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eddyburg versione integrata. Alfabeta2.it, 21 aprile 2015

L’annegamento di 700 forse 900 migranti il 17 aprile 2015 è l’ennesima conseguenza diretta di due fatti principali: la riproduzione delle guerre e il proibizionismo delle migrazioni. La maggioranza dei media continua a vomitare lacrime da coccodrillo, vili ipocrisie, falsità e addirittura il compiacimento da parte degli sciacalli; ancora una distrazione di massa per nascondere le vere cause di queste stragi e i responsabili.

Soprattutto dal 1990, la maggioranza degli emigranti fugge le guerre o le conseguenze dirette o indirette di queste: palestinesi, ruandesi, sudanesi, eritrei, congolesi, originari dei Balcani, iracheni, afgani, sub-sahariani, kurdi e oggi siriani e ancora altri di altre zone di guerra che i nostri media raramente menzionano. La riproduzione delle guerre dal 1945 a oggi è dovuta innanzitutto al continuo aumento della produzione delle armi e al suo commercio legale e illegale da parte delle principali potenze mondiali e dei paesi loro alleati. È risaputo che le armi e i soldi dell’Isis provengono soprattutto dagli Emirati amici degli Stati Uniti o anche della Russia e talvolta della Cina.

Da anni la più grande fiera annuale degli armamenti si svolge negli Emirati; all’ultima, il 22-26 febbraio scorso ad Abou Dhabi (si veda anche video della precedente SOFEX) hanno partecipato 600 rappresentanti delle imprese e paesi espositori (fra cui 32 imprese italiane), ossia ministri (fra i quali la sig.ra Pinotti e il sig. Minniti), diplomatici, alti ufficiali delle forze armate e alti dirigenti delle polizie e dirigenti delle grandi imprese (per l’Italia in primo luogo la Finmeccanica presieduta dal prefetto, ex-capo della polizia e poi dei servizi segreti, De Gennaro).

Secondo il Sipri, la produzione e l'esportazione di armamenti sono notevolmente e continuamente aumentate in particolare dal 2005; i principali paesi esportatori di armamenti sono Stati Uniti, Russia, Germania, Cina, Francia e Italia che per buona parte produce in joint venture o subappalto con/per imprese statunitensi; i primi cinque paesi insieme occupano il 74% del volume mondiale di esportazioni, USA e Russia da soli il 56% del mercato; i principali paesi importatori sono India, Arabia Saudita, Cina, Emirati Arabi Uniti e Pakistan; i principali clienti dell’Italia sono gli Emirati, l’India e la Turchia.

Come mostrano alcune ricerche di questi ultimi anni, le lobby finanziarie-militaro-poliziesche transnazionali e dei singoli paesi soprattutto dopo l’11 settembre 2001 hanno puntato all’esasperazione di ogni situazione di crisi e a favorire la costruzione del “nemico di turno” per giustificare la guerra permanente o infinita (come la definiva senza ambasce G. Bush jr.). Dopo Al Qaeda, l’Isis è palesemente il nemico ancor più orribile e forse ormai non più condizionabile da parte delle grandi potenze e dai loro alleati arabi, così come è diventata incontrollabile la situazione in Iraq, in Libia e altrove. Ma questo va bene per il “gioco della guerra infinita” e del “governo attraverso il terrore” (J. Simon).

Ovviamente, nessun paese produttore ed esportatore di armi sembra disposto a bloccare queste attività; tanti gridano contro la guerra, anche il Papa, ma non si dice che a monte c’è la responsabilità di chi realizza profitti e mantiene o accresce il suo dominio grazie a queste attività (vedi tutte le banche, e anche la finanza vaticana). Scappare anche a costo di rischiare la vita è l’unica possibilità che resta a chi ha la forza, la capacità e i soldi per fuggire le guerre. È quindi ovvio che tanti cercano di approfittare di questo bisogno. Ma, i trafficanti di migranti possono praticare questo business a volte criminale perché c’è proibizionismo delle migrazioni.

Se le persone che cercano di scappare trovassero la possibilità di aiuto, di “corridoi umanitari” e quindi di accesso regolare ai paesi non in guerra, i trafficanti non potrebbero lucrare sul loro disperato bisogno di cercare salvezza. Ipotesi quali quella del “blocco navale”, oltre a essere del tutto insulsa anche dal punto di vista giuridico e tecnico, è degna di neo-nazistelli del XXI sec. Gli Stati Uniti, l’Unione europea, la Russia, ma anche la Cina, il Giappone e altri paesi che sono direttamente o indirettamente responsabili delle guerre e della disperata emigrazione di oggi dovrebbero essere obbligati dall’ONU a fornire aiuti e accesso regolare nei loro territori così, come si fece per i Boat people che scappavano dal sud-est asiatico negli anni Settanta a seguito della guerra in Vietnam e Laos, e i massacri di Pol Pot in Cambogia. La logica protezionista e proibizionista che prevale nell'Unione europea alimenta il razzismo e, ovviamente, anche il declino economico e l’inconsistenza politica.

Al contrario, cinicamente, gli Stati Uniti hanno continuato a costruire sulla migrazione regolare e irregolare il loro successo economico degli anni 1970-2007, e persino il superamento dell'ultima crisi. Dal 1990 la popolazione statunitense è aumentata di quasi 70 milioni. Allo stesso tempo, gli States hanno avuto e hanno più di 13 milioni di immigrati irregolari (clandestini), ogni anno ne hanno espulso tra i 400.000 e un milione e si stima che 18.500 sono stati uccisi nel 1998- 2013 alla frontiera in parte da poliziotti e anche da criminali che si divertono nella «caccia agli umani».

E' grazie all’immigrazione regolare e irregolare che gli USA sono diventati la prima potenza economica, militare e politica; le teorie razziste di Huntington si inseriscono perfettamente nel gioco tra inclusione e rifiuto, nell'inferiorizzazione degli immigrati così costretti a guadagnarsi la salvezza attraverso l'umiliazione, il sacrificio, a favore dell’alta produttività per il paese d’immigrazione.

I paesi europei sull’immigrazione sono ancorati a un proibizionismo rigido che permette solo un’immigrazione illegale per fornire neo-schiavi alle economie sommerse. Così, si producono più morti tra i migranti che cercano di raggiungere l’UE, meno naturalizzati, meno regolarizzazione e più precarietà. In tutta l’Europa a 27 (505 milioni di abitanti ufficiali) nel 2012 il totale degli immigrati regolari è stato inferiore a quello degli Stati Uniti, 21 milioni secondo Eurostat, e dal 1990 ci sono state meno naturalizzazioni. Le persone nate in un paese al di fuori dell'UE a 27 sarebbero di circa 33 milioni. Secondo le stime più attendibili, gli irregolari in Europa non sarebbero più di cinque milioni1.

Al di là della differenza tra l'Europa e gli Stati Uniti per quanto riguarda il welfare, constatiamo che gli Stati Uniti continuano a puntare sull'immigrazione con pratiche soft e altre di selezione violenta e anche razzista. L'Europa appare come un soggetto politico abortito prima di nascere, una sorta di continente dominato da buzzurri pronti solo a schiavizzare pochi passanti che si fermano mentre erigono nuove fortificazioni. Una prospettiva suicida nel mondo globalizzato, perché tra l'altro, i neo-ricchi dei paesi emergenti sembrano giocare all’asta fallimentare dei beni di un continente decadente.

Post scriptum
Secondo i razzisti queste guerre sono dovute alla barbarie propria di popoli incivili che non meritano la democrazia, insomma sono “barbari” o come diceva Lombroso “atavici”, cioè pre- umani o animali e quindi in preda a istinti di violenza e criminalità (la teoria del criminale nato). Ne consegue che i migranti sono da respingere anzi bombardare prima che partono ecc.

Secondo gli “umanitari” queste guerre sono dovute a popoli che devono essere aiutati a imparare la democrazia, insomma devono essere “educati” perché “arretrati” o come bambini non ancora maturi; di questa tesi ne approfittano le note ONG e multinazionali del cuore e persino le mafie come quella romana.

La tesi delle autorità e in particolare di quelle europee è che la “colpa” delle stragi di emigranti è dei trafficanti criminali. Ne consegue che bisogna andare a bombardare i trafficanti e distruggere i barconi ... così “prendono 4 piccioni con una fava”: 1) pensano di accontentare gli “umanitari” mostrando pietas per gli annegamenti; 2) accontentano anche i razzisti perché promettono di usare le maniere forti per impedire che gli emigranti partano; 3) nascondono le loro precise responsabilità delle stragi continue e 4) fanno anche un po’ di business spendendo soldi per l’uso di armamenti (droni, areei nuovi sistemi di intercettazione ecc.).

Chiunque abbia un minimo di conoscenze delle operazioni militari in casi del genere sa che andando a bombardare con droni o aerei i cosiddetti trafficanti e i loro barconi INEVITABILMENTE si finirebbe per colpire gli emigranti cioè i profughi sia perché probabilmente usati come scudi umani dai trafficanti sia perché è impossibile distinguere fra trafficanti e soprattutto la loro manovalanza -spesso improvvisati- e i profughi (le cosiddette guerre intelligenti hanno prodotto sempre “danni collaterali” cioè stragi di civili ...

Evidentemente il vero obiettivo delle autorità e governi è di non fare arrivare immigrati o farne arrivare il meno possibile e soprattutto nascondere le vere cause delle stragi continue, cioè la riproduzione delle guerre permanenti e il proibizionismo.

La prima responsabilità delle guerre è di chi produce e vende legalmente e illegalmente armamenti: senza la diffusione degli armamenti non potrebbero riprodursi tante guerre, semmai piccoli conflitti a “bastonate” ...

Ogni proibizionismo favorisce la criminalità: in assenza di aiuti e canali regolari di emigrazione i disperati che scappano sono inevitabilmente alla mercé di trafficanti e di chiunque offre qualche possibilità (i passeurs ...)

L’unica possibilità di salvare i profughi è di creare possibilità di aiuti, corridoi umanitari sia mettendo in mare, alle frontiere europee e nei paesi vicini a quelli in guerra navi e strutture per dare subito soccorso ai profughi e quindi subito permessi di soggiorno per lavoro

Ovviamente da parte di tutti i paesi dove questi profughi vogliono andare che sono innanzitutto: Stati Uniti, Inghilterra, Germania, Francia, Australia, Canada e poi anche Italia, Svizzera, e forse anche Giappone e la Cina.

Ezio Mauro intervista il Presidente della Repubblica. «La nostra Costituzione è il frutto della lotta antifascista contro la dittatura e la guerra. La qualifica di resistenti va estesa non solo ai partigiani ma ai militari che rifiutarono di arruolarsi nelle brigate nere». La Repubblica, 24 aprile 2015


Signor Presidente, lei ha attraversato la vita politica e istituzionale di questo Paese, ha vissuto la sfida delle Brigate Rosse alla democrazia, ha fronteggiato anche l’emergenza criminale più acuta. Che cosa legge nella data del 25 aprile, settant’anni dopo la Liberazione?

«Il Paese è fortemente cambiato, come il contesto internazionale. Non c’è più, fortunatamente, la necessità di riconquistare i valori di libertà, di democrazia, di giustizia sociale, di pace che animarono, nel suo complesso, la Resistenza. Oggi c’è la necessità di difendere quei valori, come è stato fatto contro l’assalto del terrorismo, come vien fatto e va fatto sempre di più contro quello della mafia. La democrazia va sempre, giorno dopo giorno, affermata e realizzata nella vita quotidiana. Il 25 aprile fu lo sbocco di un vero e proprio moto di popolo: la qualifica di “resistenti” va estesa non solo ai partigiani, ma ai militari che rifiutarono di arruolarsi nelle brigate nere e a tutte le donne e gli uomini che, per le ragioni più diverse, rischiarono la vita per nascondere un ebreo, per aiutare un militare alleato o sostenere chi combatteva in montagna o nelle città».

Ha ragione Calvino: pietà per i morti ma è impossibile equiparare i giovani di Salò e i partigiani. Io penso che questo moto di rifiuto e di ribellione organizzata al fascismo e al nazismo, con la lotta armata, rappresenti un elemento fondamentale nella storia morale dell’Italia. Quell’esperienza parziale ma decisiva di ribellione nazionale, italiana, alla dittatura fascista è infatti il nucleo autonomo e sufficiente per rendere la nostra democrazia e la nostra libertà non interamente «octroyé» dagli Alleati che hanno liberato gran parte del Paese, ma riconquistate. Non crede che proprio qui nasca il fondamento morale della democrazia repubblicana?

«Ricordo che Aldo Moro definiva il suo partito, oltre che popolare e democratico, come «antifascista»: per lui si trattava di un elemento caratterizzante, appunto identitario, della politica italiana. Naturalmente nella nostra democrazia confluiscono anche altri elementi storici nazionali, ma quello dell’antifascismo ne costituisce elemento fondante. La Resistenza italiana mostrò al mondo la volontà di riscatto degli italiani, dopo anni di dittatura e di guerra di conquista. Non si può dimenticare il contributo che molte operazioni dei partigiani diedero all’accelerazione dell’avanzata alleata. Basti citare l’esempio di Genova, dove il comando tedesco trattò la resa direttamente con i partigiani. Il presidente Ciampi ha il merito di aver riportato all’attenzione dell’opinione pubblica il ruolo fondamentale che le forze armate italiane ebbero nella Liberazione. Cosa sarebbe successo se questi militari italiani avessero deciso in massa di arruolarsi nell’esercito della Repubblica Sociale? Quanto sarebbe stata più faticosa per gli Alleati l’avanzata sul territorio italiano e con quante perdite? La Resistenza, la cobelligeranza, pesarono sul tavolo delle trattative di pace».

Lei aveva quattro anni nel 1945. Ha dei ricordi familiari nei racconti di quei giorni?

«Mio padre era antifascista. Diciannovenne, nell’anno del delitto Matteotti, aveva fondato nel suo comune la sezione del Partito popolare di Sturzo; e aveva subito percosse e olio di ricino. Il giornale che dirigeva come presidente dell’Azione Cattolica di Palermo prese una posizione molto dura contro le leggi razziali e fu sequestrato più volte. Lanciò, via radio, dalla Sicilia già libera, un appello agli italiani delle regioni ancora sotto l’occupazione nazista e di Salò: partecipava, così, idealmente alla lotta della Resistenza e faceva parte dei primi governi del Cln mentre il Nord Italia veniva via via liberato dagli alleati e dai partigiani. Sono cresciuto nel culto delle figure di don Minzoni, Giacomo Matteotti, don Morosini, Teresio Olivelli».

È per queste ragioni che subito dopo la sua elezione al Quirinale ha voluto rendere omaggio alle Fosse Ardeatine?

«Mi è parso naturale, e doveroso, ricordare sia a me stesso, nel momento in cui venivo eletto presidente della Repubblica, sia ai nostri concittadini quanto dolore, quanto impegno difficile e sofferto hanno permesso di ritrovare libertà e democrazia. L’abitudine a queste, talvolta, rischia di inaridire il modo di guardare alle istituzioni democratiche, pur con tutti i difetti che se ne possono evidenziare, rifiutando di impegnarvisi o anche soltanto di seguirne seriamente la vita. Questo mi fa ricordare la lettera di un giovanissimo condannato a morte della Resistenza che, la sera prima di essere ucciso, scriveva ai genitori che il dramma di quei giorni avveniva perché la loro generazione non aveva più voluto saperne della politica. Inoltre, oggi, assistiamo al riemergere dell’odio razziale e del fanatismo religioso: i morti delle Ardeatine è come se ci ammonissero continuamente, ricordandoci che mai si può abbassare la guardia sulla difesa strenua dei diritti dell’uomo, del sistema democratico».

Lei è stato anche giudice della Corte costituzionale: dove sente la nostra Carta fondamentale più fedele ai valori della Resistenza? Condivide il giudizio di Norberto Bobbio secondo il quale il grande risultato della Resistenza è stata la Costituzione, perché portò la democrazia italiana «molto più avanti di quella che era stata prima del fascismo»?

«Della Costituzione vanno sempre richiamati, anzitutto, l’affermazione dei diritti delle persone, che preesistono allo Stato, e il dovere della Repubblica di realizzare condizioni effettive di uguaglianza fra i cittadini. Si tratta di punti centrali con cui i Costituenti hanno caratterizzato la nostra convivenza e che hanno dato risposta al desiderio di libertà e di giustizia di chi si batteva per liberare l’Italia. Bobbio diceva bene: non vi è dubbio che la Costituzione, dopo la dittatura, la ribellione e la resistenza non poteva che essere molto diversa da quella prefascista, disegnando una democrazia molto più avanzata, una Repubblica con finalità più ambiziose e doveri più grandi verso la società, del resto in linea con gli apporti culturali della gran parte della forze politiche dell’Assemblea Costituente».

Cosa pensa della polemica dei decenni passati sulla «Resistenza tradita», che ancora riemerge?

«Le risponderò con una citazione del presidente Napolitano. Parlando a Genova il 25 aprile del 2008, disse con estrema chiarezza: “Vorrei dire che in realtà c’è stato solo un mito privo di fondamento storico reale e usato in modo fuorviante e nefasto: quello della cosiddetta «Resistenza tradita», che è servito ad avvalorare posizioni ideologiche e strategie pseudo-rivoluzionarie di rifiuto e rottura dell’ordine democratico-costituzionale scaturito proprio dai valori e dall’impulso della Resistenza”. Condivido dalla prima all’ultima parola».

C’era in quella formula un sentimento che potremmo definire di «delusione rivoluzionaria», da parte di chi nel mondo comunista vedeva nella guerra di Liberazione una rivoluzione sociale: ma in realtà non crede che il vero tradimento della Costituzione sia avvenuto negli anni delle stragi di Stato, dei depistaggi, delle verità negate, delle infiltrazioni piduiste nei vertici degli apparati di Stato?

«Ogni movimento di liberazione porta con sé l’orizzonte e la ricerca di un ordine pienamente giusto e risolutivo dei temi della convivenza. Ma io credo che nessuno, oggi, guardando indietro possa ignorare che in Italia si è sviluppata una profonda e pacifica rivoluzione sociale: territori e fasce sociali, un tempo povere e del tutto escluse, hanno visto una radicale crescita. Il rammarico è che questo non sia avvenuto in maniera ben distribuita e ovunque e che il divario con il Mezzola giorno abbia ripreso ad aumentare. Ma chi ricorda le condizioni economiche e sociali dell’Italia negli anni Quaranta e Cinquanta può valutarne le trasformazioni intervenute nei decenni successivi. Va anche sottolineato che quel processo di crescita, difettoso per diversi profili, si è realizzato salvaguardando la democrazia, malgrado quel che è stato tentato per travolgerla, con insidie, come la loggia P2, aggressioni violente e stragi. Quelle trame a cui lei fa riferimento avevano un disegno e un obbiettivo comune. Quello di abbattere lo Stato democratico, di cancellare la Costituzione del 1948, di aprire la strada a un regime tendenzialmente autoritario. In questo senso, i terrorismi di qualsiasi colore — fatte salve tutte le diversità ideologiche, politiche e culturali — avevano un nemico in comune. Vi sono stati tradimenti della Costituzione ma va anche detto che le istituzioni e le forze politiche, di maggioranza e di opposizione, hanno resistito. Il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro ne costituiscono prova evidente».

Il terrorismo rosso che ha insanguinato l’Italia si è richiamato alla guerra partigiana: la sinistra operaia ha respinto quel progetto, e lo Stato democratico lo ha sconfitto. È stata questa la minaccia più forte per la democrazia repubblicana nata dalla Liberazione? Lei ha vissuto quegli anni, la tragedia Moro in particolare. Sente oggi come altrettanto grave la sfida del terrorismo jihadista? Non crede che oggi come allora, con tutte le differenze necessarie, lo Stato abbia il diritto di difendersi e di difendere i suoi cittadini che gli hanno concesso il monopolio della forza, ma insieme abbia anche il dovere di farlo rimanendo fedele alle regole democratiche e di legalità che la democrazia impone a se stessa?
«La lotta al terrorismo fu condotta dallo Stato senza sospendere le libertà civili e democratiche. Fondamentale, per battere il terrorismo, è stata l’unità di po- polo. I brigatisti rossi capirono ben presto che la loro sconfitta era avvenuta prima sul piano politico — nel rifiuto, cioè, delle masse operaie, di seguirli nella lotta armata — che sul piano militare o di polizia. Basti pensare al sacrificio di Guido Rossa. Nel caso del terrorismo degli anni Settanta e Ottanta la minaccia proveniva dall’interno. Oggi abbiamo una o più entità esterne, presenti in Paesi diversi, che incitano su Internet alla guerra santa contro l’Occidente e che confidano in una rivolta spontanea dei musulmani presenti all’interno di quei Paesi che si vorrebbero sottomettere al Califfato. Non c’è dubbio che si tratti di una minaccia nuova e insidiosa. La risposta alla globalizzazione del terrore non può essere cercata che nella solidarietà internazionale (la stessa per cui molti cooperanti mettono a rischio la vita, come è successo a Giovanni Lo Porto) e nella collaborazione sempre più stretta tra i Paesi che condividono gli stessi ideali di democrazia, di convivenza e di tolleranza. La sfida è, oggi come ieri, molto impegnativa. Non c’è dubbio che la società aperta e accogliente abbia dei rischi in più in termini di sicurezza rispetto a uno Stato di polizia. Ma possiamo chiedere ai cittadini europei di sobbarcarsi qualche fastidio o controllo in più, non certo di vedersi limitare diritti e prerogative che ormai sono patrimonio comune e irrinunciabile. Tradiremmo la nostra storia e i nostri valori».
Ma la Resistenza negli ultimi vent’anni è stata anche oggetto di una lettura revisionista che ha criticato la «mitologia» resistenziale e il suo uso politico da parte comunista, che pure c’è stato, attaccando il legame tra la ribellione partigiana al fascismo e la nascita delle istituzioni democratiche e repubblicane. Qual è il suo giudizio? Perché non c’è una memoria condivisa su una vicenda che dovrebbe rappresentare il valore fondante dell’Italia repubblicana?

