Il problema non è solo quello di cedere una parte piu o meno grande della sovranità ma della strategia politica che si accetta: emblematico ciò che avvenne, e continua ad avvenire, nella Libia .
Il manifesto, 9 febbraio 2016 (m.p.r.)
Partecipando (come ormai d’obbligo) all’incontro dei ministri della difesa Ue il 5 febbraio ad Amsterdam, il segretario della Nato Jens Stoltenberg ha lodato «il piano degli Stati uniti di accrescere sostanzialmente la loro presenza militare in Europa, quadruplicando i finanziamenti a tale scopo».
Gli Usa possono così «mantenere più truppe nella parte orientale dell’Alleanza, preposizionarvi armamenti pesanti, effettuarvi più esercitazioni e costruirvi più infrastrutture». In tal modo, secondo Stoltenberg, «si rafforza la cooperazione Ue-Nato». Ben altro lo scopo. Subito dopo la fine della guerra fredda, nel 1992, Washington sottolineava la «fondamentale importanza di preservare la Nato quale canale della influenza e partecipazione statunitensi negli affari europei, impedendo la creazione di dispositivi unicamente europei che minerebbero la struttura di comando dell’Alleanza», ossia il comando Usa. Missione compiuta: 22 dei 28 paesi della Ue, con oltre il 90% della popolazione dell’Unione, fanno oggi parte della Nato sempre sotto comando Usa, riconosciuta dalla Ue quale «fondamento della difesa collettiva». Facendo leva sui governi dell’Est, legati più agli Usa che alla Ue, Washington ha riaperto il fronte orientale con una nuova guerra fredda, spezzando i crescenti legami economici Russia-Ue pericolosi per gli interessi statunitensi. In tutta l’Europa orientale sventola, sul pennone più alto, la bandiera a stelle e strisce assieme a quella della Nato. In Polonia, la nuova premier Beata Szydlo ha ammainato dalla sue conferenze stampa la bandiera della Ue, spesso bruciata nelle piazze da «patrioti» che sostengono il governo nel rifiuto di ospitare i rifugiati (frutto delle guerre Usa/Nato), definiti «invasori non-bianchi».
In attesa del Summit Nato, che si terrà a Varsavia in luglio, la Polonia crea una brigata congiunta di 4mila uomini con Lituania e Ucraina (di fatto già nella Nato), addestrata dagli Usa. In Estonia il governo annuncia «un’area Schengen militare», che permette alle forze Usa/Nato di entrare liberamente nel paese.
Sul fronte meridionale, collegato a quello orientale, gli Stati uniti stanno per lanciare dall’Europa una nuova guerra in Libia per occupare, con la motivazione di liberarle dall’Isis, le zone costiere economicamente e strategicamente più importanti. Una mossa per riguadagnare terreno, dopo che in Siria l’intervento russo a sostegno delle forze governative ha bloccato il piano Usa/Nato di demolire questo Stato usando, come in Libia nel 2011, gruppi islamici armati e addestrati dalla Cia, finanziati dall’Arabia Saudita, sostenuti dalla Turchia e altri.
L’operazione in Libia «a guida italiana» - che, avverte il Pentagono, richiede «boots on the ground», ossia forze terrestri - è stata concordata dagli Stati uniti non con l’Unione europea, inesistente su questo piano come soggetto unitario, ma singolarmente con le potenze europee dominanti, soprattutto Francia, Gran Bretagna e Germania. Potenze che, in concorrenza tra loro e con gli Usa, si uniscono quando entrano in gioco gli interessi fondamentali.
Emblematico quanto emerso dalle mail di Hillary Clinton, nel 2011 segretaria di Stato: Usa e Francia attaccarono la Libia anzitutto per bloccare «il piano di Gheddafi di usare le enormi riserve libiche di oro e argento per creare una moneta africana in alternativa al franco Cfa», valuta imposta dalla Francia a sue 14 ex colonie. Il piano libico (dimostravamo sul manifesto nell’aprile 2011) mirava oltre, a liberare l’Africa dal dominio del Fmi e della Banca mondiale. Perciò fu demolita la Libia, dove le stesse potenze si preparano ora a sbarcare per riportare «la pace».
«Mostri giuridici», le definì Giuliano Amato, con un cinismo non comune, se si pensa che fu lui, insieme al campione del liberismo Guido Carli, a firmare la legge 218 1990, che inaugurò, proprio con gli enti pubblici bancari, la folle stagione delle dismissioni del patrimonio pubblico italiano. Sono le Fondazioni di origine bancaria che Tremonti, vincolandone le erogazioni al territorio per il 90%, rese i più potenti soggetti politici locali.
Insomma, Obama promette di compiere un atto dovuto (aiutare sul caso Regeni) se l'Italia aiutagli USA in due azioni nefaste: gettare più benzina sul fuoco della guerra e decretare, con il TTIP, la prevalenza degli interessi economici sui diritti personali, sociali, ambientali.
Ilsole24ore.com9 Febbraio 2016
Nel primo vertice tra Obama e Mattarella, l’Italia segna un punto a favore sui dossier più scottanti: migranti, Libia, economia ed Europa. Il presidente Usa vuole impegnare la Nato nella crisi umanitaria nel Mediterraneo. E ha offerto collaborazione sull’uccisione di Regeni.
Il tono affabile con cui Barack Obama prende la parola e si rivolge al suo «collega professore di diritto costituzionale» Sergio Mattarella racconta molto del clima di questo primo faccia a faccia. Sul tavolo c’erano questioni piuttosto cruciali e dirimenti per l’Italia ma quella cordialità con cui il presidente americano parla del capo dello Stato - «il primo siciliano» - dà una sfumatura in più su come siano andati i colloqui. Che certamente segnano un punto a favore dell’Italia su almeno tre dossier: crisi dei migranti, Libia, economia ed Europa.
Nello studio ovale, illuminato da una giornata di sole, i due presidenti arrivano con almeno mezz’ora di ritardo rispetto alla rigida programmazione della Casa Bianca. E già il fatto che il vertice sia andato oltre i tempi previsti – in tutto è durato un’ora e trenta - diventa il primo indizio del buon esito dell’incontro a cui ha partecipato anche il ministro Paolo Gentiloni. Che ha una novità, soprattutto: l’impegno di Obama di coinvolgere la Nato nella crisi dei migranti non solo per ragioni di sicurezza ma anche per gli aiuti umanitari e il salvataggio di vite. Un cambio di scenario strategico per l’Italia, che è in prima linea nella gestione dell’emergenza, e anche un punto a favore di questa visita di Mattarella alla Casa Bianca. A quanto pare, si tratta un’ipotesi avanzata visto che Obama ha riferito al capo dello Stato di averne già parlato con la Merkel e di volerne informare e discutere al più presto con Renzi e con Hollande.
«Una collaborazione tra l’Ue, gli Usa e la Nato, per far fronte alla crisi umanitaria e smantellare il traffico di esseri umani», ha detto Obama riconoscendo «l’impatto terribile sull’Europa e sull’Italia in particolare». Seduti l’uno accanto all’altro nelle poltrone dello studio ovale, il caminetto che fa da sfondo, dopo Obama prende la parola Mattarella che conferma quella solida alleanza con gli Stati Uniti che «ci consente oggi e ci consentirà in futuro di fronteggiare sfide nuove e di sconfiggere i nemici della pace, della libertà e dei diritti umani».
E in effetti l’altro dossier scottante è quello dell’Isis che per oggi vuol dire anche Libia. Su questo fronte, la posizione portata da Mattarella ha avuto il placet della Casa Bianca e non era scontato visto che la linea americana è divisa: il Pentagono preme per un’azione militare a breve per impedire la diffusione dell’Isis mentre la Casa Bianca è più cauta. Ecco, ieri, Obama ha confermato a Sergio Mattarella che la volontà americana coincide con le posizioni italiane e dunque ci si muoverà entro il perimetro Onu aspettando la formazione di un governo unitario e intervenendo - eventualmente - solo su richiesta di quest’ultimo. È noto che ci sono ancora dei problemi sulla nascita di un governo libico ma ieri il capo dello Stato e Obama sono stati concordi nel dare più tempo ed evitare che un’azione militare intempestiva porti i circa mille miliziani libici - che oggi contrastano l’Isis - su posizioni anti-occidentali. «Abbiamo discusso degli sforzi congiunti per aiutare la Libia a formare un governo che permetta alle loro forze di sicurezza di stabilizzare il loro territorio e neutralizzare l’Is», ha confermato Obama.
Anche questo passaggio non era scontato. L’interesse americano è oggi prevalentemente spostato su Siria e Iraq e solo per una parte marginale sulla Libia, argomento fino a un po’ di tempo fa considerato tabù per l’uccisione dell’ambasciatore Stevens negli anni in cui Hillary Clinton era segretario di Stato. Oggi il tabù è caduto dopo che la Clinton ha reso una lunghissima audizione alla commissione del Congresso che indaga su quella vicenda e da cui è uscita senza danni. E dunque sulla Libia l’Italia incassa un appoggio anche perché gli Usa apprezzano l’intervento italiano in Iraq. «Grazie per il lavoro di protezione alla diga di Mosul» ha detto Obama nelle dichiarazioni finali.
Infine, un altro successo di questa visita è l’assist di Obama a politiche espansive in Europa mentre l’Italia si sta facendo parte attiva della firma entro l’anno del Ttip, il trattato di liberalizzazione commerciale con gli Usa. E se ne capisce il motivo leggendo i numeri: 1 miliardo di investimenti americani in Italia durante il 2014, sono invece 3,7 miliardi quelli italiani in Usa.
«Servono impegni affinché non si ripresentino le gravi crisi del passato che destabilizzano i Paesi sviluppati e precludono una vita migliore nei Paesi in via di sviluppo», ha detto Mattarella mostrando di aver trovato ascolto e appoggio presso Obama in questo momento di divisioni in Europa anche sulle ricette economiche. E soprattutto c’è una forte intesa a evitare Brexit. «Vogliamo la Gran Bretagna a bordo», ha detto il presidente Usa.
Ma al termine della visita, quando la stampa aveva lasciato lo studio ovale, Obama ha offerto a Mattarella la collaborazione Usa alle indagini sull’uccisione di Giulio Regeni in Egitto. Di questo avevano già parlato il ministro Gentiloni e Kerry, presenti all’incontro tra Mattarella e Obama insieme al vice presidente Biden e la consigliera della sicurezza Susan Rice.
«Non più produzione per il mercato lasciato al libero arbitrio delle imprese, ma produzione per i bisogni primari di tutti da parte di una comunità che programma cosa produrre, per chi produrre, come produrre.».
Newsletter@comuneinfo.net, 9 febbraio 2016, con postilla
Ho letto su Comune l’articolo di Franco Berardi Bifo, Slump. La crescita non tornerà mai più (molto letto, condiviso e discusso in rete, ndr), e ne condivido tutte le considerazioni, in particolare che il tempo della crescita è finito e che di occupazione, intesa alla sua maniera, questo sistema non ne crescerà più. Nel contempo, però, dobbiamo stare attenti a non convalidare questo sistema né dare l’impressione che anche noi ci aggiungiamo all’esercito di Tina, There is no alternative. L’alternativa, invece c’è e la dobbiamo rivendicare cominciando a denunciare tutti i fallimenti e i rovesci di questo sistema. Un’operazione che deve necessariamente partire dal linguaggio.
Questo sistema è in crisi e questo tutti lo sanno. Il problema è capire perché. Per autoassolversi il sistema parla di eccesso di produzione, quasi si trattasse di in un errore di calcolo nella valutazione dei bisogni. Ed anche noi, senza chiederci se l’affermazione sia vera o falsa, ripetiamo a pappagallo la stessa spiegazione. Ora va detto chiaro e tondo che a questo sistema dei bisogni della gente non importa un fico secco. Gli interessano solo le vendite per i guadagni che può procurare ai mercanti. Per cui la realtà la interpreta solo con gli occhi dei mercanti che quando si accorgono che di non riuscire a vendere tutto ciò che producono parlano di eccesso di merce.
Poi magari andando a vedere come sta veramente la gente potremmo scoprire che molti vivono in una tale miseria da richiedere non solo ciò che è avanzato nei magazzini, ma molto di più. Una situazione non dissimile da quella che viviamo oggi: mentre il sistema dice di essere in crisi da sovrapproduzione, le Nazioni unite ci informano che un miliardo di persone soffre di denutrizione, che tre miliardi di persone non dispongono di servizi igienici, che ottocento milioni di persone non hanno accesso all’acqua potabile. E la lista potrebbe continuare con gli analfabeti, i senza tetto, i senza cure eccetera, eccetera.
Il termine giusto per descrivere la crisi del sistema, intesa come malfunzionamento, è mala distribuzione. Mentre il termine giusto per descrivere il suo fallimento, inteso come disastro sociale e ambientale, è mala impostazione. Da un punto di vista funzionale la crisi del sistema è dovuta a una distribuzione della ricchezza sempre più iniqua che ha ridotto a tal punto la massa salariale mondiale da aver avuto come effetto finale una riduzione dei consumi. Basti dire che fra il 1975 e il 2015 la quota di prodotto mondiale tolta ai salari a vantaggio dei profitti è stata dell’ordine del 10 per cento. Se aggiungiamo le risorse sottratte agli Stati sotto forma di evasione fiscale (tramite i paradisi fiscali) e sotto forma di interessi pagati sul debito pubblico, otteniamo uno spostamento enorme di ricchezza a vantaggio dei capitalisti, che non potendo espandere i propri consumi all’infinito, hanno provocato una caduta degli acquisti.
Potremmo proseguire dicendo che per tamponare la situazione il sistema ha cercato di garantirsi un’alta domanda incoraggiando il debito. Ma a forza di accumulare debiti, poi arriva il momento in cui non si possono più pagare e tutto viene giù provocando non solo l’arresto del sistema economico con conseguente caduta di tutti i prezzi compresi quelli di risorse scarse come petrolio e minerali, ma anche la caduta delle banche, delle borse e dei bilanci pubblici. Capitomboli che alimentano ulteriormente la crisi. Esattamente come sta succedendo ai nostri giorni, prima con una crisi che avuto come epicentro gli Stati, poi con una crisi che ha avuto come epicentro la Cina. In ambedue i casi per il tentativo di fare correre il cavallo economico sotto la frusta del debito, che poi si è avvolta attorno al collo del cavallo strozzandolo.
Ben più grave il fallimento del sistema da mala impostazione. Al di là delle fanfare, questo sistema è organizzato solo per garantire affari alle grandi imprese sempre più orientate alla produzione di beni ad alta tecnologia. Una scelta di per se escludente perché coinvolge solo la parte di umanità con redditi medio alti, lasciando tutti gli altri alla deriva. Così abbiamo prodotto un pianeta con una minoranza che gozzoviglia e una maggioranza che non ha ancora conosciuto il gusto della dignità umana. Preso complessivamente questo pianeta non ha più spazi di crescita, anzi deve diminuire come mostrano i dati sull’impronta ecologica e sull’accumulo di anidride carbonica. Ma analizzando le singole situazioni, scopriamo che l’obbligo di decrescere vale solo per la parte di umanità in sovrappeso.
Quanto agli scheletrici hanno diritto ad avere di più, ma potranno farlo solo se i grassoni accettano di sottoporsi a cura dimagrante e solo se tutti insieme cambiamo impostazione economica. Non più produzione per il mercato lasciato al libero arbitrio delle imprese, ma produzione per i bisogni primari di tutti da parte di una comunità che programma. In una condizione di risorse scarse e di ambiente fortemente compromesso, la nostra pretesa libertà di produrre di tutto di più lasciando al portafoglio di ognuno di stabilire cosa comprare non funziona più. Nell’economia del limite la giustizia si garantisce fissando le priorità, che vuol dire programmazione, e predisponendo forme di produzione e distribuzione che garantiscono i bisogni fondamentali a tutti, che significa produzione di comunità con godimento gratuito da parte di tutti.
Un numero crescente di persone comincia a capire che per garantirci un futuro dobbiamo ripensare cosa produrre, per chi produrre, come produrre. Ma pochi hanno messo a fuoco che la vera scelta è fra mercato individualista e comunità solidale. Su questo, però, è bene saperlo, si gioca il nostro avvenire e la nostra civiltà.
postilla
Ha ragione Francesco Gesualdi nella conclusione del suo articolo: per garantirci un futuro dobbiamo ripensare cosa produrre, per chi produrre, come produrre. Ma chi deve decidere? Chi deve assegnare alla produzione i suoi fini: Chi deve decidere quali beni (non "merci") produrre? Qui si apre il grande discorso della politica, della democrazia, della gestione del potere. E, in parallelo, si apre il discorso altrettanto rilevante e complesso del lavoro, cioè dello strumento essenziale della produzione. Mentre sulla politica ci sembra che il dibattito sia ampio e fruttuoso, sul significato del lavoro ci sembra che l'opinione corrente sia dominata da una concezione del lavoro appiattita su ciò che il lavoro è nel sistema capitalistico, non - come a nostro parere dovrebbe - su una concezione dell'uomo.
«Dirà qualcuno: ma a rompere le relazioni diplomatiche si rovinano gli affari (opulenti, com’è noto: 30 mila pistole Beretta alle polizie di Al Sisi, tanto per cominciare). Allora si smetta di parlare di orgoglio nazionale, e meno che mai di diritti umani».
Micromega, 7 febbraio 2016
Se di tutto questo orgoglio nazionale sventagliato e twitterato da Renzi urbi et orbi e coram populo come cosa propria c’è una sola oncia che non sia chiacchiera propagandistica per gonzi e giornalisti a bacio di pantofola, la cartina di tornasole sarà (è, ormai da giorni) l’orrenda fine di Giulio Regeni, torturato per giorni in modo efferato nell’Egitto di Al-Sisi e ucciso spezzandogli l’osso del collo.
Vogliamo anzi esigiamo la verità, tutta la verità, e altro bla bla bla è stata la giaculatoria che sotto la regia di Renzi le autorità italiane stanno biascicando da giorni. Ma quella verità, al netto di qualche dettaglio (i nomi degli esecutori) è lapalissiana, la scrive il Corriere della Sera, la scrive la Stampa, la scrive la Repubblica, la sanno anche i bambini e la capiscono i sassi, gli scherani di Al Sisi in forma di polizia politica del regime dittatoriale egiziano sono gli autori dei mostruosi giorni di tortura lenta e inenarrabile per strappare al collaboratore del manifesto i nomi dei suoi contatti nei sindacati indipendenti invisi ai militari al potere.
