La Repubblica, 7 marzo 2015
Professore, questa vicenda è anche diventata una guerra di parole. Ma è proprio sicuro che Tsipras e Varoufakis non sbaglino nell’annunciare ad ogni piè sospinto che il loro Paese è in bancarotta ed è urgente un nuovo haircut? Non creano ulteriori e inutili tensioni mentre tutti stanno affannosamente cercando di trovare un accordo?
«Macchè. Yanis (Varoufakis, ndr) è anche troppo misurato. Ha solo agli occhi dell’Europa un torto: quello di parlar chiaro. E questa nei vertici ingessati ad alto tasso di ipocrisia cui gli europei sembrano abituati, è una grande novità e apparentemente una colpa imperdonabile. Invece alzare gli standard di sincerità di questi consessi è un merito, una cosa da cui tutti trarranno vantaggi. L’accanimento della Bce e anche della Commissione nel mantenere un alto livello di ansia e tensione non lo capisco proprio. E mi induce quasi a pensar male».
Cosa sospetta?
«Diciamo che non sospetto niente. Solo che uno con un minimo di visione storica potrebbe anche essere, lontanamente, indotto a pensare che ci sia una manovra per estromettere l’attuale governo greco e tornare a schieramenti più vicini al mainstream europeo, visto che l’alternativa di un’uscita della Grecia non conviene neanche a loro. Non sarebbe la prima volta nella storia. Nel 1955 gli americani manipolarono il Fondo Monetario e alla fine un golpe rovesciò Peron e i suoi descamisados. Ed è solo un esempio».
Cosa dovrebbe fare l’Europa?
«Non avere un atteggiamento costantemente negativo. E la Bce non deve minacciare la Grecia di escluderla dal quantitative easing. Al contrario, deve ripristinare subito il waiver , cioè l’accettazione dei buoni di Atene per rifinanziarla, senza rifugiarsi nello stillicidio dei fondi di aiuto o degli emergency liquidity agreement concessi qualche miliardo oggi e qualche miliardo domani. Insomma tutti devono confermare che stanno agendo genuinamente allo scopo di stabilizzare il Paese e aiutare Atene ad uscire dalla crisi. Evitando gli sbandamenti verbali di questi giorni che sono tremendamente controproducenti e del tutto inappropriati».
Lei tornerà ad Atene ad aiutare Varoufakis?
«Sì, partirò molto presto. I sette punti di ieri mi sembrano una buona base di partenza. Se ne aggiungeranno altri a breve. Vorrei che fosse chiaro a tutti che Syriza un accordo lo vuole, perché senza accordo ci sarebbero i controlli sui movimenti bancari, i fallimenti, alla fine l’uscita dall’euro. L’unica cosa inaccettabile era un’estensione secca delle condizioni fin qui applicate come quel 4,5% di surplus primario che era assurdo oppure le forzature sulle privatizzazioni, alle quali nessuno si oppone ma rischiavano di smantellare il patrimonio pubblico della Grecia senza un’adeguata contropartita. Bisogna lavorare tutti in buona fede e con un unico obiettivo in mente, evitando gli equivoci. La Grecia è un piccolo Paese che ha pagato un prezzo umano immenso, non è possibile che non si riesca a trovare unità e accordo politico per rimetterla in piedi».
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Sbilanciamoci.info
Un eccesso di regolamentazione delle banche sarebbe nocivo e potrebbe ostacolare la crescita. Parola di Douglas Flint, a capo di quella Hsbc al centro dello scandalo SwissLeaks per avere aiutato decine di migliaia di facoltosi clienti ad aprire conti cifrati per nascondere i propri soldi in giro per il pianeta. La stessa ad avere ricevuto nel 2012 1,9miliardi di dollari di multa dalle autorità statunitensi per una vicenda legata al riciclaggio dei proventi dei cartelli della droga messicani.
L’elenco potrebbe continuare, così come potrebbero essere molte altre le banche chiamate in causa per scandali, truffe e crimini che vanno dalla manipolazione dei tassi di interesse (Libor ed Euribor) a quella del mercato delle valute o del prezzo dei metalli, a casi di evasione fiscale, riciclaggio, corruzione e chi più ne ha più ne metta.
Alcuni casi al limite – e spesso ben oltre il limite – della legalità, che non devono nascondere i devastanti impatti della speculazione e delle attività a regime di un sistema responsabile dell’esplosione della peggiore crisi degli ultimi decenni e salvato con montagne di soldi pubblici, secondo il noto principio di socializzare le perdite dopo avere privatizzato i profitti. Dopo la bolla dei subprime, ogni vertice internazionale si è chiuso con roboanti dichiarazioni sulla necessità di chiudere una volta per tutte il casinò finanziario. In quasi otto anni poco o nulla è stato fatto. La speculazione è ripartita come e peggio di prima, le lobby rialzano la testa, mentre passa l’idea che la finanza pubblica sia il problema, quella privata la soluzione. Austerità per Stati e cittadini che hanno subito la crisi, liquidità illimitata per chi l’ha provocata.
Se l’impegno messo nell’imporre politiche devastanti ai governi europei fosse stato indirizzato a regolamentare la finanza privata, probabilmente oggi la situazione in Europa sarebbe parecchio diversa. Sappiamo cosa andrebbe fatto e come procedere: una tassa sulle transazioni finanziarie, limiti all’utilizzo dei derivati, un contrasto ai paradisi fiscali e al sistema bancario ombra, dei controlli sui movimenti di capitale e via discorrendo. Il problema non è di natura tecnica ma nella volontà politica di procedere. Se, grazie alle spinte delle reti della società civile, molti di questi temi sono entrati nell’agenda europea, in troppi casi si va avanti, al meglio, con il freno a mano tirato. Solo per citare un esempio: perché in finanza non esiste un principio precauzionale analogo a quello che impedisce di immettere sui mercati un prodotto finché non se ne dimostri la non pericolosità e nocività? Non posso vendere una lavastoviglie se rischia di allagarmi la cucina, ma posso mettere in commercio un derivato in grado di mettere in ginocchio interi Paesi.
Non solo oggi la finanza crea disastri ed esaspera instabilità e diseguaglianze, ma al culmine del paradosso non fa nemmeno ciò che dovrebbe fare. Da un lato una quantità sterminata di denaro è all’esasperata ricerca di profitti. Dall’altro fasce sempre più ampie della popolazione sono escluse dall’accesso al credito. Domanda e offerta di denaro non si incontrano, nel più clamoroso fallimento di mercato dell’era moderna.
Per questo l’introduzione di regole e controlli è necessaria ma non sufficiente. Prima ancora, occorre ricostruire l’immaginario della crisi che si è imposto in questi anni e che di fatto ne ribalta cause e conseguenze. Perché la finanza dovrebbe essere uno strumento al servizio della società, non l’opposto; dovrebbe essere una parte della soluzione, e non come oggi, uno se non il principale problema.
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Il manifesto
In una paese normale, abitato da gente normale, dove anche i media di conseguenza sono normali, le notizie che appaiono a tutta pagina da ieri riguardo le misure che sta pensando il Viminale, quindi il ministro Alfano, su Decoro/Degrado farebbero accapponare la pelle.
Leggo testuale dal giornale di ieri “Sicurezza, più militari e accattonaggio vietato vicino ai monumenti”. E aggiungo “Più poteri ai sindaci di difendere i centro storici ed i monumenti delle nostre città. Al sindaco dovrebbero essere concessi dei poteri di ordinanza relativi all’ordine pubblico, modello movida, per rendere alcune zone del centro off limits anche all’attività di accattonaggio e carità molesta”. Oggi invece prende forma una idea che a giudicare folle, se non bestiale, è dir poco. Sempre dal Messaggero ma di oggi “Stretta sul decoro: ipotesi Daspo per prostitute e mendicanti”. E nell’articolo viene spiegato meglio “Affidare maggiori poteri di polizia a questori e prefetti anche in materia di decoro e degrado urbano. Ovvero dar loro la possibilità di intervenire su temi che vanno dalla prostituzione al cosiddetto accattonaggio, passando per i locali notturni troppo rumorosi, con provvedimenti interdittivi. Per fare l’esempio più noto alle cronache, l’ipotesi su cui sta lavorando il ministero dell’Interno, darebbe a questori e prefetti la possibilità di applicare anche in queste materie ordinanze analoghe al Daspo, il provvedimento col quale attualmente possono impedire l’ingresso allo stadio ad alcuni tifosi, a prescindere da eventuali responsabilità penali.”
Quindi, i cervelloni del Viminale, hanno pensato di mettere un freno alla prostituzione (che ad esempio nel centro cittadino è praticamente inesistente, almeno quella di strada) e all’accattonaggio (perché la povertà è un reato ed esibirla è di cattivo gusto) attuando un Daspo. Gli “accattoni” daspati non potranno entrare nel centro di Roma e dovranno continuare ad arrangiarsi magari buttandosi su qualche via consolare fuori dai municipi del centro. Oppure le prostitute oltre a dover fronteggiare gli aguzzini che le schiavizzano, la violenza dei clienti, dovranno star attente a non essere daspate. Dimenticavo: già esistono provvedimenti simili, visto che è possibile dare il foglio di via “agli indesiderati”.
Ma che significa “decoro”? Un normale dizionario spiega che il decoro è un “complesso di valori e atteggiamenti ritenuti confacenti a una vita dignitosa, riservata, corretta”. Quindi ha poco a che vedere con la povertà. Offrire una vita dignitosa dovrebbe essere un obiettivo di qualsiasi governo, contrastare la povertà idem. Il problema è che non si combatte la povertà bensì chi è povero. La parola decoro viene unita alla parola degrado e il tutto associato all’insicurezza. I “bloggers antidegrado” accozzaglia discutibile di personaggi che lanciano le loro crociate on line verso poveri, migranti e rom tanto quanto contro i disservizi della città diventano punto di riferimento per gli stessi amministatori cittadini. Quindi se la città è sporca è colpa di chi rovista nei cassonetti. Se i mezzi pubblici sono fatiscenti è colpa di chi non paga il biglietto. Se il patrimonio pubblico/artistico di questa città è tenuto male è colpa degli hooligans venuti da fuori o di chi mendica, crendo un circolo vizioso che contrappone gli indigenti ai cittadini, come se entrambi non fossero parte dello stesso tessuto sociale. Con i suoi pro e i suoi contro. Nel frattempo nessuno denuncia il fatto che gli stessi governarnti, attraverso i tagli alla cultura e ai servizi, sono i primi a creare lo stesso “degrado” che cercano di sconfiggere a colpi di ordinanze.
L’esempio romano è assolutamente paradigmatico: dopo i 5 anni di Alemanno e le varie ordinanze anti-alcol nel centro cittadino, la nuova giunta aveva promesso che non avrebbe contrastato “la movida” a colpi di ordinanze varie. Promesse mantenute per una estate per poi adeguarsi neanche un anno dopo alle precedenti amministrazioni grazie anche a una campagna mediatica avvolgente, che vede schierati tutti i media a difesa non del “pubblico” ma del “privato”. A difesa, dicono, del “cittadino” mentre trasformano interi quartieti in “divertimentifici”, alla faccia del cittadino stesso.
Ed è singolare che nella città dello scandalo Atac, Ama, Mafia Capitale, Eur Roma Spa, Acea, etc etc si continui a trovare nel “degrado/decoro” il problema da risolvere, da affrontare. Il progressivo impoverimento, la crisi economica, ha di sicuro cresciuto le sacche di povertà in città. Le baracche, parte del tessuto urbano dal dopoguerra fino alla seconda metà degli anni 70, diventano inaccettabili e pericolose. Ci riportano indietro nel tempo è ci mostrano l’altra faccia della metropoli, quella in cui potremmo finire un giorno. Continuare a trovare il nemico in alcune sacche di cittadini, economicamente svantaggiate, è la dimostrazione dell’uso politico che si fa del concetto di “decoro” è il modo con cui i governi riescono a far passare ogni misura securitaria. Del resto le ordinanze cittadine, di vari sindaci, in maniera di decoro, sono qualcosa con cui abbiamo a che fare da anni e spesso ci siamo trovati di fronte a misure talmente ridicole che ci sarebbe da ridere se non fosse tutto così maledettamente serio.
Una cosa è certa che “l’ideologia del decoro” è qualcosa che coinvolge amministrazioni di destra e di sinistra, per una trasversalità pericolosa. Una ideologia perversa, moralista, che non crea cittadinanza, non crea solidarietà ma piccoli sceriffi armati di smartphone pronti a fotografare il mendicante di turno o chi rovista nei cassonetti. I nuovi nemici da combattere sono quelli che raccolgono le briciole di quel che consumiamo. Quelli che non vestono come noi o che non hanno la stessa “accessibilità ai consumi”. Un egoismo sociale, moralista appunto, che fa del cittadino educato che non butta le carte in terra, un buon cittadino. Che crea diseguaglianze invece di costruire un tessuto sociale. Che fa leva sulle paure di chi ci sta intorno invece di liberarci dalle paure. Che trova il degrado nella prostituta e non nello sfruttatore, nelle reti della tratta, o anche semplicemente nel cliente della prostituta, il problema. Importante è che non parcheggi in doppia fila e che paghi puntualmente il biglietto
Giorgia Meloni, Michaela Biancofiore, Nunzia De Girolamo evidentemente non lo sanno. La Repubblica, 6 marzo 2015
Ereditato il posto di Gianfranco Fini, Laura Boldrini fece cambiare subito la carta intestata (era scritto: il presidente). Questione vecchia, obiettivo alto: «Adeguare il linguaggio parlamentare al ruolo istituzionale, sociale e professionale assunto dalle donne». Dal web arrivano ora proteste e insulti: «Certo che hai un sacco di lavoro da fare per pensare a queste s.». E ancora: «Brava e intelligenta!». Lei tira avanti, abituata alla «misoginia» dei social di cui è stata più volte bersaglio. Il termine al femminile sarebbe cacofonico? «Affermazione da smontare - dice Boldrini - la lingua evolve con la società. E’ brutto dire la sindaca, l’assessora ma va benissimo dire la maestra, la contadina... smontiamola questa cosa!».
Una parte del mondo femminile è prudente forse perché ministro evoca più attributi metaforici di ministra, forse perché secoli di estromissione dai ruoli di vertice hanno reso le donne «conservatrici nella lingua». Andando a spulciare i resoconti parlamentari, ci imbattiamo negli interventi di Giorgia Meloni, Michaela Biancofiore, Nunzia De Girolamo. Si rivolgono tutte a Boldrini con un tuonante «signor presidente!». Mara Carfagna è in linea: «Non mi sono mai offesa quando mi chiamavano ministro. Il linguaggio è importante ma le priorità sono altre». «A quelli che mi dicono che “i problemi sono altri”, che “non è questo è il momento” - ribatte ferma la presidente - rispondo che tutto si tiene: l’immagine, la parola, il riconoscimento delle donne e il loro ruolo nella società. Se rimandiamo sempre, il momento non viene mai». Quindi tutti/tutte in riga.
