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Timothy Garton Ash
Se l'economia assomiglia alla medicina
6 Febbraio 2016
Critica
«L'economia non è una scienza esatta come la fisica. Per essere valida l’economia deve tenere in considerazione la cultura, la storia, la geografia, le istituzioni, la psicologia individuale e di gruppo».

La Repubblica, 5 febbraio 2016, con postilla

Il Guardian ha chiesto a nove economisti se sia o meno in vista una nuova crisi finanziaria globale e, ovviamente, gli interpellati hanno dato nove risposte diverse. Eppure continuiamo a rivolgerci agli economisti quasi fossero medici, capaci di prognosi scientifiche sul comportamento del corpo economico. Sia noi consumatori che loro dobbiamo essere più realistici riguardo alle possibilità dell’economia. Un approccio più misurato sia sul fronte dell’offerta che della domanda in economia produrrà risultati migliori.

A seguito della grave crisi iniziata quasi dieci anni fa si è riflettuto sugli errori commessi in campo economico. Probabilmente l’autocritica avrebbe dovuto essere più ampia, sia in ambiente accademico che bancario, ma c’è stata. Gli esperti economici indipendenti che ruotano attorno all’Istituto per il nuovo pensiero economico (Inet) di George Soros hanno fornito ad esempio un resoconto rivelatore su ciò che non ha funzionato.
Adair Turner, testimone di prima mano del processo decisionale economico ai massimi livelli in qualità di responsabile dell’Autorità britannica per i servizi finanziari (Fsa) e ora presidente dell’Inet, fornisce un’analisi equilibrata e convincente nel suo libro Between Debt and the Devil (Tra debito e demonio). È vero che i massimi economisti hanno messo in discussione i modelli matematici del mercato perfetto ed è altrettanto vero che i mercati finanziari possono aver seguito versioni troppo semplicistiche di tali modelli. Ciò nonostante, sostiene Turner, «l’economia accademica e l’ortodossia politica dominanti non hanno saputo prevedere la crisi e in realtà vi hanno contribuito».
I più gravi errori sono stati «la teoria del mercato efficiente» e la «teoria delle aspettative razionali». Troppo spesso gli economisti hanno postulato che gli attori del mercato non solo si comportassero razionalmente, ma addirittura in base agli schemi mentali sviluppati dagli economisti. (Soros stesso ha tentato per mezzo secolo di evidenziare questa stortura). La moderna macroeconomia inoltre «ha trascurato in larga misura le attività del sistema finanziario e in particolare il ruolo delle banche».
Il fondamentalismo del mercato si considerava diametralmente opposto all’economia pianificata comunista, ma in realtà ha compiuto lo stesso errore fondamentale, ossia credere che il modello razionale potesse comprendere, prevedere e potenziare la complessità dinamica del comportamento collettivo umano. Per dirla con Roman Frydman e Michael Goldberg: «L’economista, al pari di un pianificatore socialista, crede quindi di poter ottenere grandi risultati perché suppone di aver finalmente svelato il meccanismo inesorabile che determina gli esiti del mercato».
Gran parte dell’economia accademica è in passato caduta preda della cosiddetta «invidia della fisica», per analogia con il concetto freudiano di invidia del pene. Come alcune altre discipline dell’ambito delle scienze sociali, aspirava allo status, all’esattezza e alla prevedibilità della fisica. Ho pensato a lungo che ad alimentare questa hybris contribuisse il fatto che l’economia, unica tra le scienze sociali, ha un Premio Nobel. Per esattezza si tratta del Premio della Banca di Svezia per le scienze economiche in memoria di Alfred Nobel, attribuito dalla Banca centrale svedese per la prima volta nel 1969. Pur non rientrando tra i Nobel originari viene però universalmente definito premio Nobel per l’economia e gli economisti vengono nobilitati dalla speciale aura che tuttora il premio mantiene.