«Stiamo parlando di una guerra che ha avuto anche aspetti fratricidi. Credo che sia molto difficile, quando si hanno avuto familiari caduti, come si dice adesso, “dalla parte sbagliata” o si è stati vittime di soprusi o di vendette da parte dei nuovi vincitori, costruire su questi fatti una memoria condivisa. Pietro Scoppola, nell’infuriare della polemica storico-politica sul revisionismo, invitava a fare un passo avanti e a considerare la Costituzione italiana, nata dalla Resistenza, come il momento fondante di una storia e di una memoria condivisa. Una Costituzione, vale la pena rimarcarlo, che ha consentito libertà di parola, di voto e addirittura di veder presenti in Parlamento esponenti che contestavano quella stessa Costituzione nei suoi fondamenti. Tranne poche frange estremiste e nostalgiche, non credo che ci siano italiani che oggi si sentano di rinunciare alle conquiste di democrazia, di libertà, di giustizia sociale che hanno trovato nella Costituzione il punto di inizio, consentendo al nostro Paese un periodo di pace, di sviluppo e di benessere senza precedenti. Proprio per questo va affermato che il 25 aprile è patrimonio di tutta l’Italia, la ricorrenza in cui si celebrano valori condivisi dall’intero Paese».

Cosa pensa delle violenze e delle vendette che insanguinarono il «triangolo rosso» e le Foibe in quegli anni? Non c’è stato troppo silenzio e per troppo tempo, in un Paese che non ha avuto un processo di Norimberga ma che oggi, settant’anni dopo, non dovrebbe avere paura della verità? E come rivive le immagini di Mussolini e Claretta Petacci esposti cadaveri a Piazzale Loreto?

«È stato merito di esponenti provenienti dalla sinistra, penso a Luciano Violante e allo stesso presidente Napolitano, contribuire alla riappropriazione, nella storia e nella memoria, di episodi drammatici ingiustamente rimossi, come quelli legati alle Foibe e all’esodo degli Italiani dall’Istria e dalla Dalmazia. Sono stati molti i libri e le inchieste che si sono dedicati a riportare alla luce le vendette, gli eccidi, le sopraffazioni che si compirono, anche abusando del nome della Resistenza, dopo la fine della guerra. Si tratta di casi gravi, inaccettabili e che non vanno nascosti. L’esposizione del corpo di Mussolini, di Claretta Petacci e degli altri gerarchi fucilati, per quanto legata al martirio che numerosi partigiani subirono per mano dei tedeschi nello stesso Piazzale Loreto pochi giorni prima, la considero un episodio barbaro e disumano. Va comunque svolta una considerazione di fondo: gli atti di violenza ingiustificata, di vendetta, gli eccidi compiuti da parte di uomini legati alla Resistenza rappresentano, nella maggior parte dei casi, una deviazione grave e inaccettabile dagli ideali originari della Resistenza stessa. Nel caso del nazifascismo, invece, i campi di sterminio, la caccia agli ebrei, le stragi di civili, le torture sono lo sbocco naturale di un’ideologia totalitaria e razzista».

Il tema della riconciliazione, a mio parere, va affrontato tenendo conto che la pietà per i morti dell’una e dell’altra parte non significa che le ragioni per cui sono morti siano equivalenti. «Tutti uguali davanti alla morte — scrive Calvino — non davanti alla storia». Qual è la sua opinione?

«Calvino mi sembra abbia centrato il tema. Non c’è dubbio che la pietà e il rispetto siano sentimenti condivisibili di fronte a giovani caduti nelle file di Salò che combattevano in buona fede. Questo non ci consente, però, di equiparare i due campi: da una parte si combatteva per la libertà, dall’altra per la sopraffazione. La domanda di Bobbio ai revisionisti è rimasta senza risposta: che cosa sarebbe successo se, invece degli alleati, avessero vinto i nazisti?».

Vorrei chiudere con Bobbio. «Il rifiuto dell’antifascismo in nome dell’anticomunismo — ha scritto — ha finito spesso per condurre ad un’altra forma di equidistanza abominevole, quella tra fascismo e antifascismo». E infatti da parte della destra è emerso pochi anni fa il tentativo di superare il 25 aprile, sostituendolo con un giorno di festa civile nel rifiuto di tutte le dittature. Come se non ci fossero altri 365 giorni sul calendario per scegliere una celebrazione contro ogni regime dittatoriale. A patto però di ricordare il 25 aprile, tutti, come il giorno in cui è finita la dittatura del fascismo, nato proprio in Italia. Cosa ne pensa? Il 25 aprile, ha detto Bobbio, ha determinato un nuovo corso nella nostra storia. Perché, semplicemente, «se la Resistenza non fosse avvenuta, la storia d’Italia sarebbe stata diversa, non sarebbe la storia di un popolo libero».
«Credo che quella dell’abolizione della festa della Liberazione sia una polemica ormai datata e senza senso. Sarebbe come dire: invece di celebrare il nostro Risorgimento, festeggiamo la Rivoluzione americana e francese... È vero che nel mondo ci sono stati diversi regimi totalitari e sanguinari, frutto di ideologie disumanizzanti. Ma la storia italiana è passata attraverso la dittatura fascista, la guerra, la lotta di Liberazione. E un popolo vive e si nutre della sua storia e dei suoi ricordi ».

La Repubblica, 23 aprile 2015

SAREBBERO 1200 i migranti morti la settimana scorsa nel Mediterraneo per i naufragi delle fragili imbarcazioni su cui speravano di raggiungere dal Nord Africa le coste meridionali d’Europa. Venivano dalla Siria, dal Mali, dall’Eritrea e dalla Somalia, fuggivano dalla guerra e dalla povertà e, in gran parte, avevano pagato grosse somme ai trafficanti.

La tragedia sconvolge per le dimensioni, ma non rappresenta una novità. A partire dal 1993, stando alle stime, 20 mila migranti sono morti nel tentativo di varcare i confini meridionali dell’Europa. Il dato reale è indubbiamente superiore, di migliaia di morti non si è avuta notizia.

Di chi è la responsabilità? I politici europei puntano il dito contro i trafficanti. Lunedì l’Unione Europea ha annunciato un piano in dieci punti che prevede, tra l’altro. l’intervento militare contro le reti del traffico di esseri umani.

Senza dubbio i trafficanti sono personaggi spietati, che non si curano di mettere a rischio le vite dei migranti, ma se questi ultimi si affidano a loro la colpa è da attribuire alle politiche migratorie dell’Unione Europea. Il problema dell’immigrazione infatti non è stato affrontato dall’Ue sotto il profilo dell’emergenza umanitaria, ma della criminalità, attraverso una triplice strategia di militarizzazione dei controlli alle frontiere, criminalizzazione della migrazione e esternalizzazione dei controlli.

Da più di trent’anni l’Unione Europea è impegnata nella costruzione della “Fortezza Europa”, così la definiscono i critici, ossia un cordone di protezione operato da pattuglie marittime, aeree e di terra, nonché da un sistema di sorveglianza tecnologico con impiego di satelliti e droni. Un giornalista del settimanale tedesco Der Spiegel in visita al centro operativo di Frontex, l’Agenzia europea per la gestione delle frontiere esterne, ha osservato che vi si utilizza un linguaggio che rimanda alla «difesa dell’Europa dal nemico».

Esempio di questo approccio è stato il blocco di Mare Nostrum, l’operazione italiana di pattugliamento e salvataggio in mare, per sostituirla con Triton, un’operazione di ambito più ridotto e con un obiettivo del tutto diverso, tesa cioè a sorvegliare e proteggere i confini più che a salvare vite umane. Il numero dei migranti che oggi tentano di raggiungere l’Europa si discosta di poco dal dato corrispondente dello stesso periodo dell’anno scorso, ma il numero di vittime è di circa diciotto volte superiore.

Approcciare l’immigrazione come un problema di criminalità a volte porta a perseguire non solo i trafficanti, come avvenne nel 2004, quando una nave tedesca trasse in salvo 37 rifugiati africani imbarcati su un gommone. All’attracco in un porto siciliano l’imbarcazione venne sequestrata dalle autorità e il capitano e il primo ufficiale, accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, furono assolti solo dopo una battaglia processuale durata cinque anni. Nel 2007 le autorità italiane tentarono di impedire a due pescherecci tunisini che avevano soccorso in mare 44 migranti di attraccare a Lampedusa. Di nuovo i capitani furono accusati di favoreggiamento e solo nel 2011 assolti in appello.

Non si tratta di casi limite. Che dei buoni samaritani siano trattati come criminali comuni è conseguenza inevitabile della politica migratoria dell’Unione Europea. La strategia di esternalizzazione dei controlli comporta il pagamento di somme di denaro agli stati africani affinché trattengano i potenziali migranti. Tristemente noto è l’accordo con la Libia. Nel 2010, un anno prima degli attacchi aerei operati da Gran Bretagna e Francia per rovesciare il regime del Colonnello Gheddafi, la Ue concluse un accordo con il leader libico impegnandosi a versare 50 milioni di euro perché nell’arco di tre anni le forze di sicurezza libiche fossero trasformate di fatto in polizia di confine. I ribelli anti Gheddafi acconsentirono a prolungare l’accordo ancor prima di andare al potere.

L’Unione Europea ha concluso un accordo simile con il Marocco e spera di estendere l’iniziativa a Egitto e Tunisia. In pratica lo scopo è spostare i confini dell’Europa al Nord Africa.

Il piano in dieci punti proposto lunedì dalle autorità europee è in linea con questo approccio fallimentare. Salta all’occhio la promessa di distruggere le imbarcazioni dei trafficanti, un proponimento non solo di dubbio valore morale — il messaggio ai migranti è “vi vogliamo in Nord Africa, fuori dalle scatole” — ma anche inefficace. Uno dei motivi dell’impennata del numero dei migranti è il crollo dell’autorità statale nella regione. L’intervento occidentale in Libia ha peggiorato il caos e l’azione militare ipotizzata non farà che intensificarlo.

Intanto i migranti sono costretti ad ammassarsi sulle carrette del mare perché le altre vie per entrare in Europa sono state bloccate. Distruggere le imbarcazioni dei trafficanti non farà altro che forzare le persone a scegliere di affrontare il viaggio con mezzi ancor più pericolosi.

Che fare quindi? Riattivare un’adeguata operazione di pattugliamento e salvataggio è importante, ma non basta. L’Unione Europea deve smettere di trattare i migranti da criminali e considerare il controllo dei confini alla stregua di un atto di guerra. Deve smantellare la Fortezza Europa, liberalizzare la politica dell’immigrazione e aprire vie legali per i migranti. Secondo alcuni questo comporterà un’invasione di migranti, ma le politiche attuali non impediscono la migrazione, semplicemente uccidono carichi di uomini stipati come sardine.

La Fortezza Europa non si è limitata a costruire una barriera fisica attorno al continente ma ha eretto una barricata emotiva attorno al senso di umanità dell’Europa. Finché non avverrà un cambiamento il Mediterraneo continuerà ad essere una tomba di migranti. Davanti alla prossima tragedia ricordiamoci che i nostri politici avrebbero potuto evitarla, ma hanno scelto di non farlo.

© 2-015 The New York Times News Service Traduzione di Emilia Benghi

Corriere della Sera, 23 aprile 2015

Lo scontro politico interno ed esterno al Pd, legato alla sostituzione dei dieci membri della commissione Affari costituzionali della Camera non allineati col presidente del Consiglio, sembra aver messo ancor più in ombra i contenuti della nuova legge elettorale. A cominciare da un punto che pure di dubbi e perplessità ne dovrebbe suscitare: la possibilità che l’Italicum spinga davvero il nostro sistema politico verso un assetto di tipo bipartitico. Lo ha sostenuto più volte, ancora nei giorni scorsi, Matteo Renzi senza suscitare alcuna particolare discussione. E la cosa è davvero sorprendente, visto che si tratta di una tesi di dubbio fondamento. Si possono dire infatti molte cose sul progetto di legge elettorale all’esame della Camera; è evidente, ad esempio, che esso garantirebbe la governabilità (sia pure al prezzo di dare la maggioranza dei seggi a chi ha avuto solo una minoranza dei voti). Ma che possa anche favorire il bipartitismo, questo sembra difficile.

Al momento il sistema politico italiano vede un solo partito in grado di superare il 30 per cento dei voti e per il resto un insieme — in continua ridefinizione — di partiti medi (Lega, Forza Italia, M5S), piccoli e piccolissimi. Dunque nella situazione esistente oggi, e presumibilmente nel prossimo futuro, quello che si configura è un particolarissimo caso di «monopartitismo». Per quanto si tratti evidentemente di un «monopartitismo democratico», rappresenterebbe egualmente un problema per chi considera l’alternanza come un elemento indispensabile in una democrazia.

Questa situazione ha dietro di sé molte cause e responsabilità, non può dunque essere direttamente imputata all’attuale presidente del Consiglio (è forse colpa sua se Berlusconi, piuttosto che cedere il controllo di FI, preferisce condannarla all’irrilevanza e forse alla scomparsa?). Ma è anche vero che l’Italicum sembra congegnato proprio per accentuare una situazione del genere, che vede un gigante — il Pd — circondato da molti cespugli, come ha efficacemente scritto Antonio Polito su queste colonne. In particolare, l’aver abbassato al 3 per cento dei voti la soglia che consente a un partito di ottenere seggi, favorendo la frammentazione politica, va nella direzione esattamente opposta a quella del bipartitismo evocato dal presidente del Consiglio.

Del resto, se una logica si può individuare nella sua strategia politica, essa sembra tutt’altro che di tipo bipartitico. La dura e insistita polemica con la Cgil e con la sinistra del Pd lascia intendere che per Matteo Renzi la nascita di una formazione alla sinistra del suo partito non sarebbe poi un dramma. Anzi, sarebbe perfino una cosa buona, non in una logica bipartitica (che implicherebbe al contrario un Pd capace di tenere anche le correnti di sinistra al proprio interno) bensì in quella del «partito della nazione» — pure più volte evocato da Renzi — che però del bipartitismo (e del bipolarismo) rappresenta l’esatto contrario.

Lo dimostrano i casi dei due partiti della nazione che a lungo hanno governato l’Italia, prima e dopo il ventennio fascista: il partito liberale in epoca Giolittiana e la Democrazia cristiana nel dopoguerra. Fatte salve le molte differenze (tra l’altro, quello liberale aveva solo in parte la struttura di un partito come lo intendiamo noi oggi), si trattava in entrambi i casi di forze collocate al centro del sistema politico, che hanno governato ininterrottamente per decenni grazie all’emarginazione dei partiti o gruppi esistenti sulla destra e sulla sinistra. È solo dopo il 1994 che questa modalità di governo dal centro ha potuto essere sostituita da un assetto che, per quanti difetti avesse, era però di tipo, se non bipartitico, bipolare.

Con l’Italicum si tornerebbe probabilmente a una condizione molto simile a quella che il Paese ha già conosciuto per tanta parte della sua storia: più che di un cambio di verso, insomma, rischierebbe di trattarsi — se vogliamo riprendere un’altra espressione volentieri utilizzata da Renzi — di un ritorno alla casella di partenza, come nel gioco dell’oca.

Il manifesto, 23 aprile 2015

C’è una ter­ri­bile ipo­cri­sia in giro per l’Europa e ovvia­mente in Ita­lia. È quella dei governi che oggi tuo­nano con­tro gli sca­fi­sti da «bom­bar­dare» e i «mer­canti di schiavi». Un’ipocrisia tanto più repel­lente, quanto più suona come la giu­sti­fi­ca­zione pre­ven­tiva di un inter­vento mili­tare in Libia, o in pros­si­mità delle sue coste, tra­ve­stito da azione uma­ni­ta­ria. D’altra parte, l’ipocrisia è la norma ita­liana in que­ste mate­rie. Un anno fa, il governo Renzi van­tava il suc­cesso di Tri­ton, «a costo zero», come ripe­teva gio­io­sa­mente Alfano. Oggi lo stesso mini­stro, dopo l’immane strage in mare, dichiara l’inadeguatezza dell’operazione. Con mini­stri del genere c’è sem­pre da aspet­tarsi il peggio.

Inten­dia­moci. Le orga­niz­za­zioni di sca­fi­sti esi­stono, così come esi­ste una vasta docu­men­ta­zione degli atti di pira­te­ria: natanti abban­do­nati alla deriva, migranti get­tati in mare, vio­lenze di ogni tipo. Ma pren­dere esclu­si­va­mente di mira i «mer­canti di schiavi» signi­fica sia fal­si­fi­care agli occhi dell’opinione pub­blica la natura delle migra­zioni, sia get­tare le pre­messe di nuove sciagure.

Infatti, gli sca­fi­sti non fanno che lucrare sulla domanda di mobi­lità dei migranti. Mobi­lità nel senso di fuga dalla guerra, di ricerca di oppor­tu­nità o sem­pli­ce­mente di soprav­vi­venza. Finora l’Europa ha igno­rato le migra­zioni, pen­sando forse che un limi­tato numero di morti garan­tisse la pro­pria tran­quil­lità o meglio la pro­pria abu­lia buro­cra­tica. Ora, di fronte alla dimen­sione di que­ste tra­ge­die, si inventa la guerra agli “schia­vi­sti” e il «bom­bar­da­mento e/o distru­zione dei bar­coni», cri­mi­na­liz­zando così, insieme a loro, anche le vittime.

L’ipocrisia dilaga anche quando si vor­reb­bero distin­guere i rifu­giati dai migranti, come se, oggi, povertà e guerra non fos­sero realtà stret­ta­mente impli­cate. Si fugge da paesi deva­stati dalla guerra e dall’impoverimento cau­sato dalla guerra, da paesi distrutti da stolti inter­venti occi­den­tali o al cen­tro di ine­stri­ca­bili gro­vi­gli geo­po­li­tici. Si fugge dall’Isis, ma anche dai droni, da Assad e dai suoi nemici, dal deserto e dalle steppe in cui scor­raz­zano mili­zie di ogni tipo. Si fugge da città invi­vi­bili e da un’indigenza resa ancora più insop­por­ta­bile dal dila­gare di nuove tec­no­lo­gie che mostrano com’è, o finge di essere, il nostro mondo. Si fugge in Gior­da­nia, in Tur­chia e anche in Europa. Non c’è forse ipo­cri­sia peg­giore di quella che lamenta senza soste un’invasione dei nostri paesi, quando invece l’Europa si mostra il con­ti­nente più chiuso e ottuso di fronte alla tra­ge­dia umana e sociale delle migrazioni.

Pen­sare di cavar­sela man­dando i droni a bom­bar­dare i bar­coni è un’idea folle, che può venire solo ai poli­ziotti finiti a diri­gere Fron­tex, l’agenzia euro­pea che ha messo in piedi Tri­ton, con l’obiettivo di tenere lon­tani i migranti, infi­schian­dosi degli anne­ga­menti. Come distin­guere i bar­coni vuoti da quelli pieni, i pesche­recci o i pic­coli mer­can­tili dalle car­rette della morte? Tutto il mondo sa che i droni di Obama pol­ve­riz­zano soprat­tutto i civili in Afgha­ni­stan. Potete imma­gi­nare un drone capace di distin­guere, in un porto della Libia, tra sca­fi­sti e pesca­tori? A meno che, natu­ral­mente, tutta que­sta enfasi guer­re­sca, bagnata da lacrime di coc­co­drillo per le vit­time degli schia­vi­sti, non sia al ser­vi­zio di un’ipotesi stra­te­gica molto più pro­saica e molto meno umanitaria.

Un’Europa poli­ti­ca­mente ace­fala, gui­data da una Ger­ma­nia bot­te­gaia, pensa forse di «risol­vere» la que­stione delle migra­zioni con un cor­done sani­ta­rio di navi mili­tari e magari di campi di inter­na­mento in Libia e nei paesi limi­trofi? Tutto fa pen­sare di sì. Ma se fosse così, non si trat­te­rebbe che di una guerra ai migranti tra­ve­stita, di un uma­ni­ta­ri­smo peloso, di un neo-colonialismo mirante a tenere alla larga i poveri da un occi­dente in cui dila­gano pul­sioni xeno­fobe. Se fosse così, altre immani tra­ge­die si annunciano

«Non tutti i passeggeri sui barconi dei trafficanti sono famiglie innocenti». Matteo Renzi ammette che la presenza dell’Is in Libia, da dove partono verso l’Italia i migranti, rappresenta per il nostro Paese una minaccia terrorismo. Su questo tema è intervenuto il presidente della Repubblica. «L’Ue si faccia carico — ha detto Sergio Mattarella — della condizione drammatica in cui versa la Libia. Si ponga fine a questo sfruttamento ignobile di essere umani fatto da questi trafficanti. Contiamo su iniziative forti e significative».

