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La Repubblica, 7 marzo 2015

«Mi sembra assurdo quest’atteggiamento prevenuto, che porta a comportamenti abbastanza paradossali. L’altro giorno a Nicosia Draghi si è abbandonato a uno sproloquio contro la Grecia proprio mentre accusava i governanti di Atene di parlare troppo. E lui allora? Adesso la Commissione accoglie con freddezza la lettera di Varoufakis». James Galbraith sarà anche un distinto economista bostoniano (ora insegna in Texas), ma di sicuro non ha remore nell’esprimere il suo pensiero. E quando gli si tocca la Grecia, e il suo amico-collega Varoufakis, si arrabbia veramente. «Avete visto? Il piano è arrivato, ora mi auguro che venga almeno discusso seriamente e senza prevenzioni».

Professore, questa vicenda è anche diventata una guerra di parole. Ma è proprio sicuro che Tsipras e Varoufakis non sbaglino nell’annunciare ad ogni piè sospinto che il loro Paese è in bancarotta ed è urgente un nuovo haircut? Non creano ulteriori e inutili tensioni mentre tutti stanno affannosamente cercando di trovare un accordo?
«Macchè. Yanis (Varoufakis, ndr) è anche troppo misurato. Ha solo agli occhi dell’Europa un torto: quello di parlar chiaro. E questa nei vertici ingessati ad alto tasso di ipocrisia cui gli europei sembrano abituati, è una grande novità e apparentemente una colpa imperdonabile. Invece alzare gli standard di sincerità di questi consessi è un merito, una cosa da cui tutti trarranno vantaggi. L’accanimento della Bce e anche della Commissione nel mantenere un alto livello di ansia e tensione non lo capisco proprio. E mi induce quasi a pensar male».

Cosa sospetta?
«Diciamo che non sospetto niente. Solo che uno con un minimo di visione storica potrebbe anche essere, lontanamente, indotto a pensare che ci sia una manovra per estromettere l’attuale governo greco e tornare a schieramenti più vicini al mainstream europeo, visto che l’alternativa di un’uscita della Grecia non conviene neanche a loro. Non sarebbe la prima volta nella storia. Nel 1955 gli americani manipolarono il Fondo Monetario e alla fine un golpe rovesciò Peron e i suoi descamisados. Ed è solo un esempio».

Cosa dovrebbe fare l’Europa?
«Non avere un atteggiamento costantemente negativo. E la Bce non deve minacciare la Grecia di escluderla dal quantitative easing. Al contrario, deve ripristinare subito il waiver , cioè l’accettazione dei buoni di Atene per rifinanziarla, senza rifugiarsi nello stillicidio dei fondi di aiuto o degli emergency liquidity agreement concessi qualche miliardo oggi e qualche miliardo domani. Insomma tutti devono confermare che stanno agendo genuinamente allo scopo di stabilizzare il Paese e aiutare Atene ad uscire dalla crisi. Evitando gli sbandamenti verbali di questi giorni che sono tremendamente controproducenti e del tutto inappropriati».

Lei tornerà ad Atene ad aiutare Varoufakis?
«Sì, partirò molto presto. I sette punti di ieri mi sembrano una buona base di partenza. Se ne aggiungeranno altri a breve. Vorrei che fosse chiaro a tutti che Syriza un accordo lo vuole, perché senza accordo ci sarebbero i controlli sui movimenti bancari, i fallimenti, alla fine l’uscita dall’euro. L’unica cosa inaccettabile era un’estensione secca delle condizioni fin qui applicate come quel 4,5% di surplus primario che era assurdo oppure le forzature sulle privatizzazioni, alle quali nessuno si oppone ma rischiavano di smantellare il patrimonio pubblico della Grecia senza un’adeguata contropartita. Bisogna lavorare tutti in buona fede e con un unico obiettivo in mente, evitando gli equivoci. La Grecia è un piccolo Paese che ha pagato un prezzo umano immenso, non è possibile che non si riesca a trovare unità e accordo politico per rimetterla in piedi».

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Sbilanciamoci.info

Un eccesso di rego­la­men­ta­zione delle ban­che sarebbe nocivo e potrebbe osta­co­lare la cre­scita. Parola di Dou­glas Flint, a capo di quella Hsbc al cen­tro dello scan­dalo Swis­sLeaks per avere aiu­tato decine di migliaia di facol­tosi clienti ad aprire conti cifrati per nascon­dere i pro­pri soldi in giro per il pia­neta. La stessa ad avere rice­vuto nel 2012 1,9miliardi di dol­lari di multa dalle auto­rità sta­tu­ni­tensi per una vicenda legata al rici­clag­gio dei pro­venti dei car­telli della droga messicani.

L’elenco potrebbe con­ti­nuare, così come potreb­bero essere molte altre le ban­che chia­mate in causa per scan­dali, truffe e cri­mini che vanno dalla mani­po­la­zione dei tassi di inte­resse (Libor ed Euri­bor) a quella del mer­cato delle valute o del prezzo dei metalli, a casi di eva­sione fiscale, rici­clag­gio, cor­ru­zione e chi più ne ha più ne metta.

Alcuni casi al limite – e spesso ben oltre il limite – della lega­lità, che non devono nascon­dere i deva­stanti impatti della spe­cu­la­zione e delle atti­vità a regime di un sistema respon­sa­bile dell’esplosione della peg­giore crisi degli ultimi decenni e sal­vato con mon­ta­gne di soldi pub­blici, secondo il noto prin­ci­pio di socia­liz­zare le per­dite dopo avere pri­va­tiz­zato i pro­fitti. Dopo la bolla dei sub­prime, ogni ver­tice inter­na­zio­nale si è chiuso con roboanti dichia­ra­zioni sulla neces­sità di chiu­dere una volta per tutte il casinò finan­zia­rio. In quasi otto anni poco o nulla è stato fatto. La spe­cu­la­zione è ripar­tita come e peg­gio di prima, le lobby rial­zano la testa, men­tre passa l’idea che la finanza pub­blica sia il pro­blema, quella pri­vata la solu­zione. Auste­rità per Stati e cit­ta­dini che hanno subito la crisi, liqui­dità illi­mi­tata per chi l’ha provocata.

Se l’impegno messo nell’imporre poli­ti­che deva­stanti ai governi euro­pei fosse stato indi­riz­zato a rego­la­men­tare la finanza pri­vata, pro­ba­bil­mente oggi la situa­zione in Europa sarebbe parec­chio diversa. Sap­piamo cosa andrebbe fatto e come pro­ce­dere: una tassa sulle tran­sa­zioni finan­zia­rie, limiti all’utilizzo dei deri­vati, un con­tra­sto ai para­disi fiscali e al sistema ban­ca­rio ombra, dei con­trolli sui movi­menti di capi­tale e via discor­rendo. Il pro­blema non è di natura tec­nica ma nella volontà poli­tica di pro­ce­dere. Se, gra­zie alle spinte delle reti della società civile, molti di que­sti temi sono entrati nell’agenda euro­pea, in troppi casi si va avanti, al meglio, con il freno a mano tirato. Solo per citare un esem­pio: per­ché in finanza non esi­ste un prin­ci­pio pre­cau­zio­nale ana­logo a quello che impe­di­sce di immet­tere sui mer­cati un pro­dotto fin­ché non se ne dimo­stri la non peri­co­lo­sità e noci­vità? Non posso ven­dere una lava­sto­vi­glie se rischia di alla­garmi la cucina, ma posso met­tere in com­mer­cio un deri­vato in grado di met­tere in ginoc­chio interi Paesi.

Non solo oggi la finanza crea disa­stri ed esa­spera insta­bi­lità e dise­gua­glianze, ma al cul­mine del para­dosso non fa nem­meno ciò che dovrebbe fare. Da un lato una quan­tità ster­mi­nata di denaro è all’esasperata ricerca di pro­fitti. Dall’altro fasce sem­pre più ampie della popo­la­zione sono escluse dall’accesso al cre­dito. Domanda e offerta di denaro non si incon­trano, nel più cla­mo­roso fal­li­mento di mer­cato dell’era moderna.

Per que­sto l’introduzione di regole e con­trolli è neces­sa­ria ma non suf­fi­ciente. Prima ancora, occorre rico­struire l’immaginario della crisi che si è impo­sto in que­sti anni e che di fatto ne ribalta cause e con­se­guenze. Per­ché la finanza dovrebbe essere uno stru­mento al ser­vi­zio della società, non l’opposto; dovrebbe essere una parte della solu­zione, e non come oggi, uno se non il prin­ci­pale problema.

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Il manifesto

In una paese nor­male, abi­tato da gente nor­male, dove anche i media di con­se­guenza sono nor­mali, le noti­zie che appa­iono a tutta pagina da ieri riguardo le misure che sta pen­sando il Vimi­nale, quindi il mini­stro Alfano, su Decoro/Degrado fareb­bero accap­po­nare la pelle.

Leggo testuale dal gior­nale di ieri “Sicu­rezza, più mili­tari e accat­to­nag­gio vie­tato vicino ai monu­menti”. E aggiungo “Più poteri ai sin­daci di difen­dere i cen­tro sto­rici ed i monu­menti delle nostre città. Al sin­daco dovreb­bero essere con­cessi dei poteri di ordi­nanza rela­tivi all’ordine pub­blico, modello movida, per ren­dere alcune zone del cen­tro off limits anche all’attività di accat­to­nag­gio e carità mole­sta”. Oggi invece prende forma una idea che a giu­di­care folle, se non bestiale, è dir poco. Sem­pre dal Mes­sag­gero ma di oggi “Stretta sul decoro: ipo­tesi Daspo per pro­sti­tute e men­di­canti”. E nell’articolo viene spie­gato meglio “Affi­dare mag­giori poteri di poli­zia a que­stori e pre­fetti anche in mate­ria di decoro e degrado urbano. Ovvero dar loro la pos­si­bi­lità di inter­ve­nire su temi che vanno dalla pro­sti­tu­zione al cosid­detto accat­to­nag­gio, pas­sando per i locali not­turni troppo rumo­rosi, con prov­ve­di­menti inter­dit­tivi. Per fare l’esempio più noto alle cro­na­che, l’ipotesi su cui sta lavo­rando il mini­stero dell’Interno, darebbe a que­stori e pre­fetti la pos­si­bi­lità di appli­care anche in que­ste mate­rie ordi­nanze ana­lo­ghe al Daspo, il prov­ve­di­mento col quale attual­mente pos­sono impe­dire l’ingresso allo sta­dio ad alcuni tifosi, a pre­scin­dere da even­tuali respon­sa­bi­lità penali.”

Quindi, i cer­vel­loni del Vimi­nale, hanno pen­sato di met­tere un freno alla pro­sti­tu­zione (che ad esem­pio nel cen­tro cit­ta­dino è pra­ti­ca­mente ine­si­stente, almeno quella di strada) e all’accattonaggio (per­ché la povertà è un reato ed esi­birla è di cat­tivo gusto) attuando un Daspo. Gli “accat­toni” daspati non potranno entrare nel cen­tro di Roma e dovranno con­ti­nuare ad arran­giarsi magari but­tan­dosi su qual­che via con­so­lare fuori dai muni­cipi del cen­tro. Oppure le pro­sti­tute oltre a dover fron­teg­giare gli aguz­zini che le schia­viz­zano, la vio­lenza dei clienti, dovranno star attente a non essere daspate. Dimen­ti­cavo: già esi­stono prov­ve­di­menti simili, visto che è pos­si­bile dare il foglio di via “agli indesiderati”.

Ma che signi­fica “decoro”? Un nor­male dizio­na­rio spiega che il decoro è un “com­plesso di valori e atteg­gia­menti rite­nuti con­fa­centi a una vita digni­tosa, riser­vata, cor­retta”. Quindi ha poco a che vedere con la povertà. Offrire una vita digni­tosa dovrebbe essere un obiet­tivo di qual­siasi governo, con­tra­stare la povertà idem. Il pro­blema è che non si com­batte la povertà bensì chi è povero. La parola decoro viene unita alla parola degrado e il tutto asso­ciato all’insicurezza. I “blog­gers anti­de­grado” accoz­za­glia discu­ti­bile di per­so­naggi che lan­ciano le loro cro­ciate on line verso poveri, migranti e rom tanto quanto con­tro i dis­ser­vizi della città diven­tano punto di rife­ri­mento per gli stessi ammi­ni­sta­tori cit­ta­dini. Quindi se la città è sporca è colpa di chi rovi­sta nei cas­so­netti. Se i mezzi pub­blici sono fati­scenti è colpa di chi non paga il biglietto. Se il patri­mo­nio pubblico/artistico di que­sta città è tenuto male è colpa degli hoo­li­gans venuti da fuori o di chi men­dica, crendo un cir­colo vizioso che con­trap­pone gli indi­genti ai cit­ta­dini, come se entrambi non fos­sero parte dello stesso tes­suto sociale. Con i suoi pro e i suoi con­tro. Nel frat­tempo nes­suno denun­cia il fatto che gli stessi gover­narnti, attra­verso i tagli alla cul­tura e ai ser­vizi, sono i primi a creare lo stesso “degrado” che cer­cano di scon­fig­gere a colpi di ordinanze.

L’esempio romano è asso­lu­ta­mente para­dig­ma­tico: dopo i 5 anni di Ale­manno e le varie ordi­nanze anti-alcol nel cen­tro cit­ta­dino, la nuova giunta aveva pro­messo che non avrebbe con­tra­stato “la movida” a colpi di ordi­nanze varie. Pro­messe man­te­nute per una estate per poi ade­guarsi nean­che un anno dopo alle pre­ce­denti ammi­ni­stra­zioni gra­zie anche a una cam­pa­gna media­tica avvol­gente, che vede schie­rati tutti i media a difesa non del “pub­blico” ma del “pri­vato”. A difesa, dicono, del “cit­ta­dino” men­tre tra­sfor­mano interi quar­tieti in “diver­ti­men­ti­fici”, alla fac­cia del cit­ta­dino stesso.

Ed è sin­go­lare che nella città dello scan­dalo Atac, Ama, Mafia Capi­tale, Eur Roma Spa, Acea, etc etc si con­ti­nui a tro­vare nel “degrado/decoro” il pro­blema da risol­vere, da affron­tare. Il pro­gres­sivo impo­ve­ri­mento, la crisi eco­no­mica, ha di sicuro cre­sciuto le sac­che di povertà in città. Le barac­che, parte del tes­suto urbano dal dopo­guerra fino alla seconda metà degli anni 70, diven­tano inac­cet­ta­bili e peri­co­lose. Ci ripor­tano indie­tro nel tempo è ci mostrano l’altra fac­cia della metro­poli, quella in cui potremmo finire un giorno. Con­ti­nuare a tro­vare il nemico in alcune sac­che di cit­ta­dini, eco­no­mi­ca­mente svan­tag­giate, è la dimo­stra­zione dell’uso poli­tico che si fa del con­cetto di “decoro” è il modo con cui i governi rie­scono a far pas­sare ogni misura secu­ri­ta­ria. Del resto le ordi­nanze cit­ta­dine, di vari sin­daci, in maniera di decoro, sono qual­cosa con cui abbiamo a che fare da anni e spesso ci siamo tro­vati di fronte a misure tal­mente ridi­cole che ci sarebbe da ridere se non fosse tutto così male­det­ta­mente serio.

Una cosa è certa che “l’ideologia del decoro” è qual­cosa che coin­volge ammi­ni­stra­zioni di destra e di sini­stra, per una tra­sver­sa­lità peri­co­losa. Una ideo­lo­gia per­versa, mora­li­sta, che non crea cit­ta­di­nanza, non crea soli­da­rietà ma pic­coli sce­riffi armati di smart­phone pronti a foto­gra­fare il men­di­cante di turno o chi rovi­sta nei cas­so­netti. I nuovi nemici da com­bat­tere sono quelli che rac­col­gono le bri­ciole di quel che con­su­miamo. Quelli che non vestono come noi o che non hanno la stessa “acces­si­bi­lità ai con­sumi”. Un egoi­smo sociale, mora­li­sta appunto, che fa del cit­ta­dino edu­cato che non butta le carte in terra, un buon cit­ta­dino. Che crea dise­gua­glianze invece di costruire un tes­suto sociale. Che fa leva sulle paure di chi ci sta intorno invece di libe­rarci dalle paure. Che trova il degrado nella pro­sti­tuta e non nello sfrut­ta­tore, nelle reti della tratta, o anche sem­pli­ce­mente nel cliente della pro­sti­tuta, il pro­blema. Impor­tante è che non par­cheggi in dop­pia fila e che paghi pun­tual­mente il biglietto

Giorgia Meloni, Michaela Biancofiore, Nunzia De Girolamo evidentemente non lo sanno. La Repubblica, 6 marzo 2015

Ereditato il posto di Gianfranco Fini, Laura Boldrini fece cambiare subito la carta intestata (era scritto: il presidente). Questione vecchia, obiettivo alto: «Adeguare il linguaggio parlamentare al ruolo istituzionale, sociale e professionale assunto dalle donne». Dal web arrivano ora proteste e insulti: «Certo che hai un sacco di lavoro da fare per pensare a queste s.». E ancora: «Brava e intelligenta!». Lei tira avanti, abituata alla «misoginia» dei social di cui è stata più volte bersaglio. Il termine al femminile sarebbe cacofonico? «Affermazione da smontare - dice Boldrini - la lingua evolve con la società. E’ brutto dire la sindaca, l’assessora ma va benissimo dire la maestra, la contadina... smontiamola questa cosa!».

Una parte del mondo femminile è prudente forse perché ministro evoca più attributi metaforici di ministra, forse perché secoli di estromissione dai ruoli di vertice hanno reso le donne «conservatrici nella lingua». Andando a spulciare i resoconti parlamentari, ci imbattiamo negli interventi di Giorgia Meloni, Michaela Biancofiore, Nunzia De Girolamo. Si rivolgono tutte a Boldrini con un tuonante «signor presidente!». Mara Carfagna è in linea: «Non mi sono mai offesa quando mi chiamavano ministro. Il linguaggio è importante ma le priorità sono altre». «A quelli che mi dicono che “i problemi sono altri”, che “non è questo è il momento” - ribatte ferma la presidente - rispondo che tutto si tiene: l’immagine, la parola, il riconoscimento delle donne e il loro ruolo nella società. Se rimandiamo sempre, il momento non viene mai». Quindi tutti/tutte in riga.

L’Accademia della Crusca sembra appoggiare la “necessaria” rivoluzione. Leggete l’analisi di Cecilia Robustelli sull’«androcentrismo» linguistico. L’ostilità al nuovo? Nasce anche da una valutazione estetica: ministra è considerato meno bello di ministro; ingegnera fa davvero i brividi. Tuttavia dietro queste ritrosie, secondo la professoressa Robustelli, si celano «ragioni di tipo culturale». A farla breve, il mondo è ancora maschio. Altro che «impuntatura tardofemminista». Boldrini invidia la Francia dove la signora presidente dell’Assemblea nazionale francese, Sandrine Mazetier, ha inflitto una multa da 1378 euro a un deputato che continuava ostinatamente a chiamarla «il presidente».

