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«». Il manifesto

Ho tra­scorso la set­ti­mana in Spa­gna, a Malaga, a una Scuola estiva della Cat­te­dra Une­sco di quella Uni­ver­sità. Il tema della sezione a cui ho par­te­ci­pato come rela­tore era “L’impegno degli intel­let­tuali”. Seguivo, natu­ral­mente, la noti­zie sem­pre più ango­sciose pro­ve­nienti dalla terra mar­tire di Pale­stina, con­sta­tando l’assoluta “distra­zione” del ceto poli­tico, rispetto a quei fatti di scon­vol­gente gra­vità, e il totale disin­te­resse, salvo pochis­sime ecce­zioni, del “mondo della cultura”.

Ricordo altre sta­gioni, come l’invasione del Libano e la guerra con­tro Hez­bol­lah, del luglio 2006, o il bom­bar­da­mento di Gaza del dicem­bre 2008-gennaio 2009: sta­gioni in cui fio­ri­rono appelli, e la mobi­li­ta­zione di pro­fes­sori, gior­na­li­sti, let­te­rati, scienziati,artisti fu vivace e intensa. Si denun­cia­vano le respon­sa­bi­lità di Israele, la sua pro­terva volontà di schiac­ciare i pale­sti­nesi, invece di rico­no­scer loro il diritto non solo a una patria, ma alla vita. Oggi, silen­zio. La mac­china schiac­cia­sassi di Mat­teo Renzi , nel suo mici­diale com­bi­nato dispo­sto con Gior­gio Napo­li­tano, si sta rive­lando un effi­ca­cis­simo appa­rato ege­mo­nico.

L’intellettualità “demo­cra­tica”, facente capo per il 90% al Pd, appare alli­neata e coperta. I grandi gior­nali, a comin­ciare dal “quo­ti­diano pro­gres­si­sta” di De Bene­detti, sem­pre in prima linea a soste­nere le nuove guerre, dal Golfo alla Jugo­sla­via, appa­iono orga­ni­smi per­fet­ta­mente oliati di soste­gno al governo da un canto, e di ade­gua­mento alla poli­tica estera decisa da un pugno di signori e signore tra Washing­ton, Lon­dra, Bru­xel­les e Ber­lino (Parigi, caro Hol­lande, ne prenda atto, non conta un fico). Della radio­te­le­vi­sione non vale nep­pure la pena par­lare; come per l’Ucraina, ora, nella enne­sima mici­diale aggres­sione israe­liana a Gaza, si sono rag­giunti ver­tici non di disin­for­ma­zione, ma di sem­plice rove­scia­mento della verità. La cate­go­ria del “rove­sci­smo”, che mi vanto di aver creato, per la sto­rio­gra­fia iper-revisionista, va ormai estesa ai media.

E devo con­sta­tare che mai in pas­sato si erano rag­giunti simili livelli: dove sono le zone fran­che? Fa impres­sione sfo­gliare la bal­bet­tante Unità, che un tempo non lon­tano, con tutti i suoi limiti, accanto a Libe­ra­zione (defunta) e al mani­fe­sto (che resi­ste!), era una delle poche voci cri­ti­che nel depri­mente pano­rama all’insegna del più esan­gue conformismo.

Sulle pagine del mani­fe­sto (15 luglio) Man­lio Dinucci ha spie­gato bene le ragioni reali del “con­flitto” in corso, e non ci tor­nerò. Qui mi preme piut­to­sto evi­den­ziare, con sgo­mento, che il “silen­zio degli intel­let­tuali” che qual­che anno fa Alberto Asor Rosa denun­ciava, deplo­ran­dolo for­te­mente, è dive­nuto non sol­tanto una con­di­zione di fatto, ma una posi­zione “teo­rica” che, accanto a quella dell’equidistanza, sta tro­vando i suoi alfieri. Appunto, rien­trando dalla mia set­ti­mana spa­gnola, di intense discus­sioni sulla neces­sità di impe­gnarsi, a comin­ciare dal mondo uni­ver­si­ta­rio, cado dalle nuvole leg­gendo lacerti di pen­siero che con­fi­gu­rano la nascita di una sorta di “Par­tito del silenzio”.

Il silen­zio non viene sol­tanto pra­ti­cato, sia «per­ché dovrei espormi?», sia per­ché la pres­sione della lobby sio­ni­sta è for­tis­sima e induce a tacere se pro­prio non vuoi espri­mere la tua gio­iosa ade­sione alla “neces­sità” degli israe­liani “di difen­dersi”. Il silen­zio, oggi, a quanto pare, è dive­nuto una divisa, una ban­diera, e una ideologia.

Quei pochi che par­lano, che osano aprire bocca, pre­met­tono il rico­no­sci­mento delle ragioni di Israele e con­dan­nano in primo luogo rapi­mento e ucci­sione dei tre ragazzi ebrei, poi uccisi (si tra­la­scia di dire che si tratta di tre gio­vani coloni, ossia occu­panti, con la vio­lenza dell’esercito, terra pale­sti­nese), e il lan­cio di razzi Kas­sam con­tro le città del Sud di Israele, e cer­cano poi di cavar­sela con un colpo al cer­chio e una alla botte. Ma atten­zione, se il colpo alla botte israe­liana appare troppo sonoro, ecco che si sca­tena l’inferno, non di fuoco come su Gaza, ma di parole.

Molto pra­ti­cato il genere “com­menti” agli arti­coli on line, per esem­pio: sono tutti uguali, anche se varia­mente dosati nel tasso di vio­lenza ver­bale. Men­tre un gran lavo­rio di infor­ma­zione al con­tra­rio, di diretta pro­ve­nienza da fonti israe­liane, viene dispie­gato dagli innu­me­re­voli pic­coli dispen­sa­tori di verità nostrani. Per esem­pio un pur pru­dente arti­colo di Clau­dio Magris sul Cor­riere della Sera (17 luglio) che si per­met­teva di accen­nare alle ragioni dei pale­sti­nesi, ha rice­vuto la sua buona dose di ingiu­rie. Non c’è che dire, il sistema fun­ziona. E fini­sce per indurre al silen­zio, o quanto meno alla pru­denza. Che è l’altro nome del silenzio.

Ma non è que­sto silen­zio, il silen­zio del ricatto, che mi pre­oc­cupa di più. È, invece, il silen­zio della scelta. Il silen­zio teo­riz­zato come terza via, tra coloro che incon­di­zio­na­ta­mente sono con Israele, e gli altri, quelli che sosten­gono la causa pale­sti­nese. Il silen­zio come rispetto del dolore, o come via della ragio­ne­vo­lezza: con­tro gli oppo­sti estre­mi­smi. Esem­plare in tal senso Roberto Saviano, che, quasi com­met­tendo auto­gol, cita Euro­mai­dan per denun­ciare il tar­divo schie­rarsi anche ita­liano dalla parte giu­sta, che per lui, ovvia­mente, è quella dei gol­pi­sti nazi­sti diKiev. E ora, a suo dire, occorre schie­rarsi non con gli uni né con gli altri, ma «dalla parte della pace»: i “ter­ro­ri­sti” di Hamas sono indi­cati come il primo nemico della pace, ovviamente.

È la linea (solita) di Adriano Sofri (la Repub­blica, 17 luglio), altro guer­riero demo­cra­tico, che ripar­ti­sce torti e ragioni, equi­pa­rando i razzi di Hamas alle bombe israe­liane, e invoca impli­ci­ta­mente silen­zio, discre­zione, rispetto: mette sullo stesso piano tutti. Tutte le vit­time inno­centi. Ma si può con­fon­dere la pietà umana, dove­rosa, col giu­di­zio poli­tico? Si può tra­sfor­mare l’opinione in saggezza?

Sul mede­simo gior­nale, Michele Serra sostiene che occorre tacere, che si devono abbas­sare la voce e gli occhi, davanti alla “tra­ge­dia” della guerra, lo stesso ter­mine usato da Magris. Ma quale tra­ge­dia? Qui abbiamo la poli­tica, e la poli­tica ha degli attori, dei respon­sa­bili: come in pas­sato la divi­sione tra vit­time e car­ne­fici è netta ed evi­dente (so che qual­che anima bella mi accu­serà di sem­pli­fi­care: la cosa è più com­plessa, non si può divi­dere così net­ta­mente, cia­scuna delle due parti ha un pezzo di respon­sa­bi­lità e via di seguito). Serra scrive: «Evi­den­te­mente il ‘ciclo dell’indignazione’ è un mec­ca­ni­smo logoro».

Dal ceto intel­let­tuale mi aspetto assai più che l’indignazione, mi aspetto una rivolta morale: tutti, se non in per­fetta mala­fede, oggi sanno quanta verità ci sono nelle parole di Primo Levi: «Quello che non potrò mai per­do­nare ai nazi­sti è di averci fatto diven­tare come loro».

Quanto biso­gno avremo di sen­tire la sua voce risuo­nare, pacata e ferma, scan­dendo le parole, a voce bassa, ma chia­ris­sima: «La tra­ge­dia è di vedere oggi le vit­time diven­tate car­ne­fici». E se que­sto era evi­dente a lui negli anni Ottanta del Nove­cento, cosa potrebbe mai dire oggi, davanti a quei corpi stra­ziati di bimbi, alla vita can­cel­lata in tutta la Stri­scia di Gaza, davanti a quelle mace­rie che occu­pano, quar­tiere dopo quar­tiere, iso­lato dopo iso­lato, di ora in ora, lo spa­zio affol­lato di case e persone?

Se non denun­ciamo le men­zo­gne dei media, le com­pli­cità dei governi occi­den­tali, con quello di Tel Aviv, in par­ti­co­lare l’oscena serie di accordi (mili­tari, innanzi tutto) dell’Italia con Israele… Se ci con­se­gniamo al silen­zio, oggi, davanti a una ingiu­sti­zia così grave,così palese, così dram­ma­tica, quando par­le­remo? Insomma, non intendo tacere, e ricor­rendo pro­prio alle parole di quel grande uomo, gri­dare: «Se non ora, quando?».

«». La Repubblica

La vicenda dell’insegnante messa sotto inchiesta dalla madre superiora di una scuola privata di orientamento cattolico e parificata non ha dell’incredibile. È incredibile che ci si stupisca e si continui a sostenere — come da anni si fa — che la scuola pubblica comprende sia le scuole statali sia quelle private parificate. Il pubblico è uno, dicono i sostenitori del finanziamento pubblico alle scuole private per raggirare l’Art. 33 della Costituzione che afferma chiaramente essere le scuole private libere e “senza oneri per lo Stato”. I retori che non vedono di buon occhio questa norma hanno sofisticamente ridefinito il pubblico e... abracadabra, ecco che tutte le scuole paritarie sono pubbliche come quelle statali! All’insegnante (che per proteggere l’anonimato si presenta come Silvia) la madre superiora della scuola cattolica in questione ha detto di voler verificare le “voci secondo le quali lei aveva una compagna”. Poiché era suo dovere «tutelare questo istituto cattolico” se quelle voci fossero state fondate allora il suo contratto sarebbe stato a rischio (l’insegnante ha un contratto annuale rinnovabile). Perché è quanto meno irragionevole stupirsi?

Questo caso ci fa toccare con mano la tensione non facilmente sanabile tra scuola privata identitaria e scuola pubblica: la prima selettiva proprio per garantire la propria libertà di continuare a essere identitaria; la seconda aperta a tutti gli insegnati che lo meritano (e qui il merito è misurato con norme e regole pubbliche uguali per tutti) e per tutti gli allievi che lo vogliono (o che i loro genitori vogliono, nel caso si tratti di minori). Indubbiamente la suora nella storia di questi giorni ha le sue buone ragioni a voler “tutelare” l’istituto cattolico. Nulla da eccepire: ai cattolici non si può chiedere di approvare l’aborto o l’omosessualità o le scelte libere in materia di morale. C’è una dottrina della Chiesa e nessun cattolico praticante può prendere in mano la propria volontà e scegliere secondo la propria coscienza. Appartenere a una chiesa implica accettare dei vincoli, senza di che l’identità si diluisce e tutto diventa simile.
Ma che cosa succede se la scuola cattolica che vuole preservare la propria identità riceve soldi pubblici? Soldi che vengono cioè da tutti, non solo dai cattolici, e soprattutto che sono e devono essere distribuiti tenendo fede alla Costituzione e non al dettato della Chiesa? Succede che la scuola cattolica deve essere costretta a perdere la propria identità. Il paradosso è chiaro: la difesa dell’identità è un diritto della scuola privata che però non può essere finanziato con i soldi pubblici. Le scuole private che accettano di ricevere i soldi dello Stato devono sottostare alle stesse norme delle scuole pubbliche vere. Certo, questo urta contro la loro libertà. Certo, questo rischia di far perdere loro l’indentità. Si comprende quanto sia sofistico e ipocrita l’argomento che vuole che tutte le scuole siano pubbliche (statali e paritarie): per amore dei soldi si baratta la libertà — salvo sperare che in un paese dove il 95% dei cittadini è di formazione cattolica non si sia costretti a barattare proprio nulla. E invece...
Succede che la libertà individuale che la Costituzione difende dà alle persone l’opportunità di vivere le proprie scelte senza che nessuno (non lo stato, non il datore di lavoro se pubblico) interferisca con il loro contenuto — purché si rispetti la libertà altrui e la legge, lo Stato non può interferire con le scelte del singolo. Ma una chiesa e una scuola che ad essa vuole restare fedele può interferire e in qualche modo è prevedibile che lo faccia. E quindi, se davvero le scuole private vogliono onorare e difendere la loro libertà di esistere e prosperare devono avere la forza di farlo con le proprie risorse: questa loro autonomia è garanzia e segno della loro libertà. Diversamente, quanto successo all’insegnante Silvia non deve succedere. Delle due l’una: o una scuola privata confessionale vuole i soldi pubblici o vuole proteggere la propria libertà e identità. Le due cose non stanno insieme e lo si vede proprio in casi come questo, quando si apre un conflitto tra libertà della scuola e libertà del singolo. Quale delle due deve prevalere in caso di conflitto? Lo Stato ha il dovere di essere al fianco del singolo sempre, soprattutto nei casi in cui questo si trova ad essere sfidato dalla direzione scolastica dell’istituto dove lavora con incarico annuale. I diritti servono a proteggere non chi ha potere, ma chi non ce l’ha.
I soldi pubblici alle scuole private devono quindi essere condizionati da limiti inderogabili: come il rispetto dei diritti eguali, ovvero della libertà del singolo. Ciò significa, per esempio, che la scuola privata se vuole ricevere finanziamenti dallo Stato deve attingere alle graduatorie pubbliche degli insegnanti e non scegliere a discrezione. Ma attingere a graduatorie pubbliche può voler dire che un insegnante mussulmano possa essere chiamato ad insegnare in una scuola cattolica, o vice versa. Un’eventualità insopportabile e che prova quanto oneroso sia per il privato prendere soldi pubblici.
Dunque chi sono i veri amici della libertà dell’offerta educativa, coloro che chiedono soldi pubblici o coloro che pensano che le scuole private debbano sostenersi autonomamente? Ai sostenitori delle scuole parificate sembra impensabile che il denaro pubblico comporti questa “limitazione” di libertà — e hanno ragione. Per questo dovrebbero rifiutare i soldi dello Stato.

Storie di commessi viaggiatori dei poteri forti:quelli che hanno aiutato la scalata del successore di Silvio, sulle macerie d'una gloriosa eredità distrutta.

Green report, 21 luglio 201421 luglio 2014
Dopo la tappa in Mozambico, dove ha firmato gli accordi già stesi dall’Eni con il governo di Maputo per gli immensi giacimenti gasieri del Paese africano, Renzi nel suo tour petrolifero si è recato in altri due Paesi già marxisti-leninisti: la Repubblica del Congo (Brazzaville) e l’Angola, ora convertiti al liberismo familistico/tribale più sfrenato, ma gestito sempre dagli stessi uomini che hanno cambiato casacca ideologica.

La visita di Renzi in Africa sembra più quella di un piazzista dell’Eni che quella di un premier di uno Stato democratico, e la “tecnica” utilizzata sembra ormai essere quella “cinese”, adottata anche da democrazie che poi si scoprono “selettive” se si parla di Ucraina o Gaza: accordi e pacche sulle spalle con tutti e nessuna domanda sui diritti umani e le libertà di opinione.

Comunque, se l’accordo in Mozambico – il più democratico tra i Paesi visitati – era più o meno ordinaria amministrazione (al di là dell’enormità delle riserve di gas scoperte da Eni) come ben sanno i lettori di greenreport che hanno seguito le scoperte di Eni nell’offshore di quel Paese, diversa è la situazione per quanto riguarda il Congo-Brazzaville, dove Renzi ha incontrato l’inossidabile presidente Dennis Sassour Nguesso, prima dittatore marxista-leninista e poi autoritario e ricchissimo presidente eletto.

Alla presenza di Renzi e Nguesso, l’amministratore delegato dell’Eni, Claudio Descalzi, e il ministro degli Idrocarburi congolese, Andre Raphael Loemba, hanno firmato un accordo di cooperazione che conferma la storica presenza della nostra multinazionale nel Paese e «nel quale si afferma – spiega un comunicato Eni – la volontà di perseguire nuove iniziative nel bacino costiero congolese, che si estende dall’onshore Mayombe al deep-offshore».

Eni opera nella Repubblica del Congo dal 1968, ininterrottamente (anche ai tempi della dittatura filo-sovietica). Nel 2013 la compagnia italiana ha estratto circa 120.000 barili di olio equivalente al giorno. Descalzi, che in questo tour africano è sembrato fare le funzioni di ministro degli Esteri dell’Italia, ha confermato «l’importanza storica e strategica del Paese per Eni e ha riaffermato il massimo impegno della compagnia a proseguire nello sviluppo delle proprie attività, in particolare dei giacimenti rispetto ai quali, in seguito a un negoziato strategico, il governo congolese a fine 2013 ha prolungato i permessi (Madingo, Marine VI e Marine VII)».

Nell’Africa Sub-Sahariana, dove produce circa 450.000 di olio equivalente al giorno, Eni è presente inoltre in Ghana, Gabon, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Togo, Kenya e Liberia e Angola, ed è proprio in quest’ultimo Paese che Renzi ha fatto tappa per incontrare il presidente Jose Eduardo Dos Santos, del partito egemonico ex marxista-leninista dell’Mpla, e soprattutto suo figlio Jose Filomeno Sousa, presidente del Fondo sovrano angolano, creato con i proventi del petrolio.

Anche qui Renzi era stato preceduto il 19 luglio da Eni, che in un comunicato ha annunciato: «N’Goma FPSO è pronta a salpare in direzione dell’area offshore del blocco angolano 15/06, dopo la cerimonia di battesimo che si è tenuta ieri a Port Amboim. In seguito inizierà le operazioni di ormeggio e aggancio. Questa è per Eni e i suoi partner una tappa fondamentale per il conseguimento del first oil del West Hub Development Project previsto per la fine del 2014. Il progetto segnerà il ritorno di Eni in Angola come operatore in acque profonde». Eni è presente in Angola dal 1980, in piena guerra civile tra i marxisti dell’Mpla, appoggiati da cubani e sovietici, che avevano liberato l’Angola dal colonialismo portoghese, e i ribelli dell’Unita appoggiati dal Sudafrica razzista e dagli occidentali, e nel 2013 ha avuto una produzione netta di 87.000 barili al giorno.

La visita di Renzi in Angola, che a Lunada ha parlato davanti ad una platea composta quasi interamente composta da investitori italiani e occidentali (vedi foto), serve quindi a mettere il suggello definitivo al West Hub Project, tra i blocchi assegnati in Angola nel 2006 con un bid internazionale, la prima area di sviluppo che andrà in produzione. Questo progetto, spiega Eni, «comprende i campi Sangos, Cinguvu e Mpungi e prevede la perforazione di 21 pozzi sottomarini di cui 12 produttori, 4 iniettori acqua e gas alternativi e 5 iniettori d’acqua. La profondità d’acqua è compresa tra i 1000 e i 1500 metri. Un secondo progetto di sviluppo simile è inoltre in corso di esecuzione (East Hub) per sfruttare le riserve scoperte nella zona nord-orientale dello stesso blocco».

«Se in Laguna il Consorzio Venezia Nuova ha sponsorizzato di tutto per procacciarsi le simpatie dei veneziani, in Salento le cose hanno preso una piega diversa».

La Repubblica, 21 luglio 2014 (m.p.r.)

Marina di Melendugno (Lecce). Le canne sono queste piante sottili e dinoccolate che spuntano dalle dune di sabbia e, oggi, che è giorno di maestrale, vengono strappate e sbattute in un mare cristallino. «Ecco, noi non possiamo lasciarci trascinare dall’opportunità, come se fossimo canne al vento. Non svendiamo il territorio. Abbiamo l’obbligo di tutelare il territorio e la nostra festa». Con queste parole qualche giorno fa l’arcivescovo di Lecce, monsignor Domenico D’Ambrosio, ha spiegato che l’Italia non è tutta uguale.

Se in Laguna il Consorzio Venezia Nuova ha sponsorizzato di tutto per procacciarsi le simpatie dei veneziani, in Salento le cose hanno preso una piega diversa: il vescovo ha infatti bloccato un finanziamento da qualche decina di migliaia di euro che la Tap, l’azienda del gasdotto della discordia, era pronta a versare alla festa di Sant’Oronzo, il patrono dei leccesi. Tap (Trans Adriatic Pipeline) è acronimo di colosso. È la sigla che ha messo sul banco 40 miliardi di euro per realizzare un gasdotto che partendo dall’Azerbaijan dovrà arrivare qui, sulle coste del Salento, in uno dei mari più belli d’Italia. Il governo dovrà entro la fine del mese rilasciare la valutazione d’impatto ambientale necessaria per l’opera e, per questo, favorevoli e contrari nelle ultime settimane hanno riacceso il dibattito.
Da mesi in questa terra non si parla d’altro: seppure Tap assicuri che non ci sarà alcun disastro, che tutto rimarrà bello com’è, in molti (dalle associazioni ambientaliste alla Regione Puglia di Vendola che ha espresso però un parere non vincolante) hanno espresso dubbi sulla scelta dell’approdo del gasdotto. L’opera arriverà proprio in uno dei territori più belli e più a vocazione turistica d’Italia: perché? «È la scelta meno impattante» dicono alla Tap, che però, visti anche gli attacchi, negli ultimi giorni si è detta possibilista su un cambio di destinazione.
Le polemiche intanto sono tantissime. Tant’è che, per accattivarsi le simpatie dei salentini, la società da qualche settimana ha cominciato una campagna pubblicitaria che però non ha avuto l’esito sperato. Nei mesi scorsi l’azienda aveva offerto al comune di Melendugno cinque milioni di euro per uno studio sull’erosione delle coste, che qui è come dire la peste: la costa cede e la stagione balneare è stata a rischio fino all’ultimo. Ma il sindaco Marco Potì, giovane socialista, ha detto «no grazie: non vorremmo che qualcuno potesse pensare che si sta provando a comprare il nostro consenso». E quindi 9.328 abitanti hanno rifiutato i fondi.
Sembrava una mossa estemporanea, invece era soltanto l’inizio. Dieci giorni fa, dopo le polemiche per un logo Tap esposto nella festa di Santa Domenica a Scorrano (un tripudio di luminarie), è arrivato il no del vescovo e a ruota del sindaco, Paolo Perrone, per Sant’Oronzo a Lecce. Pochi giorni dopo Tap ha presentato un calendario di eventi da sponsorizzare nell’estate salentina: feste patronali, sagre, per un budget da 350mila euro. In pochi giorni a uno a uno tutti gli organizzatori degli eventi si sono sfilati, seguendo l’esempio d Sant’Oronzo: «Tap? No, grazie», niente finanziamento. Roy Paci ha fatto saltare un concerto, poi è toccato alla Festa della Birra, poi i Sud Sound System, la festa di San Rocco, persino il capitano e la bandiera del Lecce, Fabrizio Miccoli, ha detto: «No, la Tap no».
«Si è scatenato un vero e proprio assalto squadristico, che ha creato un clima di tensione e violenza incompatibile con lo spirito con cui l’azienda aveva pensato di sostenere il territorio negli eventi estivi» dicono oggi dalla società, che ha pensato anche ai gratta e vinci e a gadget per promuovere con i turisti l’immagine del Salento.
Sarà, ma intanto ieri pomeriggio, sulla spiaggia degli Alimini, un venditore ambulante giurava: «Correte, correte, il cocco fresco è meglio della Tap».