Renzi va oggi in Europa con il pieno sostegno parlamentare: al Consiglio Ue sull’immigrazione, chiesto e voluto da Renzi, l’Italia proporrà una strategia in quattro punti presentata ieri al Parlamento dal presidente del Consiglio.

Nell’ambito delle misure allo studio, Renzi indica quattro punti: rafforzare le operazioni europee come Triton e Poseidon. Dichiarare guerra ai trafficanti di esseri umani con azioni mirate. Scoraggiare le partenze. Imporre la presenza delle organizzazioni internazionali nei Paesi a sud della Libia. Il governo italiano — grazie all’approvazione in Senato di una risoluzione di Fi — non esclude la possibilità di arrivare a un blocco navale in Libia. Il documento forzista dà infatti al Consiglio di sicurezza dell’Onu il compito di valutare. Ma il capogruppo del Pd nella commissioni Esteri e responsabile Esteri della segreteria nazionale del Pd, Enzo Amendola, ha fatto a questo proposito chiarezza. Al momento, ha precisato, «non c’è il blocco navale».

Ma il piano in 10 punti approvato dell’Ue sull’emergenza immigrazione, e la richiesta del ministro dell’Interno, Angelino Alfano, di un mandato internazionale per affondare le barche degli scafisti, sono bocciate dalla Chiesa. Per monsignor Giancarlo Perego, direttore della fondazione Migrantes, «il piano europeo è assolutamente debole e per certi versi vergognoso. Ancora una volta si pensa di contrastare i trafficanti e non tutelare le persone attraverso i canali umanitari». Diverse le reazioni delle opposizioni. Grillo paventa il rischio che «possa entrare in Italia un milione di persone», creando nel nostro Paese uno «stato di guerra».
La Lega, con il presidente della Regione Veneto Luca Zaia, dopo aver detto che «Renzi, l’Ue, l’Onu, perfino Obama dicono che bisogna fare ciò che io dico da quasi 2 anni», dice no a nuovi arrivi di clandestini nelle località turistiche. Per Berlusconi, infine (in linea con Ignazio La Russa di FdI), «servirebbero 10-12mila soldati che pattugliano le coste libiche per fermare i viaggi».
Il Sole 24ore, 23aprile 2015
Oggi si respira rassegnazione. Come se volesse dissociarsi da una decisione che, se ci sarà, sarà tutta e soltanto sua, l’Europa si mette in lutto preventivo. Aspettando il peggio, i funerali di Atene. «I greci non sono seri, il governo Tsipras non offre niente di concreto. Impossibile aiutarli», si insiste. Ma proprio lunedì il governo ha approvato il decreto per rastrellare fondi dalle casse di comuni ed enti locali, più di 1,5 miliardi, per pagare stipendi, pensioni e creditori. Si fa così anche in Olanda, l’avrebbero rassicurato i “mentori” Ue. Ma la Grecia è in piazza per gridare di nuovo «basta austerità».

Basta? La vulgata vuole che il Paese abbia incassato gli aiuti senza pagarne lo scotto. Le cifre smentiscono.Tra il 2008 e il 2013 il Pil greco è sceso del 27%, la spesa pubblica reale del 35%, i disoccupati sono arrivati al 28%. Il deficit strutturale è calato del 20% del Pil tra 2009 e 2014, il bilancio primario del 12%, come il disavanzo dei conti correnti. Sforzo irrilevante? Ancora insufficiente? Tutto positivo, visto il raddoppio del debito malgrado la parziale ristrutturazione?

Altro leitmotiv. Non si possono fare sconti alla Grecia che non collabora: sarebbe un regalo ai partiti populisti e uno schiaffo ai governi dei sacrifici.

Allora perché la Francia è stata appena risparmiata da una multa da circa 4 miliardi che avrebbe dovuto pagare per non aver rispettato il tetto del 3% di deficit negli ultimi otto anni, gli stessi del calvario greco? Nonostante la grazia ricevuta, Parigi ora rifiuta di fare i tagli strutturali richiesti, li riduce quasi a metà «per non compromettere la ripresa». In questo caso nessuno insorge né richiama l’intangibilità delle regole Ue, i patti da rispettare.

Come si fa a chiudere gli occhi davanti a un Paese grande ricco e arrogante e a infierire su uno povero e allo stremo anche per l’eccesso di sacrifici che gli è stato imposto? Come si giustifica la Caienna delle regole per alcuni e la flessibilità per altri?

La Grecia è testardamente indisciplinata, si ripete. La Francia no? Eppure continua a godere di spread e tassi “tedeschi” che non merita. Sì, ma se crolla la Francia crollano l’euro e l’Europa, se cade la Grecia non succederà quasi niente, Grecia esclusa. Questa l'ultima verità rivelata ma niente lo prova. Al contrario. Dopo 13 anni di vita, la gracilità politica e di consensi dell’euro potrebbe riservare pessime sorprese a democrazie in balia dei sondaggi quotidiani, prive di cultura e sensibilità europee, guidate da leader nazionali incapaci di guardare oltre gli ostacoli, se non fa loro comodo. Ampiamente dotati però del coraggio dell’irresponsabilità collegiale.

A loro difesa sventolano l'alibi dell'irresponsabilità della Grecia insolvente. La Grecia, 2$del Pil dell'euro e 3 % del debito, non è mai stata un mostro di virtù pubbliche. Lo si da da sempre. Come si sa che è stata salvata per salvare gli investimenti delle banche tedesche e francesi. Come si sa che, rigore o no, non potrà ripagare i debiti. Se abbandonata al suo destino, affonderà dunque nel marasma più nero. Ma prima o poi, complice l'interdipendenza, quell'atto d'incoscienza collettiva ricadrà si euro e Europa. Non sarebbe meglio una Realpolitik, meno costosa per tutti?

Le città fallite. I grandi comuni italiani e la crisi del welfare urbano" (Donzelli), un efficace panorama dei misfatti dell'urbanistica neoliberista, iniziata negli anni di Craxi e proseguita in quelli di Berlusconi e del suo erede, Matteo Renzi. Il manifesto, 22 aprile 2015

Che il possibile fallimento del comune di Roma e degli altri centottanta comuni italiani sia il risultato coerente e legittimo di un sistema economico-politico esso stesso fallimentare, e non l’accidentale disfatta legata al malaffare o alle ruberie di qualche amministratore, è illustrato con lucidità nell’ultimo libro di Paolo Berdini: Le città fallite. I grandi comuni italiani e la crisi del welfare urbano (Donzelli). Con dovizia di esempi l’autore dimostra come, nel «ventennio liberista», la gestione della polis – l’urbanistica – abbia acquisito assoluta centralità nelle scelte politiche di un paese in cui il «mattone di carta» e la privatizzazione dei servizi al cittadino hanno aggravato la miope scelta dell’edilizia come motore dell’economia nazionale.

Il condono craxiano, il primo della tripletta 1985-1994-2003, è «lo spartiacque». A distanza di pochi anni, nel pieno di «Mani pulite» e in «clima di fastidio per le regole», la legge 179 del 1992 introduce nella pratica urbanistica la contrattazione pubblico-privato «che diventa immediatamente arbitrio»: l’interesse comune è, da allora, legalmente sottordinato all’interesse dei particolari.

I valori immobiliari aumentano, sulla loro crescita si fonda il consenso politico: l’«urbanistica scellerata» si rivelerà infatti strumentale «a nascondere i tagli delle pensioni, i licenziamenti, il contenimento degli stipendi e la precarizzazione del lavoro». La diminuzione dei trasferimenti sta- tali ai comuni, unita all’opera demolitoria di Bassanini (che nel 2001 devasta la legge Bucalossi), dà il via libera alla cementificazione dei territori comunali in risposta alle penurie di cassa. L’economia neoliberista peninsulare si orienta quindi francamente sul mattone (quello vero e quello modernissimo «di carta»). È il prodromo della bolla edilizia, alimentata dai crediti elargiti alle imprese edili in base al loro capitale fisso: in un circolo vizioso, le imprese costruiscono ormai solo per poter continuare a costruire. Con «un milione di alloggi nuovi invenduti», il consumo di suolo in Italia doppia generosamente la media europea.

La legittimità dello sfascio territoriale e della contrazione del welfare urbano è il tratto caratteristico del ventennio descritto nel libro che segue il passaggio graduale dall’abuso classicamente inteso, di cui Berdini è riconosciuto esperto (si veda la sua Breve storia dell’abuso edilizio in Italia, 2010), all’abuso come strumento amministrativo dell’«urbanistica scellerata». Leggi criminogene (l’esempio più chiaro è la Legge obiettivo del 2001) e speculazione finanziaria rendono la città un grosso affare economico a detrimento della sua cultura, delle relazioni sociali che vi si intessono, dei cittadini che vi abitano e vi proiettano le proprie aspirazioni di vita. L’erogazione dei servizi urbani, privatizzati e mercificati, drena enormi ricchezze e diventa l’occasione privilegiata per il «finanziamento occulto del famelico mondo della politica».

Facendo seguito alla crisi dei subprime, i valori immobiliari arrivati alle stelle nel 2008 cadono in picchiata: le famiglie italiane che avevano acceso mutui a buon mercato «finanziati dall’economia di rapina», si ritrovano a pagare l’abitazione a un prezzo iniquo. O a vedersela pignorare per insolvenza.

Così, le «città infelici del neoliberismo» diventano «sempre più grandi e più ingiuste». All’aumento della superficie urbana segue infatti l’incremento delle spese per i trasporti, per asfaltare le strade, per acquedotti, fognature; e, «se aggiungiamo anche i costi di esercizio quotidiano che durano un tempo indefinito – scrive Berdini –, cogliamo il disastro provocato dall’urbanistica liberista». Dunque: più la città cresce, più si indebita facendo ricorso agli strumenti finanziari «che hanno deliberatamente rotto lo storico patto sociale su cui è fondata la vita della città» (i debiti a lunga scadenza intaccano peral- tro il patto generazionale). In questa spirale, le casse comunali collassano: con un debito di 22 miliardi di euro, nell’aprile 2014 il comune di Roma dichiara bancarotta. Per la sua gravità, la vicen- da passa sotto silenzio. Viene adottata una «soluzione geniale» presa a prestito dal copione del li- berismo economico: istituire, secondo il modello sperimentato per l’Alitalia, una bad company in cui far confluire i debiti, e «creare una nuova società pulita» – Roma Capitale – con gli stessi confini amministrativi del precedente comune. Il piano di rientro dal debito, nel segno dell’austerità, crea nuove sofferenze urbane, ben rappresentate dal taglio di più di cinquanta linee di autobus verso le «periferie dolenti».

La svendita del patrimonio comune, in principio non «alienabile, usucapibile, espropriabile», è l’ulteriore pesante elemento di pauperizzazione delle città italiane; i cittadini vengono espropriati del fondativo diritto alla proprietà collettiva, come ricorda nelle belle pagine introduttive Paolo Maddalena.

Da questo diritto fondamentale nasce l’ipotesi del progetto co- rale delineato da Berdini per la ri- costruzione della «città pubblica», l’«abbellimento» delle periferie e per la nuova vita delle aree interne, neglette dal modello metropolitano. Il «lievito spontaneo che le salverà» è già pronto: la rete delle esperienze dei comitati e delle associazioni «ha messo a fuoco i problemi, costruito ipotesi collettive di soluzione». Il suo auspicato «salto di qualità» rappresenta la speranza concreta per uscire dal fallimento neoliberista.

Alla vigilia del 25 aprile, ricordiamo. «Nuovi studi approfondiscono il sostegno che i soldati sovietici, alcuni scampati alla prigionia dei tedeschi, diedero alla lotta di liberazione dei partigiani».

La Repubblica, 21 aprile 2015

GIÀ si era fatto poco, e tremendamente tardi. Poi, con il crollo dell’Urss e dei partiti comunisti dell’Ue, il tema era addirittura sparito, non solo dalla ricerca storica ma anche dalle celebrazioni della Resistenza. La parte avuta dai soldati sovietici – prigionieri o collaborazionisti del nazifascismo passati ai partigiani – nella guerra di liberazione in Europa era diventato un tema fuori moda, persino ingombrante per quei Paesi che erano stati liberati dall’Armata Rossa solo per finire nella mani di Stalin, e per i quali persino il Giorno della Memoria (27 gennaio, data dell’ingresso ad Auschwitz delle truppe russe) costituiva, e costituisce tuttora, fonte d’imbarazzo.

Ma ora qualcosa si muove, e negli ultimi mesi – in vista del settantesimo anniversario del 25 aprile – abbiamo visto uscire testi che esplorano in modo innovativo questo pezzo della nostra storia. Tra essi possiamo annoverare il lavoro di Anna Roberti, Dal recupero dei corpi al recupero della memoria, che illumina il contributo dei partigiani sovietici nella liberazione del Piemonte, e il libro di Marina Rossi, Soldati dell’Armata Rossa orientale, che indaga il ruolo degli uomini “venuti dal freddo” in uno spazio difficile, segnato da tante ferite ancora aperte, come le Foibe o l’ignobile massacro dei cosacchi consegnati a Tito dagli Alleati, per non dire da una Guerra Fredda che ha diviso italiani e slavi già prima della fine del conflitto. Lavori pubblicati da case editrici minori, Visual Grafika di Torino e Leg di Gorizia, ma che indicano una tendenza e aprono una strada su un terreno d’indagine ancora quasi vergine.

Già dei partigiani jugoslavi in Italia si sa poco o niente – essi restano terreno di indagine di pochi autori di nicchia – anche se furono molte migliaia. Deportati politici o prigionieri di guerra cui l’8 settembre ‘43 offrì una generale occasione di fuga, essi entrarono in massa nella Resistenza italiana, specie nel Centro Italia, non potendo raggiungere i compagni per via dell’occupazione nazista del Nord del Paese. Ebbene, dei sovietici – russi, caucasici, ucraini, mongoli, kazaki ecc. – si sa ancora meno, e non solo per gli infiniti processi cui è stata sottoposta la guerra di Liberazione negli ultimi anni, ma anche perché – osserva Franco Sprega di Fiorenzuola d’Arda, agguerrito indagatore della Resistenza tra il Po e la via Emilia – tutto, con loro, “diventa più complicato”.

Già i numeri lo dicono. I prigionieri dell’Armata Rossa caduti nella mani dei tedeschi furono cinque milioni, una cifra che non ha eguali in nessun’altra guerra europea. Di questi, almeno la metà – gli irriducibili – furono lasciati morire di fame e di freddo. Gli altri furono assorbiti come ausiliari o inquadrati nell’esercito nazista, come la famigerata 162ma divisione turkestana che sull’Appennino lasciò una scia incomparabile di violenza, specie sulle donne. Una parte di questi prigionieri – in Italia dai cinque ai settemila – saltarono il fosso per mettersi in contatto coi partigiani, ma essi chi furono davvero? Quanti si mossero per opportunismo, quanti per fede, e quanti perché rinnegati da Mosca? Dopo che Stalin aveva ordinato loro di suicidarsi in caso di cattura, la loro resa era diventata un reato punibile con la fucilazione (cosa che per molti effettivamente avvenne) e dunque nella scelta partigiana c’era anche la ricerca di una riabilitazione agli occhi della madrepatria.

Terreno difficile, per uno studioso che vuole evitare la retorica celebrativa. Ma ora in aiuto ci viene la nuova accessibilità di archivi statunitensi, britannici e soprattutto russi, finora non consultabili, che consentono di leggere meglio l’apporto degli stranieri alla Liberazione. Nel libro di Marina Rossi compare integralmente, per esempio, il diario di guerra del moscovita Grigorij Iljaev Aleksandrovic, catturato dai tedeschi prima dell’età di leva e poi fuggito rocambolescamente, dal quale emergono dettagli inediti sulla resistenza tra Tolmino e l’Istria montana e soprattutto sugli ultimi giorni di combattimenti attorno a Trieste, ai primi di maggio del ‘45, quando il resto d’Italia è già stato liberato.

Sia la Rossi che la Roberti osservano come le unità partigiani trovassero nei sovietici combattenti agguerriti, grazie al doppio addestramento avuto nell’Armata Rossa e nella Wehrmacht. Nella sua intervista prima di morire con Franco Sprega, Mario Milza, primo a entrare a Genova con la 59 brigata “Caio”, dice dei sovietici che “sapevano fare la guerra”, erano “disponibili al rischio” e sapevano esprimere “un volume di fuoco” che ti metteva al sicuro. Un partigiano, chiamato genericamente “il Russo” e poi svelatosi post mortem come Vilajat Abul’fatogli Gusejnov di nascita azera, ebbe l’onore di una sepoltura monumentale nel Piacentino e fu ricordato al punto che, dopo il trasferimento del corpo in Urss, il partigiano Maurizio Carra di Borgo Taro trasferì marmi e lapidi nel giardino di casa sua.

Solo ora sappiamo chi furono Dimitri Makarovic Nikiforenko, nome di battaglia “Willy”, Mehdi Huseynzade “Mihajlo” o Vasilji Zacharovic Pivovarov “Grozni”. Per il resto riemergono dalle nebbie solo visi sfocati, nomi storpiati, o cimiteri – come quello di Costermano fra il Garda e la Val d’Adige – dove settant’anni fa vennero ammassati senza distinzione tagliagole collaborazionisti e comandanti di unità partigiane, accomunati dal solo denominatore di essere, genericamente, “russi”. In questo ginepraio, quanto ha dovuto faticare – racconta Anna Roberti nel suo libro – Nicola Grosa, mitico partigiano piemontese, per dare a guerra finita un nome a questi stranieri caduti nella lotta subalpina, specie nel Canavese, e portarne i corpi a Torino al “Sacrario della Resistenza”.

Ma la loro memoria è specialmente viva sul confine orientale, dove essi si batterono con i garibaldini italiani e più spesso con la Resistenza slovena, in un rapporto di cameratismo facilitato dalla parentela linguistica. Il “Ruski Bataljon” fece saltare ponti, bloccò intere colonne di tedeschi in ripiegamento, conquistò bunker perdendo decine di uomini. Molti di loro, come il famoso “Mihajlo”, morto in combattimento, sono diventati eroi in patria, e la loro leggenda vive ancora.

La Repubblica, 21 aprile 2015

I 10 “dissidenti” del Pd sulla legge elettorale sono fuori dalla commissione Affari costituzionali che oggi pomeriggio inizierà a votare gli emendamenti all’Italicum. Lo ha deciso l’ufficio di presidenza del gruppo che ha “salvato” Giuseppe Lauricella: il deputato siciliano ha assicurato che si atterrà alle indicazioni del gruppo.

Niente da fare invece per l’ex segretario del Partito Pierluigi Bersani, per l’ex presidente del partito Rosi Bindi e per Gianni Cuperlo, sfidante di Renzi alle primarie. Dovranno lasciare il loro posto a colleghi di partito che rispetteranno le decisioni del gruppo e della direzione. E intantoda Bologna arriva anche la notizia che Bersani, Cuperlo e Pippo Civati sono stati invitati alla prossima festa nazionale dell’Unità.
La scelta di sostituire i 10 “dissidenti”non è però condivisa da Roberto Speranza, il capogruppo dimissionario, infatti, giudica «grave quanto accaduto nell’ufficio di presidenza. Io non avrei mai potuto sottoscrivere questa decisione». E Cuperlo aggiunge che si tratta di «un fatto molto serio» che se fosse seguito dalla richiesta di fiducia darebbe luogo ad uno «strappo che metterebbe a rischio la legislatura». Ma il partito guarda avanti. E sempre nella stessa riunione, come comunicato dal vice capogruppo Ettore Rosato, è stato deciso di convocare il gruppo per discutere della successione a Speranza.
E avanti guarda anche Renzi. Il premier ieri mattina, sulla fiducia, ha detto: «Vedremo. Ma dopo tante discussioni ora siamo a un passo, vediamo il traguardo dell'ultimo chilometro. Faremo lo sprint finale sui pedali e a testa alta». Il premier ha detto che non sarà «più consentito ai veti e controveti dei piccoli di bloccare la democrazia in Italia». L’iter della legge però deve fare i conti con l’annuncio dei grillini, che, di fronte alla scelta del Pd, hanno deciso di boicottare i lavori della commissione Affari costituzionali. E Sel e Scelta civica, che fa parte della maggioranza, stanno pensando di seguire il loro esempio. E la tentazione dell’Aventino potrebbe contagiare anche Forza Italia.

Bocchescucite.org, 20 aprile 2015

Awas Ahmed è somalo, rifugiato in Italia. Racconta il senso della fuga e il perché abbiamo bisogno di guardare oltre Lampedusa cambiando prospettiva.

A chi chiede: «Non era meglio rimanere a casa piuttosto che morire in mare?», rispondo: «Non siamo stupidi, né pazzi. Siamo disperati e perseguitati. Restare vuol dire morte certa, partire vuol dire morte probabile. Tu che sceglieresti? O meglio cosa sceglieresti per i tuoi figli?». Due giovani ieri sono stati uccisi a Mogadiscio perché si stavano baciando sotto un albero. Avevano vent’anni. Non festeggeranno altri compleanni. Non si baceranno più.