Il manifesto, 5 Marzo 2015 (m.p.r.)

Chi inquina, final­mente, paga. Anche con la galera. Con l’approvazione al Senato del dise­gno di legge sui reati ambien­tali potrebbe chiu­dersi nel migliore dei modi un per­corso sof­ferto che per decenni è stato con­di­viso da tutto il mondo ambien­ta­li­sta. Il prov­ve­di­mento, dopo aver subito delle modi­fi­che a Palazzo Madama, adesso dovrà tor­nare alla Camera per la terza lettura.

L’inedito fronte poli­tico che ha soste­nuto il ddl è com­po­sto da Pd, Sel, Ncd e M5S (primi fir­ma­tari Ermete Rea­lacci del Pd, Sal­va­tore Micilli del M5S e Serena Pel­le­grino di Sel). 165 i voti favo­re­voli, 49 con­trari, 18 aste­nuti. L’altra noti­zia è che il governo, per la prima volta, non si è pie­gato a Con­fin­du­stria. L’esito, come dicono tutte le asso­cia­zioni eco­lo­gi­ste, è posi­tivo. Il vuoto nor­ma­tivo è stato col­mato, anche se que­ste norme rischiano di per­dere effi­ca­cia in un qua­dro legi­sla­tivo ancora con­fuso e con­trad­dit­to­rio, soprat­tutto quando si tratta di reati ambientali.

In sin­tesi, il ddl intro­duce nuovi reati di inqui­na­mento ambien­tale, di disa­stro ambien­tale, i delitti col­posi con­tro l’ambiente, il traf­fico e l’abbandono di mate­riale radioat­tivo e il reato di impe­di­mento di con­trollo. Tra le altre, è stata intro­dotta anche una norma che vieta le esplo­sioni in mare per atti­vità di ricerca ed ispe­zione dei fon­dali, una que­stione che l’altro giorno aveva visto il governo bat­tuto in aula. Si tratta di un pac­chetto par­ti­co­lar­mente indi­ge­sto per le cosid­dette eco­ma­fie che in Ita­lia, ogni anno, impu­nite, “fat­tu­rano” cifre astronomiche.

Sono sod­di­sfatti i due mini­stri diret­ta­mente coin­volti. «Si tratta di un segnale di grande sen­si­bi­lità nei con­fronti di un tema di strin­gente urgenza per il paese — ha com­men­tato il mini­stro dell’Ambiente Gian­luca Gal­letti — e ormai siamo all’ultimo miglio di un pas­sag­gio sto­rico: chiedo alla Camera di fare pre­sto e di appro­vare que­sto testo senza ulte­riori modi­fi­che, c’è asso­luta neces­sità di stron­care i busi­ness cri­mi­nali che si arric­chi­scono inqui­nando il nostro ter­ri­to­rio». Per il mini­stro della Giu­sti­zia Andrea Orlando (già mini­stro per l’Ambiente) que­sta è la rispo­sta del governo «alle molte ferite che hanno col­pito il paese”. Orlando ci tiene a met­tere l’accento non solo sull’impianto puni­tivo delle norme ma anche alla ridu­zione delle pene per chi si impe­gna a ripri­sti­nare lo stato dei luo­ghi inqui­nati, il cosid­detto “rav­ve­di­mento operoso».

Entrando nei det­ta­gli, il testo inse­ri­sce nel codice penale il nuovo delitto di inqui­na­mento ambien­tale (art.452 bis) che puni­sce con la reclu­sione da 2 a 6 anni, e una multa da 10 mila a 100 mila euro, chiun­que pro­vo­chi un danno signi­fi­ca­tivo alle acque, all’aria, al suolo, al sot­to­suolo e più in gene­rale alla bio­di­ver­sità, alla vege­ta­zione o agli ani­mali. C’è anche una norma che pre­vede la deten­zione, quella di disa­stro ambien­tale: da 5 a 15 anni per chi inquina pro­vo­cando danni irre­ver­si­bili per l’ambiente e per le per­sone espo­ste al peri­colo. Ven­gono in mente i rifiuti tos­sici in Cam­pa­nia, l’Ilva di Taranto, o l’Eternit in Piemonte.

«L’approvazione del ddl — ha detto il pre­si­dente del Senato Pie­tro Grasso — è la rispo­sta al dolore di per­sone come il poli­ziotto della terra dei fuo­chi che si è amma­lato di tumore in seguito alle sue inda­gini sui rifiuti in Cam­pa­nia, o dei fami­liari delle per­sone che hanno perso la vita a Casale Mon­fer­rato”. Per Titti Palaz­zetti, sin­daco di Casale, que­sta è “una pro­messa mantenuta».

Il delitto di “abban­dono di mate­riale ad alta radioat­ti­vità” viene punito con la reclu­sione da 2 a 6 anni e con una multa che va da 10 a 50 mila euro, pena estesa anche a chi acqui­sta, riceve, importa, esporta, tra­sporta o detiene il mate­riale in que­stione. Per il delitto di “impe­di­mento al con­trollo”, invece, le pene vanno da 6 mesi a 3 anni. Mano pesante per l’aggravante di “asso­cia­zione mafiosa”: verrà appli­cata anche ai pub­blici uffi­ciali che si ren­de­ranno com­plici di qua­lun­que tipo di age­vo­la­zione in mate­ria di con­ces­sioni o auto­riz­za­zioni. Pene più severe anche per chi ispe­ziona i fon­dali marini uti­liz­zando tec­ni­che esplo­sive (da 1 a 3 anni di reclu­sione). Tra i nuovi reati è stato intro­dotto anche quello di “omessa boni­fica” per chi non ottem­pera all’ordine di recu­pe­rare l’area inquinata.

Uno degli ade­gua­menti più signi­fi­ca­tivi del codice penale per­mette inol­tre di poter con­tare sull’allungamento dei ter­mini di pre­scri­zione del reato. «Ricor­diamo a tale pro­po­sito - sot­to­li­nea il WWf con una nota - il caso Eter­nit: l’intervenuta pre­scri­zione che ha man­dato assolti gli impu­tati è dipesa dall’esistenza di reati asso­lu­ta­mente ina­de­guati rispetto alla gra­vità dei fatti. Se le dispo­si­zioni con­te­nute nella pro­po­sta di legge fos­sero già entrate in vigore, il pro­cesso si sarebbe pre­scritto in quin­dici anni».

Il vice­pre­si­dente di Legam­biente, Ste­fano Cia­fani, e il coor­di­na­tore nazio­nale di Libera, Enrico Fon­tana, ieri hanno assi­stito al voto in Senato in rap­pre­sen­tanza di quelle 23 asso­cia­zioni e di quei 70 mila cit­ta­dini che hanno sot­to­scritto il loro appello inti­to­lato «In nome del popolo inqui­nato: subito i delitti ambien­tali nel codice penale». Adesso hanno fretta, vogliono che la Camera approvi al più pre­sto un decreto legge atteso da più di venti anni. «Gra­zie a que­sto voto - hanno aggiunto - è stata final­mente can­cel­lata la non puni­bi­lità dei reati col­posi in caso di boni­fica, tanto cara a Con­fin­du­stria, e sono stati appor­tati ulte­riori miglio­ra­menti al testo gra­zie al voto favo­re­vole della mag­gio­ranza, del M5S e di Sel».

Ermete Rea­lacci, pre­si­dente della Com­mis­sione ambiente e ter­ri­to­rio alla Camera, primo fir­ma­ta­rio della pro­po­sta di legge, si augura che il via libera defi­ni­tivo avvenga «senza cam­biare nem­meno una vir­gola». E’ que­sta la pre­oc­cu­pa­zione di tutti gli ambien­ta­li­sti. Vista la larga e ine­dita mag­gio­ranza, non dovreb­bero esserci brutte sor­prese. Anche per­ché, ha spie­gato Rea­lacci, «quelli con­tro l’ambiente sono cri­mini par­ti­co­lar­mente odiosi e molto peri­co­losi, basti pen­sare che stando al rap­porto Eco­ma­fia di Legam­biente frut­tano alla mala­vita orga­niz­zata circa 15 miliardi all’anno».

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Cronache di ordinario razzismo

Ieri sera, Piazza Pulita, trasmissione trasmessa da La7 e condotta da Corrado Formigli, era dedicata alla “Lega capoccia” – questo il titolo della puntata. Ospiti, tra gli altri, Dijana Pavlovic, attrice e attivista serba rom, e Gianluca Buonanno, europarlamentare leghista. Il quale ha sintetizzato così il proprio pensiero: “I rom sono la feccia della società”.

Alla reazione di Pavlovic, che ha invitato il parlamentare a prendersela “con i borseggiatori, con i criminali”, Buonanno ha proseguito, quasi sorridendo: “Purtroppo il 90% della vostra gente è così”, “Usate i bambini, dovreste vergognarvi”, “Ditelo che è vero che ci sono un sacco di rom e di zingari che sono dei ladri e dei farabutti”.

Il tutto letteralmente urlato davanti al volto di Dijana Pavlovic. La quale ha dato a Buonanno un foglio da leggere, relativo alla tragedia subita dalle donne rom in Svizzera, sottoposte a sterilizzazione dagli anni venti fino al 1974, proprio sulla base di dichiarazioni come quella gridata da Buonanno in diretta televisiva. “Una storia che pochi conoscono, e che rappresenta la continuazione, nel cuore dell’Europa e in quello che si considera un paese civile, del Porrajmos, lo sterminio nazista dei Rom.” Erano parole, quelle di Dijana, che meritavano di essere seguite dal silenzio, dalla riflessione e dal rispetto. Sono state accompagnate, invece, dall’ennesima manifestazione di razzismo”, leggiamo – e condividiamo- sul sito glistatigenerali.com.

Quando Buonanno è uscito dallo studio, Pavlovic si è rifiutata di stringergli la mano. Un gesto comprensibile e condivisibile, dopo gli insulti che le sono stati urlati contro. “Ecco, avete visto? Questa è l’integrazione! Avete visto?”, ha ripetutamente urlato Buonanno, gridando ancora una volta, a scanso di equivoci: “Siete la feccia dell’umanità”. Ancora applausi, e risa, dell’europarlamentare e degli spettatori.

Non tutti, fortunatamente. Alcuni hanno applaudito piuttosto a Formigli, quando ha espressovergogna per la reazione del pubblico alla frase di Buonanno. “Lui – ha sottolineato il conduttore – lo pensa, lo dice, ci mette la faccia. Io disapprovo completamente la sua frase”.

Questo ciò che è successo.

La sensazione sempre più forte è che ci si trovi ormai di fronte a un sipario, con delle maschere che recitano la propria parte, di solito urlando, per lo più slogan. Questo è il livello del dibattito politico, almeno durante i talk show televisivi. Banditi l’analisi sociale e politica, il ragionamento, il confronto. Così come assente è il rispetto per le persone: degli ospiti in studio – in questo caso Djana Pavlovic, contro la quale sono state urlate in faccia, quasi con il sorriso, offese razziste –, di interi gruppi sociali e, infine, degli spettatori: perché, almeno in teoria, questi programmi dovrebbero consentire a chi li guarda di approfondire la conoscenza dei temi trattati e di avere maggiori elementi di valutazione per elaborare la propria opinione.
Ma tra slogan urlati e insulti, cosa si capisce? Si riduce tutto a tifo, in uno stadio in cui i protagonisti sono sempre gli stessi: le persone, quasi sempre rappresentanti politici, di cui conosciamo quasi sempre già le idee e le opinioni.

Ma allora, domandiamo ai conduttori, siamo sicuri che il format prescelto, quello che troppo spesso da salotto degenera in un vero agone televisivo che sacrifica l’informazione allaspettacolarizzazione, sia quello giusto?

«». Fondazione Critica Liberale, 1 marzo 2015


Parafrasando il noto motto dell’avv. Agnelli: “solo un governo di sinistra può fare cose di destra”, si potrebbe dire “solo un partito antiberlusconiano può attuare un programma berlusconiano”. E’ il caso dell’attuale Pd.

Riforme istituzionali, art. 18, responsabilità civile dei magistrati, e altro che è ancora allo stato di studio e delle bozze (vedi Rai), o di cui ancora non si parla, sono tutte norme che facevano parte del programma del cavaliere di Arcore. Idee di cui Berlusconi discorreva e deliberava con le ospiti delle serate bunga–bunga e che poi pretendeva che il Parlamento ratificasse.

Anche se posso sembrare grillino, che non sono, penso che poco a poco stia venendo fuori che le polemiche che ogni tanto Forza Italia fa con il governo è pura manfrina e che, come ho già scritto, se Renzi fa il “bravo” e attua il “programma”, il padrone di quel partito è disposto anche a sacrificare la sua creatura consentendo un travaso di voti al nuovo Pd.

L’attuale capo del governo e segretario del Pd dà sempre più l’impressione di essere etero diretto, di attuare un programma per conto di qualcuno, non sembra che porti avanti idee proprie, anche perché non so se sarebbe all’altezza di elaborarle.

Egli, e il suo principale antagonista attuale Salvini, sono cresciuti e si sono formati nell’epoca d’oro della Tv spazzatura. Se non erro, i giornali hanno riportato che entrambi hanno partecipato a quei programmi presi in giro da Arbore, dove rispondendo a domande come “quanto fa due più due” si potevano vincere milioni (“E’ così che si fanno i milioni, evviva le televisioni”, faceva cantare al coro il presentatore pugliese).

Berlusconi, grazie a quel tipo di Tv, ha costruito il suo impero economico e politico; poi, stanco, ha fatto andare avanti i suoi discepoli. Per chi ha avuto come mentore quella televisione, l’importante è avere sempre lo slogan giusto a portata di mano, tanto chi lo segue non andrà mai ad aprire un libro per documentarsi da sé, non andrà mai a verificare di persona se certe affermazioni corrispondono al vero, basta che la frase sintetica (il twitter) sia quella giusta.

E così Renzi può dire che la sua politica è a favore dei giovani, pur prendendo provvedimenti opposti, e i giovani gli credono. Salvini può dire che uscendo dall’Unione Europea staremo meglio e la gente gli crede. D’altro canto anche Mussolini diceva “spezzeremo i reni alla Grecia” o che “l’ora delle decisioni irrevocabili è giunta”, e la gente andava in estasi credendo che ci saremmo divisi il mondo noi e la Germania, salvo poi mandare in Russia soldati con le scarpe di cartone e con la raccomandazione di “portarsi una coperta da casa”.

A volte mi chiedo se ci sia una maledizione sulla testa di noi italiani: Crispi, Mussolini, Giannini, Craxi, Berlusconi, Renzi, Salvini. Politici che risolvono tutto nella parola che infatua le folle. Si dice: è il popolo italiano che è immaturo. Ma no! Il popolo è più o meno uguale dappertutto, quello che da noi è diversa è la cosiddetta classe dirigente, è questa che dovrebbe imprimere la svolta perché ne ha il potere e i mezzi. Ma purtroppo alla nostra borghesia danarosa, alla maggior parte dei nostri intellettuali, questa società, queste istituzioni, questi politici, vanno più che bene.

E i giovani continueranno a emigrare.


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spremuto, non ha senso cercare altro succo». Francesca Pilla intervista Ermanno Rea, a proposito delle significative "primarie" di Napoli e del partito di Renzi. Il manifesto, 4 marzo 2015

Non cono­sco De Luca, di certo non mi può pia­cere qual­cuno che viene defi­nito sin­daco sce­riffo. E di sicuro non si può cam­biare la legge Seve­rino ad per­so­nam. Ma non credo che attual­mente sia que­sto il pro­blema. Nel nostro paese non abbiamo una sini­stra e Renzi è un pom­piere che ha spento gli ultimi fuo­che­relli». La vede così Ermanno Rea, secco e deciso. Lui, classe 1927, che alle scorse euro­pee si è can­di­dato al Sud per la Lista Tsi­pras, da gior­na­li­sta e autore di grandi suc­cessi come Mistero Napo­le­tano (pre­mio Cam­piello 1996) e Napoli Fer­ro­via (pre­mio Strega 2008), ha vis­suto la poli­tica ita­liana inten­sa­mente, senza mai tirarsi indie­tro o rispar­miare cri­ti­che ai diri­genti che dal dopo­guerra in poi hanno con­tri­buito a fare la sto­ria di que­sto paese. Forse pro­prio per que­sto è distac­cato e restio a par­lare di rot­ta­ma­tori e di pri­ma­rie al sapore di pastic­cio Dem.

Pro­fes­sore, ha seguito le con­sul­ta­zioni del Pd in Campania?
Ovvia­mente, ma ormai non voto più a Napoli e non cono­sco nes­suno dei per­so­naggi che sono stati can­di­dati. Ho letto qual­cosa su Vin­cenzo De Luca. Viene chia­mato ’il sin­daco sce­riffo’, usa degli slo­gan sin­da­ca­bili e ha un piglio deci­sio­ni­sta molto lon­tano dalla mia idea di politica.

Però nel Pd lo hanno votato e in tanti, non solo a Salerno.
I cam­pani, ma in spe­cial modo i napo­le­tani, sono dispe­ra­ta­mente alla ricerca di un indi­vi­duo cari­sma­tico che rie­sca a risol­vere i pro­blemi strut­tu­rali e radi­cati che ci sono in una regione del Mez­zo­giorno. In loro si accende un lumi­cino di spe­ranza e si aggrap­pano all’uomo del momento. È suc­cesso con de Magi­stris, oggi con De Luca, ma die­tro que­sta corsa dispe­rata fini­scono irri­me­dia­bil­mente per impat­tare in per­so­naggi che disat­ten­dono le aspet­ta­tive. Que­sta voglia di rin­no­va­mento deve invece essere inca­na­lata, rico­min­ciare dal basso con una guida capace di grande magi­stero etico e in grado di met­tere a frutto le ener­gie e le pos­si­bi­lità di que­sto popolo.

Un nome alter­na­tivo non emerge, De Luca potrebbe essere sospeso il giorno dopo l’elezione. Non sarebbe uno spreco lasciare la Cam­pa­nia ancora alla destra?
La legge Seve­rino c’è e non si discute, anche se mi pare che il reato di abuso d’ufficio di cui è accu­sato De Luca sia ben diverso da quello di Ber­lu­sconi, con­dan­nato in via defi­ni­tiva per ben altre ragioni. Ma è inu­tile but­tarsi su que­ste micro­sto­rie. De Luca cor­rerà e se vin­cerà, nel caso in cui dovesse essere sol­le­vato dall’incarico, ricor­rerà al Tar. Al mas­simo si rifa­ranno le ele­zioni. Il pro­blema è che in Cam­pa­nia è forte e urgente la domanda di demo­cra­zia e rin­no­va­mento. C’è un grande desi­de­rio tra le per­sone che non viene appa­gato per man­canza di respon­sa­bi­lità, per la cor­ru­zione dila­gante e per la disfatta morale.