L’Accademia della Crusca sembra appoggiare la “necessaria” rivoluzione. Leggete l’analisi di Cecilia Robustelli sull’«androcentrismo» linguistico. L’ostilità al nuovo? Nasce anche da una valutazione estetica: ministra è considerato meno bello di ministro; ingegnera fa davvero i brividi. Tuttavia dietro queste ritrosie, secondo la professoressa Robustelli, si celano «ragioni di tipo culturale». A farla breve, il mondo è ancora maschio. Altro che «impuntatura tardofemminista». Boldrini invidia la Francia dove la signora presidente dell’Assemblea nazionale francese, Sandrine Mazetier, ha inflitto una multa da 1378 euro a un deputato che continuava ostinatamente a chiamarla «il presidente».
Il manifesto, 5 Marzo 2015 (m.p.r.)
Chi inquina, finalmente, paga. Anche con la galera. Con l’approvazione al Senato del disegno di legge sui reati ambientali potrebbe chiudersi nel migliore dei modi un percorso sofferto che per decenni è stato condiviso da tutto il mondo ambientalista. Il provvedimento, dopo aver subito delle modifiche a Palazzo Madama, adesso dovrà tornare alla Camera per la terza lettura.
L’inedito fronte politico che ha sostenuto il ddl è composto da Pd, Sel, Ncd e M5S (primi firmatari Ermete Realacci del Pd, Salvatore Micilli del M5S e Serena Pellegrino di Sel). 165 i voti favorevoli, 49 contrari, 18 astenuti. L’altra notizia è che il governo, per la prima volta, non si è piegato a Confindustria. L’esito, come dicono tutte le associazioni ecologiste, è positivo. Il vuoto normativo è stato colmato, anche se queste norme rischiano di perdere efficacia in un quadro legislativo ancora confuso e contraddittorio, soprattutto quando si tratta di reati ambientali.
In sintesi, il ddl introduce nuovi reati di inquinamento ambientale, di disastro ambientale, i delitti colposi contro l’ambiente, il traffico e l’abbandono di materiale radioattivo e il reato di impedimento di controllo. Tra le altre, è stata introdotta anche una norma che vieta le esplosioni in mare per attività di ricerca ed ispezione dei fondali, una questione che l’altro giorno aveva visto il governo battuto in aula. Si tratta di un pacchetto particolarmente indigesto per le cosiddette ecomafie che in Italia, ogni anno, impunite, “fatturano” cifre astronomiche.
Sono soddisfatti i due ministri direttamente coinvolti. «Si tratta di un segnale di grande sensibilità nei confronti di un tema di stringente urgenza per il paese — ha commentato il ministro dell’Ambiente Gianluca Galletti — e ormai siamo all’ultimo miglio di un passaggio storico: chiedo alla Camera di fare presto e di approvare questo testo senza ulteriori modifiche, c’è assoluta necessità di stroncare i business criminali che si arricchiscono inquinando il nostro territorio». Per il ministro della Giustizia Andrea Orlando (già ministro per l’Ambiente) questa è la risposta del governo «alle molte ferite che hanno colpito il paese”. Orlando ci tiene a mettere l’accento non solo sull’impianto punitivo delle norme ma anche alla riduzione delle pene per chi si impegna a ripristinare lo stato dei luoghi inquinati, il cosiddetto “ravvedimento operoso».
Entrando nei dettagli, il testo inserisce nel codice penale il nuovo delitto di inquinamento ambientale (art.452 bis) che punisce con la reclusione da 2 a 6 anni, e una multa da 10 mila a 100 mila euro, chiunque provochi un danno significativo alle acque, all’aria, al suolo, al sottosuolo e più in generale alla biodiversità, alla vegetazione o agli animali. C’è anche una norma che prevede la detenzione, quella di disastro ambientale: da 5 a 15 anni per chi inquina provocando danni irreversibili per l’ambiente e per le persone esposte al pericolo. Vengono in mente i rifiuti tossici in Campania, l’Ilva di Taranto, o l’Eternit in Piemonte.
«L’approvazione del ddl — ha detto il presidente del Senato Pietro Grasso — è la risposta al dolore di persone come il poliziotto della terra dei fuochi che si è ammalato di tumore in seguito alle sue indagini sui rifiuti in Campania, o dei familiari delle persone che hanno perso la vita a Casale Monferrato”. Per Titti Palazzetti, sindaco di Casale, questa è “una promessa mantenuta».
Il delitto di “abbandono di materiale ad alta radioattività” viene punito con la reclusione da 2 a 6 anni e con una multa che va da 10 a 50 mila euro, pena estesa anche a chi acquista, riceve, importa, esporta, trasporta o detiene il materiale in questione. Per il delitto di “impedimento al controllo”, invece, le pene vanno da 6 mesi a 3 anni. Mano pesante per l’aggravante di “associazione mafiosa”: verrà applicata anche ai pubblici ufficiali che si renderanno complici di qualunque tipo di agevolazione in materia di concessioni o autorizzazioni. Pene più severe anche per chi ispeziona i fondali marini utilizzando tecniche esplosive (da 1 a 3 anni di reclusione). Tra i nuovi reati è stato introdotto anche quello di “omessa bonifica” per chi non ottempera all’ordine di recuperare l’area inquinata.
Uno degli adeguamenti più significativi del codice penale permette inoltre di poter contare sull’allungamento dei termini di prescrizione del reato. «Ricordiamo a tale proposito - sottolinea il WWf con una nota - il caso Eternit: l’intervenuta prescrizione che ha mandato assolti gli imputati è dipesa dall’esistenza di reati assolutamente inadeguati rispetto alla gravità dei fatti. Se le disposizioni contenute nella proposta di legge fossero già entrate in vigore, il processo si sarebbe prescritto in quindici anni».
Il vicepresidente di Legambiente, Stefano Ciafani, e il coordinatore nazionale di Libera, Enrico Fontana, ieri hanno assistito al voto in Senato in rappresentanza di quelle 23 associazioni e di quei 70 mila cittadini che hanno sottoscritto il loro appello intitolato «In nome del popolo inquinato: subito i delitti ambientali nel codice penale». Adesso hanno fretta, vogliono che la Camera approvi al più presto un decreto legge atteso da più di venti anni. «Grazie a questo voto - hanno aggiunto - è stata finalmente cancellata la non punibilità dei reati colposi in caso di bonifica, tanto cara a Confindustria, e sono stati apportati ulteriori miglioramenti al testo grazie al voto favorevole della maggioranza, del M5S e di Sel».
Ermete Realacci, presidente della Commissione ambiente e territorio alla Camera, primo firmatario della proposta di legge, si augura che il via libera definitivo avvenga «senza cambiare nemmeno una virgola». E’ questa la preoccupazione di tutti gli ambientalisti. Vista la larga e inedita maggioranza, non dovrebbero esserci brutte sorprese. Anche perché, ha spiegato Realacci, «quelli contro l’ambiente sono crimini particolarmente odiosi e molto pericolosi, basti pensare che stando al rapporto Ecomafia di Legambiente fruttano alla malavita organizzata circa 15 miliardi all’anno».
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Cronache di ordinario razzismo
Ieri sera, Piazza Pulita, trasmissione trasmessa da La7 e condotta da Corrado Formigli, era dedicata alla “Lega capoccia” – questo il titolo della puntata. Ospiti, tra gli altri, Dijana Pavlovic, attrice e attivista serba rom, e Gianluca Buonanno, europarlamentare leghista. Il quale ha sintetizzato così il proprio pensiero: “I rom sono la feccia della società”.
Alla reazione di Pavlovic, che ha invitato il parlamentare a prendersela “con i borseggiatori, con i criminali”, Buonanno ha proseguito, quasi sorridendo: “Purtroppo il 90% della vostra gente è così”, “Usate i bambini, dovreste vergognarvi”, “Ditelo che è vero che ci sono un sacco di rom e di zingari che sono dei ladri e dei farabutti”.
Il tutto letteralmente urlato davanti al volto di Dijana Pavlovic. La quale ha dato a Buonanno un foglio da leggere, relativo alla tragedia subita dalle donne rom in Svizzera, sottoposte a sterilizzazione dagli anni venti fino al 1974, proprio sulla base di dichiarazioni come quella gridata da Buonanno in diretta televisiva. “Una storia che pochi conoscono, e che rappresenta la continuazione, nel cuore dell’Europa e in quello che si considera un paese civile, del Porrajmos, lo sterminio nazista dei Rom.” Erano parole, quelle di Dijana, che meritavano di essere seguite dal silenzio, dalla riflessione e dal rispetto. Sono state accompagnate, invece, dall’ennesima manifestazione di razzismo”, leggiamo – e condividiamo- sul sito glistatigenerali.com.
Quando Buonanno è uscito dallo studio, Pavlovic si è rifiutata di stringergli la mano. Un gesto comprensibile e condivisibile, dopo gli insulti che le sono stati urlati contro. “Ecco, avete visto? Questa è l’integrazione! Avete visto?”, ha ripetutamente urlato Buonanno, gridando ancora una volta, a scanso di equivoci: “Siete la feccia dell’umanità”. Ancora applausi, e risa, dell’europarlamentare e degli spettatori.
Non tutti, fortunatamente. Alcuni hanno applaudito piuttosto a Formigli, quando ha espressovergogna per la reazione del pubblico alla frase di Buonanno. “Lui – ha sottolineato il conduttore – lo pensa, lo dice, ci mette la faccia. Io disapprovo completamente la sua frase”.
Questo ciò che è successo.
La sensazione sempre più forte è che ci si trovi ormai di fronte a un sipario, con delle maschere che recitano la propria parte, di solito urlando, per lo più slogan. Questo è il livello del dibattito politico, almeno durante i talk show televisivi. Banditi l’analisi sociale e politica, il ragionamento, il confronto. Così come assente è il rispetto per le persone: degli ospiti in studio – in questo caso Djana Pavlovic, contro la quale sono state urlate in faccia, quasi con il sorriso, offese razziste –, di interi gruppi sociali e, infine, degli spettatori: perché, almeno in teoria, questi programmi dovrebbero consentire a chi li guarda di approfondire la conoscenza dei temi trattati e di avere maggiori elementi di valutazione per elaborare la propria opinione.
Ma tra slogan urlati e insulti, cosa si capisce? Si riduce tutto a tifo, in uno stadio in cui i protagonisti sono sempre gli stessi: le persone, quasi sempre rappresentanti politici, di cui conosciamo quasi sempre già le idee e le opinioni.
Ma allora, domandiamo ai conduttori, siamo sicuri che il format prescelto, quello che troppo spesso da salotto degenera in un vero agone televisivo che sacrifica l’informazione allaspettacolarizzazione, sia quello giusto?
Anche se posso sembrare grillino, che non sono, penso che poco a poco stia venendo fuori che le polemiche che ogni tanto Forza Italia fa con il governo è pura manfrina e che, come ho già scritto, se Renzi fa il “bravo” e attua il “programma”, il padrone di quel partito è disposto anche a sacrificare la sua creatura consentendo un travaso di voti al nuovo Pd.
L’attuale capo del governo e segretario del Pd dà sempre più l’impressione di essere etero diretto, di attuare un programma per conto di qualcuno, non sembra che porti avanti idee proprie, anche perché non so se sarebbe all’altezza di elaborarle.
Egli, e il suo principale antagonista attuale Salvini, sono cresciuti e si sono formati nell’epoca d’oro della Tv spazzatura. Se non erro, i giornali hanno riportato che entrambi hanno partecipato a quei programmi presi in giro da Arbore, dove rispondendo a domande come “quanto fa due più due” si potevano vincere milioni (“E’ così che si fanno i milioni, evviva le televisioni”, faceva cantare al coro il presentatore pugliese).
Berlusconi, grazie a quel tipo di Tv, ha costruito il suo impero economico e politico; poi, stanco, ha fatto andare avanti i suoi discepoli. Per chi ha avuto come mentore quella televisione, l’importante è avere sempre lo slogan giusto a portata di mano, tanto chi lo segue non andrà mai ad aprire un libro per documentarsi da sé, non andrà mai a verificare di persona se certe affermazioni corrispondono al vero, basta che la frase sintetica (il twitter) sia quella giusta.
E così Renzi può dire che la sua politica è a favore dei giovani, pur prendendo provvedimenti opposti, e i giovani gli credono. Salvini può dire che uscendo dall’Unione Europea staremo meglio e la gente gli crede. D’altro canto anche Mussolini diceva “spezzeremo i reni alla Grecia” o che “l’ora delle decisioni irrevocabili è giunta”, e la gente andava in estasi credendo che ci saremmo divisi il mondo noi e la Germania, salvo poi mandare in Russia soldati con le scarpe di cartone e con la raccomandazione di “portarsi una coperta da casa”.
A volte mi chiedo se ci sia una maledizione sulla testa di noi italiani: Crispi, Mussolini, Giannini, Craxi, Berlusconi, Renzi, Salvini. Politici che risolvono tutto nella parola che infatua le folle. Si dice: è il popolo italiano che è immaturo. Ma no! Il popolo è più o meno uguale dappertutto, quello che da noi è diversa è la cosiddetta classe dirigente, è questa che dovrebbe imprimere la svolta perché ne ha il potere e i mezzi. Ma purtroppo alla nostra borghesia danarosa, alla maggior parte dei nostri intellettuali, questa società, queste istituzioni, questi politici, vanno più che bene.
E i giovani continueranno a emigrare.
spremuto, non ha senso cercare altro succo». Francesca Pilla intervista Ermanno Rea, a proposito delle significative "primarie" di Napoli e del partito di Renzi. Il manifesto, 4 marzo 2015
Non conosco De Luca, di certo non mi può piacere qualcuno che viene definito sindaco sceriffo. E di sicuro non si può cambiare la legge Severino ad personam. Ma non credo che attualmente sia questo il problema. Nel nostro paese non abbiamo una sinistra e Renzi è un pompiere che ha spento gli ultimi fuocherelli». La vede così Ermanno Rea, secco e deciso. Lui, classe 1927, che alle scorse europee si è candidato al Sud per la Lista Tsipras, da giornalista e autore di grandi successi come Mistero Napoletano (premio Campiello 1996) e Napoli Ferrovia (premio Strega 2008), ha vissuto la politica italiana intensamente, senza mai tirarsi indietro o risparmiare critiche ai dirigenti che dal dopoguerra in poi hanno contribuito a fare la storia di questo paese. Forse proprio per questo è distaccato e restio a parlare di rottamatori e di primarie al sapore di pasticcio Dem.