A chi domanda: «Cosa speravate di trovare in Europa? Non c’è lavoro per noi figurarsi per gli altri», rispondo: «Cerchiamo salvezza, futuro, cerchiamo di sopravvivere. Non abbiamo colpe se siamo nati dalla parte sbagliata e soprattutto voi non avete alcun merito di essere nati dalla parte giusta».
Mio cognato scappava con me. Prima del mare c’è il deserto che ne ammazza tanti quanti il mare. Ma quei cadaveri non commuovono perché non si vedono in Tv. Perché non c’è un giornalista che chiede ripetutamente quante donne e bambini sono morti, quante erano incinte. Perché qui in Occidente a volte sembra che l’orrore non basti, c’è bisogno di pathos.

Mio cognato è morto nel deserto. Per la fame. Dopo 24 giorni in cui nessuno ci ha dato da mangiare. A casa c’è una moglie che non si rassegna e aspetta una telefonata che io so non arriverà mai. A casa c’è quel che resta di un sogno, di un progetto, di una vita. Un biglietto per due i trafficanti se lo fanno pagare caro e, loro, i soldi non li avevano. Se fosse restato, li avrebbero ammazzati tutti e due. Il suo ultimo regalo per lei è stata la vita. Lui è scappato e lei non era più utile, l’hanno lasciata vivere.

A chi chiede: «Come si possono evitare altre morti nel Mediterraneo?», rispondo: «Venite a vedere come viviamo, dove abitiamo, guardate le nostre scuole, informatevi dai nostri giornali, camminate per le nostre strade, ascoltate i nostri politici. Prima dell’ennesima legge, dell’ennesima direttiva, dell’ennesima misura straordinaria, impegnatevi a conoscerci, a trovare le risposte nel luogo da cui si scappa e non in quello in cui si cerca di arrivare. Cambiate prospettiva, mettetevi nei nostri panni e provate a vivere una nostra giornata. Capirete che i criminali che ci fanno salire sul gommone, il deserto, il mare, l’odio e l’indifferenza che molti di noi incontrano qui non sono il male peggiore».

Testimonianza raccolta dalla Fondazione Astalli

Il Sole 24 ore, 21 aprile 2015

Settecento morti nel Mediterraneo nella notte tra sabato 18 aprile e domenica, a 60 miglia dalle coste libiche. È il più grande sterminio in mare dal dopoguerra, dopo i 366 morti del 2013 a Lampedusa. Inutile snocciolare i numeri delle scorse settimane, le percentuali in costante aumento: sempre giunge l’ora in cui il numero acceca la vista lunga, indica e al tempo stesso cancella le persone. Enumerare non serve più, se non chiamiamo a rispondere gli attori politici del dramma: la Commissione europea, gli Stati dell’Unione, l’Alto Commissariato Onu. A tutti va ricordato che le normative sul soccorso dei naufraghi e sul non-respingimento sono divenute cogenti in contemporanea con l’unificazione europea, in memoria del mancato soccorso alle vittime dei genocidi nazisti. Sono la nostra comune legge europea.

A questi attori bisogna rivolgersi oggi con una preliminare e solenne richiesta: smettete l’uso di parole altisonanti; passate all’azione; non reagite con blocchi navali che tengano lontani i fuggitivi dalle nostre case, come si tentò di tener lontani gli ebrei in fuga dal nazismo. Questo è un giorno di svolta. A partire da oggi il più grande sterminio in mare dal dopoguerra occorre mettere la parola urgenza, al posto di emergenza. Bisogna dare alla realtà il nome che merita: siamo di fronte a crimini di guerra e sterminio in tempo di pace, commessi dall’Unione europea, dai suoi 28 Stati, dagli europarlamentari e anche dall’Alto Commissariato dell’Onu. Il crimine non è episodico ma ormai sistemico, e va messo sullo stesso piano delle guerre e delle carestie prolungate. Il Mar Mediterraneo non smette di riempirsi di morti dal 28 marzo 1997, quando, nel naufragio della Katër i Radës, 81 profughi albanesi perirono nel canale di Otranto. Lo sterminio dura da almeno 18 anni: più delle due guerre mondiali messe insieme, più della guerra in Vietnam. È indecenza parlare di “cimitero Mediterraneo”. Parliamo di fossa comune: non c’è lapide che riporti i nomi dei fuggitivi che abbiamo lasciato annegare.

Le azioni di urgenza che vanno intraprese devono essere, tutte, all’altezza di questo crimine, e della memoria del mancato soccorso nel secolo scorso. Non sono all’altezza le missioni diplomatiche o militari in Libia, dove per colpa dell’Unione, dei suoi governi, degli Stati Uniti, non c’è più interlocutore statale. Ancor meno lo sono i blocchi navali, gli aiuti alle dittature da cui scappano i richiedenti asilo, il silenzio sulla vasta destabilizzazione nel Mediterraneo – dalla Siria alla Palestina, dall'Egitto al Marocco – di cui l’Occidente è responsabile da anni.

Le azioni necessarie nell’immediato, eccole:

Urge togliere alle mafie e ai trafficanti il monopolio sulle vite e le morti dei fuggitivi, e di conseguenza predisporre vie legali di fuga presidiate dall’Unione europea e dall’Onu.

Urge finanziare gli interventi di ricerca e soccorso lungo le coste europee ma anche in mare aperto come faceva l’operazione Mare nostrum, e dovrebbe fare l’operazione Triton; tutto ciò nella piena consapevolezza che la stabilizzazione del caos della Libia non è ottenibile nel breve-medio periodo.

Urge la collaborazione leale (come stabilito dall’articolo 4 del Trattato dell’Unone) smentendo cio che ha dichiarato Natasha Bertaud, portavoce della Commissione: «Attualmente la Commissione non ha né le risorse né il sostegno politicoper costituire un sistema di protezione dei confini capace di svolgere operazioni di ricerca e soccorso» . Questa frase ha lo sconvolgente significato di “mancanza di soccorso”, considerata un crimine nel nostro sistema giudiziario.

La stessa ONU dovrebbe muoversi con urgenza, e il Consiglio di sicurezza dovrebbe affrontare questa tragedia con una risoluzione. Se i delitti compiuti sul mare appaiono come il prolungamento della guerra o della carestia generate dal collasso degli stati di origine o di transitonon possiamo escludere l’intervento peacekeeping dell’ONU. L’aiuto agli sfollati e agli affamati è procedura consolidata dell’ONU: oggi deve essere applicata al Mediterraneo

Gli accordi di Dublino devono essere ripensati al più presto. Con una decisione del 21 dicembre 2011 la Corte di giustizia europea ha espresso una valutazione positiva al considerare il rischio di trattamento inumano dei profughi come una condizione essenziale peril trasferimento. Ciò costituisce un effettivo obbligo di derogare dall’elenco di criteri stabiliti dal regolamento di Dublino

Con la stessa tempestività occorre tenere in considerazione che i paesi più esposti oggi al flusso dei profughi sono quelli del Sud Europa (Grecia, Italia, Cipro, Malta, Spagna): si tratta degli stessi paesi che sono stati colpiti, dopo la crisi del 2007-2008, da una drastica riduzione della spesa sociale. Queste voci di spesa comprendono quelle destinate alla ricerca e soccorso per i profughi. L’onere che pesa ingiustamente su questi paesi deve essere immediatamente alleviato.

Infine, c’è il problema dei tempi. Dal massacro di Lampedusa del 2013 i governi dell’Europa hanno sostenuto la cooperazione con i paesi di origine o transito dei profughi per “esternalizzare" le politiche di ricerca e soccorso e quelle di asilo. Il Commissario Dimitris Avramopoulos ha perfino auspicato la “collaborazione con le dittature” considerando respingimenti collettivi, benchè vietati dalla Convenzione per i diritti dei profughi (articolo 33) e dagli articoli 18 e 19 dalla Carta europea dei diritti fondamentali. Non c’è tempo per costruire relazioni diplomatiche (nell’ambito dei cosiddetti processi Rabat e Khartoum) perché i profughi sono in mare, e devono essere salvati: ovviamente dalla morte, ma anche dalle mafie che si arricchiscono dalla loro carne, aiutate dal vuoto di legalità che l’Unione europea deve ora riempire.

Gli stati europei e l’ONU sono colpevoli di delitti e continuano a vivere in una condizione delirante. Carlotta Sami, portavoce dell’ UNCHR, è stata molto chiara: «Lasciar morire la gente nel mare non scoraggerà i profughi nella loro ricerca di salvezza» dalla guerra, dalla carestia, dall’odio recentemente scatenato contro i cristiani o altre minorante e, in futuro, anche dalle catastrofi legate al clima. La velocità dei colloqui e delle trattative diplomatiche non corrisponde più all’urgenza dei fatti. Il tempo per organizzare una massiccia operazione di soccorso per l’umanità che fugge verso l’Europa è adesso, mentre parliamo.

il manifesto), Roberto Saviano e Ilvo Diamanti (la Repubblica), Claudio Magris (Corriere della sera), 19 e 20 aprile 2015

Il manifesto
LA SORDA EUROPA
di Tommaso di Francesco

Fug­gi­vano da guerra e mise­ria anche i 700 dispe­rati dei quali non si ha noti­zia e ancora tanti sono i dispersi in mare, solo 49 risul­tano in salvo. Non c’è biso­gno che lo dica il Vati­cano che fug­gi­vano da guerra e mise­ria per averne una con­ferma. Guar­date la geo­gra­fia dei luo­ghi da dove, ogni santo giorno, arri­vano in fuga: Nige­ria, Mali, Niger, Siria, Soma­lia, Libia, Egitto, Iraq…ecc. ecc. Non c’è una sola realtà che non veda la costante povertà della quale siamo respon­sa­bili – per favore qual­cuno veda come abbiamo ridotto il Delta del Niger, una regione grande come l’Italia in Nige­ria, “gra­zie” ai nostri pozzi petro­li­feri e a quelli delle altre mul­ti­na­zio­nali del petro­lio. Una fogna di bitumi che hanno deva­stato l’ambiente, rima­sto sem­pli­ce­mente senza acqua.

Ma que­sto è poco. Ognuno di quei paesi è in preda certo alle scel­le­rate avan­zate dell’Isis, ma gra­zie al ter­reno fer­tile di mace­rie che abbiamo pro­vo­cato con le nostre guerre. E’ stata la Nato a tra­sfor­mare la Libia, il paese con il red­dito più alto dell’Africa, in un cumulo di rovine senza isti­tu­zioni rap­pre­sen­ta­tive con tre governi che si com­bat­tono e ora sicuro san­tua­rio dello jiha­di­smo estremo per tutto il Medio Oriente.

O vogliamo par­lare delle magni­fi­che sorti e pro­gres­sive dello sce­na­rio somalo? Senza dimen­ti­care l’uso occi­den­tale stru­men­tale dei jiha­di­sti in chiave anti-Assad per poi sco­prire che così facendo hanno preso piede in due terzi dell’Iraq, paese dove l’occupazione mili­tare sta­tu­ni­tense — come rico­no­sce lo stesso Obama – ha per­messo alla fine l’avvento e le stragi degli ultimi radi­ca­li­smi isla­mi­sti dello Stato islamico.

Fug­gono da que­ste guerre e da que­sta mise­ria. Noi siamo per­lo­meno co-responsabili. E invece l’Unione euro­pea dichiara che “non può fare nulla”, annun­ciano gli alti fun­zio­nari dell’immigrazione Ue. E invece, come scri­vono ormai per­fino i gior­nali tede­schi, sarebbe dove­roso, urgente e ripa­ra­to­rio avviare subito una mis­sione di Mare nostrum sta­volta europea.

Quando c’era Mare Nostrum il numero delle vit­time è calato improv­vi­sa­mente. Sem­pli­ce­mente li soc­cor­re­vamo: è quello che dob­biamo fare anche adesso.

Ma chi paga? E’ sem­pre dai gior­nali tede­schi che arriva il sug­ge­ri­mento: il pros­simo ver­tice del G7 costerà milioni ai paesi euro­pei. Basta pre­miare il nefa­sto ceto polico con­ti­nen­tale con alber­ghi a 6 stelle e con pranzi raf­fi­nati. Impe­gniamo quei soldi per una mis­sione navale che soc­corra e salvi i migranti, subito.

E’ tempo di fare spen­ding review in que­sta Unione euro­pea che se non trova ragioni per esi­stere nem­meno per que­sta tra­ge­dia, è meglio che chiuda i bat­tenti. Toc­cherà a noi che siamo inter­na­zio­na­li­sti e per que­sto euro­pei­sti con­vinti, rifon­darne un’altra soli­dale ed eguale.

Quanto allo squalo Sal­vini, pro­pone un blocco navale mili­tare - di 150 navi da guerra - per impe­dire che i dispe­rati arri­vino. Come se non fosse mai acca­duto: qual­cuno si ricorda del mas­sa­cro della Kater I Rades con 100 alba­nesi, donne, bambi e vec­chi, spe­ro­nata da una nave mili­tare ita­liana nel 1997? E aggiunge lo sciacallo-squalo che ci vogliono tanti campi di con­cen­tra­mento in Africa per deci­dere lì “chi è dav­vero clan­de­stino e chi ha biso­gno d’aiuto”.

Tutti loro hanno biso­gno d’aiuto. Noi non abbiamo certo biso­gno del raz­zi­smo e dell’odio di Sal­vini. Il fascio-leghista pro­mette che andrà a Palermo e si met­terà su un gom­mone. Così lo vediamo che se ne va…su un gommone

La RepubblicaILMEDITERRANEO FOSSA COMUNE
COSÌ QUEI MORTI DI NESSUNO
PESANO SULLE NOSTRECOSCIENZE

di Roberto Saviano

Il Mediterraneo trasformato in una fossa comune. Oltre novecento morti. Morti senza storia, morti di nessuno. Scomparsi nel nostro mare e presto cancellati dalle nostre coscienze. È successo ieri, un barcone che si rovescia, i migranti — cioè persone, uomini, donne, bambini — che vengono inghiottiti e diventano fantasmi. Ma sappiamo già che succederà anche domani. E tra una settimana. E tra un mese. Spostando la nostra emozione fino all’indifferenza. Ripeti una notizia tutti i giorni, con le stesse parole, gli stessi toni, anche accorati e dolenti, e avrai ottenuto lo scopo di non farla ascoltare più. Quella storia non avrà attenzione, sembrerà sempre la stessa. Sarà sempre la stessa. “Morti sui barconi”. Qualcosa che conta per gli addetti ai lavori, storia per le associazioni, disperazione invisibile.
Adesso, proprio adesso, ne stiamo parlando solo perché i morti sono 900 o forse più: cifra smisurata, disumana. Se ha ancora senso questa parola. Continuiamo a non sapere nulla di loro, ma siamo obbligati a fare i conti con la tragedia. Fare i conti: perché sempre e solo di numeri parliamo. Fossero mancati due zeri al bollettino di morte non l’avremmo neppure “sentita”. Perché ormai è solo una questione di numeri (o dettagli drammatici come “migranti cristiani spinti in mare da musulmani”) che fa la differenza. Non per i singoli individui, non per le sensibilità private, ma per la comunità che dovremmo rappresentare, che dovrebbe rappresentarci.
Perché all’indifferenza personale, persino comprensibile, si affianca sul piano politico una gazzarra di dichiarazioni: litigi, accuse, toni violentissimi. Nessuno riesce a fare ciò di cui abbiamo più bisogno: far capire. Pochi si impegnano: Medici senza frontiere con la campagna #milionidipassi cerca di raccontare, evitando di ridurre queste persone al loro problema. Cioè a «profughi, clandestini, extracomunitari »: parole che lasciano diluire la specificità umana per farci sentire meno lo spreco infinito dinanzi alla tragedia. Molti politici, anche in questo momento, gridano. Salvini parla di «invasione», quando invece la maggior parte di chi arriva non resta affatto in Italia ma va in Francia, in Germania o nei paesi dell’est. Il M5S che nelle sue proposte aveva aperto un dibattito interessante, purtroppo si è lasciato tentare dallo spostare il baricentro della questione dal «salvare vite » a «l’espulsione», assumendo quella falsa logica per cui più si rende difficile l’entrata clandestina in Italia meno tentativi di raggiungere le nostre coste ci saranno. Non è così, non si salvano vite irrigidendo le frontiere e non solo l’esperienza italiana l’ha mostrato, ma anche quella americana. Basta leggere il libro La Bestia di Martinez per comprendere come i flussi clandestini dal Messico agli Usa sono raramente gestibili e non fermabili.

Il punto è che il primo obiettivo dovrebbe essere quello: salvare delle vite, prendersene cura. Invece si è riusciti a far diventare questa volontà come ridicola, romantica, naif. Qualunque riflessione sul dolore degli altri, di chi arriva da un “sottomondo”, deve essere contenuta. C’è un’economia nella sofferenza. Chi valuta il dolore, chi misura la tragedia umana, chi cerca di svegliare il torpore della conta degli affogati è iscritto di diritto al movimento “buonista”.

“Buonista” è l’accusa di chi non vuol spender tempo a capire e ha già la soluzione: respingimenti, arresti, blocchi. Un miscuglio di frustrazione personale che cerca il responsabile del proprio disagio, una voglia di considerare realistica e vincente solo la soluzione più autoritaria. La bontà considerata come sentimento ipocrita per definizione. E, cosa assai peggiore, una qualità morale che può avere solo l’uomo perfetto, candido, puro: quindi nessuno se non i morti, la cui vita è trasfigurata e le cui azioni sono già spese. Chiunque cerchi, nella sua umana imperfezione, di agire diversamente è marchiato con un giudizio unico: falso. La bontà diviene quindi sentimento senza cittadinanza, ridicolo, proprio perché non può essere compiuto se non nella rotonda perfezione. Questo è il cinismo miope, che liquida tutto con solerte sarcasmo.

Ovvio che razionalmente non è immaginabile una smisurata accoglienza universale, senza regole, ma la strada intrapresa delle mezze concessioni e dai mezzi respingimenti non regge più. Il peso politico che avremmo dovuto avere essendo Stato-cerniera non c’è stato riconosciuto. Dovevamo pretendere di scontrarci sul tema immigrazione con il resto dell’Europa. Dovevamo pretendere di essere ascoltati, senza che “il problema” venisse scaricato su di noi, delegato a noi.

La perenne campagna elettorale di Renzi, che sul piano internazionale sembra più voler acquistare una credibilità diplomatica piuttosto che porre e imporre temi, non ci sta aiutando ma ci sembra ingeneroso dare a questo governo ogni responsabilità. L’Europa colpevolmente tace, possiamo però tentare di cambiare le cose. Possiamo impegnarci a interpretare, a raccontare, a non permettere che queste vite siano schiacciate e sprecate in questo modo. Che siano lasciate indietro, tanto indietro da sparire dalla nostra vista. Diventando un fantasma, uno stereotipo, un fastidio.

Inventarci percorsi laterali, chiamare a raccolta tutta la creatività possibile. Parlarne in tv e sul web ma in modo diverso: come dicevamo “profugo” o “clandestino” sono termini che diluiscono la specificità umana costruendo una distanza irreale che abbassa il volume all’empatia.

Dobbiamo chiedere ai partiti di candidare donne e uomini che vengono da quest’esperienza, aprire loro le università. Tutto questo diminuirà il consenso politico con la solfa del «prima noi e poi loro»? Probabilmente sì, accadrà questo. Ma solo nella prima fase ben presto ci si accorgerà dell’enorme beneficio che avremmo. La storia degli sbarchi e dei flussi di migranti deve diventare un tema che il governo sentirà fondamentale per il suo consenso.

Renzi e il suo governo sono solleciti a rispondere quando un tema diventa mediatico e popolare: se percepiscono che il giudizio su di loro sarà determinato dal problema migrazione inizieranno a sparigliare, a trovare nuova strategia ad avere nuovi sguardi. Il semestre italiano in Europa è stato una profonda delusione, in termini di proposte sui flussi dei capitali criminali (era l’occasione per porre il tema del riciclaggio) e in termini di emigrazione. Ma in questo momento inutile rimpiangere il non fatto è necessario che l’Europa decida in maniera diversa. Dare spazio non episodico alle vicende dei migranti. La tv li accolga, cominciando a pronunciare bene i loro nomi e quelli delle loro nazioni, raccontando il loro quotidiano e la loro resistenza.

Gli unici che in queste ore rappresentano ciò che l’Europa dovrebbe essere sono gli italiani, i molti italiani che salvano vite tutti i giorni rischiando di violare leggi. La figura che sintetizza questi italiani colmi di onore è descritta dal pescatore Ernesto nel bellissimo film “Terraferma” di Crialese che viola l’ordine della Capitaneria di tenersi con il suo peschereccio lontano da un gommone rispondendo con un semplice , umano e potente: «Io gente in mare non ne ho lassata mai».

Corriere della sera
DOVE CESSA L'UMANITA'
di Claudio Magris
O gni volta la tragedia è più grande - e lo sarà sempre più - e ogni volta si dice, mentendo in buona fede a se stessi, che si è raggiunto il colmo. E che è vicino il momento in cui si volterà pagina, proprio perché è intollerabile che continui questo crescendo di orrori. Invece con ogni probabilità continuerà, se non accadrà qualche radicale e inimmaginabile cambiamento nella situazione e nella politica mondiali. La pietà, l’indignazione e lo sgomento del mondo - di noi tutti - si accenderanno, sinceri e inutili, a ogni nuovo episodio di barbarie. Ma forse sempre meno, perché ci si abitua a tutto e proprio il ripetersi delle orrende e criminose tragedie renderà più assuefatte e meno reattive le coscienze.
Che fare, come dice il titolo di un famoso pamphlet politico? Il problema è tragico, perché agli immigrati e senza nome e senza destino si oppongono non solo le livide, imbecilli e regressive paure di chi teme ogni forestiero incapace di bestemmiare nel suodialetto e sogna un mondo endogamico e gozzuto di consanguinei.