Ricordiamo le «ragioni di fondo del movi­mento sceso in piazza nel 2001», a Genova: un momento importante del movimento di contrasto alla nuova devastante fase globale della storia del capitalismo. Le ragioni di allora, i torti dello stato, l’impegno di oggi.

Il manifesto online, 20 Luglio 2014

In que­ste gior­nate per noi così evo­ca­tive, con tre­dici anni dif­fi­cili alle spalle, due pen­sieri si sovrap­pon­gono. Uno riguarda la dimen­sione poli­tica del movi­mento nato per con­tra­stare il pen­siero unico neo­li­be­ri­sta, l’altro le dina­mi­che repres­sive e di limi­ta­zione della demo­cra­zia. Que­stioni che si intrec­ciano e che sono oggi il fon­da­mento di una nuova consapevolezza.

In que­sto 2014 con la cosid­detta crisi – giunta al suo set­timo anno – che si rivela in realtà un sistema di governo e di domi­nio desti­nato a durare, può sem­brare per­fino super­fluo rimar­care la fon­da­tezza e l’attualità delle ragioni di fondo del movi­mento sceso in piazza nel 2001. Potremmo par­lare a lungo del domi­nio della finanza, delle oli­gar­chie sovra­na­zio­nali che sot­trag­gono demo­cra­zia, del neo­co­lo­nia­li­smo e del debito come leva di potere del forte con­tro il debole, della logica di guerra che ispira l’ideologia del libero mer­cato, cioè dei temi affron­tati nei semi­nari, nei forum e nelle ini­zia­tive pub­bli­che di allora, ma pos­siamo limi­tarci a far notare che in que­sti anni si è avuta una radi­ca­liz­za­zione del pen­siero unico e dei suoi stru­menti di dominio.

E che le chiavi di let­tura intro­dotte dal movi­mento con­tro il neo­li­be­ri­smo a cavallo del mil­len­nio sono oggi impre­scin­di­bili se vogliamo capire quel che dav­vero accade nell’economia glo­bale e nel suo sistema di governo. Altro che “crisi”, altro che “cre­scita da rilan­ciare”: siamo più che mai di fronte alla neces­sità di uscire dalle gab­bie men­tali, sociali e poli­ti­che di un sistema desti­nato a soprav­vi­vere a se stesso accre­scendo il livello di autoritarismo.

Genova 2001 portò novità dirom­penti anche nel modo di fare poli­tica, d’essere attivi nella società. Impa­rammo in quei giorni a ragio­nare in ter­mini glo­bali, a lavo­rare con spi­rito di coo­pe­ra­zione, a pren­dere deci­sioni cer­cando di allar­gare il con­senso, a favo­rire la par­te­ci­pa­zione dal basso. Que­sta lezione di metodo è il tesoro più pre­zioso di cui ancora dispo­niamo, ed è da que­sto tesoro che dovremmo attin­gere nel guar­dare al domani, in una fase sto­rica per­vasa da un senso di scon­fitta che rischia d’essere paralizzante.

Le migliori espe­rienze di movi­mento emerse in que­sti anni – pen­siamo a Occupy Wall Street, agli Indi­gna­dos spa­gnoli e anche del Movi­mento ita­liano per l’acqua pub­blica — sono tutte carat­te­riz­zate da un alto livello di com­pe­tenza, dalla cen­tra­lità di nuove figure sociali igno­rate dalla poli­tica uffi­ciale (il pre­ca­riato gio­va­nile, i migranti), da un’originale atti­tu­dine al plu­ra­li­smo, da una forte capa­cità di attrarre par­te­ci­pa­zione popo­lare, da una ten­denza a svi­lup­parsi per vie oriz­zon­tali senza derive gerar­chi­che o leaderistiche.

Se una nuova con­vin­cente idea di sini­stra non si è ancora affer­mata nella società e negli ambiti isti­tu­zio­nali, è anche per­ché in que­sti anni, nei vari ten­ta­tivi messi in campo, si è caduti nelle anti­che logi­che del per­so­na­li­smo, delle forme ver­ti­cali di orga­niz­za­zione, sof­fo­cando di fatto la crea­ti­vità dif­fusa e la voglia stessa di par­te­ci­pare. E non si è inve­stito abba­stanza, a nostro avviso, nella con­creta ela­bo­ra­zione di un cre­di­bile pro­getto poli­tico di “con­ver­sione” dell’economia, in grado di dare rispo­ste alle urgenze del momento – in testa la disoc­cu­pa­zione di massa — e d’essere “capace di futuro”.

Dice­vamo che un altro pen­siero preme in que­sti giorni in cui cade la ricor­renza del G8 geno­vese. Riguarda l’esercizio dei diritti civili, la qua­lità della demo­cra­zia ita­liana. E’ un punto sul quale non pos­siamo farci illu­sioni, ma che dev’essere dal cen­tro della nostra atten­zione. La pre­po­tenza isti­tu­zio­nale, al limite dell’eversione, che carat­te­rizzò le gior­nate del luglio 2001 è ormai con­se­gnata alla sto­ria, sotto forma di sen­tenze della magistratura.

Sotto que­sto pro­filo abbiamo otte­nuto risul­tati di por­tata sto­rica, con le con­danne per la Diaz e per Bol­za­neto e la sospen­sione dai pub­blici uffici di altis­simi diri­genti della poli­zia di stato. Risul­tati che certo non miti­gano la sof­fe­renza al pen­siero che dieci per­sone sono state impri­gio­nate con con­danne pesan­tis­sime e spro­por­zio­nate, per­sone che stanno pagando sulla loro pelle – in maniera pro­fon­da­mente ingiu­sta e inu­mana – quella spe­cie di com­pen­sa­zione che è stata con­cessa all’istituzione-stato, insieme con i man­cati pro­cessi per l’omicidio di Carlo Giu­liani e per il vili­pen­dio del suo cada­vere, a fronte della mise­ra­bile prova offerta in piazza, nelle scuole, nelle caserme e nei tri­bu­nali di Genova da nume­rosi fun­zio­nari e diri­genti delle forze dell’ordine.

Molti, troppi abusi e vio­lenze fino all’omicidio hanno mac­chiato negli ultimi anni le varie forze di poli­zia per poter dire che la “lezione di Genova” è stata accolta ed ela­bo­rata den­tro gli appa­rati di sicu­rezza. Forse è avve­nuto il con­tra­rio. Si è cioè affer­mata, in rispo­sta alle con­danne di Genova e al fal­li­mento del ten­ta­tivo di osta­co­lare il corso della giu­sti­zia, un’evasione dai canoni della demo­cra­zia che rischia d’essere inarrestabile.

La chiu­sura cor­po­ra­tiva è addi­rit­tura erme­tica. Niente sap­piamo di quel che avviene nella caserme, dei cri­teri di for­ma­zione degli agenti, di come sono state rece­pite le cla­mo­rose sen­tenze geno­vesi. La stessa nuova fase poli­tica, tutta all’insegna della rot­ta­ma­zione e del “nuovo che avanza” non ha toc­cato i gruppi di potere ai ver­tici degli appa­rati. Lì non si annun­ciano rivo­lu­zioni e si pensa sem­mai – dob­biamo sup­porre –a strin­gere l’ennesimo patto di potere in chiave neoautoritaria.

E’ dun­que tutto per­duto? Noi cre­diamo di no e pen­siamo che valga ancora la pena col­ti­vare l’idea che l’etica demo­cra­tica dev’essere la bus­sola per tutte le isti­tu­zioni sta­tali, anche per gli appa­rati di poli­zia. E’ una sfida che può essere affron­tata a patto che cia­scuno fac­cia la sua parte: in par­la­mento, nella società, fra gli stessi agenti coscienti della deriva anti­de­mo­cra­tica che sono costretti a subire.

Le nostre pro­po­ste sono note: dai codici di rico­no­sci­mento sulle divise, alla revi­sione dei cri­teri di for­ma­zione degli agenti, all’abolizione della riserva dei posti in poli­zia per chi abbia pre­stato ser­vi­zio nelle forze armate. Fino a una vera legge sulla tor­tura. Quindi una legge diversa da quella appro­vata in prima let­tura al senato, un testo ina­de­guato per­ché non qua­li­fica la tor­tura come reato spe­ci­fico del pub­blico uffi­ciale né pre­vede il prin­ci­pio della non prescrivibilità.

Ecco un con­creto fronte d’impegno per le pros­sime set­ti­mane e mesi: una cam­pa­gna per cam­biare un testo di legge che pare pen­sato in un paese diverso dall’Italia, come se a Genova nel 2001 o den­tro caserme e car­ceri anche negli anni seguenti, non fosse avve­nuto niente. Come se i giu­dici non aves­sero scritto la parola tor­tura – senza poter appli­care una pena con­grua – nella sen­tenza di con­danna per i fatti di Bolzaneto.

E’ il minimo che pos­siamo fare per chi ha vis­suto sulla pro­pria pelle ciò che una volta abbiamo chia­mato l’eclisse della democrazia.

«La fine del Marcianum creato dal cardinale Scola fa affiorare un retroscena del 2008: la Regione governata da Galan dirottò, per quel progetto, 50 milioni di fondi della Legge speciale originariamente destinati al disinquinamento della laguna».

La Nuova Venezia, 20 luglio 2014 (m.p.r.)

Venezia. E’ saltato come un castello di carte, sotto i contraccolpi politici e istituzionali dell’inchiesta sui fondi deviati per il Mose, l’ambizioso progetto della Fondazione Studium Generale Marcianum che l’allora Patriarca di Venezia (dal 2002 al 2011) e ora arcivescovo di Milano Angelo Scola aveva edificato in pochi anni, dalla fine del 2007, con l’appoggio determinante della Regione guidata allora da Giancarlo Galan e l’appoggio strategico di aziende come il Consorzio Venezia Nuova, il cui presidente di allora Giovanni Mazzacurati fu dall’inizio anche presidente del Consiglio di amministrazione.
La decisione obbligata presa ora dal nuovo Patriarca di Venezia Francesco Moraglia di “smantellarlo”, chiudendo - dopo quello che era già avvenuto per il polo scolastico delle medie e del liceo - anche la Facoltà di Diritto Canonico, l’Istituto Superiore di Scienze Religiose e il Convitto Internazionale, facendone solo un istituto di ricerca, è la fine della “creatura” di Scola. E non a caso il nuovo Patriarca -con un’evidente chiamata di corresponsabilità nei confronti del suo predecessore per la situazione che gli ha lasciato in eredità- si è recato a Milano, come ha tenuto a far sapere, per chiedere al cardinale se volesse lui, e a sue spese , “salvare” il Marcianum, ricevendone ovviamente un rifiuto.
E se, come ha sottolineato in questi giorni lo stesso Scola, i fondi erogati dalla Regione e dalle imprese a favore del Patriarcato per il Marcianum sono stati regolarmente approvati da quelle istituzioni, è però nel clima dell’uso improprio dei fondi per la salvaguardia di Venezia che il polo culturale ecclesiastico in laguna si è fondato ed è poi affondato. Lo dicono le cronache, visto che la Regione decise anni fa di sottrarre per la prima volta 50 milioni di euro di fondi della Legge Speciale per il disinquinamento della laguna, di cui è chiamata a occuparsi, per destinarli appunto tutti al Patriarcato di Scola, per il restauro del Palazzo Patriarcale di Piazzetta dei Leoncini, per quello della Basilica della Salute e soprattutto per la ristrutturazione del Seminario Patriarcale della Salute, destinato a ospitare il Marcianum, trasformato in un complesso polifunzionale con una foresteria da 70 camere con bagno, destinate agli ospiti del polo universitario.
Più che un restauro, una nuova destinazione del complesso, con spazi anche di ristoro, sale multimediali, biblioteca, spazi espositivi e sale congressi. Anche l’intervento per il Palazzo della Curia, più che a un restauro in senso stretto, rispose a una filosofia di modernizzazione di tutto l’edificio, prevedendo anche qui una foresteria, uffici e nuove sale di accoglienza. Di fronte alle polemiche per l’uso “improprio” di quei fondi girati al Patriarcato, Galan non fece una piega. «È la dimostrazione» dichiarò, «che la Regione non si occupa solo del Mose, ma ha a cuore anche la salvaguardia monumentale della città». E la Regione -socio fondatore dell’istituzione- con lui, non lasciò più solo il Marcianum voluto da Scola, anche per la «realpolitik» del cardinale nel mondo del cattolicesimo e delle comunità mediorientali, aggregate intorno alla rivista «Oasis» nel nome del suo celebre slogan del “meticciato di civiltà”.
\Con un provvedimento del 2008, infatti, Palazzo Balbi decide subito di stanziare 250 mila euro all’anno, dal 2009 al 2011 per il sostegno delle attività del Marcianum, prelevandole dal capitolo destinato alla formazione professionale. Finanziamenti per il funzionamento del Marcianum furono assicurati annualmente anche dal Consorzio Venezia Nuova e dalle altre aziende che hanno accompagnato la nascita del polo. Fino alla partenza di Scola per Milano. Il sistema istituzionale e imprenditoriale creato intorno al Marcianum dall’attuale arcivescovo di Milano che ne aveva consentito l’ambiziosa creazione e lo sviluppo si è di fatto dissolto con l’uscita di scena di Galan - il grande “alleato” - e con il suo addio a Venezia. Un polo culturale crollato, perché - come ha detto ora Moraglia - non poteva «dipendere a doppio filo dagli sponsor». Pubblici o privati.
«Nell’affollata assem­blea nazio­nale tenuta ieri al tea­tro Vit­to­ria di Roma, più di 500 per­sone hanno cer­cato di svi­lup­pare un metodo dif­fi­cile basato sul con­senso e sulle solu­zioni con­di­vise, più che su quello basato su una "testa, un voto"».

Il manifesto, 20 luglio 2014 con postilla

Anni di con­tra­sti non si can­cel­lano con un colpo di spu­gna. In un tempo ragio­ne­vole, ma non breve, Sini­stra Eco­lo­gia e Libertà e Rifon­da­zione Comu­ni­sta, le asso­cia­zioni e i gruppi che com­pon­gono l’«Altra Europa con Tsi­pras» stanno cer­cando di fare tesoro delle dif­fe­renze e delle debo­lezze di tutti.

Nell’affollata assem­blea nazio­nale tenuta ieri al tea­tro Vit­to­ria di Roma, più di 500 per­sone hanno cer­cato di svi­lup­pare un metodo dif­fi­cile basato sul con­senso e sulle solu­zioni con­di­vise, più che su quello basato su «una testa, un voto».

Gli equi­li­bri restano pre­cari e rischiano di creare pre­ci­pi­ta­zioni in vista delle pros­sime ele­zioni regio­nali in Cala­bria e in Emi­lia Roma­gna, dove si voterà a novem­bre e i par­titi della sini­stra con i Verdi e il Pd sono stati in mag­gio­ranza negli ultimi cin­que anni. O in Puglia dove, ad un anno dalla sca­denza del man­dato da gover­na­tore di Nichi Ven­dola, il pre­si­dente della giunta per le ele­zioni del senato Dario Ste­fàno (Sel) ha uffi­cia­liz­zato la sua can­di­da­tura alle pri­ma­rie del centro-sinistra, agi­tando le acque tra le com­po­nenti dell’Altra Europa favo­re­voli ad una con­sul­ta­zione della base prima di defi­nire le alleanze.

Allearsi, o meno, local­mente con il par­tito demo­cra­tico di Renzi [su eddyburg lo definiamo il PMR- n.d.r] può essere un boc­cone indi­ge­sto per la lista Tsi­pras, un ’espe­rienza che ha fatto dell’anti-renzismo, della lotta con­tro l’austerità e con­tro quello che Marco Revelli defi­ni­sce il «popu­li­smo dall’alto», ban­diere da sven­to­lare in Ita­lia e in Europa con­tro le lar­ghe intese tra popo­lari e socialisti.

Il posi­zio­na­mento elet­to­rale non è l’unico pro­blema dell’Altra Europa con Tsi­pras, ma può con­di­zio­nare la cre­di­bi­lità della sua pro­po­sta poli­tica. Lo sdop­pia­mento delle alleanze alle ultime regio­nali in Pie­monte e in Abruzzo dove Sel si è alleata con il Pd men­tre dava indi­ca­zioni di voto per Tsi­pras alle Euro­pee ha pena­liz­zato il risul­tato della lista. Lo stesso pro­blema è tor­nato a galla nei gruppi di lavoro che, nel pome­rig­gio di ieri, hanno affron­tato le que­stioni orga­niz­za­tive e programmatiche.

Le posi­zioni in campo sono almeno due: quella più netta «mai con il Pd» soste­nuta in un docu­mento pro­mosso dal can­di­dato alle euro­pee Dome­nico Fini­guerra e quella, più sfu­mata, pro­po­sta da Eleo­nora Forenza (Prc) sulle con­sul­ta­zioni ter­ri­to­riali con la base prima di sta­bi­lire le alleanze. Per l’eurodeputata la que­stione è sostan­ziale: «Sono le alleanze sociali a defi­nire il posi­zio­na­mento poli­tico, non vice­versa. Se can­didi tre atti­vi­sti No Tav, è dif­fi­cile allearsi con il Pd che difende il Tav». Il rischio è quello di fare spa­rire il ten­ta­tivo uni­ta­rio che ha con­trad­di­stinto l’Altra Europa.

Al momento, non c’è in que­sto spa­zio poli­tico un livello deci­sio­nale rico­no­sciuto capace di diri­mere la que­stione. Nel corso dei lavori del pome­rig­gio, Paolo Cento (Sel) ha soste­nuto che «l’assemblea nazio­nale dell’Altra Europa non ha titolo per deci­dere sulle alleanze alle regio­nali ed è pre­fe­ri­bile lasciare deci­dere i ter­ri­tori». La discus­sione resta aperta alla pos­si­bi­lità di spe­ri­men­tare alleanze con le liste civi­che sul modello della «rete delle città soli­dali» che ha avuto una buona affer­ma­zione in città come Pisa.

È stata così pro­spet­tata una solu­zione inter­lo­cu­to­ria: creare una con­sul­ta­zione nei ter­ri­tori prima di defi­nire una col­lo­ca­zione poli­tica, abban­do­nando il per­corso ver­ti­ci­stico che ha con­trad­di­stinto la lista fino ad oggi. «Le ammi­ni­stra­tive restano un pro­blema anche per Syriza – ha rico­no­sciuto Mas­simo Torelli di Alba – Anche se è il primo par­tito in Gre­cia, alle ultime ele­zioni non è riu­scita ad affer­marsi in due regioni impor­tanti per­ché alcuni com­po­nenti della sua rete hanno pre­fe­rito altre alleanze. Il modello poli­tico adot­tato a livello nazio­nale è dif­fi­cile da espor­tare sul piano locale in Gre­cia come in Italia».

Il dilemma non è solo tat­tico, ma poli­tico. E mette in discus­sione la recente sto­ria della «sini­stra radi­cale». Bar­bara Spi­nelli ne è con­sa­pe­vole. «Rischiamo di restare pri­gio­nieri di una sin­drome che può creare divi­sioni — afferma l’eurodeputata — Non ci sal­ve­remo se ci con­cen­triamo solo sulle ele­zioni. La nostra forza nascerà da un pro­gramma incen­trato su un “New Deal” della demo­cra­zia, della cul­tura e del lavoro in Ita­lia e in Europa e non dalla col­lo­ca­zione elet­to­rale. Se non ci riu­sci­remo alle regio­nali, saremo pronti per le poli­ti­che. Non divi­dia­moci sulle regio­nali quando un sog­getto poli­tico ancora non c’è».

San­dro Medici, già can­di­dato alle euro­pee, vede una «reti­cenza» sulle forme orga­niz­za­tive da dare all’Altra Europa: «Andiamo avanti per appros­si­ma­zioni suc­ces­sive — afferma — ma l’incastro è dif­fi­cile. Se spingi sul pedale dell’opposizione, si pos­sono creare divi­sioni. E quindi c’è chi non vuole ini­ziare divi­den­dosi. È sem­pre pos­si­bile che, alla lunga, que­sto pro­cesso por­terà ad una niti­dezza, ma per il momento si gal­leg­gia. Siamo in una situa­zione tra­gica: la sini­stra è irri­le­vante men­tre cre­sce la povertà, la disoc­cu­pa­zione e la repres­sione». L’urgenza è uscire da que­sto incantesimo.

«La dif­fe­renza si fa sulle pra­ti­che e non sulla tat­tica. Solo così è pos­si­bile recu­pe­rare la cre­di­bi­lità che a mio avviso è stata persa quando Spi­nelli non ha man­te­nuto l’impegno di lasciare il seg­gio a Bru­xel­les dopo l’elezione» sostiene Luca Spa­don che par­te­cipa alla cam­pa­gna Act! lan­ciata da stu­denti e pre­cari della lista Tsi­pras. La pro­spet­tiva dell’Altra Europa dovrebbe essere quella di «farsi lie­vito» e «mol­ti­pli­ca­tore» dei comi­tati poli­tici esi­stenti e delle istanze dei movi­menti che «oggi ci guar­dano con dif­fi­denza o si rivol­gono al movi­mento 5 Stelle» sostiene Finiguerra.

È fitta l’agenda in vista dell’autunno.L’Altra Europa si schie­rerà in molte mani­fe­sta­zioni di oppo­si­zione al governo. Il momento «clou» sarà un cor­teo pro­gram­mato a Roma il 13 dicem­bre. Si andrà in piazza il 18 otto­bre con la Fiom, il 14 novem­bre con gli stu­denti con­tro il «Jobs Act» Renzi-Poletti. Gior­gio Cre­ma­schi, dell’associazione Ross@, ha invi­tato l’Altra Europa a par­te­ci­pare all’assemblea di fine set­tem­bre che pro­se­guirà il «con­tro­se­me­stre popo­lare» a cui par­te­cipa un ampio car­tello di sin­da­cati di base, par­titi e gruppi della sinistra.

L’assemblea di ieri ha deciso l’allargamento dell’attuale coor­di­na­mento for­mato da 44 per­sone ai mem­bri dei comi­tati ter­ri­to­riali. Que­sto gruppo esteso coor­di­nerà le atti­vità fino a set­tem­bre. Ver­ranno eletti por­ta­voce locali che rispet­te­ranno la parità di genere. Per quelli nazio­nali si vedrà nelle pros­sime set­ti­mane. Un nuovo incon­tro nazio­nale dell’Altra Europa verrà fis­sato a novembre.

postilla.
A mio parere la direzione di marcia deve essere la rinuncia alle molteplici identità, ieri aggregate nella lista "con Tsipras", e la costruzione di un nuovo soggetto politico caratterizzato da una nuova identità (ideale, sociale strategica, programmatica, organizzativa). La base della nuova identità è rinvenibile nei documenti su cui è nata la lista "con Tsipras". Senza nascondersi i problemi del transito, né le sue difficoltà, le incertezze e gli errori che potranno compiersi, non vedo altre strade. Il rischio di ripetere i fallimenti storici delle sinistre italiane e i tentativi rivelatisi velleitari dei movimenti sociali è molto elevato.
La fine della centralità della classe operaia e l'individuazione del nuovo soggetto sociale da assumere come riferimento di classe è forse la direzione nella quale le intelligenze devono lavorare di più. "Cercare ancora", diceva ieri Claudio Napoleoni e ripete oggi Marco Revelli.

«Dalla cessione del gruppo Pirelli ai russi per pochi euro all'annunciata vendita di Saipem da parte dell'Eni. Fino alle ultime vicende che riguardano Alitalia, Ilva e Indesit. Il governo italiano resta alla finestra mentre l'industria italiana finisce nelle mani dei grandi gruppi industriali stranieri».

Sbilanciamoci.info, 12 luglio 2014 (m.p.r.)