Ora, un governo che possieda orgoglio nazionale, dopo aver mandato i suoi inquirenti in Egitto, al primo depistaggio di Al Sisi richiama l’ambasciatore, al secondo rompe le relazioni diplomatiche, altrimenti vuol dire che per orgoglio intende chinare il capo al giogo della presa per il culo, giogo che non può essere tollerato come gioco. E il primo di depistaggio c’è già stato, con la pantomima oscena dell’arresto di due criminali comuni (seguirà confessione) dopo aver inizialmente parlato di incidente d’auto, il secondo è in pieno corso col muro di gomma ormai in atto.
Del resto Renzi il reato di tortura si è ben guardato dall’introdurlo nell’ordinamento italiano. Non gli faremo il torto di ricordare l’adagio “cane non morde cane” perché sappiamo che i morti per tortura di polizia in Egitto si contano a centinaia e forse migliaia, in Italia sulle dita di una mano.
Dirà qualcuno: ma a rompere le relazioni diplomatiche si rovinano gli affari (opulenti, com’è noto: 30 mila pistole Beretta alle polizie di Al Sisi, tanto per cominciare). Allora si smetta di parlare di orgoglio nazionale, e meno che mai di diritti umani, e la politica renziana dichiari papale papale i suoi principi non negoziabili: in nome del profitto tutto è lecito a chiunque, e chi si mette in mezzo pace all’anima sua, se l’è cercata.
«L'archeologo e storico dell'arte contesta l'indirizzo della scuola e dell'università di oggi. E difende gli insegnanti, l'ozio creativo, e la storia come riserva di possibilità per il futuro».
Linkiesta.it, 7 febbraio 2016 (m.p.r.)
Studi sempre più specializzati. L’acquisizione di “competenze” sempre più precise che seguano le esigenze del mercato del lavoro. Studenti che escono dall’università (o anche dalle superiori) in possesso di una professionalità spendibile subito. Sono questi i desideri proibiti di chi frequenta le scuole, oltre che il totem retorico degli addetti alla cultura, dai ministeri ai dirigenti scolastici (con quali risultati poi è un'altra storia, di cui abbiamo cercato di parlare nello speciale di questa settimana su Linkiesta).
Competenza vuol dire possedere oggetti conoscitivi e capacità. Conoscenza vuol dire farsi modificare dalle cose che si incontrano, giusto?
E poi non c’è conoscenza senza sguardo critico, cioè senza il dubbio. La scuola ci insegna delle cose, ma dovrebbe soprattutto insegnarci a dubitare di quello che essa stessa ci insegna.
E invece?
Il modello dell’educazione di oggi è quello di Tempi moderni, di Charlot che fa l’operaio e esegue un solo gesto: prendere la chiave inglese e girare un bullone. L’ideale del nostro bell’ideologo-intellettuale-riformatore dell’educazione è proprio “formare” qualcuno che fa una sola cosa, e la fa senza pensare. Un modo di mortificare la ricchezza della natura umana. E la democrazia viene uccisa.
A proposito di non-specialismi: quanto è stato importante per lei leggere disinteressatamente, senza un fine di studio. Così per piacere, e per avventura?
E’ essenziale per tutti. La curiosità intellettuale è il sale della formazione. Guai se uno dovesse leggere i libri o guardare i film che qualcuno gli ha ordinato di guardare o di leggere. Tutti inseguiamo delle curiosità senza scopo. E lo facciamo anche con gli esseri umani: se a una cena c’è una persona interessante ci parliamo. Così dobbiamo fare anche coi libri o con la formazione.
Cosa ne pensa degli slogan che erano cominciati con Berlusconi (“Inglese, impresa, internet”) e che proseguono con Renzi (“La buona scuola”)?
L’uno e l’altro slogan sono stati usati in modo superficiale e cinico per sostituire la sostanza. L’etichetta del brandy di lusso mentre nella bottiglia c’è quello del discount. Stesso discorso per il nostro presidente del Consiglio che ama la “Narrazione”. Narrare (in altri termini: raccontare balle) per persuadere gli ingenui. Basta parlare con qualche professore per accorgersi che la cosiddetta “buona scuola” non è una scuola buona: sono in condizioni di grave difficoltà da tutti i punti di vista.
Ecco, al di là dei problemi di reclutamento e del trattamento economico. I professori ormai sono perennemente ingolfati di carte: schede di valutazione, moduli da riempire, piani formativi. Sembra quasi un controllo burocratico-contenutistico kafkiano sul loro lavoro. Cosa ne pensa?
Questo è un punto vitale, per tutte le categorie di professori: elementari, medie, superiori. E anche quelli universitari. E qui c’è un paradosso...
Ci dica...
La burocratizzazione del mondo avanza mentre gli stessi governanti continuano a dirci che stanno facendo una lotta dura e senza paura contro la burocrazia. Il fatto di dover riempire mille moduli, dover scrivere mille sciocchezze: è come se non ci si fidasse della responsabilità dell’essere umano. Un professore si giudica dai risultati, da come fa lezione agli allievi. Nel caso di un professore universitario c’è la ricerca. Che poi viene spesso valutata male.
Perché?
L’Amvur valuta gli articoli senza leggerli. Se esce in una cosiddetta rivista di serie A viene valutato bene, se no niente. E’ una sciocchezza: molti ottimi articoli specialistici escono in riviste di serie B o di serie C. Questo è un modo di ragionare che può uccidere la ricerca unversitaria.
Si dice che gli insegnanti abbiano troppe vacanze, che ne pensa?
Il lavoro intellettuale non si può quantificare o conteggiare. Tra i famosi otium e negotium non c’è soluzione di continuità. Un insegnante non deve essere valutato in base alle ore che fa di lezioni frontali. Chi le prepara? E il tempo che uno ci mette a prepararle chi lo conteggia?
Eh, chi lo conteggia?
Nessuno lo può conteggiare, appunto. Ma si rende conto che col sistema assurdo dei crediti formativi all’università si pretende di conteggiare il tempo che ci vuole a imparare un certo libro? Magari un libro di cento pagine io lo posso imparare in due ore e lei in mezz’ora. Abbiamo un sistema di valutazione che mortifica la diversità tra gli esseri umani. Valutare in base alle ore presunte è una solenne sciocchezza. Questa è la vera perversione che sta facendo danni enormi, e ne farà sempre di più.
Va per la maggiore un modello culturale, un paradigma tecnico-scientificizzante, 2.0, 3.0, 4.0 secondo cui il passato è qualcosa di evitabile. E’ inutile. Sono “nevi dell’anno scorso” come diceva Francois Villon. Ecco, professor Settis: a cosa serve il passato?
Il passato delle comunità, cioè la Storia, serve esattamente alla stessa cosa a cui serve il passato dell’individuo. A quelli che dicono che il passato non serve a nulla vorrei proporre di essere sottoposti all’espianto del proprio cervello, in modo che non sappiano più chi sono, chi sono i genitori, cosa hanno fatto prima. Il nostro presente, le parole che usiamo anche per fare conversazione, ora, vengono dal nostro passato. Anzi da un passato che non è solo il nostro: noi due in questo momento stiamo parlando in una forma molto modificata di latino. La realtà è costruzione del futuro nel presente usando ingredienti che vengono dal passato. Se ignoriamo questo siamo culturalmente morti.
Il passato non è nostalgia o atteggiamento reazionario, ma è una forza critica per non essere schiacciati dalle ideologie, per non finire come “generazioni di neoprimitivi” di cui cantava Battiato in Shock in my town?
Pierpaolo Pasolini usava una formula bellissima: «La forza rivoluzionaria del passato». E’ un serbatoio di possibilità, di idee. Capiamo che c’erano in Toscana delle città stato, e a un certo punto Firenze si è imposta ed è diventa la capitale del Granducato. Ma non è impensabile che si imponessero altre famiglie sui Medici, e magari venisse fuori un granducato con capitale Siena, o Pistoia, o Pisa. Dante ha finito la Commedia ma poteva non finirla.
Trovare le possibilità inespresse in quello che è successo, per proporre qualcosa di diverso nel presente?
Il passato ci svela le alternative. E’ la possibilità di vedere il mondo sulla base di una visione laica e generosa della società.
Isadora Duncan ha inventato i suoi passi di danza guardando i dipinti vascolari greci. Lei, che non balla, ma fa l’archeologo e lo studioso, ha allestito una mostra di arte antica alla Fondazione Prada. Più che la conoscenza puntuale di una serie di procedure e strumenti già pronti serve immergersi in quello che la storia ha suggerito senza svelarlo del tutto?
Ho cercato di rispondere all’invito di Miuccia Prada con una mostra di arte antica su un tema contemporaneo: la serialità. Sono arrivati artisti contemporanei convinti che l’arte antica non potesse dire più nulla, ed erano stupiti di come queste statue ancora abbiano da dire. Usiamo in continuazione ingredienti che arrivano dal passato anche se non ce ne accorgiamo. Il passato è libertà.
«L’autopsia conferma la pista dell’omicidio politico. Lo scontro tra apparati e i tentativi di depistaggio». Articoli di Carlo Bonini e Giuliano Foschini, e Leonardo Coen, l
a Repubblica Il Fatto Quotidiano, 8 febbraio 2016 (m.p.r.)
La Repubblica
"GIULIO TORTURATO
PERCHÉ PENSAVANO FOSSE UNA SPIA
di Carlo Bonini e Giuliano Foschini
Roma. Se è vero che un corpo senza vita “parla” né più e né meno come un testimone, oggi si può dire che, nel suo martirio, Giulio Regeni abbia consegnato la chiave che porta ai suoi carnefici. E dunque che l’inchiesta della Procura di Roma sul suo omicidio possa partire da due solide circostanze di fatto. Perché sostenute entrambe delle prime conclusioni dell’autopsia eseguita nella notte tra sabato e domenica dal professor Vittorio Fineschi. La prima: le lesioni sul corpo di Giulio (compresa quella letale al midollo spinale con la frattura di una vertebra cervicale) provano che l’omicidio ha una mano e un movente politici. La seconda: nella loro raggelante crudeltà, le sevizie inflitte al ragazzo hanno un inequivocabile format dell’orrore. Proprio degli interrogatori che le polizie segrete riservano a coloro che vengono ritenuti “spie”, come nel caso di Giulio. “Colpevole”, agli occhi dello “squadrone della morte” che lo aveva sequestrato la sera del 25 gennaio, di giocare troppe parti in commedia. Ricercatore universitario, giornalista con pseudonimo per un “quotidiano comunista” (il manifesto), militante politico per la causa delle opposizioni al regime.
Lo squadrone della morte
A Giulio Regeni sono state strappate le unghie delle dita e dei piedi. Sono state fratturate sistematicamente le falangi, lasciando tuttavia intatti gli arti inferiori e superiori. È stato mutilato un orecchio. Chi lo ha sistematicamente seviziato era convinto di poter ottenere informazioni che il povero Giulio non poteva consegnare semplicemente perché non le aveva. Perché non era la “spia” che i suoi aguzzini ritenevano lui fosse. I boia hanno infierito su un inerme. Lo hanno appunto lavorato alle mani, ai piedi e quindi al tronco. Colpendolo ripetutamente al torace, alle costole, alla schiena, dove l’autopsia ha refertato numerose fratture.
La tragica fine di Giulio Regeni, qualunque sia stata la causa, ha messo in evidenza un elemento nascosto della nostra politica nei confronti dell’Egitto: l’imbarazzo. Il presidente della Repubblica ha auspicato «piena collaborazione delle autorità egiziane» parlando di «preoccupante dinamica degli avvenimenti» e di «crimine così efferato, che non può rimanere impunito». Eppure le autorità egiziane in quel momento qualificavano l’episodio come “incidente stradale”. Evidentemente il nostro Presidente non credeva alla versione ufficiale. Il presidente del consiglio ha manifestato i suoi dubbi chiedendo che fosse «dato pieno accesso ai nostri rappresentanti per seguire da vicino tutti gli sviluppi delle indagini». Cosa che di solito si richiede alle repubbliche delle banane.
Il manifesto, 7 febbraio 2016 (m.p.r.)
Scene raccapriccianti: decine di migliaia di siriani in fuga da Aleppo dove infuria la guerra sbattono contro la frontiera turca sbarrata per decisione del governo di Ankara. E ora la Turchia vuole costruire un muro - l’ennesimo - nell’unico tratto di frontiera a nord di Aleppo non sotto il controllo dell’Isis.
I 3 miliardi di euro concessi dall’Unione europea alla Turchia per bloccare i profughi non potevano trovare davvero un migliore impiego! L’unico intervento deciso dalla Unione europea per i profughi ha avuto l’esito che si poteva facilmente immaginare.
Il sultano Erdogan, dopo aver foraggiato l’Isis con soldi, armi e combattenti in arrivo dal Golfo e dall’occidente e aver contrabbandato il petrolio estratto nello «stato islamico», per poi aderire alla coalizione anti-Isis ad obtorto collo – non poteva sottrarsi essendo membro della Nato – ma solo per bombardare i kurdi, ora può finire l’opera, riducendo i profughi a topi in trappola, con i soldi dell’Unione europea.
Si continuano a creare mostri che sfuggono di mano, l’elenco è lungo da Osama bin Laden fino ad al Baghdadi.
È paradossale che l’Europa offra ora sostegno politico e finanziario ad Ankara, dopo aver continuamente rinviato l’entrata della Turchia nella Ue a causa della violazione dei diritti umani, proprio nel momento in cui il regime autoritario di Erdogan mostra il peggio di sé (è il Paese con il maggior numero di giornalisti in carcere, alcuni dei quali rischiano la pena di morte), ha ripreso il massacro dei kurdi e non solo in Turchia, ha ingaggiato un braccio di ferro con la Russia - trovando uno zelante contendente in Putin -, vuole costruire un muro in Siria con il miraggio di occupare una fascia di sicurezza oltre frontiera.
Una scelta scellerata che ricadrà sulle nostre coscienze – se ce ne sono rimaste – perché non tutti i profughi potranno morire di fame e di stenti, non tutti i bambini potranno essere lasciati annegare in mare, il fascismo che serpeggia in Europa e nel MediO Oriente finirà per provocare una ribellione che travolgerà i benpensanti, gli indifferenti e i razzisti.
A quel punto l’Europa, se ancora esisterà, dovrà scegliere da che parte stare, se diventare un luogo di accoglienza e di convivenza di popoli con culture diverse o arroccarsi in un fortino nel deserto (le previsioni climatiche già vanno in questo senso) in attesa dell’arrivo dei tartari. Che arriveranno dopo aver abbattuto tutti i muri. Allora forse chi sopravviverà riproverà quella sensazione vissuta nel 1989 con l’abbattimento del muro di Berlino. Un evento storico irripetibile, che però non ha lasciato traccia.
«A tutti i miei amici italiani dico che questo è ciò che affrontiamo ogni giorno in Egitto, e che purtroppo abbiamo migliaia di Giulio egiziani. Per favore, insistete nella ricerca della verità e delle responsabilità dei colpevoli, per darci la speranza che un giorno, insieme, potremo restituire i loro diritti a tutti i Giulio».
La Repubblica, 7 febbraio 2916 (m.p.r.)
Amici del ricercatore ma anche persone che non lo avevano mai conosciuto al sit in davanti all’ambasciata italiana “Era uno di noi, non possiamo farci fermare dalla paura”
“L’HANNO UCCIO A BOTTE AVEVA IL COLLO SPEZZATO”
LA MORTE DOPO TRE GIORNI IN MANO AGLI AGUZZINI
di Carlo Bonini e Giuliano Foschini
Roma. Lo hanno ucciso spezzandogli il collo. Lo hanno colpito ripetutamente, accanendosi e fratturando le ossa in tutte le zone del corpo fino a quando a cedere non è stata la vertebra cervicale. Non è chiaro se perché investita da un oggetto contundente o perché divelta con una rotazione improvvisa della testa oltre il suo punto di resistenza. Poco dopo la mezzanotte si solleva l’ultimo velo sull’orrore di cui è stato vittima Giulio Regeni. Perché solo dopo mezzanotte è cominciata, davvero, l’inchiesta sull’omicidio del giovane ricercatore italiano. Dopo oltre cinque ore l’autopsia disposta dalla procura di Roma chiarisce infatti i primi e cruciali punti di un’indagine dove di “congiunto”, allo stato, sembra esserci solo l’enfasi retorica espressa nelle dichiarazioni ufficiali del regime di Al-Sisi. E del resto, che questo primo atto istruttorio sia stato affidato al professor Vittorio Fineschi, direttore del dipartimento di medicina legale de “La Sapienza” e, da dieci anni, coraggioso e ostinato perito di parte nel processo per la morte di Stefano Cucchi, dice molto dell’approccio con cui la Procura abbia deciso di affrontare la vicenda.
Chi sono le ragazze e i ragazzi che da tutto il mondo, come Giulio Regani, inviano le loro testimonianze e informazioni al
manifesto, e perchè sono un po' speciali. Il manifesto, 7 febbraio 2016, con postilla
Non è un caso che vittime della barbarie politica del nostro tempo siano così spesso persone che scrivono e vogliono scrivere dall’estero per il manifesto. Se si eccettua Giuliana Sgrena, che era ed è giornalista, e ha subìto la drammatica vicenda che conosciamo, giornalisti non erano né Vittorio Arrigoni, ucciso a Gaza dopo una consolidata collaborazione, né Giulio Regeni che aveva appena cominciato ad avvicinarsi al manifesto che considerava il suo «giornale di riferimento in Italia».
È perché - con le eccezioni dei nostri Anna Maria Merlo, Michele Giorgio, Luca Celada, Giulia d’Agnolo Vallan, Geraldina Colotti (senza dimenticare collaboratori «storici» come Roberto Livi) – quasi tutti gli altri autori dei tanti reportage dall’estero che leggete sul manifesto spesso sono «volontari» del giornalismo, giovani (quasi tutti) che nei paesi di cui scrivono vivono perché titolari di una borsa Erasmus, o perché dottorandi e ricercatori, oppure perché cooperanti impegnati con qualche Ong.
Con tutto il rispetto per i miei colleghi iscritti all’Ordine, spesso bravissimi, debbo dire che il lavoro di questi nostri «inviati» diversi ha una qualità speciale: perché è frutto di una quotidiana immersione nelle società in cui vivono e che, proprio per via di questa immersione, riescono a dare, oltreché notizie, il senso profondo del vissuto che solo può venire dalla quotidianità di rapporti umani, di lavoro così come di amicizia, di ambienti lontani da quelli specificamente politico-istituzionali. Lo stesso Simone Pieranni, una delle colonne della redazione esteri, approdato nella redazione centrale ormai da un paio d’anni, è arrivato qui dopo esser stato in Cina per ben otto anni come ricercatore e freelance.