La Repubblica
DOBBIAMOAVERE PIETÀ DI NOI
di Ilvo Diamanti

OLTRE novecento persone morte in un barcone, in viaggio dalla Libia verso la Sicilia. Sparite in fondo al mare. Insieme ad altre migliaia, vittime di molti altri naufragi. Accomunate e travolte dalla stessa disperazione.

CHE spinge ad affrontare il mare “nemico” per sfuggire alla fame, alla miseria, alla violenza. Oggi: alla guerra. Più che di “migrazione”, si tratta di “fuga”. Anche se noi percepiamo la “misura” della tragedia solo quando i numeri sono “smisurati”. Salvo assuefarci anche ad essi. Ed è questo, come ho già scritto, che mi fa più paura. L’abitudine. La distanza da una tragedia che, invece, è a due passi da noi. La tentazione di “piegarla” e di “spiegarla” in chiave politica. Per guadagnare voti. Eppure le migrazioni sono un fenomeno ricorrente. Tanto più e soprattutto in fasi di cambiamento e di trasformazione violenta (in ogni senso), come questa. Allora, le popolazioni si “mobilitano”, alla ricerca di nuove e diverse condizioni di vita.

È capitato a noi italiani, lo sappiamo bene. In passato, ma anche oggi. Soprattutto ai più giovani. D’altronde, due italiani su tre pensano che i loro figli, per fare carriera, se ne debbano andare all’estero (Osservatorio Europeo sulla Sicurezza, curato da Demos e Osservatorio di Pavia per Fondazione Unipolis). Come, puntualmente, avviene. Infatti, l’Italia è al quinto posto in Europa, come Paese di immigrazione. Dopo Gran Bretagna, Germania, Spagna e Francia. Ma — il fenomeno è meno noto — è al quarto posto come Paese di “emigrazione”. Gli stranieri che vivono — e lavorano — in un Paese dell’Ue sono infatti soprattutto turchi, marocchini, rumeni e, appunto, italiani. In Germania, Svizzera e Francia, dunque, noi siamo come i marocchini e i turchi. Proprio per questo, peraltro, le paure sono, al proposito, comprensibili.

La xenofobia, letteralmente: paura dello straniero, riflette l’impatto con un fenomeno nuovo. Che si è sviluppato in modo rapido e violento. Secondo il Centro Studi e Ricerche Idos, gli stranieri in posizione regolare, alla fine del 2013, erano circa 5 milioni e 440 mila. Cioè, l’8% della popolazione. Con un aumento rispetto all’anno precedente di circa il 4%. In confronto al 2004, quando gli immigrati erano meno di 2 milioni, significa un aumento di quasi tre volte. E di 4, rispetto al 2001. Il nostro paesaggio sociale e demografico, dunque, è cambiato profondamente e molto in fretta. Difficile che questo avvenga senza fratture, senza reazioni. Tuttavia, nonostante tutto, la società italiana si è adattata. Per necessità, ovviamente, visto che gli occupati stranieri sono 2,4 milioni, oltre il 10% del totale, mentre nel 2001 erano solo il 3,2%. Ma anche perché ha cominciato ad abituarsi alle diversità, alle differenze etniche e culturali. Come altrove si sono abituati a noi, in passato.

Anche se la recente Indagine dell’Osservatorio sulla sicurezza in Europa (febbraio 2015), condotta da Demos (insieme all’Osservatorio di Pavia e alla Fondazione Unipolis), rileva un deterioramento degli atteggiamenti verso i migranti, in Italia. Più di un italiano su tre percepisce, infatti, gli immigrati come un “pericolo per l’ordine pubblico e la sicurezza delle persone” (33%). Tuttavia, occorre rammentare che, fra il 2007 e il 2009, questo indice aveva proporzioni ben diverse: fra il 45 e il 50%. Da allora l’immigrazione non ha smesso di crescere. Ma è cambiato l’approccio. Da parte della società, anzitutto. Perché, come si è detto, ci siamo abituati agli “altri intorno a noi”. E abbiamo cominciato, per questo, a percepirli come “altri noi”.

Così, la diffidenza ha cominciato a declinare. Per altro verso, è cambiata la narrazione del fenomeno da parte dei media. Come ha sottolineato l’Osservatorio di Pavia, negli ultimi anni le notizie sull’immigrazione, sui notiziari di prima serata delle principali reti nazionali, continuano ad essere numerose: 1007 notizie nel 2013 e 901 nel 2014. Ma, soprattutto dopo la visita di papa Francesco a Lampedusa, nel 2013, i sopravvissuti al mare diventano “migranti” e non più “clandestini”. E le ordinarie storie di intolleranza, raccontate in precedenza, lasciano il passo a storie di solidarietà, altrettanto ordinarie. Dai luoghi dei naufragi. Lo stesso avverrà, sicuramente, anche questa volta.

Vale la pena di aggiungere, ancora, che l’immigrazione è vissuta come un problema anche altrove. In Europa. L’immigrazione è, infatti, considerata una delle due principali emergenze dal 13% degli italiani (Pragma per l’Osservatorio Europeo sulla Sicurezza in Europa), ma da quasi il 50% in Gran Bretagna e in Germania. D’altronde, da noi l’immigrazione è sempre più di “passaggio”. Verso altri Paesi che offrono prospettive di lavoro migliori. Perché l’immigrazione, non dobbiamo dimenticarlo, può essere fonte di preoccupazione, ma è, comunque, un indice di sviluppo. Quando gli immigrati cominciano ad andarsene, come effettivamente avviene da qualche tempo, è perché il nostro mercato del lavoro non è più in grado di attrarli e di assorbirli.

Tuttavia, ieri come oggi, in Italia come altrove, gli immigrati possono essere una risorsa politica. Soprattutto in tempo di campagna elettorale. Un argomento agitato da imprenditori politici della paura, per tradurre l’insicurezza — e le vittime degli scafisti — in voti. Il Front National, in Francia. Ukip di Farage, in Gran Bretagna. La Lega di Salvini, in Italia. Così diversi eppure così vicini. Nel segno dell’Anti-europeismo e della paura degli altri. Ma invocare blocchi navali e respingimenti, di fronte a tragedie immense, come quella avvenuta ieri nel mare di Sicilia, non è in-umano. È semplicemente ir-reale. Come se fosse possibile — oltre che giusto — fermare la fuga dalla guerra e dal terrore che ci assediano. A pochi chilometri da noi.

Ma l’unico modo per fermare i disperati che, a migliaia, si dirigono verso le nostre coste — e, a migliaia, muoiono nel viaggio. Ostaggi di mercanti di morte. L’unico modo possibile per respingerli, per tenerli lontani da noi: è chiudere gli occhi. Fingere che non esistano. Rinunciare alla compassione verso gli altri.

Non avere pietà di noi stessi.

la Repubblica) e Fiorenza Sarzanini (Corriere della sera), 20 aprile 2015

L’ULTIMA OPZIONE DI PALAZZO CHIGI
DISTRUGGERE I BARCONI IN PORTO
di Goffredo De Marchis

Il presidente del consiglio intende “dichiarare guerra agli scafisti”. Si potrebbe trattare di una vera e propria azione militare e il modello da seguire sarebbe quello utilizzato anni fa in Albania anche se in quel caso ci fu il pieno appoggio del governo di Tirana

«Dobbiamo dichiarare guerra agli scafisti». Non a parole, ma distruggendo i barconi nei porti, combattendo i criminali che spingono i profughi in mare. Matteo Renzi pensa che sia finito il tempo «delle sole operazioni umanitarie». Che Mare Nostrum scontasse «una grande debolezza. Era un’iniziativa soltanto italiana e quando chiamavamo gli altri in aiuto rispondevano: che volete, avete fatto tutto voi». Per una guerra però bisogna agire con la comunità internazionale, con l’Onu, con il via libera dell’America e della Russia, i paesi forti del Consiglio di sicurezza. «Gli schiavisti del XXI secolo non possono essere un problema esclusivamente italiano. Stavolta agiremo con la partecipazione più larga possibile. Nessuno, a cominciare dall’Europa, deve avere più alibi».
Dunque, l’opzione è quella militare. O di polizia internazionale perché i negrieri che fanno base in Libia vanno colpiti come fossero «un’organizzazione mafiosa», spiegano il sottosegretario ai servizi Marco Minniti e il direttore dell’ intelligence Giampiero Massolo durante il vertice a Palazzo Chigi. Si può usare la risoluzione delle Nazioni unite che consente i raid aerei in Siria e in Iraq contro l’Isis. La si estende alla Libia. Così diventa lo strumento per colpire anche gli scafisti. Ma lo scoglio dell’Onu non è semplice da superare. Per questo Renzi si attacca al telefono nel pomeriggio e chiama i leader mondiali. Chiede un consiglio europeo straordinario in modo che l’Unione parli una sola lingua e si faccia sentire specialmente con Barack Obama. È un’opzione che ha bisogno di una copertura militare, tecnica, giuridica. Ma non è tanto lontana nella preparazione logistica, fondamentale per le azioni di guerra, se è vero, come dicono fonti dell’ intelligence , che dell’organizzazione schiavista si sa già molto: nomi, cellulari, basi e covi. Quasi tutti piazzati in particolare intorno al porto di Zwara.

Durante il vertice del governo, con i ministri della Difesa, Roberta Pinotti, degli Esteri Paolo Gentiloni, delle Infrastrutture Graziano Delrio, con la partecipazione dell’Alto rappresentate Federica Mogherini, viene esaminata la dinamica del naufragio. Ma si passa quasi subito a valutare i passaggi per superare lo strumento umanitario e distruggere alla radice il fenomeno. Primo step, spiega Renzi, è la battaglia in Europa. «Non possiamo essere solo noi a offrire soluzioni altrimenti gli altri Paesi se ne lavano le mani», ripete il premier. Secondo step: stabilizzare la Libia. Un’impresa. «Continuiamo a sostenere gli sforzi dell’Onu e del capo della missione Bernardino Leon, ma... ». Il “ma” di Palazzo Chigi riguarda i tempi. «Non può diventare una missione senza fine. Va fissata una scadenza. Sennò attendiamo come Godot un accordo tra le tribù che non arriva mai».

Una Libia non più fuori controllo è la condizione indispensabile per avviare qualsiasi operazione che confidi in qualche successo. I paragoni avanzati da Forza Italia con le capacità di gestire un accordo durante i governi Berlusconi sono fuori luogo, dicono le fonti del governo. Il Cavaliere stringeva intese con Gheddafi, un leader che tiranneggiava su un Paese stabilizzato. Oggi la situazione è completamente diversa. Molto più complicata. «Ma non si può perdere altro tempo». L’affondamento dei barconi della disperazione funzionò in Albania, laddove, dopo una crisi politica che sfiorò la guerra civile, si insediò un governo riconosciuto. Il dialogo tra l’Italia e le autorità albanesi consentì alla Marina di distruggere la flotta criminale di Valona e Durazzo. In Libia non si sa con chi parlare. Eppure Tripoli è la capitale di una nazione sovrana, seppure trasformata in un terreno di violenze. «Il blocco navale perciò è illegittimo. È una dichiarazione di guerra non contro gli scafisti ma contro uno stato — è il ragionamento di Renzi —. Senza contare che si trasformerebbe in un servizio taxi per gli scafisti».

Il quadro complessivo spinge dunque verso un’azione europea e internazionale contro gli scafisti. Un’azione militare senza dubbio. Non mancano alcuni precedenti, ad esempio il tipo di missione anti-pirateria che fu adottata nel Corno d’Africa. Questo è l’indirizzo italiano, l’idea con cui il premier si presenterà al vertice straordinario dei capi di governo europei. E prima che le caselle del mondo vadano tutte al loro posto? L’Italia non lascerà soli i profughi, non rinuncerà alla parte umanitaria del problema. Delrio era alla riunione dei ministri in qualità di coordinatore della Guardia Costiera, che continuerà a salvare vite umane quando è possibile. Ma è una risposta non sufficiente, insiste Renzi nei suoi colloqui telefonici, perché «va affrontata la questione alla radice». E se Obama ha lasciato uno spiraglio sulla vicenda libica nell’incontro di venerdì, ora l’appoggio degli Usa diventa ancora più necessario. Insieme con quello dell’Unione europea. «Stavolta chiederò un’assunzione di responsabilità collettiva. L’Europa non deve far finta di niente», avverte il premier.

UE,PIANO CONTRO IL TRAFFICO DI MIGRANTI

di Alberto d'Argenio
Giovedì il Consiglio europeo straordinario per la sfida alle organizzazioni criminali voluta dalla Mogherini Blitz nel Sahara e scambi di informazioni tra intelligence. Presto la nuova agenda sull’immigrazione
A caldo, dopo la nuova tragedia nel Canale di Sicilia, la Commissione europea parla di «frustrazione ». Perché Bruxelles sull’immigrazione non ha competenze esclusive, gliele devono dare i governi che da anni nicchiano, divisi tra chi vuole fare di più e chi è indifferente. L’Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione, Federica Mogherini, afferma: «Abbiamo detto troppe volte “mai più”, è il momento che l’Europa si occupi senza ritardi di queste tragedie». Dagli uffici del presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, esce questa nota: «La Commissione è profondamente frustrata dagli sviluppi nel Mediterraneo, serve un’azione decisa».

Nelle stesse ore Renzi sente Hollande, Merkel, Cameron e Juncker, riunisce a Palazzo Chigi mezzo governo e incontra la Mogherini. Al termine della giornata chiede un Consiglio europeo straordinario. E da qui parte la storia di quello che questa volta l’Europa vuole fare sfruttando l’onda emotiva della tragedia per coinvolgere tutti i governi nell’immediato, nel medio e nel lungo periodo.

Ieri sera il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, consultava le capitali per verificare se fosse possibile convocare il summit straordinario. Si farà, assicuravano fonti europee bene informate. Molto probabilmente giovedì. Così a Bruxelles è scattato il lavoro frenetico per preparare il summit, specialmente negli uffici della Mogherini. Che oggi presiederà la riunione dei ministri degli Esteri Ue durante la quale lancerà la prima sfida. Il capo della diplomazia europea illustrerà ai ministri il suo rapporto di 46 pagine sulla Libia (come si spiega nel pezzo sotto ndr). La maggior parte delle azioni (terrorismo e immigrazione) richiedono prima un accordo tra tribù nel negoziato dell’inviato Onu Bernardino Leòn. Ma Mogherini spingerà per far approvare subito la parte della strategia slegata all’intesa per un governo di unità nazionale.

Primo, lanciare un controllo della frontiera tra Niger e Libia, là dove passa la rotta più densa di migranti guidati dai trafficanti. Secondo, intensificare lo scambio di informazioni tra le intelligence europee: si punta a bloccare i flussi di denaro dei trafficanti con operazioni congiunte e organizzare blitz mirati nel Sahara per bloccare le rotte e neutralizzare i gruppi criminali che mandano a morire i migranti.

I ministri degli Esteri prepareranno anche il vertice dei leader di giovedì e per questo alla riunione nel Lussemburgo arriverà anche il commissario all’Immigrazione Avramopoulos e forse diversi ministri degli Interni. Con due obiettivi da portare al summit per farli approvare dai capi di governo. Rafforzamento di Triton, la missione Ue nel Mediterraneo che ha sostituito Mare Nostrum: più soldi, più mezzi e un mandato che permetta un raggio d’azione maggiore nel salvataggio dei migranti. Non si parla però di blocco navale, a Bruxelles, come a Roma e in diverse capitali, considerato controproducente. Secondo, rivedere il regolamento di Dublino sull’asilo: oggi chi salva in mare i migranti poi li deve gestire fino al riconoscimento dello status di “asilante”. Si punta a spalmare lo sforzo su tutti i 28 paesi dell’Unione in modo che ognuno accolga temporaneamente i migranti. Infine l’ultima fondamentale partita. A metà maggio la Commissione approverà la nuova Agenda Ue sull’immigrazione. Innanzitutto verrà sensibilmente anticipata. Inoltre le bozze in circolazione sono poco ambiziose perché non c’è consenso tra governi su cosa l’Europa debba fare a lungo termine sull’immigrazione.

Spiega una fonte che lavora sul dossier di competenza di Mogherini, Timmermans e Avramopoulos: «Dobbiamo usare la tragedia per costruire un senso di urgenza politica tra capitali e rafforzare la Commissione», ovvero per permettere a Bruxelles di approvare un testo ambizioso. Che comprenda anche la cooperazione con i paesi di origine e di transito dei migranti (tra cui Sudan, Egitto, Ciad e Niger) per intercettarli prima che spariscano in Libia, salvarli in campi gestiti dall’Unhcr, rimandare a casa (con aiuti economici) chi non ha diritto all’asilo e spalmare in modo permanente su tutti i paesi Ue, e non sui soliti noti, chi invece lo ha. Con un occhio alla Libia, dove, si spera, a breve Leòn sblocchi la situazione e si possa finalmente bloccare le partenze via mare.

Corriere della seraMISSIONEDI TERRA IN LIBIA
PER CONTROLLARE SPIAGGE E PORTIdi Fiorenza Sarzanini
L’idea di un’operazione di polizia internazionale autorizzata da Bruxelles e Onu
ROMA Un’operazione di polizia internazionale per mettere sotto controllo le spiagge e i porti della Libia. Un contingente militare autorizzato dall’Unione Europea — possibilmente anche dalle Nazioni Unite — per fermare l’attività criminale degli scafisti e così cercare di stroncare il traffico di esseri umani. È questa la proposta che l’Italia potrebbe mettere già oggi sul tavolo dei ministri degli Esteri riuniti in Lussemburgo e del Consiglio europeo. È l’opzione più efficace, diventata oggetto di trattativa con gli altri Stati membri, per arrivare a un intervento comune e così tentare di bloccare il flusso delle partenze che rischia di avere dimensioni sempre più grandi, dunque di diventare sempre più rischioso.
I tempi non possono essere brevissimi, ma quanto accaduto ieri mostra la necessità di fare in fretta a trovare una soluzione che consenta di assistere le migliaia di disperati che cercano di salvarsi fuggendo dalla Libia. Non a caso si tornerà ad insistere con le organizzazioni umanitarie e naturalmente con l’Unione Europea, per la creazione urgente di campi profughi in nord Africa in modo da smistare le istanze per il riconoscimento dello status di rifugiato politico.

Guerra agli scafisti

Tutte le opzioni vengono analizzate prima della riunione convocata a Palazzo Chigi dal presidente del Consiglio Matteo Renzi. E quella subito scartata riguarda il possibile blocco navale da attuare a poche decine di miglia dalla Libia. Un dispositivo del genere funziona infatti soltanto se accompagnato dai respingimenti. Vuol dire che ogni imbarcazione viene fermata e scortata fino all’imbocco di uno dei porti di partenza in Libia. Ma questo comporta pericoli altissimi e soprattutto non servirebbe affatto a fermare i trafficanti, disposti a tutto pur di lucrare sulla disperazione di chi paga centinaia di dinari pur di salire a bordo di un’imbarcazione. Impossibile anche il ripristino di una missione umanitaria sul modello di «Mare Nostrum» proprio perché agevolerebbe l’attività criminale di chi sa che alle persone imbarcate anche su mezzi di fortuna basterà lanciare un sos poco dopo la partenza per essere soccorse e salvate. «Se questa fosse la volontà — spiegano gli esperti — sarebbe più efficace creare un corridoio umanitario e portare i profughi direttamente sulle nostre coste ».
L’unica strada ritenuta percorribile in questo momento è quella di un intervento che miri a stroncare le organizzazioni criminali. La situazione attuale non consente di avviare alcuna trattativa con le autorità libiche, anche perché ci sono due governi che rivendicano la propria titolarità e soprattutto bisogna tenere conto dei miliziani che tentano di impedire qualsiasi negoziato.
Qualcosa potrebbe cambiare se davvero, come sostiene da un paio di giorni il mediatore dell’Onu Bernardino León si riuscirà, «entro breve a creare un governo di unità nazionale». Ed è proprio questa la «cornice» entro la quale ci si vuole muovere.

L’intervento

Già nel febbraio scorso, di fronte all’avanzata dei terroristi dell’Isis, il ministro della Difesa Roberta Pinotti aveva dichiarato come l’Italia fosse pronta «a fare la propria parte guidando una coalizione internazionale per un intervento militare». A questo adesso si pensa, avendo come obiettivo quelli che Renzi ha definito «gli schiavisti del XXI secolo», evidenziando poi come il controllo del mare non possa essere la soluzione per impedire i naufragi e quindi la morte di migliaia di persone.
L’ipotesi esplorata in queste ore prevede un intervento nella parte settentrionale della Libia, coinvolgendo, se possibile, anche gli altri Stati africani. Il via libera dell’Unione Europea, ancora meglio dell’Onu, si rende necessario perché altrimenti si tratterebbe di un vero e proprio atto di guerra, impensabile anche nei confronti di uno Stato che attualmente ha una situazione totalmente fuori controllo. Una missione di terra alla quale l’Italia parteciperebbe con l’Esercito, con la Marina Militare e con l’Aeronautica seguendo uno schema che ricalca in parte quello applicato in Libano nel 2006. Le condizioni in quel caso erano completamente diverse sia per quanto riguarda la realtà territoriale, sia per la presenza di interlocutori validi con i quali avviare un confronto diplomatico. Ma gli aspetti tecnici sarebbero comunque molti simili.