Per quanto riguarda il controllo delle imprese grandi e medio-grandi del nostro paese le notizie non sono più quelle di una lenta ritirata del capitale nazionale, ma di una rotta sostanzialmente disordinata. Nell’ultimo periodo abbiamo così assistito, tra l’altro, alla pratica cessione del gruppo Pirelli ai russi per pochi euro e del controllo del Monte dei Paschi, tra l’altro a investitori sudamericani, sempre per una manciata di soldi. Intanto l’Eni annuncia la vendita di quella grande impresa che è la Saipem e, naturalmente, dal momento che non si troveranno investitori nazionali disponibili, l’ambita preda finirà in mani lontane. Anche la annunciata e insensata privatizzazione di Fincantieri -un’impresa che da qualche tempo naviga sulla giusta rotta e che dovrebbe semmai essere aiutata ad espandersi ancora-, potrebbe portare qualche sgradevole sorpresa sul fronte della proprietà; con questo governo c’è sempre da aspettarsi il peggio.

Ma ora, in attesa di altri annunci della stessa natura, fanno notizia soprattutto le vicende di Indesit, Ilva, Alitalia.

Per quanto riguarda quest’ultima, l’epilogo della vicenda sembra vicino, con i sindacati posti di fronte alla drammatica alternativa di accettare, e in fretta, dei pesanti tagli all’occupazione o vedere a questo punto la chiusura definitiva della compagnia; non esistono in effetti altre soluzioni, di fronte tra l’altro ad un interlocutore, quello arabo, che, sapendo di avere il coltello dalla parte del manico, ha avanzato richieste molto pesanti anche alle banche, tra l’altro indurendo le sue richieste nei loro confronti diverse volte negli ultimi mesi. Con una conclusione in qualche modo positiva della vicenda si chiuderebbe peraltro uno scandalo, che dura da sessanta anni, di spreco di risorse pubbliche, di immistione senza freni della politica più deteriore nelle vicende della compagnia, di gravi incompetenze di gestione.

Per quanto riguarda l’Indesit, si è chiusa una falsa asta tra produttori americani, tedeschi e cinesi per la conquista della compagnia. In realtà, si sapeva da tempo che avrebbe vinto la statunitense Whirlpool, anche se, ad esempio, l’offerta cinese era economicamente migliore e quella tedesca politicamente più opportuna. Si sussurra, in effetti, che l’attuale amministratore delegato della società marchigiana fosse da tempo in relazioni di amicizia con il responsabile europeo della stessa Whirlpool e che i due, di fronte anche ad azionisti disorientati e passivi, si fossero messi d’accordo sulla transazione già da molto tempo. Bisognerà stare almeno attenti, ora, perché la nuova proprietà rispetti le decisioni di quella vecchia in merito ai recenti impegni assunti in termini di investimenti ed occupazione, anche se, di nuovo, con l’attuale governo non c’è da sperare molto in questo senso.

Ma indubbiamente la partita più rilevante per il paese si gioca in questo momento sull’Ilva. Le notizie di queste ore parlano di una garanzia da parte del governo verso il sistema bancario perché continui almeno per il momento ad alimentare le casse della società ormai al limite dell’asfissia; di una pratica defenestrazione di Ronchi, sub-commissario per le questioni ambientali, in pratica costretto a dare le dimissioni; del mancato e parallelo rifiuto, almeno per il momento, dello stesso governo ad utilizzare gli 1,8 miliardi di euro, a suo tempo sequestrati dalla magistratura, per il risanamento ambientale e per i nuovi investimenti necessari alla ripresa dell’azienda. Intanto proseguono le trattative, sembra esclusive, con Arcelor Mittal per una cessione della compagnia.

Le notizie che arrivano non sono dunque confortanti. Il governo, con una rappresentante della Confindustria come la Guidi nella sua compagine, cerca di dare il minor fastidio possibile ai capitalisti nostrani, trattando con i guanti gialli la stessa famiglia Riva; intanto esso, apparentemente, si disinteressa del risanamento ambientale, mentre a Taranto si continua a morire e ad ammalarsi e mentre il calo recente delle emissioni nocive sembra dovuto in buona misura alla chiusura, più o meno momentanea, di una parte degli impianti; d’altro canto, si è scelto per l’intervento nel capitale l’interlocutore sbagliato, quella indiana Arcelor Mittal che è già fortemente presente in Europa, dove ha già una capacità produttiva largamente in eccesso. Un suo intervento nel capitale dell’Ilva, motivato quindi semplicemente con il tentativo di impedire l’ingresso nella compagine azionaria dei concorrenti cinesi o coreani, significherebbe probabilmente un taglio abbastanza drastico degli impianti e conseguentemente dell’occupazione. La vicenda continua a svolgersi peraltro con il possibile ed ulteriore intervento della magistratura.

Auspichiamo da tempo che, a difesa degli interessi dei lavoratori e dello stesso sviluppo dell’economia nazionale, che nella nuova compagine azionaria entri, in posizione di rilievo, una qualche entità pubblica, la Cassa Depositi e Prestiti o lo stesso Tesoro. Ma c’è da sperare qualcosa in tale direzione visto l’orientamento fanaticamente liberista dell’attuale governo e avendo la sensazione che ai posti di comando siano presenti molti dilettanti allo sbaraglio?

Il testo integrale della relazione che aprirà l'Assemblea della lista "L'altra Europa con Tsipras, che si tiene il 19 luglio 2014 a Roma. Un'analisi ineccepibile del nuovo quadro politico Un premessa alla formazione delle liste di un' alternativa politica nelle prossime scadenze elettorali. E soprattutto la traccia di un percorso difficile ma indispensabile per uscire dall'abisso

Partiamo di qui, l’unico dato incontestabile: il 25 maggio abbiamo raggiunto la famigerata soglia del 4%. Per 8.333 voti (tre centesimi di punto percentuale) siamo entrati tra le realtà politiche che “esistono”. Sarebbe un grave errore sottovalutare l’importanza di questo dato. Intanto perché nell’universo mediatico e politico (che ormai tendono a coincidere) non c’era quasi nessuno disposto a scommettere nemmeno un centesimo bucato su quella “esistenza”, tanto abituati erano ai nostri naufragi. E poi perché la differenza tra l’esser sopra o sotto quell’asticella (ricordiamolo, incostituzionale), anche di un solo pelo in più o in meno, è enorme. Un fallimento avrebbe significato la liquidazione di ogni possibilità anche solo di immaginare una sinistra alternativa in Italia per lungo tempo. Certo anni. Forse decenni, in un momento in cui l’approfondimento e la cronicizzazione della crisi economica e sociale pongono la questione del destino della democrazia in termini drammatici. L’essere invece tra i “salvati” anziché tra i “sommersi”, se di per sé non ci garantisce con sicurezza, lascia però aperto il discorso sul futuro.

Certo, il nostro 4,03% può apparire poca cosa se confrontato con il peso delle altre sinistre europee a noi simili, quasi tutte comprese nella fascia tra il 10 e il 20 per cento che costituisce oggi il campo di oscillazione delle nostre potenzialità: non parliamo di Syriza, che con il suo 26,6% (1.516.699 voti, in un Paese con una popolazione di quasi sei volte inferiore all’Italia!) ha costituito la vera notizia di queste elezioni, ma di Podemos in Spagna (il cui straordinario 8% si somma al quasi 10% di Izquierda Plural, sfiorando il 18%), del Sinn Féin in Irlanda, con il suo 19,5%, della stessa Linke che sfiora l’8% nelle condizioni proibitive per la sinistra in Germania oggi… Nel valutarlo nella sua giusta misura però non dobbiamo dimenticare lo stato comatoso in cui si trovava la sinistra di alternativa italiana alla vigilia della scadenza elettorale, delegittimata dalle sue sconfitte e dalle sue divisioni. Minacciata e svuotata in larga parte del proprio elettorato da due, simmetriche e devastanti, innovazioni del sistema politico italiano come il “grillismo” (prima) e il “renzismo” (poi), entrambi determinati a impiegare spregiudicatamente, su opposti versanti, l’appello in chiave populista alla “discontinuità” di sistema. Né possiamo trascurare le condizioni, per certi versi improbe, in cui si è dovuta combattere la battaglia elettorale, anomale pur in un quadro europeo plumbeo per l’inedita compattezza con cui il sistema mediatico nel suo complesso (pressoché tutta la stampa di diffusione di massa, l’universo televisivo al completo) ha cancellato ogni forma di vita al di fuori del duopolio personale Renzi-Grillo. E la confraternita dei sondaggisti al gran completo (esclusa la Demos di Ilvo Diamanti) impegnata a sfornare profezie che si auto-adempiono accreditandoci su percentuali ridicole.

Per questo è giusto considerare quel milione centotremila duecentotre voti come un “piccolo miracolo”. Ed è di lì, dalla sua dimensione ma soprattutto dalla sua composizione, che dobbiamo partire per ragionare su come andare avanti. Ma ragionando sul serio. In modo spregiudicato. Cioè sforzandoci di non raccontarcela. Di guardare le cose per come sono e non per come vorremmo che fossero. E allora, diciamocelo subito, quel “piccolo esercito” non è un insieme omogeneo. Non è nemmeno un campione rappresentativo della popolazione. Non è un “esercito popolare”. Il voto ha selezionato un settore molto particolare di elettorato: i “refrattari”, potremmo dire, di un po’ tutte le famiglie politiche dell’articolata sinistra. Gli eretici per vocazione o per convinzione. Quelli che “non ci stanno”.

Intanto è un voto differenziato geograficamente. Non è vero quanto affermato da molti commentatori politici, secondo cui i nostri elettori sarebbero distribuiti omogeneamente sul territorio nazionale. Siamo andati bene al Centro – nell’Italia in fondo socialmente e politicamente più stabile -, dove abbiamo fatto il 4,70, in particolare in Toscana (5,12), nel Lazio (4,78, con Roma provincia al 5,29 e Roma comune al 6,16!); e dove abbiamo preso quasi 270.000 voti (80.000 in più del Nuovo Centro Destra, 150.000 in più della Lega di Salvini in versione populista nazionale), più di un quarto del nostro elettorato. Bene anche al Sud (con 239.000 voti e il 4,15%): la sola altra circoscrizione dove abbiamo superato la soglia, con un risultato eccezionale in Basilicata (5,67%), quasi incredibile in Molise (4,54), onorevole in Calabria (4,21) e in Puglia (4,27), un po’ meno in Campania (3,80, con l’eccezione della provincia di Avellino – 4,80 – dove Franco Arminio ha evidentemente lasciato il segno). In una circoscrizione “difficile”, solitamente considerata esposta al voto di scambio e alla presenza della destra, siamo praticamente alla pari con gli eredi di AN e di soli 40.000 voti sotto il partito di Alfano.

Siamo invece andati male nel terremotato (socialmente) Nord-Est, dove Renzi ha sfondato su tutti i fronti, svuotando Grillo, Lega e Berlusconi (i vincitori di ieri e l’altro ieri), e dove invece noi abbiamo registrato il quoziente più basso (3,66), con il buco nero del Veneto (2,74), e in particolare della provincia di Rovigo, il capoluogo in assoluto più basso col 2,44%. Nord Ovest e Isole stanno di poco più sopra rispettivamente col 3,81 e 3,70 (con però un’insperata Valle d’Aosta al 7,68%, merito di Rosa Rinaldi e della sua task force). Il che significa che siamo sotto in tutto il Nord, in Sicilia e in Sardegna.

E’ un voto, d’altra parte, prevalentemente urbano. Siamo andati generalmente bene nelle città, in quelle grandi e grandissime: Roma, come si è detto, ma anche a Milano (6,48) e Torino (6,57), mentre nei capoluoghi di Regione ci si è tenuti mediamente intorno al 6% (con i picchi di Firenze 8,91 e Bologna 8,89) e in quelli di provincia difficilmente si è scesi sotto il 4-4,5%. Molto meno, o addirittura male in molti piccoli centri (è significativo che sia a Milano che a Torino si abbia un dislivello di 1,5-2 punti tra il risultato relativo al comune e quello della provincia, che sale a 3 punti per Bologna e Firenze).

E’ un voto “informato”, come si suol dire (e come avrebbe potuto essere diverso?). Concentrato nelle fasce di scolarizzazione alta, tra chi si informa con la carta stampata o con la rete, chi legge fuori dal mainstream, chi discute di politica: secondo l’ Ipsos il 27% dei nostri elettori sono laureati (è la percentuale più alta in assoluto, contro l’11% della media generale, il 14% del PD, l’11% del M5S, l’8% di FI e Lega). Il 38% sono diplomati, e appena l’11% ha solo la licenza elementare o è senza nessun titolo, contro una media generale del 26% (un 23% del PD, un 31% di FI…). D’altra parte abbiamo fatto registrare la percentuale di voti più elevata (il 7,8% - quasi 4 punti percentuali in più rispetto al nostro risultato complessivo) tra “chi si informa prevalentemente con Internet”, e siamo comunque sovrastimati tra chi “si informa prevalentemente sui giornali” (5,2%), mentre crolliamo tra chi “si informa solo con la Tv” (un miserabilissimo 1,6%!).

Siamo anche, potremmo dire, un partito di giovani – anche se non il “partito dei giovani” . Sempre secondo l’indagine Ipsos il 18% dei nostri elettori avrebbe tra i 18 e i 24 anni: è la percentuale più alta in assoluto, contro il 9% del totale generale, l’8% dell’elettorato PD, il 7% di quello leghista. Nemmeno i 5 stelle ci stanno alla pari, all’11%, indietro di 7 punti percentuali. Se si considera anche la fascia d’età successiva si scopre che quasi il 40% dei nostri elettori ha meno di 34 anni, mentre siamo debolissimi nella fascia tra i 35 e i 44 anni (solo l’8% del nostro corpo elettorale sta qui) e tra gli ultra-sessantacinquenni (nonostante l’età avanzata dei “garanti”) dove siamo al penultimo posto (22%), superati verso il basso solo dei 5 Stelle (tra i cui elettori solo il 7% sta in questa fascia d’età mentre, per fare un esempio, nel Pd sono il 30%, in FI il 32, per Alfano il 28…).

Questo dei giovani – e quindi dell’area variegata del “precariato” – è forse l’unico insediamento sociale visibile e corposo a cui possiamo riferirci. Perché per il resto il nostro profilo sociale è molto sfumato, difficile da identificare con precisi “soggetti”. Potremmo dire tipico di un “voto di opinione”, per fastidioso che questo ci possa apparire. La categoria nella quale avremmo raccolto la più alta adesione (per quanto può valere questo tipo di analisi, credibile allo stesso modo dei sondaggi) è quella degli studenti (l’8,2%, esattamente il doppio della percentuale complessiva), seguita a ruota dagli insegnanti/impiegati (5,7%). La più bassa è quella degli operai (sic!), solo al 2,2%. Seguita dalla casalinghe (2,5%) e dai lavoratori autonomi (2,8%). In media invece i disoccupati (4,1%). Forte la presenza tra i “dipendenti pubblici”, tra i quali si calcola che abbiamo raccolto il 7,1% mentre tra i privati ci saremmo fermati al 3,5%.

Più complessa, infine, la composizione per “genere”, perché qui i dati sono tra loro contraddittori. Secondo Ipr, infatti, il nostro sarebbe stato un voto prevalentemente femminile con una percentuale di consenso tra le donne del 5,7%, più che doppia rispetto a quella degli uomini (2,5%); situazione esattamente rovesciata – lo dico per curiosità – rispetto al M5S dove gli uomini sarebbero quasi il doppio delle donne (26,3 contro 15,5%). Secondo l’IPSOS, invece, ci sarebbe un sostanziale equilibrio, con una leggera prevalenza del voto maschile (4,1%) su quello femminile (3,9%). A dimostrazione della precarietà degli strumenti utilizzati dai sondaggisti.

Questo per quanto riguarda la composizione del nostro elettorato. E’ però l’analisi dei flussi (“da dove provengono i nostri elettori”) quella che più ci interessa per tentare di rispondere alle domande che oggi più ci riguardano urgentemente: “chi siamo?” (da dove veniamo, appunto). E soprattutto quella fatidica: “che fare?”. Ne abbiamo un paio, di analisi, fatte immediatamente a ridosso del voto, entrambi da prendere con le pinze per il grado di incertezza di questi strumenti, ma comunque utili per darci un quadro indicativo di massima.

La prima, della SWG, direbbe che circa 440.000 dei nostri elettori provengono dal bacino di chi nelle politiche del 2013 aveva votato Sel; altri 200.000 da quello di Rivoluzione civile (ci starebbero dunque dentro i voti del Prc e di Azione civile) e 230.000 dal Pd (di Bersani); 120.000 provengono dal precedente elettorato 5 Stelle mentre 80.000 li avremmo ricuperati tra gli astenuti (il resto da frammenti di elettorato poco rilevanti).

La seconda, dell’IPSOS, indica in 586.000 i voti provenienti da Sel e da Rivoluzione civile (che qui sono conteggiati insieme), in 248.000 quelli provenienti dal PD, e in 95.000 gli ex voto M5S (il resto diviso tra ex astenuti e piccoli frammenti). In compenso ci dice che del resto di quei quasi due milioni di voti che nel 2013 erano andati a Sel e Rivoluzione civile la parte più grossa è andata al Pd (485.000 voti) e all’astensione (409.000), mentre Grillo se ne sarebbe preso solo una parte minore (150.000).

Che cosa ci dicono questi dati, da assumere – non lo ripeterò mai abbastanza - con beneficio di inventario? In primo luogo una cosa che sappiamo benissimo e che ci siamo ripetuti un’infinità di volte: che il nostro risultato è il prodotto di una molteplicità di tasselli, nessuno dei quali può essere assunto come decisivo, e senza nessuno dei quali avremmo potuto stare sopra la soglia. E che nessuna delle formazioni politiche della tradizionale “sinistra a sinistra del Pd” avrebbe potuto affrontare e sopravvivere da sola alla prova elettorale. Probabilmente di più: che sono tutte, in maggiore o minore misura, in via di logoramento o in preda a emorragie tendenzialmente irreversibili. Le fallimentari esperienze prima della Sinistra arcobaleno, poi di Rivoluzione civile hanno tracciato una linea di non ritorno. Organizzarsi separatamente o praticare frettolose alleanze elettorali di cartello significa votarsi all’irrilevanza elettorale e politica. Può forse illudere della possibilità di mantenersi le mani libere per spregiudicate alleanze, o al contrario permettere forme di purezza testimoniale, ma non porta da nessuna parte. A voler essere più radicali e impertinenti, si potrebbe dire anche che la forma organizzativa plasmata sul modello di partito novecentesco, riprodotta in sedicesimo in una democrazia stravolta dalla logica del maggioritario e ferita (forse a morte) dalla mediatizzazione dello spazio pubblico, è messa brutalmente fuori gioco. Non serve nemmeno più come contenitore dei lasciti ereditari.

Dall’altra parte tuttavia bisogna subito aggiungere – e fa parte dell’ossimoro in cui ci dibattiamo – che senza quei pezzi di organizzazione sopravvissuti a diversi tzunami, non si sarebbe non dico potuto sopravvivere, ma neppure esistere. Difficilmente si sarebbe potuto raccogliere quelle 220.000 firme benedette che ci hanno fatto da trampolino di lancio e la cui raccolta ci ha permesso di prendere contatto con territori da cui eravamo assenti, oltre che di presentare il nostro simbolo fino ad allora del tutto sconosciuto. E ancor più difficilmente, per usare un eufemismo, si sarebbe potuto doppiare il capo di buona speranza del milione e centomila voti, dal momento che almeno la metà di esso arrivava da dentro le mura della vecchia “nuova sinistra” organizzata, e l’altra metà da fuori di quelle mura ma da una terra incognita, la cui dimensione e reale aspettativa ci erano sconosciute.

Ora qualcuno potrà dire – e sicuramente lo dirà, anche qui, nella nostra discussione – che se fossimo stati più fermi sui nostri contenuti e sui nostri simboli tradizionali, le nostre bandiere rosse, la parola “sinistra” nel simbolo, un linguaggio più rude, meno da “salotto intellettuale”, magari un rifiuto esplicito dell’Europa in quanto creatura del capitale – insomma se ci fossimo mostrati “più identitari” avremmo fatto meglio. Magari riportando a casa tutti quelli che l’avevano abitata un tempo e che ora sono sparsi chissà dove. Così come nello stesso modo, e specularmente, altri potranno dire all’opposto che se fossimo stati più radicali nella critica delle forme politiche del passato, dei partiti politici in quanto tali, delle vecchie sinistre, tutte, senza pietà, dei loro leader e delle loro forme di militanza, saremmo decollati, dando voce allo scontento (che, indubbiamente, è enorme), alla domanda di radicalità (che è persino inflazionata, a trecentossessanta gradi), al bisogno spasmodico di discontinuità. L’ha appena detto, nell’editoriale della sua rivista, Paolo Flores d’Arcais, parlando di “una Lista Tsipras che avrebbe potuto partorire un elefante (politico) e che invece – pur di tenere in vita le nomenklature dei partitini – ha prodotto un topolino”. E Paolo è uno dei “padri” della Lista, tra i proponenti dell’Appello iniziale e tra i “garanti” della prima ora.

Sono tutte opinioni rispettabili. Ed è bene che nella discussione di questi giorni vengano espresse, se qualcuno davvero le condivide, perché quello in corso deve essere un confronto franco, senza reticenze o non detti. Val la pena tuttavia, per quanto riguarda la seconda, tener presente la realistica considerazione di chi ritiene che quasi sempre, come la natura, anche la politica “non facit saltus”, soprattutto quando si tratta di fenomeni elettorali. Forse una rivolta di piazza può esplodere senza preavviso, istantaneamente. Ma un’esplosione elettorale dal nulla non si è vista quasi mai. Nemmeno quando è apparsa tale, come nel caso del quasi 26% del M5S nel febbraio scorso, o della comparsa di Forza Italia partito vincente nel 1994. Perché a ben guadare il successo grillino era stato preceduto da più di un quinquennio di lavoro sotto traccia, tramite un sito web che figura da anni al vertice delle graduatorie mondiali per frequenza, nei meet up ramificati sul territorio, in una lunga serie di prove intermedie e di tentativi locali. E l’epifania berlusconiana del ’94 era il prodotto di una macchina da guerra come Publitalia, del lavorio sommerso della mafia, di una potenza economica e finanziaria senza precedenti messa in campo da un padre padrone già potente prima di “scendere in politica”. Il “partito istantaneo” descritto dai politologi in realtà non esiste, presuppone spesso un “decennio di preparazione” magari invisibile e un lavoro magari sommerso ma capillare. Il voto d’opinione non si materializza in milioni senza un sopporto di radicamento e di organizzazione, forse informale, ma non semplicemente spontanea, solo per la “magia di un appello”. D’altra parte Syriza ce lo insegna: non è esplosa nelle attuali dimensione da forza di governo al suo primo apparire. Ha impiegato 7 anni, i primi dei quali stentati, con percentuali elettorali inferiori alla nostra, prima di arrivare dove è arrivata.

Quanto alla prima opinione, di chi vorrebbe coltivare le proprie eredità “dentro le mura” nel timore di, per voler troppo, rischiare di perdere anche il poco che si ha – che non ha trovato finora un’esplicita dichiarazione pubblica, un Flores d’Arcais alla rovescia che la esprimesse platealmente, ma che forse è più condivisa, sotto traccia, di quanto non sembri in particolare tra i quadri di partito-, può sembrare orientata a una realistica prudenza, se ci trovassimo in un quadro di ordinaria stabilità politico-elettorale. Con i pezzi ben definiti, su una scacchiera ben delimitata e ferma. In realtà non è così. Siamo nell’occhio di un ciclone politico che rende instabili e mobili tutte le variabili del gioco, al centro di una rosa dei venti che scompagina e rende fluide tutte le identità e le posizioni facendo prevalere, come d’altra parte in economia e negli assetti sociali, le logiche dinamiche di flusso su quelle radicate di luogo. Rendendo liquida non solo la società, come dice Baumann, ma anche il panorama politico. Sradicando pezzi di elettorato fino a ieri “fidelizzati”, insediamenti politici fino a ieri non intaccati né intaccabili… Basta dare, anche qui, un’occhiata alle analisi dei flussi elettorali del 25 maggio…

Può sembrare che molto sia ritornato al proprio posto, col Pd che espande la propria base elettorale (il proprio zoccolo duro) ridotta da Bersani al 25% nel 2013, conquistando nuovi consensi “renziani” fino al fatidico 40,8%. Che il M5S ridimensioni un po’ il proprio peso rientrando in un più “normale” 21-22% (quello che sarebbe il suo elettorato più congruo). Che Berlusconi paghi l’inevitabile declino biologico e giudiziario, mantenendo comunque per il futuro una capacità di attrazione coalittiva forte (con Lega e NCD potrebbe ritornare verso il 30%). E che per noi rimanga uno spazio residuale di opposizione testimoniale nell’angolo in basso a sinistra del campo. C’è persino chi si è lasciato andare all’affermazione, spericolata, che si sia avviato un processo di ri-normalizzazione in direzione di un nuovo bipolarismo (la solita, sciagurata opzione maggioritaria bipolare che da Veltroni in poi ci ha portati al disastro mentale, oggi innestata sul programma di scasso costituzionale, perché a questo servirebbero le cosiddette “riforme”). Altri hanno parlato, un po’ affrettatamente, del Pd di Renzi come nuova Balena bianca, partito “pigliatutto” del nuovo secolo, paragonabile per stazza e corposità a quella che fu nella prima Repubblica la Democrazia cristiana. Qualcuno si è lasciato andare prevedendo addirittura un nuovo ciclo ventennale di egemonia… Per la verità i numeri ci parlano di un’altra realtà. Suggeriscono che sotto la superficie visibile c’è stato un gran movimento, in tutte le direzioni, con veri e propri esodi biblici di sciami di elettori in transumanza.

