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Sommario del testo completo

Premessa

La contraddizione originaria della legge 1497 del 1939

La tutela è fondata sul valore culturale, la pianificazione sul valore venale

Due luoghi comuni che vanno cancellando la tutela

Nella tutela del paesaggio il giudizio estetico non è "soggettivo"

La tutela vincolistica ha un grado di coerenza al divenire maggiore della pianificazione

La tutela "attiva" non va confusa con quella normativa

La tutela ha un grado di creatività superiore ad altre progettazioni

Flash sul "mirabile" governo della Toscana Felix

Premessa

Prendo le mosse dall’intervento di L. Scano, Tutela del paesaggio: imprecisioni e rischi, pubblicato nel sito eddyburg, per poi sviluppare gli argomenti a sostegno della mia tesi che la pianificazione non può tutelare i beni paesaggistici, ma solo contribuire potentemente a distruggerli.

Scano considera infondato ciò che Settis asserisce su la Repubblica del 17 novembre 2006, ossia «che secondo la legge 29 giugno 1939, n. 1497, "la tutela si esprime con atti generici che vincolano sì un determinato paesaggio, ma non specificano che cosa, in ciascun caso, non può essere a nessun costo modificato"». La dimostrazione dell’infondatezza Scano la dà citando alcuni passi della «relazione svolta dal Ministro dell'educazione nazionale, Giuseppe Bottai, per presentare alla Camera il disegno di legge recante "Protezione delle bellezze naturali"». Il passo della relazione di Bottai più significativo, tra quelli riportati da Scano, è il seguente: "quello che è essenziale alla conservazione d'una bellezza d'insieme è che le variazioni [...] siano in armonia con un piano preventivo concepito con un'unità di criteri razionali ed estetici. E questo preventivo piano […] è appunto il piano territoriale paesistico [...]; esso, sottraendo le modificazioni al capriccio del singolo che se anche voglia prestare omaggio alle esigenze estetiche non può ispirarsi a una veduta d’insieme soverchiatrice delle sue possibilità, fa sì che una bellezza paesistica o panoramica si conservi come essere vivente, ossia trasferendo nel mutabile o mutato suo volto i segni suoi caratteristici e cioè i lineamenti costitutivi della sua bellezza".

Ciò che Scano intende mostrare, mi pare, è che l’intento del legislatore del ‘39 non fosse quello di tutelare il paesaggio con vincoli "generici", ma con puntuali e cogenti atti di piano, i piani appunto "territoriali paesistici". E ciò proprio perché le bellezze d’insieme, ossia quelle "bellezze" che nella legge più si avvicinano al concetto di paesaggio, sono beni "viventi", di cui, quindi, non si può prescrivere, come per altri beni, l’assoluta "invariabilità".

Da oltre venti anni in più occasioni mi sono occupato della tutela delle bellezze naturali e del paesaggio, anche con ricerche sulle origini delle norme in materia. Conosco, dunque, molto bene i documenti, il pensiero e la cultura che stanno alla base della legge del 1497 del 1939. Posso perciò confermare, che l’intento del legislatore e di coloro che promossero quella legge, è, almeno in parte, quello indicato da Scano e che emerge nelle parole del Ministro. Nella sua relazione, Bottai non fa altro che riproporre ciò che ha ascoltato dagli urbanisti di allora, in specie dal "grande" Giovannoni, ispiratore della legge già nei primi del ‘900 e autentico inventore del "piano territoriale paesistico".

Allora, sto forse confermando che Settis si sbaglia? Assolutamente no! Settis ha perfettamente ragione, e quel che Settis dice ora, lo vado dicendo e scrivendo da tempo. È, invece, Scano che – in compagnia della quasi totalità degli urbanisti – non riesce a vedere dove sta la debolezza originaria di quella legge, le cui norme sono tuttora in vigore, ma col suo errore di fondo amplificato dalla "legge Galasso" e perfezionato dal Codice dei beni culturali e paesaggistici. D’altra parte è proprio lo stesso Scano, nel resto del suo intervento, in cui giunge a dichiararsi "preoccupato", a mostrare con dati e fatti, quanto la tutela sia sostanzialmente elusa da leggi regionali e da un pianificare manchevole o inadeguato.

Ora, se da un lato abbiamo la pianificazione che, come Scano ben vede, continua o a latitare o a mostrarsi inefficace e ambigua; dall’altra abbiamo invece numerosi luoghi (in Toscana trecento) che, tra gli anni Cinquanta e i Settanta, sono stati dichiarati "bellezze naturali d’insieme" in base alle norme della legge del ’39. Per quale motivo dovremmo continuare, dopo 67 anni di vigore della legge, a lasciare questi decreti di vincolo "generici", muti e inerti, in attesa dei miracoli pianificatori? Quello che Settis ha inteso implicitamente dire è proprio questo: per evitare che la tutela continui ad essere arbitraria e incerta, facciamo parlare i vincoli con atti normativi specifici, che dicano cosa non deve essere modificato all’interno di quei luoghi tutelati; piuttosto che fidarsi ancora di atti di piano, che si vorrebbe dicessero a chiunque in avvenire come si dovrebbe costruire in quei luoghi.

Qui la replica di Edoardo Salzano, Meglio il decreto di vincolo che la pianificazione?

Quando in Italia all’inizio degli anni Settanta si avvia praticamente l’ordinamento regionale previsto dalla Costituzione, il territorio nazionale inizia ad essere solcato da nuovi confini, che non sono più semplicemente convenzionali o statistici, ma iniziano a diventare linea di demarcazione fra una entità politica e un’altra. Questi confini, al loro esterno tagliano in modo indiscriminato aree di fatto omogenee, e all’interno perimetrano aree molto diverse, riconducendo a unità istituzionale bacini territoriali a volte complementari, a volte concorrenti, più spesso potenzialmente estranei: prima nella percezione sociale diffusa, a volte anche nel sistema di integrazione socioeconomica e produttiva.

Ciò vale, contemporaneamente, per gli aspetti di governo regionale e di coordinamento interregionale, di programmazione socioeconomica, di pianificazione territoriale. L’urbanistica, nell’accezione estesa che la parola assume e/o consolida in questo periodo, ha un ruolo centrale: sia nel prefigurare lo spazio per la nuova società, sia come «contenitore» di istanze emergenti tese ad una migliore qualità della vita, dell’ambiente, degli spazi di produzione e riproduzione. Anche dal punto di vista lessicale e nel linguaggio comune, termini come «territorio», o «comprensorio», arricchiscono un dibattito articolato orizzontalmente così come verticalmente, fra discipline scientifiche, livelli decisionali, strati sociali. E’ quanto, poco dopo, sarà definito con toni vagamente polemici «ideologia della partecipazione», ma al tempo stesso rappresenta la conclusione di un ciclo di modernizzazione, di cui le ben note immagini di conflitto politico, economico, culturale, generazionale di fine anni Sessanta, rappresentano solo la punta emergente.

Il ruolo dell’urbanistica - o meglio della pianificazione territoriale - in tutto questo è certamente di primo piano: nel cogliere l’emergere di nuovi bisogni, nel saper mettere in discussione il proprio statuto, nell’apertura a nuovi apporti, contributi, critiche. Nello stesso tempo, la disciplina nel suo processo di rifondazione ha, rispetto ad altre, alcuni vantaggi ed un carico extra di responsabilità. I vantaggi sono di immagine e di sostanza, visto che la cultura urbanistica per tutti gli anni Sessanta si è proposta con qualche successo come nodo di sintesi fra i grandi programmi della modernizzazione, e gli spazi della vita quotidiana. L’ handicap è uno solo: ai piani, per quanto razionali, non corrispondono mai generalizzate azioni coerenti, e la crescita del Paese continua in modo «squilibrato», o almeno «irrazionale».

A questo stato delle cose - si è ormai sicuri - potrà porre rimedio l’attuazione delle Regioni a statuto ordinario, che per la prima volta chiariranno in pratica il senso dei piani regionali, dei comprensori, del coordinamento territoriale, delle aree metropolitane ... di tutto quanto, insomma, si è teorizzato per decenni, senza alcun riscontro concreto. A riforma avvenuta, le prime mosse delle Regioni nel campo della pianificazione territoriale lasciano perplessi gli urbanisti, che individuano un riemergere di particolarismi sicuramente nocivi al coordinamento sovracomunale e interregionale indispensabile ...

Si potrebbe continuare all’infinito, nel rimpallo fra uno stato ideale delle cose e la realtà quotidiana, se la specifica questione non rinviasse a un preciso «nodo» storico italiano, in tutto e per tutto paragonabile dal punto di vista disciplinare a quello dei primi anni Settanta del nostro secolo: la riforma dello Stato e la contemporanea rifondazione dell’urbanistica nella seconda metà degli anni Venti. Perché, questo apparentemente arbitrario accostamento? Perché non collocare l’arco storico fra il fascismo e la guerra, o fra la ricostruzione e la programmazione, o fra il boom economico e le Regioni?

Detto in altre parole, cos’hanno in comune l’atmosfera riformatrice dei primi anni Settanta, e la ricomposizione conflittuale di interessi alla metà degli anni Venti? Potremmo rispondere: una poco conosciuta evoluzione, continua anche se contraddittoria, dell’idea di pianificazione territoriale che, proprio in questo arco di tempo, percorre completamente un ciclo generazionale coinvolgendo protagonisti, culture, rapporti con la società e le istituzioni. La chiave di lettura individuata per ricostruire questo processo, è quella della «sovracomunalità», ovvero dell’inseguimento dei processi insediativi e di trasformazione dell’ambiente determinati dall’ampliata scala operativa dell’impresa, dell’intervento pubblico, dei corrispondenti effetti sociali.

Sovracomunalità è un termine solo apparentemente generico, volto a riassumere quanto esula dai confini comunali: la sua articolazione e «specializzazione» è l’oggetto principale del percorso di studio proposto. Per l’urbanistica italiana degli anni Venti, la sovracomunalità rappresenta una vera e propria nuova frontiera: quando i problemi saranno troppo vasti per essere contenuti entro la dimensione municipale, sarà indispensabile estendere - genericamente - sul territorio le analisi e il progetto. All’indeterminatezza dimensionale e di confine dei nuovi spazi del piano, si somma da subito l’incognita di quale autorità potrà farsi carico dell’onere di progettazione, coordinamento, attuazione, di un simile schema. La riorganizzazione dello Stato che parte dalla istituzione del Governatorato di Roma nel 1925, sembra porre in primo piano una questione di efficienza che va oltre l’abolizione delle autonomie locali: la scala dei problemi da risolvere è troppo ampia rispetto alle potenzialità culturali e finanziarie della municipalità tradizionale. Contemporaneamente, fra il 1924 e il 1928, le scienze del territorio conoscono una prima fondamentale riorganizzazione: ingegneri e architetti rivendicano autonomia rispetto alle discipline igieniche e amministrative tipiche dell’epoca municipale; il nuovo punto di vista si stabilizza in un sistema formativo a livello universitario; la vecchia accezione di «urbanismo» si traduce in «urbanistica», intrinsecamente legata alla cultura degli architetti che propongono un punto di vista fortemente innovativo ai problemi della città e del territorio. E’ l’inizio di un periodo di rifondazione disciplinare, e di legittimazione sociale, di cui l’Istituto Nazionale di Urbanistica si fa carico, e che dal punto di vista della sovracomunalità vede emergere due linee di ricerca: una legata ai problemi delle aree metropolitane, un’altra (più politicamente corretta e propagandata) connessa alle zone rurali o marginali. Anche il progetto di legge urbanistica nazionale del 1932-34 propone per la prima volta ufficialmente il tema del piano «regionale/intercomunale», e la contemporanea stagione dei concorsi di piano regolatore si arricchisce di studi e schemi di coordinamento che travalicano di molto i confini municipali.

