eddyburg versione integrata. Alfabeta2.it, 21 aprile 2015
L’annegamento di 700 forse 900 migranti il 17 aprile 2015 è l’ennesima conseguenza diretta di due fatti principali: la riproduzione delle guerre e il proibizionismo delle migrazioni. La maggioranza dei media continua a vomitare lacrime da coccodrillo, vili ipocrisie, falsità e addirittura il compiacimento da parte degli sciacalli; ancora una distrazione di massa per nascondere le vere cause di queste stragi e i responsabili.
Soprattutto dal 1990, la maggioranza degli emigranti fugge le guerre o le conseguenze dirette o indirette di queste: palestinesi, ruandesi, sudanesi, eritrei, congolesi, originari dei Balcani, iracheni, afgani, sub-sahariani, kurdi e oggi siriani e ancora altri di altre zone di guerra che i nostri media raramente menzionano. La riproduzione delle guerre dal 1945 a oggi è dovuta innanzitutto al continuo aumento della produzione delle armi e al suo commercio legale e illegale da parte delle principali potenze mondiali e dei paesi loro alleati. È risaputo che le armi e i soldi dell’Isis provengono soprattutto dagli Emirati amici degli Stati Uniti o anche della Russia e talvolta della Cina.
Da anni la più grande fiera annuale degli armamenti si svolge negli Emirati; all’ultima, il 22-26 febbraio scorso ad Abou Dhabi (si veda anche video della precedente SOFEX) hanno partecipato 600 rappresentanti delle imprese e paesi espositori (fra cui 32 imprese italiane), ossia ministri (fra i quali la sig.ra Pinotti e il sig. Minniti), diplomatici, alti ufficiali delle forze armate e alti dirigenti delle polizie e dirigenti delle grandi imprese (per l’Italia in primo luogo la Finmeccanica presieduta dal prefetto, ex-capo della polizia e poi dei servizi segreti, De Gennaro).
Secondo il Sipri, la produzione e l'esportazione di armamenti sono notevolmente e continuamente aumentate in particolare dal 2005; i principali paesi esportatori di armamenti sono Stati Uniti, Russia, Germania, Cina, Francia e Italia che per buona parte produce in joint venture o subappalto con/per imprese statunitensi; i primi cinque paesi insieme occupano il 74% del volume mondiale di esportazioni, USA e Russia da soli il 56% del mercato; i principali paesi importatori sono India, Arabia Saudita, Cina, Emirati Arabi Uniti e Pakistan; i principali clienti dell’Italia sono gli Emirati, l’India e la Turchia.
Come mostrano alcune ricerche di questi ultimi anni, le lobby finanziarie-militaro-poliziesche transnazionali e dei singoli paesi soprattutto dopo l’11 settembre 2001 hanno puntato all’esasperazione di ogni situazione di crisi e a favorire la costruzione del “nemico di turno” per giustificare la guerra permanente o infinita (come la definiva senza ambasce G. Bush jr.). Dopo Al Qaeda, l’Isis è palesemente il nemico ancor più orribile e forse ormai non più condizionabile da parte delle grandi potenze e dai loro alleati arabi, così come è diventata incontrollabile la situazione in Iraq, in Libia e altrove. Ma questo va bene per il “gioco della guerra infinita” e del “governo attraverso il terrore” (J. Simon).
Ovviamente, nessun paese produttore ed esportatore di armi sembra disposto a bloccare queste attività; tanti gridano contro la guerra, anche il Papa, ma non si dice che a monte c’è la responsabilità di chi realizza profitti e mantiene o accresce il suo dominio grazie a queste attività (vedi tutte le banche, e anche la finanza vaticana). Scappare anche a costo di rischiare la vita è l’unica possibilità che resta a chi ha la forza, la capacità e i soldi per fuggire le guerre. È quindi ovvio che tanti cercano di approfittare di questo bisogno. Ma, i trafficanti di migranti possono praticare questo business a volte criminale perché c’è proibizionismo delle migrazioni.
Se le persone che cercano di scappare trovassero la possibilità di aiuto, di “corridoi umanitari” e quindi di accesso regolare ai paesi non in guerra, i trafficanti non potrebbero lucrare sul loro disperato bisogno di cercare salvezza. Ipotesi quali quella del “blocco navale”, oltre a essere del tutto insulsa anche dal punto di vista giuridico e tecnico, è degna di neo-nazistelli del XXI sec. Gli Stati Uniti, l’Unione europea, la Russia, ma anche la Cina, il Giappone e altri paesi che sono direttamente o indirettamente responsabili delle guerre e della disperata emigrazione di oggi dovrebbero essere obbligati dall’ONU a fornire aiuti e accesso regolare nei loro territori così, come si fece per i Boat people che scappavano dal sud-est asiatico negli anni Settanta a seguito della guerra in Vietnam e Laos, e i massacri di Pol Pot in Cambogia. La logica protezionista e proibizionista che prevale nell'Unione europea alimenta il razzismo e, ovviamente, anche il declino economico e l’inconsistenza politica.
Al contrario, cinicamente, gli Stati Uniti hanno continuato a costruire sulla migrazione regolare e irregolare il loro successo economico degli anni 1970-2007, e persino il superamento dell'ultima crisi. Dal 1990 la popolazione statunitense è aumentata di quasi 70 milioni. Allo stesso tempo, gli States hanno avuto e hanno più di 13 milioni di immigrati irregolari (clandestini), ogni anno ne hanno espulso tra i 400.000 e un milione e si stima che 18.500 sono stati uccisi nel 1998- 2013 alla frontiera in parte da poliziotti e anche da criminali che si divertono nella «caccia agli umani».
E' grazie all’immigrazione regolare e irregolare che gli USA sono diventati la prima potenza economica, militare e politica; le teorie razziste di Huntington si inseriscono perfettamente nel gioco tra inclusione e rifiuto, nell'inferiorizzazione degli immigrati così costretti a guadagnarsi la salvezza attraverso l'umiliazione, il sacrificio, a favore dell’alta produttività per il paese d’immigrazione.
I paesi europei sull’immigrazione sono ancorati a un proibizionismo rigido che permette solo un’immigrazione illegale per fornire neo-schiavi alle economie sommerse. Così, si producono più morti tra i migranti che cercano di raggiungere l’UE, meno naturalizzati, meno regolarizzazione e più precarietà. In tutta l’Europa a 27 (505 milioni di abitanti ufficiali) nel 2012 il totale degli immigrati regolari è stato inferiore a quello degli Stati Uniti, 21 milioni secondo Eurostat, e dal 1990 ci sono state meno naturalizzazioni. Le persone nate in un paese al di fuori dell'UE a 27 sarebbero di circa 33 milioni. Secondo le stime più attendibili, gli irregolari in Europa non sarebbero più di cinque milioni1.
Al di là della differenza tra l'Europa e gli Stati Uniti per quanto riguarda il welfare, constatiamo che gli Stati Uniti continuano a puntare sull'immigrazione con pratiche soft e altre di selezione violenta e anche razzista. L'Europa appare come un soggetto politico abortito prima di nascere, una sorta di continente dominato da buzzurri pronti solo a schiavizzare pochi passanti che si fermano mentre erigono nuove fortificazioni. Una prospettiva suicida nel mondo globalizzato, perché tra l'altro, i neo-ricchi dei paesi emergenti sembrano giocare all’asta fallimentare dei beni di un continente decadente.
Post scriptum
Secondo i razzisti queste guerre sono dovute alla barbarie propria di popoli incivili che non meritano la democrazia, insomma sono “barbari” o come diceva Lombroso “atavici”, cioè pre- umani o animali e quindi in preda a istinti di violenza e criminalità (la teoria del criminale nato). Ne consegue che i migranti sono da respingere anzi bombardare prima che partono ecc.
Secondo gli “umanitari” queste guerre sono dovute a popoli che devono essere aiutati a imparare la democrazia, insomma devono essere “educati” perché “arretrati” o come bambini non ancora maturi; di questa tesi ne approfittano le note ONG e multinazionali del cuore e persino le mafie come quella romana.
La tesi delle autorità e in particolare di quelle europee è che la “colpa” delle stragi di emigranti è dei trafficanti criminali. Ne consegue che bisogna andare a bombardare i trafficanti e distruggere i barconi ... così “prendono 4 piccioni con una fava”: 1) pensano di accontentare gli “umanitari” mostrando pietas per gli annegamenti; 2) accontentano anche i razzisti perché promettono di usare le maniere forti per impedire che gli emigranti partano; 3) nascondono le loro precise responsabilità delle stragi continue e 4) fanno anche un po’ di business spendendo soldi per l’uso di armamenti (droni, areei nuovi sistemi di intercettazione ecc.).
Chiunque abbia un minimo di conoscenze delle operazioni militari in casi del genere sa che andando a bombardare con droni o aerei i cosiddetti trafficanti e i loro barconi INEVITABILMENTE si finirebbe per colpire gli emigranti cioè i profughi sia perché probabilmente usati come scudi umani dai trafficanti sia perché è impossibile distinguere fra trafficanti e soprattutto la loro manovalanza -spesso improvvisati- e i profughi (le cosiddette guerre intelligenti hanno prodotto sempre “danni collaterali” cioè stragi di civili ...
Evidentemente il vero obiettivo delle autorità e governi è di non fare arrivare immigrati o farne arrivare il meno possibile e soprattutto nascondere le vere cause delle stragi continue, cioè la riproduzione delle guerre permanenti e il proibizionismo.
La prima responsabilità delle guerre è di chi produce e vende legalmente e illegalmente armamenti: senza la diffusione degli armamenti non potrebbero riprodursi tante guerre, semmai piccoli conflitti a “bastonate” ...
Ogni proibizionismo favorisce la criminalità: in assenza di aiuti e canali regolari di emigrazione i disperati che scappano sono inevitabilmente alla mercé di trafficanti e di chiunque offre qualche possibilità (i passeurs ...)
L’unica possibilità di salvare i profughi è di creare possibilità di aiuti, corridoi umanitari sia mettendo in mare, alle frontiere europee e nei paesi vicini a quelli in guerra navi e strutture per dare subito soccorso ai profughi e quindi subito permessi di soggiorno per lavoro
Ovviamente da parte di tutti i paesi dove questi profughi vogliono andare che sono innanzitutto: Stati Uniti, Inghilterra, Germania, Francia, Australia, Canada e poi anche Italia, Svizzera, e forse anche Giappone e la Cina.
Ezio Mauro intervista il Presidente della Repubblica. «La nostra Costituzione è il frutto della lotta antifascista contro la dittatura e la guerra. La qualifica di resistenti va estesa non solo ai partigiani ma ai militari che rifiutarono di arruolarsi nelle brigate nere». La Repubblica, 24 aprile 2015
«Il Paese è fortemente cambiato, come il contesto internazionale. Non c’è più, fortunatamente, la necessità di riconquistare i valori di libertà, di democrazia, di giustizia sociale, di pace che animarono, nel suo complesso, la Resistenza. Oggi c’è la necessità di difendere quei valori, come è stato fatto contro l’assalto del terrorismo, come vien fatto e va fatto sempre di più contro quello della mafia. La democrazia va sempre, giorno dopo giorno, affermata e realizzata nella vita quotidiana. Il 25 aprile fu lo sbocco di un vero e proprio moto di popolo: la qualifica di “resistenti” va estesa non solo ai partigiani, ma ai militari che rifiutarono di arruolarsi nelle brigate nere e a tutte le donne e gli uomini che, per le ragioni più diverse, rischiarono la vita per nascondere un ebreo, per aiutare un militare alleato o sostenere chi combatteva in montagna o nelle città».
Ha ragione Calvino: pietà per i morti ma è impossibile equiparare i giovani di Salò e i partigiani. Io penso che questo moto di rifiuto e di ribellione organizzata al fascismo e al nazismo, con la lotta armata, rappresenti un elemento fondamentale nella storia morale dell’Italia. Quell’esperienza parziale ma decisiva di ribellione nazionale, italiana, alla dittatura fascista è infatti il nucleo autonomo e sufficiente per rendere la nostra democrazia e la nostra libertà non interamente «octroyé» dagli Alleati che hanno liberato gran parte del Paese, ma riconquistate. Non crede che proprio qui nasca il fondamento morale della democrazia repubblicana?
Lei aveva quattro anni nel 1945. Ha dei ricordi familiari nei racconti di quei giorni?
È per queste ragioni che subito dopo la sua elezione al Quirinale ha voluto rendere omaggio alle Fosse Ardeatine?
«Mi è parso naturale, e doveroso, ricordare sia a me stesso, nel momento in cui venivo eletto presidente della Repubblica, sia ai nostri concittadini quanto dolore, quanto impegno difficile e sofferto hanno permesso di ritrovare libertà e democrazia. L’abitudine a queste, talvolta, rischia di inaridire il modo di guardare alle istituzioni democratiche, pur con tutti i difetti che se ne possono evidenziare, rifiutando di impegnarvisi o anche soltanto di seguirne seriamente la vita. Questo mi fa ricordare la lettera di un giovanissimo condannato a morte della Resistenza che, la sera prima di essere ucciso, scriveva ai genitori che il dramma di quei giorni avveniva perché la loro generazione non aveva più voluto saperne della politica. Inoltre, oggi, assistiamo al riemergere dell’odio razziale e del fanatismo religioso: i morti delle Ardeatine è come se ci ammonissero continuamente, ricordandoci che mai si può abbassare la guardia sulla difesa strenua dei diritti dell’uomo, del sistema democratico».