Nel Pci sarebbe potuto accadere?I
l para­gone non regge, era tutta un’altra cosa, con una strut­tura diversa, le pri­ma­rie non erano nem­meno in calen­da­rio. Anche per­ché non è che nel Pci di demo­cra­zia ce ne fosse dav­vero tanta.

Par­liamo al pre­sente. Come vede il Pd di Renzi?
È un limone spre­muto dove non ha senso andare a cer­care altro succo. Credo di aver descritto bene la situa­zione attuale in un mio libretto La fab­brica dell’obbedienza, il lato oscuro e com­plice degli ita­liani (ed. Fel­tri­nelli, ndr). Renzi ha abba­gliato l’opinione pub­blica che rie­sce sem­pre a inna­mo­rarsi in fretta dei per­so­naggi sba­gliati, ma anche a farli cadere pre­sto in disgra­zia. È già finito il suo tempo. Credo che il pre­mier non sia in grado di incan­tare più nes­suno e vada avanti con qual­che illu­sione che aveva messo in scena all’inizio. Per il nostro paese è stato un pom­piere in grado di spe­gnere le ultime fiam­melle di sini­stra nel sistema partitico.

Non ci sono spe­ranze di avere una rap­pre­sen­tanza a sinistra?
Noi veniamo da anni di ber­lu­sco­ni­smo e man­chiamo di senso di respon­sa­bi­lità sot­tratto da santa romana chiesa. La sini­stra ita­liana non è mai stata capace di amal­ga­marsi, unirsi ed espri­mere se stessa. Qui non rie­sce nem­meno a venir fuori una Syriza o una Pode­mos. Così sono pes­si­mi­sta a breve distanza. Ma otti­mi­sta sul lungo periodo. La situa­zione oggi è dispe­rata, ma gli uomini hanno supe­rato osta­coli enormi. Qual­cosa di posi­tivo acca­drà. Io non vedrò l’aurora per­ché ho 88anni, la vedranno i figli dei figli.

Ha in mente qual­cuno capace di tra­ghet­tarci fuori da que­sto immobilismo?
Non credo ai nomi e cognomi ma a tante per­sone di qua­lità e alla capa­cità di orga­niz­zare il dissenso.

«

Prima Lan­dini e poi Ber­sani hanno agi­tato le acque della pax ren­ziana vio­lan­dola pro­prio men­tre la pro­pa­ganda gon­fiava i primi segnali tec­nici di ripresa e li attri­buiva al polso ener­gico del con­dot­tiero di Rignano. Non si tratta di pure sca­ra­mucce. Esi­ste un nodo di fondo che si ripro­pone quasi ogget­ti­va­mente: la man­canza di ogni rap­pre­sen­tanza sociale e poli­tica di un mondo di ban­diere rosse che negli anni set­tanta con­qui­stò il con­senso di quasi il 50 per cento del paese.

Se que­sta carenza di una sini­stra poli­tica e sociale è un pro­blema, anche di sistema, che si intende supe­rare, occorre com­pren­dere le ragioni (cioè i punti di forza) dell’avversario e pene­trare, se ci sono, nelle sue zone di debo­lezza. Con Renzi, il Pd porta alle con­se­guenze estreme delle ten­denze interne verso approdi post-ideologici ope­ranti già al tempo del Lin­gotto. Però quest’anima inter­clas­si­sta e mode­rata, con il suo dise­gno di sfon­dare al cen­tro con la pro­messa di una rivo­lu­zione libe­rale, che con Vel­troni e Rutelli si arenò, ora trova espres­sioni ine­dite che sem­brano rivi­ta­liz­zarla. Per­ché Renzi rie­sce dove Rutelli ha già fallito?

Alla spinta cen­tri­sta e moder­niz­za­trice, con­dita con la salsa di un libe­ri­smo ostile ai diritti, egli aggiunge una magica por­zione di anti­po­li­tica. Met­tendo insieme il nucleo del pro­gramma della Con­fin­du­stria (ridu­zione dello spa­zio pub­blico e sem­pli­fi­ca­zione delle regole del lavoro) e lo stile anti­po­li­tico, Renzi inter­cetta domande di novità e distrugge, con la maschera della discon­ti­nuità radi­cale, il vec­chio ceto poli­tico di estra­zione comu­ni­sta. Muta anche, con l’assalto al sin­da­cato, la com­po­si­zione sociale del par­tito, al punto da pene­trare in aree e inte­ressi sociali delle microim­prese attratte dalla distru­zione delle cosid­dette rigi­dità del mer­cato del lavoro (e dalla enfasi ren­ziana con­tro i con­trolli buro­cra­tici ecces­sivi, che riscon­trano irre­go­la­rità nel 65 per cento delle aziende visi­tate) e che dif­fi­cil­mente avreb­bero guar­dato a sinistra.

Dalla prima anima, quella in senso lato con­fin­du­striale, Renzi ricava media e denaro che coprono le sue gesta con un con­for­mi­smo asso­luto (c’è una sorta di gior­nale unico nazio­nale che da Repub­blica passa per il Cor­riere, La Stampa, Il Mes­sag­gero, Il Sole 24 ore). Dalla seconda anima, quella del capo di governo che è nemico del ceto poli­tico, egli assorbe un desi­de­rio di vit­to­ria (com­pren­si­bile dopo che il Pd si era acca­sciato a terra pro­prio al momento del trionfo) e una invo­ca­zione di nuovo e di rot­tura verso schemi tra­di­zio­nali.

La forza di Renzi (anco­rag­gio ad inte­ressi d’impresa e coper­tura della scena pub­blica con una asfis­siante comu­ni­ca­zione post-politica) è anche la sua debo­lezza. Senza un par­tito strut­tu­rato, privo di un sistema di potere con­so­li­dato che si estenda oltre i meri traf­fici clien­te­lari del giglio magico, senza un vero gruppo diri­gente e una valida classe di governo, privo di un col­le­ga­mento con ampi sog­getti sociali, il grado di auto­no­mia di cui Renzi gode rispetto alle potenze eco­no­mi­che e finan­zia­rie è quasi insus­si­stente.

Sfrutta al mas­simo le loro risorse, le esi­bi­sce in un pub­blico sfarzo alla Leo­polda e ammi­ni­stra spesso con arro­ganza le loro muni­zioni, ma non ne è il padrone. E quindi naviga a vista per­ché il soste­gno dei poteri forti è sem­pre con­di­zio­nato al rapido incasso in moneta sonante. La coa­li­zione sociale che con Monti e poi con Letta ha gestito il potere nella fase di tran­si­zione post-berlusconiana è la stessa, con varie sfu­ma­ture, che sor­regge adesso Renzi.

La novità è soprat­tutto il grado di anti­po­li­tica che il fio­ren­tino aggiunge alla com­me­dia e lo sman­tel­la­mento di un par­tito (mai con­so­li­dato) tra­mu­tato in una sua appen­dice per­so­nale. Il domi­nio ren­ziano sem­bre­rebbe incon­tra­sta­bile, con lo spread che si calma, con il tra­sfor­mi­smo del venti per cento dei depu­tati pronti al grande salto nel carro del rot­ta­ma­tore, con l’opportunismo di tanti par­la­men­tari del Pd che hanno fiu­tato che in un non-partito degli eletti sovrano è solo chi decide le candidature.

Eppure, la man­canza di una sini­stra rico­no­sci­bile sol­leva una latente crisi di legit­ti­ma­zione. L’impressione che la poli­tica odierna suscita è quella che rica­vava Toc­que­ville osser­vando la vita par­la­men­tare del suo tempo. In essa «gli affari ven­gono trat­tati fra i mem­bri di un’unica classe, secondo i suoi inte­ressi e i suoi modi di vedere, non è pos­si­bile tro­vare un campo di bat­ta­glia su cui i grandi par­titi pos­sano farsi la guerra». Con il pre­si­dente del con­si­glio «gasa­tis­simo da Mar­chionne» e gran vene­ra­tore della sacra libertà di licen­zia­mento, nel par­la­mento opera un solo inte­resse pre­va­lente, quello dell’impresa.

Per que­sto è dif­fi­cile al momento pen­sare ad una rina­scita della destra su basi diverse dal popu­li­smo di Sal­vini. Una destra libe­rale non ha alcuna pos­si­bi­lità (e neces­sità) di orga­niz­zarsi col­ti­vando ambi­zioni di alter­na­tiva: il suo spa­zio è già ben pre­si­diato da Renzi. E una sini­stra avrebbe le forze per ripren­dere una fun­zione rap­pre­sen­ta­tiva? Nel «paese legale», con­ti­nuava Toc­que­ville descri­vendo l’omologazione dei ceti poli­tici fran­cesi, esi­ste una «sin­go­lare omo­ge­neità di posi­zioni, di inte­ressi e, per con­se­guenza di vedute, che toglie ai dibat­titi par­la­men­tari ogni ori­gi­na­lità e ogni realtà, e quindi ogni vera pas­sione». La stessa sen­sa­zione di tra­monto dell’autonomia della poli­tica la si ricava osser­vando le dispute poli­ti­che odierne.

Auto­nomo, al limite dell’ostilità e dell’ingiuria, dal sin­da­cato e dal lavoro, il Pd è privo di ogni argine effi­cace rispetto alle sol­le­ci­ta­zioni della finanza, dell’impresa, dei media. E que­sto ritorno ad un par­la­men­ta­ri­smo mono­classe suscita anche una sen­sa­zione di impo­tenza, di estra­neità in con­si­stenti fasce di opi­nioni. Nel domi­nio di grandi potenze eco­no­mi­che, diceva Toc­que­ville, «i vari colori dei par­titi si ridu­cono a pic­cole sfu­ma­ture e la lotta a una disputa ver­bale». Non è un caso che, in un clima di simi­li­tu­dine nelle basi sociali rico­no­sciute, avvenga il pro­cesso di uni­fi­ca­zione tra Pd e Scelta civica o che sfu­mino del tutto i con­fini distin­tivi con il nuovo cen­tro destra.

Quale per­ce­pi­bile dif­fe­renza iden­ti­ta­ria, e di alte­rità nei rife­ri­menti sto­rici e sociali, si può mai notare tra Gue­rini e Alfano, tra Boschi e Car­fa­gna, tra Picierno e Gel­mini, tra Madia e Lupi, tra Lotti e Ver­dini, tra Faraone e Fitto? Ancora Toc­que­ville: in una poli­tica ad una sola dimen­sione, quella della classe pro­prie­ta­ria, i poli­tici ricor­rono «a tutta la loro per­spi­ca­cia per sco­prire argo­menti di grave dis­senso, senza tro­varne». Con le sue poli­ti­che in tema di lavoro, Renzi si raf­forza per­ché lascia senza scopo una destra di governo. Però, pro­prio con que­sto sci­vo­la­mento, man­tiene sguar­nito un ampio fronte sociale, i cui inte­ressi non coin­ci­dono con il raf­for­za­mento del potere uni­la­te­rale dell’impresa.

Con le sue scor­ri­bande isti­tu­zio­nali, Renzi apre una vistosa vora­gine anche nel campo poli­tico (mal­trat­ta­mento dei prin­cipi dell’antico costi­tu­zio­na­li­smo demo­cra­tico della sini­stra, demo­li­zione dell’idea di un par­tito non per­so­nale). Col­pita sul piano degli inte­ressi sociali di rife­ri­mento e sfre­giata sull’idea di demo­cra­zia e sul senso della poli­tica, è impen­sa­bile che la sini­stra non provi a rea­gire alle umi­lia­zioni di chi si vanta di averla asfaltata.

Non per un senso dell’onore, che già Bodin esclu­deva quale prin­ci­pio della poli­tica, ammet­tendo la liceità del com­pro­messo e della trat­ta­tiva al cospetto di un nemico troppo forte per essere sfi­dato di punto. Ma, alla com­pren­si­bile riti­rata, che ha accom­pa­gnato il celere trionfo ren­ziano, non è cor­ri­spo­sta alcuna azione inci­siva per il recu­pero di forza e capa­cità di com­bat­ti­mento. È man­cata quella che Lenin avrebbe chia­mato una «riti­rata con giu­di­zio». La con­trof­fen­siva, dopo la tem­po­ra­nea riti­rata, non è stata nep­pure accen­nata. E invece andrebbe disegnata.

Con una coa­li­zione sociale di pro­te­sta e ostile alla pro­po­sta poli­tica? La spe­ci­fi­cità ita­liana è che men­tre altrove esi­stono due sini­stre, qui non se ne intra­vede nep­pure una. La mino­ranza del Pd deve avere la con­sa­pe­vo­lezza che il suc­cesso di Renzi, e cioè la sua lea­der­ship alle pros­sime ele­zioni, sarebbe il trionfo di una variante di par­tito per­so­nale a voca­zione popu­li­sta entro cui una com­po­nente di sini­stra risul­te­rebbe schiac­ciata e inutile.

Per­ciò deve imma­gi­nare che qual­cosa può nascere oltre Renzi e non biso­gna dare più come senza alter­na­tive il qua­dro attuale di governo. Se le due sini­stre visi­bili solo in potenza, quella sociale e quella poli­tica, non met­tono in atto un pro­cesso di alter­na­tiva a Renzi, devono ras­se­gnarsi alla rapida deca­denza della qua­lità democratica.

La Repubblica, 4 marzo 2015

«VOI siete in un programma. Le elezioni non cambiano il programma». In questa frase rivolta dal ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble al collega greco Yanis Varoufakis, che gli faceva notare come il suo governo avesse ottenuto un mandato popolare per rinegoziare gli accordi con i partner dell’Eurozona, sta il cuore del rapporto fra economia e politica. Meglio, fra moneta e impero, giusto il titolo della Festa di Limes che si inaugura venerdì prossimo, 6 marzo, al Palazzo Ducale di Genova, e dell’ultimo volume dell’omonima rivista di geopolitica.

Un evento ormai consolidato, che raduna per tre giorni di pubblico dibattito, studiosi, analisti e protagonisti del mondo finanziario, economico e politico, per affrontare insieme questioni di strettissima attualità. Si va dal destino dell’euro e dell’Italia nell’Eurozona, su cui duelleranno venerdì pomeriggio Enrico Letta e Maurizio Landini, alla potenza geofinanziaria delle mafie, dal tesoro del “califfo” al- Baghdadi a quello della Chiesa cattolica, dal primato del dollaro ai paradisi fiscali, dalla crisi del rublo connessa alla guerra in Ucraina al (mal) funzionamento dei mercati.

Tutte partite trattate nel contesto delle crisi e dei conflitti in corso, dove geofinanza e geopolitica si incrociano e scontrano, producendo effetti spesso imprevisti o indesiderati. E nelle quali la politica, intesa come governo della cosa pubblica, sembra oggi soccombere a favore di meccanismi apparentemente semiautomatici, financo algoritmici, che spostano ricchezza e quindi potere in qualche frazione di secondo. Suscitando oscure dietrologie, radicate nella certezza che «money makes the world go around», che sono i soldi a far girare il mondo, come cantava Liza Minnelli in Cabaret .

Per noi italiani ed europei, il nesso fra moneta e impero è inscritto nell’euro. Una divisa che scegliemmo non tanto per ragioni economiche, quanto perché la considerammo premessa dell’Europa come entità geopolitica unitaria. Attore globale a pieno titolo, dotato dello stesso rango e delle medesime ambizioni di Stati Uniti e Cina. L’Unione Europea come moderna forma di impero. Sicché fra i cantori della nostra nuova moneta si evocava nientemeno che Carlo Magno quale paradigma di tanta impresa.

Che cosa resta oggi dell’Europa neocarolingia battezzata alla fonte dell’euro? Per tentare di capirlo, conviene ripartire dallo scontro Schäuble-Varoufakis. Fra il gigante e il nano economico dell’Eurozona. Due paesi totalmente asimmetrici per cultura monetaria e politica, ma dotati della (ingabbiati nella) stessa valuta. Il campione delle “formiche” contro il capofila delle “cicale”, per usare una vieta ma diffusa classificazione che rende il clima dominante nella famiglia europea. Dietro Berlino si riparano i paesi (nordici) che credono nelle virtù salvifiche dell’austerità, dietro Atene quelli (mediterranei, Francia inclusa) che agognano flessibilità, ovvero marcano l’urgenza di sostenere la domanda.

Quello che può parere un conflitto di scuole economico-monetarie è soprattutto uno scontro geopolitico e culturale che investe l’Europa intera. Fino a metterne in questione le radici democratiche e i valori liberali. Al centro, l’idea stessa di sovranità. Il progetto euro ci era stato offerto come un percorso nel quale ciascun contraente, cedendo il diritto sovrano di battere la propria moneta nazionale, avrebbe contribuito ad armonizzare le economie europee, a vantaggio di tutti e di ciascuno. Per poi produrre, in un futuro non invisibile, quello Stato europeo - federale, confederale o d’altra forma - che avrebbe coronato il processo unitario avviato nel 1957 a Roma. Oggi scopriamo che non è così. Anziché unirci, sull’euro ci dividiamo. E ne facciamo fattore di demonizzazione reciproca, i cui limiti estremi si toccano nella disputa greco- germanica, ma che investono tutti i popoli europei, compreso il nostro.

La materia del contendere sembra di natura contabile, di politica monetaria e fiscale, ma in effetti è culturale. Nell’approccio al supremo simbolo fiduciario che è la moneta ci scopriamo diversi. E tendiamo spesso ad attribuire tale diversità a fattori “genetici”, dunque irrazionali e innegoziabili - i greci barano perché sono greci, i tedeschi vogliono “germanizzare” gli altri perché sono tedeschi - invece che storico-politici, ossia calcolabili e disputabili. Un peculiare razzismo intraeuropeo. Risultato: anziché produrre un nuovo impero europeo - democratico, liberale e aperto al mondo - l’euro offre il pretesto per la chiusura e l’imbarbarimento dello spazio europeo. Per la sua disgregazione. Tanto che in ognuna delle crisi in corso, dall’Ucraina al caos nordafricano e mediorientale da cui germina lo Stato Islamico, i Ventotto si offrono rigorosamente divisi, quando non in aperto conflitto.

Di qui parte la tre giorni di Palazzo Ducale. Da Genova, capostipite del capitalismo finanziario italiano e mondiale, sede di quella banca centrale avanti lettera che fu dal 1407 la Casa di San Giorgio, oltre che centro di sperimentazione della “lira di buona moneta”, la divisa stabile che contribuì al primo ciclo di accumulazione del capitale. Dove, se non qui, esplorare la relazione fra moneta e impero?