Intanto il Pd di Renzi: non si è limitato a espandersi oltre i suoi vecchi confini; ad attrarre nuovi elettori da sommare a quelli di prima. I suoi 11 milioni e 913mila voti (che sono in valori assoluti più di quanto preso da Bersani quando ha perso contro Grillo nel 2013 ma meno di quelli presi da Veltroni nel 2008 quando perse contro Berlusconi) sono il prodotto di entrate e di uscite complesse. Di un gran via vai attraverso un’infinità di porte girevoli. Per esempio della fuoriuscita di altri 2 milioni di elettori, un po’ verso di noi, come si è visto, un po’ verso Grillo, ma con il grosso, 1.700.000, verso l’astensione. E dell’ingresso di più di 5 milioni dai quattro angoli del mondo (politico): da Scelta civica e dall’Udc in primo luogo, da cui provengono quasi un milione e 200mila voti e che sono stati letteralmente cancellati dal quadro con una vera e propria annessione. Quasi 900mila dal M5S (che potrebbero essere considerati elettori piddini in libera uscita nel ’13 e ora ritornati a casa, ma non ne sarei del tutto sicuro, nel quadro mobile attuale potrebbero essere anche ex berlusconiani convertiti provvisoriamente al grillismo e poi sedotti dal più simpatico Renzi). D’altra parte più o meno un altro mezzo milione di neoconvertiti al renzismo provengono direttamente da Forza Italia. E addirittura 2 milioni ritornano dall’astensione dove si erano rifugiati alle politiche.

Nonostante questo ritorno, comunque, l’esercito dell’astensione è ulteriormente cresciuto rispetto al livello, già considerato record, delle politiche ed anche rispetto alle europee del 2009: ha superato la soglia impressionante dei 20 milioni (sono 20.348.000 per la precisione, quasi il doppio del trionfante PD, a una dimensione ormai molto vicina alla metà dell’intero corpo elettorale: il vero “partito della nazione”). Rispetto alle politiche, quando gli astenuti furono 12.899.000, si contano dunque 10.400.000 nuovi fuoriusciti, solo parzialmente compensati dai quasi 3 milioni di ritornanti. Più di dieci milioni di elettori che hanno deciso di “uscire”, perché evidentemente non si sentono rappresentati da nessuno! Provengono un po’ da tutti, dal M5S massicciamente (2.550.000), dal PD come si è visto, da Scelta civica e dall’UDC (tanti viste le loro piccole dimensione: 1.270.000), da Rivoluzione civile (357.000), da Sel (225.000), dalle diverse destre più o meno radicali (Fratelli d’Italia, Destra-Mpa: 350.000), dalla Lega (129.000)… Ma soprattutto provengono dal defunto Pdl, che ha perso verso l’astensione quasi 3 milioni di elettori nell’ultimo anno (2.700.000) dopo che già alle politiche aveva subito un salasso spaventoso: il 24 e 25 febbraio del 2013 Berlusconi aveva preso infatti 7.332.134 voti, 6.297.330 in meno rispetto al 2008 (13.629.464). Ora Forza Italia si è ridotta a 4.605.331, meno della metà di quello che aveva preso alle europee del 2009 (10.767.965), meno di un terzo rispetto ai tempi d’oro prima dell’inizio della crisi e prima di Ruby…

Per questo non si può ragionare sul quadro politico con i parametri di prima. Non solo con quelli dell’altro ieri, ma con quelli di ieri. Non solo con quelli del Novecento, ma neppure con quelli del 2013. Perché ci troviamo in un panorama politico che definire “allo stato liquido” è dir poco. Dovremmo dire “allo stato gassoso”.

Il che ci conduce al secondo nodo che dovremo incominciare ad affrontare ora. E cioè alla questione del rapporto tra l’esperienza della lista L’Altra Europa con Tsipras e il suo prolungamento futuro, con la stessa ambizione di lavorare a un processo di costruzione di una soggettività politica nuova, nazionale questa volta anche se concepita come parte integrante di un progetto europeo.

Lo dico subito: credo che sarebbe un grosso sbaglio pensare che questo percorso possa essere una semplice continuazione di quello già fatto. Una proiezione sul piano nazionale dell’esperienza elettorale europea. Sbaglieremmo se non considerassimo la discontinuità che c’è tra quel modello di iniziativa, di organizzazione (se così si può dire), di pratica e di progetto, e quello che ci attende nei prossimi mesi. Così come sbaglieremmo se considerassimo quel 1.103.203 di elettori una “proprietà” acquisita, un “patrimonio” stabile: dire che è da quello che bisogna partire non significa non pensare che, così come si è materializzato dietro quel simbolo nuovo, alla stessa velocità non possa anche disperdersi, se non manterremo fede alla responsabilità che ci siamo assunti quando li abbiamo chiamati a raccolta. Tanto più che il percorso che abbiamo di fronte non sarà simile a quello che abbiamo appena percorso. Per varie ragioni.

Intanto perché l’”avventura” della lista Tsipras è iniziata sotto il segno di una emergenza e di una circostanza d’eccezione (potremmo dire nel quadro di uno “stato d’eccezione”): nell’imminenza di una campagna elettorale anomala com’è in generale quella delle europee, nella quale c’era, quest’anno, il concreto rischio (il paradosso ha detto ieri Alexis) che, unica in Europa, la sinistra italiana non avesse neppure un rappresentante. E in cui, d’altra parte, c’era l’occasione (insperata, da non lasciarsi sfuggire!) di un leader vincente della sinistra di un Paese esemplare come la Grecia che poneva la propria candidatura alla guida della Commissione e svolgeva, per così dire, un ruolo di supplenza ai tanti deficit locali oltre ad offrire la possibilità di ridare un senso al termine rappresentanza. Si spiegano così, con quello “stato d’eccezione”, le tante anomalie che hanno caratterizzato la “Lista Tsipras”. A cominciare dall’anomalia della nascita: non è quasi mai accaduto che una lista elettorale sia nata da un appello. Non dalla negoziazione tra soggetti politici, non da accordi tra gruppi dirigenti o da decisioni di organismi, ma da un’aggregazione di qualche decina di migliaia di persone intorno a un testo, a cui è seguita poi la convergenza di forze via via più ampia.

E poi l’anomalia della composizione delle liste, con l’esclusione programmatica di candidati già eletti nell’ultimo decennio (che era il modo più semplice per limitare al minimo il “professionismo politico” e lanciare un chiaro messaggio di discontinuità all’elettorato). L’anomalia di una lista, dunque, come si è detto e ripetuto, “di cittadinanza” appoggiata e sostenuta da una rete di associazioni e anche da partiti che tuttavia si mantenevano uno o due passi indietro: condizione che non era riuscita nella precedente esperienza di “Cambiare si può” e di “Rivoluzione civile”, e che come sappiamo ha richiesto un certo braccio di ferro non del tutto irenico. L’anomalia, infine, di una campagna esplicitamente combattuta in condizioni di povertà assoluta, affidandoci molto all’iniziativa dal basso, dei candidati, dei loro “ambienti” di riferimento, delle loro risorse relazionali, con pochissimi e fragilissimi strumenti “centrali”.

Proprio per l’importanza di quella condizione da “stato d’eccezione” tenderei a paragonare i due mesi di battaglia elettorale al “comunismo di guerra”, nel quale appunto si dovevano per necessità praticare e accettare forme che in condizioni normali non sarebbero praticabili, a cominciare dal tipo di “governance” (senza dubbio oligarchica, affidata com’era alla verticalità dell’organismo dei “garanti”), e dallo spazio limitato per la discussione collettiva (affidata all’eterogeneità delle forme di aggregazione locale, al funzionamento a macchia di leopardo dei Comitati), oltre alla formazione in qualche misura “per cooptazione” del Gruppo operativo, rappresentativo più per delega fiduciaria che per effettiva elettività. Tutte condizioni che, fuori dalla situazione “d’eccezione” (finita appunto “la guerra”) non si possono più riproporre tali e quali, e richiedono meccanismi di realizzazione della condivisione stabili.

La seconda ragione di discontinuità riguarda il quadro politico. Lo stesso esito della tornata elettorale europea ha infatti prodotto una “frattura di teatro” – come si direbbe in gergo bellico -; una modificazione strutturale dell’ambiente stesso nel quale si svolge la lotta politica, che non è più paragonabile a quello nel quale la campagna elettorale era iniziata, e un mutamento genetico dei suoi protagonisti principali. Ci illuderemmo se pensassimo di applicare alla situazione attuale gli stessi codici con cui ragionavamo prima, e le stesse “forme” della politica: centrodestra, centrosinistra, maggioranza, opposizione, alleanze, il Partito democratico come possibile avversario o interlocutore, le sue componenti interne, più o meno orientate a destra o a sinistra… Stiamoci attenti a questo cambio di scenario, perché corriamo il rischio concreto che la discussione che si sta avviando sulle prossime elezioni regionali, sul rapporto con il PD, sulle alleanza, ripercorra vecchi schemi, da una parte o dall'altra, riducendo i termini della questione a un si o un no sulla base di presupposti a priori senza cogliere il disordine nuovo del contesto tutt'intero e la dinamicità vertiginosa dei tempi politici.

Il renzismo – come già in buona parte a suo tempo il grillismo – ha modificato la logica (e la geografia) profonda del sistema politico italiano, con un potenziale distruttivo estremo. Per la verità aveva incominciato già prima, il proprio sistematico lavoro di decostruzione, fin dalla conquista, dopo breve assedio da fuori delle mura, del vertice del Pd con l’arma non convenzionale delle primarie, e poi dalla successiva occupazione mediante una classica congiura di palazzo del governo. Ma il 40,8% delle europee ha sanzionato con l’unico segno ormai riconoscibile nella logorata antropologia politico-istituzionale - il successo - quel “cambiamento di verso” che è un vero e proprio mutamento di natura del nostro estenuato sistema politico. Che da pluralistico e collegiale si è trasformato in sistema tendenzialmente e potenzialmente monocratico, in cui la tirannia dell’urgenza travolge qualunque progettualità non allineata, qualunque alterità non subalterna, e la retorica dell’ultima spiaggia impone senza residui la logica dell’uomo solo al comando.

Con Renzi – e col patto del Nazzareno, che costituisce l’anima subliminare della sua visione politica – è cancellata (non a parole, ma nella pratica) ogni distinzione tra destra e sinistra, così come ogni sia pur umbratile riflesso etico nella politica, per affermare l’assoluta sovranità della pratica del potere in quanto tale. Funzione salvifica a prescindere, energia virtuale di cui non importa il contenuto né il fine, ma la pura rappresentazione di sé. L’esserci, e il vincere. E’, con un abile gioco di prestigio, la drammaticità della crisi che viviamo trasformata, con un colpo di bacchetta magica, in instrumentum regni. In mezzo (potentissimo) di potere e della sua legittimazione extra-democratica. Che cancella, non tanto e non solo come progetto, ma con il suo solo apparire, l’essenza stessa del parlamentarismo, della democrazia parlamentare e rappresentativa basata al contrario sul confronto tra opzioni diverse e sulla deliberazione. E che ci sbalza, di colpo, in una terra sconosciuta dove nessuna delle vecchie tavole vale più. L’unanimismo con cui l’intero sistema mediatico ne canta il Te Deum e ne tesse le lodi, indifferente all’immagine di servilismo che offre, è indicativo di questo “mutamento di stato” (nemmeno con Berlusconi si era arrivati a un tale conformismo servile). C’è davvero qualcosa di mefistofelico in questa determinazione, in sé profondamente nichilistica, di mettere al lavoro, sistematicamente, tutte le linee di crisi che ci stanno affliggendo per alimentare il proprio personale ruolo di comando, rovesciandone in qualche modo le polarità: l’apparente irrisolvibilità della crisi economica per giustificare la delega al buio alla sua mal assortita squadra di yes men; lo sfacelo della società e del mondo del lavoro per farne la platea privilegiata delle proprie elargizioni liberali; l’impresentabilità della fauna parlamentare selezionatasi in questi anni (della “casta”) per accreditare il suo progetto (intrinsecamente populista) di delegittimazione e di liquidazione delle istituzioni rappresentative. Renzi non è uno dei tanti capi di governo che si sono cimentati nella missione impossibile di mettere una toppa o di rallentare i numerosi processi di crisi che ci assediano: impresa che avrebbe richiesto un salto di scala nella capacità di progettazione e di pensiero, oltre che una esplicita rottura con le dogmatiche dominanti. E’ invece il primo ad aver deciso, cinicamente e spregiudicatamente, di quotarli – quei processi di crisi - alla propria borsa. Di metterli al lavoro tutti, a proprio vantaggio, compresa la crisi del proprio partito. Anzi, a cominciare dalla crisi del proprio partito.

Non se ne sono accorti, e hanno creduto che quel 40,8% del 25 maggio fosse anche una vittoria loro, del loro partito, del Partito democratico, ma in realtà quella è stata una vittoria di Matteo Renzi più che del suo partito. Anzi, per molti aspetti, una vittoria di Renzi contro il suo partito. E’ stato incoronato, con quel suffragio trasversale, più in quanto rottamatore del Pd che non come suo leader e rappresentate. Come liquidatore di quel ceto politico assemblato, con gli strumenti del Porcellum, da Bersani, e rivelatosi nella sua miseria prima in occasione dell’elezione del Presidente della Repubblica, poi nelle pieghe del passaggio da Bersani a Letta, infine datosi senza nemmeno trattare sul prezzo, alla velocità della luce, al nuovo conquistatore. Buona parte del successo elettorale alle europee Renzi lo deve proprio all’ostilità ostentata per mesi nei confronti non solo del gruppo dirigente, ma anche del corpo militante del Pd. E fa di tutto per dimostrare di meritare quella simpatia liquidandolo giorno dopo giorno in quanto “partito”, da buon populista quale è (se per “populista” si intende chi tende a saltare ogni mediazione tra leader e “popolo” eliminando tutti i corpi intermedi e i diversi livelli di rappresentanza sia politica che sociale). In questo senso Renzi non costituisce l’inversione di tendenza nella crisi storica del Partito democratico (iniziata praticamente dalla sua nascita, col fallimento di Veltroni), ma ne rappresenta il compimento. L’estremo punto di arrivo. In un certo senso la fase terminale. A ben guardare, infatti, il Pd renziano non è più un partito. Non dico un “partito” nel senso novecentesco del termine: quello aveva già cessato di esserlo da tempo, per lo meno da quando, tra gli anni Novanta e il primo decennio del nuovo secolo, si era consumato il passaggio tra la “democrazia dei partiti” e quella che Bernard Manin chiama la “democrazia del pubblico”: un modello di democrazia rappresentativa in cui l’elettorato cessava di essere un partecipante e si trasformava in spettatore, mentre la rappresentanza sfumava in rappresentazione, e gli attori politici si affidavano sempre più al marketing per attrarre il voto di quel pubblico volubile e distratto. Ma il Pd cessa oggi di essere “partito” anche nella sua versione post-novecentesca, quando pure la personalizzazione aveva fatto strada, e il partito politico si specializzava sempre più come “macchina” finalizzata a scegliere il leader e a sostenerne l’azione, un po’ come la compagnia teatrale supporta il proprio capocomico.

Il partito renziano va oltre quel modello. Si direbbe che incarni in senso proprio quella che Ilvo Diamanti indica come la fase immediatamente successiva all’esaurimento della stessa “democrazia del pubblico”, caratterizzata da “partiti senza società” e da “leader senza partiti”, in cui “il legame [che pur era sopravvissuto prima] tra leader, partiti e società si è consumato” sotto la pressione di una sfiducia pervasiva e dissolvente di tutte le forme collettive, e sopravvive appunto solo il modello dell’”uomo solo al comando”, connesso al proprio “pubblico” esclusivamente attraverso il filo potente ma fragile della comunicazione in tutte le sue fantasmagoriche forme. Impegnato non più a tentare di produrre un fiducia sempre più impossibile, ma piuttosto determinato a “lavorare” sulla sfiducia dilagante piegandola a proprio favore, impiegandola come arma contro amici e concorrenti. Per questa via il partito si viene trasformando da supporto che era, in estroflessione del capo (quando ne segue docilmente la volontà) o, alla peggio, in zavorra. Da strigliare o mollare, a seconda dei casi. Comunque da guidare dall’esterno e dall’alto (dal Governo, appunto). E destinato a dissolversi nell’aria nel caso in cui il Capo dovesse fallire (è questa in fondo la ragione per cui seguaci e avversari interni finiranno, volenti o nolenti, per sostenerlo all’estremo, nella consapevolezza che “dopo di lui il diluvio”).

Siamo ormai direttamente, bisogna ammetterlo, in una “democrazia ibrida” come la chiama Diamanti, o in una “post-democrazia” come sempre più sussurrano i politologi. Comunque fuori dal quadro di una normale democrazia rappresentativa. E lo dico non certo per essere disfattista, o per sostenere che ormai tutto è perduto e che sarebbero inutili le battaglie di difesa della democrazia e della rappresentanza che si stanno combattendo o preparando. Al contrario. Per sottolineare la maggiore responsabilità che ci incombe. E la necessità, appunto, di rendere più forte e più ampia la nostra azione. Più al livello delle sfide che ci toccheranno nei prossimi mesi.

Ma proprio per questo, perché stiamo dentro a una mutazione genetica radicale del nostro contesto politico e sociale, e perché per uscirne in avanti sono indispensabili una credibilità e un radicamento enormemente più ampi di quanto abbiamo raccolto finora, è necessaria una nuova verifica delle ragioni che ci tengono insieme. E un processo di innovazione delle nostre categorie di analisi, della nostra lettura delle trasformazioni sociali, e della nostra concezione dell’organizzazione e della soggettività politica, radicale. Senza trascurare quelli che sono stati i nostri punti di forza nella campagna elettorale, le “virtù” che ci hanno permesso di restare sopra il pelo dell’acqua: il traino europeo, in primo luogo – perché senza uno scardinamento delle politiche europee attuali, senza far saltare la cerniera neoliberista che domina a Bruxelles e a Francoforte, non solo non c’è salvezza qui, ma neanche politica; i dieci punti del nostro programma elettorale, che sono e restano quanto mai attuali come programma d’azione nel corso del semestre italiano, in primo luogo, e oltre, come cemento per una sempre più stretta rete di relazioni continentali; il riferimento a una figura potentemente unificante come Alexis Tsipras; la natura polifonica della Lista, intreccio di identità e ambienti differenti, capace di intrecciare la dimensione dell’iniziativa “di cittadinanza” con quella “d’organizzazione”, nuovi protagonismi e consolidate militanze, non in un assemblaggio estrinseco per giustapposizione ma in un rapporto di contaminazione reciproca e di pedagogia della cooperazione… Sapendo, tuttavia, che bisogna andare molto al di là: nel radicamento sociale, in primo luogo. Nella ricerca di un “nostro popolo”, che finora ci è mancato e che si conquista solo frequentandolo. Standogli dentro, e insieme. Facendoci “vedere” (dal 25 maggio siamo scomparsi da quasi tutti i luoghi che avevamo frequentato). Ma anche nell’interlocuzione politica, che dovrà essere ad ampio raggio, attraversare molte delle culture politiche che hanno caratterizzato la vita civile di ieri e che stentano oggi a riposizionarsi o riconfigurarsi, non per stemperare i nostri contenuti – inevitabilmente radicali – o per aprire il serraglio degli incroci ibridi, ma per guardare finalmente fuori dagli steccati, e allargare l’orizzonte del nostro pubblico potenziale. Nello spazio esploso della “post-democrazia”, non ci sono più “soggetti politici” con cui intavolare trattative, gruppi o correnti da selezionare come alleati o concorrenti. Il “Partito unico della Nazione” se avrà successo (e per un po’ lo avrà) emulsiona tutto come una gigantesca turbina, fagocita le forze marginali, scioglie le aggregazioni interne, cancella l’eterogeneità politica nel vettore verticale della decisione dall’alto. E quando collasserà non lascerà molto di strutturato dietro di sé. Ma in quello spazio non possiamo pensare di essere i soli ad muoverci in direzione ostinata e contraria. Ci saranno frammenti di rappresentanza politica in sofferenza, e anche di rappresentanza sociale alla deriva. Settori che si staccheranno dal corpo dell’iceberg e cercheranno connessioni. Movimenti bisognosi di sponde politiche su cui non appoggiarsi ma con cui interloquire. Dovremo proporci come catalizzatori, se vogliamo davvero seguire le tracce di Syriza, che ha sempre operato come fattore aggregante, mai escludente, senza presunzione né primogeniture. Dovremo imparare a parlare con tanti, senza negarci pregiudizialmente ma anche senza concederci opportunisticamente a nessuno.

Abbiamo bisogno di “manifestare” – di prendere l’iniziativa e la piazza, contro la rassegnazione e l’isolamento -, ma anche, e tanto, di pensare. Di mobilitare quel potenziale culturale che ha fatto la differenza nella campagna elettorale, e che non deve restare nel ruolo passivo del testimonial. Che è indispensabile per “cercare ancora”. E questo dovremo fare, testardamente: Cercare ancora. Perché quello che abbiamo, e sappiamo, non basta. Ci vuole di più: in termini di idee, di comprensione di quanto ci accade sotto gli occhi, e un po’ ci sconvolge un po’ non lo vediamo nemmeno, di lettura delle trasformazioni antropologiche che maturano sempre più rapide dentro il tritacarne della crisi: come si viene configurando il rapporto tra le generazioni? Tra i generi? Tra le aree geografiche? Tra lavoro e ambiente? Tra compagni? Dobbiamo inventare una modalità di decisione collettiva che non ci schiacci nella routine burocratica o all'opposto nella conflittualità permanente, che sappia tenere insieme le differenze in un rispetto che non sia indifferenza, che riesca a produrre una capacità di parola collettiva in tempi di individualismo devastante. Vi pare poco?

Ce n’è abbastanza per lasciare da parte i dettagli, su cui spesso ci dividiamo, e concentrarci sulle cose importanti, su cui è indispensabile che ci uniamo.

Marco Revelli, 18 luglio 2014

«Il dibattito sulla “riforma” si è caratterizzato dal silenzio sulle proposte alternative. Ma ora che siamo al momento dell’aula, le carte sono tutte sul tavolo: e grazie alla pubblicazione del testo integrale della proposta di Gustavo Zagrebelsky inviata al ministro Boschi, nessuno può più accusare il pensiero critico di non essere anche propositivo».

Il Fatto Quotidiano, 18 luglio 2014

È in discussione nell’aula di Palazzo Madama l’abolizione del Senato della Repubblica secondo una legge che viene imposta dal governo alla sua maggioranza, nell’ambito di un patto firmato con il maggior partito dell’opposizione.

Nulla di tutto questo è stato offerto agli italiani come materia programmatica su cui esprimere un voto in una elezione politica. Ma proprio questo non conta nella visione del premier, poco disposto ad ascoltare obiezioni e preoccupazioni. Come un ragazzo a cui si chiede di rinunciare a un giocattolo a cui è molto affezionato. Pazienza se “dopo” la democrazia sarà ancora più fragile di quanto lo sia già oggi: Renzi dice che è una grande “occasione” e che il Paese (quale Paese?) non può permettersi il lusso di perderla.