Quello degli architetti/urbanisti, però, non è il solo filone di dibattito su questi temi. Il riordino degli enti locali, la questione delle città metropolitane, la bonifica integrale delle aree svantaggiate, sono temi che indirettamente condizionano la discussione (in assenza di pratiche sperimentazioni). Quando nel 1937 l’INU convoca il suo primo congresso nazionale, in qualche modo il tema della «regione», o in generale della sovracomunalità, permea buona parte degli interventi: come perimetrare un’area di pianificazione? quale ente normale o speciale incaricare per la compilazione e l’attuazione? quali competenze tecniche coinvolgere e con che criteri gerarchici?

La legge urbanistica del 1942 raccoglie tutte queste istanze in un testo organico, lasciandone intatta la natura propositiva aperta, proprio nel momento in cui l’organizzazione statuale e sociale entro cui si erano sviluppate entra in crisi. Con la caduta del fascismo, il problema sembra essere semplicemente quello di adattare un sistema di pianificazione territoriale tecnicamente ineccepibile, ai nuovi obiettivi della società pluralista, decentrata, articolata in sistemi decisionali non gerarchici. Alcune acquisizioni degli studi urbanistici degli anni Trenta, si propongono come sfondo per una nuova organizzazione democratica dello Stato, funzionale alla partecipazione sociale, alla efficienza dell’impresa in un sistema capitalistico aperto, alla razionalità del sistema insediativo.

E’ un momento di grande rinnovamento culturale, che però da un lato non vede particolari svolte nel rapporto fra urbanistica e altre discipline territoriali, dall’altro sancisce l’ennesima cesura fra l’ambito della decisione politica e quello delle conoscenze scientifiche: le «regioni» deliberate dalla Costituente come segno di rottura rispetto al centralismo fascista, dal punto di vista del ritaglio territoriale non sono altro che la somma delle circoscrizioni statistiche provinciali, abbozzate dopo l’unità nazionale in una logica perfettibile e transitoria.

Gli anni Cinquanta sono caratterizzati da una prima, importante convergenza fra scienze del territorio, che va ben oltre l’episodicità dei decenni precedenti. E’ una stagione di congressi, incontri, proposte anche politiche, di cui i più noti convegni INU sulla pianificazione regionale (1952) e intercomunale (1956) sono solo parzialmente rappresentativi. L’elemento più importante, ora sembra essere una inversione di tendenza: pur con notevoli resistenze, il ruolo dell’urbanistica come unico «contenitore» interdisciplinare nel coordinamento territoriale si attenua, a favore di un recupero di altri approcci. Quello del confronto alla pari con altri strumenti analitici è un percorso importante, che lungo il corso del decennio finisce per trasformare in modo non superficiale l’idea di pianificazione, aprendo la strada all’ultima fase evolutiva: il rapporto fra programma economico, piano territoriale, moltiplicazione dei centri decisionali.

Gli anni Sessanta si aprono con l’importante riflessione del Codice dell’Urbanistica, che affronta il tema dei rapporti fra disciplina, forme di governo e amministrazione. E’ solo un primo passo, che negli anni successivi vedrà convergere i temi della riforma urbanistica, della programmazione economica, del riordino degli enti locali e dell’istituzione delle Regioni. E’ un decennio ricco, quello dei Sessanta, ma a ben vedere gli elementi di innovazione riguardano soprattutto l’intreccio di temi, anziché l’emergere di novità. Molti termini che entrano - più o meno definitivamente - a far parte in questo periodo del bagaglio culturale delle discipline territoriali, hanno origine nei decenni precedenti, e solo il mancato o esiguo riscontro interdisciplinare ne ha impedito l’emergere e il consolidarsi.

Il senso di un percorso di ricostruzione critico delle vicende accennate sopra, è da un lato quello di ricostruire il formarsi nel tempo di alcuni concetti e idee connesse al piano sovracomunale, dall’altro sottolinearne la sostanziale marginalità, almeno fino agli anni Sessanta. Perché la scala «regionale» della pianificazione non decolla negli anni del fascismo? Perché la ricostruzione postbellica e il dibattito della Costituente non intrecciano proficuamente le conoscenze tecniche e scientifiche in materia di regionalità, pianificazione territoriale, governo locale? Le risposte a queste, come a molte altre domande, potrebbero essere molte e diverse, ma una su tutte sembra emergere dalle lettura alla base dello studio che proponiamo: l’assenza o scarsezza di punti fermi, di «regole» chiare e acquisite, e la tendenza a ripartire ogni volta da zero.

Generazioni di studiosi e professionisti si ritrovano apparentemente a «scoprire» volta per volta ciò che altre discipline o altri studiosi avevano già proposto e discusso pubblicamente. La città-regione, il comprensorio, l’integrazione fra economia e piani territoriali regionali, non sono «scoperte» degli anni Sessanta, ma anche letteralmente acquisizioni di molti anni prima, e per un motivo o per l’altro momentaneamente accantonate, poi riprese, poi di nuovo abbandonate.

Una parzialissima spiegazione di tutto questo, potrebbe essere la forma associativa degli urbanisti, che privilegiando sin dalla fine degli anni Venti l’approccio progettuale/professionale degli architetti e ingegneri, avrebbe rallentato il convergere degli studi multidisciplinari. Ma anche da parte delle altre discipline «territoriali», delle loro linee di studio e ricerca negli anni, si manifesta non poca refrattarietà alla costruzione di una scienza del piano, di basi teoriche certe, di traguardi condivisi anche sul piano sociale e istituzionale. Basta ricordare, tra l’altro, la difficoltà delle discipline geografiche ad affrontare i temi territoriali sul versante programmatico oltre che analitico, oppure le rigidità comunicative in termini circoscrizionali, fra economia, statistica, amministrazione, e la stessa urbanistica.

[…]

Ho ricevuto anch’io la lettera dei soci di Italia nostra, che Eddyburg ha pubblicato, e non ho avuto alcuna difficoltà a sottoscriverla. Ho inviato tuttavia a chi aveva sollecitato la mia adesione alcune considerazioni di fondo sulle quali mi piacerebbe che la discussione si allargasse.

Italia Nostra è una tipica associazione protezionistica – tipica, perché radicata soprattutto in ambienti intellettuali e piccolo-borghesi; tipica perché imperniata non su un’opera di gestione, ma su un’opera di denuncia.

Chi mi conosce sa che l’intervento giudiziario (e comunque repressivo) è stato in anni ormai remoti anche la mia bandiera; ma con il fuoco dell’età, e con l’esperienza del limite che l’età matura favorisce, ho perso molta della mia fiducia. Non dico che quel fuoco sia spento; ma certamente, oggi, sono alla ricerca di altre occasioni e di strumenti diversi.

Per farla breve, non mi rifiuto certo alle campagne di denuncia, ma ritengo più urgente e necessario lavorare alla gestione, il più possibile partecipata e condivisa, dei beni paesaggistici. Concedo che un discorso parzialmente diverso si può fare per i beni storici e artistici, perché questi sono meno esposti alle iniziative dei privati ; ma il sistema di vincoli, divieti e autorizzazioni, che dalla legge del 1939 costituisce l’asse portante della tutela territoriale e paesaggistica, è, al momento attuale, assolutamente insufficiente – o meglio controproducente, perché rappresenta spesso un indice di valore pecuniario, che incentiva le privatizzazioni e le alterazioni.

L’ultima modernità o, per dirla con maggior precisione, la contemporaneità che stiamo oggi vivendo ha bruciato ogni valore; al punto che le leggi di tutela trovano applicazione solo parziale ed eccezionale. Si ripercorrano, su una raccolta di giurisprudenza, le sentenze – provvisorie e definitive – che hanno dato applicazione alla Galasso; ci si accorgerà che si tratta di pochissime decisioni e, salvo qualche caso, di decisioni del tutto marginali; ci si accorgerà che, seppure qualche sanzione penale o amministrativa è stata sporadicamente applicata, in pochissimi casi si è dato il via alle restituzioni in pristino o alle confische che la legge prevede.

Non mi trattengo oltre; segnalo invece la ricorrente possibilità che le difese vengano a cadere anche per i beni civici, di cui tutti a parole proclamano l’incommerciabilità e l’immodificabilità, ma che tutti cooperano a commerciare e a modificare in spregio non solo ai vincoli Galasso (automatici e generalizzati, come è ben noto) ma anche ai vincoli propriamente demaniali, tuttora legislativamente operanti, almeno a livello nazionale. Si leggano alcune recenti leggi regionali, come la legge. 6/2002 della Provincia di Trento e la legge 2/2005 della Regione Lazio, che autorizzano i Comuni a vendere nel proprio interesse i beni delle popolazioni – beni altrui a tutti gli effetti - , incamerando il prezzo al bilancio comunale; leggi chiaramente incostituzionali, perché legittimano l’espropriazione dei beni civici nell’interesse dei privati ed anche perché stracciano di fatto ogni vincolo paesaggistico connesso alla qualità demaniale. Entrambe sono passate nella più assoluta indifferenza del Governo (dei Governi) e della Amministrazione dello Stato, compresa quella giudiziaria.

Combatta dunque l’associazione Italia nostra la sua battaglia e sappiano i suoi futuri dirigenti che mi avranno al loro fianco; ma ricordino anche che una vera e radicale protezione ambientale non potrà mai avvenire per vincoli e iniziative repressive, sostanzialmente affidate ad un volontariato di elite, numericamente insufficiente anche se culturalmente attrezzato, ma soltanto per una vera e radicata partecipazione delle popolazioni territorialmente radicate, cui bisogna dunque cominciare a riconoscere dei diritti e dei poteri (collettivi?) sui propri patrimoni.

A partire dal 28 aprile prossimo si voterà per eleggere la nuova dirigenza nazionale di “Italia Nostra”. E’ una occasione fondamentale per ridare una guida stabile e incisiva alla più antica fra le Associazioni che in Italia si battono per la tutela del patrimonio storico, artistico e paesaggistico. Una guida che in questi ultimi mesi si è invece mostrata debole e talora silente di fronte agli attacchi portati, dai ministri Urbani e Buttiglione, al nostro Paese intaccando a fondo o addirittura azzerando una legislazione, a volte secolare, eretta a difesa del nostro splendido patrimonio, accettando tagli devastanti alle spese di mera sopravvivenza delle Soprintendenze, effettuando nomine di tipo clientelare, negando spesso il merito reale ad ogni livello.