Professore, ha seguito le consultazioni del Pd in Campania?
Ovviamente, ma ormai non voto più a Napoli e non conosco nessuno dei personaggi che sono stati candidati. Ho letto qualcosa su Vincenzo De Luca. Viene chiamato ’il sindaco sceriffo’, usa degli slogan sindacabili e ha un piglio decisionista molto lontano dalla mia idea di politica.
Però nel Pd lo hanno votato e in tanti, non solo a Salerno.
I campani, ma in special modo i napoletani, sono disperatamente alla ricerca di un individuo carismatico che riesca a risolvere i problemi strutturali e radicati che ci sono in una regione del Mezzogiorno. In loro si accende un lumicino di speranza e si aggrappano all’uomo del momento. È successo con de Magistris, oggi con De Luca, ma dietro questa corsa disperata finiscono irrimediabilmente per impattare in personaggi che disattendono le aspettative. Questa voglia di rinnovamento deve invece essere incanalata, ricominciare dal basso con una guida capace di grande magistero etico e in grado di mettere a frutto le energie e le possibilità di questo popolo.
Un nome alternativo non emerge, De Luca potrebbe essere sospeso il giorno dopo l’elezione. Non sarebbe uno spreco lasciare la Campania ancora alla destra?
La legge Severino c’è e non si discute, anche se mi pare che il reato di abuso d’ufficio di cui è accusato De Luca sia ben diverso da quello di Berlusconi, condannato in via definitiva per ben altre ragioni. Ma è inutile buttarsi su queste microstorie. De Luca correrà e se vincerà, nel caso in cui dovesse essere sollevato dall’incarico, ricorrerà al Tar. Al massimo si rifaranno le elezioni. Il problema è che in Campania è forte e urgente la domanda di democrazia e rinnovamento. C’è un grande desiderio tra le persone che non viene appagato per mancanza di responsabilità, per la corruzione dilagante e per la disfatta morale.
Nel Pci sarebbe potuto accadere?I
l paragone non regge, era tutta un’altra cosa, con una struttura diversa, le primarie non erano nemmeno in calendario. Anche perché non è che nel Pci di democrazia ce ne fosse davvero tanta.
Parliamo al presente. Come vede il Pd di Renzi?
È un limone spremuto dove non ha senso andare a cercare altro succo. Credo di aver descritto bene la situazione attuale in un mio libretto La fabbrica dell’obbedienza, il lato oscuro e complice degli italiani (ed. Feltrinelli, ndr). Renzi ha abbagliato l’opinione pubblica che riesce sempre a innamorarsi in fretta dei personaggi sbagliati, ma anche a farli cadere presto in disgrazia. È già finito il suo tempo. Credo che il premier non sia in grado di incantare più nessuno e vada avanti con qualche illusione che aveva messo in scena all’inizio. Per il nostro paese è stato un pompiere in grado di spegnere le ultime fiammelle di sinistra nel sistema partitico.
Non ci sono speranze di avere una rappresentanza a sinistra?
Noi veniamo da anni di berlusconismo e manchiamo di senso di responsabilità sottratto da santa romana chiesa. La sinistra italiana non è mai stata capace di amalgamarsi, unirsi ed esprimere se stessa. Qui non riesce nemmeno a venir fuori una Syriza o una Podemos. Così sono pessimista a breve distanza. Ma ottimista sul lungo periodo. La situazione oggi è disperata, ma gli uomini hanno superato ostacoli enormi. Qualcosa di positivo accadrà. Io non vedrò l’aurora perché ho 88anni, la vedranno i figli dei figli.
Ha in mente qualcuno capace di traghettarci fuori da questo immobilismo?
Non credo ai nomi e cognomi ma a tante persone di qualità e alla capacità di organizzare il dissenso.
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Se questa carenza di una sinistra politica e sociale è un problema, anche di sistema, che si intende superare, occorre comprendere le ragioni (cioè i punti di forza) dell’avversario e penetrare, se ci sono, nelle sue zone di debolezza. Con Renzi, il Pd porta alle conseguenze estreme delle tendenze interne verso approdi post-ideologici operanti già al tempo del Lingotto. Però quest’anima interclassista e moderata, con il suo disegno di sfondare al centro con la promessa di una rivoluzione liberale, che con Veltroni e Rutelli si arenò, ora trova espressioni inedite che sembrano rivitalizzarla. Perché Renzi riesce dove Rutelli ha già fallito?
Alla spinta centrista e modernizzatrice, condita con la salsa di un liberismo ostile ai diritti, egli aggiunge una magica porzione di antipolitica. Mettendo insieme il nucleo del programma della Confindustria (riduzione dello spazio pubblico e semplificazione delle regole del lavoro) e lo stile antipolitico, Renzi intercetta domande di novità e distrugge, con la maschera della discontinuità radicale, il vecchio ceto politico di estrazione comunista. Muta anche, con l’assalto al sindacato, la composizione sociale del partito, al punto da penetrare in aree e interessi sociali delle microimprese attratte dalla distruzione delle cosiddette rigidità del mercato del lavoro (e dalla enfasi renziana contro i controlli burocratici eccessivi, che riscontrano irregolarità nel 65 per cento delle aziende visitate) e che difficilmente avrebbero guardato a sinistra.
Dalla prima anima, quella in senso lato confindustriale, Renzi ricava media e denaro che coprono le sue gesta con un conformismo assoluto (c’è una sorta di giornale unico nazionale che da Repubblica passa per il Corriere, La Stampa, Il Messaggero, Il Sole 24 ore). Dalla seconda anima, quella del capo di governo che è nemico del ceto politico, egli assorbe un desiderio di vittoria (comprensibile dopo che il Pd si era accasciato a terra proprio al momento del trionfo) e una invocazione di nuovo e di rottura verso schemi tradizionali.
La forza di Renzi (ancoraggio ad interessi d’impresa e copertura della scena pubblica con una asfissiante comunicazione post-politica) è anche la sua debolezza. Senza un partito strutturato, privo di un sistema di potere consolidato che si estenda oltre i meri traffici clientelari del giglio magico, senza un vero gruppo dirigente e una valida classe di governo, privo di un collegamento con ampi soggetti sociali, il grado di autonomia di cui Renzi gode rispetto alle potenze economiche e finanziarie è quasi insussistente.
Sfrutta al massimo le loro risorse, le esibisce in un pubblico sfarzo alla Leopolda e amministra spesso con arroganza le loro munizioni, ma non ne è il padrone. E quindi naviga a vista perché il sostegno dei poteri forti è sempre condizionato al rapido incasso in moneta sonante. La coalizione sociale che con Monti e poi con Letta ha gestito il potere nella fase di transizione post-berlusconiana è la stessa, con varie sfumature, che sorregge adesso Renzi.
La novità è soprattutto il grado di antipolitica che il fiorentino aggiunge alla commedia e lo smantellamento di un partito (mai consolidato) tramutato in una sua appendice personale. Il dominio renziano sembrerebbe incontrastabile, con lo spread che si calma, con il trasformismo del venti per cento dei deputati pronti al grande salto nel carro del rottamatore, con l’opportunismo di tanti parlamentari del Pd che hanno fiutato che in un non-partito degli eletti sovrano è solo chi decide le candidature.
Eppure, la mancanza di una sinistra riconoscibile solleva una latente crisi di legittimazione. L’impressione che la politica odierna suscita è quella che ricavava Tocqueville osservando la vita parlamentare del suo tempo. In essa «gli affari vengono trattati fra i membri di un’unica classe, secondo i suoi interessi e i suoi modi di vedere, non è possibile trovare un campo di battaglia su cui i grandi partiti possano farsi la guerra». Con il presidente del consiglio «gasatissimo da Marchionne» e gran veneratore della sacra libertà di licenziamento, nel parlamento opera un solo interesse prevalente, quello dell’impresa.
Per questo è difficile al momento pensare ad una rinascita della destra su basi diverse dal populismo di Salvini. Una destra liberale non ha alcuna possibilità (e necessità) di organizzarsi coltivando ambizioni di alternativa: il suo spazio è già ben presidiato da Renzi. E una sinistra avrebbe le forze per riprendere una funzione rappresentativa? Nel «paese legale», continuava Tocqueville descrivendo l’omologazione dei ceti politici francesi, esiste una «singolare omogeneità di posizioni, di interessi e, per conseguenza di vedute, che toglie ai dibattiti parlamentari ogni originalità e ogni realtà, e quindi ogni vera passione». La stessa sensazione di tramonto dell’autonomia della politica la si ricava osservando le dispute politiche odierne.
Autonomo, al limite dell’ostilità e dell’ingiuria, dal sindacato e dal lavoro, il Pd è privo di ogni argine efficace rispetto alle sollecitazioni della finanza, dell’impresa, dei media. E questo ritorno ad un parlamentarismo monoclasse suscita anche una sensazione di impotenza, di estraneità in consistenti fasce di opinioni. Nel dominio di grandi potenze economiche, diceva Tocqueville, «i vari colori dei partiti si riducono a piccole sfumature e la lotta a una disputa verbale». Non è un caso che, in un clima di similitudine nelle basi sociali riconosciute, avvenga il processo di unificazione tra Pd e Scelta civica o che sfumino del tutto i confini distintivi con il nuovo centro destra.
Quale percepibile differenza identitaria, e di alterità nei riferimenti storici e sociali, si può mai notare tra Guerini e Alfano, tra Boschi e Carfagna, tra Picierno e Gelmini, tra Madia e Lupi, tra Lotti e Verdini, tra Faraone e Fitto? Ancora Tocqueville: in una politica ad una sola dimensione, quella della classe proprietaria, i politici ricorrono «a tutta la loro perspicacia per scoprire argomenti di grave dissenso, senza trovarne». Con le sue politiche in tema di lavoro, Renzi si rafforza perché lascia senza scopo una destra di governo. Però, proprio con questo scivolamento, mantiene sguarnito un ampio fronte sociale, i cui interessi non coincidono con il rafforzamento del potere unilaterale dell’impresa.
Con le sue scorribande istituzionali, Renzi apre una vistosa voragine anche nel campo politico (maltrattamento dei principi dell’antico costituzionalismo democratico della sinistra, demolizione dell’idea di un partito non personale). Colpita sul piano degli interessi sociali di riferimento e sfregiata sull’idea di democrazia e sul senso della politica, è impensabile che la sinistra non provi a reagire alle umiliazioni di chi si vanta di averla asfaltata.
Non per un senso dell’onore, che già Bodin escludeva quale principio della politica, ammettendo la liceità del compromesso e della trattativa al cospetto di un nemico troppo forte per essere sfidato di punto. Ma, alla comprensibile ritirata, che ha accompagnato il celere trionfo renziano, non è corrisposta alcuna azione incisiva per il recupero di forza e capacità di combattimento. È mancata quella che Lenin avrebbe chiamato una «ritirata con giudizio». La controffensiva, dopo la temporanea ritirata, non è stata neppure accennata. E invece andrebbe disegnata.
Con una coalizione sociale di protesta e ostile alla proposta politica? La specificità italiana è che mentre altrove esistono due sinistre, qui non se ne intravede neppure una. La minoranza del Pd deve avere la consapevolezza che il successo di Renzi, e cioè la sua leadership alle prossime elezioni, sarebbe il trionfo di una variante di partito personale a vocazione populista entro cui una componente di sinistra risulterebbe schiacciata e inutile.
Perciò deve immaginare che qualcosa può nascere oltre Renzi e non bisogna dare più come senza alternative il quadro attuale di governo. Se le due sinistre visibili solo in potenza, quella sociale e quella politica, non mettono in atto un processo di alternativa a Renzi, devono rassegnarsi alla rapida decadenza della qualità democratica.
La Repubblica, 4 marzo 2015
«VOI siete in un programma. Le elezioni non cambiano il programma». In questa frase rivolta dal ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble al collega greco Yanis Varoufakis, che gli faceva notare come il suo governo avesse ottenuto un mandato popolare per rinegoziare gli accordi con i partner dell’Eurozona, sta il cuore del rapporto fra economia e politica. Meglio, fra moneta e impero, giusto il titolo della Festa di Limes che si inaugura venerdì prossimo, 6 marzo, al Palazzo Ducale di Genova, e dell’ultimo volume dell’omonima rivista di geopolitica.
Un evento ormai consolidato, che raduna per tre giorni di pubblico dibattito, studiosi, analisti e protagonisti del mondo finanziario, economico e politico, per affrontare insieme questioni di strettissima attualità. Si va dal destino dell’euro e dell’Italia nell’Eurozona, su cui duelleranno venerdì pomeriggio Enrico Letta e Maurizio Landini, alla potenza geofinanziaria delle mafie, dal tesoro del “califfo” al- Baghdadi a quello della Chiesa cattolica, dal primato del dollaro ai paradisi fiscali, dalla crisi del rublo connessa alla guerra in Ucraina al (mal) funzionamento dei mercati.
Tutte partite trattate nel contesto delle crisi e dei conflitti in corso, dove geofinanza e geopolitica si incrociano e scontrano, producendo effetti spesso imprevisti o indesiderati. E nelle quali la politica, intesa come governo della cosa pubblica, sembra oggi soccombere a favore di meccanismi apparentemente semiautomatici, financo algoritmici, che spostano ricchezza e quindi potere in qualche frazione di secondo. Suscitando oscure dietrologie, radicate nella certezza che «money makes the world go around», che sono i soldi a far girare il mondo, come cantava Liza Minnelli in Cabaret .
Che cosa resta oggi dell’Europa neocarolingia battezzata alla fonte dell’euro? Per tentare di capirlo, conviene ripartire dallo scontro Schäuble-Varoufakis. Fra il gigante e il nano economico dell’Eurozona. Due paesi totalmente asimmetrici per cultura monetaria e politica, ma dotati della (ingabbiati nella) stessa valuta. Il campione delle “formiche” contro il capofila delle “cicale”, per usare una vieta ma diffusa classificazione che rende il clima dominante nella famiglia europea. Dietro Berlino si riparano i paesi (nordici) che credono nelle virtù salvifiche dell’austerità, dietro Atene quelli (mediterranei, Francia inclusa) che agognano flessibilità, ovvero marcano l’urgenza di sostenere la domanda.