Il dibattito sulla “riforma” si è caratterizzato dal silenzio sulle proposte alternative, rotto soltanto da gesti estremi di oppositori, comunque derisi e alla fine messi a tacere con censura e violenti interventi di sostituzioni al momento del voto in commissione. Ma ora che siamo al momento dell’aula, le carte sono tutte sul tavolo: e grazie alla pubblicazione su Il Fatto del testo integrale della proposta di Gustavo Zagrebelsky inviata al ministro Boschi, nessuno può più accusare il pensiero critico di non essere anche propositivo. Oggi sappiamo che le proposte sono almeno due e anche se una appare già al traguardo sarà il traguardo della Storia che giudicherà il valore dell’una e la saggia lungimiranza dell’altra.

La riscrittura della seconda parte della Costituzione riduce a poco più di passacarte l’assemblea di Palazzo Madama e assegna alla Camera dei deputati nominati e scelti dai capi partito il ruolo di ancelle del governo. Così mortificare un ramo del Parlamento non esalta l’altro ramo, ma il tutto si conclude con una generale mortificazione e perdita di dignità di deputati e senatori. Assieme ad essi mortificati sono tutti i cittadini italiani a cui viene sottratto il potere di eleggere i propri rappresentanti, incidendo contemporaneamente sulla legge elettorale e sulla Costituzione. Due progetti, due visioni, due mondi.

Abbiamo aspettato a lungo, noi di Libertà e Giustizia, e tanti altri che sapevano della proposta Zagrebelsky, che il ministro ne parlasse, che la diffondesse, che fosse discussa. Solo silenzio, irrisione. Il progetto del governo nasce nel clima torbido di richieste della Finanza internazionale e di accordi misteriosi siglati tra Renzi e Berlusconi sui quali tuttora regna un segreto che io, da semplice cronista di storie italiane, giudico incostituzionale ed eversivo. Il progetto Zagrebelsky nasce nel silenzio solitario delle ore di studio e nelle riflessioni elaborate con gli studenti dentro aule universitarie. Non ha padrini a cui rispondere. È frutto del pensiero di un uomo libero e delle preoccupazioni per la democrazia costituzionale ereditate e elaborate con i grandi maestri del passato. Può essere approfondita. E ovviamente discussa.

La costituzione di Renzi, no: è prendere o lasciare, mangiare la minestra o saltare dalla finestra. È o così o si scioglie il Parlamento. Dice Renzi che questa è la grande “occasione”. In sostanza oggi c’è una situazione generale che consente di fare quello che ieri non fu possibile: manomettere la carta fondamentale dei diritti e dei doveri, la Carta dello Stato italiano. L’unica occasione a cui viene di pensare è la disperazione generata dalla grande crisi: e come ci hanno sempre ricordato gli storici è in tempi come questi che i popoli accettano cose che in altre condizioni mai avrebbero accettato. Dunque, la chiusura di mezzo Parlamento italiano avviene anche perché gli italiani sono “distratti” dalla difficoltà di sopravvivere. Una grande “occasione” davvero, un’occasione da non perdere.

Come riuscire a distruggere, frettolosamente e rozzamente, i principi della democrazia borghese del XIX secolo e quella popolare del XX. Un'analisi chiara e sintetica del pasticcio renzusconiano.

Il manifesto, 17 luglio 2014Una valanga di 7000 emen­da­menti può sem­brare un osta­colo insor­mon­ta­bile per la riforma Renzi-Boschi. Ma è un’illusione. Rego­la­mento e prassi cono­scono raf­fi­nate tec­ni­che anti-ostruzionistiche. Per le regole in atto, un ostru­zio­ni­smo di mino­ranza che bloc­chi l’assemblea non è pos­si­bile. Siamo di fronte a qual­che giorno di lavoro par­la­men­tare, niente che non si possa gestire accor­ciando (di poco) le vacanze. A meno che la mag­gio­ranza rifor­ma­trice non si dis­solva. Per que­sto è deci­siva la tenuta del patto Renzi-Berlusconi, difeso dai due sti­pu­lanti a spada tratta, accada quel che accada.

In qual­che misura l’esito rimane incerto, essendo stata pura rap­pre­sen­ta­zione tea­trale la sopo­ri­fera assem­blea di Renzi con i par­la­men­tari Pd, e rima­nendo alta la feb­bre in Fi. C’è da spe­rare che la migliore poli­tica ritrovi fiato e ini­zia­tiva. Per­ché il testo appro­vato in com­mis­sione pre­fi­gura un’architettura isti­tu­zio­nale distorta e priva di equi­li­brio. Si è par­lato di blando auto­ri­ta­ri­smo, si è richia­mato il pro­getto Gelli-P2. Di certo, si può temere una ridu­zione degli spazi di democrazia.

Come? Vediamo alcuni punti salienti. Azze­ra­mento della rap­pre­sen­ta­ti­vità e del peso politico-istituzionale del senato con il carat­tere non elet­tivo e il taglio dei poteri; ridu­zione della camera a obbe­diente brac­cio armato del governo attra­verso una legge elet­to­rale che riduce la rap­pre­sen­ta­ti­vità, taglia le voci in dis­senso, crea una arti­fi­ciale mag­gio­ranza nume­rica, garan­ti­sce la fedeltà al capo attra­verso le liste bloc­cate; potere di ghi­gliot­tina per­ma­nente del governo, che può stroz­zare a suo pia­ci­mento il dibat­tito impo­nendo il voto a data certa su un testo pro­po­sto o comun­que accet­tato dal governo; innal­za­mento del numero di firme richie­sto per l’iniziativa legi­sla­tiva popo­lare a 250.000 (ora 50.000); innal­za­mento delle firme richie­ste per il refe­ren­dum abro­ga­tivo a 800.000 (ora 500.000).

Un colpo grave ed evi­dente alla rap­pre­sen­tanza poli­tica da un lato, alla par­te­ci­pa­zione dall’altro. Sono poco più che una foglia di fico le dispo­si­zioni che rin­viano ai rego­la­menti par­la­men­tari la garan­zia dell’iniziativa legi­sla­tiva popo­lare, o ridu­cono in qual­che misura il requi­sito del quo­rum strut­tu­rale per il refe­ren­dum. Assai più con­tano altri effetti, magari indotti e non imme­dia­ta­mente visi­bili, delle modi­fi­che pro­po­ste. Ad esem­pio, il Capo dello Stato viene eletto da depu­tati e sena­tori. Ma la ridu­zione dra­stica del numero dei sena­tori, rima­nendo immu­tato quello dei depu­tati, lascia in sostanza la ele­zione del capo dello stato nelle mani della sola camera, con­se­gnata alla mag­gio­ranza di governo dalla legge elet­to­rale, con l’aggiunta di una man­ciata di sin­daci e con­si­glieri regio­nali amici. Basterà aspet­tare il nono scru­ti­nio per avere un capo dello stato di mag­gio­ranza, rima­nendo mero fla­tus vocis che sia rap­pre­sen­tante dell’unità nazio­nale, e garante della costi­tu­zione. E non dimen­ti­chiamo che il capo dello stato pre­siede il Csm, organo di auto­go­verno della magi­stra­tura. E che per gli stessi com­po­nenti elet­tivi del Csm vale il discorso appena fatto. Men­tre i tre mem­bri della Corte Costi­tu­zio­nale eletti dalla camera sono rimessi alla scelta della mag­gio­ranza garan­tita dal pre­mio, con qual­che soste­gno sot­to­banco che non si nega a nes­suno. Per non dire della revi­sione della Costi­tu­zione ancora rimessa alla mag­gio­ranza di governo della camera, e agli equi­li­bri poli­tici del tutto occa­sio­nali e impre­ve­di­bili del senato. In quali mani fini­ranno diritti e libertà? La Costi­tu­zione come sta­tuto di una maggioranza?

Una strut­tura priva di equi­li­brio. Dove sono i checks and balan­ces? Invece, molto altro si poteva fare. Come ad esem­pio l’impugnativa ex ante davanti alla Corte Costi­tu­zio­nale di leggi non limi­tata alla legge elet­to­rale, da parte di una mino­ranza par­la­men­tare (come in Fran­cia); o il ricorso diretto del cit­ta­dino alla stessa Corte in mate­ria di diritti e libertà (Ger­ma­nia e altri paesi); o il refe­ren­dum popo­lare appro­va­tivo auto­ma­tico in caso che l’iniziativa legi­sla­tiva popo­lare venga disat­tesa dal legi­sla­tore (Sviz­zera); o l’anticipo del giu­di­zio di ammis­si­bi­lità della Corte sul refe­ren­dum in base all’avvenuta rac­colta di un numero infe­riore di firme rispetto al totale di quelle richie­ste (ad esem­pio, cen­to­mila), in modo da con­sen­tire ai pro­mo­tori di rac­co­gliere le restanti firme a que­siti ammessi.

Né va dimen­ti­cato il con­te­sto più gene­rale, e l’indebolimento di par­titi poli­tici, sin­da­cati, asso­cia­zioni. Si pensi alla can­cel­la­zione del finan­zia­mento pub­blico, alla dia­triba sui con­tratti nazio­nali di lavoro, al rifiuto di con­cer­ta­zione. La stessa ascesa di Renzi è stata la nega­zione della fun­zione tipica e pro­pria di un par­tito poli­tico. In sostanza, nelle pri­ma­rie Renzi ha usato il voto dei non iscritti con­tro il voto degli iscritti, per con­qui­stare il par­tito degli iscritti.

Un tempo, se qual­cuno voleva met­ter mano alla costi­tu­zione si par­lava di inge­gne­ria isti­tu­zio­nale. Ma almeno si pre­sup­po­neva una lau­rea. Capiamo bene che oggi è chie­dere troppo. Ma almeno dateci un geo­me­tra o un capomastro.

Marx, Il comunismo e la lotta di classe raccontati da Gérard Thomas. «I bam­bini capi­ta­li­sti quando nascono sono dei bam­bini uguali a tutti gli altri. Non sono ancora dei bam­bini capi­ta­li­sti».

Il manifesto, 15 luglio 2014
«I bam­bini capi­ta­li­sti quando nascono sono dei bam­bini uguali a tutti gli altri. Non sono ancora dei bam­bini capi­ta­li­sti. E non lo sono nem­meno nei pri­mis­simi anni della loro vita. Poi a un certo punto suc­cede qual­cosa nella loro testa e invece di con­ti­nuare ad essere bam­bini uguali a tutti gli altri diven­tano dei bam­bini capi­ta­li­sti».

L’incipit del for­tu­na­tis­simo libro, uscito per le edi­zioni Cli­chy, di Gérard Tho­mas —Il comu­ni­smo spie­gato ai bam­bini capi­ta­li­sti (e a tutti quelli che lo vogliono cono­scere) - già autore di culto in Fran­cia, annun­cia subito al let­tore la domanda prin­ci­pale del rac­conto: per­ché, ad un certo punto delle nostre vite di bam­bini, accade qual­cosa che ci tra­sforma in capi­ta­li­sti, segnan­doci per sem­pre.
Il rac­conto è il terzo lavoro di que­sto eccen­trico scrit­tore, dopo Come si diventa pre­si­dente (2002) e L’anarchia è una cosa sem­plice (2007); da anni vive nelle Isole Mar­chesi, dove si dedica alla pas­sione per l’apicultura, acco­mu­nata dal desi­de­rio di ren­dere acces­si­bili alcuni con­cetti poli­tici, spesso molto com­plessi. Non si tratta ovvia­mente di una summa gene­ra­liz­zante o super­fi­ciale, né di una strin­gata sin­tesi di fatti e cro­na­che. Il sot­to­ti­tolo, «e a tutti quelli che lo vogliono cono­scere», spiega che non è solo let­tura per ado­le­scenti, ma inve­sti­ga­zione sto­rica adatta anche ad un pub­blico adulto. Aspet­tarsi una lezione fin troppo sem­plice, od una espo­si­zione fia­be­sca dell’idea di comu­ni­smo, sarebbe quindi un errore mador­nale, vista la peri­zia con cui si riporta la sto­ria delle idee socia­li­ste e le vicende cor­re­late.
Il rac­conto, un vero e pro­prio viag­gio, parte dall’incontro con gli uomini pri­mi­tivi, poi via per le città di Ur e Naza­reth, fino a Parigi, Lon­dra, la Cina, e spiega l’illuminismo, la Rivo­lu­zione fran­cese e russa, l’incredibile sto­ria della Comune, il Ses­san­totto ecc.
Alcuni per­so­naggi e fatti sono rac­con­tati con più inten­sità rispetto ad altri, per­ché pos­sono inse­gnare ancora molto a pro­po­sito di quanto accade nelle nostre vite. Quando si parla dell’«esercito di riserva» dei disoc­cu­pati, per esem­pio, Tho­mas, ana­liz­zando le idee di Marx, assolve per­fet­ta­mente il suo com­pito di divul­ga­tore: «Per risol­vere que­sto pro­blema dei capi­ta­li­sti (l’accumulo di plu­sva­lore) diventa essen­ziale la pre­senza di un gran numero di disoc­cu­pati, che ali­men­tano la con­cor­renza fra gli ope­rai garan­tendo un basso livello dei salari e una insita debo­lezza della classe ope­raia, che avendo accanto a sé per­sone tal­mente povere e dispe­rate da accet­tare qual­siasi lavoro e qual­siasi sala­rio, sono costrette a mode­rare le loro richie­ste e le loro riven­di­ca­zioni per non per­dere il loro lavoro».
Una storia non negata

Apprez­zato in patria, Tho­mas ha anche rice­vuto delle cri­ti­che. L’accusa più pesante è stata voler omet­tere gli orrori e gli eccessi che il socia­li­smo reale ha pro­dotto in alcuni casi della sua sto­ria. Tesi curiosa, per­ché l’autore non rinun­cia mai a bia­si­mare i cri­mini com­messi da Pol Pot in Cam­bo­gia, o l’accentramento buro­cra­tico e auto­ri­ta­rio avve­nuto in dif­fe­renti periodi della sto­ria sovie­tica. Ciò che non gli si per­dona, pre­su­mi­bil­mente, è l’aver trac­ciato con estrema cor­ret­tezza e one­stà la linea divi­so­ria tra respon­sa­bi­lità indi­vi­duali e teo­ria poli­tica, fra aspi­ra­zione alla giu­sti­zia e sua rea­liz­za­zione ter­rena. È in que­sta distin­zione che si coglie la forza per­sua­siva del libro, e si arriva alla rispo­sta del que­sito ini­ziale.

Comu­ni­smo è cer­ta­mente sto­ria e rac­conto di quella stessa sto­ria, ma soprat­tutto la ten­sione costante di una uma­nità, fin dai pri­mordi, intenta a can­cel­lare la pre­va­ri­ca­zione dell’uomo sull’uomo, assente quando si è bam­bini, e poi schiac­ciante quanto si entra nella società dei con­sumi e del denaro.
Il comu­ni­smo, per Tho­mas, così ci con­fida nelle pagine finali del testo, oltre a essere un evento epo­cale, è soprat­tutto l’esigenza eterna di affer­mare che «tutti gli esseri umani sono uguali, tutti gli esseri umani hanno gli stessi diritti, nes­sun essere umano può sfrut­tare altri essere umani, tutti gli esseri umani devono avere le stesse pos­si­bi­lità. E soprat­tutto, tutti gli esseri umani hanno il diritto di essere felici». Quella feli­cità, per l’appunto, che ci accom­pa­gna da bam­bini, e che un giorno ci abban­dona, lasciando un per­si­stente sen­ti­mento di melanconia.

Sbilanciamo l'Europa . Il trentennio neoliberista ha divorato la democrazia liberale, facendo carta straccia dei diritti sociali, lasciando spadroneggiare la finanza e riducendo i poteri degli Stati. La questione democratica si ripropone con la partecipazione e la resistenza contro l'assolutismo dei privilegi.

Sbilanciamoci.info, 17 luglio 2014

Di recente, il socio­logo tede­sco Wol­fgang Streeck ha argo­men­tato che la fine del capi­ta­li­smo può venire dalla debo­lezza, piut­to­sto che dalla forza, dell’opposizione anti-neoliberista.Lasciato a se stesso, senza limiti, l’ingordigia del capi­ta­li­smo por­te­rebbe infatti alla distru­zione (al momento in sta­dio avan­zato) di quelle risorse umane a mate­riali di cui esso stesso ha biso­gno per soprav­vi­vere. Un argo­mento simile si potrebbe arti­co­lare anche rispetto alla Unione Europea.

All’indomani di ele­zioni che, per (man­canza di) par­te­ci­pa­zione ed esiti hanno mostrato tutta la insof­fe­renza dei cit­ta­dini euro­pei rispetto a que­sta Europa, il Par­tito Popo­lare Euro­peo (prin­ci­pale per­dente in ter­mini di elet­tori in uscita) e, quel che è peg­gio, un Par­tito Socia­li­sta Euro­peo che non è riu­scito a pre­sen­tarsi come alter­na­tiva, pro­ce­dono come se nulla fosse stato: con il soste­gno bi-partisan al Popo­lare Jean-Claude Juncker—Mister Crisi, non­ché Mister Austerità—alla pre­si­denza della Com­mis­sione Euro­pea e l’elezione (con accordo di rota­zione Pse-Ppe di Mar­tin Schultz, Socia­li­sta cri­ti­cato per­sino in patria per un pere­grino poster elet­to­rale dove si leg­geva «solo se voti per Mar­tin Schultz e l’Spd può un tede­sco diven­tare pre­si­dente della Com­mis­sione Europea».

In più, espo­nenti di entrambi i par­titi van­tano la salda mag­gio­ranza euro­pei­sta nel par­la­mento europeo—rimuovendo la pre­senza, in quella pre­sunta mag­gio­ranza, di pre­senze imba­raz­zanti e ben poco euro­pei­ste, da Forza Ita­lia di Sil­vio Ber­lu­sconi al Fidesz di Vic­tor Orban. Ppe, Pse e chi con loro sem­brano avere fretta di dimen­ti­care che, secondo i son­daggi dell’Eurobarometro, la per­cen­tuale dei cit­ta­dini che ha fidu­cia nella Ue è scesa dal 57% nel 2007 al 31% nel 2013.

La per­cen­tuale di cit­ta­dini che ha una imma­gine posi­tiva dell’Europa è scesa nello stesso periodo dal 52 al 31% e quella di coloro che sono otti­mi­sti rispetto ai futuri svi­luppi della Ue è crol­lata dai due terzi alla metà della popo­la­zione. E che, se que­sti sono i valori medi, la situa­zione è di gran lunga più dram­ma­tica nei paesi più col­piti dalla crisi. Que­sti dati riflet­tono una pro­fonda crisi di respon­sa­bi­lità della ver­sione poli­tica del neo­li­be­ri­smo, nella quale la Ue è con­si­de­rata prin­ci­pale pro­mo­trice. NeL 1970, Haber­mas aveva col­le­gato la crisi eco­no­mica ad una crisi di legit­ti­mità, pro­dotta dalla inca­pa­cità dello stato di risol­vere i pro­blemi del mer­cato. Se Haber­mas si rife­riva allo stato inter­ven­ti­sta della ver­sione for­di­sta, nel capi­ta­li­smo oggi l’effetto di dele­git­ti­ma­zione delle isti­tu­zioni poli­ti­che viene da una crisi di respon­sa­bi­lità legata alla rinun­cia delle isti­tu­zioni poli­ti­che di garan­tire fon­da­men­tali diritti di cit­ta­di­nanza. In estrema sin­tesi, men­tre negli anni ’80 gli Stati furono accu­sati di spen­dere troppo e si allon­ta­na­rono dalle poli­ti­che eco­no­mi­che key­ne­siane di pieno impiego, il post-fordismo ha por­tato a una ridu­zione del wel­fare e a un aumento delle disu­gua­glianze sociali.

Dere­go­la­men­ta­zioni, pri­va­tiz­za­zioni hanno rap­pre­sen­tato i prin­ci­pali indi­rizzi di policy giu­sti­fi­cati dal biso­gno di rista­bi­lire l’efficienza del mer­cato. Tali inter­venti non hanno aiu­tato a miglio­rare la con­cor­renza, ma piut­to­sto incen­ti­vato la con­cen­tra­zione del potere nelle mani di poche mul­ti­na­zio­nali, con una con­se­guente crisi eco­no­mica che affonda le sue radici non nella scar­sità o nell’inflazione, ma piut­to­sto in un pro­cesso di man­cata redi­stri­bu­zione. Dal 2008, il debito pub­blico è aumen­tato, non a causa di inve­sti­menti in ser­vizi sociali o a sup­porto di gruppi sociali vul­ne­ra­bili, ma piut­to­sto a causa di ingenti inie­zioni di denaro pub­blico a favore di ban­che e isti­tu­zioni finan­zia­rie in dis­se­sto finan­zia­rio che ave­vano ope­rato dra­stici tagli sulle tas­sa­zione dei capi­tali. Que­sto svi­luppo nelle inte­ra­zioni fra stato e mer­cato si è tra­sfor­mato in cor­ru­zione della demo­cra­zia rap­pre­sen­ta­tiva attra­verso la sovrap­po­si­zione fra potere eco­no­mico e poli­tico. Dal punto di vista del sistema poli­tico, que­sto com­porta una rinun­cia di respon­sa­bi­lità da parte delle isti­tu­zioni rap­pre­sen­ta­tive di fronte alle istanze dei cittadini.

Con­tro le pro­messe neo­li­be­ri­ste di difesa del mer­cato dallo stato, stu­diosi di varie disci­pline foca­liz­zano l’attenzione su due ele­menti. Da un lato, la sepa­ra­zione fra eco­no­mia e poli­tica è pre­sente rara­mente, i governi devono infatti rime­diare la pre­senza di fal­li­menti del mer­cato, e i mer­cati hanno biso­gno di leggi. Dall’altro, la capa­cità degli stati di garan­tire i diritti dei cit­ta­dini è dra­sti­ca­mente ridi­men­sio­nata dalle poli­ti­che di pri­va­tiz­za­zione, libe­ra­liz­za­zione, e dere­go­la­men­ta­zione che hanno per­messo la con­cen­tra­zione del capi­tale attra­verso legi­sla­zioni favo­re­voli. Gli stati sono accu­sati di abro­gare i diritti sociali al fine di aumen­tare i pro­fitti e le ren­dite di pochi pri­vi­le­giati, poi­ché infatti il neo­li­be­ri­smo implica l’abolizione di molte leggi e rego­la­men­ta­zioni orien­tate al con­trollo dell’economia. Inol­tre, il neo­li­be­ri­smo si è fon­dato – e, come Colin Crouch ha sot­to­li­neato, è stra­na­mente soprav­vis­suto alla sua stessa crisi– soprat­tutto attra­verso il tra­sfe­ri­mento di un’ampia quan­tità di denaro dalle mul­ti­na­zio­nali ai poli­tici. Libe­ra­liz­za­zioni, dere­go­la­men­ta­zioni e pri­va­tiz­za­zioni hanno infatti por­tato a cor­ru­zione e lobby sel­vagge, anche a livello euro­peo. Allo stesso tempo così come le mul­ti­na­zio­nali com­prano le deci­sioni poli­ti­che, emerge il ten­ta­tivo di pre­sen­tare que­ste stesse deci­sioni come «apo­li­ti­che», con l’obiettivo di legit­ti­marne il risul­tato come un beni­gno inter­vento di rego­la­men­ta­zione che l’UE ha cer­cato di raggiungere.