Lei è stato anche giudice della Corte costituzionale: dove sente la nostra Carta fondamentale più fedele ai valori della Resistenza? Condivide il giudizio di Norberto Bobbio secondo il quale il grande risultato della Resistenza è stata la Costituzione, perché portò la democrazia italiana «molto più avanti di quella che era stata prima del fascismo»?
Cosa pensa della polemica dei decenni passati sulla «Resistenza tradita», che ancora riemerge?
«Le risponderò con una citazione del presidente Napolitano. Parlando a Genova il 25 aprile del 2008, disse con estrema chiarezza: “Vorrei dire che in realtà c’è stato solo un mito privo di fondamento storico reale e usato in modo fuorviante e nefasto: quello della cosiddetta «Resistenza tradita», che è servito ad avvalorare posizioni ideologiche e strategie pseudo-rivoluzionarie di rifiuto e rottura dell’ordine democratico-costituzionale scaturito proprio dai valori e dall’impulso della Resistenza”. Condivido dalla prima all’ultima parola».
C’era in quella formula un sentimento che potremmo definire di «delusione rivoluzionaria», da parte di chi nel mondo comunista vedeva nella guerra di Liberazione una rivoluzione sociale: ma in realtà non crede che il vero tradimento della Costituzione sia avvenuto negli anni delle stragi di Stato, dei depistaggi, delle verità negate, delle infiltrazioni piduiste nei vertici degli apparati di Stato?
«Stiamo parlando di una guerra che ha avuto anche aspetti fratricidi. Credo che sia molto difficile, quando si hanno avuto familiari caduti, come si dice adesso, “dalla parte sbagliata” o si è stati vittime di soprusi o di vendette da parte dei nuovi vincitori, costruire su questi fatti una memoria condivisa. Pietro Scoppola, nell’infuriare della polemica storico-politica sul revisionismo, invitava a fare un passo avanti e a considerare la Costituzione italiana, nata dalla Resistenza, come il momento fondante di una storia e di una memoria condivisa. Una Costituzione, vale la pena rimarcarlo, che ha consentito libertà di parola, di voto e addirittura di veder presenti in Parlamento esponenti che contestavano quella stessa Costituzione nei suoi fondamenti. Tranne poche frange estremiste e nostalgiche, non credo che ci siano italiani che oggi si sentano di rinunciare alle conquiste di democrazia, di libertà, di giustizia sociale che hanno trovato nella Costituzione il punto di inizio, consentendo al nostro Paese un periodo di pace, di sviluppo e di benessere senza precedenti. Proprio per questo va affermato che il 25 aprile è patrimonio di tutta l’Italia, la ricorrenza in cui si celebrano valori condivisi dall’intero Paese».
Cosa pensa delle violenze e delle vendette che insanguinarono il «triangolo rosso» e le Foibe in quegli anni? Non c’è stato troppo silenzio e per troppo tempo, in un Paese che non ha avuto un processo di Norimberga ma che oggi, settant’anni dopo, non dovrebbe avere paura della verità? E come rivive le immagini di Mussolini e Claretta Petacci esposti cadaveri a Piazzale Loreto?
«È stato merito di esponenti provenienti dalla sinistra, penso a Luciano Violante e allo stesso presidente Napolitano, contribuire alla riappropriazione, nella storia e nella memoria, di episodi drammatici ingiustamente rimossi, come quelli legati alle Foibe e all’esodo degli Italiani dall’Istria e dalla Dalmazia. Sono stati molti i libri e le inchieste che si sono dedicati a riportare alla luce le vendette, gli eccidi, le sopraffazioni che si compirono, anche abusando del nome della Resistenza, dopo la fine della guerra. Si tratta di casi gravi, inaccettabili e che non vanno nascosti. L’esposizione del corpo di Mussolini, di Claretta Petacci e degli altri gerarchi fucilati, per quanto legata al martirio che numerosi partigiani subirono per mano dei tedeschi nello stesso Piazzale Loreto pochi giorni prima, la considero un episodio barbaro e disumano. Va comunque svolta una considerazione di fondo: gli atti di violenza ingiustificata, di vendetta, gli eccidi compiuti da parte di uomini legati alla Resistenza rappresentano, nella maggior parte dei casi, una deviazione grave e inaccettabile dagli ideali originari della Resistenza stessa. Nel caso del nazifascismo, invece, i campi di sterminio, la caccia agli ebrei, le stragi di civili, le torture sono lo sbocco naturale di un’ideologia totalitaria e razzista».
Il tema della riconciliazione, a mio parere, va affrontato tenendo conto che la pietà per i morti dell’una e dell’altra parte non significa che le ragioni per cui sono morti siano equivalenti. «Tutti uguali davanti alla morte — scrive Calvino — non davanti alla storia». Qual è la sua opinione?
Vorrei chiudere con Bobbio. «Il rifiuto dell’antifascismo in nome dell’anticomunismo — ha scritto — ha finito spesso per condurre ad un’altra forma di equidistanza abominevole, quella tra fascismo e antifascismo». E infatti da parte della destra è emerso pochi anni fa il tentativo di superare il 25 aprile, sostituendolo con un giorno di festa civile nel rifiuto di tutte le dittature. Come se non ci fossero altri 365 giorni sul calendario per scegliere una celebrazione contro ogni regime dittatoriale. A patto però di ricordare il 25 aprile, tutti, come il giorno in cui è finita la dittatura del fascismo, nato proprio in Italia. Cosa ne pensa? Il 25 aprile, ha detto Bobbio, ha determinato un nuovo corso nella nostra storia. Perché, semplicemente, «se la Resistenza non fosse avvenuta, la storia d’Italia sarebbe stata diversa, non sarebbe la storia di un popolo libero».
«Credo che quella dell’abolizione della festa della Liberazione sia una polemica ormai datata e senza senso. Sarebbe come dire: invece di celebrare il nostro Risorgimento, festeggiamo la Rivoluzione americana e francese... È vero che nel mondo ci sono stati diversi regimi totalitari e sanguinari, frutto di ideologie disumanizzanti. Ma la storia italiana è passata attraverso la dittatura fascista, la guerra, la lotta di Liberazione. E un popolo vive e si nutre della sua storia e dei suoi ricordi ».
La Repubblica, 23 aprile 2015
SAREBBERO 1200 i migranti morti la settimana scorsa nel Mediterraneo per i naufragi delle fragili imbarcazioni su cui speravano di raggiungere dal Nord Africa le coste meridionali d’Europa. Venivano dalla Siria, dal Mali, dall’Eritrea e dalla Somalia, fuggivano dalla guerra e dalla povertà e, in gran parte, avevano pagato grosse somme ai trafficanti.
La tragedia sconvolge per le dimensioni, ma non rappresenta una novità. A partire dal 1993, stando alle stime, 20 mila migranti sono morti nel tentativo di varcare i confini meridionali dell’Europa. Il dato reale è indubbiamente superiore, di migliaia di morti non si è avuta notizia.
Di chi è la responsabilità? I politici europei puntano il dito contro i trafficanti. Lunedì l’Unione Europea ha annunciato un piano in dieci punti che prevede, tra l’altro. l’intervento militare contro le reti del traffico di esseri umani.
Senza dubbio i trafficanti sono personaggi spietati, che non si curano di mettere a rischio le vite dei migranti, ma se questi ultimi si affidano a loro la colpa è da attribuire alle politiche migratorie dell’Unione Europea. Il problema dell’immigrazione infatti non è stato affrontato dall’Ue sotto il profilo dell’emergenza umanitaria, ma della criminalità, attraverso una triplice strategia di militarizzazione dei controlli alle frontiere, criminalizzazione della migrazione e esternalizzazione dei controlli.
Da più di trent’anni l’Unione Europea è impegnata nella costruzione della “Fortezza Europa”, così la definiscono i critici, ossia un cordone di protezione operato da pattuglie marittime, aeree e di terra, nonché da un sistema di sorveglianza tecnologico con impiego di satelliti e droni. Un giornalista del settimanale tedesco Der Spiegel in visita al centro operativo di Frontex, l’Agenzia europea per la gestione delle frontiere esterne, ha osservato che vi si utilizza un linguaggio che rimanda alla «difesa dell’Europa dal nemico».
Esempio di questo approccio è stato il blocco di Mare Nostrum, l’operazione italiana di pattugliamento e salvataggio in mare, per sostituirla con Triton, un’operazione di ambito più ridotto e con un obiettivo del tutto diverso, tesa cioè a sorvegliare e proteggere i confini più che a salvare vite umane. Il numero dei migranti che oggi tentano di raggiungere l’Europa si discosta di poco dal dato corrispondente dello stesso periodo dell’anno scorso, ma il numero di vittime è di circa diciotto volte superiore.
Approcciare l’immigrazione come un problema di criminalità a volte porta a perseguire non solo i trafficanti, come avvenne nel 2004, quando una nave tedesca trasse in salvo 37 rifugiati africani imbarcati su un gommone. All’attracco in un porto siciliano l’imbarcazione venne sequestrata dalle autorità e il capitano e il primo ufficiale, accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, furono assolti solo dopo una battaglia processuale durata cinque anni. Nel 2007 le autorità italiane tentarono di impedire a due pescherecci tunisini che avevano soccorso in mare 44 migranti di attraccare a Lampedusa. Di nuovo i capitani furono accusati di favoreggiamento e solo nel 2011 assolti in appello.
Non si tratta di casi limite. Che dei buoni samaritani siano trattati come criminali comuni è conseguenza inevitabile della politica migratoria dell’Unione Europea. La strategia di esternalizzazione dei controlli comporta il pagamento di somme di denaro agli stati africani affinché trattengano i potenziali migranti. Tristemente noto è l’accordo con la Libia. Nel 2010, un anno prima degli attacchi aerei operati da Gran Bretagna e Francia per rovesciare il regime del Colonnello Gheddafi, la Ue concluse un accordo con il leader libico impegnandosi a versare 50 milioni di euro perché nell’arco di tre anni le forze di sicurezza libiche fossero trasformate di fatto in polizia di confine. I ribelli anti Gheddafi acconsentirono a prolungare l’accordo ancor prima di andare al potere.
L’Unione Europea ha concluso un accordo simile con il Marocco e spera di estendere l’iniziativa a Egitto e Tunisia. In pratica lo scopo è spostare i confini dell’Europa al Nord Africa.
Il piano in dieci punti proposto lunedì dalle autorità europee è in linea con questo approccio fallimentare. Salta all’occhio la promessa di distruggere le imbarcazioni dei trafficanti, un proponimento non solo di dubbio valore morale — il messaggio ai migranti è “vi vogliamo in Nord Africa, fuori dalle scatole” — ma anche inefficace. Uno dei motivi dell’impennata del numero dei migranti è il crollo dell’autorità statale nella regione. L’intervento occidentale in Libia ha peggiorato il caos e l’azione militare ipotizzata non farà che intensificarlo.
Intanto i migranti sono costretti ad ammassarsi sulle carrette del mare perché le altre vie per entrare in Europa sono state bloccate. Distruggere le imbarcazioni dei trafficanti non farà altro che forzare le persone a scegliere di affrontare il viaggio con mezzi ancor più pericolosi.
Che fare quindi? Riattivare un’adeguata operazione di pattugliamento e salvataggio è importante, ma non basta. L’Unione Europea deve smettere di trattare i migranti da criminali e considerare il controllo dei confini alla stregua di un atto di guerra. Deve smantellare la Fortezza Europa, liberalizzare la politica dell’immigrazione e aprire vie legali per i migranti. Secondo alcuni questo comporterà un’invasione di migranti, ma le politiche attuali non impediscono la migrazione, semplicemente uccidono carichi di uomini stipati come sardine.
La Fortezza Europa non si è limitata a costruire una barriera fisica attorno al continente ma ha eretto una barricata emotiva attorno al senso di umanità dell’Europa. Finché non avverrà un cambiamento il Mediterraneo continuerà ad essere una tomba di migranti. Davanti alla prossima tragedia ricordiamoci che i nostri politici avrebbero potuto evitarla, ma hanno scelto di non farlo.
© 2-015 The New York Times News Service Traduzione di Emilia Benghi
Corriere della Sera, 23 aprile 2015
Al momento il sistema politico italiano vede un solo partito in grado di superare il 30 per cento dei voti e per il resto un insieme — in continua ridefinizione — di partiti medi (Lega, Forza Italia, M5S), piccoli e piccolissimi. Dunque nella situazione esistente oggi, e presumibilmente nel prossimo futuro, quello che si configura è un particolarissimo caso di «monopartitismo». Per quanto si tratti evidentemente di un «monopartitismo democratico», rappresenterebbe egualmente un problema per chi considera l’alternanza come un elemento indispensabile in una democrazia.