La Repubblica, 4 marzo 2015, con piccola postilla

IL PD considera le primarie il mezzo principe per la scelta dei candidati alle cariche pubbliche e di partito. Ma sono veramente il sistema migliore? Dipende dagli obiettivi. Se si vuole aumentare la partecipazione alle decisioni non c’è mezzo migliore (al di là di esperimenti attraverso la rete che però sono ancora in fase embrionale).

SEe allo stesso tempo si vuole aumentare la partecipazione alla vita del partito e l’incremento degli iscritti, allora si affacciano seri dubbi. Se infine attraverso questo processo di selezione si vuole aumentare la democraticità interna del partito, non c’è mezzo peggiore: perché seguendo la strada delle primarie sempre e comunque si rafforza una visione plebiscitaria della democrazia deprimendo quella delegata. E si arriva così al pasticcio della Campania: dove si candida, e vince nell’imbarazzo generale, un candidato come De Luca, che il Pd non ha avuto la forza di far desistere. E ora il partito che aveva votato la legge Severino dovrà votare per un candidato governatore contro quella stessa legge.

Quando le primarie vennero introdotte per la prima volta a livello nazionale, nel 2005, si trattava in realtà di incoronare il prescelto, Romano Prodi. All’epoca quella iniziativa serviva soprattutto a legittimare un candidato che non rappresentava i maggiori partiti. Tuttavia emerse anche un effetto laterale: la partecipazione massiccia dei sostenitori, più di 4 milioni. Quella mobilitazione straordinaria, da un lato, costituiva una sorta di esibizione muscolare nei confronti dell’avversario, ma, dall’altro, evidenziava un grande desiderio, fin lì represso, di poter decidere direttamente. Nessuna iniziativa politica aveva mai coinvolto tante persone in Italia.

Le primarie apparvero quindi un efficace strumento per mobilitare l’elettorato e, in una fase di montante antipolitica — il successo del vaffa day di Grillo è di appena due anni dopo — , recuperare legittimità alla politica e ai partiti. Vi era poi un retropensiero in molti dei sostenitori delle primarie: sottraendo alla classe dirigente il potere di scelta dei candidati ai vari livelli si potevano modificare gli assetti interni e avviare un radicale rinnovamento del personale politico. In realtà questo obiettivo è stato raggiunto solo negli ultimi anni sia a livello di partito con la vittoria di Renzi, sia a livello politico con l’affermazione di sindaci e governatori estranei ai gruppi dirigenti consolidati — Pisapia a Milano e Doria a Genova i casi più eclatanti, oltre a Vendola in Puglia già nel 2005. Nel Pd il mito delle primarie è alimentato da una valutazione precisa, ripetuta come un mantra: la maggior “democraticità” di questo sistema.

Il ragionamento è limpido: aumentando il numero delle persone coinvolte nel processo di selezione, il cosiddetto “selettorato”, aumenta anche il grado di democraticità del partito. È evidente che un processo decisionale opaco e concentrato insindacabilmente in poche mani non può essere soddisfacente. Ma la decisione del Pd di estendere il selettorato sempre e comunque a tutti gli elettori — procedura adottata invece in pochissime occasioni da altri partiti europei — contiene in sé due handicap: dispossessa gli iscritti di una funzione che dovrebbe essere qualificante per l’appartenenza ad un partito, e stimola il virus plebiscitario all’interno del partito e, per estensione, nel sistema di rappresentanza italiano.

PNel momento in cui si offre a tutti (compresi i non cittadini italiani e i non aventi diritto al voto come i sedicenni) il diritto a scegliere, l’incentivo ad iscriversi al partito scende vertiginosamente: rimane solo l’adesione ideale, affettiva. E infatti gli iscritti al Pd, nonostante le brillanti performance elettorali e politiche di quest’anno, sono calati. Ma soprattutto, ben al di là della questione della esasperata personalizzazione, quello che più inquieta è la sottile delegittimazione del principio della rappresentanza e della democrazia delegata: come se procedere alle scelte attraverso rappresentanti sia un male. Indebolimento dei partiti, e contestualmente, indebolimento della democrazia sono gli effetti perversi che un uso debordante delle primarie rischia di provocare.

postilla
Non parliamo poi della pesante distorsione che avviene quando la primaria del raggruppamento Rosa è aperta anche ai Celeste, e quindi gli elettori Celeste possono determinare la scelta del candidato Rosa.

Senz'appello la bocciatura del premio Nobel statunitense per la politica economica dell'Eurozona.: Il Fmi ha già ammesso i suoi fallimenti politici e intellettuali, la Troika ancora no. Il manifesto, 3 marzo 2015
Secondo i dati eco­no­mici più recenti, sia gli Stati uniti che l’Europa stanno mostrando segnali di ripresa, anche se è pre­sto per dichia­rare la fine dalla crisi. Nella mag­gior parte dei paesi dell’Unione euro­pea, il Pil pro capite è ancora infe­riore al periodo pre­ce­dente la crisi: un intero decen­nio per­duto. Die­tro alle fredde sta­ti­sti­che, ci sono vite rovi­nate, sogni sva­niti e fami­glie andate a pezzi (o mai for­ma­tesi), un futuro quanto mai pre­ca­rio per le gene­ra­zioni più gio­vani, men­tre la sta­gna­zione – in Gre­cia la depres­sione – avanza anno dopo anno. L’Ue vanta per­sone di talento e con un alto grado di istru­zione. I paesi mem­bri con­tano su forti qua­dri giu­ri­dici e società ben funzionanti.

Prima della crisi, la mag­gior parte aveva per­sino eco­no­mie ben fun­zio­nanti. In alcuni paesi, la pro­dut­ti­vità ora­ria – o il suo tasso di cre­scita – era tra le più alte del mondo. Ma l’Europa non è una vit­tima di errori altrui, come spesso si legge.

Certo, l’America ha mal gestito la pro­pria eco­no­mia, ma il males­sere dell’Ue è in mas­sima parte auto-inflitto, a causa di una lunga serie di pes­sime deci­sioni di poli­tica eco­no­mica, a par­tire dalla crea­zione dell’euro. Seb­bene l’intento sia stato quello di unire l’Europa, alla fine l’euro l’ha divisa: i paesi più deboli (quelli che già nel 1980 in un lavoro per l’Ocse, Fuà indi­vi­duava nei paesi euro­pei di più recente svi­luppo – tutti con alta infla­zione, dua­li­smo ter­ri­to­riale, defi­cit della bilan­cia dei paga­menti e di bilan­cio pub­blico, alta disoc­cu­pa­zione e note­vole quota di eco­no­mia som­mersa — e che ora sono con mal­ce­lata arro­ganza iden­ti­fi­cati come Piigs) sono riu­sciti, per ora, a rima­nere nell’euro a prezzo di disoc­cu­pa­zione e defla­zione sala­riale, crollo della domanda interna e aumento del “sommerso”.

In assenza della volontà poli­tica di creare isti­tu­zioni in grado di far fun­zio­nare una moneta unica — innanzi tutto una poli­tica fiscale unica — nuovi danni si aggiun­ge­ranno ai danni già pro­dotti. Gli squi­li­bri in Europa sono aggra­vati dalla diver­genza nelle espor­ta­zioni nette, e solo una poli­tica fiscale comune può far in modo che i flussi com­mer­ciali del Por­to­gallo verso l’Olanda abbiano la stessa impor­tanza (cioè nulla) di quelli, ad esem­pio, dell’Oregon verso il Mis­souri o del Bran­de­burgo verso la Baviera.

La Grande Reces­sione deriva in parte dalla con­vin­zione che il libe­ri­smo di mer­cato avrebbe ripor­tato le eco­no­mie su di un sen­tiero di cre­scita “ade­guato”. Tali spe­ranze si sono rive­late sba­gliate non per­ché i paesi dell’Ue non sono riu­sciti a rea­liz­zare le poli­ti­che pre­scritte, ma per­ché i modelli su cui hanno pog­giato quelle poli­ti­che sono gra­ve­mente viziati.

In Gre­cia, ad esem­pio, le misure intese a ridurre il peso debi­to­rio hanno di fatto lasciato il paese più inde­bi­tato di quanto non fosse nel 2010: il rap­porto debito-Pil è aumen­tato a causa dello schiac­ciante impatto dell’austerità fiscale sulla pro­du­zione. Il Fondo mone­ta­rio inter­na­zio­nale ha ammesso que­sti fal­li­menti poli­tici e intel­let­tuali. Verrà anche il giorno in cui anche la Troika rico­no­scerà il fal­li­mento delle poli­ti­che di auste­rità e della teo­ria che l’hanno ispi­rate. A noi non resta che con­ti­nuare ad impe­gnarci per­ché que­sto avvenga il prima pos­si­bile rispar­miando inu­tili sof­fe­renze ai popoli dell’Europa.

I lea­der euro­pei restano con­vinti che la prio­rità debba essere la riforma strut­tu­rale. Ma i pro­blemi che men­zio­nano erano evi­denti negli anni pre­ce­denti la crisi, e non ave­vano fer­mato la cre­scita allora. All’Europa serve più che una riforma strut­tu­rale all’interno dei paesi mem­bri. All’Europa serve una riforma della strut­tura dell’eurozona stessa, e l’inversione delle poli­ti­che di auste­rity, che non sono riu­scite a riac­cen­dere la cre­scita economica.

Con­di­vi­dere una moneta unica costi­tui­sce ovvia­mente un pro­blema poi­ché così facendo si rinun­cia a due dei mec­ca­ni­smi di aggiu­sta­mento: i tassi d’interesse ed il cam­bio. Se si ade­ri­sce a una moneta unica, la rinun­cia ad alcuni stru­menti di poli­tica eco­no­mica può essere com­pen­sata sosti­tuen­doli però con qual­cosa d’altro, come una poli­tica fiscale comune e con­di­vi­sione dei debiti, men­tre ad oggi l’Europa non ha messo in campo altro che il Fiscal com­pact. Serve un cam­bia­mento strut­tu­rale dell’Eurozona se si vuole che l’euro possa soprav­vi­vere: o ci sarà l’Europa poli­tica (Stati uniti d’Europa) o non ci sarà l’euro. Coloro che pen­sa­vano che l’euro non sarebbe potuto soprav­vi­vere si sono ripe­tu­ta­mente sba­gliati. Ma i cri­tici hanno ragione su una cosa: a meno che non venga rifor­mata la strut­tura dell’Eurozona, e fer­mata l’austerity, l’Europa non si riprenderà.

Il dramma dell’Europa è ben lungi dall’essere con­cluso. Uno dei punti forza dell’Ue è la vita­lità delle sue demo­cra­zie. Ma l’euro ha lasciato i cit­ta­dini – soprat­tutto nei Paesi in crisi – senza voce in capi­tolo sul destino delle loro eco­no­mie. Gli elet­tori hanno ripe­tu­ta­mente man­dato a casa i poli­tici al potere, scon­tenti della dire­zione dell’economia – ma alla fine il nuovo governo con­ti­nua sullo stesso per­corso det­tato da Bru­xel­les, Fran­co­forte e Berlino.

Ma per quanto tempo può durare que­sta situa­zione? E come rea­gi­ranno gli elet­tori? In tutta Europa, abbiamo assi­stito a un’allarmante cre­scita di par­titi nazio­na­li­stici estremi, men­tre in alcuni Paesi sono in ascesa forti movi­menti sepa­ra­ti­sti. E potranno le eco­no­mie dei paesi peri­fe­rici soprav­vi­vere ad una unione mone­ta­ria incom­pleta e asimmetrica?

Ora la Gre­cia sta ponendo un altro test all’Europa. Il calo del Pil greco dal 2010 è un fat­tore ben più grave di quello regi­strato dall’America durante la Grande Depres­sione degli anni ‘30. La disoc­cu­pa­zione gio­va­nile è oltre il 50%. Il governo del primo mini­stro Ale­xis Tsi­pras ha otte­nuto che venga abban­do­nato l’insano obiet­tivo – assunto dal pre­ce­dente governo Sama­ras – di tri­pli­care l’avanzo pri­ma­rio, anche recu­pe­rando parte dell’evasione fiscale. Forse Syriza aveva acceso aspet­ta­tive diverse sul piano interno. Ma l’Europa tutta deve ora cogliere l’occasione greca per com­ple­tare il dise­gno dell’euro.

Il pro­blema non è la Gre­cia. È l’Europa. Se l’Europa non cam­bia – se non riforma l’Eurozona e con­ti­nua con l’austerity – una forte rea­zione sarà ine­vi­ta­bile. Forse la Gre­cia ce la farà que­sta volta. Ma que­sta fol­lia eco­no­mica non potrà con­ti­nuare per sem­pre. La demo­cra­zia non lo per­met­terà. Ma quanta altra sof­fe­renza dovrà sop­por­tare l’Europa prima che torni a par­lare la ragione?

* In col­la­bo­ra­zione con Mauro Gal­le­gari Par­ziale copy­right Pro­ject Syndic

Il manifesto, 3 marzo 2015

Il Los Ange­les Police Depart­ment è di nuovo al cen­tro della cro­naca degli abusi di poli­zia dopo la morte di un uomo fred­dato a colpi di pistola da tre agenti nel sob­borgo di Skid Row. L’episodio avve­nuto dome­nica è stato ripreso da un video dive­nuto virale in rete in cui si vedono sei poli­ziotti che cir­con­dano un uomo in evi­dente stato di agi­ta­zione. All’inizio del fil­mato gli agenti gli stanno attorno e l’uomo comin­cia a dime­narsi roteando le brac­cia nella loro direzione.

I poli­ziotti gli sal­tano addosso, un paio di essi lasciano cadere in terra i man­ga­nelli che ave­vano impu­gnato; una donna minuta, magris­sima e, si direbbe, anziana, ne rac­co­glie uno, due agenti che la sovra­stano di almeno 40 cen­ti­me­tri lasciano la mischia e si lan­ciano sulla esile donna afroa­me­ri­cana amma­net­tan­dola bru­sca­mente a terra. Nel frat­tempo sullo sfondo i quat­tro rima­nenti poli­ziotti con­ti­nuano la col­lut­ta­zione con l’uomo, iden­ti­fi­cato solo col nomi­gnolo “Africa”. Pure lui, ad un certo punto, atterra sulla schiena. Volano dei pugni, si sente il tic­chet­tio carat­te­ri­stico della sca­rica elet­trica dei taser poi d’improvviso un paio di agenti bal­zano in piedi con pistole pun­tate a terra e si sen­tono esplo­dere 5 colpi. Sono tre alla fine i poli­ziotti con l’arma puntata.

Nel video si vede e si sente anche la rea­zione dei nume­rosi astanti che urlano all’indirizzo degli agenti: «L’avete ammaz­zato, bastardi!» «Era disar­mato, qui nes­suno ha una pistola!» «Sei con­tro uno, vigliac­chi figli di puttana!».

Nel coro d’indignazione spon­ta­nea dei pre­senti arri­vano altre volanti e rin­forzi che si dispon­gono a cor­done e inti­mano alla gente di allon­ta­narsi. Si con­clude così l’ultimo, enne­simo, film di vio­lenza omi­cida poli­zie­sca desti­nata a pun­tare nuo­va­mente i riflet­tori su una piaga cro­nica con cui gli Stati uniti sten­tano a fare i conti e in cui ancora una volta si inter­se­cano letal­mente annosi pro­blemi sociali. Il raz­zi­smo — ancora una volta la vit­tima è nera — ma anche uno dei poli­ziotti che appa­ren­te­mente ha fatto fuoco lo è.

La men­ta­lità “mili­ta­riz­zata” delle forze dell’ordine che ha nuo­va­mente pro­vo­cato l’escalation vio­lenta di una nor­male situa­zione di ordine pub­blico in tra­ge­dia, e infine la gigan­te­sca disu­gua­glianza in mostra sui mar­cia­piedi delle città ame­ri­cane. Nel caso di Skid Row, un “quar­tiere” di un paio di chi­lo­me­tri qua­drati adia­cente alla zona di gal­le­rie d’arte e loft riqua­li­fi­cati in appar­ta­menti di lusso di Down­town, è adi­bito a a bidonville-dormitorio per migliaia di home­less che bivac­cano in tende, sca­tole di car­tone e altri ripari di for­tuna in abbiette con­di­zioni di squallore.

Le con­di­zioni di impres­sio­nante emar­gi­na­zione sono frutto in gran parte della com­pleta man­canza di rete di assi­stenza sociale e psico sani­ta­ria. Una grande per­cen­tuale degli home­less di Skid row sof­fre infatti di disturbi psi­chici, pazienti bipo­lari o psi­co­tici “orfani” di strut­ture pre­po­ste, abban­do­nati alla strada (qual­che anno fa venne per­fino docu­men­tata la pra­tica di ospe­dali del Nevada di dimet­tere pazienti psi­co­la­bili con ambu­lanze sca­ri­can­doli not­te­tempo nella zona). Era que­sto il caso anche di “Africa” giunto sui mar­cia­piedi del quar­tiere dopo un sog­giorno decen­nale in un ospe­dale psichiatrico.

In man­canza di strut­ture tera­peu­ti­che ade­guate, le “cure” di que­sti malati sono “appal­tate” alla poli­zia e alla loro tol­le­ranza zero. Nel caso dell’uomo ucciso dome­nica avrebbe preso la forma di un’ inti­ma­zione a sman­tel­lare una tenda. Quando que­sti, in stato con­fu­sio­nale, si sarebbe rifiu­tato i poli­ziotti lo avreb­bero estratto con la forza dal rifu­gio – il resto lo rac­conta il video.

Subis­sato di pro­te­ste, il dipar­ti­mento ha invi­tato i cit­ta­dini a «non for­marsi pre­con­cetti» annun­ciando una «inda­gine appro­fon­dita» sull’accaduto e pre­fi­gu­rando comun­que già da ora l’ipotesi di una «azione difen­siva» degli agenti in seguito al ten­ta­tivo della vit­tima di affer­rare una delle loro armi: in altre parole l’abituale copione impie­gato in que­sti casi che fini­scono rego­lar­mente con l’assoluzione degli agenti. Il Lapd non è nuovo a que­sto tipo di epi­so­dio, dal 2000 ad oggi i “morti per poli­zia” sono stati oltre 600. Dif­fi­cil­mente l’uccisione di Africa avrà un esito diverso

«Su Avvenire appello a Renzi da quarantaquattro deputati della maggioranza: “Occasione irripetibile per una svolta epocale” La norma inserita nel decreto messo a punto dalla Giannini. Ma servono quattrocento milioni. Domani il Consiglio dei ministri». La Repubblica, 2 marzo 2015

Gli sgravi fiscali per le famiglie che pagano una retta agli istituti paritari sono previsti nel decreto “La buona scuola”, appena licenziato dal ministero dell’Istruzione. Il ministro Stefania Giannini nel fine settimana ha inviato l’intero articolato a Palazzo Chigi. Oggi il premier Matteo Renzi lo prenderà in esame e domani discuterà in Consiglio dei ministri, all’interno della corposa riforma scolastica centrata sulle assunzioni dei precari, del provvedimento più politico: gli sgravi a chi frequenta scuole non di Stato. Allo Stato costerebbero, s’ipotizza, 400 milioni.