Lo spa­zio per le deci­sioni poli­ti­che è stato negato da poli­tici di dif­fe­renti ban­diere sulla base di un’assunta pre­do­mi­nanza di «logi­che di mer­cato», soprat­tutto nel caso dei mer­cati inter­na­zio­nali. L’obiettivo demo­cra­tico di otte­nere fidu­cia da parte dei cit­ta­dini è stato, nei fatti, reto­ri­ca­mente sosti­tuito dalla ricerca di una «fidu­cia del mer­cato», che è otte­nuta anche a spese di una insen­si­bi­lità verso le istanze dei cit­ta­dini. La respon­sa­bi­lità degli stati demo­cra­tici di fronte ai loro cit­ta­dini è stata rimossa in nome del rispetto di con­di­zio­na­lità esterne – incluse quelle impo­ste dall’Ue agli Stati per l‘accesso a pre­stiti– che hanno impo­sto tagli alla spesa pub­blica, con con­se­guenze dram­ma­ti­che in ter­mini di vio­la­zioni dei diritti umani fon­da­men­tali quali diritto al cibo, alla salute, e all’abitazione. La respon­sa­bi­lità demo­cra­tica è per­tanto ridotta dall’irresponsabilità delle orga­niz­za­zioni inter­na­zio­nali che impone que­ste con­di­zio­na­lità, met­tendo a repen­ta­glio le scelte politiche.

Senza con­trolli e limiti, la crisi di respon­sa­bi­lità che inve­ste le isti­tu­zioni poli­ti­che ai vari livelli in Europa è desti­nata a incan­cre­nirsi. È impor­tante la capa­cità di opporsi a que­ste visioni di Europa da parte di quelle forze che — anche nel par­la­mento (da Siryza a Pode­mos, ai Verdi e anche, nono­stante le sto­lide alleanze, il M5s — pos­sono essere por­ta­trici di un’altra Europa

Dalle storie degli operai la conferma: innovare si può, ma tornando all'indietro; cambiare verso si può, ma all'indietro; fare si può, ma di masole in peggio.

Il manifesto, 10 luglio 2014

E par­liamo un po’ di classe ope­raia, rac­con­tiamo come vive, giorno dopo giorno, tirando la vita coi denti. Par­liamo non di gio­vani disoc­cu­pati, la grande tra­ge­dia nazio­nale, ma di gente che il lavoro ce l’ha — a quali con­di­zioni… — e fatica a man­te­nerlo, sot­to­po­sta a ricatti, costretta a con­di­zioni iugu­la­to­rie, con salari al minimo; e quando lo perde, per l’incessante chiu­sura di offi­cine, aziende, imprese, fa ancora più fatica a rime­diarne un altro.

Non voglio offrire sta­ti­sti­che e sguardi di insieme, ma rac­con­tare una sto­ria, una vicenda come tante, esem­plare, ritengo. Fami­glia pro­le­ta­ria, nell’ex capi­tale: del Ducato di Savoia, del Regno d’Italia, dell’automobile, della Fiat. Il padre ope­raio spe­cia­liz­zato giunto al reparto pro­get­ta­zione auto, ari­sto­cra­zia ope­raia, insomma, che al lavoro ha sem­pre guar­dato con rispetto e per­sino con amore; qual­che scio­pero, ma via via sem­pre meno nel corso dei decenni; una moglie con un lavoro non qua­li­fi­cato, due figli, che fanno le scuole tecniche.

Il maschio fre­quenta l’Istituto per Geo­me­tri, ma comin­cia a fre­quen­tare i can­tieri, nel tempo libero e nelle vacanze, si impra­ti­chi­sce del lavoro, e quando fini­sce trova subito un impiego. Lavora sodo negli anni seguenti, diventa capo­can­tiere, per la ditta che lo ha assunto, mette su fami­glia: com­pra una casetta, col mutuo, fuori città, nel luogo dove ha sede la sua ditta: casa e bot­tega. Come suo padre vive per il lavoro, lo ama, si impe­gna, e non bada a straordinari.

Il babbo è orgo­glioso, ha fatto stu­diare il pri­mo­ge­nito, che è salito nella scala sociale; ma c’è di più. Il nostro ope­raio spe­cia­liz­zato ha una seconda figlia, che fa le scuole com­mer­ciali, prende il suo diploma, e vuole a tutti i costi andare all’università. Il babbo le dice d’accordo, ma non pos­siamo per­met­ter­celo. E lei si man­tiene lavo­rando per tutto il periodo degli studi. E dopo la lau­rea — otte­nuta nei quat­tro anni, e bene — con­ti­nua, avrebbe aspi­ra­zioni intel­let­tuali, ma sa di non poter­selo per­met­tere; con­serva la pas­sione per i libri, per lo stu­dio, e rifiuta le pro­po­ste di con­ti­nuare nella vita degli studi, che il suo rela­tore di tesi le fa.Le rie­sce impos­si­bile con­ci­liare quella dimen­sione, a cui pure ter­rebbe, con la vita reale.

Una vita reale nella quale è pas­sata ormai dai lavo­retti nelle fiere o come aiuto par­ruc­chiera, ad assun­zioni a tempo deter­mi­nato in un’azienda, con rin­novi semestrali.

È seria come tutti in fami­glia: sarà l’etica del lavoro tipica della cul­tura pie­mon­tese? E i datori di lavoro le rin­no­vano il con­tratto, fino a che si sta­bi­lizza: è una lavo­ra­trice che si fa sfrut­tare fino in fondo. Piega la testa, ed è brava: per­ciò, a un certo punto il lavoro a tempo inde­ter­mi­nato arriva. Il mirag­gio diviene realtà. E que­sto le fa cre­dere che può, come suo fra­tello, com­prare un pic­colo appar­ta­mento, con un mutuo trentennale.

Ma fa fatica, troppa fatica, i costi aumen­tano mese dopo mese, le utenze, le spese con­do­mi­niali, il cibo, i deter­sivi, e il suo com­pa­gno che ha messo su un’attività nel momento sba­gliato, con la crisi galop­pante, non ce la fa ad aiu­tarla. Anzi: chiede un fido ban­ca­rio, e le rate stroz­zano lui e lei, che intanto vende gli ogget­tini d’oro, salta il pasto di mez­zodì e usa i buoni pasto della ditta per fare la spesa a fine set­ti­mana. In casa i pranzi sono ridotti a fari­na­cei, patate e, di rado, pro­teine, a cui prov­ve­dono per­lo­più i geni­tori nei pasti dome­ni­cali, quando i due “gio­vani” (ormai entrambi sui 40) ritor­nano nelle dimore di nascita; le mamme li prov­ve­dono con ciba­rie, olio, caffè. Una vita di stenti. E lei sa di doversi con­si­de­rare “for­tu­nata” con i suoi circa 1.100 euro men­sili, anche se alla quarta set­ti­mana non rie­sce ad arri­vare, e cerca occu­pa­zioni per arro­ton­dare. Va a fare le puli­zie in una dimora pri­vata dopo l’ufficio un paio di volte alla settimana.

Intanto, la crisi ha col­pito il fra­tello mag­giore: la ditta ha perso mese dopo mese, le com­messe in pre­ce­denza nume­rose. E un anno e mezzo fa ha chiuso. Era una pic­cola, ma fio­rente azienda. Kaputt. Il geo­me­tra qua­ran­tenne viene messo con gli altri dipen­denti in cassa inte­gra­zione: finita la cassa, comin­cia a cer­care. Prima fa il giro dei can­tieri, poi manda cur­ri­cula alle ditte edili: non riceve rispo­ste. Quando gliene danno sono scon­so­late e sconfortanti.

Spul­cia gli annunci sui gior­nali: ma set­ti­mana dopo set­ti­mana allarga il rag­gio della sua ricerca. Cerca qua­lun­que cosa. Va a sca­ri­care frutta ai mer­cati gene­rali, quando capita. E con­ti­nua a salir l’altrui scale. A bus­sare a porte che riman­gono osti­na­ta­mente chiuse. I geni­tori con­di­vi­dono le amba­sce del figlio, e le dif­fi­coltà della figlia. Sono impo­tenti. E pro­ba­bil­mente il padre pensa che suo figlio che era la prova del miglio­ra­mento della con­di­zione fami­liare, ora testi­mo­nia un fal­li­mento, una scon­fitta. Ma arriva infine la buona noti­zia: forse il figlio sarà “preso”, ossia assunto. In una ditta metal­mec­ca­nica. Come ope­raio sem­plice, mano­vale. Ma avrà un sala­rio. Basso, poco più di 900 euro trat­tan­dosi di un primo impiego, ma pur sem­pre un salario.

Infine, non sarà super­fluo aggiun­gere che que­sto posto, se sarà dav­vero con­fer­mato, è stato otte­nuto solo gra­zie al fatto che all’Ufficio del per­so­nale della ditta c’è qual­cuno che è amico di un amico che è amico di…Insomma, anche per essere assunti, come ope­raio gene­rico, in una grande azienda del Nord, occorre una raccomandazione.
Ma que­sto è solo un det­ta­glio: siamo pur sem­pre in Ita­lia. Quello che conta è la forza sim­bo­lica di que­sta pic­cola sto­ria, una come tante. Sen­tiamo par­lare di “cam­bio di passo”, di mobi­lità, di riforme, di moder­nità, di ascen­sore sociale, della gene­ra­zione di Tele­maco che sosti­tui­sce quella di Ulisse (che scioc­chezza, Renzi!): ebbene, l’ascensore quando fun­ziona, va in discesa.

Ricorre l’8 luglio, l’anniversario della nascita di Ernst Bloch, il grande filosofo della speranza, dell’utopia e della liberazione umana qui e ora. Lo ricordiamo con questa nota di Peppe Sini, Comune.info, 8 luglio 2014

Anche se la speranza non fa altro che sormontare l’orizzonte, mentre solo la conoscenza del reale tramite la prassi lo sposta in avanti saldamente, è pur sempre essa e soltanto essa che fa conquistare l’incoraggiante e consolante comprensione del mondo, a cui essa conduce, come la più salda ed insieme la più tendenzialmente concreta. [...] L’importante è imparare a sperare. Il lavoro della speranza non è rinunciatario perché di per sé desidera aver successo invece che fallire. [...] Contro l’aspettare è d’aiuto lo sperare. Ma non ci si deve solo nutrire di speranza, bisogna anche trovare in essa qualcosa da cucinare. [...] L’utopia concreta sta all’orizzonte di ogni realtà; la possibilità reale circonda fino alla fine le tendenze-latenze dialettiche aperte, l’utopia non è fuga nell’irreale, è scavo per la messa in luce delle possibilità oggettive insite nel reale e lotta per la loro realizzazione

Ernst Bloch (Ludwigshafen, 8 luglio 1885 – Tubinga, 4 agosto 1977) è il grande filosofo dello “spirito dell’utopia”, del “principio speranza”, dell’”ortopedia del camminare eretti” (per citare alcuni titoli ed espressioni delle sue opere che sono altrettante proposte di riflessione e di lotta per la dignità umana); la sua riflessione e la sua testimonianza (come quelle – ad un tempo in tensione dialettica e complementari – di Guenther Anders e di Hans Jonas, di Hannah Arendt e della scuola di Francoforte, delle opere più aggettanti di Karl Korsch e di Gyorgy Lukacs) apportano decisivi contributi all’elaborazione di una teoria e una prassi politica della nonviolenza in cammino adeguata alla situazione presente, che costituisca un progetto di alternativa economica, politica e culturale capace di fondare qui e ora una società liberata e solidale che sappia riconoscere e promuovere i diritti umani di tutti gli esseri umani e la piena, consapevole, responsabile difesa della biosfera.
Tra le opere di Ernst Bloch ricordiamo: “Spirito dell’utopia” (La Nuova Italia, Firenze); “Thomas Muenzer, teologo della rivoluzione” (Feltrinelli, Milano); “Tracce” (Garzanti, Milano); “Soggetto-oggetto” (Il Mulino, Bologna); “Il principio speranza” (Garzanti, Milano); “Diritto naturale e dignità umana” (Giappichelli, Torino); “Ateismo nel cristianesimo” (Feltrinelli, Milano); “Il problema del materialismo; Experimentum mundi” (Queriniana, Brescia).
Tra le opere su Ernst Bloch in italiano invece si vedano almeno gli studi di Italo Mancini, Stefano Zecchi, Remo Bodei, Giuseppe Cacciatore, Giuseppe Pirola, Laura Boella, Laennec Hurbon; si veda anche il fascicolo monografico di “Aut aut”, n. 173-174, settembre-dicembre 1979, dal titolo “Eredità di Bloch”. Come è noto, in viva relazione con l’opera di Bloch è quella di Juergen Moltmann, “Teologia della speranza” (Queriniana, Brescia), così come le opere della teologia della liberazione fin dal testo eponimo di Gustavo Gutierrez, “Teologia della liberazione. Prospettive” (Queriniana, Brescia). Tra molti altri autori la cui riflessione ha un profondo rapporto dialettico con quella blochiana su temi cruciali segnaliamo anche almeno l’indimenticabile Ernesto Balducci.

Ricordare Ernst Bloch e lottare per la dignità umana e la liberazione dell’umanità sono dunuqe una cosa sola: non si è fedeli alla sua lezione se non ci si impegna concretamente e coerentemente per la vita, la dignità e i diritti di tutti gli esseri umani e per la difesa della biosfera; e nella effettuale ed autocosciente lotta per difendere la biosfera e la vita, la dignità e i diritti di tutti gli esseri umani la sua lezione appronta e dona strumenti teorici ed ermeneutici di fondamentale importanza.

Nell’anniversario della nascita di Ernst Bloch, nel ricordo e alla scuola della sua testimonianza e del suo pensiero, la commemorazione più degna e sincera resta proseguire la lotta nonviolenta contro tutte le guerre e tutte le uccisioni, contro tutte le distruzioni e tutte le persecuzioni, per l’eguaglianza di diritti di tutti gli esseri umani e per la liberazione dell’umanità, per la solidarietà che tutte le persone riconosce, raggiunge, sostiene, e si prende cura del mondo vivente.

Peppe Sini, è responsabile del Centro di ricerca per la pace e i diritti umani di Viterbo, cura una la mailing list quotidiana “La nonviolenza è in cammino”

«». Il Gazzettino

A leggere le cronache di questi giorni (e relativi commenti) sembra esistere soltanto la responsabilità penale. Un fatto diventa censurabile unicamente se viene aperta un'inchiesta da parte della Procura. E, parallelamente, se l'inchiesta penale viene archiviata, qualsiasi comportamento acquisisce una "patente" di correttezza. Ma non è cosi. Non può essere cosi. Non tutto (fortunatamente) ha rilievo penale. Ci sono, però, comportamenti che ugualmente sono (e dovrebbero) essere censurabili (e censurati), almeno sul piano politico e, perché no, etico.

Due esempi, recentissimi, arrivano dall'inchiesta sul cosiddetto "sistema Mose" e riguardano due esponenti politici di primo piano coinvolti, anche se con profili e accuse ben diverse. r un momento dimentichiamo le accuse penali - tanto più che entrambi vanno considerati innocenti fino a sentenza definitiva - e proviamo a concentrarci sul piano strettamente politico. Che valutazione dare di un presidente della Regione che aveva acquisito a titolo personale quote della società che si proponeva come partner principale della stessa amministrazione regionale per realizzare opere in project financing? Giancarlo Galan forse riuscirà a dimostrare di non essere un corrotto, ma come pud giustificare ai cittadini quell'interesse privato sicuramente incompatibile con la carica pubblica? Nella sua appassionata difesa ha spiegato di non aver mai fatto affari tramite quella società: giustificazione che la dice lunga sul modo di intendere (e di mescolare) pubblico e privato. Dovrebbe bastare questa circostanza -ammessa dallo stesso Galan nella memoria presentata al Parlamento -per formulare una pesante riserva sul suo comportamento politico.
E cosa dire del sindaco dimissionario di Venezia? Di Giorgio Orsoni, stimato e capace professionista, sorprendono le motivazioni di quel finanziamento elettorale da lui sollecitato (pur credendolo regolare) al presidente del Consorzio Venezia Nuova, Giovanni Mazzacurati. Lo stesso sindaco ha ammesso davanti ai pubblici ministeri di aver percepito l'inopportunità di ottenere contributi da un soggetto coinvolto in opere cosi importanti in città: cid nonostante, cedendo alle pressioni del Pd, si decise di rivolgersi all'amico Mazzacurati. Se non lo avesse fatto, ha spiegato, avrebbe dovuto provvedere di tasca propria alle spese elettorali. Sul fronte penale il sindaco riuscirà forse a dimostrare la sua estraneità alle accuse. Nel frattempo, sul piano politico non ne esce bene. Tanto più se si considera che il Cvn, in quanto soggetto che gestisce denaro pubblico, per legge non pub finanziare esponenti politici.
Del livello politico, però, pare non interessarsi nessuno. Tutti preferiscono aspettare l'inchiesta penale di turno per esprimere valutazioni sul (presunto) amministratore infedele, e al tempo stesso per contestare ai magistrati indebite ingerenze. E uno dei motivi per cui la politica sta perdendo credibilità e autorevolezza: perché dimostra di non essere in grado di rivendicare (e mettere in atto) quei necessari valori di trasparenza, pulizia, correttezza nella gestione della cosa pubblica.

Perché succede? Elementare Watson spendono nelle Grandi opere inutili e dannose, negli armamenti, nei favori alle banche autrici della crisi, - e perciò mancano le risorse per le cose necessarie.

Il Fatto Quotidiano, 10 luglio 2014

Dopo cinque giorni di agonia, ieri Salvatore Giordano è morto: a quattordici anni. Sabato era stato colpito da alcuni calcinacci staccatisi dal soffitto della Galleria Umberto I, nel cuore di Napoli. Perché è successo? Di fronte a eventi terribili come questo, ci si è sempre interrogati. Gesù, nel Vangelo di Luca, sfida le superstizioni dei benpensanti del suo tempo: “Quei diciotto sopra i quali rovinò la torre di Siloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico”. Oggi, invece, ci chiediamo: si poteva evitare? È davvero una fatalità? O è colpa di qualcuno? Non è possibile non vedere il nesso tra la tragica morte di Salvatore Giordano e l’abbandono di ogni manutenzione delle nostre città. Il centro storico di Napoli si va lentamente disfacendo, nell’indifferenza generale: ma il problema non è solo di Napoli. Il 4 gennaio 2012, alle cinque di pomeriggio, a Firenze si rischia una strage: dalla Colonna dell’Abbondanza, nell’affollatissima Piazza della Repubblica, si stacca un frammento lapideo di ottanta chili, che precipita al suolo, miracolosamente senza ammazzare nessuno. Sempre a Firenze, pochi giorni fa quel miracolo non si è ripetuto: un ramo staccatosi da un albero nel Parco delle Cascine ha ucciso una donna e la sua nipotina. “Alla manutenzione, l’Italia preferisce l’inaugurazione”. Lo scriveva Leo Longanesi nel 1955, e oggi è ancora più sistematicamente vero.

La morbosa politica “culturale” dei Grandi Eventi rende praticamente inimmaginabile che un ministro o un sindacotrovino conveniente annunciare una campagna di manutenzione ordinaria a tappeto: troppo poco, troppo grigio, troppo umilmente anonimo. Ma il problema è ancora più profondo, e riguarda la mentalità indotta dal consumismo di massa nella sua fase estrema e (chissà) finale: è l’idea stessa della conservazione, della cura quotidiana degli oggetti ad essere uscita dal nostro orizzonte mentale. Se questo è vero per il nostro stesso corpo, lo è ancora di più per il corpo delle nostre città.

Non è difficile oggi capire l’ardimento visionario con cui nacque, per esempio, Venezia: difficile è capire il lavoro quotidiano della Repubblica Serenissima, che incessantemente ha curato la Laguna ogni giorno di ogni mese di ogni anno di ogni secolo. Eppure, senza quel lavoro quotidiano non avremmo Venezia. Oggi, quando va bene, la manutenzione si identifica con l’intervento eccezionale (vedi il Mose): meglio se spettacolare, e meglio ancora se costosissimo.

Nulla potrà ridare Salvatore ai suoi cari, ma noi questa lezione dobbiamo impararla: prima che non solo Napoli, ma tutte le nostre città storiche ci cadano, letteralmente, sulla testa.

«». Il granello di sabbia

Per andare oltre le semplificazioni tipiche delle rappresentazioni mediatiche della violenza sessista che tendono a eluderne contorni, portata e ragioni, conviene smontare alcuni pregiudizi, stereotipi, luoghi comuni. Anzitutto, il sistema gerarchico di relazione fra i generi, quindi il sessismo e la violenza sulle donne, non sono l’esito fatale di qualche fatto naturale (per esempio, l’aggressività maschile, la passività femminile), bensì di un processo storico e di una costruzione sociale e culturale. Vi sono società che mai hanno conosciuto il patriarcato o altre forme di dominio-appropriazione delle donne. Il che dimostra che la natura non è determinante. Vi sono state e vi sono società considerate “arretrate” che ignorano non solo la gerarchia ma anche una rigida distinzione in base al sesso detto naturale(1).

In secondo luogo, il sistema di dominio, discriminazione e violenza sessisti non rappresenta un rigurgito dell’arcaico o un’anomalia della modernità. Anche se eredita credenze, pregiudizi, strutture, simbologie e mitologie del passato, appartiene al nostro tempo e al nostro ordine sociale ed economico. Del tutto infondato, quindi, è il dogma secondo il quale la modernità occidentale sarebbe caratterizzata da un progresso assoluto e indiscutibile nel campo delle relazioni di genere, mentre a essere immerse nelle tenebre del patriarcato sarebbero sempre le altre. Per dirne una, nell’ultimo rapporto (2013) sul Gender Gap del World Economic Forum (2), le Filippine figurano al 5° posto su scala mondiale per parità fra i generi (dopo Islanda, Finlandia, Norvegia e Svezia), mentre l’Italia è solo al 71°, dopo la Cina e la Romania (3).

Purtroppo, come dimostra il caso della Svezia, non sempre c’è un rapporto inversamente proporzionale tra la conquista della parità di genere e la violenza sessista. Questo paese, da sempre in prima linea nel garantire la parità, e perciò occupa il 4° posto su 136 paesi, registra un numero crescente di stupri: negli ultimi vent’anni si sono quadruplicati, così da riguardare una donna svedese su quattro e porre il paese al secondo posto nella classifica mondiale dopo il Lesotho. A spiegare questa progressione drammatica non credo sia sufficiente la spiegazione per cui in paesi, come la Svezia, ove vige una cultura più egualitaria tra i sessi, il numero delle denunce si avvicini a quello dei casi reali. Un sondaggio recente realizzato dall’Agenzia europea per i diritti fondamentali, non basato sul numero di denunce bensì sulle risposte di un campione di 42mila donne, conferma che è nei paesi scandinavi che si verifica l’incremento più allarmante di violenze, abusi e molestie ai danni delle donne.
I risultati del sondaggio collocano al vertice della triste classifica la Danimarca (con il 52% di donne che dichiarano di avere subìto violenza fisica o sessuale), seguita dalla Finlandia (47%) e dalla Svezia (46%). Al 18° posto (con il 27%) vi è l’Italia, che, come ho detto, si colloca agli ultimi livelli per parità di genere. Il che non deve farci dimenticare i dati italiani sul femminicidio. Dal 2006 al 2013, nel nostro paese sono state uccise 1.042 donne: in media 116 ogni 12 mesi, con un picco di 134 nel 2013. Dunque, non bastano la parità formale o il fatto che un buon numero di donne ricoprano ruoli di rilievo a determinare una cultura dell’uguaglianza e del rispetto.
Allorché, come nei paesi scandinavi, il sistema economico e sociale, quindi identitario, subisce una crisi o un crollo, riemerge la tentazione del dominio sessista, così come accade in certi contesti di guerra (l’ex Jugoslavia insegna…). Il che smentisce un altro luogo comune corrente, quello secondo cui per superare la violenza di genere sarebbe sufficiente un cambiamento culturale, tale da archiviare finalmente la cultura patriarcale. In realtà, la gerarchia e la disuguaglianza fra i generi, nonché la violenza sessista, hanno spiegazioni e dimensioni molteplici: economica, sociale, giuridica, simbolica linguistica, semantica… Fra le tante ragioni che possono spiegare perché mai in società “avanzate” avanzi pure il numero di stupri e altre violenze sessiste, ne cito giusto una: non tutti gli uomini sono in grado/disposti ad accettare i cambiamenti che investono i ruoli e la condizione femminili, vissuti come minaccia alla propria virilità e/o al proprio “diritto” al possesso se non al dominio. Tale inadeguatezza della società (maschile) si riflette anche nella risposta delle istituzioni rispetto alla violenza di genere, risposta spesso tardiva, elusiva o inadeguata: in molti dei casi italiani che si concludono col femminicidio, le vittime avevano denunciato più volte, invano, i loro persecutori.