Occorre dunque che “Italia Nostra” riacquisti la propria voce, ritorni in campo, assieme alle associazioni con le quali ha collaborato per anni, con grande energia, con programmi precisi e con visioni chiare, insomma con competente autorevolezza, col fine di “ricostruire” una politica seria per la cultura e per i suoi beni minacciati di svendite, privatizzazioni, speculazioni di ogni genere. Per questi obiettivi siamo concordi nell’appoggiare una lista alternativa di candidati i quali vengono dal lavoro intenso delle Sezioni e dei Consigli regionali, da una coraggiosa attività negli organismi di tutela, da posizioni professionali di prestigio: Paolo Berdini, Irene Berlingò, Francesco Canestrini, Antonella Caroli, Beatrice Del Rio, Paolo Ferloni, Andrea Ferraretto, Fiammetta Lang, Teresa Liguori, Alberto Loche, Enrico Magrotti, Roberto Mannocci, Medardo Pellicciari, Evaristo Petrocchi, Gaetano Rinaldi, Margherita Signorini, Federico Valerio. Candidati in buona parte giovani e tuttavia culturalmente attrezzati, in grado di riallacciare un discorso con le nuove generazioni, di ridare slancio e incisività alla nostra Associazione da oltre cinquant’anni sulla breccia a denunciare, proporre, correggere, informare, rinnovando così la grande tradizione degli Zanotti Bianco, dei Bassani, dei Cederna

Desideria Pasolini dall’Onda, Vittorio Emiliani, Gianfranco Amendola, Giuseppe Barbera, Piero Bevilacqua, Carlo Blasi, Vincenzo Cerulli Irelli, Marisa Dalai Emiliani, Silvia Danesi, Felice De Gregorio, Vezio De Lucia, Adriano La Regina, Paolo Leon, Athena Lorizio, Giorgio Nebbia, Arturo Osio, Gaia Pallottino, Antonio Paolucci, Maria Luisa Polichetti , Bernardo Rossi Doria , Simonetta Salacone, Luigi Squarzina, Bruno Toscano, Sauro Turroni, Pietro Valentino, Sofia Varoli Piazza

Lettera aperta a don Paolo Perla, parroco della chiesa di Maria SS. Assunta a Castelnuovo Di Porto, che non distribuirà l’ulivo la Domenica delle Palme.



Caro e reverendo confratello,

Condivido la sua preoccupazione per la coincidenza del giorno delle elezioni con la Domenica delle Palme, in cui è usanza benedire e distribuire rami d’ulivo. Il testo di Gv 12,13 è l’unico che specifica di quale pianta si trattasse, come tutti sappiamo, e parla di rami di palma: questa è forse la soluzione più ovvia al suo problema. Se è vera la frase che le viene attribuita dalla stampa, che usare palme sarebbe imitare gli arabi, le ricordo che i mussulmani pongono rami di palma sulle tombe per onorare i defunti con un segno di vita e gli ebrei con palme compongono il lulav, un ramoscello che portano nella la festa delle capanne. Per i cristiani, la forma della foglia di palma, sin dalle catacombe, oltre al martirio ricorda la spina del pesce, simbolo antichissimo del Cristo. Perché l’ulivo, allora? Perché i vangeli sinottici, come Matteo, fanno scendere Gesù dalla via che da Betfage porta a Gerusalemme, lungo le pendici del Monte degli Ulivi e dicono che la gente prese rami dagli alberi. Ricchissima simbologia anche quella dell’ulivo, dalla nascita del pollone (così sono i figli dell’uomo benedetto da Dio, per il salmista), alla produzione dell’olio, materia sacramentale fra le più nobili: segno di forza, allegrezza, onore, sino alle ceneri che dai rametti rimasti si ottengono per l’inizio della Quaresima successiva.

Lei, reverendo, per transeunti vicende politiche, vuole davvero privare la sua comunità parrocchiale di tanta ricchezza? Se sì, ammiro il suo coraggio, ma temo che dovrà essere conseguente e non prendersela solo con l’ulivo.

Queste, pertanto, potrebbero essere alcune delle rubriche ad hoc, da un ipotetico Ordo Sacratissimae Paris Condicionis Secundum Modum Televisionum Diligentius Servandae In Diebus Dandis Suffragiis Consecratis:

- Non si decori la mensa con l’ulivo e si ricordi che altri fiori sono già vietati dal periodo liturgico.

- Si falcino le margherite eventualmente presenti in prati ed aiuole antistanti la chiesa. Se sul sagrato cresce una rosa, una quercia, un’edera o altra pianta simbolica, si provveda a sradicarla o a coprirla opportunamente. Molte statue raffigurano la B. Vergine o il Bambinello con una rosa in pugno: sostituire il fiore – quando possibile – con altro oggetto adatto, o almeno colorarlo con tinta non equivoca (giallo paglierino o grigio scaffale, per esempio). Anche la corona di dodici stelle dell’Immacolata evoca un’opzione politica: non basta spegnere le lucette, meglio toglierla. Nascondere in sagrestia statue d’armigeri crociati o celtici: Giovanna d’Arco, S. Giorgio, Luigi IX. Corone imperiali, regie, ducali, arciducali, comitali, eventualmente presenti, si possono lasciare in vista, come monito e reperto di collateralismi trascorsi.

- Dal testo evangelico che si legge prima della processione si tolga il riferimento all’asinello, simbolo politico già in antico. Ugualmente, non si proclami il brano del profeta Zaccaria (9,9), dal proprio della celebrazione, che ne fa la cavalcatura del messia.

- Non si scelga il “Canone Romano”, o, se motivi pastorali ne impongono l’uso, si elimini l’inizio del Communicantes: «In unione con tutta la Chiesa». Da ogni Preghiera Eucaristica si espunga la frase «per la nuova ed eterna alleanza».

- Non s’indossino i prescritti paramenti di colore rosso: siano sostituiti da piviale e pianeta in samice dorato bordati d’argento (in mancanza dei quali si può adottare il colore rosaceo). Si evitino conopei, coprileggio, tovaglie o lini sacri con ricami che riproducono spighe, garofani, margherite, rose, edere, foglie o piante di quercia, sole, libri, stelle.

- Si rada al suolo il campanile. È presente in uno o più simboli di partito o lista civica ed è di grande impatto visivo. Ugualmente, saranno da eliminare o velare secondo l’uso antico (ma non di nero o di rosso e in modo che ne sia modificata la forma), tutte le croci, da quella che sovrasta il timpano della chiesa, a quante decorano i vasi sacri: molti succedanei di un noto partito usano ancora la croce come simbolo. Quanto al cimitero, solo per ovvi motivi di praticità se ne potranno semplicemente chiudere i cancelli, invece che abbattere o coprire tutte le croci (salvo che a ciò non provvedano volontariamente le famiglie dei defunti).

- Si vegli a che le lampade votive, in chiesa, nelle cappelle e negli ambienti frequentati dai fedeli, non abbiano forma “a fiamma”. Si spenga temporaneamente la lampada del SS. Sacramento, se di colore rosso.

- Nei giorni precedenti la data delle elezioni si indica un triduo perché il Signore voglia astenersi dall’inviare la pioggia nelle ore del voto: fosse mai che poi appare un arcobaleno proprio sulla chiesa, nell’azzurro del cielo.

Caro confratello: fate questo, sembra dirci la saggezza pastorale, e non vi ergerete a padroni della fede dei fratelli, considerandoli immaturi ed incapaci di discernere. O no?

Suo in Cristo

p. paolo

Si è allungato l’elenco delle vertenze nel territorio, che spesso oppongono punti di vista “circoscritti” a interessi più generali. Vertenze tanto ricorrenti che appare singolare che la questione non sia posta in modo giusto prima, che non si provi, se non in qualche benemerito club, a indicare per tempo la strada per evitare la grande confusione che regna in estemporanei dibattiti ogni volta che qua o là scoppia il caso.

E’ vero: le sinistre radicali non hanno avuto dubbi a schierarsi, nelle diverse circostanze dalla parte degli interessi locali minacciati da una malintesa idea del progresso, nel nome di un’idea di sviluppo che non convince. Ma non mi pare che sia stata dai/nei partiti – troppo pochi i volenterosi della sinistra rossoverde – un’attenzione costante questi temi.

E’ mancata la ricerca di una linea utile a prevenire i conflitti, la determinazione a dare battaglia nel momento delle scelte, appunto quando servirebbe che la politica facesse fino in fondo il suo mestiere. L’ atteggiamento è in genere distratto e rinunciatario: proprio nella fase del confronto sulle decisioni a monte, quelle che produrranno prima o poi gli esiti sgraditi in questo o in quel luogo. Un atteggiamento che muta quando un gruppo sociale prende coscienza e si rivolta con clamore. (Ed eccolo pronto in video il leader, tanto presente quanto più cresce il tono della protesta).

Forse per questa intermittenza nell’azione il partito dei verdi conta su un’ adesione esigua e gli esponenti che si richiamano a temi ambientali nelle altre formazioni politiche sono marginali, scarsamente influenti.

Di valori ambientali, di temi urbanistici si discute troppo poco in proporzione al rilievo che nel Paese hanno paesaggi naturali e urbani e beni storico-artistici. Il sistema territoriale, ampiamente compromesso da incuria, favori alle rendite, abusi ecc., su cui si fonda buona parte della nostra ricchezza è nello sfondo, sbiadito, perché sono sempre altre le cose che contano. Questi temi sono sempre stati in un angolo dei programmi del centrosinistra e delle sinistre, ridotti a pochi principi con molte ambiguità. Sulla Tav-Tac che cosa intenda fare Prodi non è chiaro. E ancora: il disinteresse con cui è passata alla Camera la pessima legge Lupi, i toni concilianti in commissione al Senato, preludono a un accordo di profilo basso in un prossimo futuro?

Nel tempo delle devoluzioni che rimanda a un uso distorto del principio di sussidiarietà, il tema dei poteri decisionali presenta contraddizioni rilevanti proprio in relazione al governo del territorio.

Potrà accadere ancora che brutti provvedimenti presi al centro vengano revocati per sollevazioni popolari. Ma sta anche accadendo che esigenze di rigorosa tutela poste, ad esempio, dal governo regionale sardo, trovino all’opposizione comuni intenzionati a cedere alle pressioni di costruttori di case in riva al mare. I casi controversi sono destinati ad ampliarsi e una riflessione nel merito non può essere rinviata.

***

Per stare più direttamente a noi, alle cose dibattute su Eddyburg, è il caso di osservare ancora che le questioni del governo del territorio non sono state e non sono né in primo né in secondo o piano nell’agenda della politica. Di urbanistica e cose connesse si parla molto poco in proporzione a quanto le scelte urbanistiche incidono sulla qualità della vita di oggi e per gli uomini che verranno.

Si guardi al modo occasionale con cui la stampa tratta questi argomenti, salvo lamentare la bruttezza delle città costruite in questi decenni (non saranno più di una decina gli articoli sulla legge Lupi)

I giornali, i dibattiti televisivi dedicano grande attenzione alle manovre di ogni legge finanziaria. Si riflette continuamente sulle scelte della sanità. Ma chi si occupa di città è chiamato a dire qualcosa a fronte delle emergenze, solo quando le banlieus si rivoltano.

L’economia fa girare il mondo, le scelte economiche possono produrre danni molto gravi (i ricchi più ricchi, i poveri più poveri), che tuttavia, in qualche misura, sono reversibili (lasciando strascichi seri, si capisce). Le scelte sbagliate che si riflettono nella forma del territorio, credo che siano più resistenti.

C’è poi un aspetto che riguarda l’intreccio tra affari immobiliari (l’urbanistica c’entra qualcosa, mi pare) e i patrimoni che vengono accumulati e giocati nella roulette della nuova finanza. Non si sottolinea abbastanza che le fortune di cui si parla da mesi, per come è emerso da opa, scalate ecc. hanno un’origine nel mercato edilizio, spesso con interferenze nei processi decisionali locali ( lo stesso Berlusconi nasce come imprenditore edile nella sua Milano ed è nominato cavaliere da Giovanni Leone per l’abilità nel commercio di appartamenti).

Le grandi rendite che hanno consentito le cordate degli imbroglioni di questo decennio sono prodotte da investimenti nell’edilizia (Ricucci mette a segno il primo affare di una lunga catena grazie a una variante personalizzata al piano regolatore del suo paese).

La domanda che occorre riproporre, traguardando i casi di questi mesi ma non perdendoli di vista, è se nella pianificazione urbanistica i governi locali, anche quelli democratici, siano stati attenti a non cedere, oltre la soglia raccomandabile, agli interessi di pochi nel nome della modernizzazione.

La domanda non è nuova e conosco la risposta, grosso modo. Ma può essere che nel frattempo le cose siano peggiorate proprio in linea con l’idea di mediare al ribasso su tutto?