Questa situazione ha dietro di sé molte cause e responsabilità, non può dunque essere direttamente imputata all’attuale presidente del Consiglio (è forse colpa sua se Berlusconi, piuttosto che cedere il controllo di FI, preferisce condannarla all’irrilevanza e forse alla scomparsa?). Ma è anche vero che l’Italicum sembra congegnato proprio per accentuare una situazione del genere, che vede un gigante — il Pd — circondato da molti cespugli, come ha efficacemente scritto Antonio Polito su queste colonne. In particolare, l’aver abbassato al 3 per cento dei voti la soglia che consente a un partito di ottenere seggi, favorendo la frammentazione politica, va nella direzione esattamente opposta a quella del bipartitismo evocato dal presidente del Consiglio.
Del resto, se una logica si può individuare nella sua strategia politica, essa sembra tutt’altro che di tipo bipartitico. La dura e insistita polemica con la Cgil e con la sinistra del Pd lascia intendere che per Matteo Renzi la nascita di una formazione alla sinistra del suo partito non sarebbe poi un dramma. Anzi, sarebbe perfino una cosa buona, non in una logica bipartitica (che implicherebbe al contrario un Pd capace di tenere anche le correnti di sinistra al proprio interno) bensì in quella del «partito della nazione» — pure più volte evocato da Renzi — che però del bipartitismo (e del bipolarismo) rappresenta l’esatto contrario.
Lo dimostrano i casi dei due partiti della nazione che a lungo hanno governato l’Italia, prima e dopo il ventennio fascista: il partito liberale in epoca Giolittiana e la Democrazia cristiana nel dopoguerra. Fatte salve le molte differenze (tra l’altro, quello liberale aveva solo in parte la struttura di un partito come lo intendiamo noi oggi), si trattava in entrambi i casi di forze collocate al centro del sistema politico, che hanno governato ininterrottamente per decenni grazie all’emarginazione dei partiti o gruppi esistenti sulla destra e sulla sinistra. È solo dopo il 1994 che questa modalità di governo dal centro ha potuto essere sostituita da un assetto che, per quanti difetti avesse, era però di tipo, se non bipartitico, bipolare.
Con l’Italicum si tornerebbe probabilmente a una condizione molto simile a quella che il Paese ha già conosciuto per tanta parte della sua storia: più che di un cambio di verso, insomma, rischierebbe di trattarsi — se vogliamo riprendere un’altra espressione volentieri utilizzata da Renzi — di un ritorno alla casella di partenza, come nel gioco dell’oca.
Il manifesto, 23 aprile 2015
Intendiamoci. Le organizzazioni di scafisti esistono, così come esiste una vasta documentazione degli atti di pirateria: natanti abbandonati alla deriva, migranti gettati in mare, violenze di ogni tipo. Ma prendere esclusivamente di mira i «mercanti di schiavi» significa sia falsificare agli occhi dell’opinione pubblica la natura delle migrazioni, sia gettare le premesse di nuove sciagure.
Infatti, gli scafisti non fanno che lucrare sulla domanda di mobilità dei migranti. Mobilità nel senso di fuga dalla guerra, di ricerca di opportunità o semplicemente di sopravvivenza. Finora l’Europa ha ignorato le migrazioni, pensando forse che un limitato numero di morti garantisse la propria tranquillità o meglio la propria abulia burocratica. Ora, di fronte alla dimensione di queste tragedie, si inventa la guerra agli “schiavisti” e il «bombardamento e/o distruzione dei barconi», criminalizzando così, insieme a loro, anche le vittime.
L’ipocrisia dilaga anche quando si vorrebbero distinguere i rifugiati dai migranti, come se, oggi, povertà e guerra non fossero realtà strettamente implicate. Si fugge da paesi devastati dalla guerra e dall’impoverimento causato dalla guerra, da paesi distrutti da stolti interventi occidentali o al centro di inestricabili grovigli geopolitici. Si fugge dall’Isis, ma anche dai droni, da Assad e dai suoi nemici, dal deserto e dalle steppe in cui scorrazzano milizie di ogni tipo. Si fugge da città invivibili e da un’indigenza resa ancora più insopportabile dal dilagare di nuove tecnologie che mostrano com’è, o finge di essere, il nostro mondo. Si fugge in Giordania, in Turchia e anche in Europa. Non c’è forse ipocrisia peggiore di quella che lamenta senza soste un’invasione dei nostri paesi, quando invece l’Europa si mostra il continente più chiuso e ottuso di fronte alla tragedia umana e sociale delle migrazioni.
Pensare di cavarsela mandando i droni a bombardare i barconi è un’idea folle, che può venire solo ai poliziotti finiti a dirigere Frontex, l’agenzia europea che ha messo in piedi Triton, con l’obiettivo di tenere lontani i migranti, infischiandosi degli annegamenti. Come distinguere i barconi vuoti da quelli pieni, i pescherecci o i piccoli mercantili dalle carrette della morte? Tutto il mondo sa che i droni di Obama polverizzano soprattutto i civili in Afghanistan. Potete immaginare un drone capace di distinguere, in un porto della Libia, tra scafisti e pescatori? A meno che, naturalmente, tutta questa enfasi guerresca, bagnata da lacrime di coccodrillo per le vittime degli schiavisti, non sia al servizio di un’ipotesi strategica molto più prosaica e molto meno umanitaria.
Un’Europa politicamente acefala, guidata da una Germania bottegaia, pensa forse di «risolvere» la questione delle migrazioni con un cordone sanitario di navi militari e magari di campi di internamento in Libia e nei paesi limitrofi? Tutto fa pensare di sì. Ma se fosse così, non si tratterebbe che di una guerra ai migranti travestita, di un umanitarismo peloso, di un neo-colonialismo mirante a tenere alla larga i poveri da un occidente in cui dilagano pulsioni xenofobe. Se fosse così, altre immani tragedie si annunciano
Nell’ambito delle misure allo studio, Renzi indica quattro punti: rafforzare le operazioni europee come Triton e Poseidon. Dichiarare guerra ai trafficanti di esseri umani con azioni mirate. Scoraggiare le partenze. Imporre la presenza delle organizzazioni internazionali nei Paesi a sud della Libia. Il governo italiano — grazie all’approvazione in Senato di una risoluzione di Fi — non esclude la possibilità di arrivare a un blocco navale in Libia. Il documento forzista dà infatti al Consiglio di sicurezza dell’Onu il compito di valutare. Ma il capogruppo del Pd nella commissioni Esteri e responsabile Esteri della segreteria nazionale del Pd, Enzo Amendola, ha fatto a questo proposito chiarezza. Al momento, ha precisato, «non c’è il blocco navale».
Le città fallite. I grandi comuni italiani e la crisi del welfare urbano" (Donzelli), un efficace panorama dei misfatti dell'urbanistica neoliberista, iniziata negli anni di Craxi e proseguita in quelli di Berlusconi e del suo erede, Matteo Renzi. Il manifesto, 22 aprile 2015
Che il possibile fallimento del comune di Roma e degli altri centottanta comuni italiani sia il risultato coerente e legittimo di un sistema economico-politico esso stesso fallimentare, e non l’accidentale disfatta legata al malaffare o alle ruberie di qualche amministratore, è illustrato con lucidità nell’ultimo libro di Paolo Berdini: Le città fallite. I grandi comuni italiani e la crisi del welfare urbano (Donzelli). Con dovizia di esempi l’autore dimostra come, nel «ventennio liberista», la gestione della polis – l’urbanistica – abbia acquisito assoluta centralità nelle scelte politiche di un paese in cui il «mattone di carta» e la privatizzazione dei servizi al cittadino hanno aggravato la miope scelta dell’edilizia come motore dell’economia nazionale.
Il condono craxiano, il primo della tripletta 1985-1994-2003, è «lo spartiacque». A distanza di pochi anni, nel pieno di «Mani pulite» e in «clima di fastidio per le regole», la legge 179 del 1992 introduce nella pratica urbanistica la contrattazione pubblico-privato «che diventa immediatamente arbitrio»: l’interesse comune è, da allora, legalmente sottordinato all’interesse dei particolari.
I valori immobiliari aumentano, sulla loro crescita si fonda il consenso politico: l’«urbanistica scellerata» si rivelerà infatti strumentale «a nascondere i tagli delle pensioni, i licenziamenti, il contenimento degli stipendi e la precarizzazione del lavoro». La diminuzione dei trasferimenti sta- tali ai comuni, unita all’opera demolitoria di Bassanini (che nel 2001 devasta la legge Bucalossi), dà il via libera alla cementificazione dei territori comunali in risposta alle penurie di cassa. L’economia neoliberista peninsulare si orienta quindi francamente sul mattone (quello vero e quello modernissimo «di carta»). È il prodromo della bolla edilizia, alimentata dai crediti elargiti alle imprese edili in base al loro capitale fisso: in un circolo vizioso, le imprese costruiscono ormai solo per poter continuare a costruire. Con «un milione di alloggi nuovi invenduti», il consumo di suolo in Italia doppia generosamente la media europea.
La legittimità dello sfascio territoriale e della contrazione del welfare urbano è il tratto caratteristico del ventennio descritto nel libro che segue il passaggio graduale dall’abuso classicamente inteso, di cui Berdini è riconosciuto esperto (si veda la sua Breve storia dell’abuso edilizio in Italia, 2010), all’abuso come strumento amministrativo dell’«urbanistica scellerata». Leggi criminogene (l’esempio più chiaro è la Legge obiettivo del 2001) e speculazione finanziaria rendono la città un grosso affare economico a detrimento della sua cultura, delle relazioni sociali che vi si intessono, dei cittadini che vi abitano e vi proiettano le proprie aspirazioni di vita. L’erogazione dei servizi urbani, privatizzati e mercificati, drena enormi ricchezze e diventa l’occasione privilegiata per il «finanziamento occulto del famelico mondo della politica».
Facendo seguito alla crisi dei subprime, i valori immobiliari arrivati alle stelle nel 2008 cadono in picchiata: le famiglie italiane che avevano acceso mutui a buon mercato «finanziati dall’economia di rapina», si ritrovano a pagare l’abitazione a un prezzo iniquo. O a vedersela pignorare per insolvenza.
Così, le «città infelici del neoliberismo» diventano «sempre più grandi e più ingiuste». All’aumento della superficie urbana segue infatti l’incremento delle spese per i trasporti, per asfaltare le strade, per acquedotti, fognature; e, «se aggiungiamo anche i costi di esercizio quotidiano che durano un tempo indefinito – scrive Berdini –, cogliamo il disastro provocato dall’urbanistica liberista». Dunque: più la città cresce, più si indebita facendo ricorso agli strumenti finanziari «che hanno deliberatamente rotto lo storico patto sociale su cui è fondata la vita della città» (i debiti a lunga scadenza intaccano peral- tro il patto generazionale). In questa spirale, le casse comunali collassano: con un debito di 22 miliardi di euro, nell’aprile 2014 il comune di Roma dichiara bancarotta. Per la sua gravità, la vicen- da passa sotto silenzio. Viene adottata una «soluzione geniale» presa a prestito dal copione del li- berismo economico: istituire, secondo il modello sperimentato per l’Alitalia, una bad company in cui far confluire i debiti, e «creare una nuova società pulita» – Roma Capitale – con gli stessi confini amministrativi del precedente comune. Il piano di rientro dal debito, nel segno dell’austerità, crea nuove sofferenze urbane, ben rappresentate dal taglio di più di cinquanta linee di autobus verso le «periferie dolenti».
La svendita del patrimonio comune, in principio non «alienabile, usucapibile, espropriabile», è l’ulteriore pesante elemento di pauperizzazione delle città italiane; i cittadini vengono espropriati del fondativo diritto alla proprietà collettiva, come ricorda nelle belle pagine introduttive Paolo Maddalena.
Da questo diritto fondamentale nasce l’ipotesi del progetto co- rale delineato da Berdini per la ri- costruzione della «città pubblica», l’«abbellimento» delle periferie e per la nuova vita delle aree interne, neglette dal modello metropolitano. Il «lievito spontaneo che le salverà» è già pronto: la rete delle esperienze dei comitati e delle associazioni «ha messo a fuoco i problemi, costruito ipotesi collettive di soluzione». Il suo auspicato «salto di qualità» rappresenta la speranza concreta per uscire dal fallimento neoliberista.
Alla vigilia del 25 aprile, ricordiamo. «Nuovi studi approfondiscono il sostegno che i soldati sovietici, alcuni scampati alla prigionia dei tedeschi, diedero alla lotta di liberazione dei partigiani».
La Repubblica, 21 aprile 2015
Ma ora qualcosa si muove, e negli ultimi mesi – in vista del settantesimo anniversario del 25 aprile – abbiamo visto uscire testi che esplorano in modo innovativo questo pezzo della nostra storia. Tra essi possiamo annoverare il lavoro di Anna Roberti, Dal recupero dei corpi al recupero della memoria, che illumina il contributo dei partigiani sovietici nella liberazione del Piemonte, e il libro di Marina Rossi, Soldati dell’Armata Rossa orientale, che indaga il ruolo degli uomini “venuti dal freddo” in uno spazio difficile, segnato da tante ferite ancora aperte, come le Foibe o l’ignobile massacro dei cosacchi consegnati a Tito dagli Alleati, per non dire da una Guerra Fredda che ha diviso italiani e slavi già prima della fine del conflitto. Lavori pubblicati da case editrici minori, Visual Grafika di Torino e Leg di Gorizia, ma che indicano una tendenza e aprono una strada su un terreno d’indagine ancora quasi vergine.