I campi profughi

L’opzione militare prevede comunque l’avvio di un intervento umanitario per garantire alle migliaia di persone in fuga di avere assistenza in Africa e accoglienza in Europa. Per questo si è deciso di accelerare quel progetto seguito dal ministero dell’Interno che prevede la creazione di almeno tre campi profughi. Veri e propri punti di raccolta in Niger, Tunisia e Sudan dove esaminare le istanze di asilo in modo da poter avviare la procedura con i Paesi indicati dai richiedenti.
L’organizzazione dovrebbe essere affidata all’Alto commissariato per i rifugiati e all’Oim, l’Organizzazione di assistenza ai migranti che proprio in Africa - ma anche in Libia - vanta un’esperienza decennale e ha già seguito numerosi progetti, compreso il rimpatrio assistito. In questo caso ogni Paese metterebbe a disposizione personale che possa lavorare in collaborazione con le autorità locali. Tutto in una corsa contro il tempo per salvare migliaia di persone.

Il manifesto, 19 aprile 2015

Sono 734 piazze in tutto il mondo, 41 solo in Ita­lia. Una mobi­li­ta­zione che ricorda il dicem­bre 1999, quando il movi­mento glo­bale si oppose all’allora mini­ste­riale della Wto a Seat­tle, e che oggi si mobi­lita per il Trat­tato tran­sa­tlan­tico di libe­ra­liz­za­zione com­mer­ciale Usa– Ue (Ttip) e il suo obiet­tivo di dere­go­la­men­tare stan­dard, nor­ma­tive e tutte quelle leggi di tutela ambien­tale e sociale con­si­de­rati «bar­riere tec­ni­che al commercio».

In decine di flash­mob, sciami di fan­ta­smi hanno vagato per le piazze ita­liane, come in piazza del Pan­theon a Roma dove gli spet­tri del Ttip si sono fatti inse­guire in mezzo a turi­sti incu­rio­siti, così come in piazza del Duomo a Milano o in via Lagrange a Torino, giu­sto per citare alcune mobi­li­ta­zioni ita­liane «Stop Ttip», a dimo­strare che il trat­tato fan­ta­sma sta gua­da­gnando visi­bi­lità nono­stante la ritro­sia della Com­mis­sione europea.

D’altro canto uno dei prin­ci­pali obiet­tivi della cam­pa­gna inter­na­zio­nale, di cui quella ita­liana è parte attiva, è pro­prio quello di spie­gare ai cit­ta­dini un nego­ziato non cono­sciuto ai più, seb­bene il nostro Governo sia stato Pre­si­dente di turno dell’Unione euro­pea. Aldilà della dema­go­gia sulla pre­sunta tra­spa­renza (uno dei nego­ziati più tra­spa­renti mai avuti, mil­lanta la Com­mis­sa­ria al Com­mer­cio Ue Malm­strom dal suo blog pro­prio il giorno della grande mobi­li­ta­zione) quanto si cono­sce del trat­tato, lo si deve all’azione dei movi­menti sociali che pochi giorni dal nuovo Round nego­ziale che ini­zierà il 20 aprile negli Stati uniti, sono riu­sciti a ren­dere pub­bli­che le richie­ste della Com­mis­sione euro­pea all’Amministrazione sta­tu­ni­tense: accesso al mer­cato degli appalti pub­blici negli Stati uniti in cam­bio di mag­giore fles­si­bi­lità in agri­col­tura. Ecco uno dei patti scel­le­rati che potreb­bero lastri­care la strada verso la firma, un grande mer­cato delle pulci dove tanto si ottiene quanto più si dà e dove ci si impe­gna a difen­dere un set­tore nel momento in cui que­sto risponde a inte­ressi consolidati.

Per que­sto quasi un milione e set­te­cen­to­mila cit­ta­dini euro­pei hanno scelto di fir­mare una peti­zione inter­na­zio­nale che chiede il blocco imme­diato dei nego­ziati, una rac­colta firme che nella gior­nata di mobi­li­ta­zione ha visto una netta impen­nata nelle ade­sioni verso quota due milioni, con­si­de­rata dalle reti inter­na­zio­nali l’obiettivo poli­tico da raggiungere.

Le cen­ti­naia di migliaia di per­sone scese in piazza nelle sei­cento piazze euro­pee e nel cen­ti­naio di mobi­li­ta­zioni sta­tu­ni­tensi, lot­tano per ridare senso al ter­mine «democrazia».

Chie­dere mag­giore par­te­ci­pa­zione non signi­fica, come spesso banal­mente sem­pli­fi­cato dai soste­ni­tori del Ttip, «nego­ziare in 800 milioni di cit­ta­dini», ma vuol dire essere con­si­de­rati parte in causa e coin­volti diret­ta­mente, anche tra­mite i Par­la­menti, ad oggi con un ruolo defi­lato. Ridando potere i cit­ta­dini ed evi­tando, ad esem­pio, che i Par­la­men­tari euro­pei abbiano le armi spu­tate nel dare pareri non vin­co­lanti, rati­fi­cando solo alla fine un trat­tato con la for­mula «pren­dere o lasciare» senza pos­si­bi­lità di emen­da­mento. O evi­tando le limi­ta­zioni all’accesso ai docu­menti nego­ziali impo­ste per­sino ai par­la­men­tari euro­pei, come l’europarlamentare di Pode­mos Ernest Urta­sun ha recen­te­mente denun­ciato ai media spagnoli.

I docu­menti resi pub­blici dall’Unione euro­pea gra­zie alle pres­sioni dell’opinione pub­blica e dell’Ombudsman euro­peo, sono solo testi legali di posi­zio­na­mento e non chia­ri­scono l’effettivo livello di com­pro­messo e lo stato dell’arte del nego­ziato. E forse è per­sino logico che sia così, con­si­de­rato che gli inte­ressi che si stanno tute­lando, non sono certo quelli della mag­gio­ranza dei cit­ta­dini euro­pei e statunitensi.

Die­tro alla dema­go­gia della difesa delle Indi­ca­zioni geo­gra­fi­che per Paesi come l’Italia, per esem­pio, o dell’aumento dell’export che por­te­rebbe bene­fici dif­fusi, c’è una poli­tica che parla di con­ces­sioni a pochi pri­vi­le­giati, di una posi­zione di difesa delle tipi­cità che but­te­rebbe fuori mer­cato la mag­gior parte delle nostre pic­cole pro­du­zioni di qua­lità a tutto van­tag­gio di pochi grandi espor­ta­tori, di un abbat­ti­mento degli stan­dard di qua­lità su agri­col­tura e chi­mica che ha fatto per­sino pre­oc­cu­pare la Com­mis­sione Ambiente del Par­la­mento Euro­peo in una sua recente risoluzione.

A tutto que­sto si aggiunge una poli­tica di tutela degli inve­sti­menti che svuo­te­rebbe defi­ni­ti­va­mente il potere di con­trollo dei mer­cati da parte dei Governi, con­ce­dendo alle imprese il potere di denun­ciare i Governi a causa di legi­sla­zioni non gra­dite. Nono­stante tutto que­sto, nono­stante le pro­messe di Renzi a Obama, que­sto 18 Aprile c’è un mondo che ha detto «Stop Ttip». Una posi­zione che, d’ora in avanti, sarà impos­si­bile ignorare.

*Pre­si­dente Fair­watch / Cam­pa­gna Stop Ttip Italia

La Repubblica, 19 aprile 2015

L’AMERICA deve ancora conseguire una piena ripresa dagli effetti della crisi del 2008. Tuttavia, abbiamo recuperato buona parte del terreno perduto, anche se non tutto. Altrettanto non si può affermare, invece, della zona euro, nella quale il Pil reale pro capite è ancora oggi inferiore a quello del 2007, ed è inferiore del 10 per cento rispetto a dove si supponeva dovesse trovarsi. Una prestazione peggiore di quella che l’Europa ebbe negli anni Trenta. Perché l’Europa si è comportata così? Ho ascoltato discorsi e letto articoli nei quali si ipotizza che il problema stia nell’inadeguatezza dei nostri modelli economici — nel fatto che dovremmo riformulare la teoria macroeconomica che durante la crisi non è riuscita a offrire una guida politica. Ma è proprio così? No. È vero: pochi economisti avevano annunciato la crisi. Tuttavia, il piccolo segreto dell’economia è che da allora i modelli di base spiegati nei libri di testo hanno funzionato bene. Il guaio è che i dirigenti politici europei hanno deciso di respingere quei modelli di base a favore di approcci alternativi più innovativi, più entusiasmanti e del tutto errati.

Sto rianalizzando i dibattiti di politica economica e ciò che mi colpisce in modo evidente dal 2010 in poi è la divergenza di pensiero tra Stati Uniti ed Europa. In America, la Casa Bianca e la Federal Reserve sono rimaste fedeli all’economia keynesiana tradizionale. L’Amministrazione Obama ha sprecato tempo e fatica per perseguire una “grande intesa” sul bilancio, pur continuando però a credere nella tesi sostenuta nei libri di testo, ossia che in un’economia depressa la spesa in deficit di fatto è una cosa positiva. La Fed ha ignorato gli ammonimenti secondo i quali stava “svalutando il dollaro”, ed è rimasta aderente all’opinione secondo la quale le politiche di basso tasso di interesse non avrebbero provocato inflazione, almeno fino a quando la disoccupazione fosse rimasta alta.

In Europa, al contrario, la leadership politica si è dimostrata disposta, quasi con impazienza, a gettare i libri di economia dalla finestra per prediligere nuovi criteri. La Commissione Europea, a Bruxelles, ha accolto con entusiasmo le presunte prove sull’utilità della “austerità espansiva”, respingendo le argomentazioni tradizionali a favore della spesa pubblica in deficit, e ha preferito sposare la tesi secondo cui tagliare le spese in un’economica depressa porterebbe alla creazione di posti di lavoro perché alimenterebbe la fiducia. La Bce ha preso a cuore i moniti sul rischio di inflazione e nel 2011 ha alzato i tassi di interesse, anche se la disoccupazione era alta. Ma mentre i politici europei possono aver immaginato di dare prova di apertura nei confronti di nuove idee economiche, gli economisti ai quali hanno dato retta dicevano loro proprio ciò che volevano sentirsi dire. Cercavano giustificazioni per le rigide politiche che erano decisi a imporre alle nazioni debitrici; e così hanno trattato come celebrità economisti quali Alberto Alesina, Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff che parevano offrire proprio quella giustificazione. Invece, come si è scoperto, quella ricerca nuova ed entusiasmante presentava grosse pecche.

E così, mentre le nuove idee si sono rivelate un fallimento, la teoria economica dei vecchi tempi si è dimostrata più forte. Furono derise le previsioni di economisti keynesiani, me incluso, secondo i quali i tassi di interesse sarebbero rimasti bassi nonostante i deficit di bilancio, l’inflazione sarebbe stata frenata nonostante gli acquisti di bond da parte della Fed e i tagli alla spesa pubblica — lungi dall’innescare espansione alimentata da fiducia — avrebbero provocato un’ulteriore crollo della spesa dei privati. Queste previsioni, al contrario, si sono avverate. È un errore sostenere, come fanno molti, che quella politica è fallita perché la teoria economica non ha fornito le linee guida di cui avevano bisogno i policy maker . In realtà, la teoria ha costituito una guida eccellente, se solo i policy maker fossero stati disposti ad ascoltare. Purtroppo, non l’hanno fatto. E continuano a non farlo. Se volete deprimervi sul futuro dell’Europa, leggete l’intervento di Wolfgang Schäuble, ministro delle Finanze tedesco, mercoledì sul New York Times. Troverete un ripudio di ciò che sappiamo di macroeconomia, delle intuizioni che l’esperienza europea degli ultimi cinque anni avvalora. Nel mondo di Schäuble l’austerità conduce alla fiducia, la fiducia genera crescita e, nel caso in cui per il vostro Paese ciò non funzionasse, significa solo che lo state facendo nel modo sbagliato. Torniamo alle nuove idee e al loro ruolo in politica: è difficile argomentare a sfavore delle nuove idee. Negli ultimi anni, tuttavia, lungi dal fornire una soluzione, le idee economiche innovative spesso sono state parte del problema. Se avessimo continuato ad aderire alla macroeconomia dei vecchi tempi staremmo di gran lunga meglio.

Traduzione di Anna Bissanti

© 2-015, The New York Times

Altra Europa. Assemblea a Roma, obiettivo la casa comune ma oggi la priorità è 'mobilitazione totale'. La grande scommessa le elezioni regionali: Liguria, Emilia-Romagna, Veneto, Calabria, Umbria.

Il manifesto, 19 aprile 2015

Prima gior­nata di lavoro, e prima effet­tiva assem­blea deci­sio­nale ieri a Roma per L’Altra Europa con Tsi­pras nella Sala Roma Eventi (in via Ali­bert 5), soprat­tutto primo evento nazio­nale dalla nascita della ’Coa­li­zione sociale’ lan­ciata da Mau­ri­zio Lan­dini, il ’fatto nuovo’ con cui fare i conti. Da vicino: fra i rela­tori della mat­ti­nata di ieri c’è infatti anche Michele De Palma, brac­cio destro di Lan­dini e qui a nome della neo­nata Coa­li­zione. Ma nel menù del dibat­tito c’è molto: dai 100 anni di Pie­tro Ingrao rac­con­tati da Maria Luisa Boc­cia, ad Arnaldo Cestaro, l’uomo tor­tu­rato alla Diaz, nei giorni di Genova 2001, gra­zie al cui ricorso la Corte euro­pea ha con­dan­nato l’Italia fino alle ele­zioni spa­gnole e, nean­che a dirlo, alla situa­zione greca.

350 i pre­senti, sta­volta nel ruolo di dele­gati da 72 assem­blee in giro per i nodi ter­ri­to­riali di tutta Ita­lia. Non per «par­ti­tiz­zarsi», spie­gano gli orga­niz­za­tori, ma per avere un assem­blea che possa legit­ti­ma­mente deci­dere e lan­ciare una pro­po­sta «per un pro­cesso costi­tuente unico alter­na­tivo alle poli­ti­che di auste­rità». Tema deli­cato, come sem­pre, al cen­tro della rela­zione del socio­logo Marco Revelli che ha illu­strato il cam­bio di fase, e di mar­cia, della (ex) lista elet­to­rale dalle euro­pee di un anno fa.

«Siamo qui per com­piere un passo diverso da quello di allora. Per molti aspetti più dif­fi­cile. E comun­que più impe­gna­tivo», ha spie­gato, «allora si trat­tava di met­tere in com­pe­ti­zione una lista elet­to­rale, sulla base di un appello volto a evi­tare il para­dosso, mor­tale, che in Europa non fosse pre­sente nes­sun vero rap­pre­sen­tante della sini­stra ita­liana. Oggi, qui, com­piamo un atto molto più dif­fi­cile, e impe­gna­tivo». Non è ancora la costru­zione della “casa comune” «che rimane il nostro obiet­tivo di medio ter­mine rispetto a cui ci siamo fino ad oggi “messi al ser­vi­zio” e al cui pro­cesso di costru­zione con­di­viso da una rete di sog­getti molto più ampia ci met­te­remo a mag­gior ragione al ser­vi­zio da oggi in poi».
Per ora però l’obiettivo è «met­tere in campo una forza» e cioè «una mobi­li­ta­zione totale di ener­gie sociali e intel­let­tuali. Met­tere in discus­sione quel dogma pre­sup­pone un’accumulazione di forza incom­pa­ra­bile con quella con cui si sono finora misu­rate le nostre sini­stre di oppo­si­zione. Non più una testi­mo­nianza, l’affermazione di un’identità par­ziale e oppo­si­tiva, ma la costru­zione di un rap­porto di forza capace di pro­durre uno spo­sta­mento al livello del governo delle nostre società».
Cru­ciale, e non potrebbe essere diverso, il test delle regio­nali e fra gli altri l’esperimento ligure, dove lo smot­ta­mento del Pd ha pro­dotto una lista di sini­stra ampia sotto un’unica inse­gna. Pre­senti le forze della sini­stra orga­niz­zata e le tante asso­cia­zioni che via via si sono avvi­ci­nate all’Altra europa. Oggi ancora inter­venti fino alle 12, poi voto dell’ordine del giorno finale e degli organismi
desinit in piscem. «Renzi ha dato truppe in Afghanistan e un freno a Draghi sul cambio euro-dollaro Da Obama ha avuto ornamenti di cartone». La Repubblica, 19 aprile 2015