***

Veniamo alla superiorità morale della sinistra (su cui si sono di recente avanzate riserve),con riguardo alle questioni urbanistiche.

Chi tra noi decideva di stare a sinistra – dopo il ’68 – anche per occuparsi delle cose che leggiamo su Eddyburg, immaginava che il Progetto potesse aiutare i gruppi sociali più sfortunati a vivere meglio (lo dico in modo sbrigativo). Per cui abbiamo auspicato leggi e scelte di politica urbanistica nell’interesse collettivo, invece che per garantire l’interesse di pochi. Magari è capitato che qualche piano di qualche città di sinistra avesse qualche difetto (qualche cedimento: niente di rilevante sul piano penale, direbbe B.) e per questo vissuto con sensi di colpa e con contrordini.

Nell’epoca del craxismo si chiese che questi vincoli morali fossero recisi di netto per andare spediti verso la liberta e la ricchezza, con spregiudicatezza e cinismo a volta riconoscibili negli atti amministrativi (quelli urbanistici si prestano).

Quel messaggio è penetrato, a disorientare quelli orgogliosi della diversità di sinistra, nonostante Berlinguer la cui intransigenza (sbaglio o il richiamo all’austerità fu associato all’urbanistica nei titoli di qualche libro) è apparsa estremista soprattutto a sinistra.

Poi le cose sono andate come sappiamo e la stessa nascita e l’esistenza di Eddyburg è qui a testimoniare che occorre fare qualcosa per resistere, che le linee accomodanti e bipartisan sono molto ma molto pericolose. Io (dico anche questo sbrigativamente) vorrei non avere neppure un dubbio sulla superiorità morale della sinistra.17 febbraio 2006

Dalla lettera di un dirigente di base dei Ds, comparsa sull’Unità il 13 agosto, tolgo, schematizzando, questo ragionamento: poiché oggi è la finanza a determinare il corso dell'economia, con la finanza un partito che aspira a governare si deve pur alleare. Ragionamento di fondo abbastanza diffuso, pericolosamente diffuso, temo, e che mi sembra l'espressione di una cultura politica sbagliata in radice. Il vecchio Pci iniziò negli anni '60 la sua lenta, troppo lenta certo, marcia verso il mercato con un discorso tuttora serio : quello della ricerca dell'alleanza coi ceti produttivi. Davvero questi ultimi non esistono più? Davvero non sono uno degli assi portanti dell'economia? Davvero la sinistra deve allearsi con gli immobiliaristi vecchi e nuovi, meglio se nuovi? L'impressione che io ho è che lo stia già facendo fin troppo. Ad esempio, la legge Lupi (Forza Italia) per l'urbanistica, approvata, per ora, dalla sola Camera, ha incontrato una opposizione decisamente blanda, specie da parte della Margherita. Eppure è una legge che porta in tutta Italia il modello-Milano dell'addio alla pianificazione in nome degli interessi generali, sostituita con accordi contrattati coi detentori di interessi immobiliari forti. Con gli immobiliaristi. Cosa uscirà in merito dalla Fabbrica prodiana? Cosa ne pensa la sinistra, a parte persone come Fabrizio Vigni, che si sono battute a viso aperto contro il progetto Lupi? Lo chiedo nel modo più tranquillo, senza prevenzioni, né aggressività di sorta. L'Italia è immobile perché è troppo immobiliare, dice Ilvo Diamanti. Con ragione.

Tornando alla finanza e alla banca, c'è finanza e finanza, c'è banca e banca. Almeno lo spero. E' possibile stare a sinistra – come dovrebbero, in teoria, la Unipol e Giovanni Consorte - ed avere rapporti tanto stretti, tanto amichevoli con gli "scalatori" alla Fiorani, alla Gnutti o alla Ricucci (esposto verso le banche per circa 800 milioni di euro)? Tanto stretti da scambiare informazioni continue con loro per una assai dubbia, a mio modesto avviso, scalata parallela? Non sto dando giudizi soltanto morali. Sto cercando di porre interrogativi di tipo politico. A differenza della signora Rosati Fazio, non penso infatti che queste persone saranno giudicate soltanto da dio. Penso che debbano essere giudicati, qui e presto, dagli organismi di controllo del mercato (e poi, eventualmente, dalla magistratura), per valutare se hanno le carte in regola, se hanno violato le regole del mercato stesso, e quali.

Per tentare una primissima conclusione, credo che il vecchio discorso - che fu di Riccardo Lombardi e di Antonio Giolitti, per esempio - di esigere che la sinistra distinguesse in modo inequivocabilmente netto fra profitto d'impresa e rendita parassitaria sia più che mai attuale e che ad esso come a quello sui ceti produttivi occorra tenersi tuttora ben saldi. Altrimenti ogni linea di demarcazione davvero si sbiadisce, altrimenti si sbanda e si finisce non si sa bene dove. Anche e soprattutto sul piano del progetto e del programma politico (che, purtroppo, tanto stenta ad emergere).

Una città per tutti, anche per chi non ci vede

Osservazioni di un cittadino che non è urbanista né sindaco, ma dà loro una lezione

Sono sotto un portico, a Bologna, e sento venire in direzione opposta qualcosa di scarriolante. È un bambino che forse trascina, forse cavalca un piccolo mezzo di plastica su ruote. Non vedendoci, non riesco a precisare più di così. Accosto a destra per farlo passare. Ma nel frattempo sento la voce della mamma che apostrofa il piccolo.

“Fermati! Lo vedi che il signore ha un bastone? Te l’ho già detto, quando vedi un bastone devi fermarti!” Non dice “bastone bianco”, ma semplicemente bastone. Perché bastone significa problema in chi lo porta. Colto piacevolmente alla sprovvista, non ho trovato quattro o cinque parole per ringraziare la signora facendole capire quanto avessi apprezzato il suo modo di fare, e ho pronunciato soltanto uno striminzito grazie, sperando che almeno il sorriso mi sia riuscito bene.

E’ evidente che della signora non ho apprezzato soltanto la gentilezza: ho apprezzato il fatto che, cammin facendo, lei trasmettesse al figlio i suoi valori.

La morale. Mettete pure tutti i semafori acustici che volete; mettete pure tutti i percorsi con segnalazione tattile che credete! Ma alla fine sono le persone che decidono che fare quando incrociano qualcuno con dei problemi. A che vale un semaforo acustico quando sempre più automobilisti passano col rosso? A che vale una pista tattilmente segnalata se poi qualcun altro ci mette sopra il motorino che per un cieco diventa un pericoloso ostacolo? Per contro, se i semafori fossero sempre rispettati, la maggior parte di essi, quelli ad alternanza binaria, non avrebbero assolutamente bisogno di bip.

E se marciapiedi e portici fossero destinati ai pedoni e curati per loro, invece di essere casse di compensazione per una strada che non riesce più a smaltire interamente le esigenze di traffico e di sosta, allora verrebbe svelata tutta la retorica pseudobuonista che c’è dietro i percorsi assistiti.

Oggi di mobilità si parla dappertutto. La densità di persone e mezzi di trasporto nelle aree non solo urbane fa sì che urgano procedure e misure per rendere più vivibile il nostro ambiente.

Ciò che rimprovero alle associazioni dei disabili è di essere completamente al di fuori di questo dibattito.

Faccio un esempio. Da più parti si va dimostrando, con realizzazioni pratiche, che l’allargamento di una strada non accelera ma rallenta la velocità della circolazione, e in più ne accresce la pericolosità. Una pista larga quanto un solo veicolo - il più largo naturalmente - non permette né il sorpasso né il parcheggio selvaggi, e alla velocità di 30 km/h un mezzo procede senza stop dovuti a intasamento, a patto che il sistema semaforico sia di tipo”intelligente”. Quindici anni fa trovai il modello già realizzato ad Amsterdam, i cui amministratori erano stati guidati a questa modalità da altre esigenze, quelle di economia dello spazio fra i canali.

In quella occasione potei sperimentare quanto era facile attraversare una strada e soprattutto quanto era sicuro, essendo l’indisciplina all’italiana praticamente impossibile.

Che mi crediate o meno, ai fini del ragionamento non importa. Non potrete in ogni caso pensare che tutti i modelli urbanistici siano uguali rispetto alle difficoltà. Ce ne deve essere per forza uno migliore di un altro. Allora non capisco come mai non ci sono nostri rappresentanti che si inseriscano nel dibattito.

C’è sempre invece un presidente, un consigliere, una delegazione che vanno a pietire da questo o quell’assessorato questo o quel semaforo, questo o quel segnalatore tattile, questa o quell’agevolazione tariffaria, ecc. Mai però un discorso sul territorio che, al 98%, rimane in balia di altre dinamiche.

Bologna. Un walk assistant (percorso elettronico assistito tramite un filo interrato) dalla stazione ferroviaria a Porta Castiglione. 1 miliardo e 700 milioni di vecchie lire. E il resto della città? Se avessi voluto andare allo stadio per la partita della salvezza col Parma? Ma che diamine! Se anche funzionasse, non si potrà mica pensare di cablare un’intera città a quei costi! Qui si sballa il bilancio! Invece non sarebbe male pensare che i marciapiedi di via Andrea Costa - come quelli di tutto il resto della città - fossero: lineari e interdetti ad usi diversi dalla pedonalità.

Sarebbe stato bello che quella cifra avesse concorso al bilancio del Comune per la mobilità in cambio di attenzione alla deambulazione di chi ha chances minori di quelle di Superman.

Anche in quel modo avrebbero potuto risultare soldi buttati; ma avrebbero potuto anche essere molto produttivi. Invece ora non solo prendiamo amaramente atto di aver buttato un capitale non trascurabile (il walk assistant bolognese è già archeologia); ma sappiamo che, al massimo dell’utilizzo, il servizio reso non sarebbe valso l’investimento fatto né per quantità né per qualità.

Ma erano soldi del Giubileo.

Non si potevano non spendere - ha detto qualcuno.

Io dico che non si dovevano spendere e che ci si doveva metter sopra un’ipoteca politica del tipo: noi ciechi di Bologna vogliamo che quei soldi vengano spesi in una prospettiva generale con attenzione a noi. Ma per fare operazioni del genere non bastano poche voci scoordinate, e così ha vinto qualcuno che non ho ancora capito chi è, mentre so bene chi ha perso

For the benefit of the future generations. L’obiettivo, il principio, che accompagnò l’istituzione del parco nazionale di Yellowstone, primo parco nazionale degli Stati Uniti e primo parco mondiale in assoluto. 1872, 130 anni fa. Dichiarazione da allora usata e abusata per le più varie situazioni, nata per la difesa del territorio naturale ma, breve, concisa, perfetta, estrapolabile e ampliabile a ogni scelta riguardante il patrimonio di risorse a disposizione della collettività (territoriali e ambientali, economiche e culturali), per indicarne o giustificarne, in buona o mala fede, la finalizzazione non nell’immediato ma in un lungo, indeterminabile, periodo.

Indipendentemente da come vada o non vada con Yellowstone, i parchi, dai limiti di una difesa circoscritta, dal vedere la dichiarazione appaiata a contenuti non pertinenti e in modi mistificatori, resta il fatto che già nel 1872, in un paese esteso come gli Stati Uniti e ben meno popolato e urbanizzato di oggi, si manifestò la consapevolezza della finitezza delle risorse territoriali, del patrimonio per l’umanità che esse rappresentano, della necessità di preservarle per le generazioni future, del dovere di farsi carico di chi verrà dopo.