Si potrebbe dire che la povertà (finanziaria) del nostro giornale, acuisce da sempre l’ingegno: l’impossibilità di avere veri inviati e corrispondenti professionisti ci ha offerto una risorsa che, senza vana gloria, oserei dire che fa del servizio esteri de il manifesto uno dei migliori esistenti.
Non si tratta, intendiamoci, di «precari sfruttati dall’orrido padrone» che sarebbe la cooperativa.
Perché loro stessi non si sentono giornalisti, né spesso hanno alcuna intenzione di intraprendere questo mestiere. Sono persone cui piace socializzare con chi è restato in Italia quello che, di brutto e di bello, scoprono nel mondo; che è poi la ragione per cui sono andate ad esplorarlo.
Chi però ci aiuta in giro per il globo è naturalmente più esposto ai rischi delle repressioni locali, come lo sono i cittadini «indigeni» con cui hanno stretto rapporti, di cui finiscono per condividere la sorte.
Il caso di Giulio Regeni ne è la drammatica prova.
Tanto più drammatica se si pensa che Giulio era perfettamente consapevole dei rischi cui andava incontro scrivendo di una questione delicatissima come quella della condizione operaia in Egitto dove, pochi lo ricordano, proprio da una inedita ma assai estesa ondata di scioperi non ammessi partì, già molti anni fa, la prima ribellione al regime militare e liberista del Cairo. Ce lo dicono le sue mail, in cui chiedeva, per precauzione sua e dei suoi compagni, di firmare con uno pseudonimo.
Purtroppo le precauzioni non sono bastate. Abbiamo dato sul giornale, col suo vero nome, solo dopo la sua morte la corrispondenza che ci aveva mandato. Ormai ogni precauzione era inutile, e sarebbe stato assurdo non dire al mondo perché Giulio era morto, una testimonianza dovuta al suo coraggio e a quello di tutti coloro che operano nelle difficilissime condizioni in cui vive tanta parte del mondo.
Lo dovevamo a Giulio Regeni, non solo perché questo suo scritto è la prova più lampante del carattere tutto politico di un assassinio che le autorità egiziane cercano di spiegare altrimenti, ma per testimoniare, più in generale, dell’importanza del ruolo svolto da tanti ragazzi che in paesi lontani e difficili non si rassegnano a chiudersi nelle loro private faccende ma si danno da fare per contribuire a cambiare il mondo.
postilla
Ha perfettamente ragione Luciana Castellina nel mettere in evidenza la particolare qualità delle ragazze e dei ragazzi del manifesto. Ma scaverei un po' più a fondo in questa giusta riflessione. Io penso che questi "inviati speciali" condividono con non molti altri italiani una grande prerogativa: quella di essere liberi. Ci sono molti, credo moltissimi italiani che, per conoscenza diretta perchè spesso legata al lavoro che fanno, vengono a sapere di cose storte: decisioni sbagliate che qualcuno al di sopra di loro ha preso e sta per prendere. Magari s'indignano, ma sottovoce. Perchè? perchè in Italia è diventata estesissima l'area del ricatto, e sempre più limitata l'area della protezione. Spesso le condizioni di vita rendono invalicabile quel limite che divide il silenzio dal coraggio, altre volte subentra un'altra calamità dei nostri anni: il fatto che decenni di martellamento abbiano plasmato un nuovo senso comune: la difesa miope dell'IO ha sopraffatto l'attenzione lungimirante all'altro, e soprattutto al NOI.
Il manifesto, 6 febbraio 2016 (m.p.r.)
La nuova frontiera della privatizzazione dei servizi pubblici locali si basa sul mantra dell’economia di scala: servono pochi grandi player nazionali per gestire acqua, rifiuti, energia e gas. In realtà, se si ragionasse logicamente e non per teoremi indiscutibili, si capirebbe come l’economia di scala abbia una sua motivazione, laddove la si interpreti nel suo reale significato: in un dato territorio e per una data attività, un certo dimensionamento geografico e territoriale della stessa consente, attraverso le sinergie intrecciabili, la riduzione degli sprechi.
L’economia di scala ha tuttavia dei limiti, legati alla particolarità dell’attività in oggetto, superati i quali si trasforma in diseconomia; solo per citarne alcuni, con importanti conseguenze sulla produttività complessiva: il costo della comunicazione, il peso (e gli stipendi) del management, il costo del controllo e dell’asimmetria informativa, il peso della diminuzione del senso di appartenenza dei lavoratori.
Ma, aldilà delle summenzionate cause di possibile diseconomia, in che senso la crescente dimensione aziendale consente una miglior gestione del servizio idrico, dell’igiene urbana e dei servizi energetici? Se guardiamo alla realtà, solo ed esclusivamente dal punto di vista economico-finanziario, relativo al fatto che la maggior dimensione aziendale rende più conveniente l’accesso al credito sul mercato bancario (e, anche questo, dovuto esclusivamente ai limiti volutamente posti dal patto di stabilità e dal pareggio di bilancio all’intervento pubblico).
Analizziamo la gestione dei rifiuti: in una logica di politiche basate sulle 4 R (Riduzione, Riciclo, Riuso e Recupero), la territorialità diventa un elemento dirimente, poiché necessita della partecipazione attiva e in prima persona di ogni abitante di un dato territorio.
In questo caso, la dimensione adeguata è esattamente quella comunale, e ogni aumento di dimensione serve unicamente ad anteporre la logica, ben più remunerativa per le lobby finanziarie, dello smaltimento a valle -attraverso discarica o incenerimento- di una risorsa, che invece può essere restituita, con vantaggi ambientali ed economici, alla collettività.
Anche per la gestione dell’acqua, la dimensione territoriale è dirimente: in questo caso, l’ideale è la dimensione integrata del bacino territoriale ottimale, da intendersi con criteri idrogeologici ed orografici e non come dimensione amministrativa o, peggio ancora, economico-finanziaria.
Il comparto dell’energia è oggi quello più riconducibile alla necessità di un’economia di scala: con un modello energetico ancora legato all’utilizzo prioritario dei combustibili fossili e, anche per quanto riguarda il settore delle energie rinnovabili, alla logica dei grandi impianti concentrati e delle grandi reti di distribuzione, la questione dell’economia di scala, legata all’approvvigionamento delle materie prime, è difficilmente aggirabile. Ma, anche in questo settore, tutto dipende dalle scelte politiche: il cambiamento climatico rende ormai dirimente, non solo l’abbandono immediato della politica energetica basata sui combustibili fossili per un nuovo modello basato sulle energie rinnovabili, ma anche l’avvio di una nuova produzione di energia decentrata e territorializzata, sino all’autoproduzione diffusa.
Se i ragionamenti sopra esposti hanno un significato, occorre dunque prendere atto di come la necessità di modelli di grande dimensione industriale per la gestione dei servizi pubblici locali risponda esclusivamente ad una logica finanziaria, che, d’altronde, è quella che sottende tutte le azioni dell’attuale governo.
Un graffiante e argomentato documento femminista di Alessandra Bocchetti, Ida Dominijanni, Bianca Pomeranzi, e Bia Sarasini squaderna questioni drammaticamente aperte delle civiltà contemporanee.
L'internazionale online, 3 febbraio 2016
Una mano nera si allunga sotto le gambe inguainate in un collant bianco di Angela Merkel fino a toccarle il sesso; la parte superiore del suo corpo è ancora coperta da una delle sue ben note giacche colorate, ma ormai, questo vuole dire l’immagine, la regina è nuda, messa in scacco dall’intrusione molesta dell’uomo nero. È il disegno pubblicato dal quotidiano tedesco Süddeutsche Zeitung a commento e sigla dei fatti di Colonia. Al sessismo degli “uomini neri” che la notte di Capodanno hanno molestato le “donne bianche”, gli “uomini bianchi” rispondono con lo stesso sessismo contro la loro cancelliera.
Risposta oscena ma, nel suo estremismo, veritiera. Che avesse ragione Michel Houellebecq, nel suo pur assai misogino Sottomissione? Gratta l’odio dei maschi europei verso gli invasori islamici, e ci troverai l’invidia. L’invidia per la sottomissione delle donne di cui gli invasori, al contrario degli invasi, possono ancora godere. Un’invidia esattamente speculare a quella degli invasori per la libertà sessuale femminile di cui possono disporre gli invasi, facilmente intuibile sotto quel “desiderio d’occidente” che ha spinto gli aggressori della notte di Colonia a mimare a modo loro, violentemente, l’allegro e alcolizzato godimento che impazza in quella come in tante altre città europee a capodanno.
Dall’11 settembre in poi, dovremmo averlo capito una volta per tutte dalla scenografia hollywoodiana di quei due aerei che infilzarono le torri gemelle e stuprarono Manhattan (anche allora, guarda caso, si ricorse alla metafora dello stupro), gli atti di violenza e di terrore che in occidente vengono interpretati come se provenissero dall’altro mondo sono intrisi di tracce, tecniche, usi e costumi che provengono dal nostro. Altro che il ritorno delle tribù che qualcuno ha voluto vedere in azione a Colonia: la “superiorità” dell’occidente è dura a morire, e se non fa più ordine nel mondo reale detta ancora legge nell’immaginario globale. Gli “altri” vi si specchiano, anche quando le fanno violenza.
Fatti
Nel gioco degli specchi i fantasmi, si sa, sono di casa. E forse è per questo che sulla piazza di Colonia hanno preso forma e consistenza molto più rapidamente dei fatti reali. Sui quali c’è ancora, un mese dopo, parecchia nebbia. Di che cos’è accaduto quella notte sappiamo l’essenziale, ma parecchi particolari non secondari non li conosciamo e probabilmente non li conosceremo mai.
Un branco di giovani uomini, forse cinquecento forse mille, “di aspetto arabo e nordafricano”, ubriachi e assembrati dentro la stazione, si è riversato a gruppi nella piazza del Duomo circondando, derubando, palpeggiando e molestando pesantemente un centinaio di donne bianche perlopiù tedesche, da sole o in coppia con un’amica o con un uomo o in gruppo, il tutto nella completa passività della polizia che è stata a guardare senza rendersi conto di quello che stava accadendo, e comunque incapace di impedirlo.
Le ricostruzioni, basate sulle testimonianze femminili e sui rapporti della polizia medesima, descrivono dettagliatamente le molestie e le ruberie subite dalle donne; alcune vittime raccontano di aver temuto di rimetterci la pelle. Restano però aperti molti buchi. Chi erano, da dove provenivano, come erano arrivati lì quegli uomini, e perché li si era lasciati riunire nella stazione? Se erano tutti “di aspetto arabo e nordafricano”, come mai tra i 31 fermati per aggressione e rapina figurano anche uno statunitense e tre tedeschi? Erano anche loro nordafricani trapiantati negli Stati Uniti e in Germania, o la loro presenza segnala che bisogna andarci piano con le identificazioni fatte sulla base del colore della pelle?
Tra quei 31 fermati, 19 sono richiedenti asilo, e di questi uno solo è sospettato di molestie; secondo una testimonianza raccolta dal New York Times, inoltre, quella notte una turista statunitense è stata salvata da un cordone di siriani richiedenti asilo; qualche giorno dopo alcune centinaia di rifugiati siriani hanno manifestato contro la violenza, il razzismo e il sessismo. Questi numeri giustificano la messa in stato d’accusa della politica sui rifugiati di Merkel?
Ancora. La polizia, pur in stato di allerta contro il rischio di attentati, si è rivelata del tutto impotente a contenere e disperdere il branco di aggressori, e ha taciuto l’accaduto per quattro giorni, come pure la tv pubblica tedesca. Questa impotenza e questo silenzio si devono a una pruderie “politicamente corretta” a favore dei migranti, come s’è urlato in Germania e in Italia? O piuttosto alla sottovalutazione della violenza sessuale in un paese dove una donna su tre dice di averla subita da uomini che per il 70 per cento non sono arabi ma tedeschi, e in cui la notte di capodanno, come durante l’Oktoberfest, si chiude un occhio di fronte a qualche palpatina?
Infine ma non ultimo: violenze analoghe si sono verificate in contemporanea, quella stessa notte, in altre città tedesche e in Svezia, in Finlandia e in Austria, e questo fa legittimamente sospettare che si sia trattato di una provocazione concertata – un sospetto che a un certo punto è diventato una certezza, sparata sui giornali in prima pagina in Germania e in Italia, per poi essere smentita il giorno dopo. Possibile che i potenti mezzi dell’intelligence tedesca ed europea non sappiano rispondere sì o no a questo sospetto, pure cruciale per valutare l’entità dell’accaduto? Di nuovo: minimizzano per fare un piacere alla politica d’integrazione di Merkel, come sostiene l’opinione di destra? O perché considerano l’accaduto bagatelles pour dames, com’è lecito supporre?
Fantasmi
Non avremo mai risposta a queste domande, per la ragione molto semplice che la notte di Colonia ha ottenuto l’effetto che doveva ottenere a prescindere dallo svolgimento dettagliato dei fatti. E l’effetto consiste in una rapida e potente mobilitazione dell’immaginario europeo, nonché di quello islamico, in materia di sesso e razza: due fattori che quando si intrecciano, e oggi sulla scena globale si presentano sempre intrecciati, sono capaci di produrre miscele esplosive.
Sul versante islamico, ci auguriamo che non faccia testo la convinzione dell’imam di Colonia che le donne, quella notte, le molestie se le sono cercate, coperte com’erano più di profumo che di abiti: ma certo le sue dichiarazioni “estreme” la dicono lunga sul regime del dicibile che autorizza quella che dovrebbe essere una guida spirituale a istituzionalizzare la segregazione femminile (e del resto, come scandalizzarci? Quante volte il “se l’è cercata” giustifica tuttora, da noi, la violenza sessuale?).
Sul lato occidentale, l’antico fantasma coloniale della mano nera che violenta la donna bianca, ben rappresentato dal disegno del Süddeutsche Zeitung, è tornato a materializzarsi, aggiornato, in un’Europa ossessionata da frontiere vacillanti, migrazioni incontenibili, calo della natalità, pericolo terrorista, declino economico, impotenza neoliberale, fallimento politico.
L’aggiornamento del fantasma coloniale significa, in questo quadro, il suo automatico reclutamento nel presunto “scontro di civiltà” in corso. L’uomo nero diventa l’islamico che inferiorizza le donne, proprie e altrui, e attraverso l’attacco alle donne bianche attacca l’intera civiltà occidentale, che invece le donne le ama, le emancipa, le libera, le tutela con i diritti, le presidia con i “suoi” uomini, pronti a scendere in campo a difesa delle “loro” donne.
Ne consegue l’arruolamento delle donne nella difesa della civiltà occidentale suddetta, con relativa messa all’indice delle disertrici: quelle che ad arruolarsi non ci stanno, quelle che sulla civiltà occidentale e sul suo amore per le donne nutrono qualche dubbio, quelle che la violenza contro le donne la vedono anche in occidente e non solo in Medio Oriente, quelle che sulla difesa dei “loro” uomini avanzano qualche sospetto, quelle che nei confronti delle donne musulmane non ergono il muro dei diritti conquistati o la montagna dei vestiti comprati agli ultimi saldi, ma lanciano il ponte di una tessitura comune della libertà femminile.
Noi femministe, in sostanza, iscritte d’ufficio al fronte nemico dell’ipocrisia “politicamente corretta” verso il fanatismo islamico. Salvo ritrovarsi poi, i nostri accusatori, con le statue del Campidoglio coperte in omaggio al presidente iraniano Rohani per decisione di stato o di governo.
Streghe
“Dove sono le femministe?”. Quando ancora le notizie da Colonia arrivavano goccia a goccia, è partita la caccia alle streghe. Trovato il colpevole numero uno, l’uomo nero, la grancassa mediatica, maschile e femminile, è partita alla ricerca della colpevole numero due, la femminista bianca. Rea di tacere, di nascondersi, di non condannare, di colludere con i migranti e con la sinistra che difende (difende?) i migranti, di rompere le scatole ai “suoi” uomini su qualunque quisquilia come fosse una barbarie e di chiudere gli occhi sulle nefandezze dei barbari “veri”.
Le femministe, nel frattempo, a Colonia erano già per strada, a manifestare contro il sessismo e contro il razzismo insieme. E ovunque, in Europa e fuori dell’Europa, erano all’opera per fare il contrario dei talk show e della stampa generalista: capire una situazione nuova e complicata e interpretarla non istericamente, due cose che l’isteria massmediatica non contempla.
E parlavano ovunque potessero, cioè fuori del circuito ufficiale dell’informazione che non le interpella in modo da poterle accusare di stare in silenzio, di essersi dileguate, di non esistere, di avere perso. Parlavano e dicevano quello che ovunque, a est a ovest, a nord e a sud, vanno dicendo dall’11 settembre in poi: che non si lasciano arruolare in nessuno scontro di civiltà per la buona ragione che le civiltà in questione sono entrambe marcate dal patriarcato, entrambe fratturate al loro interno dalla contraddizione fra i sessi ed entrambe segnate, positivamente, dal conflitto tra i sessi innescato dalle donne.
Ragion per cui la trave nell’occhio dell’altro non ci esime dal guardare la pagliuzza nel nostro. E l’orgoglio per le nostre conquiste di donne occidentali non ci esime dal riconoscere le battaglie di libertà delle donne non occidentali.
Monopòli
Non c’è il monopolio islamico della violenza e dell’inferiorizzazione femminile. E non c’è nemmeno il monopolio occidentale e democratico della libertà femminile.
Le molestie della notte di Colonia evocano a tutte noi situazioni molto familiari. Gli sguardi eccitati e fra loro complici degli uomini che tuttora si ritrovano da soli nei bar dei nostri paesi. I branchi di giovani maschi che molestano le studentesse, e talvolta le stuprano, nelle nostre scuole. Il senso di insicurezza e vulnerabilità che ci accompagna specialmente la notte per strada, come una seconda pelle. I racconti di stupri, violenze, femminicidi che riempiono le pagine di cronaca dei nostri giornali. I fraintendimenti maschili sulla disponibilità sessuale femminile che riempiono la posta del cuore dei nostri settimanali.