Già dei partigiani jugoslavi in Italia si sa poco o niente – essi restano terreno di indagine di pochi autori di nicchia – anche se furono molte migliaia. Deportati politici o prigionieri di guerra cui l’8 settembre ‘43 offrì una generale occasione di fuga, essi entrarono in massa nella Resistenza italiana, specie nel Centro Italia, non potendo raggiungere i compagni per via dell’occupazione nazista del Nord del Paese. Ebbene, dei sovietici – russi, caucasici, ucraini, mongoli, kazaki ecc. – si sa ancora meno, e non solo per gli infiniti processi cui è stata sottoposta la guerra di Liberazione negli ultimi anni, ma anche perché – osserva Franco Sprega di Fiorenzuola d’Arda, agguerrito indagatore della Resistenza tra il Po e la via Emilia – tutto, con loro, “diventa più complicato”.
Già i numeri lo dicono. I prigionieri dell’Armata Rossa caduti nella mani dei tedeschi furono cinque milioni, una cifra che non ha eguali in nessun’altra guerra europea. Di questi, almeno la metà – gli irriducibili – furono lasciati morire di fame e di freddo. Gli altri furono assorbiti come ausiliari o inquadrati nell’esercito nazista, come la famigerata 162ma divisione turkestana che sull’Appennino lasciò una scia incomparabile di violenza, specie sulle donne. Una parte di questi prigionieri – in Italia dai cinque ai settemila – saltarono il fosso per mettersi in contatto coi partigiani, ma essi chi furono davvero? Quanti si mossero per opportunismo, quanti per fede, e quanti perché rinnegati da Mosca? Dopo che Stalin aveva ordinato loro di suicidarsi in caso di cattura, la loro resa era diventata un reato punibile con la fucilazione (cosa che per molti effettivamente avvenne) e dunque nella scelta partigiana c’era anche la ricerca di una riabilitazione agli occhi della madrepatria.
Terreno difficile, per uno studioso che vuole evitare la retorica celebrativa. Ma ora in aiuto ci viene la nuova accessibilità di archivi statunitensi, britannici e soprattutto russi, finora non consultabili, che consentono di leggere meglio l’apporto degli stranieri alla Liberazione. Nel libro di Marina Rossi compare integralmente, per esempio, il diario di guerra del moscovita Grigorij Iljaev Aleksandrovic, catturato dai tedeschi prima dell’età di leva e poi fuggito rocambolescamente, dal quale emergono dettagli inediti sulla resistenza tra Tolmino e l’Istria montana e soprattutto sugli ultimi giorni di combattimenti attorno a Trieste, ai primi di maggio del ‘45, quando il resto d’Italia è già stato liberato.
Sia la Rossi che la Roberti osservano come le unità partigiani trovassero nei sovietici combattenti agguerriti, grazie al doppio addestramento avuto nell’Armata Rossa e nella Wehrmacht. Nella sua intervista prima di morire con Franco Sprega, Mario Milza, primo a entrare a Genova con la 59 brigata “Caio”, dice dei sovietici che “sapevano fare la guerra”, erano “disponibili al rischio” e sapevano esprimere “un volume di fuoco” che ti metteva al sicuro. Un partigiano, chiamato genericamente “il Russo” e poi svelatosi post mortem come Vilajat Abul’fatogli Gusejnov di nascita azera, ebbe l’onore di una sepoltura monumentale nel Piacentino e fu ricordato al punto che, dopo il trasferimento del corpo in Urss, il partigiano Maurizio Carra di Borgo Taro trasferì marmi e lapidi nel giardino di casa sua.
Solo ora sappiamo chi furono Dimitri Makarovic Nikiforenko, nome di battaglia “Willy”, Mehdi Huseynzade “Mihajlo” o Vasilji Zacharovic Pivovarov “Grozni”. Per il resto riemergono dalle nebbie solo visi sfocati, nomi storpiati, o cimiteri – come quello di Costermano fra il Garda e la Val d’Adige – dove settant’anni fa vennero ammassati senza distinzione tagliagole collaborazionisti e comandanti di unità partigiane, accomunati dal solo denominatore di essere, genericamente, “russi”. In questo ginepraio, quanto ha dovuto faticare – racconta Anna Roberti nel suo libro – Nicola Grosa, mitico partigiano piemontese, per dare a guerra finita un nome a questi stranieri caduti nella lotta subalpina, specie nel Canavese, e portarne i corpi a Torino al “Sacrario della Resistenza”.
Ma la loro memoria è specialmente viva sul confine orientale, dove essi si batterono con i garibaldini italiani e più spesso con la Resistenza slovena, in un rapporto di cameratismo facilitato dalla parentela linguistica. Il “Ruski Bataljon” fece saltare ponti, bloccò intere colonne di tedeschi in ripiegamento, conquistò bunker perdendo decine di uomini. Molti di loro, come il famoso “Mihajlo”, morto in combattimento, sono diventati eroi in patria, e la loro leggenda vive ancora.
La Repubblica, 21 aprile 2015
I 10 “dissidenti” del Pd sulla legge elettorale sono fuori dalla commissione Affari costituzionali che oggi pomeriggio inizierà a votare gli emendamenti all’Italicum. Lo ha deciso l’ufficio di presidenza del gruppo che ha “salvato” Giuseppe Lauricella: il deputato siciliano ha assicurato che si atterrà alle indicazioni del gruppo.
Bocchescucite.org, 20 aprile 2015
Awas Ahmed è somalo, rifugiato in Italia. Racconta il senso della fuga e il perché abbiamo bisogno di guardare oltre Lampedusa cambiando prospettiva.
A chi domanda: «Cosa speravate di trovare in Europa? Non c’è lavoro per noi figurarsi per gli altri», rispondo: «Cerchiamo salvezza, futuro, cerchiamo di sopravvivere. Non abbiamo colpe se siamo nati dalla parte sbagliata e soprattutto voi non avete alcun merito di essere nati dalla parte giusta».
Mio cognato scappava con me. Prima del mare c’è il deserto che ne ammazza tanti quanti il mare. Ma quei cadaveri non commuovono perché non si vedono in Tv. Perché non c’è un giornalista che chiede ripetutamente quante donne e bambini sono morti, quante erano incinte. Perché qui in Occidente a volte sembra che l’orrore non basti, c’è bisogno di pathos.
Mio cognato è morto nel deserto. Per la fame. Dopo 24 giorni in cui nessuno ci ha dato da mangiare. A casa c’è una moglie che non si rassegna e aspetta una telefonata che io so non arriverà mai. A casa c’è quel che resta di un sogno, di un progetto, di una vita. Un biglietto per due i trafficanti se lo fanno pagare caro e, loro, i soldi non li avevano. Se fosse restato, li avrebbero ammazzati tutti e due. Il suo ultimo regalo per lei è stata la vita. Lui è scappato e lei non era più utile, l’hanno lasciata vivere.
Il Sole 24 ore, 21 aprile 2015
Settecento morti nel Mediterraneo nella notte tra sabato 18 aprile e domenica, a 60 miglia dalle coste libiche. È il più grande sterminio in mare dal dopoguerra, dopo i 366 morti del 2013 a Lampedusa. Inutile snocciolare i numeri delle scorse settimane, le percentuali in costante aumento: sempre giunge l’ora in cui il numero acceca la vista lunga, indica e al tempo stesso cancella le persone. Enumerare non serve più, se non chiamiamo a rispondere gli attori politici del dramma: la Commissione europea, gli Stati dell’Unione, l’Alto Commissariato Onu. A tutti va ricordato che le normative sul soccorso dei naufraghi e sul non-respingimento sono divenute cogenti in contemporanea con l’unificazione europea, in memoria del mancato soccorso alle vittime dei genocidi nazisti. Sono la nostra comune legge europea.
A questi attori bisogna rivolgersi oggi con una preliminare e solenne richiesta: smettete l’uso di parole altisonanti; passate all’azione; non reagite con blocchi navali che tengano lontani i fuggitivi dalle nostre case, come si tentò di tener lontani gli ebrei in fuga dal nazismo. Questo è un giorno di svolta. A partire da oggi il più grande sterminio in mare dal dopoguerra occorre mettere la parola urgenza, al posto di emergenza. Bisogna dare alla realtà il nome che merita: siamo di fronte a crimini di guerra e sterminio in tempo di pace, commessi dall’Unione europea, dai suoi 28 Stati, dagli europarlamentari e anche dall’Alto Commissariato dell’Onu. Il crimine non è episodico ma ormai sistemico, e va messo sullo stesso piano delle guerre e delle carestie prolungate. Il Mar Mediterraneo non smette di riempirsi di morti dal 28 marzo 1997, quando, nel naufragio della Katër i Radës, 81 profughi albanesi perirono nel canale di Otranto. Lo sterminio dura da almeno 18 anni: più delle due guerre mondiali messe insieme, più della guerra in Vietnam. È indecenza parlare di “cimitero Mediterraneo”. Parliamo di fossa comune: non c’è lapide che riporti i nomi dei fuggitivi che abbiamo lasciato annegare.
Le azioni di urgenza che vanno intraprese devono essere, tutte, all’altezza di questo crimine, e della memoria del mancato soccorso nel secolo scorso. Non sono all’altezza le missioni diplomatiche o militari in Libia, dove per colpa dell’Unione, dei suoi governi, degli Stati Uniti, non c’è più interlocutore statale. Ancor meno lo sono i blocchi navali, gli aiuti alle dittature da cui scappano i richiedenti asilo, il silenzio sulla vasta destabilizzazione nel Mediterraneo – dalla Siria alla Palestina, dall'Egitto al Marocco – di cui l’Occidente è responsabile da anni.
Le azioni necessarie nell’immediato, eccole:
Urge togliere alle mafie e ai trafficanti il monopolio sulle vite e le morti dei fuggitivi, e di conseguenza predisporre vie legali di fuga presidiate dall’Unione europea e dall’Onu.
Urge finanziare gli interventi di ricerca e soccorso lungo le coste europee ma anche in mare aperto come faceva l’operazione Mare nostrum, e dovrebbe fare l’operazione Triton; tutto ciò nella piena consapevolezza che la stabilizzazione del caos della Libia non è ottenibile nel breve-medio periodo.
Urge la collaborazione leale (come stabilito dall’articolo 4 del Trattato dell’Unone) smentendo cio che ha dichiarato Natasha Bertaud, portavoce della Commissione: «Attualmente la Commissione non ha né le risorse né il sostegno politicoper costituire un sistema di protezione dei confini capace di svolgere operazioni di ricerca e soccorso» . Questa frase ha lo sconvolgente significato di “mancanza di soccorso”, considerata un crimine nel nostro sistema giudiziario.
La stessa ONU dovrebbe muoversi con urgenza, e il Consiglio di sicurezza dovrebbe affrontare questa tragedia con una risoluzione. Se i delitti compiuti sul mare appaiono come il prolungamento della guerra o della carestia generate dal collasso degli stati di origine o di transitonon possiamo escludere l’intervento peacekeeping dell’ONU. L’aiuto agli sfollati e agli affamati è procedura consolidata dell’ONU: oggi deve essere applicata al Mediterraneo
Gli accordi di Dublino devono essere ripensati al più presto. Con una decisione del 21 dicembre 2011 la Corte di giustizia europea ha espresso una valutazione positiva al considerare il rischio di trattamento inumano dei profughi come una condizione essenziale peril trasferimento. Ciò costituisce un effettivo obbligo di derogare dall’elenco di criteri stabiliti dal regolamento di Dublino
Con la stessa tempestività occorre tenere in considerazione che i paesi più esposti oggi al flusso dei profughi sono quelli del Sud Europa (Grecia, Italia, Cipro, Malta, Spagna): si tratta degli stessi paesi che sono stati colpiti, dopo la crisi del 2007-2008, da una drastica riduzione della spesa sociale. Queste voci di spesa comprendono quelle destinate alla ricerca e soccorso per i profughi. L’onere che pesa ingiustamente su questi paesi deve essere immediatamente alleviato.
Infine, c’è il problema dei tempi. Dal massacro di Lampedusa del 2013 i governi dell’Europa hanno sostenuto la cooperazione con i paesi di origine o transito dei profughi per “esternalizzare" le politiche di ricerca e soccorso e quelle di asilo. Il Commissario Dimitris Avramopoulos ha perfino auspicato la “collaborazione con le dittature” considerando respingimenti collettivi, benchè vietati dalla Convenzione per i diritti dei profughi (articolo 33) e dagli articoli 18 e 19 dalla Carta europea dei diritti fondamentali. Non c’è tempo per costruire relazioni diplomatiche (nell’ambito dei cosiddetti processi Rabat e Khartoum) perché i profughi sono in mare, e devono essere salvati: ovviamente dalla morte, ma anche dalle mafie che si arricchiscono dalla loro carne, aiutate dal vuoto di legalità che l’Unione europea deve ora riempire.