Lodo Meneghetti, nella sua Urgente invettiva, non risparmia dall’attacco neodadaista i poveri “caro giovanotto o te, cara ragazza che cresciuti nella merda ambientale credete che questa sia la normalità da viverci e viverla, anzi che questa è appropriatezza moderna dunque bellezza”; ma poveri!: ”non potrete nemmeno coltivare ricordi perché ve ne tormenterà il terribile tanfo e vi rifugerete nel cesso che vi parrà campo di rose al confronto”. Dei disgraziati, già segnati, senza l’esperienza del bello, depauperati della possibilità di riconoscerlo e di rintracciarlo domani nella memoria. E tanto più senza esserne i responsabili.

For the benefit of the future generations: oggi, quanto vale e incide nelle decisioni, nelle scelte sul territorio e ambiente? E, per questi giovani che non sanno, cosa si fa perché sappiano, perché abbiano gli strumenti per discernere, capire, criticare, contrastare chi ora per loro decreta il presente e futuro?

Il territorio, l’ambiente di vita, nelle situazioni sempre peggiori in cui è; i servizi primari in via di rarefazione; centri commerciali, megacinema, megadiscoteche, come luoghi privilegiati dell’esistenza; l’evasione come priorità; il turismo impacchettato come aspirazione; scuola e università in progressivo decadimento; prospettive di lavoro zero, il precariato come unica possibilità; l’apparire e non l’essere come modello sovrano; la politica come incompetenza, mediocrità, litigio, piccola furbizia, denigrazione, offesa, battuta ridanciana, questione di poteri personali, assenza dai problemi reali, confusione tra maggioranza e opposizione; l’indifferenza, l’impermeabilità come risposta costante alle istanze, alle proteste, alle manifestazioni oceaniche che questi giovani hanno pur fatto o a cui hanno comunque partecipato (contro la Moratti, contro la guerra e per cambiare la sinistra); e poi la cancellazione della memoria, con la ridiscussione della storia e la riscrittura del passato.

Leggo un comunicato ANSAdel 29 aprile “Indagine scopre nuova filosofia, meglio vivere nel presente (ANSA)- ROMA, 28 APR - L' Italia non investe sui giovani e questi non puntano sul futuro, entrano nel mondo del lavoro e diventano autonomi sempre più tardi. Lo afferma il prof. Antonio Golini, ordinario di demografia all' università La Sapienza, commentando l' indagine Inizio dell'età adulta secondo la quale il 67,8% giovani tra i 23 e 27 anni afferma che è meglio fare esperienza nel presente piuttosto che pianificare il futuro; il 53,9% vede invece il futuro pieno di incognite." È l’ennesima inchiesta del genere e un’altra conferma sull’atteggiamento dei giovani oggi: rifugio nell’infantilismo; desiderio di Peter Pan, deresponsabilizzazione, fatalismo.

Un’esistenza da eterni bambini invecchiati o da vecchi in anticipo, come prospettiva, e un mondo a misura, che non sono loro, ma le generazioni oggi al potere per loro a decretare, a beneficio di chi dopo vivrà e verrà.

A meno che, chissà, dum spiramus speramus, non cambi tutto, il caro giovanotto e la ragazza si sveglino, e non siano loro a scalzare chi oggi decide. Loro, forse anche per noi.

Trovo francamente grave che Legambiente convochi una conferenza stampa (domani alle 11,30’ presso la propria sede) allo scopo di polemizzare con una associazione come “Italia Nostra” i cui meriti nel cinquantennio trascorso sono indubbiamente grandi. Iniziativa grave sul piano del metodo e dei principi. Tanto più che essa viene corredata da un Libro Bianco sulla materia. Evidentemente per proporsi come l’ambientalismo “buono e ragionevole”, da premiare. I motivi di questa polemica contro “Italia Nostra”? Le critiche da essa rivolte alla Linea C del Metro di Roma, all’energia eolica, al progetto dell’Ara Pacis, nonché il ricorso amministrativo contro l’Auditorium a Ravello. Nell’invito si cita genericamente pure “Urbino” fra i motivi di aperto e polemico dissenso.

Poiché di Urbino mi sono occupato ripetutamente, anche quando ero colà consigliere comunale e parlamentare, dirò questo : 1) se si tratta del vincolo apposto dal soprintendente Scoppola sull’intero centro storico minacciato di piano del colore e di altre “mostruose sciocchezze” (come scrisse Le Goff), mi pare che la misura fosse del tutto ragionevole per una tutela attenta e rigorosa di quella mirabile città ; 2) se si tratta del manufatto in costruzione sotto i Torricini, alla Data, firmato da Giancarlo De Carlo, le prime foto mostrano una copertura non meno “mostruosa” che diverrà presto una discarica. Sono stati già esauriti, fra l’altro, i 12 miliardi di lire stanziati anni fa e non si sa quando arriveranno i denari per completarlo, né ancora si conosce – e questo è inaudito – quale uso si farà del costoso “gioiello”! 3) se infine si tratta del nuovo magazzino della fabbrica di armi Benelli, esso impatta pesantemente col paesaggio sotto i Torricini e costituisce un altro attentato a quel Patrimonio dell’Umanità. Mi sembra che in ogni caso Legambiente caschi malissimo.

Per l’energia eolica siamo tutti, credo, assai perplessi. Decisamente contrari se le grandi pale deturperanno paesaggi di straordinaria bellezza, in Umbria (ne sono previste circa 300) o in Abruzzo. L’Italia non ha deserti, né coste ventose e spoglie. Sulla Linea C il problema delle uscite allo scoperto si pone, indubitabilmente : dove si farà, per esempio, la prevista Stazione Chiesa Nuova ? Su quel sagrato? Infine, Ravello : su quella costiera si è costruito ben più di quanto fosse sopportabile. Non un metro cubo in più mi sembra tollerabile. Oltretutto, mentre sta morendo il Teatro San Carlo, sembra per lo meno strano investire lì milioni e milioni di euro.

Legambiente dovrebbe forse preoccuparsi dei propri numerosi e imbarazzanti “sì” o “ni” : per esempio, al ministro Matteoli, la cui tempra è convalidata dalla lista – recentemente pubblicata da Gian Antonio Stella sul “Corriere della Sera” – dei presidenti dei Parchi Nazionali nominati da quel campione di buongoverno : tutti di AN, tutti politici senza titoli in materia. Che vergogna.

FGirardi Il dibattito continua

Un intervento sulle questioni sollevate in Eddyburg, a proposito di consumo e città, pervenuto l’11 magio 2005

Caro Eddyburg, il dibattito sui temi urbanistici continua, anche se non nella forma razionale, ordinata e costruttiva, come forse ci piacerebbe. Eddy Salzano lo alimenta con un suo intervento al Seminario “I protagonisti del consumo e le trasformazioni del territorio…” / Sassari 19.04.05. Il tema del Seminario induce Eddy a ragionare su due argomenti (percorsi o echi, come lui dice). Il primo considera il rapporto, in genere, tra città e consumo (una categoria, come si sa, fondamentale della scienza e della vita economica); il secondo riguarda, più particolarmente, il rapporto tra la città odierna, che ha preso la forma di territorio urbanizzato, e il mercato ( altra fondamentale categoria economica, oggi fin troppo enfatizzata e pervasiva).

L’intervento, pubblicato in Eddyburg 20.04, mi suggerisce, a mia volta, alcune considerazioni, che espongo nello spazio di una breve nota.

Quanto al primo argomento si deve riconoscere che il consumo, specialmente nella forma di “consumo comune”, è un fattore necessario della città, al pari delle altre “funzioni urbane” citate nell’intervento. Non penso, però, che sia fattore sufficiente e originario, e che vadano prese le dovute distanze dalla nota tesi della americana Jane Jacobs, la quale vedeva nello scambio economico (di cui il consumo è parte costitutiva) la ragione prima e fondante della città: tesi che, a mio giudizio, è da confutare, perchè la città, fin nella sua origine, è fenomeno più profondo e complesso, anche dal solo punto di vista economico. Ma, dalla tesi della signora americana si può trarre un utile suggerimento. Il suo libro. per sua stessa ammissione, voleva essere una accusa contro i planners e la pianificazione urbanistica del suo paese e del suo tempo, e una difesa della spontaneità e complessità della città. Il suggerimento è che, oggi, mentre l’urbanistica è fatta segno di accuse ben più pesanti e pressanti, la lettura critica di quel libro può giovare ancora agli urbanisti del nostro tempo e del nostro paese, per riconoscere gli errori, ma anche le molte ragioni del loro mestiere

Una mia seconda considerazione, che metto in forma interrogativa, riguarda un problema, forse non irrilevante, di storiografia urbanistica. Mi domando se lo svilimento della “piazza” da luogo privilegiato del “consumo comune” e delle altre funzioni urbane, a mero spazio di traffico non sia il segno di una mutazione più generale e radicale, che si verifica con il nascere della città moderna borghese. Nella città antica (come insegna H. Arendt) la vita pubblica della polis tiene un ruolo primario accanto a quella privata dell’oikos; lo spazio pubblico (agorà, foro) giuoca un ruolo compositivo determinante nel configurare la struttura urbana. Nella città moderna prevale la vita privata, e lo spazio pubblico (essenzialmente stradale) si riduce a un ruolo meramente accessorio e funzionale di quello privato. Il quesito, forse, non è irrilevante quando sai parla e ci si interroga di una possibile prossima città postindustriale.

uanto al secondom argomntoQuanto al secondo argomento (la città-territorio, le risorse e il paesaggio) penso che una condizione concettuale radicale, per invertire e superare il consumo indefinito della risorsa territoriale, e del paesaggio che la esprime, sia quella di considerare il territorio, e in genere le cose del mondo che ne fanno parte, non come “risorse” da consumare in maniera più o meno selvaggia , o civile e oculata, ma di pensarli invece come “soggetti”, con una loro dignità e ragione d’essere simile, se non proprio pari all’uomo. In sostanza si tratterebbe di passare dal concetto di sfruttamento a quello di convivenza, e da un atteggiamento di dominio a un sentimento di amore. La lezione viene da San Francesco, ed è forse di tono un poco rivoluzionario. Ne ho scritto e mi permetto di rinviare al numero zero, genn.-marzo 2004 di “Relazioni solidali”, rivista del terzo settore.