Inoltre politici e decision-maker danno retta agli economisti, mentre non ne danno ad esempio ai politologi della scuola della Scelta Razionale, che domina in molte facoltà universitarie americane. Forse perché se un politico avesse aderito alla teoria della scelta razionale sarebbe stato subito esonerato dal suo incarico, mentre la cittadinanza ha dovuto pagare i danni per conto di chi ha applicato la teoria della scelta razionale in ambito economico.
Questo non significa che non si debba dare retta agli economisti, né che l’economia non meriti un premio Nobel. Significa solo che non è una scienza esatta come la fisica. Per essere valida l’economia deve tenere in considerazione la cultura, la storia, la geografia, le istituzioni, la psicologia individuale e di gruppo. John Stuart Mill disse che non si può essere buoni economisti se non si è altro e John Maynard Keynes osservò che un economista dovrebbe essere «matematico, storico, statista e in qualche misura filosofo». Keynes diede dell’economia un’altra straordinaria definizione affermando che «è essenzialmente una scienza morale».
Si potrebbe in realtà sostenere che il premio Nobel per l’economia si colloca in un ambito intermedio tra quello per la fisica, la letteratura e la pace. L’economia è nel migliore dei casi una disciplina pluridimensionale, basata su dati concreti, attenta a tutti gli influssi esercitati sul comportamento umano, al contempo ambiziosa nei propositi e modesta nell’avanzare pretese su ciò che è possibile prevedere delle vicende umane.
A cosa dovrebbe portare questa visione riveduta e corretta del carattere e del ruolo dell’economia? Non conosco abbastanza i corsi universitari di questa disciplina per poter stabilire se necessitino o meno di una maggiore flessibilità, ma sono rimasto colpito dal manifesto pubblicato qualche anno fa dagli studenti di economia dell’Università di Manchester. Propugnava un approccio «che parta dai fenomeni economici per poi dare agli studenti gli strumenti per valutare se per spiegarli siano valide prospettive diverse» rispetto ai modelli matematici basati su postulati irrealistici. Un collega sostiene di aver sentito litigare due economisti in un’aula del Nuffield College a Oxford, e uno avrebbe esclamato: «Sai che ti dico, allora postula l’immortalità!». Se l’economia è come le altre discipline probabilmente il cambiamento è più lento di quanto dovrebbe perché i docenti anziani procedono per forza d’inerzia.
Poi bisogna tener conto del comportamento dei grandi protagonisti dell’economia, siano essi ministri, vertici delle banche centrali o dell’imprenditoria. Ho letto recentemente uno splendido discorso tenuto nel 2003, ben prima della crisi, da Charlie Munger, socio di Warren Buffett nella holding americana Berkshire Hathaway. «La Berkshire ha sempre agito senza tenere in minima considerazione la teoria dei mercati efficienti nella sua forma più rigida» - diceva, aggiungendo che i risultati dell’applicazione di tale dottrina nell’ambito della finanza d’impresa «erano ancor più ridicoli che in economia». Munger consigliava saggiamente di recuperare il carattere multidisciplinare proprio dell’economia, senza sopravvalutare il quantificabile rispetto al non quantificabile, né cedere alla smania di una falsa precisione, né privilegiare le teorie macroeconomiche rispetto alla microeconomia reale, che contribuiva a guidare le decisioni di investimento a lungo termine della Berkshire.
Noi comuni mortali dovremmo imparare la lezione. Dovremmo chiedere ai nostri economisti, come ai medici, solo quello che possono fare. La componente scientifica è maggiore in medicina che in economia, ma la stessa ricerca medica indica che la nostra salute dipende in gran parte da altri fattori, in particolare psicologici e che molto resta da scoprire. Gli economisti sono come i medici, ma non proprio allo stesso livello.
Traduzione di Emilia Benghi

postilla

Non è detto che - come sembra sostenere Garton Ash - una scienza, per essere tale, debba essere "esatta". E non è detto che gli economisti "classici" (se volete, da Adamo Smith a David Ricardo a Karl Marx, e discendenti) siano meno attendibili nelle loro previsioni di quelli che, patendo dell'"invidia della fisica", si ammantano di tecnologico scientismo.


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