Quello che può parere un conflitto di scuole economico-monetarie è soprattutto uno scontro geopolitico e culturale che investe l’Europa intera. Fino a metterne in questione le radici democratiche e i valori liberali. Al centro, l’idea stessa di sovranità. Il progetto euro ci era stato offerto come un percorso nel quale ciascun contraente, cedendo il diritto sovrano di battere la propria moneta nazionale, avrebbe contribuito ad armonizzare le economie europee, a vantaggio di tutti e di ciascuno. Per poi produrre, in un futuro non invisibile, quello Stato europeo - federale, confederale o d’altra forma - che avrebbe coronato il processo unitario avviato nel 1957 a Roma. Oggi scopriamo che non è così. Anziché unirci, sull’euro ci dividiamo. E ne facciamo fattore di demonizzazione reciproca, i cui limiti estremi si toccano nella disputa greco- germanica, ma che investono tutti i popoli europei, compreso il nostro.
La materia del contendere sembra di natura contabile, di politica monetaria e fiscale, ma in effetti è culturale. Nell’approccio al supremo simbolo fiduciario che è la moneta ci scopriamo diversi. E tendiamo spesso ad attribuire tale diversità a fattori “genetici”, dunque irrazionali e innegoziabili - i greci barano perché sono greci, i tedeschi vogliono “germanizzare” gli altri perché sono tedeschi - invece che storico-politici, ossia calcolabili e disputabili. Un peculiare razzismo intraeuropeo. Risultato: anziché produrre un nuovo impero europeo - democratico, liberale e aperto al mondo - l’euro offre il pretesto per la chiusura e l’imbarbarimento dello spazio europeo. Per la sua disgregazione. Tanto che in ognuna delle crisi in corso, dall’Ucraina al caos nordafricano e mediorientale da cui germina lo Stato Islamico, i Ventotto si offrono rigorosamente divisi, quando non in aperto conflitto.
Di qui parte la tre giorni di Palazzo Ducale. Da Genova, capostipite del capitalismo finanziario italiano e mondiale, sede di quella banca centrale avanti lettera che fu dal 1407 la Casa di San Giorgio, oltre che centro di sperimentazione della “lira di buona moneta”, la divisa stabile che contribuì al primo ciclo di accumulazione del capitale. Dove, se non qui, esplorare la relazione fra moneta e impero?
La Repubblica, 4 marzo 2015, con piccola postilla
SEe allo stesso tempo si vuole aumentare la partecipazione alla vita del partito e l’incremento degli iscritti, allora si affacciano seri dubbi. Se infine attraverso questo processo di selezione si vuole aumentare la democraticità interna del partito, non c’è mezzo peggiore: perché seguendo la strada delle primarie sempre e comunque si rafforza una visione plebiscitaria della democrazia deprimendo quella delegata. E si arriva così al pasticcio della Campania: dove si candida, e vince nell’imbarazzo generale, un candidato come De Luca, che il Pd non ha avuto la forza di far desistere. E ora il partito che aveva votato la legge Severino dovrà votare per un candidato governatore contro quella stessa legge.
Quando le primarie vennero introdotte per la prima volta a livello nazionale, nel 2005, si trattava in realtà di incoronare il prescelto, Romano Prodi. All’epoca quella iniziativa serviva soprattutto a legittimare un candidato che non rappresentava i maggiori partiti. Tuttavia emerse anche un effetto laterale: la partecipazione massiccia dei sostenitori, più di 4 milioni. Quella mobilitazione straordinaria, da un lato, costituiva una sorta di esibizione muscolare nei confronti dell’avversario, ma, dall’altro, evidenziava un grande desiderio, fin lì represso, di poter decidere direttamente. Nessuna iniziativa politica aveva mai coinvolto tante persone in Italia.
Le primarie apparvero quindi un efficace strumento per mobilitare l’elettorato e, in una fase di montante antipolitica — il successo del vaffa day di Grillo è di appena due anni dopo — , recuperare legittimità alla politica e ai partiti. Vi era poi un retropensiero in molti dei sostenitori delle primarie: sottraendo alla classe dirigente il potere di scelta dei candidati ai vari livelli si potevano modificare gli assetti interni e avviare un radicale rinnovamento del personale politico. In realtà questo obiettivo è stato raggiunto solo negli ultimi anni sia a livello di partito con la vittoria di Renzi, sia a livello politico con l’affermazione di sindaci e governatori estranei ai gruppi dirigenti consolidati — Pisapia a Milano e Doria a Genova i casi più eclatanti, oltre a Vendola in Puglia già nel 2005. Nel Pd il mito delle primarie è alimentato da una valutazione precisa, ripetuta come un mantra: la maggior “democraticità” di questo sistema.
Il ragionamento è limpido: aumentando il numero delle persone coinvolte nel processo di selezione, il cosiddetto “selettorato”, aumenta anche il grado di democraticità del partito. È evidente che un processo decisionale opaco e concentrato insindacabilmente in poche mani non può essere soddisfacente. Ma la decisione del Pd di estendere il selettorato sempre e comunque a tutti gli elettori — procedura adottata invece in pochissime occasioni da altri partiti europei — contiene in sé due handicap: dispossessa gli iscritti di una funzione che dovrebbe essere qualificante per l’appartenenza ad un partito, e stimola il virus plebiscitario all’interno del partito e, per estensione, nel sistema di rappresentanza italiano.
postilla
Non parliamo poi della pesante distorsione che avviene quando la primaria del raggruppamento Rosa è aperta anche ai Celeste, e quindi gli elettori Celeste possono determinare la scelta del candidato Rosa.
Senz'appello la bocciatura del premio Nobel statunitense per la politica economica dell'Eurozona.: Il Fmi ha già ammesso i suoi fallimenti politici e intellettuali, la Troika ancora no. Il manifesto, 3 marzo 2015
Secondo i dati economici più recenti, sia gli Stati uniti che l’Europa stanno mostrando segnali di ripresa, anche se è presto per dichiarare la fine dalla crisi. Nella maggior parte dei paesi dell’Unione europea, il Pil pro capite è ancora inferiore al periodo precedente la crisi: un intero decennio perduto. Dietro alle fredde statistiche, ci sono vite rovinate, sogni svaniti e famiglie andate a pezzi (o mai formatesi), un futuro quanto mai precario per le generazioni più giovani, mentre la stagnazione – in Grecia la depressione – avanza anno dopo anno. L’Ue vanta persone di talento e con un alto grado di istruzione. I paesi membri contano su forti quadri giuridici e società ben funzionanti.
Prima della crisi, la maggior parte aveva persino economie ben funzionanti. In alcuni paesi, la produttività oraria – o il suo tasso di crescita – era tra le più alte del mondo. Ma l’Europa non è una vittima di errori altrui, come spesso si legge.
Certo, l’America ha mal gestito la propria economia, ma il malessere dell’Ue è in massima parte auto-inflitto, a causa di una lunga serie di pessime decisioni di politica economica, a partire dalla creazione dell’euro. Sebbene l’intento sia stato quello di unire l’Europa, alla fine l’euro l’ha divisa: i paesi più deboli (quelli che già nel 1980 in un lavoro per l’Ocse, Fuà individuava nei paesi europei di più recente sviluppo – tutti con alta inflazione, dualismo territoriale, deficit della bilancia dei pagamenti e di bilancio pubblico, alta disoccupazione e notevole quota di economia sommersa — e che ora sono con malcelata arroganza identificati come Piigs) sono riusciti, per ora, a rimanere nell’euro a prezzo di disoccupazione e deflazione salariale, crollo della domanda interna e aumento del “sommerso”.
In assenza della volontà politica di creare istituzioni in grado di far funzionare una moneta unica — innanzi tutto una politica fiscale unica — nuovi danni si aggiungeranno ai danni già prodotti. Gli squilibri in Europa sono aggravati dalla divergenza nelle esportazioni nette, e solo una politica fiscale comune può far in modo che i flussi commerciali del Portogallo verso l’Olanda abbiano la stessa importanza (cioè nulla) di quelli, ad esempio, dell’Oregon verso il Missouri o del Brandeburgo verso la Baviera.
La Grande Recessione deriva in parte dalla convinzione che il liberismo di mercato avrebbe riportato le economie su di un sentiero di crescita “adeguato”. Tali speranze si sono rivelate sbagliate non perché i paesi dell’Ue non sono riusciti a realizzare le politiche prescritte, ma perché i modelli su cui hanno poggiato quelle politiche sono gravemente viziati.
In Grecia, ad esempio, le misure intese a ridurre il peso debitorio hanno di fatto lasciato il paese più indebitato di quanto non fosse nel 2010: il rapporto debito-Pil è aumentato a causa dello schiacciante impatto dell’austerità fiscale sulla produzione. Il Fondo monetario internazionale ha ammesso questi fallimenti politici e intellettuali. Verrà anche il giorno in cui anche la Troika riconoscerà il fallimento delle politiche di austerità e della teoria che l’hanno ispirate. A noi non resta che continuare ad impegnarci perché questo avvenga il prima possibile risparmiando inutili sofferenze ai popoli dell’Europa.
I leader europei restano convinti che la priorità debba essere la riforma strutturale. Ma i problemi che menzionano erano evidenti negli anni precedenti la crisi, e non avevano fermato la crescita allora. All’Europa serve più che una riforma strutturale all’interno dei paesi membri. All’Europa serve una riforma della struttura dell’eurozona stessa, e l’inversione delle politiche di austerity, che non sono riuscite a riaccendere la crescita economica.
Condividere una moneta unica costituisce ovviamente un problema poiché così facendo si rinuncia a due dei meccanismi di aggiustamento: i tassi d’interesse ed il cambio. Se si aderisce a una moneta unica, la rinuncia ad alcuni strumenti di politica economica può essere compensata sostituendoli però con qualcosa d’altro, come una politica fiscale comune e condivisione dei debiti, mentre ad oggi l’Europa non ha messo in campo altro che il Fiscal compact. Serve un cambiamento strutturale dell’Eurozona se si vuole che l’euro possa sopravvivere: o ci sarà l’Europa politica (Stati uniti d’Europa) o non ci sarà l’euro. Coloro che pensavano che l’euro non sarebbe potuto sopravvivere si sono ripetutamente sbagliati. Ma i critici hanno ragione su una cosa: a meno che non venga riformata la struttura dell’Eurozona, e fermata l’austerity, l’Europa non si riprenderà.
Il dramma dell’Europa è ben lungi dall’essere concluso. Uno dei punti forza dell’Ue è la vitalità delle sue democrazie. Ma l’euro ha lasciato i cittadini – soprattutto nei Paesi in crisi – senza voce in capitolo sul destino delle loro economie. Gli elettori hanno ripetutamente mandato a casa i politici al potere, scontenti della direzione dell’economia – ma alla fine il nuovo governo continua sullo stesso percorso dettato da Bruxelles, Francoforte e Berlino.
Ma per quanto tempo può durare questa situazione? E come reagiranno gli elettori? In tutta Europa, abbiamo assistito a un’allarmante crescita di partiti nazionalistici estremi, mentre in alcuni Paesi sono in ascesa forti movimenti separatisti. E potranno le economie dei paesi periferici sopravvivere ad una unione monetaria incompleta e asimmetrica?
Ora la Grecia sta ponendo un altro test all’Europa. Il calo del Pil greco dal 2010 è un fattore ben più grave di quello registrato dall’America durante la Grande Depressione degli anni ‘30. La disoccupazione giovanile è oltre il 50%. Il governo del primo ministro Alexis Tsipras ha ottenuto che venga abbandonato l’insano obiettivo – assunto dal precedente governo Samaras – di triplicare l’avanzo primario, anche recuperando parte dell’evasione fiscale. Forse Syriza aveva acceso aspettative diverse sul piano interno. Ma l’Europa tutta deve ora cogliere l’occasione greca per completare il disegno dell’euro.
Il problema non è la Grecia. È l’Europa. Se l’Europa non cambia – se non riforma l’Eurozona e continua con l’austerity – una forte reazione sarà inevitabile. Forse la Grecia ce la farà questa volta. Ma questa follia economica non potrà continuare per sempre. La democrazia non lo permetterà. Ma quanta altra sofferenza dovrà sopportare l’Europa prima che torni a parlare la ragione?
* In collaborazione con Mauro Gallegari Parziale copyright Project Syndic
Il Los Angeles Police Department è di nuovo al centro della cronaca degli abusi di polizia dopo la morte di un uomo freddato a colpi di pistola da tre agenti nel sobborgo di Skid Row. L’episodio avvenuto domenica è stato ripreso da un video divenuto virale in rete in cui si vedono sei poliziotti che circondano un uomo in evidente stato di agitazione. All’inizio del filmato gli agenti gli stanno attorno e l’uomo comincia a dimenarsi roteando le braccia nella loro direzione.
I poliziotti gli saltano addosso, un paio di essi lasciano cadere in terra i manganelli che avevano impugnato; una donna minuta, magrissima e, si direbbe, anziana, ne raccoglie uno, due agenti che la sovrastano di almeno 40 centimetri lasciano la mischia e si lanciano sulla esile donna afroamericana ammanettandola bruscamente a terra. Nel frattempo sullo sfondo i quattro rimanenti poliziotti continuano la colluttazione con l’uomo, identificato solo col nomignolo “Africa”. Pure lui, ad un certo punto, atterra sulla schiena. Volano dei pugni, si sente il ticchettio caratteristico della scarica elettrica dei taser poi d’improvviso un paio di agenti balzano in piedi con pistole puntate a terra e si sentono esplodere 5 colpi. Sono tre alla fine i poliziotti con l’arma puntata.
Nel video si vede e si sente anche la reazione dei numerosi astanti che urlano all’indirizzo degli agenti: «L’avete ammazzato, bastardi!» «Era disarmato, qui nessuno ha una pistola!» «Sei contro uno, vigliacchi figli di puttana!».
Nel coro d’indignazione spontanea dei presenti arrivano altre volanti e rinforzi che si dispongono a cordone e intimano alla gente di allontanarsi. Si conclude così l’ultimo, ennesimo, film di violenza omicida poliziesca destinata a puntare nuovamente i riflettori su una piaga cronica con cui gli Stati uniti stentano a fare i conti e in cui ancora una volta si intersecano letalmente annosi problemi sociali. Il razzismo — ancora una volta la vittima è nera — ma anche uno dei poliziotti che apparentemente ha fatto fuoco lo è.
