazia e il 18% del campione la detassazione degli utili in Ricerca&Sviluppo.
Il comparto rappresentato da Anie Confindustria a livello nazionale vale circa il 20% dell’intero back reshoring, piazzandosi secondo alle spalle solo dell’abbigliamento e delle calzature (vedi grafico). Secondo i risultati dell’indagine realizzata presso le aziende associate, le ragioni considerate molto rilevanti dalle imprese Anie che hanno rilocalizzato i siti produttivi nel periodo 2009-2013 sono state per un terzo del campione il minore controllo qualità della produzione all’estero, seguito dalla necessità di vicinanza ai centri R&S italiani (25%) e dai costi della logistica (22,2%). Vale la pena soffermarsi anche sul perché queste aziende avessero deciso di lasciare l’Italia: secondo le loro stesse risposte, avevano infatti delocalizzato le produzioni per il minor costo totale della produzione all’estero (“molto rilevante” per l’86% delle imprese rientrate in patria) e del minore costo del lavoro (75%).
L’indagine ha confermato inoltre (e ancora una volta) la vocazione di queste aziende all’innovazione: il 60% del campione investe in R&S più del 2% del fatturato totale e una folta rappresentanza di imprese particolarmente virtuose, costituita dal 40%, investe addirittura più del 4% del fatturato. Ma sono proprio le aziende che hanno messo in atto politiche di back reshoring a dimostrarsi particolarmente aperte al cambiamento tecnologico, all’innovazione e ai nuovi modelli organizzativi. Per quanto riguarda l’avvenuta adozione di tecnologie ICT e ITS (Internet of Things and Services), tra le imprese che sono rientrate abbiamo un picco del 60% contro il 50% della totalità delle imprese Anie, e fra esse nessuna si dichiara non interessata a queste trasformazioni, che vanno verso l’adozione di nuovi modelli organizzativi (fabbrica 4.0). Inoltre, tra le aziende interessate dal fenomeno, il 90% ritiene che i nuovi standard organizzativi di impresa saranno una realtà entro un periodo che va da 1 a 3 anni.
Sulla sensibilità nei confronti dell’innovazione, appare particolarmente significativo notare come -secondo le aziende che sono rientrate – i principali meccanismi di stimolo siano tutti rivolti al miglioramento del prodotto finale: per il 90% di esse è questo lo scopo principale che spinge ad innovare (la corrispondente quota della totalità delle aziende Anie è l’80%). Tra i principali ostacoli all’innovazione, invece, la mancanza di fonti di finanziamento esterne è quella primaria a detta del 43% delle aziende in totale, con un picco del 75% tra le aziende che hanno sperimentato il back reshoring. Ma se la seconda ragione per il totale delle aziende Anie – con una quota del 40% – è il costo elevato dell’innovazione e la mancanza di risorse interne, questa percentuale scende radicalmente se si guarda solo alla segmentazione delle aziende che sono rientrate.
Tutto bene quindi? Oops, ci siamo sbagliati, ora si torna in Italia e vissero per sempre felici e contenti? C’è da rimanere senza fiato di fronte al fatto che in queste analisi non si calcolino assolutamente i costi di questo processo. Delocalizzare all’estero non è stato indolore. Il processo della finanziarizzazione dell’economia che ha tolto la terra sotto ai piedi dell’economia reale è costata vite umane e diritti e ambiente in tutto il mondo. Quanti lavoratori si sono lasciati per strada? Quanto Pil? Quanta innovazione? Quanti morti di fame abbiamo creato facendo salire in modo del tutto artificioso i costi delle commodities alimentari, con la finanziarizzazione! Facendo il percorso all’inverso è come voler rimettere tutto dentro al tubetto il dentifricio: per quanto ci provi, ben poco te ne tornerà dentro e avrai comunque speso dell’energia.
Nessun pasto è gratis, tanto che il rilocalizzare le aziende in Italia significa che si lasciano a casa i lavoratori che stanno dall’altra parte della barricata. Quindi l’azienda vince sempre, e chi se la prende in saccoccia si sa chi è. Al di là del colore della pelle. Non solo, si è andati all’estero si è sfruttato tutto il possibile e poi si torna in Italia come eroi.
Questo non per dire che sia un male, anzi, ma che se le cause sono solo quelle che “non ci si guadagna più a delocalizzare perché ora anche all’estero hanno capito che non vogliono essere sottopagati, che hanno dei diritti e che anche il loro ambiente conta”, quando queste variabili torneranno favorevoli, quelli stessi che oggi tornano, ripartiranno.
Per avere quindi un bilancio favorevole da questa operazione, o almeno il più possibile favorevole, bisogna che almeno per la manifattura si scelga di tornare per accorciare la filiera e fare con quello che si ha. Non tanto come potrebbe pensare qualcuno riscoprendo l’italico petrolio, ma ad esempio utilizzando le miniere urbane, le materie prime seconde. Quelle derivanti dal riciclo. L’innovazione deve essere questa, ovvero secondo il criterio della sostenibilità ambientale e sociale. Altrimenti non cambierà alcunché
«La riforma che il Partito democratico si appresta a votare piace molto ai democratici minimalisti proprio perchè restringe al massimo il potere dei cittadini-attori (o sovrani) e amplia quello dei cittadini-arbitri». CRS
centroriformastato.org, 21 giugno 2014
Circa il secondo argomento, quello delle celerità decisionale: è un fatto che nei regimi democratici la tensione tra il potere esecutivo e quello legislativo sia fondamentale e permanente. Ma la tensione dovrebbe risolversi con il riconoscimento della priorità del secondo. La massima tocquevilliana per cui la democrazia si corregge con più democrazia dovrebbe quindi essere così interpretata: nell’equilibrio dei poteri (un bene che il costituzionalismo moderno ci ha regalato) occorre che il potere di proporre e fare le leggi sia centrale perché quello che direttamente discende dalla volontà dei cittadini. In una democrazia elettorale, fare le leggi comporta la centralità degli organi che ricevono autorità diretta dal suffragio. Circola tra i costituzionalisti l’idea che il cittadino sia arbitro.