Con la mia comunicazione 11.04.05. sollecitavo il dibattito dottrinale come strategia per contestare e contrastare la legge Lupi, e in genere l’offensiva in atto da tempo contro l’urbanistica. Leggo ora il tuo commento, e penso che tu hai buone ragioni per dubitare della effettiva possibilità di un dibattito razionale, ordinato, costruttivo, per mancanza, se non altro, della necessaria forza organizzativa. Però hai ragione anche quando dici che “tuttavia il dibattito c’è”. Ne dà prova Vezio De Lucia, il quale ritorna sul tema del rapporto urbanistica/tutela e denuncia la “separazione dannosa” tra questi termini (le due colonne che dovrebbero reggere il governo del territorio) e con molta obbiettività ne riconosce le cause da parte sia della stessa tutela, ossia le associazioni ambientaliste ( con esclusione di Italia Nostra) attente più agli effetti che alle cause, sia da parte dell’urbanistica che, rinunciando alla tutela, avrebbe spianato la strada alla legge Lupi. Mi sembra che quest’ultima considerazione offra a noi urbanisti un ottimo tema di dibattito e approfondimento dottrinale

Una prima causa è denunciata dallo stesso Vezio , quando dice che l’urbanistica, più o meno consapevolmente pensa di doversi occupare solo di cemento e asfalto, (e direi che questa è una concezione restrittivamente e banalmente edilizia dell’urbanistica, originata e spiegabile col fatto che il suo esercizio è prevalentemente nelle mani degli architetti e ingegneri). Ma se approfondiamo un poco l’analisi (e magari ne facciamo materia di dibattito tra noi) potremo scoprire che una seconda e più radicale causa (probabilmente della medesima origine professionale) sta specifica nella concezione della pianificazione urbanistica come attività essenzialmente di progetto (non importa se di cemento o di verde). Ora, va invece riconosciuto che quello del progetto è sicuramente un momento della pianificazione, ma che altrettanto lo è quello dell’analisi, ossia della conoscenza della realtà sulla quale si va ad operare, che è una realtà data e condizionata, non inventata più o meno liberamente. Il che è tanto più vero, quando ci si prefiggere, come ora, più il recupero dell’esistente che la creazione del nuovo. In definitiva bisogna ammettere (e mettere in pratica) che analisi e progetto sono due momenti ambedue necessari e costitutivi della pianificazione, e si implicano reciprocamente. Detto tra parentesi, mi sembra che questo sia il senso più pregnante del concetto di pianificazione continua, come di una successione di momenti analitici e progettuali alternati

Ammessa questa concezione della pianificazione urbanistica, è facile e naturale riconoscere la tutela quale sbocco immediato dell’analisi, così come la trasformazione lo è del progetto. E si capisce anche la distinzione, proposta a suo tempo, tra vincoli ricognitivi e vincoli funzionali in materia urbanistica. Quando sono chiari i concetti, tutto si tiene meglio. La tutela mon è solo e non tanto una possibilità e opportunità della pianificazione; ma ne è un elemento naturale e necessario: non le si aggiunge semplicemente, ma interferisce con essa, sia pure in misura variabile, secondo il contesto ambientale. Questo dovrebbero sapere coloro che fanno le leggi (e chi ne è garante) nel nostro Paese, ricchissimo di valori da tutelare. Penso anche che agli urbanisti spetti di approfondire e chiarire sempre meglio cose di questo genere.

Erano una trentina d’anni che ce l’avevo davanti, ma devo ringraziare Lodo Meneghetti per averne fatto – con dati, riflessioni, contesto – una efficace fotografia.

Lo conosciamo tutti, no? O almeno lo conoscono tutti quelli che vogliono farci caso: è il cazzone bofonchiante. Si incrocia nelle aule universitarie, e un po’ per abitudine un po’ per forza si finisce per considerarlo parte del folklore locale. Sta seduto (raramente) a un tavolo davanti a un gruppo di studenti e di rotoli di carta, oppure (quasi sempre) appoggiato allo stipite di una porta, in fuga verso la riunione in comune per la variante zona artigianale.

Lo chiamano professore. Come ci spiega Meneghetti e come molti già sanno, può vantarlo davvero quel titolo, e farsi presentare come tale, all’aperitivo dopo la riunione per la variante zona artigianale. E lo fa, il professore, nel senso che mette i voti. In base a cosa, però, quello non l’ho mai capito nei miei trent’anni da studente.

Ha spesso accenti regionali, e anche di fronte a studenti di evidente pelle scura o taglio degli occhi a mandorla si riferisce a località e istituzioni con un travolgente gergo localistico (lo “stradone”, ecc.). Le sue lezioni, dai contenuti mistici, si svolgono quasi sempre e quasi totalmente nell’angolo vicino allo stipite di cui sopra. I contenuti della sua scienza, se non li capite origliando oltre il muro degli studenti e rotoli di prima fila, potete cercarli nei libri (di solito numerosissimi) della sua bibliografia. Peccato che poi, al dunque, si scopra che “quelle cose lì lascino un po’ il tempo che trovano”, e che la verità sta altrove.

Non aggiungo altro, perché credo che Meneghetti abbia già detto molto, se non proprio tutto. Concludo solo con una precisazione: quando parlo di cazzoni bofonchianti so quello che dico, perché lo sono stato anch’io. Ma giuro che smetto, almeno di bofonchiare.

Paradossi moderni

Mi sembra paradossale che nella fase di maturità sociale ed economica, di multiculturalità e in generale di complessità relazionale nella quale molte delle nostre città si trovano, i processi decisionali considerati più democratici e spinti, definiti altrimenti anche “innovativi”, chiamino come soggetto agente la decisione il cittadino singolo o eterogeneamente mescolato ad altri (per dar vita a comitati, associazioni, ecc.), in attività variamente nominate (forum, focus, assemblee, parlamentini, ecc.), ma ugualmente finalizzate a costruire un’espressione di principi e di obiettivi tramite elaborazioni personali, maturazioni di coscienza, elevazione culturale, “visioni” allargate ecc.; pratiche cioè di eccezionale difficoltà, per il singolo, e tanto più per una collettività.

Pare cioè che in presenza di complessità sociale, di grave crisi del sistema della vivibilità urbana (qualsiasi cosa essa voglia significare), di costante compresenza di conflitto tra livelli e competenze di governo differenti, di poteri privati potenti e sempre meno diffusi, nel porsi l’obiettivo del governo efficace (e consensuale) del sistema urbano, gli organi tecnico-amministrativi della città vedano utile e innovativo il richiamo alla partecipazione diretta dei soggetti cui le politiche di governo del territorio sono indirizzate e che subiscono pienamente il lato più drammatico dell’attuale globalizzazione (qualsiasi cosa essa voglia significare).

Questo “buon viso” ai processi partecipativi - che ho l'impressione sia passeggero come la moda dei pantaloni a zampa d'elefante - è l'esito certamente anche dell'attività culturale e di ricerca operata in questi anni da autorevoli esponenti delle accademie, anche per il fascino che produce l'utopia della partecipazione: essa tende ad avvicinare le nostre città alle "comunità", alla culla cioè della modernità occidentale; una sorta di ritorno al passato per esorcizzare i mali della modernità. Piccolo è bello! Dal villaggio al municipo medievale, l'uomo partecipativo può costruirsi continuamente un immaginario bucolico, antidoto ai fallimenti morali prodotti dall'asfalto e dal cemento, dai conflitti e dai delitti, delle nostre città.

Perché partecipare?

Conosco bene il gusto acido della sconfitta, quando l'impegno nel "cambiare lo stato delle cose" - qualunque esse siano - non produce gli esiti attesi. So che cosa sia la frustrazione e lo smarrimento quando "tutto torna come prima", dopo che si è lavorato sodo per costruire alternative diverse - che si ritengono migliori - allo scivolante andazzo delle cose. Ho perfino imparato ad apprezzare certi muri, quelli di gomma, perché adesso so di quale polimero sia fatta la sfera del potere: sapere, in ogni caso, è sempre bene.

Ho imparato anche ad apprezzare i "malati della sindrome di NIMBY". Mi è chiaro, e lo condivido, il loro diritto di difendere sé stessi, e i propri cari, da ciò che ritengono "soprusi". Poco importa che si tratti di autostrade, di insediamenti industriali, o ponti, o di tralicci dell'alta tensione.

Chi è "affetto" da questa sindrome ha un nobile obiettivo, privo di sovrastrutture. Essi non chiedono di partecipare: vogliono semplicemente impedire, contrastare, combattere, raramente proporre. Costoro hanno spesso una vita felice e serena, piena di cose da fare; hanno tempo libero dal lavoro da dedicare alla "riproduzione". Non chiedono altro che il mantenimento di questa loro condizione. La loro protesta è tutt'affatto richiesta di partecipazione: si decida con qualsiasi metodo, procedura, tecnica, ma si decida, in fretta, di sospendere quell'opera! La si faccia eventualmente, se proprio è necessaria, altrove.

L'antropologia del popolo che chiede partecipazione è variegata e non riducibile ad uno standard. Ho molta difficoltà ad intendere "che cosa vuole" questo popolo.

Si può, banalmente, rispondere che cerca più partecipazione per….Dove nei puntini di sospensione stanno diversi temi: taluni riducibili ad oggetti, altri a processi. Qualcuno vuole partecipare per dire che vuole più piste ciclabili; altri per costruire un differente e migliore modello di democrazia. Come si vede sono due categorie con grande dignità, di certa utilità collettiva, e la cui concretezza è facilmente riconoscibile.

Si tratta tuttavia di intendersi circa il vecchio dibattito che tende a separare i "fini" dai "mezzi".

Ho cioè l'impressione netta - corroborata dalla mia modesta esperienza - che esista una civiltà della partecipazione che ritenga "mezzo e fine" la partecipazione in quanto tale. Che questa civiltà abbia abbandonato, nel rigurgito per la pessima politica che ci tocca di questi tempi, l'analisi delle cose di questo mondo: analisi anche poco più sofisticata delle considerazioni rilasciate dall'istinto. Ma senza analisi non si fa la rivoluzione.

Perché la civiltà della partecipazione, che ho inutilmente tentato di capire con il massimo della serietà che io riesca a permettermi, la vedo indaffarata a costruire e a scambiarsi notizie, idee, diritti, rivendicazioni, mal di pancia, sofferenze, ricette, saluti, auguri, maledizioni, insulti, complimenti, in una rete di persone e personalità, soggetti e soggettività, moltitudini; e nel pullulare di questa attività ogni tanto mi chiedo se ciascuno dei componenti di questo variegato popolo, abbia veramente inteso - o sia addirittura convinto - che "bisogna cambiare lo stato delle cose" (la pista ciclabile o l'apparato democratico) per vivere meglio (qualsiasi cosa ciò significhi).

Mentre scrivo mi sorge però una domanda: che per vivere meglio sia necessario partecipare?

Se così è, ammetto di non aver capito nulla della civiltà della partecipazione - qualunque cosa significhi - non avendo condiviso il "bel vivere" che dovrebbe stare nei luoghi e nelle persone che chiedono più partecipazione. Di questa civiltà ricordo più i momenti di ostilità che di armonia; le ore di sonno perse, con la persistente sensazione di averle perse inutilmente e di non aver guadagnato tempo.

In fondo a tutto mi rimane un groppo in gola, come un "ovo sodo, che non va ne su ne giù", perché oggi, dopo i tempi in cui ho "osservato partecipante" la civiltà della partecipazione, in cui ho partecipato alla richiesta e alla fornitura di partecipazione, non ho la pista ciclabile che volevo.

Quindi ho deciso. Ho deciso che mi dedicherò ai marciapiedi. Prima come esercizio spirituale in preparazione alla globalizzazione (il marciapiede è la metafora di chi è calpestato) e poi magari per professione. Mi dedicherò alla cura dei marciapiedi. Ad un modesto piano per camminare sereno tutti i giorni, e non solo in quelli di festa. Marciapiedi sui quali, i miei passi sgarbati da campagnolo veneto, possano scivolare senza inciampi.

Cambiando obiettivi, cambieranno anche i mezzi.

Anch’io, come Antonio Bonomi, mi ritrovo invischiata, per lo meno come cittadina-elettrice, nella campagna elettorale "piatta e triviale" dell’Emilia Romagna: per me, bolognese che ha vissuto in prima persona l’entusiasmo per la candidatura Cofferati, che l’ha sostenuto e ha condiviso il grande momento di euforia seguito alla sua vittoria, si tratta di una conferma sempre più amara alle delusioni che si sono succedute in questi mesi. Sarà perché si parla, nel nostro caso, di una "gara" con vincitore ampiamente annunciato, o perché qui (ma anche altrove) il consiglio regionale è considerato (dagli stessi partiti, prima di tutti) poco più che un lussuoso cimitero degli elefanti o una rampa, il più possibile provvisoria, per giovani politici rampanti, ma il livello del dibattito politico locale è veramente sceso al di sotto di ogni decenza. Le liste presentate dal centro sinistra (degli altri non mi curo, of course) sono infarcite di segretari di partito o di politici in disarmo e gli unici momenti di suspence sono stati vissuti quando, al momento della stretta finale, si sono cercate affannosamente delle candidate donne da poter inserire per far vedere che loro ci tengono a noi….