Decide Renzi, ecco, ma alla vigilia del Cdm un pezzo del centrosinistra (e un pezzo consistente del Pd) chiede al premier di aiutare una quota del mondo scolastico – le paritarie – che oggi attraversa la sua crisi più profonda dal dopoguerra. Un pressing che già divide la maggioranza. Quarantaquattro deputati, ieri, hanno pubblicato sul quotidiano cattolico Avvenire una lettera lunga due cartelle in cui chiedono l’approvazione del provvedimento sugli sgravi: “La Buona scuola”, scrivono al premier, «rappresenta il più importante tentativo di riforma dall’epoca della riforma gentiliana» ed è quindi «un’occasione irripetibile per superare lo storico gap della scuola in tema di pluralismo e libertà di educazione». Dall’unità nazionale in poi, si legge, «si è trasformata una scuola a vocazione comunitaria in una scuola per ricchi e si sono costrette le famiglie che optano per la scuola non statale a una doppia imposizione, quella della tassazione generale e quella delle rette».

Nella lettera si ricorda che la paritaria in Italia è fatta di 13mila istituti e accoglie un milione e 300 mila alunni, che con 478 milioni l’anno di finanziamento lo Stato risparmia oltre 7 miliardi di potenziali spese. Citando Antonio Gramsci, don Milani a Maria Montessori, si evidenzia come la scuola pubblica non statale sia «in lenta asfissia, una morte lenta», che numerosi istituti, «talora storici», hanno chiuso mentre «le scuole che resistono sono costrette ad aumentare le rette». Quindi, «un sistema fondato sulla detrazione fiscale, accompagnato dal buono scuola per gli incapienti, potrebbe essere un primo significativo passo verso una soluzione di tipo europeo».

Fra le 44 firme ci sono, ovviamente, i centristi della maggioranza: cinque di Area popolare tra cui Buttiglione e la Binetti, cinque del Centro democratico, uno di Scelta civica. Trentadue i deputati del Pd, fra cui l’ex ministro Fioroni, il teorico del no profit Patriarca e Simona Malpezzi, ex insegnante vicina agli attuali responsabili scuola del partito. Dice la Malpezzi: «Sono profondamente laica e credo che tutti debbano essere liberi di scegliere. Le paritarie quasi sempre suppliscono ai posti non creati dallo Stato. Non possiamo investire, come faremo, 100 milioni nelle materne e poi non consentire alle paritarie di fare la loro parte. Ho vissuto all’estero: in Francia la parità tra pubbliche e private è completa».

Il sottosegretario Gabriele Toccafondi, Ncd, ex Forza Italia, a Firenze sempre all’opposizione di Renzi, nelle ultime settimane ha lavorato agli sgravi fiscali, al buono scuola per i redditi bassi e all’estensione del 5 per mille anche agli istituti privati. Tutto questo, di concerto con il ministro Giannini. La proposta di sgravio prevede una detrazione del 19 per cento modulata sui redditi. Dice Toccafondi: «Non aiutiamo le scuole paritarie, a cui non diamo un euro in più, aiutiamo le famiglie che le frequentano. Non tutte oggi riescono a pagare la retta mensile, che alle materne e alle elementari viaggia tra i duecento e i quattrocento euro. La scuola è una sola: se cede la gamba delle paritarie cede anche quella delle statali, che certo non potrebbero sostenere un altro milione di studenti. Il fondo per le paritarie nel 2015 resta a 478 milioni, già tagliato di ventidue».

L’Unione degli studenti scrive: «La lettera dei 44 parlamentari è vergognosa, i fondi alle paritarie private sono uno spreco e uno schiaffo a una scuola pubblica che sta vivendo una situazione drammatica».

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CIl manifesto, 1.marzo 2015
Nel suo ultimo edi­to­riale Euge­nio Scal­fari ha sol­le­vato un tema d’importanza cru­ciale: il declino della demo­cra­zia par­te­ci­pata. Rav­vi­san­done la ragione nell’indifferenza dei cit­ta­dini. Che la demo­cra­zia sia in dif­fi­coltà è fuor di dub­bio. Ma forse l’indifferenza non è causa, bensì effetto delle tra­sfor­ma­zioni cui la demo­cra­zia è sot­to­po­sta e che hanno deru­bri­cato da demo­cra­zia par­te­ci­pante a demo­cra­zia respin­gente. L’Italia non è un caso unico. Le demo­cra­zia respin­genti ci sono ovun­que e in Ita­lia la si è comin­ciata a fab­bri­care da un quarto di secolo fa.

Renzi sta solo met­tendo il tetto all’edificio di una demo­cra­zia che odia i cit­ta­dini. L’odio per i cit­ta­dini si mani­fe­sta anzi­tutto sul ter­reno delle poli­ti­che. L’austerità è comin­ciata tre anni fa. Ma le decur­ta­zioni allo Stato sociale sono in atto da tempo, come da parec­chio si è aggra­vata a dismi­sura la pres­sione fiscale sui red­diti medi e bassi. E sono enor­me­mente peg­gio­rate le con­di­zioni dell’occupazione. Non solo di lavoro ce n’è meno, ma la sua qua­lità sta decli­nando da un pezzo, nel pub­blico e nel pri­vato. In com­penso chi comanda non pensa a dismet­tere lussi inu­tili e dan­nosi, come la Tav e gli F35, né tan­to­meno si mostra dispo­sto a ridurre gli inde­centi pri­vi­legi di cui godono i poli­tici e butta solo fumo negli occhi.

La seconda mani­fe­sta­zione di odio per i cit­ta­dini sta nel respin­gerli come tali. Votare non è un gesto natu­rale. Per molti, spe­cie i gio­vani, è un atto che va inco­rag­giato. Sia tra­mite le per­for­man­ces della poli­tica, che al momento non aprono nean­che più alla spe­ranza, sia sot­to­li­nean­done l’importanza. Sia mediante un’azione costante di col­ti­va­zione del civi­smo un tempo svolta dalla scuola e dai par­titi.

L’istruzione ha pure la fun­zione di socia­liz­zare i gio­vani alla vita col­let­tiva e alla par­te­ci­pa­zione poli­tica. Ben cono­sciamo le con­di­zioni lamen­te­voli in cui la scuola è ridotta e lo spre­gio con cui sono trat­tati gli inse­gnanti. Quanto ai par­titi, il loro sof­fo­ca­mento è stato deli­be­rato. In nome di una demo­cra­zia che decide, li si è disat­ti­vati, pro­met­tendo che a col­ti­vare il civi­smo avrebbe prov­ve­duto la società civile. Solo che la società civile, peral­tro ambi­gua, non com­pensa l’attività di edu­ca­zione e inci­ta­mento che i par­titi di massa svol­ge­vano su vasta scala. Sono rima­sti i par­titi impro­pria­mente detti per­so­nali, che sono cir­co­scritte cosche affa­ri­sti­che, riser­vate ai super­pro­fes­sio­ni­sti della poli­tica, che non sanno nem­meno com’è fatto il mondo e che nutrono uni­ca­mente ambi­zioni di potere.

I cit­ta­dini non sono scioc­chi e osser­vano tutto que­sto. Pos­sono magari illu­dersi, non tutti, ma per un attimo e in realtà sono indi­gnati e arrab­biati. Di quali mezzi tut­ta­via dispon­gono per mani­fe­stare la loro sofferenza?

Ci hanno per­fino pro­vato. Per citare l’esperimento più recente: una quota non irri­le­vante di elet­tori ha pro­vato a ribel­larsi votando per Beppe Grillo. Ma per sco­prire ben pre­sto che il suo incon­te­ni­bile nar­ci­si­smo media­tico è solo ser­vito a ste­ri­liz­zare la loro indi­gna­zione, spia­nando la strada alle bru­ta­lità del ren­zi­smo. Quando non c’è nar­ci­si­smo, com’è suc­cesso in Gre­cia, pare stia andando anche peg­gio. Un popolo intero sta san­gui­no­sa­mente pagando le dis­si­pa­zioni di una ristretta casta di poli­ti­canti e di potenti. Ma tutta l’Europa con­giura affin­ché la sua ribel­lione elet­to­rale, che ha cac­ciato i respon­sa­bili, non pro­duca alcun aggiu­sta­mento. Die­tro la grande nar­ra­zione – let­te­ra­ria, cine­ma­to­gra­fica, media­tica, gior­na­li­stica e spesso anche acca­de­mica – del disin­canto e dell’indifferenza, cova insomma una ribel­lione silen­ziosa, che rischia di avere esiti disastrosi.

Un po’ più di atten­zione andrebbe pre­stata ai dati sull’astensione. Il nostro gar­bato capo del governo si fa forte del 40% di con­sensi otte­nuti alle euro­pee. Che è però solo il 40% del 60% che ha votato. Ovvero: su 10 elet­tori hanno votato in 6, tra cui 2 e mezzo hanno dato al Pd il loro con­senso. Non è poco per riven­di­care un grande con­senso popo­lare? E non c’è per caso il rischio che se un paio di elet­tori arrab­biati smet­tesse di aste­nersi e cedesse alle lusin­ghe di uno dei tanti lea­der popu­li­sti che ci sono in giro ne sca­tu­ri­sca un esito elet­to­rale che chiuda per­sino la depri­mente bot­tega della demo­cra­zia respingente

La Repubblica, 1. marzo 2015

LE MANIFESTAZIONI DI ROMA
di Gad Lerner

Salvini porta in piazza il popolo fascio-leghista tra vaffa e croci celtiche “Renzi servo dell’Europa”. A Roma con i militanti “verdi” anche Casapound e Alba Dorata Attacco ai rom. E sui ladri: se mi entri in casa, poi esci steso

Il camaleonte verdenero ce l’ha fatta. Al termine della sua notevole esibizione di maschia oratoria fascioleghista condita di turpiloquio e sottolineata — lo spiega lui stesso — da un “linguaggio del corpo che è importante”, con ricambio mirato di t-shirt pro-benzinaio veneto che ha ucciso il rapinatore a favore di felpa “Marò liberi subito”, piazza del Popolo lo incorona capo di una nuova destra nazionale.

Se non Duce, almeno ducetto. Glielo concede il portavoce di CasaPound, Simone Di Stefano: “Questa è la più bella piazza che io abbia mai visto a Roma. Oggi nasce un grande fronte politico che riconosce in Matteo Salvini il suo unico leader”. Stampato su uno striscione di fronte al palco, Mussolini fa il saluto romano e dice: “Salvini ti aspettavo”.

Lui li ricambia con l’appello a “tirare fuori le palle” rivolto ai “non omologati alla cultura di sinistra”, perché “io non distinguo gli uomini fra destra e sinistra ma fra produttori e parassiti”. E’ qui che lancerà il suo grido: “Vaffanculo alla Fornero e a chi l’ha portata al governo. Cazzo”, suscitando il tripudio della folla, eccitata anche dall’afrore dei fumogeni da stadio e dai crescendo corali di una musica gotica incalzante.

La nuova destra nazionale trova la sua intelaiatura in una Lega calata dal Nord facendo attenzione a non pronunciare mai la parola “Padania”. Archiviata. Qui si forgia “un popolo fiero” (Giorgia Meloni) pronto a difendere l’Italia da un Renzi che — digrigna i denti Salvini — altri non è se non “il servo sciocco di qualcuno che non ha nome e cognome a Bruxelles”. Un popolo pronto a dire “Stop immigrazione”, anzi, “non passa lo straniero”, come mormorava il Piave cento anni fa.

Ho incontrato decine di leghisti che si godevano la primavera romana, mentre nell’attesa i maxischermi trasmettevano un ininterrotto talk-blob con Salvini one man show . Qualcuno, pochi per la verità, aveva già attaccato un tricolore sotto la bandiera con l’Alberto da Giussano. Vi sentite italiani o padani? “Italo-padani”, mi rispondono dalla provincia di Brescia. Fra loro trovo le uniche due camicie verdi, arrivate da Borgo San Giacomo: “Con tanta gente del Sud abbiamo comuni ideali”. Più entusiasta una varesotta che milita da vent’anni col Carroccio: “Che sollievo, sono felice che apriamo ai meridionali, mi piacciono i loro sentimenti”. Anche se il sollievo riguarda soprattutto l’aver ritrovato un leader: “E’ un puro, Salvini. Puoi rivoltarlo come un calzino e non trovi niente a quel ragazzo lì”.

Alla fine registrerò solo un militante di Monza coi capelli rossi disposto a confidare: “Mi spiace ma non sono d’accordo. Salvini va a dare l’appoggio ai pescatori siciliani, ma secondo me quelli lì non hanno mai pagato le tasse”.

Dettagli marginali. La piazza leghista che si riscalda nell’attesa del gran finale, è già inebriata dall’amalgama a cui Salvini la destina: integrare al suo interno una porzione rilevante della destra romana. Li riconosci per le bandiere tricolori o per gli striscioni “Roma con Salvini”, segnali di una forza attrattiva reale esercitata su una Forza Italia in disgregazione. Per lo più sono ex missini, dallo stato d’animo un po’ interdetto: “Sa come diciamo nelle Marche? In mancanza di meglio si va a letto con la moglie. Di Salvini non è che ci piaccia tutto, ma la confluenza è possibile”.

Fermento sul palco, fra poco si comincia. Alt. Alle 15,15 in punto dal colle del Pincio, inquadrati in una coreografia militaresca studiata al millimetro, discende a serpentina la schiera imbandierata di CasaPound con le tre spighe del suo nuovo brand: “Sovranità”. E con le bandiere dell’Unione Europea sovrastate da una X rossa. Ci sono anche attivisti di Alba Dorata. Ora la piazza è ancor più fascioleghista.

Potevano mancare i vessilli della Russia di Putin? Sventolano già sul palco quando incontro la bionda Irina e le chiedo se ha un’opinione sull’assassinio di Boris Nemtsov: “Ormai non contava più nulla, e a noi non importa”. Capisco che la fiancheggiano personaggi importanti nel fare da tramite fra la Lega e Russia Nuova, il partito di Putin. Sono il portavoce di Salvini, Gianluca Savoini, divenuto presidente di un’Associazione Lombardia-Russia, e l’ex deputato Claudio D’Amico che indossa una t-shirt col volto di Putin e spiega: “Ci unisce la lotta in difesa dell’identità dei nostri popoli fondata sui valori della cristianità e della famiglia tradizionale”.
Ora il quadro ideologico del nuovo fascioleghismo, che accantona la secessione padana per farsi destra nazionale, è completo.
Il comizio di Salvini lo riempirà delle robuste dosi di cattiveria richieste a un capo, quando voglia corrispondere al bisogno popolare di “uomo forte”. Eccolo che inizia già con l’esibire i muscoli contro i centri sociali che volevano rovinargli la festa: “Tornatevene là da dove siete usciti”, grida. Inutile dire che “nella nostra Italia non c’è posto per i campi rom”. Qui il tono di voce si altera: “Gli diremo: fra tre mesi arrivano le ruspe, si sgombera. Va a fare il rom da qualche altra parte! E se mi arriva la diffida del Comitato antidiscriminazione — sapete che cosa? — io mi ci soffio il naso”. Ma il culmine deve ancora arrivare: “Per noi non esiste eccesso di legittima difesa. Se entri in casa mia in piedi, devi sapere che puoi uscirne steso”.
La folla è in visibilio, il comizio non fa rimpiangere quelli di Almirante nella piazza del Popolo fascista di quarant’anni fa. Si commuove anche il vecchio signore in sedia a rotelle che sventola una bandiera della Repubblica di Salò. Ora Salvini può strafare. Citando il crollo delle nascite in Italia, rivela che “è in corso un tentativo di sostituzione di popoli”. Chi è il primo ladro in Italia? “Si chiama Stato”. Non arriva a dire — come aveva fatto prima Luca Zaia — che “l’operazione Mare Nostrum ci costa un miliardo”. Ma raccomanda alla Marina militare: “Salvateli pure, i profughi, ma riportateli a casa loro”.
“Prima gli italiani” è la parola d’ordine che suggella il patto politico di piazza del Popolo. Italiani cui

si promette l’uscita dall’euro e un’aliquota fiscale ridotta al 15%, “così saranno gli svizzeri a esportare da noi i loro capitali”.

E’ qui che Matteo Salvini rivela le sue doti camaleontiche. Con tutte quelle migliaia di leghisti davanti non poteva certo ripetere che ha sbagliato a parlar male dei napoletani. Non dirà neppure “voglio bene a Roma, amo Venditti, a casa mi capita pure di cantare Roma Capoccia”, come testualmente dichiarato in precedenza, per ammorbidire una capitale finora troppo vilipesa. E allora il nostro camaleonte trascolora usando la formula: “Difendiamo l’Italia, anzi, le Italie, perché l’Italia è bella quando rispetta le differenze da Nord a Sud”. A Roma direbbero: un vero paraculo. Ma siccome agli italiani la faccia tosta non dispiace, e qui tutti lo vogliono a capo di una destra che per tutto il pomeriggio Berlusconi non lo nomina neanche più una volta, la formula “L’Italia, le Italie” gliela fanno passare volentieri.

Il camaleonte è velocissimo nell’adattarsi al progetto della nuova destra nazionalista. Se appena eletto segretario della Lega auspicava la deportazione “in un’isola deserta del Pacifico circondata da squali” di Rutelli, Veltroni e Alemanno — colpevoli di aver cumulato un deficit di 16 miliardi al Campidoglio — sentite come ha risposto a un intervistatore romano nei giorni scorsi: “Non voteremo più contro i fondi per Roma Capitale, purché vengano usati bene”.

Precipita così nell’irrilevanza lo scontro politico veneto fra Zaia e Flavio Tosi. Qui, con la benedizione di Marine Le Pen, si annuncia la prossima cacciata del governo Renzi e l’inizio di un’offensiva continentale contro Bruxelles, figuriamoci se qualcuno si abbassa a trattare di beghe locali. In piazza, i veneti sembrano tutti convinti che alla fine Tosi si adeguerà e rientrerà nei ranghi. Ma il non detto di quella lacerazione è un sintomo: cambiare pelle alla Lega, pur nell’ebbrezza del successo, non sarà faccenda indolore. Perché da quasi tre decenni il Carroccio è composto da un delicato equilibrio di localismi, e quindi il leghismo che diventa partito nazionale snatura un modo di essere leghisti di territorio che è stato anche un patrimonio di militanza, oltre che di clientele. Quando Giuseppe Berta, nel suo ultimo saggio “La via del Nord” (Il Mulino) annuncia la fine della questione settentrionale, perché la società del Nord non è più il motore dello sviluppo del Paese, forse sta spiegandoci anche la scelta di Salvini: “L’offerta politica ormai è uguale a tutte le latitudini”, tanto vale smetterla di fare i padani, meglio occupare l’enorme spazio lasciato vuoto a destra.