DEBBO dire che in certe cose, in certe situazioni e in certi incontri Matteo Renzi è di fantastica bravura. Anche i suoi avversari politici dovrebbero riconoscerlo e credo che lo sappiano ed auguro loro che ne tengano conto. L’ha dimostrato quando incontrò per la prima volta Angela Merkel e poi Putin; infine l’altro ieri quando ha passato l’intera mattinata e poi il pranzo e ancora il primo pomeriggio con Barack Obama alla Casa Bianca. Gli ha perfino portato in regalo una cassa di vino d’annata. Toscano naturalmente. Immagino fosse un Brunello di Montalcino.
Angela Merkel, Putin, Obama. Su di loro ha fatto colpo e l’hanno trattato come un grande statista e l’Italia da lui guidata come un grande Paese. Che cosa ha ottenuto in cambio? Quasi nulla o nulla del tutto, ma ha avuto in cambio qualche cosa che a lui più di tutto importava: un riconoscimento da rivendicare in patria. E vi pare poco?
Del resto Silvio Berlusconi ai suoi tempi fece altrettanto. Anche lui all’inizio sedusse la Merkel e fece con lei perfino un passo di danza. Di Putin diventò addirittura socio oltreché amico intimissimo. Fecero affari insieme sul gas russo, fecero insieme il bunga bunga in una dacia assai accogliente, passarono insieme i rispettivi compleanni e quando, dopo la sentenza della Cassazione, volle essere autorevolmente confortato, Silvio volò a Mosca dove il confortatore lo accolse al Cremlino. Ma parliamo anche della sua amicizia per George W. Bush: fece entrare l’Italia in guerra contro l’Iraq insieme a lui, andò più volte a trovarlo a Washington e nel luglio del 2003 a Crawford in Texas nella residenza di campagna del presidente.
CHE cosa ottenne l’Italia da questo vasto ventaglio di amicizie di Silvio? Assolutamente nulla, ma lui se ne infiocchettò l’abito da premier sontuosamente. Purtroppo (per lui) dopo le sue sfortunate vicende giudiziarie la Merkel lo scaricò del tutto e gli altri governanti europei fecero altrettanto, al punto che evitarono di farsi fotografare in sua compagnia nelle riunioni internazionali. Avevano capito prima di noi italiani che la sua strada era finita.
Da questo punto di vista Matteo è molto più bravo di lui e col bunga bunga non ha nulla da spartire. Non possiede aziende private, non ha conflitti di interesse. Silvio sperava che fosse il suo erede al potere ma ha fatto un errore: non ha accettato la candidatura di Mattarella. Comunque Renzi non lo abbandonerà, farà in modo che abbia onorata sepoltura (politica ovviamente) e prenderà da lui parecchi voti di ex forzisti in cerca d’autore.
E questo è quanto. Ma ora vediamo che cosa veramente è accaduto a Washington a parte i complimenti reciproci, le pacche sulle spalle e il Brunello di Montalcino.
*** Obama l’ha complimentato per le riforme che Renzi ha compiuto. Non ha detto quali. Si è complimentato anche per la sua battaglia per la crescita economica in Europa, che però non è affatto venuta. In aggiunta a questi complimenti Obama si è però lamentato perché l’euro è troppo debole e rende difficili le esportazioni americane su tutta l’area europea. Renzi ha incassato il rimprovero rispondendo che vedrà quel che potrà fare. In che senso? Veramente il nostro premier non vorrebbe consolidare la rivalutazione del dollaro di fronte alla moneta europea? L’autore di quel mutamento del cambio è Mario Draghi che sta lavorando per il bene dell’Europa e quindi dell’Italia.
Poi il discorso è passato alla Russia. Poche settimane fa Renzi aveva promesso a Putin un intervento per far togliere le sanzioni economiche contro la Russia. Obama ha invece detto a Renzi che sarebbe un errore gravissimo togliere quelle sanzioni che semmai dovrebbero essere aumentate. Piglia e porta a casa.
A pranzo il discorso si è spostato sulla Libia. Obama tra un bicchiere di Brunello e l’altro ha detto che in Libia gli Usa non intendono intervenire e tantomeno fornire armi ed aerei al governo libico (che di fatto non esiste). Ha detto che bisogna pacificare le tribù e che questo compito spetta senz’altro all’Italia. Quindi l’ha incoronato negoziatore principale della pace in Libia. Naturalmente incoronare qualcuno senza avere la corona da calcargli sulla testa non costa nulla ed è quello che ha fatto Obama. La corona in questo caso ce l’ha l’Onu e sembra difficile che l’Onu la metta in testa ad un italiano che per di più rappresenta un Paese che ebbe la Libia come colonia dal 1911 al 1942, dopo la sconfitta di El Alamein.
Obama lo ha simbolicamente incoronato come leader dell’Europa (altra corona che Obama non possiede), ma a scanso di equivoci ha ricordato che gli Usa hanno un rapporto con la Germania che non può e non deve essere indebolito.
Infine Obama ha preso atto con piacere che le truppe italiane dislocate in Afghanistan resteranno in quel Paese ancora un paio di anni mentre quelle americane stanno già rientrando in patria.
Insomma: chi ha dato ha dato e chi ha avuto ha avuto. Renzi ha dato truppe in Afghanistan e possibilmente un freno a Draghi sul cambio euro-dollaro. Ha dato anche il suo appoggio al trattato commerciale Usa-Ue attualmente in discussione. In contropartita ha avuto due corone di cartone. Su quelle due Renzi torna a Roma felice e contento. Giornali e televisioni hanno già cominciato a suonare a festa e continueranno. Mi viene in mente la canzone “Madonne fiorentine” quando dice che «Madonna Bice non nega baci/ baciar le piace, che male fa?». Infatti, che male fa mettersi in testa due corone di cartone e far credere che sono d’oro massiccio e ingioiellato. *** Tornato in Italia Matteo (che Giuliano Ferrara non a caso chiama “Royal baby”) comincerà col respingere e far respingere all’unanimità dalla direzione del Pd le dimissioni di Speranza da capogruppo dei deputati del partito. Speranza accetterà quel voto o insisterà nelle dimissioni? Per ora l’interessato ha detto che insisterà ma ha anche spiegato il perché: vuole trattare un compromesso accettabile per tutte e due le parti in causa. E qual è il compromesso? Un cambiamento della riforma del Senato in seconda lettura in Parlamento: elezione diretta dei senatori e voto compatto dei dissidenti sulla legge elettorale.
È possibile questo do ut des? Sembrerebbe di no. Secondo la legge vigente le materie già approvate dalle Camere nella prima lettura della legge costituzionale non possono essere più emendate in seconda lettura. Le cose stanno esattamente così, salvo che c’è un impensabile calembour cui appigliarsi: nella prima lettura una Camera ha votato che «i senatori saranno votati nei Consigli regionali» e l’altra Camera ha votato che «i senatori saranno votati dai Consigli regionali». Il significato è identico ma la forma è diversa.
È un appiglio valido che consente un mutamento sostanziale? La risposta sulla base dei regolamenti parlamentari spetta al presidente del Senato. Grasso non è persona che gioca alle quattro carte; in materia di legge e di procedure ha speso tutta la sua vita e perciò la sua risposta, ove fosse necessaria, sarà motivata in modo sicuramente accettabile, quale che sia.
Ma se fosse negativa? Allora mancherebbe la contropartita al voto unanime sulla legge elettorale. E allora Renzi che farà? Metterà la fiducia su quella legge? È avvenuto una sola volta, la mise De Gasperi sulla cosiddetta legge truffa del 1953. Ma in quel caso la sostanza era completamente diversa: il premio scattava soltanto nel caso che ci fosse in Parlamento una maggioranza assoluta del 50 per cento più uno. Solo allora scattava il premio per accrescere la governabilità. Comunque quella legge fu battuta nonostante la fiducia. Figurarsi qui e ora.
Perciò il problema resta apertissimo su come si comporteranno i dissidenti del Pd. Per loro il tema è se osservare la disciplina di partito o non accettarla se sono convinti che quella legge è un passo assai pericoloso verso un governo autoritario. Sta a loro rispondere e decidere come comportarsi. *** Una parola sulle decisioni di Marchionne di associare i lavoratori della Fiat agli utili dell’azienda; qualora quegli utili ci siano spetterà a lui di stabilire l’entità del premio e la sua ripartizione tra i dipendenti.
Tutti i sindacati hanno plaudito salvo la Fiom-Cgil che parla di esproprio dei poteri sindacali. Sembra un’opposizione più corporativa che sindacale. In parte lo è, ma in parte no. Infatti in quasi tutte le aziende esiste un “premio di rendimento” che le imprese discutono con le rappresentanze sindacali, le quali trattano sull’entità del premio (sempre che un profitto ci sia stato), sulla sua ripartizione ed anche su problemi connessi alle condizioni di lavoro nel comune interesse dell’impresa e dei lavoratori.
Dunque non è l’imprenditore che decide da solo, ma l’interlocutore sindacale è allo stesso tavolo e si arriva ad una decisione comune.
A me sembra che questo metodo sia buono e che comunque il profitto sia di comune utilità; senza di esso la discussione si dovrebbe spostare sui sacrifici da compiere, sia dall’una che dall’altra parte e questo è il massimo di un capitalismo democratico e di un sindacalismo riformista.
Post scriptum. La settimana che si apre domani si concluderà sabato prossimo con la ricorrenza del 25 aprile, festa della Resistenza contro il nazifascismo.
Questa festa fa parte della storia d’Italia, dal Risorgimento in poi. Quel movimento ebbe molte ombre e contemporaneamente molte luci. Le figure più rappresentative, molto diverse tra loro ma tutte votate alla fondazione dello Stato unitario e democratico, furono soprattutto tre: Mazzini, Cavour, Garibaldi.
La Resistenza fu una pagina di grande riscatto e anch’essa ebbe molte figure e apporti ideali e politici assai diversi: liberali, comunisti, monarchici, liberal-socialisti, socialisti. Ma il fine era comune e fu sancito dalla Costituzione che tuttora ci detta le regole di comuni principi di democrazia, libertà ed eguaglianza politica e sociale.

Per ciò concluderò con le parole con le quali il presidente Mattarella ha concluso due mesi fa il suo discorso di insediamento al Quirinale: «Viva la Repubblica, viva l’Italia».

Il manifesto, 18 aprile 2015

Nuovo giro di vite della Troika sulla Gre­cia. Si torna a par­lare di Gre­xit. Non è la prima volta in que­ste set­ti­mane, ma ora il tempo stringe. La liqui­dità scar­seg­gia e il paese elle­nico deve resti­tuire tra mag­gio e giu­gno al Fmi 2,5 miliardi di euro. A giu­gno e luglio sca­dono altri due bond verso la Bce per un importo ancora supe­riore di 6 miliardi. Se non doves­sero venire rim­bor­sati ces­se­rebbe anche la linea di cre­dito di emer­genza (Ela) da 73 miliardi messa a dispo­si­zione a caro prezzo dalla Bce per soste­nere le ban­che gre­che. E’ da dubi­tare che l’Eurogruppo di Riga del 24 aprile si mostri più com­pren­sivo. Situa­zione dispe­rata dun­que? Non è detto. La par­tita è ancora complessa.

La linea di Varou­fa­kis è chiara: «Faremo com­pro­messi con la Ue ma non fini­remo com­pro­messi». Ale­xis Tsi­pras dichiara alla Reu­ters che il governo lavora per una solu­zione che «rispetti il recente man­dato popo­lare come il qua­dro ope­ra­tivo dell’Eurozona», pre­ci­sando però che restano quat­tro punti di disac­cordo – non tec­nici, ma poli­tici – in mate­ria di rap­porti di lavoro (del resto il mer­cato del lavoro greco è già del tutto dere­go­la­men­tato), di sicu­rezza sociale, di aumento dell’Iva, di pri­va­tiz­za­zioni. Ovvero il cuore del pro­gramma sociale di Syriza.

Ma la Gre­cia ha biso­gno di tempo e che si allenti la morsa del debito. Varou­fa­kis ha chie­sto al Fmi una tol­le­ranza mag­giore del solito mese di gra­zia. Chri­stine Lagarde ha rispo­sto che la dila­zione dei paga­menti non è mai stata fatta per un paese “avan­zato”, che è roba da Terzo Mondo. Si potrebbe obiet­tare che c’è sem­pre una prima volta per tutto e que­sto potrebbe essere un ottimo caso, nel quale la Ue e il Fmi potreb­bero dimo­strare quella sag­gezza e pre­veg­genza di cui finora hanno dato prova di com­pleta assenza.

La Gre­cia non uscirà mai dai «sette anni del nostro scon­tento» – il rife­ri­mento sha­ke­spea­riano- steim­bec­kiano è farina del sacco di Varou­fa­kis – senza una ristrut­tu­ra­zione del pro­prio debito, la cui inci­denza peral­tro in rela­zione al debito com­ples­sivo dell’Eurozona è minima. Ma come sap­piamo il pro­blema è politico.

Se la Gre­cia se la cava, altri pos­sono per­cor­rere strade alter­na­tive all’austerità e l’influenza sul qua­dro poli­tico dei paesi in mag­giore dif­fi­coltà, che finora hanno ese­guito pedis­se­qua­mente i dik­tat della Troika tro­van­dosi peg­gio di prima, potrebbe essere letale per le destre che attual­mente li gover­nano. Il rife­ri­mento alla Spa­gna è d’obbligo.

Tut­ta­via, vale anche il ragio­na­mento con­tra­rio. Se la Gre­cia finisse in default, se - mal­grado le ultime dichia­ra­zioni più pru­denti della Mer­kel sulla per­ma­nenza greca nella Ue - ciò com­por­tasse una fuo­riu­scita dall’euro e quindi dalla Ue, non è affatto detto che per la finanza sarebbe pura godu­ria. Spe­rare infatti - scrive un edi­to­ria­li­sta del Sole24Ore - che il Gre­xit non abbia alcun impatto sui mer­cati finan­ziari e sull’economia degli paesi della Ue è come pre­ten­dere che una bomba esplo­dendo non fac­cia danni.

Per quanto la Bce abbia inon­dato di liqui­dità i mer­cati finan­ziari euro­pei, con esclu­sione come sap­piamo della Gre­cia e di Cipro, que­sti restano sen­si­bili a ogni minimo movi­mento. La situa­zione in Europa è migliore del 2011–2012, ma il peri­colo di un con­ta­gio finan­zia­rio del Gre­xit è tutt’altro che scongiurato.

E’ vero che le ban­che hanno ormai un’esposizione minima con la Gre­cia: da 200 miliardi di dol­lari del 2008 agli attuali 18,6. Ma que­sto non eli­mina il peri­colo del ritiro dei depo­siti dagli isti­tuti finan­ziari dei paesi della catena debole dell’euro, fra cui anche l’Italia, come rivela Gold­man Sachs. Se la Gre­cia se ne va, crolla il mito della irre­vo­ca­bi­lità dell’ingresso nell’Euro e altri paesi potreb­bero seguire la stessa strada. Quindi sarebbe meglio per chi ha depo­siti con­si­stenti in que­sti paesi por­tarli pre­ven­ti­va­mente altrove.

Le con­se­guenze di un Gre­xit sareb­bero ancora più gravi sugli Stati. Com­ples­si­va­mente l’esposizione di que­sti ultimi sul fronte greco è cre­sciuta, sia in modo diretto che indi­retto, attra­verso il cosid­detto fondo salva stati, giun­gendo a 194,7 miliardi di euro. Se da noi Renzi mena vanto per avere tro­vato un “teso­retto” di 1,6 miliardi, si può bene capire quale impatto nega­tivo avrebbe sulla nostra eco­no­mia e sull’opinione pub­blica dovere dire pro­ba­bil­mente addio ai quasi 41 miliardi di euro pre­stati dall’Italia alla Grecia.

Quindi, mar­gini per gio­care la par­tita il governo greco ne ha ancora. Com­presi quelli di aprire migliori rap­porti con Cina, Rus­sia e la Chiesa Orto­dossa. Ma non c’è da fidarsi, per­ché non sem­pre i poteri eco­no­mici si com­por­tano secondo logica e una dina­mica poli­tica puni­tiva potrebbe pre­va­lere. La carta migliore che Tsi­pras ha in mano resta l’appoggio del popolo greco che, nono­stante i boa­tos arta­ta­mente ingi­gan­titi su una cre­scente oppo­si­zione da sini­stra, con­ti­nua a con­so­li­darsi. Se a que­sto si aggiunge – come potrebbe in occa­sione del pros­simo Primo Mag­gio - la soli­da­rietà dei popoli euro­pei, si può capire che i nervi distesi di Tsi­pras e Varou­fa­kis non sono propaganda.

La Repubblica, 20 aprile 2014

Salviamo i diritti democratici, salviamo i diritti dei cittadini e consumatori ad ambiente e salute: l’accordo commerciale Ue-Nordamerica così non va. Ecco lo slogan della mobilitazione, alternativa ma non ideologica, che oggi investirà l’Europa intera e tutto il “pianeta blu”: manifestazioni d’ogni sorta, cortei, spettacoli, infostand per dialogare con la gente, in almeno 704 città sparse in tutto il mondo. Per dire che il Ttip e il Ceta, gli accordi di libero scambio dell’Unione europea con Stati Uniti e Canada, non sono né democratici né conformi a principi e standard europei di sicurezza e giustizia, e quindi vanno rifiutati.

“Stop Ttip!” si chiama il nuovo movimento globale, che collega senza centralismi quattrocento organizzazioni. Una catena umana nel cuore di Berlino, da Potsdamer Platz a Unter den Linden dove ha sede la rappresentanza Ue, e spettacoli in piazza a Parigi a Place Stalingrad e a Place de la République, con i potenti delle multinazionali e della politica impersonati da vampiri, saranno il clou della giornata di mobilitazione.

«È un giorno importante, ma l’iniziativa continua, come va avanti da anni», spiega Cornelia Reetz, action manager di Stop Ttip Germania, la sede che di fatto è il “comando operativo” del movimento globale cresciuto soprattutto online, al civico numero 4 di Greifswalderstrasse qui a Berlino. «Intanto prosegue anche la raccolta di firme contro il Ttip e il Ceta, che attorno al 10 ottobre presenteremo alla Commissione europea, a tutte le istituzioni Ue, ai governi nazionali i cui parlamenti dovranno ratificare gli accordi», spiega la Reetz. Il movimento cresce, in vista dell’happening in strada domani in tutto il mondo e anche con la raccolta di firme: «Puntavamo a un milione, ne abbiamo già un milione e 700 mila”.

I soliti no global, i soliti idealisti, diranno in molti. Però le obiezioni di “Stop Ttip” suonano come rilievi da prendere sul serio. L’accordo, continua la giovane organizzatrice tedesca, è stato negoziato in segreto, senza informare le opinioni pubbliche, e svuota le nostre democrazie. «Non è finita: offre vantaggi inutili e pericolosi agli interessi dei grandi gruppi economici, tende ad abbassare gli standard di sicurezza, igiene, ecologia in vigore ad esempio in Europa ai livelli nordamericani, a cominciare dal cibo transgenico per finire ai cosmetici e ad altri prodotti di uso quotidiano». E una volta innescata, la dinamica dell’accordo – sul terreno degli Ogm ma anche con la liberalizzazione spinta delle privatizzazioni – secondo il movimento di protesta sarà difficilmente reversibile.

Catena umana a Berlino, molte iniziative in piazza in diverse città italiane, spettacoli con i “vampiri cattivi” a Parigi, azioni sparse ovunque per il mondo. Le adesioni crescono di ora in ora da una città all’altra. Non avete paura di perdere contro lobby così forti? chiedo. «Chi ha paura di lottare ha già perso», risponde Cornelia Reetz, «la Commissione europea comincia a parlare di noi nei suoi comunicati, la commissaria Cecilia Maelstroem ci appoggia col suo blog. All’inizio non ci speravamo, per questo ci sprona ancor di più a continuare».

Il manifesto, 18 aprile 2015

La tra­ge­dia che insan­guina la Nige­ria da anni rap­pre­sen­tata su un gom­mone di dispe­rati che rischiano di affon­dare e pre­gano il loro dio. Un dio che invece di unirli li divide.

Il gom­mone bar­colla, il «nemico» è al tuo fianco, ti sfiora, men­tre invoca il suo dio, non serve nem­meno il machete, basta una spinta e un «kafir» (miscre­dente) fini­sce tra le onde. Le minacce non ser­vono: di fronte alla morte chi ha un dio lo prega. E i cri­stiani del gom­mone, come i musul­mani con­ti­nuano a pre­gare. Altri fini­scono tra le onde… Dodici muo­iono, vit­time non del mare, o per man­canza di soc­corsi, ma per un pro­se­gui­mento della guerra che li ha costretti a lasciare il loro paese. Quasi una rap­pre­sen­ta­zione pla­stica di un con­flitto ter­ri­bile. Orri­bile. Ancora di più se avviene su un gom­mone, per­ché non hai scampo.

Ma non l’hanno avuto nem­meno le due­cento donne rapite da Boko Haram in Nige­ria, un anno fa.

La tra­ge­dia del gom­mone avrà delle con­se­guenze, non solo per i quin­dici musul­mani accu­sati della strage. La rea­zione in Ita­lia è stata imme­diata: la guerra di reli­gione è qui tra noi. Un nuovo motivo per respin­gere i dispe­rati del mare, per riman­darli indie­tro, per non lasciarli nem­meno par­tire, dalla Libia. Ovvero con­dan­narli tutti a morire se non di reli­gione, di fame o di guerra.

Un ulte­riore imbar­ba­ri­mento, tra di noi, non solo in Libia o in Nige­ria, ma in Europa. Come se l’Europa non avesse mai cono­sciuto le guerre di reli­gione, il nazi­smo, il fasci­smo (per­ché que­sto è il fana­ti­smo di chi fa della reli­gione la legge per eli­mi­nare tutti i diversi, anche coloro che cre­dono nello stesso dio, per oppri­mere le donne) e ora si chiama fuori, man­cano le risorse. In nome del dio denaro si lasciano al loro destino i fedeli di Allah, di Dio e quelli che un dio non ce l’hanno nem­meno. Ma l’Italia è immersa nel Medi­ter­ra­neo e da mil­lenni meta di chi lo attra­versa, que­sta è stata la sua ric­chezza non una condanna

«Reddito di base. La vera sfida al tempo della disoccupazione strutturale, del lavoro precario, flessibile, delocalizzato, immateriale è conservare il legame tra occupazione ed emancipazione».

Il manifesto, 15 aprile 2015, con postilla

Lo ius exi­sten­tiae si pone alla base del con­tratto sociale. Sin dal ‘600 la cop­pia obbedienza-protezione s’è impo­sta come la fonte ultima di legit­ti­ma­zione del potere costi­tuito. Spetta al “sovrano” difen­dere la vita dei con­so­ciati (Hob­bes), ma anche i beni essen­ziali ad essa col­le­gati (Locke). Se il potere costi­tuito non è in grado di garan­tire le con­di­zioni di “esi­stenza”, il popolo non è più tenuto a rispet­tare il pac­tum con­so­cia­tio­nis: il diritto di resi­stenza può essere esercitato.

Nella sto­ria della moder­nità si è rite­nuto che allo Stato dovesse spet­tare il com­pito di assi­cu­rare la pace (interna ed esterna), men­tre il lavoro dovesse costi­tuire il mezzo attra­verso cui assi­cu­rare la “soprav­vi­venza” degli indi­vi­dui. La fine della civiltà del lavoro ha cam­biato le carte in tavola. Oggi non basta più la volontà di lavo­rare, né quella di emi­grare per poter soprav­vi­vere. Come può lo Stato pre­ser­vare il diritto all’esistenza?

In via di prin­ci­pio due sono le strade per­cor­ri­bili (tra loro non neces­sa­ria­mente alter­na­tive): lo Stato potrebbe assi­cu­rare comun­que un diritto al lavoro, ampliando arti­fi­cial­mente l’offerta, incen­ti­vando – ad esem­pio – i lavori social­mente utili, anche se eco­no­mi­ca­mente non neces­sari. L’altra via è quella di assi­cu­rare comun­que un red­dito di cit­ta­di­nanza anche a chi — in assenza delle con­di­zioni sociali che lo ren­dono pos­si­bile — non può lavorare.

In par­ti­co­lare, la pro­spet­tiva del red­dito di cit­ta­di­nanza ha un solido fon­da­mento costi­tu­zio­nale. Essa ruota attorno a quat­tro prin­cipi che val­gono a carat­te­riz­zare il nostro “patto sociale”: il prin­ci­pio di dignità, con il col­le­gato dovere di soli­da­rietà; il prin­ci­pio d’eguaglianza, inteso come moda­lità di rea­liz­za­zione di una società di liberi ed eguali; il prin­ci­pio di cit­ta­di­nanza, nella sua dimen­sione par­te­ci­pa­tiva e di garan­zia di appar­te­nenza ad una comu­nità; il prin­ci­pio del lavoro, assunto nella sua reale dimen­sione di vita, com­pren­sivo del dramma del non lavoro.

È nel col­le­ga­mento tra que­sti prin­cipi che si rin­viene il diritto costi­tu­zio­nale ad un red­dito di cit­ta­di­nanza. L’errore cui si è spesso incorsi è stato quello di tenerli invece sepa­rati. Eppure nella nostra costi­tu­zione – più avan­zata dei suoi inter­preti – appare evi­dente l’intreccio. Si pensi al rap­porto com­plesso che sus­si­ste tra dignità e lavoro. Al lavoro è legata la dignità (il lavo­ra­tore ha, infatti, diritto ad una retri­bu­zione «in ogni caso suf­fi­ciente ad assi­cu­rare a sé e alla fami­glia un’esistenza libera e digni­tosa»), ma è anche evi­dente come la “dignità” rap­pre­senta un valore da assi­cu­rare in ogni caso, ponen­dosi (la “dignità umana”) come limite alla libertà di ini­zia­tiva eco­no­mica pri­vata, con­for­man­dosi come “dignità sociale” nel rap­porto tra tutti i cit­ta­dini eguali davanti alla legge (nel com­bi­nato dispo­sto tra gli arti­coli 36, 41 e 3).