Le condizioni di impressionante emarginazione sono frutto in gran parte della completa mancanza di rete di assistenza sociale e psico sanitaria. Una grande percentuale degli homeless di Skid row soffre infatti di disturbi psichici, pazienti bipolari o psicotici “orfani” di strutture preposte, abbandonati alla strada (qualche anno fa venne perfino documentata la pratica di ospedali del Nevada di dimettere pazienti psicolabili con ambulanze scaricandoli nottetempo nella zona). Era questo il caso anche di “Africa” giunto sui marciapiedi del quartiere dopo un soggiorno decennale in un ospedale psichiatrico.
In mancanza di strutture terapeutiche adeguate, le “cure” di questi malati sono “appaltate” alla polizia e alla loro tolleranza zero. Nel caso dell’uomo ucciso domenica avrebbe preso la forma di un’ intimazione a smantellare una tenda. Quando questi, in stato confusionale, si sarebbe rifiutato i poliziotti lo avrebbero estratto con la forza dal rifugio – il resto lo racconta il video.
Subissato di proteste, il dipartimento ha invitato i cittadini a «non formarsi preconcetti» annunciando una «indagine approfondita» sull’accaduto e prefigurando comunque già da ora l’ipotesi di una «azione difensiva» degli agenti in seguito al tentativo della vittima di afferrare una delle loro armi: in altre parole l’abituale copione impiegato in questi casi che finiscono regolarmente con l’assoluzione degli agenti. Il Lapd non è nuovo a questo tipo di episodio, dal 2000 ad oggi i “morti per polizia” sono stati oltre 600. Difficilmente l’uccisione di Africa avrà un esito diverso
«Su Avvenire appello a Renzi da quarantaquattro deputati della maggioranza: “Occasione irripetibile per una svolta epocale” La norma inserita nel decreto messo a punto dalla Giannini. Ma servono quattrocento milioni. Domani il Consiglio dei ministri». La Repubblica, 2 marzo 2015
Gli sgravi fiscali per le famiglie che pagano una retta agli istituti paritari sono previsti nel decreto “La buona scuola”, appena licenziato dal ministero dell’Istruzione. Il ministro Stefania Giannini nel fine settimana ha inviato l’intero articolato a Palazzo Chigi. Oggi il premier Matteo Renzi lo prenderà in esame e domani discuterà in Consiglio dei ministri, all’interno della corposa riforma scolastica centrata sulle assunzioni dei precari, del provvedimento più politico: gli sgravi a chi frequenta scuole non di Stato. Allo Stato costerebbero, s’ipotizza, 400 milioni.
Decide Renzi, ecco, ma alla vigilia del Cdm un pezzo del centrosinistra (e un pezzo consistente del Pd) chiede al premier di aiutare una quota del mondo scolastico – le paritarie – che oggi attraversa la sua crisi più profonda dal dopoguerra. Un pressing che già divide la maggioranza. Quarantaquattro deputati, ieri, hanno pubblicato sul quotidiano cattolico Avvenire una lettera lunga due cartelle in cui chiedono l’approvazione del provvedimento sugli sgravi: “La Buona scuola”, scrivono al premier, «rappresenta il più importante tentativo di riforma dall’epoca della riforma gentiliana» ed è quindi «un’occasione irripetibile per superare lo storico gap della scuola in tema di pluralismo e libertà di educazione». Dall’unità nazionale in poi, si legge, «si è trasformata una scuola a vocazione comunitaria in una scuola per ricchi e si sono costrette le famiglie che optano per la scuola non statale a una doppia imposizione, quella della tassazione generale e quella delle rette».
Nella lettera si ricorda che la paritaria in Italia è fatta di 13mila istituti e accoglie un milione e 300 mila alunni, che con 478 milioni l’anno di finanziamento lo Stato risparmia oltre 7 miliardi di potenziali spese. Citando Antonio Gramsci, don Milani a Maria Montessori, si evidenzia come la scuola pubblica non statale sia «in lenta asfissia, una morte lenta», che numerosi istituti, «talora storici», hanno chiuso mentre «le scuole che resistono sono costrette ad aumentare le rette». Quindi, «un sistema fondato sulla detrazione fiscale, accompagnato dal buono scuola per gli incapienti, potrebbe essere un primo significativo passo verso una soluzione di tipo europeo».
Fra le 44 firme ci sono, ovviamente, i centristi della maggioranza: cinque di Area popolare tra cui Buttiglione e la Binetti, cinque del Centro democratico, uno di Scelta civica. Trentadue i deputati del Pd, fra cui l’ex ministro Fioroni, il teorico del no profit Patriarca e Simona Malpezzi, ex insegnante vicina agli attuali responsabili scuola del partito. Dice la Malpezzi: «Sono profondamente laica e credo che tutti debbano essere liberi di scegliere. Le paritarie quasi sempre suppliscono ai posti non creati dallo Stato. Non possiamo investire, come faremo, 100 milioni nelle materne e poi non consentire alle paritarie di fare la loro parte. Ho vissuto all’estero: in Francia la parità tra pubbliche e private è completa».
Il sottosegretario Gabriele Toccafondi, Ncd, ex Forza Italia, a Firenze sempre all’opposizione di Renzi, nelle ultime settimane ha lavorato agli sgravi fiscali, al buono scuola per i redditi bassi e all’estensione del 5 per mille anche agli istituti privati. Tutto questo, di concerto con il ministro Giannini. La proposta di sgravio prevede una detrazione del 19 per cento modulata sui redditi. Dice Toccafondi: «Non aiutiamo le scuole paritarie, a cui non diamo un euro in più, aiutiamo le famiglie che le frequentano. Non tutte oggi riescono a pagare la retta mensile, che alle materne e alle elementari viaggia tra i duecento e i quattrocento euro. La scuola è una sola: se cede la gamba delle paritarie cede anche quella delle statali, che certo non potrebbero sostenere un altro milione di studenti. Il fondo per le paritarie nel 2015 resta a 478 milioni, già tagliato di ventidue».
L’Unione degli studenti scrive: «La lettera dei 44 parlamentari è vergognosa, i fondi alle paritarie private sono uno spreco e uno schiaffo a una scuola pubblica che sta vivendo una situazione drammatica».
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CIl manifesto, 1.marzo 2015
Nel suo ultimo editoriale Eugenio Scalfari ha sollevato un tema d’importanza cruciale: il declino della democrazia partecipata. Ravvisandone la ragione nell’indifferenza dei cittadini. Che la democrazia sia in difficoltà è fuor di dubbio. Ma forse l’indifferenza non è causa, bensì effetto delle trasformazioni cui la democrazia è sottoposta e che hanno derubricato da democrazia partecipante a democrazia respingente. L’Italia non è un caso unico. Le democrazia respingenti ci sono ovunque e in Italia la si è cominciata a fabbricare da un quarto di secolo fa.
Renzi sta solo mettendo il tetto all’edificio di una democrazia che odia i cittadini. L’odio per i cittadini si manifesta anzitutto sul terreno delle politiche. L’austerità è cominciata tre anni fa. Ma le decurtazioni allo Stato sociale sono in atto da tempo, come da parecchio si è aggravata a dismisura la pressione fiscale sui redditi medi e bassi. E sono enormemente peggiorate le condizioni dell’occupazione. Non solo di lavoro ce n’è meno, ma la sua qualità sta declinando da un pezzo, nel pubblico e nel privato. In compenso chi comanda non pensa a dismettere lussi inutili e dannosi, come la Tav e gli F35, né tantomeno si mostra disposto a ridurre gli indecenti privilegi di cui godono i politici e butta solo fumo negli occhi.
La seconda manifestazione di odio per i cittadini sta nel respingerli come tali. Votare non è un gesto naturale. Per molti, specie i giovani, è un atto che va incoraggiato. Sia tramite le performances della politica, che al momento non aprono neanche più alla speranza, sia sottolineandone l’importanza. Sia mediante un’azione costante di coltivazione del civismo un tempo svolta dalla scuola e dai partiti.
L’istruzione ha pure la funzione di socializzare i giovani alla vita collettiva e alla partecipazione politica. Ben conosciamo le condizioni lamentevoli in cui la scuola è ridotta e lo spregio con cui sono trattati gli insegnanti. Quanto ai partiti, il loro soffocamento è stato deliberato. In nome di una democrazia che decide, li si è disattivati, promettendo che a coltivare il civismo avrebbe provveduto la società civile. Solo che la società civile, peraltro ambigua, non compensa l’attività di educazione e incitamento che i partiti di massa svolgevano su vasta scala. Sono rimasti i partiti impropriamente detti personali, che sono circoscritte cosche affaristiche, riservate ai superprofessionisti della politica, che non sanno nemmeno com’è fatto il mondo e che nutrono unicamente ambizioni di potere.
I cittadini non sono sciocchi e osservano tutto questo. Possono magari illudersi, non tutti, ma per un attimo e in realtà sono indignati e arrabbiati. Di quali mezzi tuttavia dispongono per manifestare la loro sofferenza?
Ci hanno perfino provato. Per citare l’esperimento più recente: una quota non irrilevante di elettori ha provato a ribellarsi votando per Beppe Grillo. Ma per scoprire ben presto che il suo incontenibile narcisismo mediatico è solo servito a sterilizzare la loro indignazione, spianando la strada alle brutalità del renzismo. Quando non c’è narcisismo, com’è successo in Grecia, pare stia andando anche peggio. Un popolo intero sta sanguinosamente pagando le dissipazioni di una ristretta casta di politicanti e di potenti. Ma tutta l’Europa congiura affinché la sua ribellione elettorale, che ha cacciato i responsabili, non produca alcun aggiustamento. Dietro la grande narrazione – letteraria, cinematografica, mediatica, giornalistica e spesso anche accademica – del disincanto e dell’indifferenza, cova insomma una ribellione silenziosa, che rischia di avere esiti disastrosi.
Un po’ più di attenzione andrebbe prestata ai dati sull’astensione. Il nostro garbato capo del governo si fa forte del 40% di consensi ottenuti alle europee. Che è però solo il 40% del 60% che ha votato. Ovvero: su 10 elettori hanno votato in 6, tra cui 2 e mezzo hanno dato al Pd il loro consenso. Non è poco per rivendicare un grande consenso popolare? E non c’è per caso il rischio che se un paio di elettori arrabbiati smettesse di astenersi e cedesse alle lusinghe di uno dei tanti leader populisti che ci sono in giro ne scaturisca un esito elettorale che chiuda persino la deprimente bottega della democrazia respingente
LE MANIFESTAZIONI DI ROMA
di Gad Lerner
Salvini porta in piazza il popolo fascio-leghista tra vaffa e croci celtiche “Renzi servo dell’Europa”. A Roma con i militanti “verdi” anche Casapound e Alba Dorata Attacco ai rom. E sui ladri: se mi entri in casa, poi esci steso
Il camaleonte verdenero ce l’ha fatta. Al termine della sua notevole esibizione di maschia oratoria fascioleghista condita di turpiloquio e sottolineata — lo spiega lui stesso — da un “linguaggio del corpo che è importante”, con ricambio mirato di t-shirt pro-benzinaio veneto che ha ucciso il rapinatore a favore di felpa “Marò liberi subito”, piazza del Popolo lo incorona capo di una nuova destra nazionale.
Se non Duce, almeno ducetto. Glielo concede il portavoce di CasaPound, Simone Di Stefano: “Questa è la più bella piazza che io abbia mai visto a Roma. Oggi nasce un grande fronte politico che riconosce in Matteo Salvini il suo unico leader”. Stampato su uno striscione di fronte al palco, Mussolini fa il saluto romano e dice: “Salvini ti aspettavo”.
Lui li ricambia con l’appello a “tirare fuori le palle” rivolto ai “non omologati alla cultura di sinistra”, perché “io non distinguo gli uomini fra destra e sinistra ma fra produttori e parassiti”. E’ qui che lancerà il suo grido: “Vaffanculo alla Fornero e a chi l’ha portata al governo. Cazzo”, suscitando il tripudio della folla, eccitata anche dall’afrore dei fumogeni da stadio e dai crescendo corali di una musica gotica incalzante.
La nuova destra nazionale trova la sua intelaiatura in una Lega calata dal Nord facendo attenzione a non pronunciare mai la parola “Padania”. Archiviata. Qui si forgia “un popolo fiero” (Giorgia Meloni) pronto a difendere l’Italia da un Renzi che — digrigna i denti Salvini — altri non è se non “il servo sciocco di qualcuno che non ha nome e cognome a Bruxelles”. Un popolo pronto a dire “Stop immigrazione”, anzi, “non passa lo straniero”, come mormorava il Piave cento anni fa.
Ho incontrato decine di leghisti che si godevano la primavera romana, mentre nell’attesa i maxischermi trasmettevano un ininterrotto talk-blob con Salvini one man show . Qualcuno, pochi per la verità, aveva già attaccato un tricolore sotto la bandiera con l’Alberto da Giussano. Vi sentite italiani o padani? “Italo-padani”, mi rispondono dalla provincia di Brescia. Fra loro trovo le uniche due camicie verdi, arrivate da Borgo San Giacomo: “Con tanta gente del Sud abbiamo comuni ideali”. Più entusiasta una varesotta che milita da vent’anni col Carroccio: “Che sollievo, sono felice che apriamo ai meridionali, mi piacciono i loro sentimenti”. Anche se il sollievo riguarda soprattutto l’aver ritrovato un leader: “E’ un puro, Salvini. Puoi rivoltarlo come un calzino e non trovi niente a quel ragazzo lì”.
Alla fine registrerò solo un militante di Monza coi capelli rossi disposto a confidare: “Mi spiace ma non sono d’accordo. Salvini va a dare l’appoggio ai pescatori siciliani, ma secondo me quelli lì non hanno mai pagato le tasse”.
Dettagli marginali. La piazza leghista che si riscalda nell’attesa del gran finale, è già inebriata dall’amalgama a cui Salvini la destina: integrare al suo interno una porzione rilevante della destra romana. Li riconosci per le bandiere tricolori o per gli striscioni “Roma con Salvini”, segnali di una forza attrattiva reale esercitata su una Forza Italia in disgregazione. Per lo più sono ex missini, dallo stato d’animo un po’ interdetto: “Sa come diciamo nelle Marche? In mancanza di meglio si va a letto con la moglie. Di Salvini non è che ci piaccia tutto, ma la confluenza è possibile”.
Fermento sul palco, fra poco si comincia. Alt. Alle 15,15 in punto dal colle del Pincio, inquadrati in una coreografia militaresca studiata al millimetro, discende a serpentina la schiera imbandierata di CasaPound con le tre spighe del suo nuovo brand: “Sovranità”. E con le bandiere dell’Unione Europea sovrastate da una X rossa. Ci sono anche attivisti di Alba Dorata. Ora la piazza è ancor più fascioleghista.
si promette l’uscita dall’euro e un’aliquota fiscale ridotta al 15%, “così saranno gli svizzeri a esportare da noi i loro capitali”.