Quando lo speaker alla fine grida “Siete in centomila, fatevi sentire!”, l’avrà anche sparata grossa. Ma l’energia sotterranea della destra italiana ieri si è davvero condensata in piazza del Popolo, sviluppando una capacità d’attrazione sui delusi di Forza Italia e del M5S che potrebbe dare esiti sorprendenti. Il ducetto camaleontico Salvini sospinto da una corrente reazionaria fino a Palazzo Chigi? Oggi ci appare assurdo, ma provate a contare quante volte il nostro paese si è già misurato con esiti assurdi. A Roma il fascioleghismo ha celebrato il suo battesimo ufficiale. Sottovalutarne il pericolo equivarrebbe a ignorare la storia d’Italia.

LACARICA DEGLI ANTI CARROCCIO FESTA PER VENTIMILA
DOPO LA PAURA “SIAMO DI PIÙ, LACAPITALE È NOSTRA”

di Corrado Zunino


Senza casa, migranti, centri sociali e partigiani dell’Anpi contro l’alleanza Lega-CasaPound Balli e concerti per dire “no a razzismo e fascismo” e “al malgoverno che ci ruba la vita”

Sono tanti nelle strade di Roma, gli anti-Salvini. Ventimila almeno, quando la Piazza del Popolo fascio-leghista si mostra per metà vuota e con larghi spazi. La battaglia delle presenze l’hanno vinta gli “anti” (fascisti, leghisti, razzisti). Non sono i trentacinquemila urlati dal camioncino che ritma i passi e dà gli aggiornamenti — «... hanno arrestato una compagna dei senza casa... Nella notte a Napoli dieci fascisti hanno attaccato due dei nostri...» —, ma il fiume di persone la cui testa è alla fine di via Cavour non lascia vedere la sua coda, che ancora curva in piazza dell’Esquilino: ottocento metri di folla lenta e divertita.

«Salvini, hai detto che siamo quattro squadristi: contaci uno a uno, non ci riesci manco se resti qui una settimana». La bella giornata, 18 gradi alle due del pomeriggio, e la buona vittoria in strada — sì che gli antagonisti giocano in casa, la capitale, ma sono stati gli altri, i leghisti nazionali, ad aver fatto le prime convocazioni e allestito treni e pullman — hanno tolto micce e aggressività a una delle sfilate più temute dell’anno. Alla fine, si è risolta nel corteo più pacifico degli ultimi dieci. Non c’è stato un assalto alle vetrine delle banche, dei postamat, non si sono visti cappucci alzati né sgraffittate sui muri. Qualche fumogeno, niente bomboni: «Con i numeri ti abbiamo respinto, Salvini, noi abbiamo memoria della tua storia e ti diciamo: “Roma te schifa”». Era venuti qui con buone intenzioni — pochi caschi allacciati alla cinta, dal primo pomeriggio — e le hanno mantenute.

Ad aprire la marcia il fumettone di Zerocalcare, #Maiconsalvini, ma anche contro tutte le politiche di austerity: «Sono il problema del paese e dell’Europa, non gli immigrati ». Renzi non piace di là, sul palco del Popolo, né di qua. Ma qua l’urgenza è dare una risposta antifascista immediata: i vecchi e meno vecchi dell’Anpi, che sullo striscione portano una foto seppiata di ragazzi partigiani con le munizioni a tracolla e la Piramide alle spalle, ballano al ritmo dei percussionisti de “la murga”.

Tre canotti grigi, servono per respingere il leader leghista, vengono issati e portati da piazza Vittorio fino a Sant’Andrea della Valle, tre chilometri lontano. Una ragazza recupera il dark di Siouxsie and the Banshees, nel gruppo si canta: “Qui non si sgombera, Roma si barrica”. La rappresentanza di Sel, lo striscione di Rifondazione, sì, c’è ancora. La Banda Bassotti che vuole il Donbass, in Ucraina, libero dai nazisti.

Al solito i cortei romani partono pigri e poi si gonfiano. L’antagonismo storico della città è rappresentato da Nunzio D’Erme, un orecchino per lobo. Poi il Fronte della gioventù comunista, cresciuti a cento, manifestazione dopo manifestazione, le solite bandierine rosse e i canti della Resistenza: «Salvini, attento, ancora fischia il vento». Molti migranti, sotto le insegne “La casa si prende”. Quelli dell’abitare sono gli unici con un cordone di sicurezza attorno. «Siamo la Roma che reagisce e non abbassa la testa, che odia i fascisti e i razzisti, quella degli sfruttati e degli studenti che studiano nelle città distrutte da anni di malgoverno: vogliamo riprenderci le strade dalle mani di coloro che stanno rovinando le nostre vite».

Si teme, in avvio, davanti ai magazzini allo Statuto chiusi, che i conti non tornino, che i pochi, frustrati, possano diventare aggressivi, ma all’altezza della Basilica di Santa Maria Maggiore il corteo è già raddoppiato e svelenito. Ancora una brutta notizia — in cinque, a Termini, hanno picchiato uno dei nostri —, ma la sostanza è quella di un sabato senza violenza, dopo un venerdì di assalti in Piazza del Popolo e scontri con la polizia in Piazzale Flaminio. La mattina sono stati segnalati alcuni cassonetti bruciati sulla Tiburtina e sulla Nomentana, all’altezza del raccordo, ma ora il corteo sfila davanti a bar, gelaterie, ristoranti, minimarket, librerie aperte. Su due ruote quelli di “Biciclissima”.

Lungo i Fori imperiali vanno al microfono le star del reggaeton italiano: musica dal vivo, camminante. Poi gli Assalti frontali: “Roma meticcia”. Piazza Venezia, quindi davanti alle vecchie Botteghe Oscure e Largo Argentina: «Siamo troppi per entrare in Campo de’ Fiori». Allora retromarcia, con la coda che diventa testa e i troppi in corteo che adesso si mischiano con quelli delle domeniche pedonali. Al tramonto, le diciotto e trenta, il corteo dei movimenti romani si scioglie davanti al Colosseo, ecco i primi petardi. Un gruppo prosegue fino a San Lorenzo: «Non vogliamo andar via da soli». Il leone di San Marco è ancora incappucciato. A fianco, la scritta: “Odio la Lega”.

Il manifesto, 28 febbraio 2015

Le cose non sono affatto facili per Ale­xis Tsi­pras, pro­mo­tore di un piano anti-austerity che mette in dub­bio le fon­da­menta dell’Europa neo­li­be­rale. Il fatto che il nego­ziato all’Eurogruppo si sia con­cluso con l’approvazione dell’elenco delle riforme non vuol dire che la ten­sione ad Atene sia calata. Anzi, dopo l’ottimismo dei primi giorni il clima si fa pesante e tra oggi e domani si aspetta un dibat­tito acceso alla riu­nione del comi­tato cen­trale di Syriza.

Il pre­mier deve fare i conti non solo con i pro­blemi di liqui­dità già pre­senti nelle finanze dello stato, i ricatti dei part­ner euro­pei e le cri­ti­che da parte dei con­ser­va­tori, socia­li­sti, comu­ni­sti del Kke com­presi, ma deve con­fron­tarsi con il suo alter-ego: le sue pro­messe durante la cam­pa­gna elet­to­rale, i suoi com­pa­gni all’ interno del Syriza secondo i quali l’ auste­rity avrebbe dovuto finire il giorno dopo le ele­zioni.

L’aveva pro­messo pure Tsi­pras un anno fa. Voci che si mol­ti­pli­cano giorno dopo giorno per espri­mere il loro dis­senso all’accordo di Bru­xel­les, nono­stante il governo con­ti­nui a rac­co­gliere il soste­gno della stra­grande mag­gio­ranza dei greci (oltre l’ 80%).

Ale­xis Tsi­pras per evi­tare che il suo ese­cu­tivo sia una «paren­tesi di sini­stra», come vor­reb­bero i suoi avver­sari a Bru­xel­les e ad Atene, e per gua­da­gnare tempo ha pre­fe­rito la svolta. Che sia una «retro­mar­cia di destra» oppure solo rea­li­smo ha poca impor­tanza per un sem­plice motivo. L’ alter­na­tiva sarebbe uno scon­tro fron­tale ancora più duro tra il neo governo e i cre­di­tori inter­na­zio­nali, la chiu­sura dei rubi­netti dalla Bce, il default, ovvero il tra­collo finan­zia­rio, l’ uscita obbli­gata del Paese dalla zona euro.

Una situa­zione che sem­pre ha pro­vo­cato un dibat­tito acceso in Syriza come alter­na­tiva per sgan­ciarsi dalla tane­glia del debito pub­blico e dai cre­di­tori, ma che oggi esprime una mino­ranza. Il pro­gramma della sini­stra radi­cale greca è chiaro: com­bat­tere per un cam­bia­mento all’ interno dell’ eurozona.

Ale­xis Tsi­pras ha otte­nuto un dif­fi­cile equi­li­brio tra le richie­ste dei cre­di­tori inter­na­zio­nali e il suo piano anti-austerity; tra la neces­sità di retro­ce­dere momen­ta­nea­mente, accet­tando parte del pro­gramma pre­ce­dente e il biso­gno di affron­tare la crisi uma­ni­ta­ria, riav­viare l’economia e pro­muo­vere la giu­sti­zia fiscale, ricon­qui­stare l’occupazione, tra­sfor­mare il sistema poli­tico per raf­for­zare la democrazia.

Ora facendo un reso­conto all’ interno della sini­stra radi­cale, dopo l’ accordo di Bru­xel­les, que­sto equi­li­brio non piace. Non piace - si sapeva a priori - al potente Ari­stero Revma (Cor­rente di sini­stra) o Ari­steri Plat­forma (Piat­ta­forma di sini­stra) che ha cara­te­riz­zato il piano appro­vato dall’Eurogruppo «un accordo indo­vi­nello». Non piace all’eurodeputato del Syriza, Mano­lis Gle­zos, figura emble­ma­tica e sim­bolo della resi­stenza greca con­tro l’ occu­pa­zione nazi­sta. Le parole di Gle­zos sono state para­go­nate con una bomba alle fon­da­menta del neo governo Syriza-Anel, un attacco per­so­nale con­tro Ale­xis Tsi­pras. «L’accordo all’ Euro­gruppo é una ver­go­gna» ha scritto il 91enne Gle­zos al suo blog. E poi ha chie­sto «scusa al popolo greco».

La riu­nione del gruppo par­la­men­tare di Syriza di gio­vedì è durata dieci ore. Una mara­tone durante la quale il pre­mier ha chie­sto ai par­la­men­tari di espri­mersi aper­ta­mente sul con­te­nuto dell’ accordo e di votare per alzata di mano. «Il risul­tato dell’accordo dipen­derà e sarà giu­di­cato dal modo in cui lavo­re­remo come governo» ha detto Tsipras.

Niente da fare. Le anime non si cal­mano, i dis­sac­cordi riman­gono, i dis­si­denti insi­stono. Il mini­stro della Rico­stru­zione e dell’ Ambiente, Pana­gio­tis Lafa­za­nis e la pre­si­dente della Camera, Zoe Kon­stan­to­pou­lou, ambe­due espo­nenti della «Cor­rente di sini­stra» hanno detto che l’accordo è, in sostanza, un’estensione del pre-esistente memo­ran­dum (stessa cri­tica è stata mossa anche da Nea Dimo­kra­tia). Con­trari anche ex socia­li­sti, come il pro­fes­sore del Diritto di lavoro, Ale­xis Mitro­pou­los, espo­nente di spicco di Syriza. Alla fine la vota­zione: 20 (secondo altri più di 30) depu­tati sui 149 avreb­bero votato con­tro o scheda bianca all’ accordo di Bru­xel­les, men­tre un numero mag­giore sarebbe con­tra­rio a pre­sen­tare tale pro­po­sta in par­la­mento per la rati­fica come invece chiede da giorni l’opposizione. E la domanda che ci si pone è «come un mini­stro (Lafa­za­nis) con­tra­rio all’accordo di Bru­xel­les appli­cherà il suo contenuto?».

Come se non bastasse tutto que­sto, gio­vedì in un docu­mento reso pub­blico il pro­fes­sore di eco­no­mia, Yan­nis Milios, respon­sa­bile tut­tora della poli­tica eco­no­mica del Syriza, e altri due diri­genti del par­tito, cri­ti­cano aspra­mente l’operato del mini­stro delle finanze Yanis Varou­fa­kis. Lo scon­tro ideo­lo­gico tra un diri­gente con­si­de­rato mar­xi­sta e il mini­stro dichia­ra­ta­mente mar­xi­sta, ma di ten­denza keyn­siana, è evi­dente. L’accordo di Bru­xel­les si rife­ri­sce ai «con­trolli da parte dei cre­di­tori inter­na­zio­nali, e non ad uno scam­bio di valu­ta­zioni sull’ anda­mento dell’economia greca… accetta gli aiuti eco­no­mici del pre­ce­dente accordo, non fa rife­ri­mento alla ristrut­tu­ra­zione del debito pub­blico, ma parla di un pro­gramma di soste­ni­bi­lità… non garan­ti­sce la liqui­dità delle finanze» e tutto som­mato «poco ricorda ciò che Syriza pro­me­teva prima del voto del 25 gennaio».

Le trat­ta­tive da parte del governo greco erano «un salto a occhi chiusi», «non c’era un piano ben pre­ciso”, l’accordo «offre tempo ad Atene, ma la scena è sof­fo­cante» con­clude Milios.

Man­canza di espe­rienza di governo da parte della sini­stra greca? Atteg­gia­mento sui­cida, lotta con­ti­nua oppure spi­rito auto­cri­tico affin­ché si vada avanti? Il rea­li­smo poli­tico del pre­mier greco, espresso dopo l’estate scorsa e la tra­sfor­ma­zione rapida della sini­stra radi­cale in una forza gover­na­tiva che deve gestire la realtà, in fondo non è mai pia­ciuto a quelle cor­renti, comu­ni­ste e non, in seno al par­tito, che pre­fe­ri­reb­bero Syriza al 4%, ma «pura e rivoluzionaria».

Non a caso nes­suno tra quelli che cri­ti­cano l’ ope­rato di Tsi­pras e di Varou­fa­kis dicono cosa avreb­bero fatto se fos­sero pre­senti loro alle trat­ta­tive con i «18» dell’eurozona.

Lo scon­tro sarebbe ancora più forte, la rot­tura con i part­ner euro­pei imme­diata, il ritorno alla dracma sem­bre­rebbe quasi l’unica alter­na­tiva per un Paese che con­ti­nua a pro­durre poco. Uno sce­na­rio che ancora non viene escluso del tutto.

«Sbilanciamoci.info, 28 febbraio 2015

Per i classici, la tirannia era il solo vero rischio anti-democratico, nella forma individuale o di piccoli gruppi (di oligarchi). La licenza e l’ingordigia per il potere erano le passioni a rischio di sovvertire l’ordine, spesso con il sostegno del più poveri, mesmerizzati dai demagoghi. Lo scenario che ci possiamo attendere oggi è diverso: non masse anarchiche e in ebollizione, non guerrieri e oligarchi di ceto; ma masse di individui isolati negli stati-nazione e oligarchi della finanza nei villaggi globali. Una società divisa tra subalterni dentro i confini statali e plutocrati dentro i confini del loro potere globale.

Alla base, una convergenza di tutti i poteri che originariamente operavano separatamente, secondo il modello liberale classico: il potere economico, quello religioso e quello politico. Sheldon Wolin ha chiamato questa nuova società un “totalitarismo invertito”, nel quale pubblico e privato diventano simbiotici e perdono la loro specifica distintività. “Invertito” non significa che una sfera prende il posto dell’altra (come col patrimonialismo). Significa che l’una e l’altra sono in un rapporto di integrazione totale (come la scuola statale e quella privata parificata che sono dette appartenere a un sistema pubblico integrato). Convergono e danno luogo a qualche cosa di nuovo, una incorporazione di forme che erano separate. E questo spiega il lamento per il declino dei corpi intermedi: una società totalizzante.

Mentre alle origini della modernità, l’economia di mercato aveva promosso decentralizzazione e frantumato i monopoli (Adam Smith) stimolando la libertà economica e indirettamente l’espansione dei diritti, civili e politici, nella nostra società assistiamo a un processo molto diverso. Qui, imprenditori e capitalisti finanziari alimentano il loro potere nella misura in cui cancellano la decentralizzazione e creano una società organica e incorporata, sia a livello nazionale che internazionale.

Si tratta di un ritorno al monopolio, non più nella forma di un bisogno tirannico di accumulo, come nel passato, ma nella forma organizzata da norme e abiti comportamentali che generano una classe di ricchi globali; una società a sé stante di persone che stilano tra loro contratti matrimoniali, che non hanno nazione e vivono nelle stesse città e negli stessi grattacieli. Che si monitorano a vicenda, cercando di captare i mutamenti di fortuna. E creano istituzioni internazionali loro proprie con le quali determinare la vita degli stati, ovvero della classe dei senza-potere, che vivono dentro gli stati e se varcano i confini lo fanno per emigrare andando a rioccupare la stessa classe nel nuovo paese; una classe di milioni di disaggregati, illusi di essere liberi perché parte di social network.

Questa lettura mostra la traiettoria della modernità dall’individualismo all’olismo, da una società che riposava sul conflitto tra eroi individuali o di casato, e poi tra le classi organizzate in partiti, a una società che è un vero corpo omogeneo e unitario, sia negli strati bassi che in quelli alti. E se e quando i conflitti esplodono, si tratta di eventi periferici (alcune fasce di precariato, questa o quella regione contro il centro, ecc.) che non cambiano il carattere dell’ordine globale e non ne incrinano l’organicità.

A provarlo basta pensare a questo: molte delle strategie sviluppate nella società moderna per rendere possibile la resistenza individuale a questa logica olistica stanno producendo l’effetto opposto. Per esempio, i partiti di sinistra del ventesimo secolo avevano lo scopo di rivendicare i diritti dei molti contro l’abuso del potere dei pochi potenti; e usavano la sola arma che i deboli hanno da sempre: l’alleanza, l’unione, l’integrazione delle forze sparse. In questo modo riuscivano a resistere all’oligarchia industriale.