Gli stati europei e l’ONU sono colpevoli di delitti e continuano a vivere in una condizione delirante. Carlotta Sami, portavoce dell’ UNCHR, è stata molto chiara: «Lasciar morire la gente nel mare non scoraggerà i profughi nella loro ricerca di salvezza» dalla guerra, dalla carestia, dall’odio recentemente scatenato contro i cristiani o altre minorante e, in futuro, anche dalle catastrofi legate al clima. La velocità dei colloqui e delle trattative diplomatiche non corrisponde più all’urgenza dei fatti. Il tempo per organizzare una massiccia operazione di soccorso per l’umanità che fugge verso l’Europa è adesso, mentre parliamo.
il manifesto), Roberto Saviano e Ilvo Diamanti (la Repubblica), Claudio Magris (Corriere della sera), 19 e 20 aprile 2015
Fuggivano da guerra e miseria anche i 700 disperati dei quali non si ha notizia e ancora tanti sono i dispersi in mare, solo 49 risultano in salvo. Non c’è bisogno che lo dica il Vaticano che fuggivano da guerra e miseria per averne una conferma. Guardate la geografia dei luoghi da dove, ogni santo giorno, arrivano in fuga: Nigeria, Mali, Niger, Siria, Somalia, Libia, Egitto, Iraq…ecc. ecc. Non c’è una sola realtà che non veda la costante povertà della quale siamo responsabili – per favore qualcuno veda come abbiamo ridotto il Delta del Niger, una regione grande come l’Italia in Nigeria, “grazie” ai nostri pozzi petroliferi e a quelli delle altre multinazionali del petrolio. Una fogna di bitumi che hanno devastato l’ambiente, rimasto semplicemente senza acqua.
Ma questo è poco. Ognuno di quei paesi è in preda certo alle scellerate avanzate dell’Isis, ma grazie al terreno fertile di macerie che abbiamo provocato con le nostre guerre. E’ stata la Nato a trasformare la Libia, il paese con il reddito più alto dell’Africa, in un cumulo di rovine senza istituzioni rappresentative con tre governi che si combattono e ora sicuro santuario dello jihadismo estremo per tutto il Medio Oriente.
O vogliamo parlare delle magnifiche sorti e progressive dello scenario somalo? Senza dimenticare l’uso occidentale strumentale dei jihadisti in chiave anti-Assad per poi scoprire che così facendo hanno preso piede in due terzi dell’Iraq, paese dove l’occupazione militare statunitense — come riconosce lo stesso Obama – ha permesso alla fine l’avvento e le stragi degli ultimi radicalismi islamisti dello Stato islamico.
Fuggono da queste guerre e da questa miseria. Noi siamo perlomeno co-responsabili. E invece l’Unione europea dichiara che “non può fare nulla”, annunciano gli alti funzionari dell’immigrazione Ue. E invece, come scrivono ormai perfino i giornali tedeschi, sarebbe doveroso, urgente e riparatorio avviare subito una missione di Mare nostrum stavolta europea.
Quando c’era Mare Nostrum il numero delle vittime è calato improvvisamente. Semplicemente li soccorrevamo: è quello che dobbiamo fare anche adesso.
Ma chi paga? E’ sempre dai giornali tedeschi che arriva il suggerimento: il prossimo vertice del G7 costerà milioni ai paesi europei. Basta premiare il nefasto ceto polico continentale con alberghi a 6 stelle e con pranzi raffinati. Impegniamo quei soldi per una missione navale che soccorra e salvi i migranti, subito.
E’ tempo di fare spending review in questa Unione europea che se non trova ragioni per esistere nemmeno per questa tragedia, è meglio che chiuda i battenti. Toccherà a noi che siamo internazionalisti e per questo europeisti convinti, rifondarne un’altra solidale ed eguale.
Quanto allo squalo Salvini, propone un blocco navale militare - di 150 navi da guerra - per impedire che i disperati arrivino. Come se non fosse mai accaduto: qualcuno si ricorda del massacro della Kater I Rades con 100 albanesi, donne, bambi e vecchi, speronata da una nave militare italiana nel 1997? E aggiunge lo sciacallo-squalo che ci vogliono tanti campi di concentramento in Africa per decidere lì “chi è davvero clandestino e chi ha bisogno d’aiuto”.
Tutti loro hanno bisogno d’aiuto. Noi non abbiamo certo bisogno del razzismo e dell’odio di Salvini. Il fascio-leghista promette che andrà a Palermo e si metterà su un gommone. Così lo vediamo che se ne va…su un gommone
La RepubblicaILMEDITERRANEO FOSSA COMUNE
COSÌ QUEI MORTI DI NESSUNO
PESANO SULLE NOSTRECOSCIENZE
di Roberto Saviano
Il punto è che il primo obiettivo dovrebbe essere quello: salvare delle vite, prendersene cura. Invece si è riusciti a far diventare questa volontà come ridicola, romantica, naif. Qualunque riflessione sul dolore degli altri, di chi arriva da un “sottomondo”, deve essere contenuta. C’è un’economia nella sofferenza. Chi valuta il dolore, chi misura la tragedia umana, chi cerca di svegliare il torpore della conta degli affogati è iscritto di diritto al movimento “buonista”.
“Buonista” è l’accusa di chi non vuol spender tempo a capire e ha già la soluzione: respingimenti, arresti, blocchi. Un miscuglio di frustrazione personale che cerca il responsabile del proprio disagio, una voglia di considerare realistica e vincente solo la soluzione più autoritaria. La bontà considerata come sentimento ipocrita per definizione. E, cosa assai peggiore, una qualità morale che può avere solo l’uomo perfetto, candido, puro: quindi nessuno se non i morti, la cui vita è trasfigurata e le cui azioni sono già spese. Chiunque cerchi, nella sua umana imperfezione, di agire diversamente è marchiato con un giudizio unico: falso. La bontà diviene quindi sentimento senza cittadinanza, ridicolo, proprio perché non può essere compiuto se non nella rotonda perfezione. Questo è il cinismo miope, che liquida tutto con solerte sarcasmo.
Ovvio che razionalmente non è immaginabile una smisurata accoglienza universale, senza regole, ma la strada intrapresa delle mezze concessioni e dai mezzi respingimenti non regge più. Il peso politico che avremmo dovuto avere essendo Stato-cerniera non c’è stato riconosciuto. Dovevamo pretendere di scontrarci sul tema immigrazione con il resto dell’Europa. Dovevamo pretendere di essere ascoltati, senza che “il problema” venisse scaricato su di noi, delegato a noi.
La perenne campagna elettorale di Renzi, che sul piano internazionale sembra più voler acquistare una credibilità diplomatica piuttosto che porre e imporre temi, non ci sta aiutando ma ci sembra ingeneroso dare a questo governo ogni responsabilità. L’Europa colpevolmente tace, possiamo però tentare di cambiare le cose. Possiamo impegnarci a interpretare, a raccontare, a non permettere che queste vite siano schiacciate e sprecate in questo modo. Che siano lasciate indietro, tanto indietro da sparire dalla nostra vista. Diventando un fantasma, uno stereotipo, un fastidio.
Inventarci percorsi laterali, chiamare a raccolta tutta la creatività possibile. Parlarne in tv e sul web ma in modo diverso: come dicevamo “profugo” o “clandestino” sono termini che diluiscono la specificità umana costruendo una distanza irreale che abbassa il volume all’empatia.
Dobbiamo chiedere ai partiti di candidare donne e uomini che vengono da quest’esperienza, aprire loro le università. Tutto questo diminuirà il consenso politico con la solfa del «prima noi e poi loro»? Probabilmente sì, accadrà questo. Ma solo nella prima fase ben presto ci si accorgerà dell’enorme beneficio che avremmo. La storia degli sbarchi e dei flussi di migranti deve diventare un tema che il governo sentirà fondamentale per il suo consenso.
Renzi e il suo governo sono solleciti a rispondere quando un tema diventa mediatico e popolare: se percepiscono che il giudizio su di loro sarà determinato dal problema migrazione inizieranno a sparigliare, a trovare nuova strategia ad avere nuovi sguardi. Il semestre italiano in Europa è stato una profonda delusione, in termini di proposte sui flussi dei capitali criminali (era l’occasione per porre il tema del riciclaggio) e in termini di emigrazione. Ma in questo momento inutile rimpiangere il non fatto è necessario che l’Europa decida in maniera diversa. Dare spazio non episodico alle vicende dei migranti. La tv li accolga, cominciando a pronunciare bene i loro nomi e quelli delle loro nazioni, raccontando il loro quotidiano e la loro resistenza.
Gli unici che in queste ore rappresentano ciò che l’Europa dovrebbe essere sono gli italiani, i molti italiani che salvano vite tutti i giorni rischiando di violare leggi. La figura che sintetizza questi italiani colmi di onore è descritta dal pescatore Ernesto nel bellissimo film “Terraferma” di Crialese che viola l’ordine della Capitaneria di tenersi con il suo peschereccio lontano da un gommone rispondendo con un semplice , umano e potente: «Io gente in mare non ne ho lassata mai».
OLTRE novecento persone morte in un barcone, in viaggio dalla Libia verso la Sicilia. Sparite in fondo al mare. Insieme ad altre migliaia, vittime di molti altri naufragi. Accomunate e travolte dalla stessa disperazione.
CHE spinge ad affrontare il mare “nemico” per sfuggire alla fame, alla miseria, alla violenza. Oggi: alla guerra. Più che di “migrazione”, si tratta di “fuga”. Anche se noi percepiamo la “misura” della tragedia solo quando i numeri sono “smisurati”. Salvo assuefarci anche ad essi. Ed è questo, come ho già scritto, che mi fa più paura. L’abitudine. La distanza da una tragedia che, invece, è a due passi da noi. La tentazione di “piegarla” e di “spiegarla” in chiave politica. Per guadagnare voti. Eppure le migrazioni sono un fenomeno ricorrente. Tanto più e soprattutto in fasi di cambiamento e di trasformazione violenta (in ogni senso), come questa. Allora, le popolazioni si “mobilitano”, alla ricerca di nuove e diverse condizioni di vita.
È capitato a noi italiani, lo sappiamo bene. In passato, ma anche oggi. Soprattutto ai più giovani. D’altronde, due italiani su tre pensano che i loro figli, per fare carriera, se ne debbano andare all’estero (Osservatorio Europeo sulla Sicurezza, curato da Demos e Osservatorio di Pavia per Fondazione Unipolis). Come, puntualmente, avviene. Infatti, l’Italia è al quinto posto in Europa, come Paese di immigrazione. Dopo Gran Bretagna, Germania, Spagna e Francia. Ma — il fenomeno è meno noto — è al quarto posto come Paese di “emigrazione”. Gli stranieri che vivono — e lavorano — in un Paese dell’Ue sono infatti soprattutto turchi, marocchini, rumeni e, appunto, italiani. In Germania, Svizzera e Francia, dunque, noi siamo come i marocchini e i turchi. Proprio per questo, peraltro, le paure sono, al proposito, comprensibili.
La xenofobia, letteralmente: paura dello straniero, riflette l’impatto con un fenomeno nuovo. Che si è sviluppato in modo rapido e violento. Secondo il Centro Studi e Ricerche Idos, gli stranieri in posizione regolare, alla fine del 2013, erano circa 5 milioni e 440 mila. Cioè, l’8% della popolazione. Con un aumento rispetto all’anno precedente di circa il 4%. In confronto al 2004, quando gli immigrati erano meno di 2 milioni, significa un aumento di quasi tre volte. E di 4, rispetto al 2001. Il nostro paesaggio sociale e demografico, dunque, è cambiato profondamente e molto in fretta. Difficile che questo avvenga senza fratture, senza reazioni. Tuttavia, nonostante tutto, la società italiana si è adattata. Per necessità, ovviamente, visto che gli occupati stranieri sono 2,4 milioni, oltre il 10% del totale, mentre nel 2001 erano solo il 3,2%. Ma anche perché ha cominciato ad abituarsi alle diversità, alle differenze etniche e culturali. Come altrove si sono abituati a noi, in passato.
Anche se la recente Indagine dell’Osservatorio sulla sicurezza in Europa (febbraio 2015), condotta da Demos (insieme all’Osservatorio di Pavia e alla Fondazione Unipolis), rileva un deterioramento degli atteggiamenti verso i migranti, in Italia. Più di un italiano su tre percepisce, infatti, gli immigrati come un “pericolo per l’ordine pubblico e la sicurezza delle persone” (33%). Tuttavia, occorre rammentare che, fra il 2007 e il 2009, questo indice aveva proporzioni ben diverse: fra il 45 e il 50%. Da allora l’immigrazione non ha smesso di crescere. Ma è cambiato l’approccio. Da parte della società, anzitutto. Perché, come si è detto, ci siamo abituati agli “altri intorno a noi”. E abbiamo cominciato, per questo, a percepirli come “altri noi”.
Così, la diffidenza ha cominciato a declinare. Per altro verso, è cambiata la narrazione del fenomeno da parte dei media. Come ha sottolineato l’Osservatorio di Pavia, negli ultimi anni le notizie sull’immigrazione, sui notiziari di prima serata delle principali reti nazionali, continuano ad essere numerose: 1007 notizie nel 2013 e 901 nel 2014. Ma, soprattutto dopo la visita di papa Francesco a Lampedusa, nel 2013, i sopravvissuti al mare diventano “migranti” e non più “clandestini”. E le ordinarie storie di intolleranza, raccontate in precedenza, lasciano il passo a storie di solidarietà, altrettanto ordinarie. Dai luoghi dei naufragi. Lo stesso avverrà, sicuramente, anche questa volta.