E’ qui che Matteo Salvini rivela le sue doti camaleontiche. Con tutte quelle migliaia di leghisti davanti non poteva certo ripetere che ha sbagliato a parlar male dei napoletani. Non dirà neppure “voglio bene a Roma, amo Venditti, a casa mi capita pure di cantare Roma Capoccia”, come testualmente dichiarato in precedenza, per ammorbidire una capitale finora troppo vilipesa. E allora il nostro camaleonte trascolora usando la formula: “Difendiamo l’Italia, anzi, le Italie, perché l’Italia è bella quando rispetta le differenze da Nord a Sud”. A Roma direbbero: un vero paraculo. Ma siccome agli italiani la faccia tosta non dispiace, e qui tutti lo vogliono a capo di una destra che per tutto il pomeriggio Berlusconi non lo nomina neanche più una volta, la formula “L’Italia, le Italie” gliela fanno passare volentieri.
Il camaleonte è velocissimo nell’adattarsi al progetto della nuova destra nazionalista. Se appena eletto segretario della Lega auspicava la deportazione “in un’isola deserta del Pacifico circondata da squali” di Rutelli, Veltroni e Alemanno — colpevoli di aver cumulato un deficit di 16 miliardi al Campidoglio — sentite come ha risposto a un intervistatore romano nei giorni scorsi: “Non voteremo più contro i fondi per Roma Capitale, purché vengano usati bene”.
Precipita così nell’irrilevanza lo scontro politico veneto fra Zaia e Flavio Tosi. Qui, con la benedizione di Marine Le Pen, si annuncia la prossima cacciata del governo Renzi e l’inizio di un’offensiva continentale contro Bruxelles, figuriamoci se qualcuno si abbassa a trattare di beghe locali. In piazza, i veneti sembrano tutti convinti che alla fine Tosi si adeguerà e rientrerà nei ranghi. Ma il non detto di quella lacerazione è un sintomo: cambiare pelle alla Lega, pur nell’ebbrezza del successo, non sarà faccenda indolore. Perché da quasi tre decenni il Carroccio è composto da un delicato equilibrio di localismi, e quindi il leghismo che diventa partito nazionale snatura un modo di essere leghisti di territorio che è stato anche un patrimonio di militanza, oltre che di clientele. Quando Giuseppe Berta, nel suo ultimo saggio “La via del Nord” (Il Mulino) annuncia la fine della questione settentrionale, perché la società del Nord non è più il motore dello sviluppo del Paese, forse sta spiegandoci anche la scelta di Salvini: “L’offerta politica ormai è uguale a tutte le latitudini”, tanto vale smetterla di fare i padani, meglio occupare l’enorme spazio lasciato vuoto a destra.
Quando lo speaker alla fine grida “Siete in centomila, fatevi sentire!”, l’avrà anche sparata grossa. Ma l’energia sotterranea della destra italiana ieri si è davvero condensata in piazza del Popolo, sviluppando una capacità d’attrazione sui delusi di Forza Italia e del M5S che potrebbe dare esiti sorprendenti. Il ducetto camaleontico Salvini sospinto da una corrente reazionaria fino a Palazzo Chigi? Oggi ci appare assurdo, ma provate a contare quante volte il nostro paese si è già misurato con esiti assurdi. A Roma il fascioleghismo ha celebrato il suo battesimo ufficiale. Sottovalutarne il pericolo equivarrebbe a ignorare la storia d’Italia.
di Corrado Zunino
Sono tanti nelle strade di Roma, gli anti-Salvini. Ventimila almeno, quando la Piazza del Popolo fascio-leghista si mostra per metà vuota e con larghi spazi. La battaglia delle presenze l’hanno vinta gli “anti” (fascisti, leghisti, razzisti). Non sono i trentacinquemila urlati dal camioncino che ritma i passi e dà gli aggiornamenti — «... hanno arrestato una compagna dei senza casa... Nella notte a Napoli dieci fascisti hanno attaccato due dei nostri...» —, ma il fiume di persone la cui testa è alla fine di via Cavour non lascia vedere la sua coda, che ancora curva in piazza dell’Esquilino: ottocento metri di folla lenta e divertita.
«Salvini, hai detto che siamo quattro squadristi: contaci uno a uno, non ci riesci manco se resti qui una settimana». La bella giornata, 18 gradi alle due del pomeriggio, e la buona vittoria in strada — sì che gli antagonisti giocano in casa, la capitale, ma sono stati gli altri, i leghisti nazionali, ad aver fatto le prime convocazioni e allestito treni e pullman — hanno tolto micce e aggressività a una delle sfilate più temute dell’anno. Alla fine, si è risolta nel corteo più pacifico degli ultimi dieci. Non c’è stato un assalto alle vetrine delle banche, dei postamat, non si sono visti cappucci alzati né sgraffittate sui muri. Qualche fumogeno, niente bomboni: «Con i numeri ti abbiamo respinto, Salvini, noi abbiamo memoria della tua storia e ti diciamo: “Roma te schifa”». Era venuti qui con buone intenzioni — pochi caschi allacciati alla cinta, dal primo pomeriggio — e le hanno mantenute.
Ad aprire la marcia il fumettone di Zerocalcare, #Maiconsalvini, ma anche contro tutte le politiche di austerity: «Sono il problema del paese e dell’Europa, non gli immigrati ». Renzi non piace di là, sul palco del Popolo, né di qua. Ma qua l’urgenza è dare una risposta antifascista immediata: i vecchi e meno vecchi dell’Anpi, che sullo striscione portano una foto seppiata di ragazzi partigiani con le munizioni a tracolla e la Piramide alle spalle, ballano al ritmo dei percussionisti de “la murga”.
Tre canotti grigi, servono per respingere il leader leghista, vengono issati e portati da piazza Vittorio fino a Sant’Andrea della Valle, tre chilometri lontano. Una ragazza recupera il dark di Siouxsie and the Banshees, nel gruppo si canta: “Qui non si sgombera, Roma si barrica”. La rappresentanza di Sel, lo striscione di Rifondazione, sì, c’è ancora. La Banda Bassotti che vuole il Donbass, in Ucraina, libero dai nazisti.
Si teme, in avvio, davanti ai magazzini allo Statuto chiusi, che i conti non tornino, che i pochi, frustrati, possano diventare aggressivi, ma all’altezza della Basilica di Santa Maria Maggiore il corteo è già raddoppiato e svelenito. Ancora una brutta notizia — in cinque, a Termini, hanno picchiato uno dei nostri —, ma la sostanza è quella di un sabato senza violenza, dopo un venerdì di assalti in Piazza del Popolo e scontri con la polizia in Piazzale Flaminio. La mattina sono stati segnalati alcuni cassonetti bruciati sulla Tiburtina e sulla Nomentana, all’altezza del raccordo, ma ora il corteo sfila davanti a bar, gelaterie, ristoranti, minimarket, librerie aperte. Su due ruote quelli di “Biciclissima”.
Lungo i Fori imperiali vanno al microfono le star del reggaeton italiano: musica dal vivo, camminante. Poi gli Assalti frontali: “Roma meticcia”. Piazza Venezia, quindi davanti alle vecchie Botteghe Oscure e Largo Argentina: «Siamo troppi per entrare in Campo de’ Fiori». Allora retromarcia, con la coda che diventa testa e i troppi in corteo che adesso si mischiano con quelli delle domeniche pedonali. Al tramonto, le diciotto e trenta, il corteo dei movimenti romani si scioglie davanti al Colosseo, ecco i primi petardi. Un gruppo prosegue fino a San Lorenzo: «Non vogliamo andar via da soli». Il leone di San Marco è ancora incappucciato. A fianco, la scritta: “Odio la Lega”.
Il manifesto, 28 febbraio 2015
Le cose non sono affatto facili per Alexis Tsipras, promotore di un piano anti-austerity che mette in dubbio le fondamenta dell’Europa neoliberale. Il fatto che il negoziato all’Eurogruppo si sia concluso con l’approvazione dell’elenco delle riforme non vuol dire che la tensione ad Atene sia calata. Anzi, dopo l’ottimismo dei primi giorni il clima si fa pesante e tra oggi e domani si aspetta un dibattito acceso alla riunione del comitato centrale di Syriza.
Il premier deve fare i conti non solo con i problemi di liquidità già presenti nelle finanze dello stato, i ricatti dei partner europei e le critiche da parte dei conservatori, socialisti, comunisti del Kke compresi, ma deve confrontarsi con il suo alter-ego: le sue promesse durante la campagna elettorale, i suoi compagni all’ interno del Syriza secondo i quali l’ austerity avrebbe dovuto finire il giorno dopo le elezioni.
L’aveva promesso pure Tsipras un anno fa. Voci che si moltiplicano giorno dopo giorno per esprimere il loro dissenso all’accordo di Bruxelles, nonostante il governo continui a raccogliere il sostegno della stragrande maggioranza dei greci (oltre l’ 80%).
Alexis Tsipras per evitare che il suo esecutivo sia una «parentesi di sinistra», come vorrebbero i suoi avversari a Bruxelles e ad Atene, e per guadagnare tempo ha preferito la svolta. Che sia una «retromarcia di destra» oppure solo realismo ha poca importanza per un semplice motivo. L’ alternativa sarebbe uno scontro frontale ancora più duro tra il neo governo e i creditori internazionali, la chiusura dei rubinetti dalla Bce, il default, ovvero il tracollo finanziario, l’ uscita obbligata del Paese dalla zona euro.
Una situazione che sempre ha provocato un dibattito acceso in Syriza come alternativa per sganciarsi dalla taneglia del debito pubblico e dai creditori, ma che oggi esprime una minoranza. Il programma della sinistra radicale greca è chiaro: combattere per un cambiamento all’ interno dell’ eurozona.
Alexis Tsipras ha ottenuto un difficile equilibrio tra le richieste dei creditori internazionali e il suo piano anti-austerity; tra la necessità di retrocedere momentaneamente, accettando parte del programma precedente e il bisogno di affrontare la crisi umanitaria, riavviare l’economia e promuovere la giustizia fiscale, riconquistare l’occupazione, trasformare il sistema politico per rafforzare la democrazia.
Ora facendo un resoconto all’ interno della sinistra radicale, dopo l’ accordo di Bruxelles, questo equilibrio non piace. Non piace - si sapeva a priori - al potente Aristero Revma (Corrente di sinistra) o Aristeri Platforma (Piattaforma di sinistra) che ha caraterizzato il piano approvato dall’Eurogruppo «un accordo indovinello». Non piace all’eurodeputato del Syriza, Manolis Glezos, figura emblematica e simbolo della resistenza greca contro l’ occupazione nazista. Le parole di Glezos sono state paragonate con una bomba alle fondamenta del neo governo Syriza-Anel, un attacco personale contro Alexis Tsipras. «L’accordo all’ Eurogruppo é una vergogna» ha scritto il 91enne Glezos al suo blog. E poi ha chiesto «scusa al popolo greco».
La riunione del gruppo parlamentare di Syriza di giovedì è durata dieci ore. Una maratone durante la quale il premier ha chiesto ai parlamentari di esprimersi apertamente sul contenuto dell’ accordo e di votare per alzata di mano. «Il risultato dell’accordo dipenderà e sarà giudicato dal modo in cui lavoreremo come governo» ha detto Tsipras.
Niente da fare. Le anime non si calmano, i dissaccordi rimangono, i dissidenti insistono. Il ministro della Ricostruzione e dell’ Ambiente, Panagiotis Lafazanis e la presidente della Camera, Zoe Konstantopoulou, ambedue esponenti della «Corrente di sinistra» hanno detto che l’accordo è, in sostanza, un’estensione del pre-esistente memorandum (stessa critica è stata mossa anche da Nea Dimokratia). Contrari anche ex socialisti, come il professore del Diritto di lavoro, Alexis Mitropoulos, esponente di spicco di Syriza. Alla fine la votazione: 20 (secondo altri più di 30) deputati sui 149 avrebbero votato contro o scheda bianca all’ accordo di Bruxelles, mentre un numero maggiore sarebbe contrario a presentare tale proposta in parlamento per la ratifica come invece chiede da giorni l’opposizione. E la domanda che ci si pone è «come un ministro (Lafazanis) contrario all’accordo di Bruxelles applicherà il suo contenuto?».
Come se non bastasse tutto questo, giovedì in un documento reso pubblico il professore di economia, Yannis Milios, responsabile tuttora della politica economica del Syriza, e altri due dirigenti del partito, criticano aspramente l’operato del ministro delle finanze Yanis Varoufakis. Lo scontro ideologico tra un dirigente considerato marxista e il ministro dichiaratamente marxista, ma di tendenza keynsiana, è evidente. L’accordo di Bruxelles si riferisce ai «controlli da parte dei creditori internazionali, e non ad uno scambio di valutazioni sull’ andamento dell’economia greca… accetta gli aiuti economici del precedente accordo, non fa riferimento alla ristrutturazione del debito pubblico, ma parla di un programma di sostenibilità… non garantisce la liquidità delle finanze» e tutto sommato «poco ricorda ciò che Syriza prometeva prima del voto del 25 gennaio».
Le trattative da parte del governo greco erano «un salto a occhi chiusi», «non c’era un piano ben preciso”, l’accordo «offre tempo ad Atene, ma la scena è soffocante» conclude Milios.
Mancanza di esperienza di governo da parte della sinistra greca? Atteggiamento suicida, lotta continua oppure spirito autocritico affinché si vada avanti? Il realismo politico del premier greco, espresso dopo l’estate scorsa e la trasformazione rapida della sinistra radicale in una forza governativa che deve gestire la realtà, in fondo non è mai piaciuto a quelle correnti, comuniste e non, in seno al partito, che preferirebbero Syriza al 4%, ma «pura e rivoluzionaria».
Non a caso nessuno tra quelli che criticano l’ operato di Tsipras e di Varoufakis dicono cosa avrebbero fatto se fossero presenti loro alle trattative con i «18» dell’eurozona.
Lo scontro sarebbe ancora più forte, la rottura con i partner europei immediata, il ritorno alla dracma sembrerebbe quasi l’unica alternativa per un Paese che continua a produrre poco. Uno scenario che ancora non viene escluso del tutto.