Il listino del Presidente, in questo senso, tocca il fondo: "pensato" (ma da chi, ma quando?) come lo strumento per consentire a personalità della così detta società civile di accedere ad una esperienza di politica attiva, in Emilia Romagna coincide pressochè esattamente con l’elenco, in rigidissimo ordine di peso elettorale, dei segretari del centro sinistra, DS esclusi perché già sicuri nel proporzionale. La campagna elettorale dei vari candidati, poi, è un insulto quotidiano all’intelligenza e alla pazienza dell’elettore; nella totale assenza di un qualche programma politico dello schieramento degno di questo nome, c’è la corsa al "fai da te" con risultati che, oltre ad evidenziare la superficialità e l’approssimazione dei candidati, assumono a volte connotati farseschi (ma è l’ungarettiana allegria di naufragi): sciupio di aperitivi e "dibattiti" (e torna alla mente il morettiano ‘no, il dibattito, no!’) alla spasmodica ricerca di una visibilità momentanea ma "produttiva"…dal punto di vista dei voti.

Anche a chi è solo lettore delle cronache un po’ meno che distratto, infine, risulta palese il feroce scontro in atto non fra opposti schieramenti, ma all’interno della stessa Fed e dello stesso partito, more solito.

Pressochè nessuno che proponga un programma serio di ascolto e dialogo con l’elettorato e poi ci si lamenta che i cittadini non sappiano quasi nulla dell’Ente Regione e non lo "sentano" vicino. Eppure, anche grazie alle pasticciate (Bassanini) e sciagurate (Berlusconi -.Bossi – Calderoli) riforme pro-devolution, le politiche regionali sono destinate ad incidere sempre più sull’organizzazione della nostra società: dal governo del territorio alle politiche del welfare. Il ruolo delle Regioni, quindi, fin dalla prossima legislatura, si amplierà notevolmente andando a ricoprire ruoli di tutela, programmazione, pianificazione, salvaguardia e chi più ne ha più ne metta, così come pomposamente ribadito negli Statuti regionali recentemente approvati, la cui innovazione più rilevante - per dirla con le parole di Marco Cammelli – consiste nell’aumento del numero dei consiglieri.

Basta: temo che il mio cahiérs de doléances sia fin troppo condiviso per nutrire un qualche interesse di novità; da inveterata ottimista, alla pars destruens, mi sforzo comunque di aggiungere una piccolissima proposta che ha come perno proprio eddyburg, considerato come una delle poche agorai che funzionano: proviamo a stilare – noi elettori – un elenco di domande "cruciali" da sottoporre ai vari candidati per cercare di farli uscire allo scoperto: ne bastano pochissime, ma ben congegnate, mirate al proprio contesto territoriale di riferimento, oppure sulla loro volontà di contrastare la legge Lupi. Una volta predisposte si inviano ai candidati di centro sinistra (quasi tutti dotatisi per l’occasione di sito omonimo) e si socializzano le risposte. Trovo non inutile anche un passaparola ragionato e motivato, così come provò a fare eddyburg per le amministrative dello scorso anno.

Perché alla fine, votare bisogna e farlo sempre solo col naso turato, provoca dei problemi di respirazione.

Attendo segnalazioni e mi vado a rileggere Platone…la Repubblica.

Un po' di Platone anche in Eddyburg

Le città sono una risorsa importante per la crescita sociale ed economica del nostro paese, eppure non sono più da tempo oggetto di attenzione da parte della politica. La vita materiale di molti cittadini dipende però dalle città, dalla loro efficienza e dalla loro capacità di costruire senso di sicurezza sociale e di progresso. Non è così in molti altri paesi europei. Si può e si deve riportare le città al centro dell’agenda politica e farne un punto essenziale del programma di governo del paese.

Da tempo le città non sono più oggetto di discussione nella politica e tanto meno nei programmi. La sicurezza urbana è il modo, ormai prevalente, con cui le città entrano nei dibattiti, nelle agende della politica (ma ne escono presto, quanti si ricordano ancora oggi delle polemiche estive del 2003 attorno agli omicidi avvenuti nella periferia Milanese, a Rozzano?). Non è così in altri paesi europei e del mondo sviluppato, dove le città sono oggetto di politiche nazionali con connotati strategici con l’obiettivo di concorrere al consolidamento dell’economia nazionale e a rafforzare i margini di crescita della società.

Si può cambiare rotta? Possiamo tornare a guardare le città come a luoghi dell’innovazione e della crescita del paese Italia? La risposta deve essere si, e bisogna fare in modo che la città torni ad essere un tema centrale nel momento in cui ci si appresta a formulare un programma di governo.

I dati positivi sulla crescita del Pil, come dei posti di lavoro, registrati dalle principali città italiane, non bastano e, anzi, ci nascondono una crisi che si trascina, si radicalizza e che modifica strutturalmente il carattere delle città. Il censimento del 2001 fotografa ormai un esodo dalle città verso la periferia che si sposta sempre più lontana (Roma ha perso circa 270 mila residenti). La crescita degli indicatori economici, registrata dalle statistiche, non ci dice nulla su dove vanno a vivere queste persone, su come si spostano, su dove hanno trovato casa, su dove portano i figli a scuola, su dove trovano spazi di socialità e di solidarietà. L’emergenza ambientale registrata nelle grandi città italiane è solo la manifestazione ultima di una sofferenza sociale, di disagi di uomini, di donne, di ragazzi e ragazze, di bambini e anziani. La manifestazione del bisogno di spazi dell’abitare, di possibilità di spostamento, di cultura e di opportunità di socialità. Per questo non basta la tecnologia pulita applicata all’automobile, il problema è di natura diversa.

Qual’è lo stato delle nostre città? L’impossibilità di rispondere a questa domanda è già di per sé un segnale negativo ma anche un compito per il programma di governo. Il cancelliere inglese Gordon Brown, nel novembre del 2000, ha reso pubblico uno studio sullo condizioni delle città inglese segnalando i problemi ancora irrisolti e le nuove prospettive che si aprivano nelle politiche urbane. Nel giugno del 2001, lo stesso governo inglese, ha lanciato un programma nazionale per migliorare le città. Il governo italiano, l’attuale ma anche quello precedente, si è invece attardato su politiche che codificavano strumenti, procedure, metodologie e che non guardavano dentro ai problemi delle città.

Oggi, spostarsi dentro le città è più difficile di ieri, lo si fa più lentamente. Si pone tanta attenzione all’alta velocità ferroviaria senza però porsi l’altro di problema: che se da Firenze a Roma in treno ci si impiegherà poco più di un’ora, ci sono aree, anche centrali, di Roma che, dalla stazione ferroviaria, si raggiungono in un tempo più lungo. Le proteste dei pendolari di questi giorni sono la spia accesa sulla carenza dei treni ma, anche, sulla difficoltà più generale di vivere e lavorare in città. Su quella geografia dinamica che è come un respiro: si entra e si esce, si è accolti e si è espulsi a seconda della condizione sociale.

Oggi a Roma ci sono 17 mila famiglie con un reddito medio basso che devono chiedere il buono casa perché non riescono a far fronte all’affitto. Il 27% di queste sono famiglie di anziani magari composte da una sola persona. A Milano si diffonde sempre di più, tra gli anziani, l’affitto di una camera per integrare il reddito e poter far fronte all’affitto. Quali alternative abitative hanno queste persone? Quali alternative ha una coppia di giovani che cerca casa e che magari gli basterebbe usarne una, non da comprare ma da usare, la casa come bene d’uso, magari in attesa di migliori condizioni economiche?

Solidarietà e partecipazione si stanno diffondendo e attraversano le città non solo più nelle periferie. In molti casi queste forme rappresentano l’unico modo per soddisfare bisogni essenziali: realizzare un parco, costruire un asilo, una casa o una struttura per ospitare gli immigrati. Le esperienze cooperative e del volontariato sono oggi una risorsa importante per rispondere nei contesti urbani ai bisogni primari. Perché, allora, non mettere a punto politiche per aiutare, per consolidare queste pratiche per far si che le città non si scollino, non si separino socialmente in tanti frammenti ma si tengano insieme secondo principi di solidarietà e di economia alternativa.

E’ necessario formulare un nuovo progetto politico di valenza strategica e di interesse nazionale che colga la sfida di collegare lo sviluppo economico e le aree urbane, che si ponga l’obiettivo di migliorare le prestazioni delle città (ambientali e di qualità della vita). Nuovo, perché a differenza del passato oggi le città dispongono di un capitale fisico (spesso pubblico) che può essere oggetto di valorizzazione. In molti casi questo capitale fisico è sprecato, terra di nessuno: lande deserte di asfalto o di rovi. Si potrebbe cominciare da questi terreni e restituirli con politiche pubbliche ad un uso più intenso che incroci i fabbisogni degli abitanti. Ci sono una serie di vantaggi in questa valorizzazione: localizzazioni che hanno valore strategico, domanda di mercato locale, presenza di capitale sociale.

Si può e si deve riformulare un nuovo progetto delle città d’Italia che ripensi a come, in questi ultimi trent’anni, le città sono cresciute ma la città non è ovunque, ciò che vediamo è un territorio abitato, un’area urbana non definita. E’ la campagna che si è fatta metropoli senza passare per la città. Il territorio, indicato come la condizione contemporanea dell’abitare, ha al suo interno interstizi di città, forme minime di città. Ma ciò che abbiamo davanti non è stabile, non è definitivo è, ancora, “disordine, precarietà tanto più grave e pericoloso perché si presenta sotto forma di agio, di meno peggio – mentre tutto, invece, sarebbe ancora da cominciare”. Cominciare a cambiare non dal presente, al quale non apparteniamo, ma dal passato e dall’incognito futuro.

Giovanni Caudo (1964). è ricercatore di urbanistica presso l’Università degli studi “Roma Tre”, dove svolge attività didattica nel corso di laurea e nel dottorato di Politiche territoriali e progetto locale. E’ impegnato in ricerche sulle politiche locali nelle trasformazioni delle città e sulle pratiche di autoorganizzazione comunitaria e di economia solidale nella costruzione dei beni pubblici. Ha pubblicato: Territori d’Europa. (in collaborazione), Alinea Firenze 2004.

La foto è tratta dal sito http://www.comune.napoli.it/napolisociale/citta.jpg

Nelle scorse settimane e mesi ci siamo scambiate diverse opinioni sui nostri problemi urbanistici. Da parte mia ho considerato specificamente tre temi: il vuoto di interesse della Sinistra per quei problemi; la nuova legge urbanistica ( di governo del territorio); l’INU e la sua attuale posizione culturale-politica. Le tre questioni sono riassunte nella mia nota 04.09.04, con il tuo commento che “la discussione è aperta”. Poi c’è stato l’intervallo, con l’interesse più sui temi politici, con la tua denuncia di “smontaggio della Costituzione” da parte della Destra, e la sfiducia di Bruno Ballardini nei confronti della Sinistra In una mia successiva comunicazione 04.12.04. ho invitato a “tornare all’urbanistica”, proprio per fare politica “in positivo” sui temi specifici, nostri, e concreti.