Vero è che i nostri costi­tuenti per­se­gui­vano l’obiettivo della piena occu­pa­zione, tant’è che alla Repub­blica veniva asse­gnato il com­pito di «pro­muo­vere le con­di­zioni» per ren­dere effet­tivo il diritto al lavoro. Dun­que era que­sta la via mae­stra per dare dignità sociale ai cit­ta­dini. Se oggi però con­si­de­riamo non più per­se­gui­bile la pro­spet­tiva della piena occu­pa­zione l’unica alter­na­tiva per rima­nere entro i con­fini trac­ciati dal costi­tuente è quella di assi­cu­rare la dignità anche a chi non può lavo­rare. Non pos­siamo ras­se­gnarci alle dise­gua­glianze di una società in cui sem­pre più ampie parti della popo­la­zione vivono in grave disa­gio, non pos­siamo evi­tare di occu­parci dei gruppi sociali in stato di emar­gi­na­zione, non pos­siamo lasciare il mondo sem­pre più esteso dei non occu­pati senza spe­ranza, pri­van­doli di ogni dignità e oppor­tu­nità di riscatto.

La let­tura siste­ma­tica del testo costi­tu­zio­nale evi­den­zia anche un secondo dato, che a me sem­bra deci­sivo, ma che è invece assai sot­to­va­lu­tato nel dibat­tito attuale sul red­dito di cittadinanza.

Detto in breve: nella nostra costi­tu­zione il diritto fon­da­men­tale alla soprav­vi­venza, i diritti alla vita digni­tosa e all’assistenza come obbligo dello Stato, la lotta all’emarginazione sociale, non ven­gono assunti in sé, ma sono sem­pre col­le­gati al neces­sa­rio svol­gi­mento della per­so­na­lità, non­ché defi­niti al fine di con­cor­rere al «pro­gresso spi­ri­tuale e mate­riale della società» (come si esprime l’art. 4 in rap­porto con il diritto al lavoro). Espli­cito e diretto è poi il legame tra diritti fon­da­men­tali e doveri inde­ro­ga­bili (art. 2). Così come l’obbligazione gene­rale di rimo­zione degli osta­coli d’ordine eco­no­mico e sociale nei con­fronti dei cit­ta­dini è asso­ciato alla par­te­ci­pa­zione all’organizzazione poli­tica, eco­no­mica e sociale del paese (art. 3).

È in que­sto com­plesso intrec­cio che deve tro­vare una sua spe­ci­fica qua­li­fi­ca­zione anche il red­dito di cit­ta­di­nanza, che dovrebbe essere inteso come red­dito di par­te­ci­pa­zione. Se si vuole cioè evi­tare che la sov­ven­zione ai non occu­pati si tra­sformi in un mero sus­si­dio di povertà, cari­ta­te­vol­mente con­cesso ad un sog­getto iso­lato, lasciato nel suo iso­la­mento, e senza pos­si­bi­lità di riscatto, v’è una sola strada da per­se­guire: legare il red­dito alla cit­ta­di­nanza attiva. La vera sfida, al tempo della disoc­cu­pa­zione strut­tu­rale, ma anche del lavoro pre­ca­rio, fles­si­bile, insta­bile, delo­ca­liz­zato, imma­te­riale, è quella di con­ser­vare quell’orizzonte eman­ci­pa­to­rio, tanto indi­vi­duale quanto sociale, che sin qui – nello schema for­di­sta — era stato assi­cu­rato prin­ci­pal­mente dal lavoro sta­bile entro una comu­nità solidale.

Ma come può legarsi il red­dito alle atti­vità sociali? E poi cosa si intende per cit­ta­di­nanza attiva? Anche in que­sto caso si può comin­ciare a riflet­tere par­tendo dalla costi­tu­zione, la quale imputa a tutti i cit­ta­dini il dovere di svol­gere un’attività o una fun­zioni che con­corra «al pro­gresso mate­riale o spi­ri­tuale della società». Il rife­ri­mento è al lavoro tra­di­zio­nal­mente inteso, ma deve ricom­pren­dere anche tutte quelle atti­vità o fun­zioni che si svol­gono “oltre il lavoro for­male”. Il volon­ta­riato, l’assistenza ai figli o ai geni­tori, le atti­vità cul­tu­rali, quelle di natura imma­te­riale, la cura dei beni comuni. Tutto ciò che – oltre la dimen­sione eco­no­mica e imme­dia­ta­mente pro­dut­tiva — per­mette agli indi­vi­dui di svi­lup­pare la pro­pria per­so­na­lità e con­cor­rere al pro­gresso sociale.

Tutto ciò come si può rea­liz­zare in con­creto? Se si guarda alle diverse forme di red­dito pro­po­ste (uni­ver­sale, minimo, di disoc­cu­pa­zione) mi sem­bra che il più con­forme al modello defi­nito sia quello che asse­gna a tutti i biso­gnosi un red­dito minimo, non tanto con­di­zio­nato dalle logi­che di work­fare (che impone al tito­lare del red­dito di accet­tare qua­lun­que lavoro, anche il più degra­dante o incoe­rente con la pro­pria for­ma­zione a pena della per­dita di ogni con­tri­buto), quando costi­tuito da due diverse fonti “red­di­tuali”: una in denaro, l’altra defi­nita da forme di soste­gno indi­rette. In que­sto secondo caso il red­dito con­si­ste in garan­zie di accesso gra­tuito ai ser­vizi (scuole, uni­ver­sità, con­sumi cul­tu­rali, tra­sporti), ovvero al sup­porto al volon­ta­riato o all’associazionismo, ovvero ancora all’affidamento ai cit­ta­dini di strut­ture inu­ti­liz­zate (dai tea­tri, alle fab­bri­che, ai cen­tri sociali) per la gestione dei beni comuni. In que­sto caso il red­dito di cit­ta­di­nanza (inteso come ser­vizi, age­vo­la­zioni e gestione degli spazi pub­blici) potrebbe per­sino favo­rire la pro­du­zione di red­dito da lavoro o con­fi­gu­rare un’altra economia.

È que­sta una pro­spet­tiva che stenta a farsi strada e che pure non è assente in alcuni tra i pro­getti sul red­dito (la pro­po­sta ela­bo­rata dal Basic Income Net­work, ripresa in sede par­la­men­tare, alcune leggi regio­nali), per­sino in una riso­lu­zione del Par­la­mento euro­peo del 2010. Per una volta pos­siamo dire: «ce lo chiede l’Europa».

postilla

L'autore scrive: «Due sono le strade per­cor­ri­bili: lo Stato potrebbe assi­cu­rare comun­que un diritto al lavoro, ampliando arti­fi­cial­mente l’offerta, incen­ti­vando - ad esem­pio - i lavori social­mente utili, anche se eco­no­mi­ca­mente non neces­sari. L’altra via è quella di assi­cu­rare comun­que un red­dito di cit­ta­di­nanza anche a chi -e in assenza delle con­di­zioni sociali che lo ren­dono pos­si­bile - non può lavorare». Esiste anche un'altra via: quella cui allude Azzariti quando scrive che pe misure che propone possono addirittura servire a «con­fi­gu­rare un’altra economi
a».
In sostanza, si tratta a mio parere di modificare alle radici l'attuale concezione (e pratica) dell'economia e rendere anche "economicamente" rilevante ciò che lo è "socialmente".
Bisognerebbe "cercare ancora" sulla strada indicata da Claudio Napoleoni. Chi voglia approfondire l'argomento può leggere in eddyburg il testo di Napoleoni, Scienza economica e lavoro dell’uomo nella definizione di Lionel Robbins, e la sintetica ricostruzione del suo pensiero in proposito che ho steso in un capitolo del mio Memorie di un urbanista e ripreso nella relazione introduttiva alla sesta edizione (2009) della Scuola di eddyburg. (e.s.)

Granello di Sabbia , "Fermate il mondo: voglio scendere!", marzo/aprile 2015

Il primo step della difficilissima trattativa che vede protagonisti la Grecia e la Ue si è concluso con un compromesso che dà via libera alla sostanza delle richieste greche. Il confronto è del tutto asimmetrico, per questo molto arduo per la Grecia. La Germania può contare sul sostegno aperto, in qualche caso più realista del re, di diversi paesi. La Spagna e il Portogallo, e finanche l’Irlanda, preoccupati che una vittoria negoziale della Grecia spiani la strada all’affermazione elettorale delle sinistre nei loro paesi afflitti dalla cura dimagrante impostagli. La corona dei paesi nordici, poiché fanno parte del sistema produttivo allargato tedesco. I paesi dell’ex blocco sovietico, spaventati che le riforme greche – come l’aumento del salario minimo - creino un effetto di traino per analoghe rivendicazioni al loro interno. Altri, come l’Italia – che pure Tsipras ha ringraziato come deve fare un buon negoziatore - hanno dispensato sorrisi ma giocato per i tedeschi, mentre la Francia si è mossa troppo tardi lungo una linea timidamente mediatrice.

Ma il fronte dell’austerity non è compatto né invincibile, anche se ancora largamente prevalente. In Germania si è aperta una frattura. La Spd ha preso le distanze almeno dal ministro Schauble. Probabilmente ha pesato su questo atteggiamento l’esito elettorale di Amburgo, negativo per la Merkel, e le pressioni dei sindacati tedeschi, dei quali la Spd deve pure tenere un qualche conto. Contemporaneamente oltreoceano giungono messaggi assai diversi. Obama ha preso con maggiore nettezza la distanza verso le politiche pro-austerity che si conducono in Europa, in coerenza con misure di interesse sociale e contro gli eccessi di ricchezza assunte nel proprio paese.
E’ chiaro che la mossa di Obama va anche letta in chiave elettorale interna. Dopo la sconfitta nelle elezioni di medio termine ha deciso di spingere sull’acceleratore e sta preparando la strada al nuovo o alla nuova candidata democratica alle prossime presidenziali. Ancora più forte è probabilmente per il Presidente Usa la preoccupazione geopolitica. La stessa che lo spinge ad essere estremamente aggressivo sul fronte della questione ucraina, con frizioni con la Germania. Lo preoccupa la crescita di forza e di attrazione della Russia. Non gli sfugge la possibilità che un pericolo molto ravvicinato di default della Grecia o addirittura l’uscita dall’Euro e dalla Ue di quest’ultima, potrebbe spingerla direttamente nelle braccia di Putin.

Come si vede - anche se qui non c’è lo spazio necessario per poterne parlare nel modo dovuto - la vicenda greca e quella ucraina sono molto più legate tra loro di quanto non si creda, pur essendo diversissime tra loro. Entrambi i paesi occupano posizioni geopolitiche ai confini fra occidente e oriente, politicamente più che geograficamente intesi. Si trovano in una posizione di faglia entro quel processo epocale di transizione egemonica tra ovest ed est, che viene accelerato – ma non causato – da questa lunga crisi economica dell’occidente capitalistico, ma che covava da tempo nel contemporaneo decadere del primato economico mondiale degli Usa e nella crescita dei cosiddetti Brics. I primi cercano ovviamente di resistere al loro declino, i secondi spingono con decisione, anche se con tempistiche differenziate. Guerre commerciali e monetarie, accordi vessatori (si pensi al TTIP), guerre civili etero dirette, minacce di estensioni di queste ultime alla dimensione di una vera e propria guerra totale, ne sono la conseguenza più evidente.
L’Europa, a causa delle politiche in essa dominanti, dove grandi sono le responsabilità tedesche, gioca un ruolo negativo in questo quadro, mentre avrebbe ben altre potenzialità. Se torniamo al caso greco, la cosa risulta evidente.
Nella trattativa in corso il governo greco ha guadagnato tempo e ossigeno finanziario, seppure ridotto a quattro mesi. Era questo il principale e più urgente obiettivo per evitare il default e la fuga dei capitali dalle banche greche. La lista di riforme inviata a Bruxelles non contiene tutto il programma di Syriza, ma non lo contraddice e avanza diversi suoi contenuti, specialmente in campo sociale. Lo si vede sui temi dei buoni pasto, dell’energia elettrica e della sanità per i poveri. Nello stesso tempo si parla di estendere il sistema pilota del salario minimo e di progressiva introduzione della contrattazione collettiva. Basta ricordare l’email giunta a dicembre dalla Ue, che conteneva ulteriori tagli alle pensioni e stipendi pubblici, nonché l’abolizione di ogni diritto sindacale, per vedere l’enorme differenza fra il programma della Troika e quanto l’Eurogruppo, non senza scetticismi al proprio interno, ha accettato martedì 24 febbraio.
Tutto bene quindi? No, è solo l’inizio di un lungo braccio di ferro. La Grecia dovrà intanto ottenere quei risultati in termini di lotta al contrabbando di combustibile, alla corruzione e soprattutto alla enorme evasione fiscale, da cui si attende 7 miliardi di euro di entrate, per riaprire il fronte dei prestiti da parte europea che può permettere l’avvio di un nuovo programma economico antiausterity.
E’ evidente che i margini di autonomia decisionale dentro questa Europa sono molto stretti. La crepa aperta dalla Grecia deve perciò allargarsi. E’ quello che le élites neoliberiste europee temono. Sta qui la ragione di tanto accanimento contro un paese il cui debito non supera il 3% di quello dell’eurozona. Una bazzecola quindi. Ma se la linea della Grecia dovesse prevalere si dimostrerebbe che un'altra via è possibile per affrontare il tema del debito. Il fiscal compact e il sistema di governance della Ue crollerebbero miseramente. Non solo. Ma si dimostrerebbe che la Unione europea non può sopravvivere senza darsi degli organismi realmente democratici ed effettivamente decisionali, attraverso i quali la volontà popolare può farsi valere. Se avvenisse sarebbe la sconfitta storica del neoliberismo in Europa. Per questo lo scontro è tanto duro e ci riguarda in prima persona.
La Grecia ha fatto molto, ma non può vincere da sola. E’ indispensabile la coesione interna e la connessione sentimentale fra quel popolo e il suo nuovo governo. Ma altrettanto decisiva è la crescita della solidarietà internazionale, la affermazione dei movimenti e delle sinistre anche in altri Paesi. A cominciare dalla Spagna nel prossimo autunno.

Il manifesto, 16 aprile 2015

Siamo alla conta finale? L’appello delle oppo­si­zioni a Mat­ta­rella con­tro il ricorso alla fidu­cia per la legge elet­to­rale usa parole molto pesanti. Ma non è dub­bio che l’arrogante testar­dag­gine del governo, nel lasciar inten­dere che alla que­stione di fidu­cia potrebbe giun­gersi, ha creato una situa­zione di straor­di­na­ria gra­vità. In tale ipo­tesi non saremmo più di fronte a una nor­male dia­let­tica poli­tica, dura quanto si vuole, ma ad una patente e voluta vio­la­zione del rego­la­mento par­la­men­tare. Per que­sto è bene che il Pre­si­dente rac­colga l’appello, e dia ad esso seguito nei modi che riterrà opportuni.

Sulla legge elet­to­rale il governo non può porre la fidu­cia, se viene richie­sto il voto segreto (già da alcuni pre­an­nun­ciato). Ce lo dicono con chia­rezza gli artt. 49 e 116 del rego­la­mento Camera. Per l’art. 49 il voto è palese, salvo che per alcune mate­rie enu­me­rate in cui è neces­sa­ria­mente segreto, e per alcune altre in cui è segreto a richie­sta di almeno 30 depu­tati (art. 51). Tra que­ste ultime – voto segreto a richie­sta – tro­viamo appunto la legge elet­to­rale. Per l’art. 116 la que­stione di fidu­cia non può essere posta «su tutti que­gli argo­menti per i quali il Rego­la­mento pre­scrive vota­zioni per alzata di mano o per scru­ti­nio segreto». Il che è ovvio, visto che la fidu­cia si vota per appello nomi­nale. La domanda dun­que è: lo scru­ti­nio segreto a richie­sta sulla legge elet­to­rale ex art. 49 si con­fi­gura come voto segreto “pre­scritto” ai sensi dell’art. 116? O deve con­si­de­rarsi “pre­scritto” solo il voto “neces­sa­ria­mente” segreto, e cioè segreto anche in assenza di richiesta?

La rispo­sta è chiara. Anche il voto segreto a richie­sta – benin­teso, una volta che la richie­sta sia stata avan­zata – deve con­si­de­rarsi “pre­scritto” ai sensi dell’art. 116, e dun­que ido­neo a deter­mi­nare la pre­clu­sione della que­stione di fidu­cia. Biso­gna par­tire dalla con­si­de­ra­zione che la moda­lità di vota­zione in ambito par­la­men­tare non è mai oggetto di valu­ta­zione discre­zio­nale da parte di chic­ches­sia. Che il voto sia segreto o palese non discende da una scelta di oppor­tu­nità, ma dal det­tato rego­la­men­tare. Ciò per ovvi motivi di garan­zia dei sin­goli par­la­men­tari e delle forze poli­ti­che, in spe­cie di minoranza.

Ci può essere un «dub­bio sull’oggetto della deli­be­ra­zione», cioè un dub­bio inter­pre­ta­tivo se una fat­ti­spe­cie rien­tri o meno nelle mate­rie per cui il voto è segreto o palese. Ma, sciolto il dub­bio da parte della pre­si­denza dell’assemblea, il voto è obbli­ga­to­ria­mente deter­mi­nato dalla norma rego­la­men­tare. Quindi, la moda­lità di vota­zione è sem­pre «prescritta».

Nel caso, non c’è alcuna pos­si­bi­lità di dub­bio inter­pre­ta­tivo, poi­ché la legge elet­to­rale è espli­ci­ta­mente inclusa nell’elenco delle mate­rie per cui il voto è segreto a richie­sta. E per­tanto la que­stione di fidu­cia rimane pre­clusa ai sensi dell’art. 116, lad­dove richie­sta di voto segreto vi sia. Spet­terà alla Pre­si­denza dell’Assemblea impe­dire ogni pre­va­ri­ca­zione a danno dei diritti dei sin­goli depu­tati e delle forze poli­ti­che. Essendo chiaro che la Pre­si­denza non si oppone a una scelta poli­tica del governo, ma solo applica — come deve — una ine­qui­voca norma regolamentare.

Dun­que, niente fidu­cia. Si tratta di regole, e non di bon ton poli­tico e isti­tu­zio­nale, che pure vie­te­rebbe in modo asso­luto a un governo di vin­co­lare la pro­pria soprav­vi­venza — attra­verso la fidu­cia — al testo in discus­sione. In tal modo si cer­ti­fica infatti che la legge in discus­sione non è neu­trale, ma entra nella dia­let­tica poli­tica distri­buendo van­taggi e svan­taggi deci­sivi. Né si tratta di buon senso, che ovvia­mente dovrebbe trat­te­nere un segre­ta­rio capo di governo dall’usare la fidu­cia per met­tere la mor­dac­chia a un pezzo del suo stesso par­tito. Né, ancora, si tratta di dignità poli­tica, che pure richie­de­rebbe, una volta nau­fra­gato lo scia­gu­rato patto del Naza­reno, di smet­tere la fin­zione per cui le riforme da esso gene­rate siano nell’interesse del paese. Né si tratta di cor­ret­tezza e sen­si­bi­lità costi­tu­zio­nale, che impor­reb­bero di non for­zare un par­la­mento già sostan­zial­mente ille­git­timo per una sen­tenza del giu­dice delle leggi a nor­mare appro­fit­tando dei numeri deter­mi­nati da quella ille­git­ti­mità.

Né infine si tratta di valu­ta­zioni di merito, anche se Napo­li­tano defi­ni­sce ora un grave errore aver abban­do­nato il Mat­ta­rel­lum, con ciò lasciando inten­dere per impli­cito che l’errore si per­pe­tua quando non si esce dal Por­cel­lum tor­nando al Mat­ta­rel­lum ma andando all’Italicum, pur necessitato.
Men­tre Scal­fari afferma su Repub­blica che l’approvazione delle riforme ren­ziane uccide la demo­cra­zia par­la­men­tare. Due auto­re­voli testi­moni del nostro tempo, che si gua­da­gnano la tes­sera di gufo ono­ra­rio.

Abbiamo capito che a Renzi più che il mono­poli piace la bat­ta­glia navale, soprat­tutto per la for­mula «col­piti e affon­dati». La sini­stra Pd ha qui pro­ba­bil­mente la sua ultima occa­sione. Certo, per loro Renzi è come il meteo­rite che 65 milioni di anni fa colpì la terra pro­vo­cando l’estinzione dei dino­sauri. Ma vogliamo ricor­dare a quel che resta della com­po­nente Ds nel Pd che i dino­sauri lot­ta­rono per sopravvivere.

Noi vor­remmo almeno che si rispet­tas­sero le regole. In un sistema demo­cra­tico è una pre­messa indi­spen­sa­bile, senza la quale tutto si riduce a vuota parola. Di for­za­ture e strappi ne abbiamo avuti già troppi, per un nuo­vi­smo che in tal modo nulla pro­mette di buono per il futuro. Anche per que­sto il ren­zi­smo non ci piace. E non è affatto que­stione di fiducia

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