«Sbilanciamoci.info, 28 febbraio 2015
Per i classici, la tirannia era il solo vero rischio anti-democratico, nella forma individuale o di piccoli gruppi (di oligarchi). La licenza e l’ingordigia per il potere erano le passioni a rischio di sovvertire l’ordine, spesso con il sostegno del più poveri, mesmerizzati dai demagoghi. Lo scenario che ci possiamo attendere oggi è diverso: non masse anarchiche e in ebollizione, non guerrieri e oligarchi di ceto; ma masse di individui isolati negli stati-nazione e oligarchi della finanza nei villaggi globali. Una società divisa tra subalterni dentro i confini statali e plutocrati dentro i confini del loro potere globale.
Alla base, una convergenza di tutti i poteri che originariamente operavano separatamente, secondo il modello liberale classico: il potere economico, quello religioso e quello politico. Sheldon Wolin ha chiamato questa nuova società un “totalitarismo invertito”, nel quale pubblico e privato diventano simbiotici e perdono la loro specifica distintività. “Invertito” non significa che una sfera prende il posto dell’altra (come col patrimonialismo). Significa che l’una e l’altra sono in un rapporto di integrazione totale (come la scuola statale e quella privata parificata che sono dette appartenere a un sistema pubblico integrato). Convergono e danno luogo a qualche cosa di nuovo, una incorporazione di forme che erano separate. E questo spiega il lamento per il declino dei corpi intermedi: una società totalizzante.
Mentre alle origini della modernità, l’economia di mercato aveva promosso decentralizzazione e frantumato i monopoli (Adam Smith) stimolando la libertà economica e indirettamente l’espansione dei diritti, civili e politici, nella nostra società assistiamo a un processo molto diverso. Qui, imprenditori e capitalisti finanziari alimentano il loro potere nella misura in cui cancellano la decentralizzazione e creano una società organica e incorporata, sia a livello nazionale che internazionale.
Si tratta di un ritorno al monopolio, non più nella forma di un bisogno tirannico di accumulo, come nel passato, ma nella forma organizzata da norme e abiti comportamentali che generano una classe di ricchi globali; una società a sé stante di persone che stilano tra loro contratti matrimoniali, che non hanno nazione e vivono nelle stesse città e negli stessi grattacieli. Che si monitorano a vicenda, cercando di captare i mutamenti di fortuna. E creano istituzioni internazionali loro proprie con le quali determinare la vita degli stati, ovvero della classe dei senza-potere, che vivono dentro gli stati e se varcano i confini lo fanno per emigrare andando a rioccupare la stessa classe nel nuovo paese; una classe di milioni di disaggregati, illusi di essere liberi perché parte di social network.
Questa lettura mostra la traiettoria della modernità dall’individualismo all’olismo, da una società che riposava sul conflitto tra eroi individuali o di casato, e poi tra le classi organizzate in partiti, a una società che è un vero corpo omogeneo e unitario, sia negli strati bassi che in quelli alti. E se e quando i conflitti esplodono, si tratta di eventi periferici (alcune fasce di precariato, questa o quella regione contro il centro, ecc.) che non cambiano il carattere dell’ordine globale e non ne incrinano l’organicità.
A provarlo basta pensare a questo: molte delle strategie sviluppate nella società moderna per rendere possibile la resistenza individuale a questa logica olistica stanno producendo l’effetto opposto. Per esempio, i partiti di sinistra del ventesimo secolo avevano lo scopo di rivendicare i diritti dei molti contro l’abuso del potere dei pochi potenti; e usavano la sola arma che i deboli hanno da sempre: l’alleanza, l’unione, l’integrazione delle forze sparse. In questo modo riuscivano a resistere all’oligarchia industriale.
Ma il risultato, che sta sotto i nostri occhi, è molto diverso dalle aspettative o dalle intenzioni originarie: i partiti che si nominano di sinistra operano contro i diritti sociali e la dignità politica delle moltitudini mentre svolgono il ruolo di convincere i senza-potere che quel che occorre fare è assecondare la logica del sistema, quindi lavorare nel rischio e senza diritti e procurarsi una formazione funzionale alla loro oggettiva precarietà. La favola del merito è il nucleo di questa ideologia della subalternità.
La convergenza delle forze nel campo sociale e in quello economico ha vinto sulle resistenze e come esito abbiamo una massa di senza-potere senza organizzazioni di resistenza. A questo punto resta ai deboli il populismo, che ripropone il vecchio mito collettivo del vox populi vox dei, salvo usarlo, come facevano gli antichi demagoghi, per attuare un cambio di leadership che non cambia la condizione dei molti. È ipocrita gridare allo scandalo contro il populismo, che non è il fenomeno scatenante ma il sintomo, retto sull’illusione data ai senza-potere di mutare la loro sorte.
Il manifesto, 27 febbraio 2015
La Liga è sempre una sicurezza: prima le guerre intestine, poi il Veneto. E paradossalmente si capirà domani a Roma l’esito del braccio di ferro fra il governatore Luca Zaia e il sussidiario sindaco di Verona Flavio Tosi. In 48 ore Matteo Salvini si gioca la faccia nella capitale e la leadership nel gran consiglio, che dovrà mettere fine alla «guerra del Nord Est».
Si vota a maggio per le Regionali, ma le grandi manovre nel centrodestra partono dall’implosione di Forza Italia orfana di Giancarlo Galan (ai domiciliari per lo scandalo Mose). Se davvero esplodesse anche la Lega, si riaprirebbe lo scenario politico dopo un ventennio. Ci conta Alessandra Moretti che già batte a tappeto ogni angolo del Veneto: il Pd di Renzi ha l’ambizione di replicare il modello Serracchiani, tanto da imbarcare perfino gli «autonomisti» di Franco Rocchetta.
Ma la vera partita si sta giocando a Venezia. Il 15 marzo sono fissate le Primarie del centrosinistra: in lizza per la candidatura a sindaco l’ex pm e senatore «dissidente» Felice Casson, il giornalista Nicola Pellicani e l’ultrà renziano Jacopo Molina. Sull’altro fronte, invece, domani mattina all’hotel Russott di Mestre rompe gli indugi Francesca Zaccariotto: «Il nostro domani inizia oggi» è lo slogan su sfondo arancio e grigio dell’ex presidente (ed ex leghista) della Provincia.
È la maratona elettorale che mette in palio la poltrona di Ca’ Farsetti con l’ingombrante eredità di Giorgio Orsoni (a processo sempre causa Mose, uno spettro che si allunga sull’intero vertice Pd di fe
de bersaniana). Intanto il Carnevale ha regalato il corteo in Canal Grande di maschere, barche allegoriche e vele spiegate contro le lobby che cannibalizzano la laguna. Il Comitato No Grandi Navi non molla, anzi. E alla presentazione di «Se Venezia muore» di Salvatore Settis si è registrato un significativo «pienone».
La città-cartolina da sogno sembra inghiottita dal buco nero di affari & politica. Il Mose — la grande opera della Repubblica per antonomasia, con 5,5 miliardi di euro solo di lavori pubblici – è scivolato ai margini del circo mediatico. Come se l’architettura della «fatturazione parallela» (messa a punto fra la sede del Consorzio Venezia Nuova a Castello 2737/f e la succursale di Piazza San Lorenzo in Lucina 26) non fosse stata clonata altrove.
Venezia come nel 1630, all’epoca della peste nera: è certificato dalla Procura alle prese con un «sistema» che spazia dalle autostrade ai nuovi ospedali, dalle bonifiche all’urbanistica.
Intanto, il Comune sopravvive nell’interregno dell’ordinaria amministrazione. Il commissario straordinario Vittorio Zappalorto consegnerà un bilancio pesante, nonostante la mannaia da 47 milioni abbattutasi su servizi sociali e buste paga dei dipendenti. Gli affari, però, non si fermano. C’era una volta il nuovo palazzo del cinema: vero e proprio buco al Lido, costato 40 milioni. E Zappalorto ha messo in vendita Villa Hèriot alla Giudecca (10 milioni), con annessa «opportunità» di trasformarla in albergo.
In attesa del voto, ogni lobby lavora a pieno regime. Lo testimonia in modo inequivocabile la relazione della Guardia di Finanza che riproduce la «mobilitazione» in vista dello scavo del canale Contorta. È la mini-Grande opera indispensabile a dirottare le gigantesche navi da crociera. A marzo 2014, Piergiorgio Baita (ex presidente Mantovani Spa, appena scarcerato) insieme ad Attilio Adami (presidente di Protecno Srl di Noventa Padovana) si «attiva» con Mazzacurati del Cvn affinché Paolo Costa (presidente dell’Autorità portuale) assegni il cantiere alle imprese del «giro Mose». Intercettazioni agli atti.
In terraferma, invece, si vola. Nel quadrante Tessera si profila la seconda pista dell’aeroporto caldeggiata dal presidente di Save Enrico Marchi, ma il masterplan rulla su ben altre rotte. Contempla un tunnel per il Tav e addirittura la metropolitana sublagunare; contabilizza oltre 3 milioni di metri cubi di cemento nelle stesse aree «salvate» dal piano comunale; fa scattare l’«imbonimento» delle barene per interesse pubblico. Infine, si ricicla l’Expo con il padiglione Antares a ridosso del Parco Vega. Michele De Lucchi, l’architetto del «padiglione zero» di Milano, replica in laguna la struttura polifunzionale realizzata da Condotte Immobiliare. Una «rigenerazione» a Marghera che vale 30 milioni. Ma si conta sull’arrivo di 156 milioni che il governo deve aggiungere in tre anni per la «nuova fiera del Nord Est». A gestirla fino al 2027 sarà Expo Venice, Spa a cavallo fra istituzioni, categorie economiche e privati.
Dal Mose all’Expo, dunque: Venezia doget?
el gregge al lupo. Ma sapere che Franco Bassanini , Giuliano Amato e Maurizio Lupi insegneranno agli "alti studenti" radunati a Firenze il buongoverno ci sembra davvero il massimo. La città invisibile, rivista online, 27 febbraio 2015
Sembra piuttosto un promo della novella di Ser Ciappelletto nel “Meraviglioso Boccaccio” dei fratelli Taviani in uscita sugli schermi proprio nello stesso periodo: chi chiamare a illustrare la “santità” dei comportamenti che asservono il ruolo degli enti pubblici agli interessi corporativi di aziende, cooperative, gruppi di interesse economico e/o politico-ideologico-religioso, se non coloro che più attivamente si sono adoperati a praticarli nel passato più o meno recente? Lascio ad altri di articolare la dimostrazione dell’assunto nei campi dell’economia, delle banche, dell’energia (e ognuno credo possa ben capire a quali nomi faccia riferimento) e mi limito al campo di mia competenza: il ruolo degli enti locali territoriali nella gestione del territorio e delle opere pubbliche.
Lodovico Meneghetti – che è stato a lungo docente di urbanistica al Politecnico di Milano, ma anche assessore comunale a Novara dove a metà degli anni Sessanta fece approvare uno storico PRG con aree edificabili quasi interamente in piani di iniziativa pubblica – in un recente intervento su eddyburg ricorda come fu proprio Bassanini nel 2001, come ministro delle riforme amministrative nel Governo Amato (due “alti formatori” in un sol colpo!) a far approvare il decreto delegato (si usava anche allora, anche se un po’ più pudicamente di oggi) con cui si eliminò l’obbligo di versare gli oneri di urbanizzazione in un conto vincolato alla realizzazione di spazi ed opere pubbliche di urbanizzazione, istituito dalla legge n. 10/77, nota come “Bucalossi”, dal nome del ministro dei lavori pubblici dell’epoca e già Sindaco di Milano col PRI.
Su questo terreno si è costruita anche la carriera politica di Maurizio Lupi, ancor oggi dirigente di Fiera di Milano Esposizioni in aspettativa per mandato politico, dove era approdato all’epoca dell’incontrastata egemonia ciellina sui vari rami dell’Ente Fiera durante tutta la lunghissima presidenza di Roberto Formigoni alla Regione Lombardia. Questa veste lo ha reso particolarmente indicato a ricoprire il ruolo di assessore all’urbanistica del Comune di Milano nella Giunta Albertini, in modo da poter tutelare particolarmente gli interessi immobiliari di Fondazione Fiera (ente di cui formalmente non faceva parte e pur nell’ambito di una più generale favorevole disposizione d’animo verso l’immobilarismo milanese) promuovendone la migrazione verso il polo esterno di Rho-Pero e aprendo la strada al riuso immobiliare della vecchia sede, concluso dal suo successore ciellino Masseroli durante la Giunta Moratti con la concessione di un milione di metri cubi, metà in tre torri di oltre 200 metri di altezza che in inverno oscureranno le case vicine per l’intera giornata e metà in lussuosi condomini ammassati al loro piede. L’operazione fruttò a Fondazione Fiera il doppio del prezzo corrente atteso (523 milioni di euro anziché 250), ma costringendo il Comune a monetizzare più della metà degli spazi pubblici mancanti al prezzo convenzionale di 300€/mq, invece che al prezzo di mercato di 2.000 €/mq ottenuto da Fondazione Fiera. Con quel surplus Fondazione Fiera cominciò ad acquistare a prezzo agricolo le aree contigue al nuovo polo di Rho-Pero, su cui oggi sta per avere inizio l’evento EXPO 2015 e di cui si discute la valorizzazione immobiliare successiva.
Finito di esercitarsi in queste vicende milanesi, dal 2001 Lupi si trasferisce al Parlamento come deputato di FI dove intesse una sino ad allora inedita convergenza bi-partisan col deputato milanese della Margherita, e poi PD, Pierluigi Mantini per proporre un disegno di legge urbanistica ispirato al principio della “consensualità” degli atti amministrativi tra enti pubblici e proprietà fondiario-immobiliare (e da loro connotato come “passaggio dall’urbanistica all’economistica”), desunto dalle istruttive esperienze amministrative e legislative in materia urbanistica milanese e lombarda. Dal 2013, prima con Letta per il PdL e poi con Renzi per NCD, è Ministro delle Infrastrutture e Trasporti distinguendosi non solo per i rapporti cordiali e servizievoli con i concessionari di opere statali, ma anche per essere tornato a proporre un gruppo di studio sull’urbanistica “consensuale” con le proprietà fondiario-immobiliari.
Anche in questo caso, di fronte a tanta capacità di adattamento della subordinazione del ruolo pubblico agli interessi privati, non si può che apprezzare l’opportunità della scelta di Eunomia di chiamarlo a diffondere ad altri la sua esperienza, augurando al Sindaco di Firenze Nardella, nonostante la sua più breve carriera, di saper stare al pari di tanto esperto!