Vale la pena di aggiungere, ancora, che l’immigrazione è vissuta come un problema anche altrove. In Europa. L’immigrazione è, infatti, considerata una delle due principali emergenze dal 13% degli italiani (Pragma per l’Osservatorio Europeo sulla Sicurezza in Europa), ma da quasi il 50% in Gran Bretagna e in Germania. D’altronde, da noi l’immigrazione è sempre più di “passaggio”. Verso altri Paesi che offrono prospettive di lavoro migliori. Perché l’immigrazione, non dobbiamo dimenticarlo, può essere fonte di preoccupazione, ma è, comunque, un indice di sviluppo. Quando gli immigrati cominciano ad andarsene, come effettivamente avviene da qualche tempo, è perché il nostro mercato del lavoro non è più in grado di attrarli e di assorbirli.
Tuttavia, ieri come oggi, in Italia come altrove, gli immigrati possono essere una risorsa politica. Soprattutto in tempo di campagna elettorale. Un argomento agitato da imprenditori politici della paura, per tradurre l’insicurezza — e le vittime degli scafisti — in voti. Il Front National, in Francia. Ukip di Farage, in Gran Bretagna. La Lega di Salvini, in Italia. Così diversi eppure così vicini. Nel segno dell’Anti-europeismo e della paura degli altri. Ma invocare blocchi navali e respingimenti, di fronte a tragedie immense, come quella avvenuta ieri nel mare di Sicilia, non è in-umano. È semplicemente ir-reale. Come se fosse possibile — oltre che giusto — fermare la fuga dalla guerra e dal terrore che ci assediano. A pochi chilometri da noi.
Ma l’unico modo per fermare i disperati che, a migliaia, si dirigono verso le nostre coste — e, a migliaia, muoiono nel viaggio. Ostaggi di mercanti di morte. L’unico modo possibile per respingerli, per tenerli lontani da noi: è chiudere gli occhi. Fingere che non esistano. Rinunciare alla compassione verso gli altri.
Non avere pietà di noi stessi.
la Repubblica) e Fiorenza Sarzanini (Corriere della sera), 20 aprile 2015
L’ULTIMA OPZIONE DI PALAZZO CHIGI
DISTRUGGERE I BARCONI IN PORTO
di Goffredo De Marchis
Il presidente del consiglio intende “dichiarare guerra agli scafisti”. Si potrebbe trattare di una vera e propria azione militare e il modello da seguire sarebbe quello utilizzato anni fa in Albania anche se in quel caso ci fu il pieno appoggio del governo di Tirana
Nelle stesse ore Renzi sente Hollande, Merkel, Cameron e Juncker, riunisce a Palazzo Chigi mezzo governo e incontra la Mogherini. Al termine della giornata chiede un Consiglio europeo straordinario. E da qui parte la storia di quello che questa volta l’Europa vuole fare sfruttando l’onda emotiva della tragedia per coinvolgere tutti i governi nell’immediato, nel medio e nel lungo periodo.
Ieri sera il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, consultava le capitali per verificare se fosse possibile convocare il summit straordinario. Si farà, assicuravano fonti europee bene informate. Molto probabilmente giovedì. Così a Bruxelles è scattato il lavoro frenetico per preparare il summit, specialmente negli uffici della Mogherini. Che oggi presiederà la riunione dei ministri degli Esteri Ue durante la quale lancerà la prima sfida. Il capo della diplomazia europea illustrerà ai ministri il suo rapporto di 46 pagine sulla Libia (come si spiega nel pezzo sotto ndr). La maggior parte delle azioni (terrorismo e immigrazione) richiedono prima un accordo tra tribù nel negoziato dell’inviato Onu Bernardino Leòn. Ma Mogherini spingerà per far approvare subito la parte della strategia slegata all’intesa per un governo di unità nazionale.
Primo, lanciare un controllo della frontiera tra Niger e Libia, là dove passa la rotta più densa di migranti guidati dai trafficanti. Secondo, intensificare lo scambio di informazioni tra le intelligence europee: si punta a bloccare i flussi di denaro dei trafficanti con operazioni congiunte e organizzare blitz mirati nel Sahara per bloccare le rotte e neutralizzare i gruppi criminali che mandano a morire i migranti.
Spiega una fonte che lavora sul dossier di competenza di Mogherini, Timmermans e Avramopoulos: «Dobbiamo usare la tragedia per costruire un senso di urgenza politica tra capitali e rafforzare la Commissione», ovvero per permettere a Bruxelles di approvare un testo ambizioso. Che comprenda anche la cooperazione con i paesi di origine e di transito dei migranti (tra cui Sudan, Egitto, Ciad e Niger) per intercettarli prima che spariscano in Libia, salvarli in campi gestiti dall’Unhcr, rimandare a casa (con aiuti economici) chi non ha diritto all’asilo e spalmare in modo permanente su tutti i paesi Ue, e non sui soliti noti, chi invece lo ha. Con un occhio alla Libia, dove, si spera, a breve Leòn sblocchi la situazione e si possa finalmente bloccare le partenze via mare.
Il manifesto, 19 aprile 2015
Sono 734 piazze in tutto il mondo, 41 solo in Italia. Una mobilitazione che ricorda il dicembre 1999, quando il movimento globale si oppose all’allora ministeriale della Wto a Seattle, e che oggi si mobilita per il Trattato transatlantico di liberalizzazione commerciale Usa– Ue (Ttip) e il suo obiettivo di deregolamentare standard, normative e tutte quelle leggi di tutela ambientale e sociale considerati «barriere tecniche al commercio».
In decine di flashmob, sciami di fantasmi hanno vagato per le piazze italiane, come in piazza del Pantheon a Roma dove gli spettri del Ttip si sono fatti inseguire in mezzo a turisti incuriositi, così come in piazza del Duomo a Milano o in via Lagrange a Torino, giusto per citare alcune mobilitazioni italiane «Stop Ttip», a dimostrare che il trattato fantasma sta guadagnando visibilità nonostante la ritrosia della Commissione europea.
D’altro canto uno dei principali obiettivi della campagna internazionale, di cui quella italiana è parte attiva, è proprio quello di spiegare ai cittadini un negoziato non conosciuto ai più, sebbene il nostro Governo sia stato Presidente di turno dell’Unione europea. Aldilà della demagogia sulla presunta trasparenza (uno dei negoziati più trasparenti mai avuti, millanta la Commissaria al Commercio Ue Malmstrom dal suo blog proprio il giorno della grande mobilitazione) quanto si conosce del trattato, lo si deve all’azione dei movimenti sociali che pochi giorni dal nuovo Round negoziale che inizierà il 20 aprile negli Stati uniti, sono riusciti a rendere pubbliche le richieste della Commissione europea all’Amministrazione statunitense: accesso al mercato degli appalti pubblici negli Stati uniti in cambio di maggiore flessibilità in agricoltura. Ecco uno dei patti scellerati che potrebbero lastricare la strada verso la firma, un grande mercato delle pulci dove tanto si ottiene quanto più si dà e dove ci si impegna a difendere un settore nel momento in cui questo risponde a interessi consolidati.
Per questo quasi un milione e settecentomila cittadini europei hanno scelto di firmare una petizione internazionale che chiede il blocco immediato dei negoziati, una raccolta firme che nella giornata di mobilitazione ha visto una netta impennata nelle adesioni verso quota due milioni, considerata dalle reti internazionali l’obiettivo politico da raggiungere.
Le centinaia di migliaia di persone scese in piazza nelle seicento piazze europee e nel centinaio di mobilitazioni statunitensi, lottano per ridare senso al termine «democrazia».
Chiedere maggiore partecipazione non significa, come spesso banalmente semplificato dai sostenitori del Ttip, «negoziare in 800 milioni di cittadini», ma vuol dire essere considerati parte in causa e coinvolti direttamente, anche tramite i Parlamenti, ad oggi con un ruolo defilato. Ridando potere i cittadini ed evitando, ad esempio, che i Parlamentari europei abbiano le armi sputate nel dare pareri non vincolanti, ratificando solo alla fine un trattato con la formula «prendere o lasciare» senza possibilità di emendamento. O evitando le limitazioni all’accesso ai documenti negoziali imposte persino ai parlamentari europei, come l’europarlamentare di Podemos Ernest Urtasun ha recentemente denunciato ai media spagnoli.
I documenti resi pubblici dall’Unione europea grazie alle pressioni dell’opinione pubblica e dell’Ombudsman europeo, sono solo testi legali di posizionamento e non chiariscono l’effettivo livello di compromesso e lo stato dell’arte del negoziato. E forse è persino logico che sia così, considerato che gli interessi che si stanno tutelando, non sono certo quelli della maggioranza dei cittadini europei e statunitensi.
Dietro alla demagogia della difesa delle Indicazioni geografiche per Paesi come l’Italia, per esempio, o dell’aumento dell’export che porterebbe benefici diffusi, c’è una politica che parla di concessioni a pochi privilegiati, di una posizione di difesa delle tipicità che butterebbe fuori mercato la maggior parte delle nostre piccole produzioni di qualità a tutto vantaggio di pochi grandi esportatori, di un abbattimento degli standard di qualità su agricoltura e chimica che ha fatto persino preoccupare la Commissione Ambiente del Parlamento Europeo in una sua recente risoluzione.
A tutto questo si aggiunge una politica di tutela degli investimenti che svuoterebbe definitivamente il potere di controllo dei mercati da parte dei Governi, concedendo alle imprese il potere di denunciare i Governi a causa di legislazioni non gradite. Nonostante tutto questo, nonostante le promesse di Renzi a Obama, questo 18 Aprile c’è un mondo che ha detto «Stop Ttip». Una posizione che, d’ora in avanti, sarà impossibile ignorare.
*Presidente Fairwatch / Campagna Stop Ttip Italia
La Repubblica, 19 aprile 2015
L’AMERICA deve ancora conseguire una piena ripresa dagli effetti della crisi del 2008. Tuttavia, abbiamo recuperato buona parte del terreno perduto, anche se non tutto. Altrettanto non si può affermare, invece, della zona euro, nella quale il Pil reale pro capite è ancora oggi inferiore a quello del 2007, ed è inferiore del 10 per cento rispetto a dove si supponeva dovesse trovarsi. Una prestazione peggiore di quella che l’Europa ebbe negli anni Trenta. Perché l’Europa si è comportata così? Ho ascoltato discorsi e letto articoli nei quali si ipotizza che il problema stia nell’inadeguatezza dei nostri modelli economici — nel fatto che dovremmo riformulare la teoria macroeconomica che durante la crisi non è riuscita a offrire una guida politica. Ma è proprio così? No. È vero: pochi economisti avevano annunciato la crisi. Tuttavia, il piccolo segreto dell’economia è che da allora i modelli di base spiegati nei libri di testo hanno funzionato bene. Il guaio è che i dirigenti politici europei hanno deciso di respingere quei modelli di base a favore di approcci alternativi più innovativi, più entusiasmanti e del tutto errati.
Sto rianalizzando i dibattiti di politica economica e ciò che mi colpisce in modo evidente dal 2010 in poi è la divergenza di pensiero tra Stati Uniti ed Europa. In America, la Casa Bianca e la Federal Reserve sono rimaste fedeli all’economia keynesiana tradizionale. L’Amministrazione Obama ha sprecato tempo e fatica per perseguire una “grande intesa” sul bilancio, pur continuando però a credere nella tesi sostenuta nei libri di testo, ossia che in un’economia depressa la spesa in deficit di fatto è una cosa positiva. La Fed ha ignorato gli ammonimenti secondo i quali stava “svalutando il dollaro”, ed è rimasta aderente all’opinione secondo la quale le politiche di basso tasso di interesse non avrebbero provocato inflazione, almeno fino a quando la disoccupazione fosse rimasta alta.
In Europa, al contrario, la leadership politica si è dimostrata disposta, quasi con impazienza, a gettare i libri di economia dalla finestra per prediligere nuovi criteri. La Commissione Europea, a Bruxelles, ha accolto con entusiasmo le presunte prove sull’utilità della “austerità espansiva”, respingendo le argomentazioni tradizionali a favore della spesa pubblica in deficit, e ha preferito sposare la tesi secondo cui tagliare le spese in un’economica depressa porterebbe alla creazione di posti di lavoro perché alimenterebbe la fiducia. La Bce ha preso a cuore i moniti sul rischio di inflazione e nel 2011 ha alzato i tassi di interesse, anche se la disoccupazione era alta. Ma mentre i politici europei possono aver immaginato di dare prova di apertura nei confronti di nuove idee economiche, gli economisti ai quali hanno dato retta dicevano loro proprio ciò che volevano sentirsi dire. Cercavano giustificazioni per le rigide politiche che erano decisi a imporre alle nazioni debitrici; e così hanno trattato come celebrità economisti quali Alberto Alesina, Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff che parevano offrire proprio quella giustificazione. Invece, come si è scoperto, quella ricerca nuova ed entusiasmante presentava grosse pecche.