Potremmo continuare ma non serve: la violenza di uomini contro le donne è, purtroppo, uno dei pochi esempi di comportamento universale che il mondo globale ancora conosce. E non diminuisce ma tende addirittura ad aumentare nei paesi dove l’emancipazione femminile è più consolidata. La hybris maschile non si ferma davanti ai diritti costituzionalmente garantiti, alla parità di genere, alla cittadinanza, all’attività lavorativa e al protagonismo politico delle donne: al contrario, sembra che se ne alimenti, forse perché ne ha paura.
Questo significa che non c’è nessuna parentela automatica, nessun rapporto di causa-effetto tra la civiltà occidentale e la libertà femminile. La civiltà occidentale e gli stati moderni nascono, ci tocca ricordarlo con Freud e Hobbes, da un patto tra uomini violenti, che si emancipano dall’autorità paterna e se ne spartiscono l’eredità escludendo le donne dalla vita pubblica e sottomettendole in quella privata. Nel corso della modernità, la libertà non è stata regalata alle donne dalla civiltà occidentale: sono le donne ad averla conquistata con le loro lotte anche contro la civiltà occidentale.
Le democrazie contemporanee registrano a fatica questa conquista, traducendola e spesso tradendola nel linguaggio della parità e dei diritti. Ma tra la libertà femminile e gli ordinamenti occidentali resta aperta una tensione: la libertà femminile resta affidata in primo luogo alle donne stesse, alle loro lotte e alla loro autonomia. Men che meno è possibile identificare la libertà femminile con la libertà di mercato o con un non meglio precisato “stile di vita occidentale”, come l’ideologia neoliberale martellante ci invita a fare dalle colonne dei principali giornali italiani.
Vestirsi o andare al cinema e in discoteca a proprio piacimento sono certo cose piacevoli e irrinunciabili, ma possono sottintendere condizioni di dipendenza dal mercato, dal denaro, da canoni imposti, dallo sguardo altrui che hanno poco a fare con la libertà esistenziale e politica che abbiamo guadagnato con il femminismo. L’occidente non è l’Eden della libertà femminile: ed è solo assumendo questa posizione critica nei confronti della “nostra” civiltà che possiamo sporgerci su altri mondi, o sull’impatto di altri mondi con il nostro.
Differenze
Quando diciamo o scriviamo queste cose, alcune amiche ci rimproverano di usare il patriarcato come categoria universale indifferenziata, finendo col fare di ogni erba un fascio senza vedere che il patriarcato si intreccia con differenti sistemi di dominio, si cristallizza in differenti gradi di oppressione femminile e di sopraffazione maschile, domanda differenti strategie di lotta. Non è così. Siamo ben consapevoli, tristemente consapevoli, che oggi la radicalizzazione politico-religiosa peggiora la vita delle donne nei paesi islamici, legittimando su base ideologica il dominio maschile.
Siamo consapevoli che la violenza sulle donne è diventato per il gruppo Stato islamico e per Boko haram uno spietato carosello pubblicitario, che sulle donne di piazza Tahrir si è scaricata la frustrazione maschile di una rivoluzione perdente, che in paesi come l’Afghanistan taliban le donne sono di nuovo costrette a una segregazione che sembrava essere stata superata. E sappiamo di essere inadeguate di fronte a questi come ad altri effetti delle guerre e del disordine mondiale di oggi, perché le guerre impediscono in radice quella pratica di relazione con l’altra che nella politica delle donne è irrinunciabile e che l’indignazione e gli attestati di solidarietà, per quanto urlati, non possono sostituire.
Sappiamo altrettanto bene che le migrazioni non risolvono ma moltiplicano il problema dei rapporti fra i sessi. Ci si attribuisce oggi l’onere della prova che per noi la difesa della libertà femminile viene prima del buonismo sulle politiche dell’accoglienza. Rimandiamo questa richiesta ai suoi mittenti. Non siamo state certo noi a parlare, per anni, di migranti e di rifugiati in modo neutro, come se la condizione di migranti o di rifugiati cancellasse la differenza sessuale. Non la cancella, e non ci volevano i fatti di Colonia per accorgersi che l’accoglienza e la cosiddetta integrazione non sono due pranzi di gala. Non ci volevano i fatti di Colonia per accorgersi che norme e consuetudini delle comunità straniere fanno quasi sempre a pugni con le nostre, che le difficoltà di integrazione spesso le irrigidiscono ulteriormente inasprendo la segregazione femminile al loro interno, che le donne sono sempre, in pace come in guerra, posta in gioco di uno scambio sociale che gli attriti culturali rendono arduo e talvolta impraticabile.
Né ci volevano i fatti di Colonia per realizzare – ohibò – che una politica dell’accoglienza che non tenga conto della differenza sessuale è una cattiva politica. Laddove si creano ghetti di soli maschi, che siano islamici o no, il pericolo del branco è sempre in agguato. Laddove si organizzano e si tollerano tratte femminili, la prostituzione e il suo sfruttamento sono garantiti. E tuttavia, ci sarà pure da riflettere di fronte al fatto che è dal versante maschile dei migranti che emerge il problema di una minaccia violenta alla convivenza sociale.
Sono più uomini che donne a reagire aggressivamente all’urto dell’impatto con i paesi d’accoglienza. E sono più donne che uomini – si pensi alle migliaia di badanti che vivono e lavorano in Italia, o alle donne che lavorano nei centri d’accoglienza o nella mediazione culturale o nell’insegnamento delle lingue ai migranti – a occuparsi della cura della vita e delle relazioni fra mondi diversi, continuando l’opera femminile della civiltà che la violenza maschile nasconde e disfa.
Questa almeno è una buona notizia; e non è l’unica, se solo guardiamo a quello che sta accadendo considerando le donne come soggetti attivi, e non come oggetti passivi, del cambiamento in corso.
Cori noir
È bastata l’aggressione di una notte a Colonia e nelle altre città coinvolte per trascinarci in un baleno tutte, occidentali e nordafricane, nella casella delle vittime designate, pericolanti e perdenti del supposto “scontro di civiltà” in atto. Ma la vittimizzazione delle donne è una delle più frequenti strategie del loro addomesticamento: serve a nascondere e a deprimere la soggettività femminile e le pratiche sociali, politiche, artistiche in cui si esprime.
Ovunque oggi, in un quadro planetario attraversato da faglie, guerre e mutamenti inediti, le donne lottano per la propria libertà, ovunque aprono conflitti con l’altro sesso, ovunque escono dagli schemi imposti, ovunque tradiscono le ingiunzioni normative sulla loro esistenza, ovunque intrecciano relazioni con donne di cultura e provenienza diverse. Questo “ovunque” vale da mezzo secolo in qua, lo ricordiamo a quanti sui mezzi d’informazione ci danno per morte e per sconfitte ogni volta che possono, nelle democrazie occidentali. Ma vale oggi, in primo luogo, per il mondo musulmano.
Lo sappiamo da analiste competenti, che inascoltate ci spiegano le differenze, le articolazioni, le combinazioni tra legge religiosa e leggi statuali interne a quel mondo, e le connesse differenze nella condizione, nella soggettività e nella rivolta femminili. Lo sappiamo dalle migranti che incontriamo nella nostra quotidianità, dalle storie che ascoltiamo nei centri antiviolenza a cui le più sfortunate si rivolgono per trarne la forza di ribellarsi a un padre o a un marito o un fratello, dalle testimoni sopravvissute alle guerre, dalle protagoniste delle rivolte.
Lo sappiamo dai racconti delle scrittrici, dalle opere delle artiste, dai film delle registe, dal pensiero delle filosofe, dalle letture del Corano delle teologhe. E sappiamo anche che la strada della libertà delle donne musulmane non passa sempre né necessariamente per la loro occidentalizzazione, vale a dire per un’emancipazione laica, giuridicamente assistita dalla sintassi dei diritti e dalla retorica della parità, e tanto ribelle all’ingiunzione a velare il corpo femminile quanto obbediente all’opposta ingiunzione a scoprirlo.
Ci dissociamo perciò nettamente dal coro noir che ha accompagnato sui mezzi d’informazione italiani ed europei i fatti di Colonia. La voce delle donne, quando la si ascolta e non la si mette a tacere, racconta una realtà ben più articolata di quella di una regressione generalizzata al patriarcato tribale degli uomini ambrati e barbuti che dal Medio Oriente allunga la sua ombra minacciosa sulle donne europee. La diagnosi andrebbe piuttosto ribaltata.
C’è una generalizzata crisi del patriarcato che ovunque, a ovest e a est, a nord e a sud del mondo perde il credito femminile. Con buona pace delle fantasie alla Houellebecq, la sottomissione femminile non è più garantita né sotto le insegne dell’islam né sotto quelle cristiane o di altre religioni. E la libertà femminile non passa solo per le magnifiche sorti e progressive della democrazia laica.
Nel mondo globale la legge del padre, che nella modernità ha assicurato il suo supporto simbolico agli ordinamenti politici e statuali, non fa più ordine. In questo disordine si aprono molti varchi per atti di violenza maschile nostalgici e reazionari, ma se ne aprono altrettanti per costruire pratiche di libertà femminile e reti di relazione tra donne, che tradiscono l’appartenenza a questa o quella civiltà e ai rispettivi feticci e inventano forme inedite di politica basate sullo scambio, il conflitto e la mediazione tra esperienze, storie, radici, orizzonti di senso differenti.
Bocche velate
L’ascolto dell’altra e dell’altro, della sua esperienza e della sua storia, delle sue esigenze e dei suoi desideri, dei suoi traumi e delle sue risorse, è una condizione necessaria per ritessere la trama della civiltà in una direzione opposta allo scontro tra le civiltà. Non ci aiuta e anzi ci è di ostacolo, in questo, il frastuono della macchina mediatica italiana, tutta programmata non per ascoltare ma per urlare.
Abbiamo già detto della caccia alla strega femminista che è scattata subito dopo i fatti di Colonia, una strega accusata, senza essere interpellata, di silenzio colpevole, di connivenza con l’ipocrisia favorevole ai migranti politicamente corretta, di usare due pesi e due misure contro gli uomini di casa sua e contro gli stranieri. Ma non è un problema che nasce a Colonia: questo schema si ripete, insopportabilmente uguale, a ridosso di qualunque evento che chiami in causa le relazioni tra i sessi. La molla che scatta è sempre la stessa, il tentativo di liquidare il femminismo e le femministe decretando che hanno perso e distorcendone o sminuendone le posizioni.
La futilità programmatica che non da oggi caratterizza buona parte del giornalismo italiano si fa, quando c’è di mezzo il femminismo, più approssimativa e grossolana. Come se parlando di donne tutto fosse lecito, come se la cronaca non avesse precedenti, come se la parola femminile non contasse niente, come se le posizioni politiche e culturali femministe non avessero il diritto alla distinzione, all’analisi, alla discussione che si riserva alla chiacchiera maschile: e soprattutto come se non esistessero nella loro autonomia, ma solo come appendici subalterne della sinistra e della destra, o comunque di schieramenti e conflitti disegnati altrove.
Un immaginario misogino, maschile e femminile, prende così il posto dell’analisi della realtà. E la delegittimazione del femminismo diventa una posta in gioco, nient’affatto secondaria, di qualunque “guerra culturale”: accompagnata, va da sé, dalla promessa che ci penseranno i “nostri” uomini, d’ora in poi, a difenderci da quello che non siamo in grado di contrastare noi.
Questa prassi corrente dei mezzi d’informazione mainstream non è meno violenta delle mani maschili che si sono infilate sotto i vestiti delle donne la notte di Colonia. E dice, torna a dire, che ogni qual volta è sotto attacco il corpo femminile, è la parola femminile il vero obiettivo, la vera minaccia, il target da abbattere: qui, nell’occidente della libertà di espressione, non lì, nel Medio Oriente delle bocche velate. Abbiamo scritto questo testo per mostrare che quella parola è viva e non si lascia silenziare.
Qui è possibile scaricare il pdf di questo articolo. Qui c’è la traduzione in inglese.
Prime adesioni: Maria Luisa Boccia, Maria Rosa Cutrufelli, Elettra Deiana, Sara Gandini, Diana Sartori, Tamar Pitch, Chiara Zamboni, Luana Zanella, Edda Billi, Maria Brighi, Paola Mastrangeli, Rosanna Marcodoppido, Marinella Perroni, Ilaria Fraioli, Carlotta Cerquetti, Giovanna Borrello, Sandra Macci, Daniela Dioguardi, Vittoria Tola, Susanna Menichini …
Riprendiamo alcuni articoli dal quotidiano che ha seguito con maggiore attenzione la tragedia che è avvenuta al Cairo, e che prosegua ancora, Articoli di Norma Rangeri, Giuseppe Acconcia, Mona Seil.
Il manifesto, 6 febbraio 2016
Egitto. Fonti di polizia in Egitto hanno riferito di due arresti legati al caso Regeni. Una nota degli inquirenti ha escluso che l’omicidio Regeni abbia riferimenti «terroristici o politici» ma «si tratterebbe di un atto criminale». Oggi alle 13 la salma arriverà a Roma
Vogliamo la piena verità sulla scomparsa di Giulio Regeni. Le autorità egiziane hanno già messo in moto la macchina dell’oblio sulla tragica vicenda del dottorando italiano, trovato morto al Cairo nel quartiere di 6 ottobre mercoledì scorso. Sono bastate le prime ricostruzioni del Capo dipartimento per le indagini generali del governatorato di Giza, Khaled Shalaby, per giustificare le ricostruzioni che hanno legittimato la pista dell’incidente stradale.
Le rivelazioni che erano emerse da una prima indagine sul corpo del dottorando friulano, effettuate dal procuratore Ahmad Nagi nell’obitorio Zeinum di Sayeda Zeinab, nel centro del Cairo, avevano fatto emergere particolari inquietanti. La stampa locale ha fatto riferimento ad un «corpo bruciato» a cui si erano aggiunte le atroci rivelazioni su segni di tortura e maltrattamenti. Questo quadro fa pensare senza dubbio ad un coinvolgimento della polizia nel fermo, scomparsa e uccisione di Giulio.
Un team di investigatori italiani seguirà le indagine al Cairo per stabilire la verità sul caso. Gli investigatori hanno fatto sapere che sarà effettuato un esame tossicologico sul corpo del giovane.
Il pm Sergio Colaiocco aveva ipotizzato il reato di omicidio volontario e avviato una rogatoria internazionale per avere dalle autorità egiziane copia degli atti compiuti dal momento del ritrovamento della salma.
Ma qui si impongono domande necessarie che sarà importante demandare all’equipe di medici che effettueranno l’autopsia italiana una volta che la salma sarà in Italia oggi alle 13. Per esempio, quando è stato ucciso Giulio? Subito dopo la scomparsa o qualche giorno dopo? Già questo potrebbe dare un’indicazione più precisa sulle cause della morte.
A quel punto bisognerebbe capire se i tagli sul corpo sono i segni di una detenzione prolungata. E quindi come è morto Giulio? Alcune ricostruzioni hanno parlato di un violento colpo alla testa.
Anche queste sono prove compatibili con le molestie che centinaia di persone comuni subiscono quotidianamente nelle carceri egiziane.
E poi ovviamente la domanda più importante è chi ha ucciso Giulio e perché lo ha fatto? Non ci sono legami certi tra la ricerca sul sindacalismo indipendente e le cause della scomparsa.
Eppure poche ore dopo la diffusione della notizia della sua sparizione, il quotidiano filo-governativo al-Ahram aveva già diffuso un identikit del giovane e degli ambienti che frequentava.
Fonti di polizia in Egitto hanno riferito di due arresti legati al caso Regeni. Una nota degli inquirenti ha escluso che l’omicidio Regeni abbia riferimenti «terroristici o politici» ma «si tratterebbe di un atto criminale».
Anche la pista della rapina finita male o dell’atto di criminalità comune sembrano un’offesa grave per la memoria di Giulio. La data del 25 gennaio è già di per sé un elemento chiaro che rende evidente la pista dell’arresto. Il dispiegamento di forze dell’ordine e la tensione era alle stelle a causa delle possibili manifestazioni.
E poi Giulio, solo perché straniero, era già passibile di fermi della polizia. Lo spiega bene su Twitter l’attivista Mona Seif, moglie di Alaa Abdel Fattah, socialista in prigione per le sue campagne contro i processi militari civili e il suo impegno anti-regime, più volte intervistato dal manifesto. «Se siete stranieri per favore non venite in Egitto. Almeno non adesso. Finché non saremo capaci di darvi un minimo di sicurezza e un trattamento adeguato da parte della popolazione e delle autorità», ha scritto Mona (v. a pagina 3 il testo integrale dell’appello). L’attivista fa riferimento proprio al clima di xenofobia instillato negli egiziani e che sarebbe alla base degli interventi sommari della polizia.
Un primo piccolo funerale egiziano si è svolto al Cairo prima della partenza della salma. È possibile che si tenga una veglia funebre a Roma nelle prossime ore.
Anche i social network si sono mobilitati per una dimostrazione di solidarietà nei confronti di Giulio Regeni chiedendo a compagni e amici di portare dei fiori ai cancelli dell’ambasciata egiziana a Roma in segno di solidarietà con il giovane. Il noto fumettista Carlos Latuff ha voluto ricordare Giulio rappresentandolo abbandonato in una pozza di sangue, assieme ad altri corpi esanimi, in un veicolo della polizia egiziana: «Un’altra vittima del regime di terrore di al-Sisi».
IL DOLORE E GLI AVVOLTOI
di Norma Rangeri
Tutto il manifesto in questo momento è accanto alla famiglia di Giulio Regeni, per condividere con i genitori il dolore di chi ha perso un figlio nel modo più crudele e violento. Un ragazzo che li rendeva orgogliosi perché studiava e univa l’impegno civile al suo lavoro di ricercatore. Una giovane persona curiosa del mondo, attenta ai problemi sociali di un paese dove il dissenso non solo non viene tollerato ma è selvaggiamente represso con il carcere, le sparizioni, le uccisioni.
Della sua profonda passione e della forte partecipazione alle vicende di quel paese è del resto piena testimonianza l’articolo che ieri abbiamo pubblicato sul nostro sito, e poi sul giornale. E’ il racconto, preciso e appassionato, di un’assemblea sindacale. Giulio spiega la difficoltà dei lavoratori del settore pubblico, la mancanza di democrazia nell’organizzazione del sindacato egiziano, e la fatica di opporsi al programma di privatizzazioni iniziato ai tempi di Mubarak in un paese ormai martoriato dalla repressione feroce di un regime sanguinario. Nel suo reportage si approfondisce l’analisi sociale e se ne ricava il giudizio politico, con la consapevolezza che tutto, libertà, lavoro e diritti, viene oggi giustificato, in quel paese, dalla guerra al terrorismo. E forse, leggendolo, la polemica nata attorno all’affrettata diffida scritta a nome della famiglia, potrà stemperarsi e trovare nella concitazione di quelle ore terribili, la sua unica, comprensibile spiegazione.