Mi sembra che ci stiamo arrivando in pieno e nel modo migliore per la penna (se così ancora si può dire) di Vezio De Lucia.Il nostro amico, sollecitato dal suo impegno con Italia Nostra e il tema del paesaggio, promosso da questa associazione, denuncia (comunicazione 25.01.05) la proposta, che si vorrebbe introdurre nella nuova legge di governo dl territorio, di scorporare la tutela del paesaggio dalla pianificazione territoriale-urbanistica. Dopo di che, è ovvio, la pianificazione si ridurrebbe alla “cantierizzazione” più frenata e al più volgare “decisionismo”. Dopo la denuncia, Vezio De Lucia invita Eddyburg a sviluppare un dibattito sul paesaggio, come fisionomia del territorio, o meglio ancora come sua bellezza, investendo in tal modo il tema della dimensione estetica (parola da lui espressamente citata) nella e della pianificazione territoriale-urbanistica Per me è un invito a nozze; ed è anche l’occasione per tornare all’urbanistica, discuterne i principi fondamentali, consolidarli e (per stare anche nel politico) rispondere, con qualche possibilità di successo, alla guerra che le è stata mossa ed ora si fa più acuta.

Comincio col dire (forse correggendo un poco l’impressione che possono dare le parole di Vezio De Lucia) che la ragione estetica e la ragione economica e politica, nonché non opporsi, anzi si sorreggono reciprocamente. Una città ricca, ben governata e ben funzionante è anche bella; e di ciò sono solito portare a esempio la Siena di Ambrogio Lorenzetti.

Ma c’è di più, e ne ho scritto di recente nella rivista “Relazioni solidali” num. 02, febbr. 2005. L’urbanistica, se vuole essere una cosa seria, deve impegnarsi su un gran numero di questioni e materie vitali, quali i bisogni sociali, l’economia, il diritto e la politica, etc. etc. Ne nasce un problema di rapporti interdisciplinari tra la materia e dottrina urbanistica e quelle che sono specificamente deputate a studiare e praticare le altre materie. Ci si è giustamente chiesto: come può l’urbanista dominare tutte quelle diverse materie, che tutte convergono nel suo operare? Se lo si pensa come un demiurgo, con il compito di operare una sintesi tra i contenuti delle diverse materie, bisogna anche dire che l’urbanista dovrebbe conoscerle almeno quanto i loro cultori; e questo è impossibile, anzi è contraddittorio.Se lo si pensa come semplice registratore di scelte altrui, si svilisce l’urbanistica a mero esercizio notarile (e di qui può ben avere origine la sua presunta neutralità). Al dilemma si deve rispondere, e così si è risposto in pratica, che il compito dell’urbanistica e dell’urbanista è quello, di natura estetica, di dare forma ai contenuti delle varie materie che convergono nella pianificazione territoriale urbanistica, e delle quali l’urbanista deve avere una conoscenza essenziale (dei principi, non delle specifiche formulazioni): deve disegnare il paesaggio del territorio e della città, dando loro ordine funzionale e bellezza. Al dilemma originale se l’urbanistica sia scienza o arte, si deve rispondere con la seconda alternativa. L’urbanistica è l’arte di costruire e insieme tutelare il paesaggio. Nell’esercizio di questa arte l’urbanista procede a fianco dei suoi concittadini, autori materiali e quotidiani del paesaggio. Perciò l’attività dell’urbanista è pubblica, per sua intrinseca natura.

Qui mi fermo: avendo esposto troppo in breve la mia opinione (confortata dalla mia personale esperienza, che credo sia la stessa di molti bravi amici urbanisti) sperando di veder continuare e approfondire il dibattito, felicemente provocato da Vezio De Lucia.

Urbanistica e beni culturali sono più o meno la stessa cosa, soprattutto in Italia. Da dove nasce infatti la stessa nozione di urbanistica moderna, se non dai conflitti tardo ottocenteschi fra ingegnerie della città piattamente efficientiste, e variegati gruppi di cultori dell’arte, della storia, del rapporto fra tradizione, identità, progresso sociale? E tanto per alleggerire con una battuta, date un’occhiata alle Guide Rosse del Touring che si vendono in questi giorni in edicola. Contate gli urbanisti il cui nome compare tra i collaboratori dei volumi, e avrete fatto bingo. Peccato: non sarete mai dei politici puri e raffinati. Ovvero con una dose industriale di faccia tosta.

Perché ci vuole del bello e del buono, in un’epoca in cui sul senso dell’ambientalismo ci sono pure battaglie ideologico-religiose (come negli USA di Bush parte II: ci torneremo, su Eddyburg), a pretendere di separare pianificazione del territorio e tutela del territorio, là dove esso territorio è nella quasi totalità una fitta rete di centri storici, paesaggi agrari, infrastrutture varie di collegamento e complemento cresciute coi tempi della storia e della natura. Ma qui abbiamo a che fare con una nuova versione del motto: Et in Arcadia, Ego. Che in questo caso è l’ego con la minuscola, dei minuscoli megalomani che hanno fatto questa bella pensata.

Ricordava giustamente Vezio De Lucia, su queste pagine, come lo sviluppo delle leggi sul territorio italiane tra le due guerre sia stato univoco, nonostante la separazione formale tra le leggi Bottai del 1939 sui beni culturali, e quella urbanistica di Gorla del 1942. Ma c’è qualcosa di più, molto di più: è la stessa alchimia che negli anni venti vede la formazione dell’urbanistica moderna italiana, ad alimentarsi direttamente alla fonte beni culturali, paesaggio, insediamento storico. A partire dall’episodio forse più noto, della provocazione del giovane Piccinato (sostenuto sotto sotto da Giovannoni e Piacentini) a Padova contro lo sventramento dei quartieri centrali della società APE, replicato quasi identico a Bari contro il piano Veccia di sventramento della città vecchia, e sfociato poi nell’organizzazione italiana del Congresso internazionale del 1929 esattamente sui temi della tutela, che darà poi vita indirettamente all’INU. E anche le forme assunte originariamente dall’Istituto Nazionale di Urbanistica, nel bene e nel male, si devono in parte proprio alla “marcia in più” della componente tutela storica e del paesaggio, contro l’approccio più esclusivamente tecnico-amministrativo dei funzionari municipali e del loro progetto di Scuola di Alti Studi per l’Urbanismo.

Un altro elemento, ora del tutto corrente, che deriva sempre dalla forte integrazione fra urbanistica e tutela paesistica, è la dimensione sovracomunale del piano. Nasce negli stessi anni, quando la via italiana alla pianificazione territoriale non può certo basarsi su problemi tangibili come quelli del bacino minerario della Ruhr, o dell’area metropolitana di Londra o New York. C’è però qualcosa che salta agli occhi nella sua dimensione decisamente indifferente ai margini amministrativi o del costruito, ed è appunto quella del paesaggio, delle grandi campiture della stratificazione storica, dell’intreccio fra elementi naturali e loro modificazione da parte dell’uomo. C’è anche un piccolo precedente legislativo, ed è il Decreto 765 15 aprile 1926, noto soprattutto per l’istituzione delle Aziende Autonome di turismo e soggiorno, ma che prevede la redazione di un piano regolatore che riguardi, indipendentemente dai confini amministrativi, l’intero bacino urbanistico/paesistico che si intende così tutelare e rendere contemporaneamente più adatto alla nascente economia turistica di massa.

Non è cosa da poco, se solo qualche anno dopo ancora il giovane Luigi Piccinato col suo Gruppo Urbanisti Romani propone nel dibattito che sfocerà nel piano del 1931 una dimensione “regionale”, esattamente orientata a miscelare gli elementi di pianificazione più strettamente urbanistica, e quelli di tutela del paesaggio, in quello che ora forse chiameremmo “programma di sviluppo sostenibile”. E basta leggere un bell’articolo di Virgilio Testa, Necessità dei piani regionali e loro disciplina giuridica, del 1933, per capire sino a che punto la nuova pianificazione del territorio e quella del paesaggio costituiscano un corpo unico. Tra l’altro la redazione di questo articolo è più o meno parallela all’altro più noto lavoro di Virgilio Testa dello stesso periodo, ovvero la Relazione al progetto di legge urbanistica Di Crollalanza, che come notava Vezio De Lucia su queste pagine recepisce in pieno il collegamento ovvio fra i due aspetti, dello sviluppo e della tutela. Tra l’altro ancora il Testa, proprio durante un convegno sull’ormai approvata legge Bottai per la tutela delle bellezze naturali, conierà il temine “Piano Territoriale”, presente ancora oggi nel lessico disciplinare (per non offendere qualche gerarca centralista con l’aggettivo “regionale”, usato sino a quel momento).

E si potrebbe continuare anche a lungo, ad esempio con la prima stagione dei congressi INU del dopoguerra, ma non credo sia questa la sede, né il momento. Resta invece la convinzione che, come in altri casi, questa maggioranza (e forse qualcun altro, chissà) prosegua per la sua strada, nella logica del divide et impera, già vista per magistrature inquirente e giudicante, o per i percorsi formativi morattiani, di apartheid classe dirigente/classi subalterne. Forse può farlo Ciampi, come auspicava Lodo Meneghetti, in quanto garante della Costituzione che oltre a proteggere il paesaggio si presume protegga anche gli strumenti per metterla in pratica, questa protezione.

Mah!

L'immagine di Poussin è tratta da questo sito

Qualche tempo fa dovendo escogitare un nome per il rinnovato sito, la scelta cadde su Eddyburg per i motivi vari, già in parte esposti nelle presentazioni. Ma come accade (soprattutto ai grandi studiosi) dopo sofferte pensate, alla fine una amara constatazione: “scoperta” si, ma scoperta dell’acqua calda.


Eddyburg c’era già, molto più pesante (peso fisico, mica culturale!) di tutti i testi e le immagini che si potranno mai mettere su un server, e portava addirittura al Grande Cocomero in persona. Eddyburg era una strada di campagna.

Per trovarla bisogna andare al centro dello stato dell’Ohio, Midwest USA, dove ai margini orientali dell’area metropolitana di Columbus c’è la Licking County. Centocinquantamila abitanti in tutto, con un reddito pro capite di circa ventisettemila dollari l’anno, un tasso di povertà del 7,5% (inferiore a quello medio statale), e un’economia soprattutto industriale. Ma anche l’agricoltura non va malaccio, con 1300 aziende che coprono complessivamente poco meno di centomila ettari.


La sede del capoluogo di contea della Licking, è Newark, un centro di circa cinquantamila abitanti con una florida economia, che offre lavoro alla gran parte dei residenti, esclusi quelli che fanno i pendolari verso la metropoli di Columbus. Vanto e orgoglio di Newark, ospitare la sede centrale della Longaberger Company, leader nazionale e noto a livello mondiale per la produzione di canestri intrecciati a mano, presumibilmente gli stessi che poi saranno riempiti di sandwiches e rubati da Yogi e Boo-Boo. La Longaberger dà lavoro a settemila dipendenti, e la sua rete di vendita che emana da qui comprende più di 70.000 persone. Leggendaria la sede centrale, qui a Newark: un palazzo per uffici modellato sulla forma del prodotto principale: un canestro intrecciato appunto.

Uscendo dalla città di Newark sul lato orientale, ovvero dall’altra parte se si arriva dalla direzione di Columbus, si imbocca il tratto urbano della State Route 79, che cinque o sei chilometri più a nord si dirama a destra (finalmente) nella Eddyburg Road, che serpeggia per parecchio nelle Foothills svolgendo il suo ruolo di township highway 298, fino a terminare molto più a est all’incrocio con la sua omologa 250.


E di massimo rilievo, due o tre chilometri dopo la diramazione a est dalla State Route 79, la Foothills Farm, specializzata nella produzione di zucche ornamentali (quelle che si fanno seccare, si decorano, si usano come contenitori) e nella loro commercializzazione su internet. Ci sono serre, campi, vivai, e un posto chiamato “valle delle zucche”. Chissà che da qualche parte non ci cresca anche il Grande Cocomero, qui in fondo alla Eddyburg Road.

Nota: per chi non potesse fare a meno di una zucca secca ornamentale, il sito della Foothills Farm

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