Insomma, conviene diffidare degli schemi evoluzionisti e dei facili ottimismi progressisti: la discriminazione e/o la violenza in base al genere – come quelle in base alla “razza”, alla classe, all’orientamento sessuale - non sono necessariamente residuo del passato, segno di arretratezza o di modernità incompiuta, destinato a dissolversi presto, bensì un tratto che appartiene intrinsecamente anche alla tarda modernità (o alla modernità decadente, si potrebbe dire). In più, oggi, particolarmente in Italia, il neoliberismo, le privatizzazioni, la crisi economica, le politiche di austerità e le pesanti ricadute sull’occupazione e sul Welfare State hanno significato per le donne arretramento in molti campi.

Su questo versante la situazione italiana è pessima. I dati sul Gender Gap che ho citato prima sono eloquenti: in Italia solo il 51% delle donne lavora, contro il 74% degli uomini. Quanto al salario, un’italiana guadagna in media 0,47 centesimi per ogni euro guadagnato da un uomo: per eguaglianza salariale l’Italia è al 124° posto su 136 paesi. Tutto ciò per non dire della crescente reificazione/mercificazione dei corpi femminili, cui il sistema di potere berlusconiano ha dato nel corso del tempo un contributo rilevante.E’ forse pleonastico aggiungere che le stesse donne talvolta sono complici, consapevoli o non, del sistema sessista. Per non dire che anche donne vittime di discriminazioni di genere possono dominare o sfruttare altri/e in base al privilegio della nazionalità, all’appartenenza alla maggioranza e/o a una classe superiore.

Perciò sono molto scettica rispetto a quei femminismi deboli che si limitano a promuovere il progresso individuale e la meritocrazia in ambito femminile. Penso, invece, che la lotta per trasformare l’ordine fondato sulla gerarchia di genere debba essere collettiva e coniugata con quella per la giustizia economica e l’uguaglianza sociale, civile, politica. Infine: se è vero, come ha scritto più volte Etienne Balibar, che la comunità razzista e la comunità sessista si identificano sostanzialmente, allora la battaglia contro il sessismo è inscindibile da quella contro il razzismo. Ma per articolare il tema della liberazione delle donne con quello dei diritti delle/dei migranti, occorre un pensiero critico complesso, affrancato da semplificazioni, cliché, luoghi comuni, disposto a mettere in discussione alla radice anche la tradizione cui si appartiene(4).

Note
1 In proposito, riporto un esempio, tratto dal mio La Bella, la Bestia e l’Umano (Ediesse, Roma 2010). Per gli Inuit (uno dei due gruppi principali che costituiscono gli “Eschimesi”), ogni essere umano è la reincarnazione di un certo antenato, di cui alla nascita l’individuo assume il nome-anima: quindi anche l’identità sessuata e la personalità sociale, qualunque sia il proprio sesso “naturale” e quello dell’antenato/a. Solo alla pubertà egli/ella torna a “riprendere” il sesso con cui è nato/a.
2 Il Gender Gap è misurato in base a quattro criteri principali: salute, formazione, lavoro e partecipazione al sistema politico. In particolare, l’Italia è al 65° posto per il livello di scolarizzazione, al 72° per il diritto alla salute, al 44° per l’accesso al potere politico e al 97° per la partecipazione alla vita economica.
3 Ricordo che la maggior parte dei paesi europei si trova nelle prime trenta posizioni, su 136 paesi.
4 Qui posso solo enunciare il tema. Per un’analisi approfondita, si può vedere il mio, già citato, La Bella, la Bestia e l’Umano.

Annamaria Rivera è docente di antropologia sociale all’Università di Base, editorialista, scrittrice e saggista, una vita da attivista dei movimenti

«project financing degna del più radicale dei No-Tav»Il Fatto Quotidiano, 9 luglio 2014

Un fantasma si aggira per l’inchiesta sul Mose: è l’affare della nuova autostrada Orte-Mestre, nota anche come Nuova Romea. Costerà quasi dieci miliardi di euro, e dagli interrogatori si capisce che è il vero affare che calamita le attenzioni. Claudia Minutillo, ex segretaria del governatore veneto Giancarlo Galan, passata come manager al gruppo Mantovani, racconta che il suo nuovo capo, Piergiorgio Baita, non pensava ad altro. Quando li arrestano, nella primavera 2013, non c’è ancora il sospirato via libera del governo, che arriverà l’8 novembre 2013, in una riunione del Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica) presieduta dal premier Enrico Letta. Il 24 aprile 2012 Minutillo chiama Baita per parlare della riunione Cipe di tre giorni dopo. Sintesi giudiziaria della chiamata: “Baita voleva sapere se ci fosse la Romea e comunque chiederà ad Albanese... omissis...”.

Bisogna tirare il filo per vedere dove porta. Gioacchino Albanese, detto Nino, era già famoso negli anni 70 come braccio destro di Eugenio Cefis, poi è stato manager dell’Eni, coinvolto nello scandalo Eni-Petromin (1980), e nel 1981 è risultato iscritto alla loggia P2 con la tessera numero 913. Oggi ha 82 anni e ricopre ancora un ruolo decisivo: è amministratore delegato della Ilia Spa di Genova, promotrice della Orte-Mestre. Si tratta di un , il modo più moderno di scavare buche nei conti dello Stato: in apparenza il privato costruisce un’opera pubblica a sue spese e recupera l'investimento incassando i pedaggi, in questo caso per 49 anni.

Per spiegare ai pm i rapporti corruttivi tra Baita e Galan, Minutillo tiene una lezione sul project financing degna del più radicale dei No-Tav. Conferma infatti che è la miglior maniera di evitare il fastidio di una gara d’appalto, ma che ovviamente prima di avanzare una proposta bisogna essere certi che il politico la inserisca nelle opere di “interesse pubblico”: “La presentazione di un ha un costo significativo per non dire rilevante, motivo per cui se non si ha la sicurezza di avere dei contraddittori disponibili si rischia solo di gettare i costi dello stesso”. I politici spiega Minutillo, giustificheranno l’entusiasmo un po’ sospetto “dicendo che a loro l’unico interesse vero era comunque fare l’opera, questa è la cosa che dicono sempre”. Il ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli (indagato per corruzione nello scandalo Mose) il 23 febbraio 2010 ha benedetto la Orte-Mestre come “fondamentale per la piccola e media imprenditoria”, mentre Maurizio Lupi, ministro delle Infrastrutture, a novembre 2013 saluta il via libera del Cipe a “un asse viario fondamentale per l’Italia, completamente coperto da capitali privati”. In verità, dei 9,8 miliardi lo Stato ce ne metterà 1,9 sotto forma di sconti fiscali alle imprese costruttrici, grazie ad apposita legge del governo Monti.

Il ministro dell’Economia dell’epoca, Fabrizio Saccomanni, era contrario. Baita soffriva. Minutillo spiega: “L’Economia, il Tesoro, si opponeva a questa cosa qua, quindi veniva... è stata rinviata più volte. Baita teneva i contatti con il dottor Albanese del gruppo di Bonsignore, e poi avevano dentro al ministero le persone”. Il capo di Albanese è Vito Bonsignore, ex andreottiano diventato imprenditore con la liquidazione da 2-300 milioni che gli dette Marcellino Gavio per farlo fuori dall’Autostrada Milano-Torino e legatissimo all’ex senatore Luigi Grillo e a Sergio Cattozzo i due uomini dell’Ncd arrestati a Milano nell’inchiesta Expo. Europarlamentare fino allo scorso 25 maggio, Bonsignore è stato insignito, durante Mani pulite, di una condanna definitiva a due anni per corruzione. Oggi è tra i fondatori del partito di Angelino Alfano e soprattutto di Lupi. Bonsignore ha buone amicizie. Il presidente della Ilia a cui il governo sta affidando l’autostrada da 10 miliardi è Giovanni Berneschi, momentaneamente agli arresti per lo scandalo della Carige, banca che supporta Bonsignore nella Orte-Mestre. Ma nessuno batte ciglio. Anzi. La delibera Cipe dell’8 novembre scorso è ancora segreta. Non è dato conoscere il piano economico-finanziario su cui si basa la previsione che i proventi del traffico ripagheranno l’opera. Sicuramente c’è una clausola secondo la quale ricavi inferiori al previsto comporteranno l’impegno dello Stato a pagare la differenza. Insomma, il rischio d’impresa è tutto a carico dei contribuenti, ed è per questo che delibere, piani e contratti con cui si impegnano miliardi pubblici non vengono pubblicati.

D’altra parte l’opera piace a tutti. All’inizio c’era un’Associazione Nuova Romea, presieduta da Pier Luigi Bersani, che si batteva per una nuova arteria tra Ravenna e Mestre, visto che la Romea era obsoleta e pericolosissima. C’era anche una società, che girava intorno alle coop rosse (Cmc di Ravenna e Ccc di Bologna su tutte) e alla Mantovani di Baita, pronta a proporre il suo project financing. Finché nel 2003 Bonsignore spiazza tutti con un progetto unico, da Orte a Mestre, passando per Cesena e Ravenna, che il ministro dell’epoca, Pietro Lunardi, subito accoglie. Il governatore dell’Emilia-Romagna,

Vasco Errani, che è di Ravenna, attacca: “La scelta delle opere da fare non è compito dei privati”. Ma poco tempo dopo lo stesso Errani si batterà come un leone per chiedere al governo lo sblocco del della Ilia. Come mai?

Nella rissa Bonsignore e Lunardi sfoderano la loro abilità. Racconta Minutillo: “Furono bravissimi, misero subito d’accordo cinque presidenti di Regione”. L’intesa arriva nel 2005 e prevede lavoro per tutti: per la Mantovani nelle tratte venete, per le coop rosse in Emilia e via spartendo. Il 27 luglio 2005 l’Anas dà il via libera al progetto di Bonsignore. Due settimane prima il regista della Orte-Mestre aveva discusso con il suo amico Massimo D’Alema le modalità di partecipazione alla scalata alla Bnl della Unipol di Gianni Consorte. L’ex premier riferisce al manager presunto rosso: “Voleva dirmi... voleva sapere se io gli chiedevo di fare quello che tu gli hai chiesto di fare, oppure no [ridacchia]... Che voleva altre cose, diciamo... a latere su un tavolo politico. [...] Ti volevo informare che io ho... ho regolato da parte mia”. I magistrati di Venezia stanno portando alla luce i contesti trasversali e opachi con cui la politica spartisce denaro pubblico tra le imprese amiche.

«Riforme. Del bicameralismo si è discusso abbastanza. Con una mossa mai vista, Napolitano interviene sui lavori del senato. In aiuto al premier e sostituendosi al presidente del senato che era stato chiamato in causa». Tirannide o consolato? comunque dai principi della democrazia liberal-borghese (fra poco è il 14 luglio) e dalla Costituzione italiana, siamo fuori.

Il manifesto, 8 luglio 2014

Otto sedute per votare otto emen­da­menti, tutti dei rela­tori e solo sugli aspetti secon­dari della riforma costi­tu­zio­nale. È il lavoro svolto dalla prima com­mis­sione del senato nelle ultime due set­ti­mane. Restano da defi­nire la fun­zione e la com­po­si­zione delle camere e manca ancora l’intero capi­tolo del regio­na­li­smo, il famoso Titolo V. Biso­gna votare altri dodici emen­da­menti dei rela­tori su tutti gli aspetti cen­trali della riforma (come si scel­gono i sena­tori? di cosa si devono occu­pare?) e ci sono un numero enorme di pro­po­ste alter­na­tive della mag­gio­ranza «allar­gata» e della mino­ranza. Ebbene, per rispet­tare la tabella di mar­cia, tutto que­sto lavoro biso­gnerà farlo in due o tre giorni. E se fino a ieri a det­tare i tempi del senato era il capo del governo, adesso è diret­ta­mente il capo dello stato.
Una mossa mai vista da parte del pre­si­dente Napo­li­tano, che ieri ha deciso di inter­ve­nire in prima per­sona nel dibat­tito, acce­sis­simo in que­ste ore, tra soste­ni­tori e cri­tici della riforma costi­tu­zio­nale gover­na­tiva. Basta, ha detto, si è discusso abbastanza.

Che si debba cor­rere lo sostiene Renzi, eppure il pre­si­dente della Repub­blica assi­cura di par­lare «senza pro­nun­ciarsi sui ter­mini delle scelte in discus­sione». Ma i ter­mini, adesso, sono pro­prio que­sti: biso­gna neces­sa­ria­mente chiu­dere al senato entro la pausa estiva, o c’è il tempo di cor­reg­gere l’esecutivo? Non c’è tempo, dice il Qui­ri­nale. Secondo il Colle biso­gna evi­tare «ulte­riori spo­sta­menti in avanti dei tempi di un con­fronto che non può sci­vo­lare, come troppe volte è già acca­duto, nell’inconcludenza».

A Napo­li­tano si erano rivolti in molti in que­sti giorni. Ma per la ragione oppo­sta: invi­ta­vano il pre­si­dente, garante di tutti, a tute­lare la sepa­ra­zione di ruoli tra il par­la­mento e l’esecutivo, spe­cie in mate­ria di leggi di revi­sione costi­tu­zio­nale. La legge in discus­sione, in par­ti­co­lare, è stata scritta diret­ta­mente dal pre­si­dente del Con­si­glio. Gli emen­da­menti accolti sono stati tutti discussi a palazzo Chigi. E i tempi della discus­sione sono quelli che vuole il capo del governo, che da marzo sta andando avanti di ulti­ma­tum in ulti­ma­tum. Tant’è che un gruppo di sena­tori, i cosid­detti «dis­si­denti» di tutti i par­titi, era pronto a chie­dere al pre­si­dente del senato di espri­mersi, e di asse­gnare alla com­mis­sione e all’aula un con­gruo tempo di appro­fon­di­mento. Chie­de­vano alla seconda carica dello stato, Grasso, di fre­nare la corsa di Renzi. È stato pro­prio in que­sto momento che ha deciso di inter­ve­nire la prima carica, Napo­li­tano. Per accelerare.

La nota del Colle sposa in tutto l’impostazione ren­ziana, e abbonda di rife­ri­menti per dimo­strare che ormai del bica­me­ra­li­smo pari­ta­rio e «delle sue rica­dute nega­tive sul pro­cesso di for­ma­zione delle leggi» si è discusso abba­stanza. Il pre­si­dente dice che c’è stata «un’ampia aper­tura di dibat­tito» e che si è «pro­lun­gata note­vol­mente rispetto agli annunci ini­ziali», cioè la pro­messa di Renzi di chiu­dere al senato in un mese, entro lo scorso 25 mag­gio. Non solo: il capo dello stato si spinge a valu­tare la quan­tità di audi­zioni che sono state svolte in com­mis­sione affari costi­tu­zio­nali al senato — «lar­ghe audi­zioni» — e non tra­scura un giu­di­zio sul numero di cor­re­zioni sug­ge­rite dai rela­tori al testo del governo (con l’ok del governo) — «ricca messe di emendamenti».

La cro­naca par­la­men­tare del Colle spa­lanca al dise­gno di legge Renzi-Boschi le porte dell’aula del senato. Che ha biso­gno di acco­gliere la «grande riforma» ren­ziana tra la fine di que­sta set­ti­mana e l’inizio della pros­sima, al mas­simo. È que­sta la con­di­zione indi­spen­sa­bile per pro­vare a man­dare gli ita­liani, e i par­la­men­tari, in vacanza con un primo pas­sag­gio com­piuto sulle riforme costi­tu­zio­nali. È la prima emer­genza nazio­nale? Non pare, ma a Renzi importa così e il par­la­mento, sezione distac­cata di palazzo Chigi, deve ade­guarsi. Ieri sera c’è stata l’ennesima riu­nione dei sena­tori del Pd, anche que­sta dedi­cata non a discu­tere l’impostazione gover­na­tiva ma a richia­mare all’ordine i dis­si­denti. Tant’è che Renzi non si è nean­che pre­sen­tato: non c’era nulla da spie­gare. Nes­suna rispo­sta nean­che sulle que­stioni rima­ste senza solu­zione, quelle che anche i ren­ziani ammet­tono che andranno registrate.

osì è ancora pre­vi­sto che il pre­si­dente della Repub­blica sia eleg­gi­bile da un solo par­tito, che i depu­tati non dimi­nui­scano di un’unità (vani­fi­cando il decan­tato «rispar­mio» sul senato), che un sin­daco o un con­si­gliere regio­nale nei guai con la giu­sti­zia pos­sano tro­vare riparo nell’immunità sena­to­riale… Si cor­reg­gerà? E come? Solo a chie­derlo si fini­sce tra i fre­na­tor. La fretta è per­sino mag­giore di quella che guidò alla camera l’approvazione della legge elet­to­rale, quella che adesso tutti vogliono cam­biare. O in altre legi­sla­ture ispirò le riforme costi­tu­zio­nali dell’articolo 81 e di tutto il Titolo V, due fal­li­menti riconosciuti.

Da ieri sera il «patto del Naza­reno» tra Renzi e Ber­lu­sconi è più forte. La guar­dia di Napo­li­tano inde­bo­li­sce i sena­tori cri­tici e lascia poco spa­zio ai ten­ta­tivi di cor­re­zione della riforma. Sono oltre qua­ranta gli arti­coli della Costi­tu­zione da modi­fi­care e l’importante, dice Napo­li­tano, è farlo. Se c’è un argo­mento che il pre­si­dente della Repub­blica dimen­tica, ecco a ricor­darlo il capo­gruppo Pd Zanda: è urgente tra­sfor­mare sin­daci e con­si­glieri regio­nali in sena­tori per­ché «ce lo chiede l’Europa».

«Un indicatore più completo è quello per le Nazioni Unite di Amartya Sen e altri, lo Human Development Index: misura la qualità della salute e dell’istruzione». Istat ha pubblicato il "Rapporto Bes 2014: il benessere equo e sostenibile". La

Repubblica, 6 luglio 2014 (m.p.r.)

NEW YORK «Perché il Pil puzza e perché nessuno ci fa attenzione»: con questo titolo colorito il Wall Street Journal riassume le reazioni delle Borse alla notizia di una presunta “frenataccia” dell’economia americana. Meno 2,9%, il Pil nel primo trimestre di quest’anno. Un dato pessimo, mette l’America “in rosso” dopo cinque anni di ripresa, la sbatte dietro ai malati cronici dell’eurozona. É il peggiore dato dal primo trimestre del 2009, quando gli Stati Uniti erano ancora nel mezzo della recessione. Ma questa revisione del Pil ha lasciato indifferenti i mercati e gli esperti.

L’unica vittima? La credibilità stessa del Prodotto interno lordo come indicatore sullo stato di salute dell’economia. Un tempo a contestare il Pil erano soprattutto economisti di sinistra, come i premi Nobel Amartya Sen e Joseph Stiglitz, ambedue autori di statistiche “alternative”. Oppure, ancora più radicali, c’erano le critiche dei teorici della decrescita come Serge Latouche, per i quali l’aumento del Pil è sinonimo di sviluppo insostenibile, distruzione di risorse naturali.
La novità: adesso agli attacchi contro il Pil si uniscono l’establishment, i mercati, gli organi del neoliberismo. «L’incidente del primo trimestre 2014», come si può intitolare la vicenda dello scivolone in negativo, è davvero esemplare. Tra i fattori che hanno frenato la crescita Usa, il più potente è la riforma sanitaria di Barack Obama. A gennaio di quest’anno entrava in vigore il nuovo sistema assicurativo. La sua prima conseguenza è stata un calo delle tariffe sulle polizze sanitarie. E qui si tocca l’incongruenza dell’indicatore Pil: se gli americani hanno finalmente speso un po’ meno per le assicurazioni mediche questa è un’ottima notizia, ma riduce il Pil che è un aggregato di tutte le spese. Il Pil non dice se stia migliorando la qualità delle cure mediche e quindi la salute, misura solo la spesa nominale. Una sanità inefficiente e costosa “fa bene” alla crescita, se invece si riducono sprechi e rendite parassitarie delle compagnie assicurative, l’economia apparentemente ne soffre.

L’attacco al Pil trova concorde il Financial Times. «Come il Pil è diventato un’ossessione globale», è il tema di un’inchiesta del quotidiano inglese. Che parte da alcune sconcertanti revisioni nella contabilità nazionale che hanno fatto notizia. La Cina, secondo uno studio recente della Banca mondiale, è molto più ricca di quanto credevamo: sta per sorpassare gli Stati Uniti, da un mese all’altro. Anche l’Inghilterra ha un’economia più prospera di quanto si pensava. Perché? Il “riesame” del Pil cinese, è stato deciso per correggere errori del passato. Sopravvalutando il costo reale di alcuni generi di prima necessità come gli spaghetti, si era simmetricamente “impoverito” (nelle statistiche) il potere d’acquisto dei consumatori. Errore corretto, e oplà, di colpo la Cina nel suo nuovo Pil misurato “a parità di potere d’acquisto” diventa quasi eguale all’America. Per quanto riguarda la Gran Bretagna, il suo “arricchimento” improvviso (+5%) nasce dall’inclusione nel Pil di attività illecite e sommerse come la prostituzione e il traffico di droga.
Nel caso cinese come in quello inglese è evidente che siamo di fronte a operazioni contabili del tutto discrezionali, arbitrarie. Non è cambiato nulla per il cittadino, il lavoratore, l’imprenditore di quei paesi. É cambiato solo un numero, deciso dagli economisti. Per la Gran Bretagna, poi, è evidente l’aspetto paradossale di questo massaggio delle statistiche: siamo proprio sicuri che l’inclusione della droga nel Pil sia un indicatore fedele del benessere nazionale?

L’economista Diane Coyle, che è stata consigliera del ministero del Tesoro britannico, ha pubblicato un libro sulla storia del Pil: “Gdp: A Brief But Affectionate History”. Documentato, erudito, ironico, ma anche sferzante. La Coyle ci ricorda che «non esiste una cosa reale che gli economisti misurano e chiamano Pil». Quell’indicatore statistico è un’astrazione, un aggregato di spese dove entra di tutto: dai manicure alla produzione di trattori ai corsi di yoga. Primo consiglio della Coyle: liberiamoci dall’idea che la rilevazione del Pil sia come la misurazione del perimetro terrestre, un’operazione complessa ma scientificamente rigorosa.
Del resto il Pil è un’invenzione recente, e strumentale. Il primo a lavorarci fu l’economista americano di origine bielorussa Simon Kuznets, negli anni Trenta. La missione gli era stata affidata dal presidente Franklin Delano Roosevelt. Nel bel mezzo della Grande Depressione, Roosevelt aveva bisogno di una misura dello stato di salute dell’economia, che non fosse di tipo settoriale o aneddotico come quelle usate fino ad allora. Ma lo stesso Kuznets dopo avere “inventato” il Pil cominciò a esprimere serie riserve sulla sua validità. Nella maggior parte dei paesi sviluppati bisogna attendere gli anni Cinquanta perché il Pil entri nelle consuetudini.
Un indicatore ben più completo e utile è quello elaborato per le Nazioni Unite da Amartya Sen ed altri, lo Human Development Index (indice dello sviluppo umano): misura per esempio la qualità della salute e dell’istruzione. Perché non riesce a spodestare il Pil nel dibattito pubblico? La spiegazione che dà Sen è disarmante, o inquietante: «Il Pil misura un tipo di crescita quantitativa che ha coinciso con l’arricchimento di minoranze privilegiate. L’indice dello sviluppo umano sposterebbe l’attenzione verso attività e settori che vanno a beneficio degli altri».
Riferimenti
Sull'argomento si veda su eddyburg: Liberiamoci dal PIL di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini, Metti sesso, droga e contrabbando nel calcolo del Pil di Piero David e Antonella Gangemi, Ciò che il PIL misura e ciò che non misura di Robert Kennedy, Il lavoro delle casalinghe vale un terzo del Pil di Elena Polidori. Altri interessanti riferimenti nell'archivio di eddyburg nelle sezioni Opinioni e interventi, Società e Politica,


Un'analisi impeccabile dell'ideologia e della prassi che hanno provocato il successo dell'uomo che ha costruito e rafforzato il suo potere divorando i suoi antagonisti e assorbendone così i nefasti caratteri.