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«La dialettica tra locale e nazionale assume contorni virtuosi, se si incarna in candidature legate a movimenti di resistenza dispiegati sui territori, e unificate da un disegno complessivo di cambiamento politico». Il manifesto, 27 febbraio 2015
La sfida portata dal renzismo è a tutto campo, e a poco serve la denuncia, è più che mai urgente la ridefinizione del campo dell’alternativa. Magari cominciando, in prossimità di un’importante tornata di elezioni amministrative, proprio dal livello locale. Il potere esercitato dal partito unico delle classi dirigenti, e dai suoi cacicchi, sugli enti locali è infatti uno dei puntelli principali del nuovo assetto del potere centrale. Da lì si esercita l’arte del bastone e della carota. Il potere esercitato dal partito unico delle classi dirigenti, e dai suoi cacicchi è uno dei puntelli del nuovo assetto del potere centrale.
Da lì si esercita l’arte del bastone e della carota. Il bastone delle privatizzazioni, degli appalti anti-economici, della precarietà e delle sue forme estreme, che Antonio Bevere di recente riformulava come nuove schiavitù (il “lavoro gratis”). E la carota del clientelismo, della “consulenza” maxi e mini come scorciatoia alla ri-creazione di un blocco sociale in via di progressivo sfarinamento. Anche approfittando del battage pubblicitario delle “archistar” amiche, chiamate a dar lustro al regime tramite opere di dubbio impatto sociale.
E sì che la storia del movimento operaio del nostro Paese sarebbe in tal senso ricca di fermenti da riproporre, aggiornati alla nuova stagione di lotte. Non solo di “buona amministrazione” si sta qui parlando. Anche di questo, certo: l’orgoglio che anche i subalterni potessero dar prova di sapienza amministrativa, apprendendo a farsi classe dirigente attraverso la palestra del “comune democratico”, costituì una potente leva per il municipalismo socialista e poi comunista. Ed un profondo rinnovamento del personale amministrativo si rende necessario ancor oggi, a fronte del più sfrenato trasformismo e dell’infeudamento dei gruppi dirigenti locali al partito-dello-Stato e agli interessi delle élite economico-finanziarie che lo sostengono.
Se poi dal Comune di passa alla Regione, il giudizio sugli indirizzi perseguiti nell’attuale stagione varia di poco. Sempre è stata viva, a sinistra, la preoccupazione che l’istituto regionale si configurasse come una sommatoria di burocrazie meramente sovrapposte a quelle dello Stato centrale. Per ovviare a questi rischi, la battaglia regionale fu da subito legata da un lato a quella per la pianificazione economica e territoriale — fu in questo senso il Pli di Malagodi il più aspro e conseguente avversario del varo delle regioni; dall’altro ad una esigenza di maggiore partecipazione popolare — è significativo che alle regioni si arrivi al culmine del “secondo biennio rosso” (1968–1969). Il rovesciamento a cui oggi assistiamo in questi campi è totale: i consigli regionali ridotti a casse di compensazione per un ceto politico ipertrofico e desideroso di banchettare sulle spoglie dello Stato; deregulation economica ed urbanistica promossa in concerto tanto dallo Stato centrale quanto dalle amministrazioni periferiche; leggi elettorali regionali che in molti casi mortificano la libera espressione della volontà elettorale, ben oltre i limiti già scandalosi del modello nazionale su cui vengono ricalcate.
Non basta tuttavia ispirarsi alla lettera della lezione della storia per invertire le attuali tendenze regressive; né denunciare moralisticamente lo stato di cose esistente. E’ la stessa riflessione critica sul passato del nostro movimento operaio a consegnarci una duplice eredità, da tener di conto ora più che mai. Gli avanzamenti del potere popolare a livello locale, infatti, sempre sono stati in connessione con lo sviluppo delle grandi mobilitazioni sociali, e con l’emergere di gruppi dirigenti nuovi in simbiosi con le aspirazioni emerse dal conflitto. E sempre si sono rilevati assai fragili, in assenza di una strategia nazionale al cui interno potessero essere inquadrati.
Ancor oggi, i rischi dell’irrilevanza politica e del rifugio nel localismo procedono di pari passo. La dialettica tra il momento locale e quello nazionale nella sfida politica di alternativa può assumere però contorni virtuosi, a patto che si incarni in una serie di candidature legate a movimenti di resistenza concretamente dispiegati sui territori, ed allo stesso tempo unificate da un disegno complessivo di cambiamento politico.
La Repubblica 27 febbraio 2015
Lo schiaffo è fragoroso, visto che metà dei parlamentari del Pd diserterà oggi la riunione convocata da Matteo Renzi nella sede del Pd. Uno strappo clamoroso, il primo passo di un’escalation studiata a tavolino e condotta da Pierluigi Bersani. «Il metodo Mattarella - è la cruda fotografia di Alfredo D’Attorre - si è chiuso rapidamente». La guerra nel Pd, insomma, è sempre meno fredda. E lo ammette anche il leader: «Sono stupito - attacca - Nessuno vuole ricominciare con i caminetti ristretti vecchia maniera: noi siamo per il confronto, sempre. Non sprechiamo neanche un minuto in polemiche sterili e ingiustificate persino sugli orari e sulle modalità di convocazione di incontri informali. Il nostro popolo, quello che ci ha dato il 41% dopo tante sconfitte, non le merita».
L’origine del duello, a dire il vero, va rintracciata nella scelta di Palazzo Chigi di ignorare il parere delle commissioni competenti sul Jobs act. Per dirla con Bersani, «così si pone fuori dall’ordinamento costituzionale». A poco serve che Renzi si sgoli: «Tutte le principali decisioni di questi 15 mesi sono state discusse e votate negli organismi di partito». La competizione tra i cattorenziani e i renziani ortodossi, infatti, ha ridato vigore alle minoranze, spingendole a muoversi compattamente per disertare l’appuntamento di oggi.
A Montecitorio il clima è pessimo. I renziani provano a convincere i “dubbiosi del venerdì”. Fermano i peones, ricordano che è sconveniente saltare l’incontro con il segretario. Gridano pure alla struttura parallela dei bersaniani, denunciano il partito nel partito. Anche a palazzo Madama va in onda lo stesso film, con venti senatori della minoranza pronti a lamentarsi con il capogruppo Zanda dell’atteggiamento del segretario.
L’elenco di chi oggi volterà le spalle al premier, comunque, è lunghissimo. Molti dei Giovani turchi, in allarme per le grandi manovre in area renziana. E tantissimi deputati di peso, da Nico Stumpo a Pippo Civati, Rosy Bindi, Stefano Fassina e Gianni Cuperlo. «Sono in Sardegna - dice quest’ultimo - ma non ci sarei andato comunque».
Stessa linea di Ileana Argentin: «Sinistra Dem non va alla riunione. Sa perché? Non è che tu vieni un’ora, parli e noi applaudiamo. Un’assemblea è una cosa diversa». Ci sarà invece Francesco Boccia, ma solo per picchiare duro sul premier. «Invece di sabotare - reagisce il vicesegretario Lorenzo Guerini - colgano l'occasione per confrontarsi». Eppure, a sentire Massimo D’Alema la sensazione è che i rapporti interni possano addirittura peggiorare. «C'è una discussione vivace. E io spero che si faccia ancora più vivace»
Assemblea alla Fiat con il leader Fiom e Libera. Prima tappa della coalizione sociale. Il segretario delle tute blu: "Oltre i cancelli per una nuova politica dei diritti e del lavoro. Contro il modello Marchionne-Renzi"». Il manifesto, 26 febbraio 2015
Non la costruzione di un nuovo partito ma di una politica dei diritti e del lavoro all’interno di una coalizione sociale: Maurizio Landini ieri a Pomigliano d’Arco ha messo in fila i fatti che hanno spinto la Fiom a cercare fuori dalle fabbriche, anche oltre gli strumenti della contrattazione, sostegno e armi per contrastare il disegno che unisce il governo Renzi e Sergio Marchionne, Confindustria e la Bce.
Si comincia dall’hinterland partenopeo, dove ha sede lo stabilimento Fiat Chrysler, perché è da qui che nel 2010 è partito il modello Marchionne: rinuncia alle pause, ritmi di lavoro serratissimi, azzeramento del conflitto sindacale fino all’esclusione delle organizzazioni dissenzienti, metà della forza lavoro in cassa integrazione, fuga dal contratto nazionale collettivo in cambio della promessa del rientro di tutti i lavoratori sulle linee entro il 2013. A oggi 2mila sono ancora fuori e solo metà di questi mette piede in fabbrica saltuariamente grazie al contratto di solidarietà, nessuna nuova vettura da affiancare alla Panda.
Modelli differenti di lavoro: la Fiat tiene più tempo sulle linee un gruppo ristretto di operai, spremuti con turni extra anche grazie al governo che detassa gli straordinari; alla Ducati acquistata dalla Volkswagen gli operai hanno contrattato una riduzione da 40 ore settimanali a 30 in cambio di due turni in più, l’accordo ha prodotto cento assunzioni mentre da Melfi gli operai Fiat scappano perché non reggono alla catena di montaggio — spiega Landini -. In Fca ogni quattro o cinque operai c’è un team leader che li segue, l’operaio è solo di fronte a chi rappresenta l’azienda. Questo modello di fabbrica è quello che il governo vuole replicare nella società azzerando i corpi intermedi. C’è stato un gran trambusto su quella che ho definito “coalizione sociale” perché fa paura, non vogliono che riuniamo ciò che hanno diviso».
Renzi aveva liquidato Landini con un secco ha perso nel sindacato, si dà alla politica» dopo l’intervista del leader Fiom al Fatto quotidiano, mentre la leader Cgil, Susanna Camusso, ieri ha ripetuto: Con Landini non c’è alcuna polemica. La Cgil ha un progetto di tipo sindacale, non è nostra intenzione organizzare formazioni politiche o coalizioni sociali o altre modalità». Se l’esecutivo approva a colpi di maggioranza le ricette prescritte all’Italia nel 2011 dalla Bce (liberalizzazione dei servizi, abolizione provincie, tagli a enti locali e pensioni, licenziamenti facili, pareggio di bilancio) ricette che hanno prodotto 25milioni di disoccupati in Europa, c’è proprio bisogno di fare politica» spiega il leader Fiom.
Da Pomigliano parte la campagna per la creazione di un fondo in cui i lavoratori possono devolvere la maggiorazione dello straordinario a favore dei colleghi in difficoltà economica, a gestirlo Libera e don Peppino Gambardella, il parroco che con la Caritas sostiene già le famiglie in difficoltà. È la prima iniziativa messa in campo dopo lo sciopero del 14 febbraio contro i tre sabato di straordinario (la Fiom chiedeva un turno in più per far rientrare più operai a lavoro) a cui avevano aderito solo in cinque. Il Comitato cassintegrati e licenziati Fiat, con Mimmo Mignano, dà il proprio sostegno alla lotta della Fiom ma Landini sbaglia a levare dal tavolo l’arma dello sciopero. E’ un diritto anche quando lo esercitano in cinque, non dobbiamo farcelo togliere. Dobbiamo lottare per diventare maggioranza».
Contestata invece dal comitato la Cgil, rappresenta dal segretario regionale Franco Tavella, intervenuto per rilanciare la mobilitazione contro la vendita di Alsaldo a Hitachi e la fuga di Finmeccanica dalla Campania. In sala anche i lavoratori Alenia della sede di Napoli, in via di dismissione.
Il governo smantella lo Statuto dei lavoratori, con il Job Act mette soldi in tasca agli imprenditori lasciandoli liberi di licenziare, non dà il reddito di cittadinanza ma anzi tagli gli ammortizzatori sociali, non blocca la catena di appalti e subappalti che fa proliferare gli affari dei clan, allora va bene tornare in piazza ma bisogna anche trovare nuove forme di protesta — argomenta Landini — a partire dai territori. Dobbiamo scrivere un nuovo Statuto dei lavoratori e ricorrere al referendum per abrogare le leggi sbagliate». Non è più una questione che riguarda le fabbriche ma tutti quelli che si oppongono alle politiche di Renzi, che vogliono tutelare i propri diritti e non si sentono rappresentati in parlamento. Bisogna spezzare il ricatto continuo a cui siamo sottoposti con il paravento della crisi – conclude -, far emergere proposte su salute, lavoro, sviluppo ognuno con il proprio ruolo. Ci sono tanti “fenomeni” politici nuovi, come il superpolitico di Firenze, oppure Grillo, o altri. Io resto a fare il sindacalista».
Ma perché l’operazione si possa concludere ovviamente sono necessari alcuni passaggi. La Rai dovrebbe accettare: oggi il cda comincerà a affrontare la questione (per ora si fa sapere che si tratta di un’opa «non amichevole»). Qui si inserisce anche la vicenda — improvvisamente diventata per il governo urgentissima — della riforma della governance della tv pubblica annunciata da Renzi, che appunto non ha escluso un decreto (ma il Quirinale avrebbe consigliato prudenza). Nel cda di viale Mazzini siedono anche berlusconiani di stretta osservanza come Antonio Verro, quello che tra l’altro avrebbe inviato al Cavaliere un fax sui programmi sgraditi da addomesticare, e Antonio Pilati, noto come l’ispiratore della legge Gasparri.
Al momento, il governo si limita a ricordare l’esistenza del decreto della presidenza del consiglio sull’opportunità di mantenere pubblico almeno il 51% delle torrri di trasmissione Rai. A borse chiuse (in una giornata che vede RaiWay balzare del 9,4% a 4,05 euro verso i 4,5 al quale viene valorizzata nell’offerta, con un +52% dal prezzo della quotazione, e Ei Towers chiude a +5,2%), il governo sforna la nota. Nella quale comunque si sottolinea che «l’offerta pubblica per Rai Way conferma l’apprezzamento da parte del mercato della scelta compiuta a suo tempo di valorizzare la società facendola uscire dall’immobilismo nel quale era confinata. La quotazione in Borsa si è rivelata un successo», insomma.
Prima della nota serale con la quale il governo prova a calmare un po’ le acque di fronte alle proteste, il Pd renziano era stato a dir poco abbottonato, a parte Michele Anzaldi, della vigilanza Rai, che anche lui ricordava: «La quotazione in borsa è stata vincolata alla cessione di una quota non superiore al 49%» e dunque chiedeva all’Antitrust di valutare la vicenda (come ovviamente deve fare e sta facendo). Mentre il giovane turco Francesco Verducci sottolineava il primo effetto dell’annuncio: i consistenti guadagni in borsa.
I forzisti si sbracciano invece perché l’operazione vada in porto in nome del «libero mercato» del Cav. Tornano invece a denunciare il «patto del Nazareno televisivo» i 5 Stelle e così Arturo Scotto, di Sel: «Non vorremmo che quel patto del Nazareno uscito dalla porta rientrasse dalla finestra».