Ma nulla, purtroppo, può sfamare gli avvoltoi che hanno infierito in queste ore su Giulio Regeni. [q avvoltoi che vivono nella Rete e che lo hanno arruolato nei servizi segreti italiani coprendo la sua vita di fango, come a giustificare la sua morte [qui in calce uno degli ' avvoltoi' cui si riferisce Rangeri-ndr]. Purtroppo a questi bassifondi dell’informazione siamo abituati perché, come abbiamo scritto, siamo un giornale di frontiera che ha già vissuto sulle sue povere ma robuste spalle altri drammi e tragedie, sempre e solo legate all’impegno politico e giornalistico, al dovere di testimoniare. E così è stato anche nella terribile vicenda di questo ragazzo che aveva appena iniziato a scrivere per noi perché considerava «un piacere poter pubblicare sul manifesto», considerandolo «il giornale di riferimento in Italia», come scriveva nelle mail.
Oggi il suo corpo viene restituito al nostro paese. E mentre cominciano a emergere particolari sulle torture subite, il dittatore egiziano si mostra cortese e comprensivo verso il governo italiano messo nel grave imbarazzo di ritrovarsi il cadavere di un giovane italiano mentre discute di affari con il nostro ministro dello Sviluppo economico. L’incidente va archiviato, magari con la punizione esemplare di qualche poliziotto (si parla di due arresti). Uno di quelli indicati da Mona Seif, nota attivista dei diritti umani, autrice di un appello agli stranieri di non recarsi in questo momento nel suo paese dove «qualsiasi poliziotto di qualsiasi grado si sente in diritto di detenere e magari torturare chiunque cammini per strada».
Il caso Regeni va dunque risolto il più rapidamente possibile, così da riprendere presto le normali, anzi, le privilegiate, relazioni tra l’Egitto e l’Italia. Un punto fermo della nostra politica internazionale, una corsia preferenziale sullo scacchiere mediorientale, specialmente in vista di probabili, ravvicinati interventi militari in Libia, con il dittatore Al-Sisi schierato dalla parte giusta. Si chiama real-politik.
«Questo è un messaggio sincero: Se siete uno straniero PER FAVORE non venire in Egitto. Almeno non adesso. Non venire finché non saremo capaci di darti un minimo di sicurezza e un trattamento adeguato da parte della popolazione e delle autorità. Non venire finché i media continuano a istigare le persone, spingendole a dubitare di qualsiasi straniero incontrato per strade come se fosse una spia potenziale che cerca di distruggere il loro Paese, non venire finché qualsiasi poliziotto di qualsiasi grado si sente in diritto di detenere e magari torturare senza motivo chiunque cammini per strada, e non finché questo stato di paura/dubbio spinge ognuno a prendere le questioni nelle proprie mani.
«Non venire finché la polizia si trova ad orchestrare molti dei rapimenti, e quando non è direttamente implicata è totalmente inutile nell’opera di prevenzione dei crimini, nel proteggervi, e persino nel rivelare quanto è accaduto dopo che è accaduto.
«Per favore state lontani da questo paese che è piagato dalla morte e dall’orrore in ogni suo angolo, finché non riusciremo in qualche modo a riconquistare uno spazio comune sicuro per tutti, per quelli che vivono qui e per coloro che vengono da fuori.
«Se insistete nel venire a studiare o anche solo a visitare o esplorare l’Egitto adesso, siate pienamente consapevoli dei veri rischi che si corrono anche solo camminando per strada, anche solo esistendo.
«Mi dispiace molto per la famiglia e gli amici di Giulio Regeni.
«Noi ci siamo così abituati alle notizie quotidiane di torture, rapimenti e morti che le abbiamo quasi accettate come parte integrante delle nostre identità, un prezzo inevitabile per il nostro essere cittadini. Ma non riesco a immaginare cosa si possa provare nel perdere una persona amata per questo orrore, e in un paese così lontano da casa. Mi dispiace molto che il calore e l’entusiasmo che Giulio aveva per l’Egitto siano stati ripagati con tanto dolore e tanta crudeltà».
«L’integralismo cattolico che brandisce il cristianesimo come una clava contro i migranti musulmani. E il cedimento dei governi europei che mette in forse la stessa sopravvivenza dell’Unione».
Il manifesto, 5 febbraio 2016
«L’apostasia delle proprie radici giudaico-cristiane è la causa di tanti mali della società di oggi»: queste parole di Massimo Gandolfini, leader del family day, rivelano la vera ratio di quell’adunata: riproporre la famiglia come fonte e supporto del potere patriarcale e di tutti gli autoritarismi della nostra società con una chiamata alle armi in difesa della perduta purezza dell’Occidente. Il cattolicesimo degli organizzatori, tornato in piazza con il preciso intento di offuscare i contenuti dell’enciclica Laudato sì di papa Francesco, è quello stesso cristianesimo oggi brandito come una clava contro i migranti musulmani dai governi ungherese, polacco e ceco, dagli hooligans svedesi che danno la caccia ai ragazzini di colore e dai tanti partiti nazionalisti e razzisti che stanno prendendo il sopravvento in tutti i paesi d’Europa.
Quel sopravvento si alimenta di un cedimento dei governi dei principali paesi europei alle loro pressioni; un cedimento che ormai mette in forse la sopravvivenza stessa dell’Unione. Solo qualcuno, e solo ora, comincia a prenderne atto. Gli altri no:“Ecco come salvare le banche”, titolano i giornali; ma di come salvare i profughi che annegano o muoiono di fame, di sete e di freddo non parla nessuno: nemmeno quelli che pure raccontanole atroci condizioni a cui l’Europa sta condannando milioni di vittime di guerre, rapine e devastazioni ambientali prodotte in gran parte dalle sue politiche o dalla sua indifferenza. Eppure bisogna cominciare a chiedersi come far fronte a questa offensiva, perché le linee di resistenza sono ormai in rotta.
Una cosa deve essere chiara: per quanto dure possano farsi le politiche di riduzione delle libertà costituzionali e dei diritti sociali adottate dai governi europei, nessuno di loro risolverà il problema dei profughi, perché la politica dei respingimenti è senza futuro. Impraticabile è l’idea di accogliere solo i profughi di guerra (che sono comunque moltissimi) perché tutti gli altri (i cosiddetti migranti economici) sono nelle loro stesse condizioni: altrimenti non affronterebbero un viaggio dove rischiano non solo la morte propria e delle loro famiglie, ma anche la prospettiva, di cui sono perfettamente al corrente, di venir imbottigliati lungo il percorso o rispediti in uno dei paesi che hanno attraversato; ma anche perché i paesi da cui fuggono sono sempre di più in balia di nuove guerre che le politiche di respingimento non fanno che attizzare.
La “purezza” etnica dell’Europa sembra ormai messa in mano alla Turchia: una dittatura feroce - in guerra con una parte cospicua del suo popolo e dei suoi vicini, che non ha esitato e non esiterà a sostenere la ferocia dell’Isis o di altri suoi emuli - a cui l’Europa assegna il compito di trattenere in veri e propri Lager i disperati che non vuole accogliere sul proprio suolo e quelli, immeritevoli di accoglienza, che vuole cacciare. Non ci si rende conto di mettere così in mano a quel paese, insieme ai profughi, un’arma di ricatto e di controllo su tutte le politiche europee del futuro. Ma quei profughi sono già troppi anche per la Turchia, come lo sono per Libano e Giordania; e, anche se un ministro belga si è già spinto a chiedere al Governo Greco di fare affogare i profughi che cercano di raggiungere le sue isole, non c’è morte nel deserto o naufragio in mare in grado di “smaltire i flussi” di coloro che continueranno a cercare di sfondare le mura della fortezza Europa. Vero è che la dissoluzione di Schengen lascia ormai intravvedere che a tener lontani i profughi dal cuore dell’Europa saranno tra poco chiamati i paesi di arrivo: Grecia, Italia e, forse, Spagna. Sempre al Governo Greco è stata, tra l’altro, prospettata la costruzione di un campo di concentramento per 400mila profughi (il ministro competente ha risposto che questo lo facevano i nazisti). Coloro che invocano l’uscita dell’Italia dall’Unione Europea non mettono mai in conto questa prospettiva.
C’è un’alternativa a tutto ciò (e al molto altro che ne consegue)? E’ una domanda di buon senso a cui non risponde certo la finta prospettiva di accogliere i profughi (ma come? e quanti?) e respingere i migranti; senza naturalmente spiegare come fare la “selezione” né tantomeno dove “metterli” e a chi “restituirli”: quasi fossero “pezzi” (Stuecke) e non esseri umani come noi, e assai più infelici di noi. No. A breve tempo non c’è alternativa né una forza sociale o politica in grado di prospettarla. Meglio quindi adottare fin d’ora in una posizione di resistenza, cercando di ricostruire quell’alternativa attraverso dei passaggi legati tra loro:
Innanzitutto non stancarsi di indignarsi e di manifestare la nostra indignazione per il cinismo con cui il problema viene affrontato: è un modo per arginare il razzismo. Dall’indignazione è iniziato in altri paesi il cammino della riscossa. Ci ripetiamo che bisogna unire le forze, collegare i movimenti, unificare gli obiettivi; ma la base dell’unità è un sentire comune e pubblico.
Poi bisogna fare attenzione alle parole. Poco per volta ci abituiamo a parlare della vita e della morte di milioni di persone, di uomini, donne, bambini, trattandoli come un problema, un ingombro, un “fattore di squilibrio”, una sciagura. Ed è per queste vie che si insinua il razzismo.
Poi vengono le buone pratiche. Migliaia e migliaia di persone si adoperano ogni giorno e in ogni modo per rendere meno atroce la vita di chi arriva nei nostri paesi. E’ la base, che si può ancora allargare, indispensabile per rovesciare la situazione.
Poi ci sono le mobilitazioni per i diritti: lavoro, sanità, scuola, territorio, costituzione, contro la guerra. Sono momenti importanti di unità, ma senza un collegamento con la difesa dei profughi rischiano di lasciar campo libero all’avversario.
La ragione è dalla nostra parte: senza un massiccio apporto di profughi e migranti l’Europa perde abitanti e forze di lavoro, invecchia, imbocca la strada di una stagnazione (che non è certo la decrescita felice). Ce ne vorrebbero almeno tre milioni all’anno solo per mantenere la popolazione europea in equilibrio. L’incapacità di accoglierli è una conseguenza delle politiche di austerity: le stesse che hanno creato milioni di disoccupati tra i cittadini europei. La lotta contro la disoccupazione e quella per l’accoglienza non si contraddicono (non sono gli uni che portano via “il posto” agli altri).
Dare un futuro a milioni di profughi e restituire lavoro reddito e dignità a milioni di europei disoccupati non è compito da affidareal mercato o solo a un grande piano statale. Richiede migliaia di progetti diffusi sul territorio, con un obiettivo comune che non può che essere la conversione ecologica, per riportare il pianeta, l’Europa e ogni singola comunità entro i limiti della sostenibilità. Progetti articolati attraverso milioni di piani personalizzati di inserimento sociale: una cosa che può essere affrontata solo da quelle organizzazioni del terzo settore (non tutte) che si riconoscono in quel comune sentire che è la solidarietà. Questo tema è stato posto nel Forum dell’economia sociale e solidale promosso dal GUE-NGL (e di fatto, da Podemos), riunito per la prima volta a Bruxelles il 28 gennaio. Adesso si tratta di andare avanti.
La Repubblica, 5 febbraio 2016, con postilla
Il Guardian ha chiesto a nove economisti se sia o meno in vista una nuova crisi finanziaria globale e, ovviamente, gli interpellati hanno dato nove risposte diverse. Eppure continuiamo a rivolgerci agli economisti quasi fossero medici, capaci di prognosi scientifiche sul comportamento del corpo economico. Sia noi consumatori che loro dobbiamo essere più realistici riguardo alle possibilità dell’economia. Un approccio più misurato sia sul fronte dell’offerta che della domanda in economia produrrà risultati migliori.
postilla
Non è detto che - come sembra sostenere Garton Ash - una scienza, per essere tale, debba essere "esatta". E non è detto che gli economisti "classici" (se volete, da Adamo Smith a David Ricardo a Karl Marx, e discendenti) siano meno attendibili nelle loro previsioni di quelli che, patendo dell'"invidia della fisica", si ammantano di tecnologico scientismo.
Qual è la differenza tra Augusto Pinochet, golpista cileno, e Abdal-Sisi, golpista egiziano? Nessuna differenza, risponderà chi non conosce Il Principe di Machiavelli nella versione in uso a Palazzo Chigi. L’ignaro si lascerà impressionare dalle similitudini tra i percorsi compiuti dai due generali. Tanto Pinochet quanto al-Sisi sono nel vertice militare quando il governo che li ha nominati sprofonda in una grave crisi di consenso. Entrambi pugnalano quel governo con un colpo di stato. Entrambi s’intestano il potere e massacrano oppositori. Entrambi massacrerebbero di più se non fossero frenati, il cileno dalla Chiesa, l’egiziano da Obama. Così Pinochet si ferma a quota 3 mila uccisi; al-Sisi probabilmente l’ha raggiunto. Parte alto, almeno 1.150 morti in un giorno, 14 agosto 2013. «Il più grave massacro di dimostranti nella storia dei crimini contro l’umanità», dice Sarah Leah Whitson, di Human Right Watch, ascoltata lo scorso novembre dal Congresso Usa.
«Inflazione. Il presidente della Bce ha messo in allarme il continente su una possibile "cospirazione", ma la risposta è semplice: a marciare contro sono gli stessi governi che perseguono le politiche di austerity». Il manifesto, 5 febbraio 2016
Non c’è dubbio che Mario Draghi sia uno di quegli uomini che quando parla è bene starlo a sentire. Sia che si concordi o meno. Celebre ed efficace è stato il «whatever it takes!» pronunciato nel luglio del 2012 che ha permesso di evitare – almeno finora – l’implosione dell’Eurozona e della moneta unica. Per questo non si può restare indifferenti di fronte alla denuncia nei confronti di «forze che cospirano per tenere bassa l’inflazione» che il Presidente della Bce ha elevato in una pubblica conferenza organizzata dalla Bundesbank a Francoforte.
Di solito era la sinistra a indulgere alle teorie del complotto. Al punto che uno dei più importanti dirigenti del Pci, Aldo Tortorella, intellettuale raffinato e dotato di senso dell’umorismo, è solito ironizzarci sopra, dicendo che la sinistra è spesso vittima delle sue stesse macchinazioni. Qui invece il “complottismo” viene agitato da ben altra sponda.
Da quando la dichiarazione è comparsa sulle agenzie di tutto il mondo si è aperta una caccia all’interpretazione autentica del pensiero draghiano. Cosa avrà voluto dire? Con chi ce l’ha questa volta? Non vogliamo ergerci a esegeti, ma forse se applichiamo lo schema “alla Tortorella”, cambiandone i protagonisti, ci avviciniamo alla verità: i cospiratori vanno ricercati tra i palesi responsabili della grande crisi.
La stessa Bce nel suo bollettino mensile prevede «che i tassi di inflazione rimangano estremamente contenuti o che passino in territorio negativo nei prossimi mesi». L’obiettivo della Bce, di raggiungere e stabilizzare il 2% di inflazione è quindi assai lontano. Per questo Draghi aveva assunto nuove misure e un potenziamento del Quantitative Easing. Ma l’esito, come non era difficile prevedere, è stato per ora una debacle. Al punto che le previsioni della stessa banca centrale su un innalzamento dei tassi inflazionistici alla fine del 2016 non appaiono fondate altro che sulla speranza che le nuove misure di politica monetaria abbiano una qualche influenza diretta sulla crescita dell’economia reale. Poiché questo non è avvenuto, malgrado i fiumi di denaro pompati dalla Bce, non vi è ragione di credere che possa avvenire domani a situazione dell’economia reale inalterata. Siamo nel campo assai aleatorio del pensiero desiderante, ovvero del wishful thinking.
Chi sono i cospiratori?
Sono le forze che infieriscono brutalmente sul sistema pensionistico greco. Quelle che puntano tutto sulla speculazione finanziaria quale forma preferenziale se non esclusiva di massimizzazione dei profitti, facendo così levitare nuovamente la massa di titoli finanziari derivati sopra ai livelli antecrisi. Sono quelle che giocano sul prezzo del petrolio e delle materie prime, anche contro i loro interessi immediati in nome di mirabolanti disegni di riposizionamento su uno scacchiere mondiale in movimento, minacciato da guerre che si allargano. Quelle che si preparano a fare le barricate contro l’invasione dei prodotti cinesi, a seguito dell’accettazione della clausola di economia di mercato, mentre contemporaneamente spingono per la firma del Ttip, che renderebbe indifendibile lo spazio giuridico ed economico europeo dal dominio delle multinazionali a prevalenza statunitensi.
Quelle, come il “nostro” Renzi, che invocano la flessibilità per alcuni decimali contro le norme di trattati che essi stessi hanno contribuito a scrivere, e a costituzionalizzare, anziché proporsi di cambiarli da cima a fondo.
Con circolare inviata il 15 dicembre 2015 dalla Direzione Generale per gli Ordinamenti e la Valutazione del Sistema Nazionale d’Istruzione, i dirigenti scolastici e gli insegnanti di tutta Italia sono stati invitati a contribuire al successo delle proposte educative della nuova partnership libri-moschetto. Le iniziative per l’anno scolastico in corso e per quello 2016-1017 occupano quasi tutti i campi disciplinari: dalla storia alle scienze, dalle nuove tecnologie al diritto, dallo sport all’educazione stradale. Per celebrare i 70 anni della fondazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, MIUR e forze armate hanno promosso il concorso Nazioni Unite per la pace: entro la data del 31 marzo, alunni e studenti sono chiamati a presentare composizioni scritte o figurative, progetti multimediali e/o interattivi sulle “sfide relative alla sicurezza di tutti gli Stati”. “In occasione della ricorrenza del 70° anniversario dell’ONU, nonché della prosecuzione delle celebrazioni per il centenario della Grande Guerra, appare opportuno che gli studenti riflettano sul contributo che le Forze Armate hanno offerto in questo periodo per la difesa della Patria e delle libere Istituzioni e per la tutela degli interessi nazionali nel più ampio contesto delle organizzazioni internazionali delle quali l’Italia fa parte”, riporta il comunicato a firma del MIUR e della Difesa. “Le tracce proposte dal bando di concorso Nazioni Unite per la pace costituiranno l’occasione per una riflessione sulla più grande organizzazione intergovernativa mondiale, con particolare riferi
«Invece di introdurre regole più severe e restrittive la maggioranza degli europarlamentari ha fatto il gioco dell’industria dell’automobile».