Sbilanciamoci info, newsletter, 4 luglio 2014

L'Italia, paese di populisti e di populismi. Ne ha conosciuti ben tre (e mezzo), nel ultimi vent'anni, un record mondiale. Populismo: che è concetto classico della politica e della sociologia ma che tuttavia è un processo culturale prima che politico. E oggi economico prima che culturale e politico, nel senso che è appunto l'economia capitalista ad essere oggi un processo culturale prima che economico, producendo - prima delle merci e del denaro - le mappe concettuali, cognitive, relazionali, affettive necessarie per la navigazione nel mercato; trasformando quello che era il cittadino dell'illuminismo in lavoratore, merce, capitale umano - ovvero in mero homo oeconomicus. Tre populismi interi: Berlusconi, Grillo e Renzi. E il mezzo populismo della Lega. Tre padri politici invocati dal popolo perché lo sorreggano, lo portino da qualche parte, gli dicano cosa deve fare, perché questo stesso popolo si ritiene incapace (o non più desideroso) di assumersi la responsabilità di essere sovrano di se stesso. Effetto culturale - questo - dell'antipolitica capitalista, che per essere sovrano assoluto e culturalmente monopolista deve rimuovere ogni sovrano concorrente.

Berlusconi: il populista che prometteva la modernizzazione neoliberale del paese. In realtà, un populismo del cambiare tutto per non cambiare nulla (soprattutto i suoi interessi personali e aziendali). Un populismo aziendalista, con la figura del padre/leader sostituita da quella dell'imprenditore che si è fatto da solo (o quasi), perfetta nell'esprimere il modello culturale che tutti dovevano apprendere: l'edonismo, il godimento immediato, la deresponsabilizzazione egoistica ed egotistica. Per legittimare - questa l'azione appunto culturale, pedagogica prima che economica - le retoriche neoliberiste dell'essere imprenditori di se stessi e della competizione come unica forma di vita.

Bossi e la Lega: il mezzo populismo (non solo perché limitato a una parte del territorio), apparentemente il più classico dei populismi con il richiamo alla tradizione, ai simboli di terra e di sangue. All'essere padroni a casa nostra: da intendere però non come sovrani sulla nostra terra ma come padroni nel senso antico del capitalismo. Populismo da piccola impresa, da capitalismo molecolare come versione localistica dell'ordoliberalismo tedesco e della sua pedagogia per imporre il modello impresa all'intera società.

Grillo: il populista contestatore, il teorico del net-populismo come forma perfetta della democrazia. Grillo come l'uomo del cambiamento ma incapace di cambiare (dice solo no) e forse populista anche di se stesso.

E Matteo Renzi. Un populismo di tipo nuovo ma evoluzione dei precedenti. Perché anch'egli cerca il rapporto diretto con il popolo e lo invoca come propria totalizzante legittimazione. Perché aspira ad essere insieme Partito di Renzi e Partito della Nazione. Un partito-non-partito tuttavia, ormai anch'esso trasversale - e quasi un non-luogo nel senso di Marc Augé: come un aeroporto, un supermercato, un luogo di consumo di politica.

Un populismo che invoca il popolo contro le caste e il sindacato salvando invece le oligarchie che lo sostengono come un sol uomo; che ha grandi mass-media schierati dalla sua parte e che gli consentono ciò che mai avrebbero consentito a Berlusconi; un populismo fideistico e teologico-politico (noi contro loro, noi il tutto che non accetta il due e il tre e il molteplice e gli eretici; noi il nuovo, gli altri il vecchio).

Un populismo che vuole rottamare appunto il vecchio, ma che non rottama, non corregge (una volta si chiamava autocritica, ma il nuovo che avanza travolge anche la memoria) i molti errori del passato: il sì all'austerità, all'articolo 81 della Costituzione sul pareggio di bilancio.

Un populismo finalizzato alla modernizzazione dell'Italia - e ogni populismo è stato, storicamente anche una via per la modernizzazione, facendo accettare al popolo, in nome del popolo quelle trasformazioni che altrimenti non sarebbero state possibili per trasformare un paese e quel popolo. Per questo, quello di Renzi è un populismo tecnocratico: che produce quella modernizzazione neoliberista che Berlusconi non è riuscito a produrre e Grillo fatica a poter produrre.

Un populismo nel nome della tecnocrazia, che la tecnocrazia ama; un populismo che trasforma (forse questa volta per davvero) il potere politico nel senso richiesto dalla tecnocrazia: meno democrazia (la riforma del Senato, le proposte di nuova legge elettorale); meno diritti sociali e quindi politici (diventati un costo); più decisionismo; meno partecipazione e più adattamento alla realtà immodificabile del mercato; meno cittadinanza attiva e più accettazione della ineluttabilità del reale. Perché le sue pratiche politiche - al di là delle apparenze e delle discussioni con Angela Merkel e di alcuni interventi comunque virtuosi - sono tutte dentro alla cultura della modernizzazione richiesta dall'ideologia neoliberista (flessibilità del lavoro, privatizzazioni, un nuovo modo di essere imprenditori di se stessi, riduzione ulteriore dello stato sociale, crescita invece di sviluppo, competizione invece di solidarietà); e la flessibilità sul Fiscal compact (invece della sua abolizione, per evidente irrazionalità e surrealtà economica), pure invocata, è un pannicello caldo rispetto al nuovo new deal che sarebbe invece necessario (e urgente). Un populismo futurista, inoltre: nel nome della velocità, delle macchine, delle parole in libertà, dell'azione per l'azione.

Il populismo di Renzi è dunque più di un classico neopopulismo, che ha dominato la scena per trent'anni coniugando populismo e neoliberismo, mercato e popolo, modernizzazione e impoverimento e disuguaglianze. E' un neopopulismo tecnocratico - per altro discendenza diretta di quello neoliberista - che scardina ancor più di quello neoliberista le forme e le pratiche della democrazia; riduce a niente la società e la società civile; attacca il sindacato o lo rende inutile (in coerenza con le tecnocrazie globali); che spettacolarizza se stesso proponendosi come outsider, come rottura, come alternativa, in realtà portandoci nella società dello spettacolo della tecnocrazia.

Una tecnocrazia che non si espone più direttamente con i noiosi e antipatici tecnici, ma con la fantasia e l'estro di un populismo mediatico e spettacolare, moderno e postmoderno insieme, dove twittare è più importante che ascoltare.

L'economia questaquesta politica, e il 99 per cento della società paga. Se questa è l'equità...Greenreport, 3 luglio 2014

Oops, ci siamo sbagliati. «La massiccia finanziarizzazione dell’economia, avvenuta negli anni ’90, aveva fatto pensare che non ci fosse più posto per il manifatturiero in un mondo caratterizzato dal predominio del terziario e dei servizi. Ma la storia economica dimostra oggi che solo ritornando alla fabbrica il Paese può ripartire». Con queste poche parole Anie, che si auto definisce una delle maggiori organizzazioni di categoria del sistema confindustriale per peso, dimensioni e rappresentatività, liquida una “sanguinosa” discussione trentennale che sarebbe niente, se solo non avesse trascinato con sé posti di lavoro, diritti dei lavoratori, capacità produttive e Pil nazionale come poco altro in precedenza.

Oops, ci siamo sbagliati – ma non ditelo alla Fiom – e ora vogliamo tanto tornare in Italia, come spiega Anie sempre in modo asettico: «Nell’ambito dei cambiamenti delle dinamiche manifatturiere, stiamo assistendo ad un fenomeno nuovo, noto come back reshoring, che consiste nel riportare in patria i siti produttivi precedentemente delocalizzati all’estero. Secondo recenti studi realizzati dal professor Fratocchi e dal suo gruppo di ricerca Uni-Club MoRe Back Reshoring, l’Italia è il secondo Paese nel mondo per rimpatri produttivi, alle spalle solo degli Stati Uniti e quindi primo in Europa». Perché? Alla domanda “quali sono gli interventi di politica industriale che il Governo dovrebbe approntare per favorire il ritorno del manifatturiero in Italia”, il 30% delle aziende intervistate ritiene che la priorità sia la riduzione del cuneo fiscale, più di un quarto di esse la semplificazione della burocrazia e il 18% del campione la detassazione degli utili in Ricerca&Sviluppo.

Il comparto rappresentato da Anie Confindustria a livello nazionale vale circa il 20% dell’intero back reshoring, piazzandosi secondo alle spalle solo dell’abbigliamento e delle calzature (vedi grafico). Secondo i risultati dell’indagine realizzata presso le aziende associate, le ragioni considerate molto rilevanti dalle imprese Anie che hanno rilocalizzato i siti produttivi nel periodo 2009-2013 sono state per un terzo del campione il minore controllo qualità della produzione all’estero, seguito dalla necessità di vicinanza ai centri R&S italiani (25%) e dai costi della logistica (22,2%). Vale la pena soffermarsi anche sul perché queste aziende avessero deciso di lasciare l’Italia: secondo le loro stesse risposte, avevano infatti delocalizzato le produzioni per il minor costo totale della produzione all’estero (“molto rilevante” per l’86% delle imprese rientrate in patria) e del minore costo del lavoro (75%).

L’indagine ha confermato inoltre (e ancora una volta) la vocazione di queste aziende all’innovazione: il 60% del campione investe in R&S più del 2% del fatturato totale e una folta rappresentanza di imprese particolarmente virtuose, costituita dal 40%, investe addirittura più del 4% del fatturato. Ma sono proprio le aziende che hanno messo in atto politiche di back reshoring a dimostrarsi particolarmente aperte al cambiamento tecnologico, all’innovazione e ai nuovi modelli organizzativi. Per quanto riguarda l’avvenuta adozione di tecnologie ICT e ITS (Internet of Things and Services), tra le imprese che sono rientrate abbiamo un picco del 60% contro il 50% della totalità delle imprese Anie, e fra esse nessuna si dichiara non interessata a queste trasformazioni, che vanno verso l’adozione di nuovi modelli organizzativi (fabbrica 4.0). Inoltre, tra le aziende interessate dal fenomeno, il 90% ritiene che i nuovi standard organizzativi di impresa saranno una realtà entro un periodo che va da 1 a 3 anni.

Sulla sensibilità nei confronti dell’innovazione, appare particolarmente significativo notare come -secondo le aziende che sono rientrate – i principali meccanismi di stimolo siano tutti rivolti al miglioramento del prodotto finale: per il 90% di esse è questo lo scopo principale che spinge ad innovare (la corrispondente quota della totalità delle aziende Anie è l’80%). Tra i principali ostacoli all’innovazione, invece, la mancanza di fonti di finanziamento esterne è quella primaria a detta del 43% delle aziende in totale, con un picco del 75% tra le aziende che hanno sperimentato il back reshoring. Ma se la seconda ragione per il totale delle aziende Anie – con una quota del 40% – è il costo elevato dell’innovazione e la mancanza di risorse interne, questa percentuale scende radicalmente se si guarda solo alla segmentazione delle aziende che sono rientrate.

Tutto bene quindi? Oops, ci siamo sbagliati, ora si torna in Italia e vissero per sempre felici e contenti? C’è da rimanere senza fiato di fronte al fatto che in queste analisi non si calcolino assolutamente i costi di questo processo. Delocalizzare all’estero non è stato indolore. Il processo della finanziarizzazione dell’economia che ha tolto la terra sotto ai piedi dell’economia reale è costata vite umane e diritti e ambiente in tutto il mondo. Quanti lavoratori si sono lasciati per strada? Quanto Pil? Quanta innovazione? Quanti morti di fame abbiamo creato facendo salire in modo del tutto artificioso i costi delle commodities alimentari, con la finanziarizzazione! Facendo il percorso all’inverso è come voler rimettere tutto dentro al tubetto il dentifricio: per quanto ci provi, ben poco te ne tornerà dentro e avrai comunque speso dell’energia.

Nessun pasto è gratis, tanto che il rilocalizzare le aziende in Italia significa che si lasciano a casa i lavoratori che stanno dall’altra parte della barricata. Quindi l’azienda vince sempre, e chi se la prende in saccoccia si sa chi è. Al di là del colore della pelle. Non solo, si è andati all’estero si è sfruttato tutto il possibile e poi si torna in Italia come eroi.

Questo non per dire che sia un male, anzi, ma che se le cause sono solo quelle che “non ci si guadagna più a delocalizzare perché ora anche all’estero hanno capito che non vogliono essere sottopagati, che hanno dei diritti e che anche il loro ambiente conta”, quando queste variabili torneranno favorevoli, quelli stessi che oggi tornano, ripartiranno.

Per avere quindi un bilancio favorevole da questa operazione, o almeno il più possibile favorevole, bisogna che almeno per la manifattura si scelga di tornare per accorciare la filiera e fare con quello che si ha. Non tanto come potrebbe pensare qualcuno riscoprendo l’italico petrolio, ma ad esempio utilizzando le miniere urbane, le materie prime seconde. Quelle derivanti dal riciclo. L’innovazione deve essere questa, ovvero secondo il criterio della sostenibilità ambientale e sociale. Altrimenti non cambierà alcunché

«La riforma che il Partito democratico si appresta a votare piace molto ai democratici minimalisti proprio perchè restringe al massimo il potere dei cittadini-attori (o sovrani) e amplia quello dei cittadini-arbitri». CRS

centroriformastato.org, 21 giugno 2014

E’ davvero conveniente creare una nuova casta di nominati?

All’inizio il problema era il bicameralismo perfetto ora è il bicameralismo. Questa riforma si orienta di ora in ora verso un radicale rifacimento dell’assetto istituzionale della nostra Repubblica. Due principi si stanno imponendo che reinterpretano il significato della rappresentanza e del suffragio: i cittadini sono sovrani dimezzati; il voto dei cittadini serve solo a formare una maggioranza. Infatti chi vuole ardentemente questa riforma, l’ha giustificata con questi due argomenti: un Senato eletto costa troppo e rende troppo lento il processo decisionale. Sono due argomenti molto problematici e essenzialmente ideologici, il primo per lo meno volgare e il secondo insofferente per la deliberazione democratica. Entrambi sono poco convincenti e per nulla comprovati. Sui costi: la democrazia costa al suo sovrano, che è fatto di cittadini che vivono del loro lavoro. Devono pagare per le funzioni pubbliche di cui lo stato democratico ha bisogno e spetta a chi svolge quelle funzioni essere attenti a limitare i costi. L’esito di anni di mal uso e abuso delle risorse pubbliche da parte di parlamentari dovrebbe essere affrontato riscrivendo le regole relative al loro uso delle risorse non cancellando un organo eletto, ovvero facendo pagare ai cittadini decurtandoli del loro potere di elezione. Sembra che la responsabilità prima dei costi della politica stia nel potere democratico: se non si votasse si spenderebbe meno. Questo è il senso del messaggio sui costi del Senato eletto.

Circa il secondo argomento, quello delle celerità decisionale: è un fatto che nei regimi democratici la tensione tra il potere esecutivo e quello legislativo sia fondamentale e permanente. Ma la tensione dovrebbe risolversi con il riconoscimento della priorità del secondo. La massima tocquevilliana per cui la democrazia si corregge con più democrazia dovrebbe quindi essere così interpretata: nell’equilibrio dei poteri (un bene che il costituzionalismo moderno ci ha regalato) occorre che il potere di proporre e fare le leggi sia centrale perché quello che direttamente discende dalla volontà dei cittadini. In una democrazia elettorale, fare le leggi comporta la centralità degli organi che ricevono autorità diretta dal suffragio. Circola tra i costituzionalisti l’idea che il cittadino sia arbitro.

Questa riforma è figlia di questa interpretazione che va nella direzione di diminuire il valore e l’estensione del potere elettorale per porre l’accento sui poteri dello stato che il cittadino-arbitro osserva lavorare e giudica. Il cittadino-arbitro è come un giudice imparziale che sta fuori del gioco; i titolari della squadra sono i veri giocatori, non lui/lei. E i giocatori sono liberi di decidere che schema usare, quali ruoli rafforzare e quali indebolire. L’importante è che vincano. L’importante è che il cittadino-arbitro sappia a urne chiuse chi governerà, chi ha vinto. Poi i giochi sono tutti fatti da altri e il cittadino sta a guardare e alla fine del gioco decide se riconfermare quei giocatori o cambiarli. Questa visione della democrazia è così minima che accontenta chi ha una tradizionale allergia alla democrazia.
La riforma che il Partito democratico si appresta a votare piace molto ai democratici minimalisti proprio perchè restringe al massimo il potere dei cittadini-attori (o sovrani) e amplia quello dei cittadini-arbitri. In questa riforma spicca infatti la centralità dei giocatori e soprattutto di coloro che segnano, ovvero di chi fa: del potere esecutivo. Si restringe il dominio del potere legislativo (che è fatto anche di discussione e rappresentanza, non solo di decisione) nel senso che al voto dei cittadini si chiede di esprimere la maggioranza (a questo mira del resto la legge elettorale) e non tanto di vedere rappresentate le proprie idee o interessi; lo stesso vale per la Camera politica, alla quale anche è richiesto di sostenere il governo (della maggioranza) non tanto di controllare, mediare, discutere e se necessario fermare (insomma tutto quello che gli organi deliberativi dovrebbero fare). L’esito auspicato è l’identità della maggioranza monocamerale con l’esecutivo. I rappresentanti, con questa riforma, sono rappresentanti del volere della maggioranza. Si tratta di una riforma di stampo plebiscitario con la quale la bilancia del poteri pende verso l’esecutivo: il fare più che il discutere. Si approda al presidenzialismo senza dirlo. In questo quadro si iscrive la proposta di abolire il Senato eletto.

Perchè bisogna essere critici di questa proposta (che non significa abbandonare l’idea di una riforma del Senato che sappia attuare un parlamentarismo funzionale ovvero che abbia sia il potere di esprimere la maggioranza, e fare leggi, sia che a quello di rappresentare, controllare e infine fermare)? Non è forse vero che Matteo Renzo ha commentato la legge sulla responsabilità dei giudici passata alla Camera dicendo che al Senato la si cambierà? Dunque, anche lui deve ammettere che passare una legge al vaglio due volte consente di correggere errori e migliorare una decisione. Questo solo dovrebbe bastare a convincerci della rilevanza di avere due Camere. Si dice inoltre e insistentemente che un Senato eletto allunga i tempi della politica. Ma si potrebbe obiettare che l’Italia repubblicana ha prodotto un numero spropositato di leggi pur anche con un bicameralismo perfetto! Insomma questi argomenti sono molto poco convincenti. E veniamo così al nodo centrale di questa proposta: l’elezione indiretta dei membri del Senato delle Autonomie.

Cominciamo dall’osservare che volendo riformare la Costituzione, sarebbe opportuno porsi la seguente domanda: Perchè ci proponiamo di attuare questa riforma? Da quale esigenza siamo mossi e per ottenere che cosa? Questo livello preliminare di chiarezza sulle intenzioni è importante perchè consente di affrontare in maniera non approssimativa il problema, ovvero dargli organicità e coerenza. Indubbiamente, sono due le esigenze che giustificano una riforma la legge fondamentale della nostra Repubblica: rendere il sistema politico più trasparente e accountable (rispondenza), e renderlo più funzionale. La prima esigenza detta la legittimitá delle regole e procedure democratiche nell’era del costituzionalismo: neutralizzare e impedire l’arbitrio (anche della maggioranza eletta), e per questo rendere il potere dello Stato più efficacemente esposto al controllo e sapientemente bilanciato nei poteri che lo compongono, in modo che non ci sia accumulo in nessuno di essi.

Se questa è l’esigenza, l’elezione indiretta (la nomina da parte degli organismi di goveno comunale e regionale) del Senato della Repubblica va nella direzione contraria. Perchè l’elezione indiretta dei componenti di un organo deliberativo (o che partecipa comunque alle decisioni nazionali sebbene non a tutte) è opaca rispetto all’elezione per suffragio dei cittadini. Al contrario, attribuisce un enorme potere discrezionale ad alcuni grandi elettori (sì eletti per suffragio universale, ma per svolgere funzioni di governo territoriale) che in questo modo acquisterebbero un potere superiore a quello di tutti gli altri cittadini, in violazione al principio di eguaglianza politica. Si risolve questo vulnus togliendo al Senato il potere di dare e togliere fiducia al governo, ovvero gli si assegna un potere mezzo-sovrano. In questo modo, si dice, non si toglie nulla al potere dei cittadini e del suffragio. Vero: ma si crea un potere delegato nuovo e molto ampio. Il paradosso di questo Senato nominato è che avrà troppi poteri per essere composto di nominati e troppo pochi poteri per riuscire a controllare gli eletti. Introduce infine un arretramento palese rispetto al suffragio diretto, con un ritorno al XIX secolo quando il voto indiretto venne teorizzato e usato come argine alla democrazia e all’incalzante espansione del suffragio diretto e segreto. Oggi lo si rispolvera per risparmiare e velocizzare la decisione.

L’evoluzione della storia politica occidentale è andata in una direzione contraria a quella del voto indiretto; anche perchè è diventato in poco tempo un fatto provato che questo metodo di nomina serviva a generare e proteggere un’oligarchia social-politica, una classe di notabili sensibili agli interessi locali o di chi li nominava. A riprova di ciò potrebbe essere utile ricordare che il Senato degli Stati Uniti d’America fu nella prima fase della storia della federazione americana composto da nominati dagli Stati e diventò un istituto così corrotto e piegato agli interessi non controllabili dei potentati locali e dei notabili che controllavano le nomine da indurre il legislatore a riformarlo instituendo l’elezione diretta dei suoi membri. Quindi la strada semplificatrice e di risparmio che il Partito democratico promette rischia di produrre nuove sacche di corruzione e di privilegio. Un potere in mano ai grandi elettori locali anche se pagato con rimborsi sarà un’occasione di potere appetibile anche perchè fuori del controllo diretto dei cittadini e quindi meno scalfibile. Prevedibilmente si aumenterà la funzione repressiva e ai magistrati verrà dato un nuovo settore di controllo.

Un secondo argomento che si usa per giustificare questa riforma è che dobbiamo seguire modelli riusciti altrove, per esempio quello tedesco. Ma questo argomento è sbagliato e capzioso. La Germania è una federazione compiuta. Ha una Camera direttamente eletta dai cittadini tedeschi e una Camera dei Länder (Bundesrat). Quest’ultima è composta di membri non eletti a suffragio universale diretto, di esponenti dei governi dei vari Länder. Il fatto molto diverso che la federazione consente è che questa camera di nominati è per davvero espressione degli interessi dei Länder e infatti i suoi membri sono vincolati al mandato ricevuto dai loro governi locali per fare gli interessi di ciò di cui sono i rappresentanti (dei loro territori), in violazione del generale principio del divieto di mandato imperativo. L’Italia annacquerebbe il modello tedesco perchè non darebbe mandato imperativo ai rappresentanti dei territori – ma si potrebbe obiettare che in questo modo dà anche meno controllo e molto meno accountability. Se si vuole davvero fare un Senato delle regioni e dei territori occorrebbe avere il coraggio di approdare a un compiuto federalismo, appunto come in Germania. Diversamente, il libero mandato a membri di un Senato nominato dai territori finirà per ascrive un potere troppo grande, poco o nulla rispondente all’interesse dei territori, e troppo fuori controllo. Questo è il paradosso di un federalismo a metà e di un modello tedesco annacquato. Infine, non si tiene contro del fatto che la Germania ha mantenuto questa sua tradizione dall’Ottocento, non è retrocessa dal voto diretto a quello indiretto, come invece faremmo noi. La questione è anche di ragionevolezza e prudenza politica: dopo anni di condanne della casta ora si legittima la casta e si chiede agli italiani di devolvere il loro potere di elezione a funzionari ed eletti locali, piccoli potenti che le cronache quotidiane ci restituiscono come attori di una corruzione capillare ed espansa. E’ il risparmio una ragione sufficiente per rispolverare il voto indiretto o non invece la promessa implicita a una nuova generazione locale di prendersi velocemente una fetta di potere discrezionale? Un Senato che non risponde agli elettori perchè non deve comunque sfiduciare il governo è un Senato che ha comunque troppo potere per non generare una nuova oligarchia, una nuova casta.

Riferimenti
Si veda su eddyburg Abolire il senato? Prima del come vediamo il perché e L’accordo sulle riforme ha partorito un mostro giuridico, di Gaetano Azzariti, e Grasso: non abolite il Senato intervista di Liana Milella

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