Ma il risultato, che sta sotto i nostri occhi, è molto diverso dalle aspettative o dalle intenzioni originarie: i partiti che si nominano di sinistra operano contro i diritti sociali e la dignità politica delle moltitudini mentre svolgono il ruolo di convincere i senza-potere che quel che occorre fare è assecondare la logica del sistema, quindi lavorare nel rischio e senza diritti e procurarsi una formazione funzionale alla loro oggettiva precarietà. La favola del merito è il nucleo di questa ideologia della subalternità.

La convergenza delle forze nel campo sociale e in quello economico ha vinto sulle resistenze e come esito abbiamo una massa di senza-potere senza organizzazioni di resistenza. A questo punto resta ai deboli il populismo, che ripropone il vecchio mito collettivo del vox populi vox dei, salvo usarlo, come facevano gli antichi demagoghi, per attuare un cambio di leadership che non cambia la condizione dei molti. È ipocrita gridare allo scandalo contro il populismo, che non è il fenomeno scatenante ma il sintomo, retto sull’illusione data ai senza-potere di mutare la loro sorte.

Il manifesto, 27 febbraio 2015

La Liga è sem­pre una sicu­rezza: prima le guerre inte­stine, poi il Veneto. E para­dos­sal­mente si capirà domani a Roma l’esito del brac­cio di ferro fra il gover­na­tore Luca Zaia e il sus­si­dia­rio sin­daco di Verona Fla­vio Tosi. In 48 ore Mat­teo Sal­vini si gioca la fac­cia nella capi­tale e la lea­der­ship nel gran con­si­glio, che dovrà met­tere fine alla «guerra del Nord Est».

Si vota a mag­gio per le Regio­nali, ma le grandi mano­vre nel cen­tro­de­stra par­tono dall’implosione di Forza Ita­lia orfana di Gian­carlo Galan (ai domi­ci­liari per lo scan­dalo Mose). Se dav­vero esplo­desse anche la Lega, si ria­pri­rebbe lo sce­na­rio poli­tico dopo un ven­ten­nio. Ci conta Ales­san­dra Moretti che già batte a tap­peto ogni angolo del Veneto: il Pd di Renzi ha l’ambizione di repli­care il modello Ser­rac­chiani, tanto da imbar­care per­fino gli «auto­no­mi­sti» di Franco Rocchetta.

Ma la vera par­tita si sta gio­cando a Vene­zia. Il 15 marzo sono fis­sate le Pri­ma­rie del cen­tro­si­ni­stra: in lizza per la can­di­da­tura a sin­daco l’ex pm e sena­tore «dis­si­dente» Felice Cas­son, il gior­na­li­sta Nicola Pel­li­cani e l’ultrà ren­ziano Jacopo Molina. Sull’altro fronte, invece, domani mat­tina all’hotel Rus­sott di Mestre rompe gli indugi Fran­ce­sca Zac­ca­riotto: «Il nostro domani ini­zia oggi» è lo slo­gan su sfondo aran­cio e gri­gio dell’ex pre­si­dente (ed ex leghi­sta) della Provincia.

È la mara­tona elet­to­rale che mette in palio la pol­trona di Ca’ Far­setti con l’ingombrante ere­dità di Gior­gio Orsoni (a pro­cesso sem­pre causa Mose, uno spet­tro che si allunga sull’intero ver­tice Pd di fe
de ber­sa­niana). Intanto il Car­ne­vale ha rega­lato il cor­teo in Canal Grande di maschere, bar­che alle­go­ri­che e vele spie­gate con­tro le lobby che can­ni­ba­liz­zano la laguna. Il Comi­tato No Grandi Navi non molla, anzi. E alla pre­sen­ta­zione di «Se Vene­zia muore» di Sal­va­tore Set­tis si è regi­strato un signi­fi­ca­tivo «pienone».

La città-cartolina da sogno sem­bra inghiot­tita dal buco nero di affari & poli­tica. Il Mose — la grande opera della Repub­blica per anto­no­ma­sia, con 5,5 miliardi di euro solo di lavori pub­blici – è sci­vo­lato ai mar­gini del circo media­tico. Come se l’architettura della «fat­tu­ra­zione paral­lela» (messa a punto fra la sede del Con­sor­zio Vene­zia Nuova a Castello 2737/f e la suc­cur­sale di Piazza San Lorenzo in Lucina 26) non fosse stata clo­nata altrove.

Vene­zia come nel 1630, all’epoca della peste nera: è cer­ti­fi­cato dalla Pro­cura alle prese con un «sistema» che spa­zia dalle auto­strade ai nuovi ospe­dali, dalle boni­fi­che all’urbanistica.

Intanto, il Comune soprav­vive nell’interregno dell’ordinaria ammi­ni­stra­zione. Il com­mis­sa­rio straor­di­na­rio Vit­to­rio Zap­pa­lorto con­se­gnerà un bilan­cio pesante, nono­stante la man­naia da 47 milioni abbat­tu­tasi su ser­vizi sociali e buste paga dei dipen­denti. Gli affari, però, non si fer­mano. C’era una volta il nuovo palazzo del cinema: vero e pro­prio buco al Lido, costato 40 milioni. E Zap­pa­lorto ha messo in ven­dita Villa Hèriot alla Giu­decca (10 milioni), con annessa «oppor­tu­nità» di tra­sfor­marla in albergo.

In attesa del voto, ogni lobby lavora a pieno regime. Lo testi­mo­nia in modo ine­qui­vo­ca­bile la rela­zione della Guar­dia di Finanza che ripro­duce la «mobi­li­ta­zione» in vista dello scavo del canale Con­torta. È la mini-Grande opera indi­spen­sa­bile a dirot­tare le gigan­te­sche navi da cro­ciera. A marzo 2014, Pier­gior­gio Baita (ex pre­si­dente Man­to­vani Spa, appena scar­ce­rato) insieme ad Atti­lio Adami (pre­si­dente di Pro­tecno Srl di Noventa Pado­vana) si «attiva» con Maz­za­cu­rati del Cvn affin­ché Paolo Costa (pre­si­dente dell’Autorità por­tuale) asse­gni il can­tiere alle imprese del «giro Mose». Inter­cet­ta­zioni agli atti.

In ter­ra­ferma, invece, si vola. Nel qua­drante Tes­sera si pro­fila la seconda pista dell’aeroporto cal­deg­giata dal pre­si­dente di Save Enrico Mar­chi, ma il master­plan rulla su ben altre rotte. Con­tem­pla un tun­nel per il Tav e addi­rit­tura la metro­po­li­tana subla­gu­nare; con­ta­bi­lizza oltre 3 milioni di metri cubi di cemento nelle stesse aree «sal­vate» dal piano comu­nale; fa scat­tare l’«imbonimento» delle barene per inte­resse pub­blico. Infine, si rici­cla l’Expo con il padi­glione Anta­res a ridosso del Parco Vega. Michele De Luc­chi, l’architetto del «padi­glione zero» di Milano, replica in laguna la strut­tura poli­fun­zio­nale rea­liz­zata da Con­dotte Immo­bi­liare. Una «rige­ne­ra­zione» a Mar­ghera che vale 30 milioni. Ma si conta sull’arrivo di 156 milioni che il governo deve aggiun­gere in tre anni per la «nuova fiera del Nord Est». A gestirla fino al 2027 sarà Expo Venice, Spa a cavallo fra isti­tu­zioni, cate­go­rie eco­no­mi­che e pri­vati.

Dal Mose all’Expo, dun­que: Vene­zia doget?

el gregge al lupo. Ma sapere che Franco Bassanini , Giuliano Amato e Maurizio Lupi insegneranno agli "alti studenti" radunati a Firenze il buongoverno ci sembra davvero il massimo. La città invisibile, rivista online, 27 febbraio 2015

Parte oggi a Firenze “Eunomia”, corso di alta formazione intitolato significativamente “Cantiere Istituzionale”, introdotto dal sindaco Nardella. Studenti under 40 saranno iniziati dai proff. Bassanini, Amato e Lupi alla gestione della cosa pubblica nell’interesse privato. Inaugura il ministro Boschi con una lezione sulla riforma del Senato e del titolo V della Costituzione. Buono studio.

A leggere il comunicato di presentazione del corso di “alta formazione!” politico-istituzionale Eunomia in svolgimento in queste settimane a Firenze, c’è da stropicciarsi gli occhi per l’incredulità.

Sembra piuttosto un promo della novella di Ser Ciappelletto nel “Meraviglioso Boccaccio” dei fratelli Taviani in uscita sugli schermi proprio nello stesso periodo: chi chiamare a illustrare la “santità” dei comportamenti che asservono il ruolo degli enti pubblici agli interessi corporativi di aziende, cooperative, gruppi di interesse economico e/o politico-ideologico-religioso, se non coloro che più attivamente si sono adoperati a praticarli nel passato più o meno recente? Lascio ad altri di articolare la dimostrazione dell’assunto nei campi dell’economia, delle banche, dell’energia (e ognuno credo possa ben capire a quali nomi faccia riferimento) e mi limito al campo di mia competenza: il ruolo degli enti locali territoriali nella gestione del territorio e delle opere pubbliche.

Lodovico Meneghetti – che è stato a lungo docente di urbanistica al Politecnico di Milano, ma anche assessore comunale a Novara dove a metà degli anni Sessanta fece approvare uno storico PRG con aree edificabili quasi interamente in piani di iniziativa pubblica – in un recente intervento su eddyburg ricorda come fu proprio Bassanini nel 2001, come ministro delle riforme amministrative nel Governo Amato (due “alti formatori” in un sol colpo!) a far approvare il decreto delegato (si usava anche allora, anche se un po’ più pudicamente di oggi) con cui si eliminò l’obbligo di versare gli oneri di urbanizzazione in un conto vincolato alla realizzazione di spazi ed opere pubbliche di urbanizzazione, istituito dalla legge n. 10/77, nota come “Bucalossi”, dal nome del ministro dei lavori pubblici dell’epoca e già Sindaco di Milano col PRI.

Per i Comuni si aprì la cassa senza fondo degli ampliamenti edificatori dei PRG e degli accordi in deroga alle norme vigenti, per sostenere con i proventi degli oneri urbanizzativi bilanci comunali dalle spese correnti sempre più traballanti. Certo, come ricorda ancora Meneghetti, furono poi molti i responsansibili delle successive ripetute proroghe di questo andazzo che è ancora in vigore attualmente (da Tremonti che per primo nel 2005 avallò la richiesta delle Tesorerie comunali di “liberalizzare” l’uso dei conti vincolati ad opere urbanizzative al secondo Governo Prodi, partecipato persino dalla sinistra estrema, che ne perpetuò il sistema); eppure è giusto che per illustrarne i pregi ci si rivolga, più che ad altri, ai progenitori originari Amato e Bassanini.

Su questo terreno si è costruita anche la carriera politica di Maurizio Lupi, ancor oggi dirigente di Fiera di Milano Esposizioni in aspettativa per mandato politico, dove era approdato all’epoca dell’incontrastata egemonia ciellina sui vari rami dell’Ente Fiera durante tutta la lunghissima presidenza di Roberto Formigoni alla Regione Lombardia. Questa veste lo ha reso particolarmente indicato a ricoprire il ruolo di assessore all’urbanistica del Comune di Milano nella Giunta Albertini, in modo da poter tutelare particolarmente gli interessi immobiliari di Fondazione Fiera (ente di cui formalmente non faceva parte e pur nell’ambito di una più generale favorevole disposizione d’animo verso l’immobilarismo milanese) promuovendone la migrazione verso il polo esterno di Rho-Pero e aprendo la strada al riuso immobiliare della vecchia sede, concluso dal suo successore ciellino Masseroli durante la Giunta Moratti con la concessione di un milione di metri cubi, metà in tre torri di oltre 200 metri di altezza che in inverno oscureranno le case vicine per l’intera giornata e metà in lussuosi condomini ammassati al loro piede. L’operazione fruttò a Fondazione Fiera il doppio del prezzo corrente atteso (523 milioni di euro anziché 250), ma costringendo il Comune a monetizzare più della metà degli spazi pubblici mancanti al prezzo convenzionale di 300€/mq, invece che al prezzo di mercato di 2.000 €/mq ottenuto da Fondazione Fiera. Con quel surplus Fondazione Fiera cominciò ad acquistare a prezzo agricolo le aree contigue al nuovo polo di Rho-Pero, su cui oggi sta per avere inizio l’evento EXPO 2015 e di cui si discute la valorizzazione immobiliare successiva.

Finito di esercitarsi in queste vicende milanesi, dal 2001 Lupi si trasferisce al Parlamento come deputato di FI dove intesse una sino ad allora inedita convergenza bi-partisan col deputato milanese della Margherita, e poi PD, Pierluigi Mantini per proporre un disegno di legge urbanistica ispirato al principio della “consensualità” degli atti amministrativi tra enti pubblici e proprietà fondiario-immobiliare (e da loro connotato come “passaggio dall’urbanistica all’economistica”), desunto dalle istruttive esperienze amministrative e legislative in materia urbanistica milanese e lombarda. Dal 2013, prima con Letta per il PdL e poi con Renzi per NCD, è Ministro delle Infrastrutture e Trasporti distinguendosi non solo per i rapporti cordiali e servizievoli con i concessionari di opere statali, ma anche per essere tornato a proporre un gruppo di studio sull’urbanistica “consensuale” con le proprietà fondiario-immobiliari.

Anche in questo caso, di fronte a tanta capacità di adattamento della subordinazione del ruolo pubblico agli interessi privati, non si può che apprezzare l’opportunità della scelta di Eunomia di chiamarlo a diffondere ad altri la sua esperienza, augurando al Sindaco di Firenze Nardella, nonostante la sua più breve carriera, di saper stare al pari di tanto esperto!

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«La dia­let­tica tra locale e nazio­nale assu­me con­torni vir­tuosi, se si incarna in can­di­da­ture legate a movi­menti di resi­stenza dispie­gati sui ter­ri­tori, e uni­fi­cate da un dise­gno com­ples­sivo di cam­bia­mento politico». Il manifesto, 27 febbraio 2015
La sfida por­tata dal ren­zi­smo è a tutto campo, e a poco serve la denun­cia, è più che mai urgente la ride­fi­ni­zione del campo dell’alternativa. Magari comin­ciando, in pros­si­mità di un’importante tor­nata di ele­zioni ammi­ni­stra­tive, pro­prio dal livello locale. Il potere eser­ci­tato dal par­tito unico delle classi diri­genti, e dai suoi cacic­chi, sugli enti locali è infatti uno dei pun­telli prin­ci­pali del nuovo assetto del potere cen­trale. Da lì si eser­cita l’arte del bastone e della carota. Il potere eser­ci­tato dal par­tito unico delle classi diri­genti, e dai suoi cacic­chi è uno dei pun­telli del nuovo assetto del potere centrale.

Da lì si eser­cita l’arte del bastone e della carota. Il bastone delle pri­va­tiz­za­zioni, degli appalti anti-economici, della pre­ca­rietà e delle sue forme estreme, che Anto­nio Bevere di recente rifor­mu­lava come nuove schia­vitù (il “lavoro gra­tis”). E la carota del clien­te­li­smo, della “con­su­lenza” maxi e mini come scor­cia­toia alla ri-creazione di un blocco sociale in via di pro­gres­sivo sfa­ri­na­mento. Anche appro­fit­tando del bat­tage pub­bli­ci­ta­rio delle “archi­star” ami­che, chia­mate a dar lustro al regime tra­mite opere di dub­bio impatto sociale.

Troppo a lungo le forze di alter­na­tiva si sono illuse di poter lucrare un qual­che van­tag­gio dalla par­te­ci­pa­zione subor­di­nata alla gestione locale del potere, a meno di con­si­de­rare tali le ren­dite di posi­zione di mini-apparati buro­cra­tici auto­re­fe­ren­ziali. La risco­perta del valore popo­lare e con­te­sta­tivo delle auto­no­mie locali dovrebbe entrare di diritto a far parte di un più vasto dise­gno di ripresa dell’alternativa politica.

E sì che la sto­ria del movi­mento ope­raio del nostro Paese sarebbe in tal senso ricca di fer­menti da ripro­porre, aggior­nati alla nuova sta­gione di lotte. Non solo di “buona ammi­ni­stra­zione” si sta qui par­lando. Anche di que­sto, certo: l’orgoglio che anche i subal­terni potes­sero dar prova di sapienza ammi­ni­stra­tiva, appren­dendo a farsi classe diri­gente attra­verso la pale­stra del “comune demo­cra­tico”, costi­tuì una potente leva per il muni­ci­pa­li­smo socia­li­sta e poi comu­ni­sta. Ed un pro­fondo rin­no­va­mento del per­so­nale ammi­ni­stra­tivo si rende neces­sa­rio ancor oggi, a fronte del più sfre­nato tra­sfor­mi­smo e dell’infeudamento dei gruppi diri­genti locali al partito-dello-Stato e agli inte­ressi delle élite economico-finanziarie che lo sosten­gono.

Ma, più in gene­rale, è la teo­riz­za­zione delle auto­no­mie locali come contro-potere a pre­starsi ad un’opera di attua­liz­za­zione. Oggi come allora infatti, per usare le parole di Filippo Turati, l’ente locale appare «servo dello Stato, qual­che volta servo rilut­tante e non mai ribelle; pre­cet­tore, ammi­ni­stra­tore, poli­ziotto, in gran parte per conto dello Stato, quasi tenesse il potere per tol­le­ranza di que­sto; non rea­gi­sce né influi­sce sul governo, non sente biso­gno di auto­no­mie, non lotta per la pro­pria libertà».

Se poi dal Comune di passa alla Regione, il giu­di­zio sugli indi­rizzi per­se­guiti nell’attuale sta­gione varia di poco. Sem­pre è stata viva, a sini­stra, la pre­oc­cu­pa­zione che l’istituto regio­nale si con­fi­gu­rasse come una som­ma­to­ria di buro­cra­zie mera­mente sovrap­po­ste a quelle dello Stato cen­trale. Per ovviare a que­sti rischi, la bat­ta­glia regio­nale fu da subito legata da un lato a quella per la pia­ni­fi­ca­zione eco­no­mica e ter­ri­to­riale — fu in que­sto senso il Pli di Mala­godi il più aspro e con­se­guente avver­sa­rio del varo delle regioni; dall’altro ad una esi­genza di mag­giore par­te­ci­pa­zione popo­lare — è signi­fi­ca­tivo che alle regioni si arrivi al cul­mine del “secondo bien­nio rosso” (1968–1969). Il rove­scia­mento a cui oggi assi­stiamo in que­sti campi è totale: i con­si­gli regio­nali ridotti a casse di com­pen­sa­zione per un ceto poli­tico iper­tro­fico e desi­de­roso di ban­chet­tare sulle spo­glie dello Stato; dere­gu­la­tion eco­no­mica ed urba­ni­stica pro­mossa in con­certo tanto dallo Stato cen­trale quanto dalle ammi­ni­stra­zioni peri­fe­ri­che; leggi elet­to­rali regio­nali che in molti casi mor­ti­fi­cano la libera espres­sione della volontà elet­to­rale, ben oltre i limiti già scan­da­losi del modello nazio­nale su cui ven­gono ricalcate.