Repubblica.itGreenitalia.org, 3 febbraio 2016 (m.p.r.)
Repubblica.it
SMOG, L'EUROPARLAMENTO RADDOPPIA
I LIMITI DI EMISSIONI PER LE AUTO
Con pochi voti di scarto, approvata la modifica del regolamento sugli ossidi di azoto, i precursori delle polveri sottili. Socialisti e verdi si sono opposti ma hanno persodi
ROMA – Largo alle polveri sottili, quelle che corrodono i nostri polmoni, quelle che fanno scattare la febbre da smog contro la quale ci limitiamo a prendere l’aspirina dei blocchi del traffico. Misure vere no. O, almeno, no se entrano in conflitto con le industrie che contano. Oggi l’europarlamento ha votato a strettissima maggioranza l’approvazione di una modifica del regolamento che stabilisce il tetto delle emissioni di NOx, gli ossidi di azoto che sono precursori delle polveri sottili. La dose ammessa per legge è stata generosamente raddoppiata. Le auto potranno inquinare, per gli NOx, il 110% in più di quello che era stato stabilito prima del dieselgate.
Una volta scoppiato lo scandalo sono emersi infatti i trucchi di serie, il fatto che i laboratori di omologazione dei nuovi modelli, finanziati dalle case automobilistiche, ricorrevano a ogni sorta di stratagemmi (gomme super gonfie, lubrificanti speciali, aerodinamica modificata) per far sì che dalle prove in questi ambienti ovattati, dalle caratteristiche lunari, emergessero dati ben lontani da quelli misurabili sulle strade terrestri. E naturalmente molto più confortanti.
Ora che bisogna fare sul serio, con test veri che mostrano quanto inquina realmente ogni auto, cambiano le norme. Il tetto si alza. Il regolamento europeo 715 del 2007 aveva stabilito che per i veicoli euro 6 il limite di emissione per gli ossidi di azoto (NOx) fosse di 80 milligrammi a chilometro. Il voto del Parlamento ha fatto passare la norma proposta dalla Commissione che alza i limiti per gli NOx del 110% nel periodo che va dal settembre 2017 al 31 dicembre 2018 e del 50% nel periodo successivo. Invece di respirare 80 milligrammi di NOX per ogni chilometro per ogni macchina in circolazione, l’anno prossimo ne respireremo 168.
“La maggioranza degli europarlamentari ha fatto il gioco della parte più retriva dell’industria automobilistica, senza curarsi della salute dei cittadini che dovranno subire livelli di inquinamento sempre più alti e pericolosi”, accusa Monica Frassoni, copresidente dei Verdi europei. “È sorprendente che nella lista dei votanti a favore ci sia anche il presidente della commissione Ambiente del Parlamento europeo, la cui maggioranza si era schierata contro l’indebolimento dei limiti stabiliti”.
In aula ha prevalso il voto suggerito dai gruppi, con i popolari che hanno guidato la battaglia per alzare i limiti, mentre verdi e socialisti, con qualche eccezione, si sono opposti. «È certamente uno schiaffo all’ambiente e alla salute dei cittadini, ma è anche uno schiaffo all’idea di un’Europa vicina alle persone, capace di difendere interessi concreti e non solo percentuali sul debito», commenta Francesco Ferrante, vicepresidente del Kyoto Club. «Per restituire dignità alla politica e speranza a tutti bisogna cambiare rotta».
Una «scelta assurda e insensata che va contro la salute dei cittadini e l'ambiente. Un vero e proprio condono che premia i furbi e non l'innovazione e la qualità». Così ha commentato il direttore generale di Legambiente, Stefano Ciafani. «In piena emergenza smog e con i livelli di inquinamento alle stelle», continua, «quello che è avvenuto è veramente assurdo, ed è solo a favore delle lobby automobilistiche».
Greenitalia.org
SCANDALOSA DECISIONE DELL'EUROPARLAMENTO: LE AUTOMOBILI POTRANNO INQUINARE DI PIÙ
Scandalosa decisione all’Europarlamento: aumentato il livello delle emissioni degli ossidi di azoto del 110% rispetto alle attuali soglie. Si tratta di una decisione gravissima e assurda, anche rispetto a quanto accaduto nei mesi scorsi con la vicenda Dieselgate-Volkswagen. Invece di introdurre regole più severe e restrittive la maggioranza degli europarlamentari ha fatto il gioco dell’industria dell’automobile, con buona pace della salute dei cittadini che dovranno subire livelli di inquinamento dei centri urbani sempre più alti e pericolosi. Anche molti europarlamentari italiani hanno deciso di innalzare le quantità di PM10 e NOx da far inalare ai cittadini.
Ecco i loro nomi:
ENF
Mara Bizzotto
Mario Borghezio
Gianluca Buonanno
Lorenzo Fontana
Matteo Salvini
ECR
Raffaele Fitto
Remo Sernagiotto
PPE
Lorenzo Cesa;
Salvatore Cicu;
Alberto Cirio;
Lara Comi;
Herbert Dorfmann;
Elisabetta Gardini;
Giovanni La Via;
Fulvio Martusciello;
Barbara Matera;
Alessandra Mussolini;
Aldo Patriciello;
Salvatore Domenico Pogliese;
Massimiliano Salini
Antonio Tajani.
Si sono astenuti:
S&D
Simona Bonafè;
Caterina Chinnici;
Silvia Costa;
Luigi Morgano:
Michela Giuffrida.
Lo dichiarano i portavoce di Green Italia Annalisa Corrado e Oliviero Alotto.
«L’11 febbraio a Napoli un convegno accende i fari sulla crisi dell’università sistema burocratico dominato da cordate e gruppi di potere. Sapere per il mercato o sapere per essere capaci di scelte consapevoli?» Amministrare l'esistente o progettare il futuro?
Il manifesto, 3 febbraio 2016
Il declino lento e inarrestabile dell’Università, la sua rinuncia ad essere l’universo, luogo di produzione di sintesi convincenti, ben esprime e rappresenta il collasso narrativo dell’Occidente e lo stato dell’afasia contemporanea.
Il dibattito sul suo ruolo si è, anni fa, incagliato (e lì è rimasto) intorno a questo nodo fondamentale: sapere per il mercato o sapere per essere capaci di scelte consapevoli?
Ha prevalso il primo termine: quello che va bene al mercato, va bene anche all’università e così a partire da Luigi Berlinguer si è sviluppato quel processo di declassamento e di delegittimazione che sembra non conoscere fine.
Se sentiste parlare gli studenti, avreste modo di conoscere quanto essi non vedono l’ora di abbandonarla come un luogo inutile, un castigo necessario, nell’attesa (sempre più disperata) di un posto di lavoro. Forse fa eccezione qualche studente, sopravvissuto al collasso, che tenta di ricomporre una qualche sintesi all’interno dei dottorati di ricerca, poi niente, silenzio.
Avendo smarrito i propri fini, l’Università è diventata un sistema burocratico-amministrativo fallimentare e improduttivo, senza alcuna capacità di scorgere i segnali del cambiamento e tanto meno di possedere la capacità di interpretarlo e incidere sulle trasformazioni che sconvolgono il mondo contemporaneo. E’ capace l’università, tanto per fare solo alcuni esempi tra mille possibili, di fornire una qualche narrazione adeguata dei cambiamenti climatici in atto, della questione ambientale, della crisi economica, della crisi del modello urbano? No, non ne è capace, anzi si limita, nel migliore dei casi, a fornire dei rimedi parziali, delle risposte inadeguate, essendo in tutt’altre faccende affaccendata.
Come affermava Pietro Barcellona, non esiste più una comunità scientifica, ma solo alleanze fra cordate e gruppi di potere, là dove i nostri figli avrebbero disperatamente bisogno di un Paese che si appropri del proprio futuro, che sappia progettare ponti e cattedrali, scoprire i segreti delle stelle e i miracoli delle nanotecnologie, senza perdere di vista, però – aggiungeva Pietro – che il vero problema è sempre il destino dell’uomo nel tempo che ci tocca vivere. E alla scomparsa della comunità scientifica si aggiunge quella drammatica della scomparsa della figura del Maestro.
Anziché una ricomposizione, i saperi vengono continuamente disarticolati, scomposti, separati gli uni dagli altri fino al nozionismo più esasperato (i famosi Cfu, crediti formativi), così da preparare il terreno a quei mitici concorsi universitari in ordine ai raggruppamenti disciplinari (Ssd), vero e propri pilastro culturale intorno al quale si organizzano accordi elettorali, cordate accademiche e produzione di inadeguati e falsi saperi. E che dire delle pubblicazioni scientifiche sulla base delle quali una fantomatica Agenzia (Anvur) è chiamata a giudicare ogni membro della morente comunità accademica? Intorno ad esse – le pubblicazioni scientifiche – sono sorte migliaia di nuove riviste accreditate, fiorisce l’unica attività editoriale ancora produttiva del Paese.
Per anni screditata dagli attacchi dei mass-media (luogo di malaffare, di corruzione, di svendita degli esami, ecc.), l’Università ha finito con l’adeguarsi alla cattiva immagine che di essa ne è stata fatta tra la gente comune, rinunciando perfino a far valere le proprie ragioni, non rintuzzando la concorrenza sleale delle varie libere università sorte come funghi. Del resto, se essa è demandata solo a fornire sterili nozionismi, perché un privato non potrebbe riscuotere maggiori successi?
Conosco sempre più docenti che hanno chiesto di essere messi in pensione prima del tempo. Almeno da questo punto di vista, essi si sono arresi. Il declino dell’università, che pure essi hanno ostacolato, avversato e combattuto con passione, ha finito con lo sfinirli. Asor Rosa ha paragonato questo esodo a quello dei dinosauri in estinzione: «Questo lungo e faticoso cammino – rispetto all’approdo finale, ossia lo stato presente delle cose – fa sentire chi l’ha compiuto nelle condizioni di quegli animali primitivi che a un certo punto uscirono di scena per il totale mutamento delle condizioni generali del pianeta» (“Il Grande silenzio, intervista sugli intellettuali”).
Coloro che sono rimasti, si sono adeguati, così che dopo il Grande silenzio è subentrata anche la Grande tristezza. Sembra una questione archiviata; le cifre e i numeri che circolano sul suo stato di salute (meglio sarebbe dire sulla sua malattia terminale) ne attestano la morte presunta. Forse a metterci sopra la pietra tombale sarà l’annunciato (ennesimo) provvedimento di Renzi sulla “Buona Università”.
Ma in un’affollata assemblea di dottorandi e ricercatori precari, a Roma qualche giorno fa, ho sentito esclamare: «Dobbiamo scatenare una controffensiva culturale di portata equivalente a quella scatenata da Confindustria, verso la metà degli anni Novanta, iniziando a criminalizzare l’università italiana. Dimostriamo loro che non siamo bamboccioni improduttivi; noi produciamo scienza, nuovi saperi, cultura vivente….».
Benvenuta e salutare è allora l’iniziativa per l’Università promossa l’11 febbraio a Napoli da, Arienzo, Bevilacqua, Bonatesta, Carravetta, Catalanotti, Olivieri (Lettera-Appello al mondo dell’Università, su il manifesto del 22 gennaio). Coraggio si ri-parte!
Non dalle aule della Bocconi; questa volta si parte dalle macerie del Sud. E gli intellettuali dove sono? Perché non escono dal Grande Silenzio per scendere in campo a fianco di questi ragazzi, senza i quali il silenzio diventerà tombale?
Anche nella patria della rivoluzione liberale governi di pseudo sinistra provano a modificare la Costituzione calpestando i diritti comuni. Articoli di Anais Ginori e Anna Maria Merlo,
La Repubblicail manifesto, 3 febbraio 2016
La riforma, in discussione all’Assemblée Nationale da qualche giorno, sta spaccando la Francia. Annunciata subito dopo gli attentati del 13 novembre, la legge costituzionale propone di inserire lo stato di emergenza nella Carta e di revocare la nazionalità ai cittadini colpevoli di reati di terrorismo. È su questa cittadinanza “usa-e-getta” che si concentrano le critiche. Il governo aveva deciso di applicare la norma solo alle persone con doppio passaporto, salvo poi fare retromarcia per non essere accusato di discriminazione tra francesi.Il riferimento alla binazionalità è scomparso ma rimane il problema di come fare per non creare apolidi. Se l’attuazione pratica di questa misura rimane vaga, è il simbolo che fa discutere. «Cosa sarebbe il mondo se ogni paese decidesse di espellere i suoi connazionali giudicati indesiderabili? », si domanda l’ex ministro della Giustizia, Christiane Taubira, nel pamphlet che ha appena pubblicato dopo le sue dimissioni causate proprio dalla riforma costituzionale. Sono tante le voci che si stanno levando contro il testo che dovrebbe essere votato in prima battuta la settimana prossima, per poi passare al Senato.
«Il progetto del governo tratta in modo impari i francesi, apre la strada alla creazione di apolidi e soprattutto inserisce nella Costituzione una minaccia per le nostre libertà politiche, fondamento stesso della democrazia», scrivono i promotori dell’appello. A preoccupare sono anche le condizioni per cui si potrebbe togliere la cittadinanza: non solo reati contro la sicurezza dello Stato ma anche «l’attacco grave alla vita della Nazione». Una definizione ambigua, secondo i firmatari dell’appello: «Significa aprire la porta alla revoca di nazionalità anche per reati di opinione, attività sindacale o per l’opposizione a un potere autoritario».
La legge costituzionale dovrà essere approvata da deputati e senatori, per poi essere presentata davanti al Congresso, ovvero le Camere riunite. Hollande dovrà ottenere due terzi dei voti per far passare la riforma. Ma la fronda a sinistra aumenta.
Anche a destra, dove alcuni esponenti avevano invocato le misure proposte dal leader socialista, si cominciano a levare voci di dissenso. François Fillon ha annunciato che non sosterrà il progetto di revisione costituzionale perché «le leggi ci sono già». E il favorito alla primarie a destra, Alain Juppé, si è schierato contro: «La lotta al terrorismo — ha detto — si fa aumentando le forze dell’ordine e dando più potere all’intelligence».
Riforma costituzionale . Oggi in Consiglio dei ministri il prolungamento di altri tre mesi dello stato d'emergenza. La riforma costituzionale sulla privazione della nazionalità a rischio, contestazioni a sinistra (ma anche a destra). Taubira attacca con un libro
Oggi in Consiglio dei ministri sarà presentata la proposta, poi sottoposta al voto del parlamento, di prolungare di altri tre mesi lo stato d’emergenza, che, già confermato dopo i primi 12 giorni seguenti gli attentati del 13 novembre, scade ora il 26 febbraio. Poi, venerdì, inizia all’Assemblea il dibattito sulla riforma della Costituzione, per introdurre non solo lo stato d’emergenza nella Carta (una proposta che alcuni, come lo storico Pierre Rosanvallon, giudicano positivamente, perché chiarirebbe la legge del ’55, votata durante la guerra d’Algeria), ma soprattutto la molto più controversa privazione della nazionalità.
La confusione regna sovrana sui due fronti e il governo è in difficoltà, preso in trappola da se stesso. Contro il prolungamento dello stato d’emergenza hanno manifestato migliaia di persone in tutta la Francia sabato scorso. Una richiesta di sospensione della Lega dei Diritti dell’uomo è stata però respinta dal Consiglio di stato la scorsa settimana, perché “il rischio di attentati resta”. Nei fatti, l’efficacia dello stato d’emergenza nella lotta al terrorismo resta da dimostrare: ci sono state 3200 perquisizioni (senza l’intervento del giudice, come permette lo stato d’eccezione), ma sono state aperte solo 4 inchieste che hanno a che vedere sul terrorismo e una sola persona è stata incriminata, mentre 400 persone sono ai domiciliari. Hanno subito questa privazione di libertà anche persone che nulla hanno a che vedere con il terrorismo, come dei militanti ecologisti legati alla contestazione dell’aeroporto di Notre-Dame-des-Landes, a riprova dell’arma a doppio taglio dello stato d’emergenza.
L’inserimento nella Costituzione della privazione della nazionalità ha già causato un terremoto politico, con le dimissioni della ministra della Giustizia, Christiane Taubira, la scorsa settimana, l’ultima garante a “sinistra” del governo Valls. Taubira, lunedi’, ha pubblicato un libro di meno di 100 pagine, Murmures à la jeunesse, che è un j’accuse contro la proposta della privazione di nazionalità, “inefficace”, “con effetti nulli sulla dissuasione”.
L’ex ministra, che è nata a Cayenne, si chiede: “cosa sarebbe il mondo se ogni paese espellesse i propri cittadini considerati indesiderabili?”. Per modificare la Costituzione, ci vuole un voto ai tre quinti del Congresso (Assemblea e Senato riuniti), su un testo che deve essere passato negli stessi termini nelle due camere. Ma si arriverà al Congresso? E con quale testo di legge?
Per rispondere alla contestazione di una riforma che avrebbe introdotto nella Costituzione una differenza tra cittadini, riservando la privazione della nazionalità ai soli bi-nazionali (con due passaporti), Valls ha ora proposto un testo senza riferimenti alla bi-nazionalità, ma che non limita più la pena ai soli condannati per terrorismo ma la estende anche ai reati contro la nazione con condanne fino a 10 anni di carcere. Un vero pasticcio, intanto perché sarebbe comunque riservato ai bi-nazionali (Valls ha promesso che la Francia ratificherà le norme internazionali che proibiscono di creare apolidi). Ma in più con il rischio di aprire la possibilità di privare della nazionalità per diversi motivi, quando ci sarà un’altra maggioranza (per esempio per ragioni politiche).
Il testo è confuso e non ancora definito, mentre Hollande non è più certo di avere la maggioranza. C’è una fronda consistente a sinistra, dove un centinaio di parlamentari potrebbero votare contro o astenersi. Circolano petizioni e prese di posizione, firmate da vare personalità (dall’economista Piketty a Cohn-Bendit e Jacques Attali) per chiedere al governo di rinunciare. Anche l’obiettivo di unità nazionale sembra fallito. A destra crescono i dubbi. Per ragioni di fondo, in qualche caso, ma anche per opportunismo (non dare una vittoria a Hollande). Tra i candidati alle primarie per l’Eliseo, Alain Juppé è contro, e anche François Fillon ha dei dubbi, mentre Sarkozy è d’accordo, visto che era una sua idea. Florian Philippot del Fronte nazionale afferma: “deciderà Marine Le Pen” su come voteranno i due deputati e i due senatori di estrema destra, “ma se il principio di privazione della nazionalità sarà ben presente nel testo allora potremmo votarlo, visto che sarà una vittoria ideologica del campo dei patrioti, che noi incarniamo”.