E così, mentre le nuove idee si sono rivelate un fallimento, la teoria economica dei vecchi tempi si è dimostrata più forte. Furono derise le previsioni di economisti keynesiani, me incluso, secondo i quali i tassi di interesse sarebbero rimasti bassi nonostante i deficit di bilancio, l’inflazione sarebbe stata frenata nonostante gli acquisti di bond da parte della Fed e i tagli alla spesa pubblica — lungi dall’innescare espansione alimentata da fiducia — avrebbero provocato un’ulteriore crollo della spesa dei privati. Queste previsioni, al contrario, si sono avverate. È un errore sostenere, come fanno molti, che quella politica è fallita perché la teoria economica non ha fornito le linee guida di cui avevano bisogno i policy maker . In realtà, la teoria ha costituito una guida eccellente, se solo i policy maker fossero stati disposti ad ascoltare. Purtroppo, non l’hanno fatto. E continuano a non farlo. Se volete deprimervi sul futuro dell’Europa, leggete l’intervento di Wolfgang Schäuble, ministro delle Finanze tedesco, mercoledì sul New York Times. Troverete un ripudio di ciò che sappiamo di macroeconomia, delle intuizioni che l’esperienza europea degli ultimi cinque anni avvalora. Nel mondo di Schäuble l’austerità conduce alla fiducia, la fiducia genera crescita e, nel caso in cui per il vostro Paese ciò non funzionasse, significa solo che lo state facendo nel modo sbagliato. Torniamo alle nuove idee e al loro ruolo in politica: è difficile argomentare a sfavore delle nuove idee. Negli ultimi anni, tuttavia, lungi dal fornire una soluzione, le idee economiche innovative spesso sono state parte del problema. Se avessimo continuato ad aderire alla macroeconomia dei vecchi tempi staremmo di gran lunga meglio.
Traduzione di Anna Bissanti
© 2-015, The New York Times
Altra Europa. Assemblea a Roma, obiettivo la casa comune ma oggi la priorità è 'mobilitazione totale'. La grande scommessa le elezioni regionali: Liguria, Emilia-Romagna, Veneto, Calabria, Umbria.
Il manifesto, 19 aprile 2015
Prima giornata di lavoro, e prima effettiva assemblea decisionale ieri a Roma per L’Altra Europa con Tsipras nella Sala Roma Eventi (in via Alibert 5), soprattutto primo evento nazionale dalla nascita della ’Coalizione sociale’ lanciata da Maurizio Landini, il ’fatto nuovo’ con cui fare i conti. Da vicino: fra i relatori della mattinata di ieri c’è infatti anche Michele De Palma, braccio destro di Landini e qui a nome della neonata Coalizione. Ma nel menù del dibattito c’è molto: dai 100 anni di Pietro Ingrao raccontati da Maria Luisa Boccia, ad Arnaldo Cestaro, l’uomo torturato alla Diaz, nei giorni di Genova 2001, grazie al cui ricorso la Corte europea ha condannato l’Italia fino alle elezioni spagnole e, neanche a dirlo, alla situazione greca.
350 i presenti, stavolta nel ruolo di delegati da 72 assemblee in giro per i nodi territoriali di tutta Italia. Non per «partitizzarsi», spiegano gli organizzatori, ma per avere un assemblea che possa legittimamente decidere e lanciare una proposta «per un processo costituente unico alternativo alle politiche di austerità». Tema delicato, come sempre, al centro della relazione del sociologo Marco Revelli che ha illustrato il cambio di fase, e di marcia, della (ex) lista elettorale dalle europee di un anno fa.
Il manifesto, 18 aprile 2015
La linea di Varoufakis è chiara: «Faremo compromessi con la Ue ma non finiremo compromessi». Alexis Tsipras dichiara alla Reuters che il governo lavora per una soluzione che «rispetti il recente mandato popolare come il quadro operativo dell’Eurozona», precisando però che restano quattro punti di disaccordo – non tecnici, ma politici – in materia di rapporti di lavoro (del resto il mercato del lavoro greco è già del tutto deregolamentato), di sicurezza sociale, di aumento dell’Iva, di privatizzazioni. Ovvero il cuore del programma sociale di Syriza.
Ma la Grecia ha bisogno di tempo e che si allenti la morsa del debito. Varoufakis ha chiesto al Fmi una tolleranza maggiore del solito mese di grazia. Christine Lagarde ha risposto che la dilazione dei pagamenti non è mai stata fatta per un paese “avanzato”, che è roba da Terzo Mondo. Si potrebbe obiettare che c’è sempre una prima volta per tutto e questo potrebbe essere un ottimo caso, nel quale la Ue e il Fmi potrebbero dimostrare quella saggezza e preveggenza di cui finora hanno dato prova di completa assenza.
La Grecia non uscirà mai dai «sette anni del nostro scontento» – il riferimento shakespeariano- steimbeckiano è farina del sacco di Varoufakis – senza una ristrutturazione del proprio debito, la cui incidenza peraltro in relazione al debito complessivo dell’Eurozona è minima. Ma come sappiamo il problema è politico.
Se la Grecia se la cava, altri possono percorrere strade alternative all’austerità e l’influenza sul quadro politico dei paesi in maggiore difficoltà, che finora hanno eseguito pedissequamente i diktat della Troika trovandosi peggio di prima, potrebbe essere letale per le destre che attualmente li governano. Il riferimento alla Spagna è d’obbligo.
Tuttavia, vale anche il ragionamento contrario. Se la Grecia finisse in default, se - malgrado le ultime dichiarazioni più prudenti della Merkel sulla permanenza greca nella Ue - ciò comportasse una fuoriuscita dall’euro e quindi dalla Ue, non è affatto detto che per la finanza sarebbe pura goduria. Sperare infatti - scrive un editorialista del Sole24Ore - che il Grexit non abbia alcun impatto sui mercati finanziari e sull’economia degli paesi della Ue è come pretendere che una bomba esplodendo non faccia danni.
Per quanto la Bce abbia inondato di liquidità i mercati finanziari europei, con esclusione come sappiamo della Grecia e di Cipro, questi restano sensibili a ogni minimo movimento. La situazione in Europa è migliore del 2011–2012, ma il pericolo di un contagio finanziario del Grexit è tutt’altro che scongiurato.
E’ vero che le banche hanno ormai un’esposizione minima con la Grecia: da 200 miliardi di dollari del 2008 agli attuali 18,6. Ma questo non elimina il pericolo del ritiro dei depositi dagli istituti finanziari dei paesi della catena debole dell’euro, fra cui anche l’Italia, come rivela Goldman Sachs. Se la Grecia se ne va, crolla il mito della irrevocabilità dell’ingresso nell’Euro e altri paesi potrebbero seguire la stessa strada. Quindi sarebbe meglio per chi ha depositi consistenti in questi paesi portarli preventivamente altrove.
Le conseguenze di un Grexit sarebbero ancora più gravi sugli Stati. Complessivamente l’esposizione di questi ultimi sul fronte greco è cresciuta, sia in modo diretto che indiretto, attraverso il cosiddetto fondo salva stati, giungendo a 194,7 miliardi di euro. Se da noi Renzi mena vanto per avere trovato un “tesoretto” di 1,6 miliardi, si può bene capire quale impatto negativo avrebbe sulla nostra economia e sull’opinione pubblica dovere dire probabilmente addio ai quasi 41 miliardi di euro prestati dall’Italia alla Grecia.
“Stop Ttip!” si chiama il nuovo movimento globale, che collega senza centralismi quattrocento organizzazioni. Una catena umana nel cuore di Berlino, da Potsdamer Platz a Unter den Linden dove ha sede la rappresentanza Ue, e spettacoli in piazza a Parigi a Place Stalingrad e a Place de la République, con i potenti delle multinazionali e della politica impersonati da vampiri, saranno il clou della giornata di mobilitazione.
«È un giorno importante, ma l’iniziativa continua, come va avanti da anni», spiega Cornelia Reetz, action manager di Stop Ttip Germania, la sede che di fatto è il “comando operativo” del movimento globale cresciuto soprattutto online, al civico numero 4 di Greifswalderstrasse qui a Berlino. «Intanto prosegue anche la raccolta di firme contro il Ttip e il Ceta, che attorno al 10 ottobre presenteremo alla Commissione europea, a tutte le istituzioni Ue, ai governi nazionali i cui parlamenti dovranno ratificare gli accordi», spiega la Reetz. Il movimento cresce, in vista dell’happening in strada domani in tutto il mondo e anche con la raccolta di firme: «Puntavamo a un milione, ne abbiamo già un milione e 700 mila”.
I soliti no global, i soliti idealisti, diranno in molti. Però le obiezioni di “Stop Ttip” suonano come rilievi da prendere sul serio. L’accordo, continua la giovane organizzatrice tedesca, è stato negoziato in segreto, senza informare le opinioni pubbliche, e svuota le nostre democrazie. «Non è finita: offre vantaggi inutili e pericolosi agli interessi dei grandi gruppi economici, tende ad abbassare gli standard di sicurezza, igiene, ecologia in vigore ad esempio in Europa ai livelli nordamericani, a cominciare dal cibo transgenico per finire ai cosmetici e ad altri prodotti di uso quotidiano». E una volta innescata, la dinamica dell’accordo – sul terreno degli Ogm ma anche con la liberalizzazione spinta delle privatizzazioni – secondo il movimento di protesta sarà difficilmente reversibile.
Catena umana a Berlino, molte iniziative in piazza in diverse città italiane, spettacoli con i “vampiri cattivi” a Parigi, azioni sparse ovunque per il mondo. Le adesioni crescono di ora in ora da una città all’altra. Non avete paura di perdere contro lobby così forti? chiedo. «Chi ha paura di lottare ha già perso», risponde Cornelia Reetz, «la Commissione europea comincia a parlare di noi nei suoi comunicati, la commissaria Cecilia Maelstroem ci appoggia col suo blog. All’inizio non ci speravamo, per questo ci sprona ancor di più a continuare».
Il manifesto, 18 aprile 2015
Il gommone barcolla, il «nemico» è al tuo fianco, ti sfiora, mentre invoca il suo dio, non serve nemmeno il machete, basta una spinta e un «kafir» (miscredente) finisce tra le onde. Le minacce non servono: di fronte alla morte chi ha un dio lo prega. E i cristiani del gommone, come i musulmani continuano a pregare. Altri finiscono tra le onde… Dodici muoiono, vittime non del mare, o per mancanza di soccorsi, ma per un proseguimento della guerra che li ha costretti a lasciare il loro paese. Quasi una rappresentazione plastica di un conflitto terribile. Orribile. Ancora di più se avviene su un gommone, perché non hai scampo.
Ma non l’hanno avuto nemmeno le duecento donne rapite da Boko Haram in Nigeria, un anno fa.
La tragedia del gommone avrà delle conseguenze, non solo per i quindici musulmani accusati della strage. La reazione in Italia è stata immediata: la guerra di religione è qui tra noi. Un nuovo motivo per respingere i disperati del mare, per rimandarli indietro, per non lasciarli nemmeno partire, dalla Libia. Ovvero condannarli tutti a morire se non di religione, di fame o di guerra.
Un ulteriore imbarbarimento, tra di noi, non solo in Libia o in Nigeria, ma in Europa. Come se l’Europa non avesse mai conosciuto le guerre di religione, il nazismo, il fascismo (perché questo è il fanatismo di chi fa della religione la legge per eliminare tutti i diversi, anche coloro che credono nello stesso dio, per opprimere le donne) e ora si chiama fuori, mancano le risorse. In nome del dio denaro si lasciano al loro destino i fedeli di Allah, di Dio e quelli che un dio non ce l’hanno nemmeno. Ma l’Italia è immersa nel Mediterraneo e da millenni meta di chi lo attraversa, questa è stata la sua ricchezza non una condanna
Il manifesto, 15 aprile 2015, con postilla
Lo ius existentiae si pone alla base del contratto sociale. Sin dal ‘600 la coppia obbedienza-protezione s’è imposta come la fonte ultima di legittimazione del potere costituito. Spetta al “sovrano” difendere la vita dei consociati (Hobbes), ma anche i beni essenziali ad essa collegati (Locke). Se il potere costituito non è in grado di garantire le condizioni di “esistenza”, il popolo non è più tenuto a rispettare il pactum consociationis: il diritto di resistenza può essere esercitato.
Nella storia della modernità si è ritenuto che allo Stato dovesse spettare il compito di assicurare la pace (interna ed esterna), mentre il lavoro dovesse costituire il mezzo attraverso cui assicurare la “sopravvivenza” degli individui. La fine della civiltà del lavoro ha cambiato le carte in tavola. Oggi non basta più la volontà di lavorare, né quella di emigrare per poter sopravvivere. Come può lo Stato preservare il diritto all’esistenza?
In via di principio due sono le strade percorribili (tra loro non necessariamente alternative): lo Stato potrebbe assicurare comunque un diritto al lavoro, ampliando artificialmente l’offerta, incentivando – ad esempio – i lavori socialmente utili, anche se economicamente non necessari. L’altra via è quella di assicurare comunque un reddito di cittadinanza anche a chi — in assenza delle condizioni sociali che lo rendono possibile — non può lavorare.