Non basta tut­ta­via ispi­rarsi alla let­tera della lezione della sto­ria per inver­tire le attuali ten­denze regres­sive; né denun­ciare mora­li­sti­ca­mente lo stato di cose esi­stente. E’ la stessa rifles­sione cri­tica sul pas­sato del nostro movi­mento ope­raio a con­se­gnarci una duplice ere­dità, da tener di conto ora più che mai. Gli avan­za­menti del potere popo­lare a livello locale, infatti, sem­pre sono stati in con­nes­sione con lo svi­luppo delle grandi mobi­li­ta­zioni sociali, e con l’emergere di gruppi diri­genti nuovi in sim­biosi con le aspi­ra­zioni emerse dal con­flitto. E sem­pre si sono rile­vati assai fra­gili, in assenza di una stra­te­gia nazio­nale al cui interno potes­sero essere inqua­drati.

Ancor oggi, i rischi dell’irrilevanza poli­tica e del rifu­gio nel loca­li­smo pro­ce­dono di pari passo. La dia­let­tica tra il momento locale e quello nazio­nale nella sfida poli­tica di alter­na­tiva può assu­mere però con­torni vir­tuosi, a patto che si incarni in una serie di can­di­da­ture legate a movi­menti di resi­stenza con­cre­ta­mente dispie­gati sui ter­ri­tori, ed allo stesso tempo uni­fi­cate da un dise­gno com­ples­sivo di cam­bia­mento politico.

La Repubblica 27 febbraio 2015
Lo schiaffo è fragoroso, visto che metà dei parlamentari del Pd diserterà oggi la riunione convocata da Matteo Renzi nella sede del Pd. Uno strappo clamoroso, il primo passo di un’escalation studiata a tavolino e condotta da Pierluigi Bersani. «Il metodo Mattarella - è la cruda fotografia di Alfredo D’Attorre - si è chiuso rapidamente». La guerra nel Pd, insomma, è sempre meno fredda. E lo ammette anche il leader: «Sono stupito - attacca - Nessuno vuole ricominciare con i caminetti ristretti vecchia maniera: noi siamo per il confronto, sempre. Non sprechiamo neanche un minuto in polemiche sterili e ingiustificate persino sugli orari e sulle modalità di convocazione di incontri informali. Il nostro popolo, quello che ci ha dato il 41% dopo tante sconfitte, non le merita».

L’origine del duello, a dire il vero, va rintracciata nella scelta di Palazzo Chigi di ignorare il parere delle commissioni competenti sul Jobs act. Per dirla con Bersani, «così si pone fuori dall’ordinamento costituzionale». A poco serve che Renzi si sgoli: «Tutte le principali decisioni di questi 15 mesi sono state discusse e votate negli organismi di partito». La competizione tra i cattorenziani e i renziani ortodossi, infatti, ha ridato vigore alle minoranze, spingendole a muoversi compattamente per disertare l’appuntamento di oggi.

A Montecitorio il clima è pessimo. I renziani provano a convincere i “dubbiosi del venerdì”. Fermano i peones, ricordano che è sconveniente saltare l’incontro con il segretario. Gridano pure alla struttura parallela dei bersaniani, denunciano il partito nel partito. Anche a palazzo Madama va in onda lo stesso film, con venti senatori della minoranza pronti a lamentarsi con il capogruppo Zanda dell’atteggiamento del segretario.

I capofila della rivolta, in ogni caso, militano proprio in Area riformista. «Non ci penso proprio a partecipare oggi - confida ad Avvenire Bersani - Io mi inchino alle esigenze della comunicazione, ma che gli organismi dirigenti debbano diventare figuranti di un film non ci sto». Un attimo dopo l’ex segretario sgancia la bomba: «Il combinato disposto tra ddl Boschi e Italicum rompe l'equilibrio democratico. Se la riforma della Costituzione va avanti così, non accetterò mai di votare la legge elettorale». La controffensiva renziana è immediata e parecchio irriverente: «Se Bersani non vota l’Italicum rileva Ernesto Carbone - significa che preferisce il Porcellum. Nostalgia canaglia».

L’elenco di chi oggi volterà le spalle al premier, comunque, è lunghissimo. Molti dei Giovani turchi, in allarme per le grandi manovre in area renziana. E tantissimi deputati di peso, da Nico Stumpo a Pippo Civati, Rosy Bindi, Stefano Fassina e Gianni Cuperlo. «Sono in Sardegna - dice quest’ultimo - ma non ci sarei andato comunque».

Stessa linea di Ileana Argentin: «Sinistra Dem non va alla riunione. Sa perché? Non è che tu vieni un’ora, parli e noi applaudiamo. Un’assemblea è una cosa diversa». Ci sarà invece Francesco Boccia, ma solo per picchiare duro sul premier. «Invece di sabotare - reagisce il vicesegretario Lorenzo Guerini - colgano l'occasione per confrontarsi». Eppure, a sentire Massimo D’Alema la sensazione è che i rapporti interni possano addirittura peggiorare. «C'è una discussione vivace. E io spero che si faccia ancora più vivace»

Assemblea alla Fiat con il leader Fiom e Libera. Prima tappa della coalizione sociale. Il segretario delle tute blu: "Oltre i cancelli per una nuova politica dei diritti e del lavoro. Contro il modello Marchionne-Renzi"». Il manifesto, 26 febbraio 2015

Non la costru­zione di un nuovo par­tito ma di una poli­tica dei diritti e del lavoro all’interno di una coa­li­zione sociale: Mau­ri­zio Lan­dini ieri a Pomi­gliano d’Arco ha messo in fila i fatti che hanno spinto la Fiom a cer­care fuori dalle fab­bri­che, anche oltre gli stru­menti della con­trat­ta­zione, soste­gno e armi per con­tra­stare il dise­gno che uni­sce il governo Renzi e Ser­gio Mar­chionne, Con­fin­du­stria e la Bce.

Si comin­cia dall’hinterland par­te­no­peo, dove ha sede lo sta­bi­li­mento Fiat Chry­sler, per­ché è da qui che nel 2010 è par­tito il modello Mar­chionne: rinun­cia alle pause, ritmi di lavoro ser­ra­tis­simi, azze­ra­mento del con­flitto sin­da­cale fino all’esclusione delle orga­niz­za­zioni dis­sen­zienti, metà della forza lavoro in cassa inte­gra­zione, fuga dal con­tratto nazio­nale col­let­tivo in cam­bio della pro­messa del rien­tro di tutti i lavo­ra­tori sulle linee entro il 2013. A oggi 2mila sono ancora fuori e solo metà di que­sti mette piede in fab­brica sal­tua­ria­mente gra­zie al con­tratto di soli­da­rietà, nes­suna nuova vet­tura da affian­care alla Panda.

Modelli dif­fe­renti di lavoro: la Fiat tiene più tempo sulle linee un gruppo ristretto di ope­rai, spre­muti con turni extra anche gra­zie al governo che detassa gli straor­di­nari; alla Ducati acqui­stata dalla Volk­swa­gen gli ope­rai hanno con­trat­tato una ridu­zione da 40 ore set­ti­ma­nali a 30 in cam­bio di due turni in più, l’accordo ha pro­dotto cento assun­zioni men­tre da Melfi gli ope­rai Fiat scap­pano per­ché non reg­gono alla catena di mon­tag­gio — spiega Lan­dini -. In Fca ogni quat­tro o cin­que ope­rai c’è un team lea­der che li segue, l’operaio è solo di fronte a chi rap­pre­senta l’azienda. Que­sto modello di fab­brica è quello che il governo vuole repli­care nella società azze­rando i corpi inter­medi. C’è stato un gran tram­bu­sto su quella che ho defi­nito “coa­li­zione sociale” per­ché fa paura, non vogliono che riu­niamo ciò che hanno diviso».

Renzi aveva liqui­dato Lan­dini con un secco ha perso nel sin­da­cato, si dà alla poli­tica» dopo l’intervista del lea­der Fiom al Fatto quo­ti­diano, men­tre la lea­der Cgil, Susanna Camusso, ieri ha ripe­tuto: Con Lan­dini non c’è alcuna pole­mica. La Cgil ha un pro­getto di tipo sin­da­cale, non è nostra inten­zione orga­niz­zare for­ma­zioni poli­ti­che o coa­li­zioni sociali o altre moda­lità». Se l’esecutivo approva a colpi di mag­gio­ranza le ricette pre­scritte all’Italia nel 2011 dalla Bce (libe­ra­liz­za­zione dei ser­vizi, abo­li­zione pro­vin­cie, tagli a enti locali e pen­sioni, licen­zia­menti facili, pareg­gio di bilan­cio) ricette che hanno pro­dotto 25milioni di disoc­cu­pati in Europa, c’è pro­prio biso­gno di fare poli­tica» spiega il lea­der Fiom.

Da Pomi­gliano parte la cam­pa­gna per la crea­zione di un fondo in cui i lavo­ra­tori pos­sono devol­vere la mag­gio­ra­zione dello straor­di­na­rio a favore dei col­le­ghi in dif­fi­coltà eco­no­mica, a gestirlo Libera e don Pep­pino Gam­bar­della, il par­roco che con la Cari­tas sostiene già le fami­glie in dif­fi­coltà. È la prima ini­zia­tiva messa in campo dopo lo scio­pero del 14 feb­braio con­tro i tre sabato di straor­di­na­rio (la Fiom chie­deva un turno in più per far rien­trare più ope­rai a lavoro) a cui ave­vano ade­rito solo in cin­que. Il Comi­tato cas­sin­te­grati e licen­ziati Fiat, con Mimmo Mignano, dà il pro­prio soste­gno alla lotta della Fiom ma Lan­dini sba­glia a levare dal tavolo l’arma dello scio­pero. E’ un diritto anche quando lo eser­ci­tano in cin­que, non dob­biamo far­celo togliere. Dob­biamo lot­tare per diven­tare maggioranza».

Con­te­stata invece dal comi­tato la Cgil, rap­pre­senta dal segre­ta­rio regio­nale Franco Tavella, inter­ve­nuto per rilan­ciare la mobi­li­ta­zione con­tro la ven­dita di Alsaldo a Hita­chi e la fuga di Fin­mec­ca­nica dalla Cam­pa­nia. In sala anche i lavo­ra­tori Ale­nia della sede di Napoli, in via di dismissione.

Il governo sman­tella lo Sta­tuto dei lavo­ra­tori, con il Job Act mette soldi in tasca agli impren­di­tori lascian­doli liberi di licen­ziare, non dà il red­dito di cit­ta­di­nanza ma anzi tagli gli ammor­tiz­za­tori sociali, non blocca la catena di appalti e subap­palti che fa pro­li­fe­rare gli affari dei clan, allora va bene tor­nare in piazza ma biso­gna anche tro­vare nuove forme di pro­te­sta — argo­menta Lan­dini — a par­tire dai ter­ri­tori. Dob­biamo scri­vere un nuovo Sta­tuto dei lavo­ra­tori e ricor­rere al refe­ren­dum per abro­gare le leggi sba­gliate». Non è più una que­stione che riguarda le fab­bri­che ma tutti quelli che si oppon­gono alle poli­ti­che di Renzi, che vogliono tute­lare i pro­pri diritti e non si sen­tono rap­pre­sen­tati in par­la­mento. Biso­gna spez­zare il ricatto con­ti­nuo a cui siamo sot­to­po­sti con il para­vento della crisi – con­clude -, far emer­gere pro­po­ste su salute, lavoro, svi­luppo ognuno con il pro­prio ruolo. Ci sono tanti “feno­meni” poli­tici nuovi, come il super­po­li­tico di Firenze, oppure Grillo, o altri. Io resto a fare il sindacalista».

Il manifesto, 26 febbraio 2015, con postilla
La bomba esplode all’alba: il Biscione si man­gia il Cavallo. Il con­si­glio d’amministrazione di Ei Towers, la con­trol­lata di Media­set che a sua volta con­trolla la rete di tra­smis­sione della società, ha appro­vato all’unanimità il lan­cio di un’offerta pub­blica di acqui­sto e scam­bio (Opas) su Rai Way, l’omologa società della tv pub­blica, in parte quo­tata, da novem­bre, in borsa.

Fioc­cano i «l’avevo detto». Per primo quello di Roberto Fico, pen­ta­stel­lato pre­si­dente della com­mis­sione di vigi­lanza Rai che si beccò un «domani mat­tina i miei legali faranno que­rela a que­sto buf­fone» da parte di Sil­vio Ber­lu­sconi per aver affer­mato che la deci­sione del governo di ven­dere le torri della Rai faceva parte del Patto del Naza­reno. Ma anche per gli ana­li­sti, che plau­dono all’iniziativa, era chiaro che l’esito «natu­rale» della pri­va­tiz­za­zione sarebbe stato pro­prio questo.

La ven­dita di una quota di mino­ranza di Rai­way era pre­vi­sta nel decreto Irpef appro­vato nel giu­gno scorso che sot­traeva 150 milioni di euro alle casse di viale Maz­zini per coprire il bonus degli 80 euro. Suc­ces­si­va­mente, il 2 set­tem­bre, il rela­tivo decreto della pre­si­denza del con­si­glio spe­ci­fi­cava «l’opportunità di man­te­nere, allo stato, in capo a Rai, a garan­zia della con­ti­nuità del ser­vi­zio ero­gato da Rai Way a Rai mede­sima, una quota di par­te­ci­pa­zione sociale nel capi­tale di Rai Way non infe­riore al 51%». Tra le con­di­zioni poste da Ei Towers per la sua Opas per man­giarsi le torri Rai, quella che « l’offerente venga a dete­nere una par­te­ci­pa­zione pari almeno al 66,67% del capi­tale sociale di Rai Way». Ma lo stesso cda di Ei Towers spiega che «l’offerente potrà rinun­ciare a una o più delle con­di­zioni di effi­ca­cia dell’offerta ovvero modi­fi­carle, in tutto o in parte». E comun­que, se il Dpcm del 2 set­tem­bre si pre­oc­cu­pava di man­te­nere la mag­gio­ranza pub­blica per garan­tire la con­ti­nuità del
ser­vi­zio, la società del Biscione assi­cura che a sua volta «con­ti­nuerà a garan­tire l’accesso alle infra­strut­ture a tutti gli ope­ra­tori tv», aggiun­gendo che l’Opas ser­virà a «porre rime­dio all’attuale situa­zione di inef­fi­ciente mol­ti­pli­ca­zione infra­strut­tu­rale dovuta alla pre­senza di due grandi operatori».

Ma per­ché l’operazione si possa con­clu­dere ovvia­mente sono neces­sari alcuni pas­saggi. La Rai dovrebbe accet­tare: oggi il cda comin­cerà a affron­tare la que­stione (per ora si fa sapere che si tratta di un’opa «non ami­che­vole»). Qui si inse­ri­sce anche la vicenda — improv­vi­sa­mente diven­tata per il governo urgen­tis­sima — della riforma della gover­nance della tv pub­blica annun­ciata da Renzi, che appunto non ha escluso un decreto (ma il Qui­ri­nale avrebbe con­si­gliato pru­denza). Nel cda di viale Maz­zini sie­dono anche ber­lu­sco­niani di stretta osser­vanza come Anto­nio Verro, quello che tra l’altro avrebbe inviato al Cava­liere un fax sui pro­grammi sgra­diti da addo­me­sti­care, e Anto­nio Pilati, noto come l’ispiratore della legge Gasparri.

Il con­flitto d’interessi non è certo una novità delle ultime ore, ma insomma la fac­cenda si fa parec­chio grossa pro­prio men­tre Ber­lu­sconi viene descritto come un pover uomo alle corde (ma Finin­vest appena l’altra set­ti­mana ha ven­duto quasi 400 milioni di azioni Media­set, pro­prio per avviare altre ope­ra­zioni). E ancora, è neces­sa­rio che l’antitrust, che ha rice­vuto la noti­fica, dia il via libera. E il mini­stero dello svi­luppo deve auto­riz­zare la Rai a con­ti­nuare ad ope­rare con la nuova società.

Al momento, il governo si limita a ricor­dare l’esistenza del decreto della pre­si­denza del con­si­glio sull’opportunità di man­te­nere pub­blico almeno il 51% delle torrri di tra­smis­sione Rai. A borse chiuse (in una gior­nata che vede Rai­Way bal­zare del 9,4% a 4,05 euro verso i 4,5 al quale viene valo­riz­zata nell’offerta, con un +52% dal prezzo della quo­ta­zione, e Ei Towers chiude a +5,2%), il governo sforna la nota. Nella quale comun­que si sot­to­li­nea che «l’offerta pub­blica per Rai Way con­ferma l’apprezzamento da parte del mer­cato della scelta com­piuta a suo tempo di valo­riz­zare la società facen­dola uscire dall’immobilismo nel quale era con­fi­nata. La quo­ta­zione in Borsa si è rive­lata un suc­cesso», insomma.

Prima della nota serale con la quale il governo prova a cal­mare un po’ le acque di fronte alle pro­te­ste, il Pd ren­ziano era stato a dir poco abbot­to­nato, a parte Michele Anzaldi, della vigi­lanza Rai, che anche lui ricor­dava: «La quo­ta­zione in borsa è stata vin­co­lata alla ces­sione di una quota non supe­riore al 49%» e dun­que chie­deva all’Antitrust di valu­tare la vicenda (come ovvia­mente deve fare e sta facendo). Men­tre il gio­vane turco Fran­ce­sco Ver­ducci sot­to­li­neava il primo effetto dell’annuncio: i con­si­stenti gua­da­gni in borsa.

I for­zi­sti si sbrac­ciano invece per­ché l’operazione vada in porto in nome del «libero mer­cato» del Cav. Tor­nano invece a denun­ciare il «patto del Naza­reno tele­vi­sivo» i 5 Stelle e così Arturo Scotto, di Sel: «Non vor­remmo che quel patto del Naza­reno uscito dalla porta rien­trasse dalla finestra».

postilla
Una brutta notizia per che ritiene che il disastro degli italiani e le sue conseguenze politiche sono in grandissima parte dovute al lavaggio del cervello compiuto idal dominio della televisione ,operato nei decenni scorsi. Una notizia che non sorprendie chi, a differenza dell'on. Scotto, ritiene che il patto del Nazareno non sia mai uscito ne dalla porta nè dalla finestra
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