«» Tanto, pagano gli altri. La Repubblica
Il punto chiave della bozza resa pubblica ieri da Tusk a Bruxelles, frutto di mesi di negoziati con il governo Cameron, è la concessione di un “freno d’emergenza” per 4 anni ai benefici assistenziali (integrazione dei salari più bassi, assegni familiari, alloggi popolari) agli immigrati comunitari: quello che voleva Downing street, come misura per rallentare un’immigrazione europea che cresce al ritmo di 300 mila arrivi l’anno. Ma le modalità del provvedimento sono da definire e i benefici andrebbero “gradualmente” ripristinati. C’è insomma ancora da discutere, su questo come sugli altri punti dell’accordo (sovranità dei Parlamenti nazionali, integrazione europea, protezione dei diritti dei paesi fuori dall’eurozona).
«Progressi concreti, che mi permetterebbero di battermi per restare in Europa - commenta Cameron - con la mano sul cuore sento di avere ottenuto quanto avevo promesso». In Inghilterra tuttavia i pareri discordano. Per il Guardian si tratta di «concessioni parziali». Per il Financial Times è «un fragile accordo». Il Telegraph cita nel titolo le parole di un deputato Tory euroscettico: «La Ue dà uno schiaffo in faccia al Regno Unito». Per Farage, leader Ukip, è un patto «davvero patetico ». E il capo del Labour, Jeremy Corbyn, favorevole a restare nella Ue (pur senza entusiasmo), accusa il premier di «correre dietro agli euroscettici». Cameron si difende così: «Gli immigrati non avranno più accesso immediato al welfare britannico, la sterlina non sarà discriminata rispetto all’euro, il nostro Parlamento potrà respingere le idee pazze di Bruxelles ».
Siamo riusciti a costruire un mostro in Europa, dove l’eurozona è supremamente potente come entità, ma in nessuno ha veramente il controllo. Le istituzioni e le regole che sono state poste in essere al fine di conservare l’equilibrio politico che ha avviato l’intero progetto dell’euro paralizzano qualunque attore che ha qualcosa a che fare con la legittimazione democratica”. Pubblichiamo l’intervista a Yanis Varoufakis realizzata da Nick Buxton per il Transnational Institute (TNI).
Quali consideri le maggiori minacce alla democrazia oggi?
La minaccia alla democrazia è sempre stata il disprezzo che il sistema prova per essa. La democrazia, per sua stessa natura, è molto fragile e l’antipatia nei suoi confronti da parte del sistema è sempre estremamente pronunciata. Il sistema ha sempre cercato di svuotarla.
Questa storia risale all’antica Atene, ai primi tentativi di dar vita ad una democrazia. L’idea che i poveri, che erano la maggioranza, potessero controllare il governo era sempre contestata. Platone scrisse La Repubblica come trattato contro la democrazia, argomentando a favore di un governo degli esperti.
Analogamente nel caso della democrazia statunitense, se si guarda ai documenti federalisti e ad Alexander Hamilton, si vedrà che c’era un tentativo di contenere la democrazia, non di rafforzarla. L’idea che stava dietro alla democrazia rappresentativa era che i mercanti rappresentassero il resto della popolazione perché la plebe non era considerata all’altezza del compito di decidere su importanti questioni di Stato.
Gli esempi sono innumerevoli. Si consideri soltanto quello che è successo con il governo Mossadeq in Iran negli anni ’50 o con il governo Allende in Cile. Ogni volta che le urne producono un risultato che non piace al sistema, il processo democratico è rovesciato oppure è minacciato di essere rovesciato.
Dunque, se mi chiedi chi sono e sono sempre stati i nemici della democrazia, la risposta è: i grandi poteri economici.
Quest’anno pare che la democrazia sia sotto attacco più che mai da parte di un potere radicato. La tua percezione è questa?
Questo è un anno speciale a tale riguardo poiché abbiamo avuto l’esperienza della Grecia, dove nelle elezioni la maggioranza dei greci ha deciso di sostenere un partito anti-establishment, SYRIZA, che è salito al potere “dicendo la verità al potere” e sfidando l’ordine costituito in Europa.
Quando la democrazia produce ciò che il sistema ama sentire, allora la democrazia non è una minaccia, ma quando produce forze anti-sistema e rivendicazioni, è allora che la democrazia diventa una minaccia. Siamo stati eletti per sfidare la troika dei creditori ed è stato a quel punto che la troika ha affermato con assoluta chiarezza che alla democrazia non può essere consentito di cambiare nulla.
Sulla base del tuo periodo da ministro greco delle finanze, che cosa ti ha rivelato l’esperienza a proposito della natura della democrazia e del potere? Quali sono le cose che ti hanno sorpreso?
Ci sono andato con gli occhi bene aperti. Non avevo illusioni. Ho sempre saputo che le istituzioni dell’Unione europea a Bruxelles – la Banca centrale europea e altre – erano state create progettualmente come zone aliene alla democrazia. Non è che un deficit di democrazia si è improvvisamente insinuato nell’UE; essa è stata creata principalmente come un cartello dell’industria pesante, che ha finito poi per cooptare anche gli agricoltori, principalmente gli agricoltori francesi. Ed è sempre stata amministrata come un cartello; non è mai stata intesa come l’inizio di una repubblica o di una democrazia in cui “noi, il popolo” dettiamo legge.
Riguardo alla tua domanda, mi hanno colpito un paio di cose. La prima è la sfacciataggine con cui mi è stato chiarito che la democrazia era considerata irrilevante. Nella primissima riunione dell’Eurogruppo a cui ho partecipato, quando ho cercato di fare un’affermazione che non pensavo sarebbe stata contestata – cioè che rappresentavo un governo neo-eletto il cui mandato andava rispettato in una certa misura, che questo avrebbe dovuto alimentare un dibattito su quali politiche economiche dovessero essere applicate alla Grecia, ecc. – sono rimasto attonito nel sentire il ministro delle finanze tedesco dirmi, alla lettera, che alle elezioni non può essere consentito di cambiare una politica economica stabilita. In altri termini, che la democrazia va bene fintanto che non minaccia di cambiare nulla! Anche se mi aspettavo che la musica fosse quella, non ero preparato a sentirmela suonare così brutalmente.
La seconda cosa per la quale dovrei dire che non ero preparato, per parafrasare la famosa espressione di Hannah Arendt sulla banalità del male, era la banalità della burocrazia. Mi aspettavo che i burocrati di Bruxelles fossero molto sprezzanti della democrazia, ma mi aspettavo che fossero garbati e tecnicamente competenti. Invece sono rimasto sorpreso nel constatare quanto erano banali e, da un punto di vista tecnocratico, quanto erano scadenti.
Come funziona dunque il potere nell’Unione europea?
La cosa principale da osservare riguardo all’UE è che l’intera attività di Bruxelles è basata su un processo di depoliticizzazione della politica che consiste ne prendere quelle che sono essenzialmente decisioni profondamente e irrevocabilmente politiche e forzarle nel regno di una tecnocrazia dominata dalle regole, un approccio algoritmico. È la pretesa che le decisioni riguardo alle economie in Europa siano semplicemente problemi tecnici che hanno bisogno di soluzioni tecniche decise da burocrati che seguono regole prestabilite, proprio come un algoritmo.
Così, quando si cerca di politicizzare il processo, si finisce con un genere particolarmente tossico di politica. Per farti solo un esempio, nell’Eurogruppo stavamo discutendo la politica economica relativa alla Grecia. Il programma che avevo ereditato come ministro delle finanze fissava un obiettivo di avanzo primario del 4,5 per cento del PIL, che consideravo esageratamente elevato. E lo stavo contestando su basi puramente tecniche, di teoria macroeconomica.
Così mi è stato immediatamente chiesto quale avrei preferito fosse l’avanzo primario. Ho cercato di fornire una risposta onesta, affermando che doveva essere considerato alla luce di tre fattori e dati chiave: gli investimenti in rapporto ai risparmi, le scadenze del rimborso del debito e il deficit o avanzo di partita corrente. Ho cercato di spiegare che se volevamo far funzionare il programma greco dopo cinque anni di fallimento catastrofico che avevano condotto alla perdita di quasi un terzo del reddito nazionale avremmo dovuto considerare queste tre variabili insieme.
Ma mi è stato detto che le norme affermano che dovevamo considerare un unico numero. Così ho replicato: «E allora? Se c’è una norma sbagliata dovremmo cambiarla». La risposta è stata: «Una norma è una norma!». E io ho rimbeccato affermando: «Sì, questa è una norma, ma perché dovrebbe essere una norma?». A quel punto ho ricevuto una risposta tautologica: «Perché è la norma». Questo è quel succede quando si abbandona un processo politico a favore di un processo dominato da norme: finiamo con un processo di depoliticizzazione che porta a politiche tossiche e ad una cattiva economia.
Un altro esempio che vorrei farti è che, a un certo punto, stavamo discutendo del programma greco e dibattendo la formulazione di un comunicato che doveva uscire riguardo a quella riunione dell’Eurogruppo. Io ho detto: «D’accordo, citiamo la stabilità finanziaria, la sostenibilità fiscale – tutte cose che la troika e altri volevano fossero dette – ma parliamo anche della crisi umanitaria e del fatto che ci stiamo occupando di cose come una fame diffusa». La risposta che ho ricevuto è stata che ciò sarebbe stato “troppo politico”. Che non possiamo avere simili “espressioni politiche” nel comunicato. Così i dati sulla stabilità finanziaria e sull’avanzo di bilancio andavano bene, ma dati sulla fame e sul numero di famiglie senza accesso all’elettricità e al riscaldamento in inverno non andavano bene perché erano “troppo politici”.
Ma tutto questo sforzo di depoliticizzazione in realtà è profondamente politico, visto che il neoliberismo e un processo politico.
Ma loro non la pensano così. Si sono convinti che esistono certe regole che riguardano variabili ed equazioni naturali e che tutto il resto non c’entra. E così che la pensano.
È sempre stata condannata al fallimento o ci sono stati dei processi o degli eventi particolari che hanno minato la democrazia in Europa, come il Trattato di Maastricht?
Quello che sto per condividere è più o meno il tema del mio libro, che uscirà ad aprile ed è intitolato And the weak suffer what they must? Europe’s crisis, America’s economic future (‘E il debole subisca quel che deve subire? La crisi dell’Europa, il futuro economico degli Stati Uniti’). Il titolo deriva dall’antico greco Tucidide e dal dibattito da lui riportato tra i generali ateniesi e i melii, che furono infine sconfitti dai generali.
Il punto che sto sostenendo è il seguente: diversamente dagli Stati statunitense, tedesco o britannico che sono emersi da secoli di evoluzione, attraverso i quali lo Stato si è evoluto come strumento funzionale per risolvere diversi generi di conflitti sociali, l’UE ha seguito una strada diversa. Ad esempio, se si prende lo Stato britannico, la gloriosa rivoluzione del 1688 è stata incentrata sul porre limiti al potere della monarchia in conseguenza degli scontri tra i baroni e il re; le riforme successive sono state il risultato di conflitti tra gli aristocratici ed i mercanti, poi tra i mercanti e la classe operaia. È così che si evolve uno Stato normale ed è così che nascono le democrazie liberali.
Ma l’UE non si è affatto evoluta così. La sua formazione, come dicevo prima, si è avuta nel 1950 con la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), che era fondamentalmente un cartello come l’OPEC. E Bruxelles era il quartier generale di tale cartello. Era qualcosa di molto diverso da uno Stato. Non aveva a che fare con la mitigazione di scontri tra classi e gruppi sociali. L’intera ragion d’essere di un cartello consiste nello stabilizzare i prezzi e limitare la concorrenza tra i propri membri.
La sfida per Bruxelles consisteva inizialmente nello stabilizzare i prezzi del carbone e dell’acciaio e poi quelli di altre materie prime e merci, in un cartello che copriva diversi regimi monetari e perciò sei rapporti di cambio. Senza rapporti stabili di cambio tra le monete di tale unione sarebbe stato impossibile stabilizzare i prezzi di un cartello di portata europea nei suoi sei membri iniziali. Finché c’era il sistema di Bretton Woods (che legava i rapporti di cambio al dollaro, il cui valore era fissato a 35 dollari l’oncia), mantenere allineate le monete europee era automatico. Ma quando quel sistema saltato per mano del segretario al Tesoro statunitense John Connally e di altri, nel 1971, i rapporti di cambio dei diversi paesi europei sono impazziti. Il marco della Germania ha cominciato a salire, la lira italiana ha cominciato a scendere, mentre il franco francese lottava per evitare lo stesso destino della lira. Ciò ha generato enormi forze che potevano fare a pezzi l’UE. Bruxelles non era più in grado di stabilizzare il suo cartello. Ed è qui che è emersa la necessità di una moneta comune.
Dai primi anni ’70 ci sono stati vari tentativi falliti di sostituire il sistema dei cambi fissi, che gli statunitensi avevano gestito sino ad allora, con un sistema europeo. Il primo fu il “serpente monetario europeo” nel 1972; negli anni ’90 abbiamo avuto ovviamente il Sistema monetario europeo e poi, infine, tra il 1992 ed il 1993, è stato introdotto l’euro con il Trattato di Maastricht, che ha legato monetariamente vari Stati europei sotto una singola valuta, una sola moneta.
Ma nel momento in cui hanno fatto ciò (senza disporre di alcun modo per gestire politicamente questa area monetaria), improvvisamente il processo di depoliticizzazione della politica (che era sempre stato parte integrante dell’Unione europea) è divenuto estremamente potente e ha cominciato a distruggere la sovranità politica.
Una delle poche persone che aveva capito bene questo non era di sinistra, bensì di destra. È stata Margaret Thatcher che ha guidato l’opposizione alla moneta unica e ne ha di fatto espresso molto chiaramente i pericoli. Io mi sono opposto alla Thatcher su tutto il resto, ma su questo aveva ragione lei. Diceva che chi controlla la moneta, la politica monetaria ed i tassi d’interesse, controlla la politica dell’economia sociale. La moneta è politica e può soltanto essere politica e qualsiasi tentativo di depoliticizzarla e di trasferirla ad un branco di burocrati irresponsabili di Francoforte (dove ha sede la Banca centrale europea) costituisce, in effetti, un’abdicazione della democrazia.
Perché la Thatcher è stata la sola voce d’opposizione considerato che ciò proteggeva gli interessi neoliberisti di cui lei era una forte sostenitrice?
La Thatcher era una conservatrice, una Tory. Pur essendo una pioniera del neoliberismo, credeva anche nella sovranità parlamentare e nel controllo del processo politico. Per lei il neoliberismo era un processo politico in cui credeva, ma per lei era ancora importante che il parlamento britannico controllasse la politica del neoliberismo. Non c’era alcun parlamento nell’eurozona; l’area euro non ha alcun parlamento. Il Parlamento europeo è una barzelletta; non opera da vero parlamento. È, al meglio, una simulazione di un parlamento, non un parlamento reale, perciò a una conservatrice inglese, per la quale la legittimazione della democrazia deriva dalla legittimazione del potere sovrano, dal parlamento, l’euro appariva come un’aria monetaria destinata ad avvizzire e morire.
Curiosamente uno dei miei maggiori sostenitori quando ero ministro delle finanze greco è stato un ministro della Thatcher e già cancelliere dello scacchiere, Norman Lamont. Siamo addirittura diventati amici. Quello che abbiamo in comune è una dedizione alla democrazia. Abbiamo idee molto diverse su quali politiche andrebbero messe in atto come parte della politica democratica, ma è rimasto scioccato anche lui per il modo in cui un branco dirigenti non eletti ha gestito le politiche fiscali e monetarie della Grecia e per come hanno raso al suolo la sua economia.
Dunque, visto che il Regno Unito è rimasto fuori dall’euro, è influenzato dalle politiche dell’eurozona?
Beh, come sappiamo la Gran Bretagna sta attraversando la prima fase di una campagna per un referendum sull’adesione all’UE. È un confronto molto emotivo. Io ritengo che sia stato magnifico per i britannici stare fuori dall’euro, un colpo di fortuna. Ma, detto questo, la loro economia è completamente determinata dalla prigione dell’eurozona e dunque l’idea che possano sottrarsi alla sua influenza votando per l’uscita dall’UE è eccessivamente ottimistica. Non possono uscire. Ora, i conservatori britannici che appoggiano l’uscita dall’UE sostengono di non avere bisogno dell’Unione europea; che possono avere il mercato unico senza la camicia di forza di Bruxelles. Ma questa è una tesi fortemente dubbia, poiché il mercato unico non può essere immaginato senza una protezione comune dei lavoratori, degli strumenti comuni per prevenire lo sfruttamento dei lavoratori o dei parametri comuni sull’ambiente o l’industria. Dunque l’idea che si possa avere il mercato unico senza unione politica si scontra con la realtà politica che il solo modo per avere il libero scambio di questi tempi è avere leggi comuni sui brevetti, sui parametri industriali, sulla disciplina della concorrenza, ecc. E come si possono avere leggi simili se non c’è il controllo di qualche genere di istituzione o di processo democratico che si applichi a ogni giurisdizione? Dunque, se si rifiuta la possibilità di un’Unione europea democratizzata, si rifiuta la possibilità di un parlamento britannico sovrano e si finisce per avere degli accordi commerciali atroci, come il TTIP.
Dove risiede, allora, il potere in Europa?
Questa è una domanda interessante. A prima vista le sole persone potenti in Europa sono Mario Draghi, capo della Banca centrale europea, e Angela Merkel, la cancelliera tedesca. Ma, detto questo, neppure loro sono poi tanto potenti. Ho visto Mario Draghi apparire estremamente frustrato nelle riunioni dell’Eurogruppo per ciò che veniva detto, per la sua stessa impotenza, perché doveva fare delle cose che pensava fossero orribili per l’Europa. Al tempo stesso, Angela Merkel si sente chiaramente accerchiata dalle richieste del suo stesso parlamento, del suo partito, circa la necessità di mantenere un tipo di modus vivendi con i francesi su cui lei non è d’accordo.