In particolare, la prospettiva del reddito di cittadinanza ha un solido fondamento costituzionale. Essa ruota attorno a quattro principi che valgono a caratterizzare il nostro “patto sociale”: il principio di dignità, con il collegato dovere di solidarietà; il principio d’eguaglianza, inteso come modalità di realizzazione di una società di liberi ed eguali; il principio di cittadinanza, nella sua dimensione partecipativa e di garanzia di appartenenza ad una comunità; il principio del lavoro, assunto nella sua reale dimensione di vita, comprensivo del dramma del non lavoro.
È nel collegamento tra questi principi che si rinviene il diritto costituzionale ad un reddito di cittadinanza. L’errore cui si è spesso incorsi è stato quello di tenerli invece separati. Eppure nella nostra costituzione – più avanzata dei suoi interpreti – appare evidente l’intreccio. Si pensi al rapporto complesso che sussiste tra dignità e lavoro. Al lavoro è legata la dignità (il lavoratore ha, infatti, diritto ad una retribuzione «in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa»), ma è anche evidente come la “dignità” rappresenta un valore da assicurare in ogni caso, ponendosi (la “dignità umana”) come limite alla libertà di iniziativa economica privata, conformandosi come “dignità sociale” nel rapporto tra tutti i cittadini eguali davanti alla legge (nel combinato disposto tra gli articoli 36, 41 e 3).
Vero è che i nostri costituenti perseguivano l’obiettivo della piena occupazione, tant’è che alla Repubblica veniva assegnato il compito di «promuovere le condizioni» per rendere effettivo il diritto al lavoro. Dunque era questa la via maestra per dare dignità sociale ai cittadini. Se oggi però consideriamo non più perseguibile la prospettiva della piena occupazione l’unica alternativa per rimanere entro i confini tracciati dal costituente è quella di assicurare la dignità anche a chi non può lavorare. Non possiamo rassegnarci alle diseguaglianze di una società in cui sempre più ampie parti della popolazione vivono in grave disagio, non possiamo evitare di occuparci dei gruppi sociali in stato di emarginazione, non possiamo lasciare il mondo sempre più esteso dei non occupati senza speranza, privandoli di ogni dignità e opportunità di riscatto.
La lettura sistematica del testo costituzionale evidenzia anche un secondo dato, che a me sembra decisivo, ma che è invece assai sottovalutato nel dibattito attuale sul reddito di cittadinanza.
Detto in breve: nella nostra costituzione il diritto fondamentale alla sopravvivenza, i diritti alla vita dignitosa e all’assistenza come obbligo dello Stato, la lotta all’emarginazione sociale, non vengono assunti in sé, ma sono sempre collegati al necessario svolgimento della personalità, nonché definiti al fine di concorrere al «progresso spirituale e materiale della società» (come si esprime l’art. 4 in rapporto con il diritto al lavoro). Esplicito e diretto è poi il legame tra diritti fondamentali e doveri inderogabili (art. 2). Così come l’obbligazione generale di rimozione degli ostacoli d’ordine economico e sociale nei confronti dei cittadini è associato alla partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del paese (art. 3).
È in questo complesso intreccio che deve trovare una sua specifica qualificazione anche il reddito di cittadinanza, che dovrebbe essere inteso come reddito di partecipazione. Se si vuole cioè evitare che la sovvenzione ai non occupati si trasformi in un mero sussidio di povertà, caritatevolmente concesso ad un soggetto isolato, lasciato nel suo isolamento, e senza possibilità di riscatto, v’è una sola strada da perseguire: legare il reddito alla cittadinanza attiva. La vera sfida, al tempo della disoccupazione strutturale, ma anche del lavoro precario, flessibile, instabile, delocalizzato, immateriale, è quella di conservare quell’orizzonte emancipatorio, tanto individuale quanto sociale, che sin qui – nello schema fordista — era stato assicurato principalmente dal lavoro stabile entro una comunità solidale.
Ma come può legarsi il reddito alle attività sociali? E poi cosa si intende per cittadinanza attiva? Anche in questo caso si può cominciare a riflettere partendo dalla costituzione, la quale imputa a tutti i cittadini il dovere di svolgere un’attività o una funzioni che concorra «al progresso materiale o spirituale della società». Il riferimento è al lavoro tradizionalmente inteso, ma deve ricomprendere anche tutte quelle attività o funzioni che si svolgono “oltre il lavoro formale”. Il volontariato, l’assistenza ai figli o ai genitori, le attività culturali, quelle di natura immateriale, la cura dei beni comuni. Tutto ciò che – oltre la dimensione economica e immediatamente produttiva — permette agli individui di sviluppare la propria personalità e concorrere al progresso sociale.
Tutto ciò come si può realizzare in concreto? Se si guarda alle diverse forme di reddito proposte (universale, minimo, di disoccupazione) mi sembra che il più conforme al modello definito sia quello che assegna a tutti i bisognosi un reddito minimo, non tanto condizionato dalle logiche di workfare (che impone al titolare del reddito di accettare qualunque lavoro, anche il più degradante o incoerente con la propria formazione a pena della perdita di ogni contributo), quando costituito da due diverse fonti “reddituali”: una in denaro, l’altra definita da forme di sostegno indirette. In questo secondo caso il reddito consiste in garanzie di accesso gratuito ai servizi (scuole, università, consumi culturali, trasporti), ovvero al supporto al volontariato o all’associazionismo, ovvero ancora all’affidamento ai cittadini di strutture inutilizzate (dai teatri, alle fabbriche, ai centri sociali) per la gestione dei beni comuni. In questo caso il reddito di cittadinanza (inteso come servizi, agevolazioni e gestione degli spazi pubblici) potrebbe persino favorire la produzione di reddito da lavoro o configurare un’altra economia.
È questa una prospettiva che stenta a farsi strada e che pure non è assente in alcuni tra i progetti sul reddito (la proposta elaborata dal Basic Income Network, ripresa in sede parlamentare, alcune leggi regionali), persino in una risoluzione del Parlamento europeo del 2010. Per una volta possiamo dire: «ce lo chiede l’Europa».
postilla
L'autore scrive: «Due sono le strade percorribili: lo Stato potrebbe assicurare comunque un diritto al lavoro, ampliando artificialmente l’offerta, incentivando - ad esempio - i lavori socialmente utili, anche se economicamente non necessari. L’altra via è quella di assicurare comunque un reddito di cittadinanza anche a chi -e in assenza delle condizioni sociali che lo rendono possibile - non può lavorare». Esiste anche un'altra via: quella cui allude Azzariti quando scrive che pe misure che propone possono addirittura servire a «configurare un’altra economia».
In sostanza, si tratta a mio parere di modificare alle radici l'attuale concezione (e pratica) dell'economia e rendere anche "economicamente" rilevante ciò che lo è "socialmente".
Bisognerebbe "cercare ancora" sulla strada indicata da Claudio Napoleoni. Chi voglia approfondire l'argomento può leggere in eddyburg il testo di Napoleoni, Scienza economica e lavoro dell’uomo nella definizione di Lionel Robbins, e la sintetica ricostruzione del suo pensiero in proposito che ho steso in un capitolo del mio Memorie di un urbanista e ripreso nella relazione introduttiva alla sesta edizione (2009) della Scuola di eddyburg. (e.s.)
Granello di Sabbia , "Fermate il mondo: voglio scendere!", marzo/aprile 2015
Ma il fronte dell’austerity non è compatto né invincibile, anche se ancora largamente prevalente. In Germania si è aperta una frattura. La Spd ha preso le distanze almeno dal ministro Schauble. Probabilmente ha pesato su questo atteggiamento l’esito elettorale di Amburgo, negativo per la Merkel, e le pressioni dei sindacati tedeschi, dei quali la Spd deve pure tenere un qualche conto. Contemporaneamente oltreoceano giungono messaggi assai diversi. Obama ha preso con maggiore nettezza la distanza verso le politiche pro-austerity che si conducono in Europa, in coerenza con misure di interesse sociale e contro gli eccessi di ricchezza assunte nel proprio paese.
E’ chiaro che la mossa di Obama va anche letta in chiave elettorale interna. Dopo la sconfitta nelle elezioni di medio termine ha deciso di spingere sull’acceleratore e sta preparando la strada al nuovo o alla nuova candidata democratica alle prossime presidenziali. Ancora più forte è probabilmente per il Presidente Usa la preoccupazione geopolitica. La stessa che lo spinge ad essere estremamente aggressivo sul fronte della questione ucraina, con frizioni con la Germania. Lo preoccupa la crescita di forza e di attrazione della Russia. Non gli sfugge la possibilità che un pericolo molto ravvicinato di default della Grecia o addirittura l’uscita dall’Euro e dalla Ue di quest’ultima, potrebbe spingerla direttamente nelle braccia di Putin.
Il manifesto, 16 aprile 2015
Sulla legge elettorale il governo non può porre la fiducia, se viene richiesto il voto segreto (già da alcuni preannunciato). Ce lo dicono con chiarezza gli artt. 49 e 116 del regolamento Camera. Per l’art. 49 il voto è palese, salvo che per alcune materie enumerate in cui è necessariamente segreto, e per alcune altre in cui è segreto a richiesta di almeno 30 deputati (art. 51). Tra queste ultime – voto segreto a richiesta – troviamo appunto la legge elettorale. Per l’art. 116 la questione di fiducia non può essere posta «su tutti quegli argomenti per i quali il Regolamento prescrive votazioni per alzata di mano o per scrutinio segreto». Il che è ovvio, visto che la fiducia si vota per appello nominale. La domanda dunque è: lo scrutinio segreto a richiesta sulla legge elettorale ex art. 49 si configura come voto segreto “prescritto” ai sensi dell’art. 116? O deve considerarsi “prescritto” solo il voto “necessariamente” segreto, e cioè segreto anche in assenza di richiesta?
La risposta è chiara. Anche il voto segreto a richiesta – beninteso, una volta che la richiesta sia stata avanzata – deve considerarsi “prescritto” ai sensi dell’art. 116, e dunque idoneo a determinare la preclusione della questione di fiducia. Bisogna partire dalla considerazione che la modalità di votazione in ambito parlamentare non è mai oggetto di valutazione discrezionale da parte di chicchessia. Che il voto sia segreto o palese non discende da una scelta di opportunità, ma dal dettato regolamentare. Ciò per ovvi motivi di garanzia dei singoli parlamentari e delle forze politiche, in specie di minoranza.
Ci può essere un «dubbio sull’oggetto della deliberazione», cioè un dubbio interpretativo se una fattispecie rientri o meno nelle materie per cui il voto è segreto o palese. Ma, sciolto il dubbio da parte della presidenza dell’assemblea, il voto è obbligatoriamente determinato dalla norma regolamentare. Quindi, la modalità di votazione è sempre «prescritta».
Nel caso, non c’è alcuna possibilità di dubbio interpretativo, poiché la legge elettorale è esplicitamente inclusa nell’elenco delle materie per cui il voto è segreto a richiesta. E pertanto la questione di fiducia rimane preclusa ai sensi dell’art. 116, laddove richiesta di voto segreto vi sia. Spetterà alla Presidenza dell’Assemblea impedire ogni prevaricazione a danno dei diritti dei singoli deputati e delle forze politiche. Essendo chiaro che la Presidenza non si oppone a una scelta politica del governo, ma solo applica — come deve — una inequivoca norma regolamentare.
Dunque, niente fiducia. Si tratta di regole, e non di bon ton politico e istituzionale, che pure vieterebbe in modo assoluto a un governo di vincolare la propria sopravvivenza — attraverso la fiducia — al testo in discussione. In tal modo si certifica infatti che la legge in discussione non è neutrale, ma entra nella dialettica politica distribuendo vantaggi e svantaggi decisivi. Né si tratta di buon senso, che ovviamente dovrebbe trattenere un segretario capo di governo dall’usare la fiducia per mettere la mordacchia a un pezzo del suo stesso partito. Né, ancora, si tratta di dignità politica, che pure richiederebbe, una volta naufragato lo sciagurato patto del Nazareno, di smettere la finzione per cui le riforme da esso generate siano nell’interesse del paese. Né si tratta di correttezza e sensibilità costituzionale, che imporrebbero di non forzare un parlamento già sostanzialmente illegittimo per una sentenza del giudice delle leggi a normare approfittando dei numeri determinati da quella illegittimità.
Abbiamo capito che a Renzi più che il monopoli piace la battaglia navale, soprattutto per la formula «colpiti e affondati». La sinistra Pd ha qui probabilmente la sua ultima occasione. Certo, per loro Renzi è come il meteorite che 65 milioni di anni fa colpì la terra provocando l’estinzione dei dinosauri. Ma vogliamo ricordare a quel che resta della componente Ds nel Pd che i dinosauri lottarono per sopravvivere.
Noi vorremmo almeno che si rispettassero le regole. In un sistema democratico è una premessa indispensabile, senza la quale tutto si riduce a vuota parola. Di forzature e strappi ne abbiamo avuti già troppi, per un nuovismo che in tal modo nulla promette di buono per il futuro. Anche per questo il renzismo non ci piace. E non è affatto questione di fiducia