Perchè bisogna essere critici di questa proposta (che non significa abbandonare l’idea di una riforma del Senato che sappia attuare un parlamentarismo funzionale ovvero che abbia sia il potere di esprimere la maggioranza, e fare leggi, sia che a quello di rappresentare, controllare e infine fermare)? Non è forse vero che Matteo Renzo ha commentato la legge sulla responsabilità dei giudici passata alla Camera dicendo che al Senato la si cambierà? Dunque, anche lui deve ammettere che passare una legge al vaglio due volte consente di correggere errori e migliorare una decisione. Questo solo dovrebbe bastare a convincerci della rilevanza di avere due Camere. Si dice inoltre e insistentemente che un Senato eletto allunga i tempi della politica. Ma si potrebbe obiettare che l’Italia repubblicana ha prodotto un numero spropositato di leggi pur anche con un bicameralismo perfetto! Insomma questi argomenti sono molto poco convincenti. E veniamo così al nodo centrale di questa proposta: l’elezione indiretta dei membri del Senato delle Autonomie.
Cominciamo dall’osservare che volendo riformare la Costituzione, sarebbe opportuno porsi la seguente domanda: Perchè ci proponiamo di attuare questa riforma? Da quale esigenza siamo mossi e per ottenere che cosa? Questo livello preliminare di chiarezza sulle intenzioni è importante perchè consente di affrontare in maniera non approssimativa il problema, ovvero dargli organicità e coerenza. Indubbiamente, sono due le esigenze che giustificano una riforma la legge fondamentale della nostra Repubblica: rendere il sistema politico più trasparente e accountable (rispondenza), e renderlo più funzionale. La prima esigenza detta la legittimitá delle regole e procedure democratiche nell’era del costituzionalismo: neutralizzare e impedire l’arbitrio (anche della maggioranza eletta), e per questo rendere il potere dello Stato più efficacemente esposto al controllo e sapientemente bilanciato nei poteri che lo compongono, in modo che non ci sia accumulo in nessuno di essi.
L’evoluzione della storia politica occidentale è andata in una direzione contraria a quella del voto indiretto; anche perchè è diventato in poco tempo un fatto provato che questo metodo di nomina serviva a generare e proteggere un’oligarchia social-politica, una classe di notabili sensibili agli interessi locali o di chi li nominava. A riprova di ciò potrebbe essere utile ricordare che il Senato degli Stati Uniti d’America fu nella prima fase della storia della federazione americana composto da nominati dagli Stati e diventò un istituto così corrotto e piegato agli interessi non controllabili dei potentati locali e dei notabili che controllavano le nomine da indurre il legislatore a riformarlo instituendo l’elezione diretta dei suoi membri. Quindi la strada semplificatrice e di risparmio che il Partito democratico promette rischia di produrre nuove sacche di corruzione e di privilegio. Un potere in mano ai grandi elettori locali anche se pagato con rimborsi sarà un’occasione di potere appetibile anche perchè fuori del controllo diretto dei cittadini e quindi meno scalfibile. Prevedibilmente si aumenterà la funzione repressiva e ai magistrati verrà dato un nuovo settore di controllo.
Un secondo argomento che si usa per giustificare questa riforma è che dobbiamo seguire modelli riusciti altrove, per esempio quello tedesco. Ma questo argomento è sbagliato e capzioso. La Germania è una federazione compiuta. Ha una Camera direttamente eletta dai cittadini tedeschi e una Camera dei Länder (Bundesrat). Quest’ultima è composta di membri non eletti a suffragio universale diretto, di esponenti dei governi dei vari Länder. Il fatto molto diverso che la federazione consente è che questa camera di nominati è per davvero espressione degli interessi dei Länder e infatti i suoi membri sono vincolati al mandato ricevuto dai loro governi locali per fare gli interessi di ciò di cui sono i rappresentanti (dei loro territori), in violazione del generale principio del divieto di mandato imperativo. L’Italia annacquerebbe il modello tedesco perchè non darebbe mandato imperativo ai rappresentanti dei territori – ma si potrebbe obiettare che in questo modo dà anche meno controllo e molto meno accountability. Se si vuole davvero fare un Senato delle regioni e dei territori occorrebbe avere il coraggio di approdare a un compiuto federalismo, appunto come in Germania. Diversamente, il libero mandato a membri di un Senato nominato dai territori finirà per ascrive un potere troppo grande, poco o nulla rispondente all’interesse dei territori, e troppo fuori controllo. Questo è il paradosso di un federalismo a metà e di un modello tedesco annacquato. Infine, non si tiene contro del fatto che la Germania ha mantenuto questa sua tradizione dall’Ottocento, non è retrocessa dal voto diretto a quello indiretto, come invece faremmo noi. La questione è anche di ragionevolezza e prudenza politica: dopo anni di condanne della casta ora si legittima la casta e si chiede agli italiani di devolvere il loro potere di elezione a funzionari ed eletti locali, piccoli potenti che le cronache quotidiane ci restituiscono come attori di una corruzione capillare ed espansa. E’ il risparmio una ragione sufficiente per rispolverare il voto indiretto o non invece la promessa implicita a una nuova generazione locale di prendersi velocemente una fetta di potere discrezionale? Un Senato che non risponde agli elettori perchè non deve comunque sfiduciare il governo è un Senato che ha comunque troppo potere per non generare una nuova oligarchia, una nuova casta.