Dunque, la risposta alla tua domanda è che siamo riusciti a costruire un mostro in Europa, dove l’eurozona è supremamente potente come entità, ma in nessuno ha veramente il controllo. Le istituzioni e le regole che sono state poste in essere al fine di conservare l’equilibrio politico che ha avviato l’intero progetto dell’euro paralizzano qualunque attore che ha qualcosa a che fare con la legittimazione democratica.
Ma questo processo non ha dato grande potere ai mercati finanziari?
I mercati finanziari non hanno più potere in Europa di quanto ne abbiano negli Stati Uniti o altrove.
Torniamo al 2008. In quell’anno, dopo anni di sperperi del settore finanziario e di creazione criminale di credito da parte sua, le istituzioni finanziarie sono implose ed i capitani della finanza si sono rivolti ai governi e hanno detto loro: «Salvateci». E l’abbiamo fatto, trasferendo enormi somme dai contribuenti alle banche. Questo è successo negli USA ed in Europa; non ci sono state differenze al riguardo.
Il problema è che l’architettura dell’UE, e in particolare dell’euro, era così scadente che questo massiccio trasferimento di denaro dai contribuenti, e specialmente dai settori più deboli della società, alle banche non è stato sufficiente a stabilizzare il sistema finanziario.
Lascia che ti faccia un esempio. Paragoniamo il Nevada con l’Irlanda. Il loro clima può essere molto diverso, ma sono entrambi di dimensioni uguali in termini di popolazione e hanno economie simili. Entrambe le economie sono basate sulle proprietà immobiliari, sul settore finanziario, sull’attirare imprese in base a bassissime imposte sugli utili. Dopo il 2008 entrambe le economie sono cadute in una profonda recessione, che ha colpito principalmente il settore immobiliare e l’industria delle costruzioni.
La differenza sta nel modo in cui sono stati in grado di reagire. Immagina che le zone del dollaro USA fossero state costruite allo stesso modo dell’eurozona. Allora lo Stato del Nevada avrebbe dovuto trovare fondi per salvare le banche e anche per pagare le indennità di disoccupazione dei lavoratori dell’edilizia, e senza l’aiuto della Federal Reserve. In altre parole il Nevada sarebbe dovuto andare col cappello in mano a chiedere prestiti al settore finanziario. Considerato che gli investitori avrebbero saputo che il governo del Nevada non aveva una banca centrale a sostenerlo, o non gli avrebbero concesso prestiti oppure non lo avrebbero finanziato a tassi d’interesse ragionevoli. Così il Nevada sarebbe finito in bancarotta e lo stesso sarebbe successo alle sue banche e la gente del Nevada avrebbe perso le indennità di disoccupazione o i servizi sanitari o dell’istruzione. Dunque immagina, allora, che lo Stato si fosse recato col cappello in mano dalla Federal Reserve a chiedere aiuto. E immagina che la Federal Reserve gli avesse detto: «Vi concederemo il salvataggio e vi presteremo fondi a condizione che riduciate i salari, le pensioni e le indennità di disoccupazione del 20 per cento». Ciò avrebbe consentito allo Stato del Nevada di onorare i pagamenti a breve, ma l’austerità e la riduzione dei redditi e delle pensioni, ecc. avrebbero ridotto le entrate del Nevada e aumentato il suo debito relativo ai prestiti di salvataggio in misura tale che il Nevada sarebbe imploso. Se ciò fosse successo nel Nevada, sarebbe successo in Missouri, in Arizona, ecc., avviando un effetto domino in tutti gli Stati Uniti.
Dunque è questo che sto dicendo. Non c’è alcuna differenza in termini dell’importanza del settore finanziario e della sua tirannide sulla democrazia tra gli Stati Uniti e l’Europa, ma la differenza è che negli USA c’è un insieme di istituzioni che sono meglio capaci di gestire crisi come queste e di evitare che si trasformino in una crisi umanitaria. Gli statunitensi hanno appreso le loro lezioni negli anni ’30. Il New Deal mise in atto istituzioni che agirono come ammortizzatori, mentre in Europa siamo ancora dove eravamo nel 1929. Stiamo permettendo che questa austerità competitiva distrugga un paese dopo l’altro fino a quando l’Unione europea non si rivolgerà contro sé stessa.
Dunque è ora di sostenere un’uscita dall’euro? Ritornare a una moneta nazionale non darà almeno una migliore opportunità di accountability democratica?
Questa naturalmente è una battaglia che ho in corso con i miei compagni in Grecia. Sono cresciuto in un’economia capitalistica periferica piuttosto isolata, con una nostra moneta, la dracma, e un’economia con quote e dazi che impediva il libero flusso di merci e capitali. E posso garantirti che era una Grecia parecchio tetra; non era di certo un paradiso socialista. Dunque l’idea tornare allo Stato-nazione per creare una società migliore per me è sciocca e implausibile.
Ora, io vorrei che non avessimo creato l’euro, vorrei che avessimo conservato le nostre monete nazionali. È vero che l’euro è stato un disastro. Ha creato un’unione monetaria progettata per fallire e che ha assicurato sofferenze indicibili ai popoli dell’Europa. Ma, detto questo, c’è differenza tra dire che non avremmo dovuto creare l’euro e dire che ora dovremmo uscirne. A causa di quella che in matematica chiamiamo isteresi. In altre parole uscire non ci riporterà a dove eravamo prima o a dove saremmo stati se non fossimo entrati.
Alcuni fanno l’esempio dell’Argentina, ma la Grecia non è nella situazione in cui era l’Argentina nel 2002. Non abbiamo una moneta da svalutare nei confronti dell’euro. Abbiamo l’euro! Uscire dall’euro significherebbe una nuova moneta, il che richiede quasi un anno da introdurre, per poi svalutarla. Ciò sarebbe lo stesso che se l’Argentina avesse annunciato una svalutazione con dodici mesi di anticipo. Sarebbe catastrofico, perché se si dà un simile preavviso agli investitori – o persino ai comuni cittadini – questi liquiderebbero tutto, si porterebbero via i soldi nel periodo che gli si è offerto in anticipo rispetto alla svalutazione, e nel paese non resterebbe nulla.
Anche se potessimo tornare collettivamente alle nostre monete nazionali in tutta l’eurozona, paesi come la Germania, la cui moneta è stata cancellata in conseguenza dell’euro, vedrebbero salire alle stelle i loro rapporti di cambio. Ciò significherebbe che la Germania, che al momento ha una bassa disoccupazione ma un’elevata percentuale di lavoratori poveri, vedrebbe tali lavoratori poveri diventare disoccupati poveri. E ciò si ripeterebbe dovunque in Europa orientale e centrale: in Olanda, Austria, Finlandia, in quelli che chiamo paesi in attivo. Mentre in luoghi come Italia, Portogallo e Spagna, e anche in Francia, ci sarebbe contemporaneamente una fortissima caduta dell’attività economica (a causa della crisi in paesi come la Germania) ed un forte aumento dell’inflazione (perché le nuove monete in quei paesi dovrebbero svalutare in misura molto considerevole, provocando il decollo dei prezzi all’importazione di petrolio, energia e merci fondamentali).
Dunque, se torniamo nel bozzolo dello Stato-nazione, avremo una linea di faglia lungo il fiume Reno e le Alpi. Tutte le economie ad est del Reno ed a nord delle Alpi finirebbero in depressione ed il resto dell’Europa sprofonderebbe in una stagflazione economica caratterizzata da elevata disoccupazione e inflazione.
Potrebbe addirittura scoppiare una nuova guerra; magari non si tratterebbe di una guerra vera e propria, ma le nazioni si scaglierebbero l’una contro l’altra. In un modo o nell’altro, l’Europa farebbe ancora una volta affondare l’economia mondiale. La Cina sarebbe devastata da questo e la fiacca ripresa statunitense svanirebbe. Avremo condannato il mondo intero ad almeno una generazione perduta. Eventi di questo tipo non vanno mai a vantaggio della sinistra. Saranno sempre gli ultranazionalisti, i razzisti, i fanatici ed i nazisti a trarne profitto.
L’euro o l’Unione Europea possono essere democratizzati?
Fondiamo entrambe le cose per il momento. L’Europa può essere democratizzata? Sì, penso di sì. Lo sarà? Sospetto di no. Se mi chiedi le mie previsioni, io sono molto pessimista. Penso che il processo di democratizzazione abbia pochissime possibilità di successo. Nel qual caso avremo una disintegrazione ed un futuro molto cupo. Ma la differenza, quando parliamo della società o del tempo, è che al tempo non interessa un fico secco delle nostre previsioni, dunque possiamo permetterci di rilassarci e guardare il cielo e dire che pioverà perché una tale affermazione non influenza la probabilità che piova. Ma quando si tratta di società e di politica abbiamo un dovere morale e politico di essere ottimisti e di dire, d’accordo, di tutte le scelte che ci sono disponibili, qual è quella che ha meno probabilità di causerà una catastrofe? Per me si tratta del tentativo di democratizzare l’Unione europea. Penso che riuscirà? Non lo so, ma se non spero che ci riusciremo, non posso alzarmi dal letto al mattino.
Democratizzare l’Europa è una questione di rivendicare principi fondamentali o di sviluppare una nuova idea di sovranità?
Entrambe le cose. Non c’è nulla di nuovo sotto il sole. L’idea di sovranità non cambia, ma il modo in cui si applica ad aree multietniche e multi-giurisdizionali come l’Europa va ripensata. È sempre stato frustrante cercar di convincere i francesi ed i tedeschi che c’è una profonda differenza tra un’Europa delle nazioni e un’Unione europea. I britannici lo capiscono meglio, specialmente i conservatori, ironicamente. Sono sostenitori di Edmund Burke, anti-costruttivisti che ritengono che debba esserci una mappatura uno a uno tra nazione, parlamento e moneta: una nazione, un parlamento, una moneta.
Quando chiedo ai miei amici Tory: «Ma e la Scozia? Gli scozzesi non sono una nazione vera? E in tal caso non dovrebbero avere uno Stato e una moneta separate?», la risposta che ottengo assume la forma seguente: «Naturalmente ci sono una nazione scozzese, gallese e inglese e non c’è una nazione britannica, ma c’è un’identità comune, forgiata come esito di guerre di conquista, partecipazione all’impero e via di seguito». Se questo è vero, e può esserlo, allora è possibile dire che nazionalità diverse possono essere legate da un’identità comune in evoluzione. Dunque è così che mi piacerebbe vederla. Non avremo mai una nazione europea, ma possiamo avere un’identità europea che corrisponda ad un popolo europeo sovrano. Dunque manteniamo il concetto vecchio stile di sovranità, ma lo colleghiamo ad un’identità europea in sviluppo, cioè collegata da una sovranità e da un parlamento unici che mantengono pesi e contrappesi sul potere esecutivo a livello europeo.
Al momento abbiamo l’ECOFIN, l’Eurogruppo ed il Consiglio Europeo che prendono decisioni importanti per conto del popolo europeo, ma questi organismi non rispondono ad alcun parlamento. Non è sufficiente dire che i membri di queste istituzioni rispondono ai loro parlamenti nazionali perché i membri di queste istituzioni, quando tornano in patria per presentarsi al proprio parlamento nazionale, dicono: «Non guardate me. Io ero in disaccordo su tutto a Bruxelles ma non ho avuto il potere di prendere una decisione, perciò non sono responsabile delle decisioni dell’Eurogruppo o del Consiglio o dell’ECOFIN». Fino a quando questi organismi istituzionali non potranno essere censurati o licenziati come organismo da un parlamento comune non si avrà una democrazia sovrana. Dunque dovrebbe essere questo l’obiettivo in Europa.
Alcuni sosterrebbero che questo rallenterebbe il processo decisionale e lo renderebbe inefficiente.
No, penso che non rallenterebbe il processo decisionale, lo rafforzerebbe! Al momento, poiché non c’è questo tipo di responsabilità, non viene presa nessuna decisione fino a quando è impossibile non agire. Continuano a rimandare, rimandare, negare un problema per anni e poi abborracciano un risultato all’ultimo minuto. Questo è il sistema più inefficiente in assoluto.
Ora sei impegnato nel lancio di un movimento per la democrazia in Europa. Parlacene.
Il lato positivo del modo in cui il nostro governo è stato schiacciato l’estate scorsa è che milioni di europei sono stati allertati sul modo in cui è gestita l’Europa. La gente è molto, molto arrabbiata, anche persone che dissentono da me e da noi.
Da mesi sto girando l’Europa da un paese all’altro cercando di promuovere la consapevolezza delle sfide comuni che abbiamo di fronte e della tossicità che deriva dalla mancanza di democrazia. Questo è stato il primo passo. Il secondo passo è consistito nel diffondere un manifesto, poiché i manifesti sono importanti in quanto concentrano l’attenzione e possono divenire punti focali per le persone arrabbiate e preoccupate e che vogliono partecipare ad un processo di democratizzazione dell’Europa.
Così, nelle prossime settimane metteremo in scena un evento importante a Berlino (il 9 febbraio), tenuto là per evidenti motivi simbolici, per lanciare il manifesto e sollecitare gli europei di tutti e 28 gli Stati membri ad unirsi a noi in un movimento che ha un unico semplice programma: democratizzare l’UE o abolirla. Perché se permetteremo che le attuali strutture e istituzioni burocratiche e non democratiche di Bruxelles, Francoforte e Lussemburgo continuino a gestire le politiche per nostro conto, finiremo nella distopia che ho descritto in precedenza.
Dopo l’evento di Berlino abbiamo in programma una serie di eventi in tutta Europa che daranno al nostro movimento lo slancio necessario. Non siamo una coalizione di partiti politici. L’idea è che ciascuno possa aderire indipendentemente dall’affiliazione partitica e dall’ideologia perché la democrazia può essere un tema unificante. Possono aderire persino i miei amici Tory o liberali che sono in grado di capire che l’UE non è solo insufficientemente democratica ma antidemocratica e, per tale motivo, economicamente incompetente.
In termini pratici come immaginiamo il nostro intervento? Il modello della politica in Europa si è basato su partiti politici specificamente nazionali. Così, un partito politico cresce in un paese particolare, elabora un manifesto che fa appello ai cittadini di quel paese e poi, solo una volta che il partito si trova al governo, vengono compiuti dei tentativi di costruire alleanze con partiti che la pensano allo stesso modo in Europa, nel Parlamento europeo, a Bruxelles, ecc. Per quanto mi riguarda questo modello di politica è finito. La sovranità dei parlamenti è stata dissolta dall’eurozona e dall’Eurogruppo; la capacità di adempiere al proprio mandato al livello dello Stato-nazione è stata sradicata e perciò qualsiasi manifesto rivolto ai cittadini di un particolare Stato membro diventa un esercizio teorico. I mandati elettorali sono ora per definizione impossibili da adempiere.
Così, invece di passare dal livello dello Stato-nazione a quello europeo, abbiamo pensato che dovevamo fare l’inverso; che dovevamo costruire un movimento paneuropeo transnazionale, tenere un confronto in quello spazio per identificare politiche comuni per affrontare problemi comuni e, una volta ottenuto il consenso su strategie comuni a livello europeo, tale consenso potrà trovare espressione a livello di Stato-nazione, regionale e municipale. Dunque stiamo rovesciando il processo, partendo dal livello europeo per tentare di trovare consenso per poi scendere verso il basso. Questo sarà il nostro modus operandi.
Quanto alla tempistica, abbiamo diviso il prossimo decennio in diversi periodi, perché abbiamo al massimo un decennio per cambiare l’Europa. Se arrivati al 2025 avremo fallito allora non penso ci sarà un’Unione europea da salvare o persino di cui parlare. A quelli che vogliono sapere che cosa vogliamo ora la risposta è: trasparenza! Come minimo stiamo chiedendo che le riunioni del Consiglio europeo, dell’ECOFIN e dell’Eurogruppo siano messe in rete in tempo reale, che i verbali della Banca centrale europea siano pubblicati e che i documenti relativi ai negoziati sugli scambi, come il TTIP, siano resi disponibili in rete. Nel breve-medio termine discuteremo il ridispiegamento delle istituzioni UE esistenti nell’ambito dei trattati esistenti (per quanto orribili), con l’ottica di stabilizzare la crisi in corso nel campo del debito pubblico, della carenza d’investimenti, del settore bancario e della crescente povertà. Infine, nel medio-lungo termine, solleciteremo la convocazione di un’assemblea costituente dei popoli dell’Europa, con il potere di decidere sulla costituzione democratica futura che sostituirà tutti i trattati europei esistenti.
Sembra che stiamo vivendo in un periodo sia difficile che di speranza. Assistiamo alla crescente popolarità di partiti come Podemos in Spagna, della sinistra in Portogallo, di Jeremy Corbyn nel Regno Unito e così via, ma al tempo stesso abbiamo l’esperienza di SYRIZA schiacciata senza cerimonie della troika. Quale speranza ricavi da questi rifiuti popolari delle politica di austerità, considerata l’esperienza di SYRIZA?
Penso che l’ascesa di questi partiti e movimenti contrari all’austerità dimostri chiaramente che i popoli europei, non solo in Spagna e in Grecia, ne abbiano piene le scatole del vecchio genere di politica, delle politiche incentrate sull’uniformità che hanno riprodotto la crisi e spinto l’Europa su un percorso di disintegrazione. Non ci sono dubbi al riguardo.
La questione è: come possiamo guidare tale scontento? Nel nostro caso, in Grecia, abbiamo fallito. C’è un grande distacco tra la dirigenza del partito e le persone che l’hanno votato. È per questo che credo che concentrarsi sullo Stato-nazione sia una cosa del passato. Se Podemos entrerà nel governo lo farà nelle stesse condizioni estremamente limitanti imposte dalla troika, proprio come il nuovo governo in formazione in Portogallo. A meno che tali partiti progressisti siano sostenuti da un movimento paneuropeo che eserciti una pressione progressista dovunque e contemporaneamente, finiranno per frustrare i loro elettori, costretti ad accettare tutte le regole che impediscono loro di adempiere ai loro mandati.
È per questo che pongo l’accento sulla costruzione di un movimento paneuropeo. È perché il solo modo per cambiare l’Europa consiste nel farlo attraverso un’onda che sorga in tutta Europa. Altrimenti i voti di protesta che si manifestano in Grecia, Spagna, Regno Unito, Portogallo, ecc. se non sono sincronizzati alla fine si dissolveranno, lasciando dietro di sé null’altro che l’amarezza e l’insicurezza prodotta dalla frammentazione inarrestabile dell’Europa.
Articolo pubblicato sul sito del TNI il 18 gennaio 2016 e sul sito di eunews.it