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Per rispondere in modo assennato all’ondata di emigrazione di queste settimane e di questi giorni dalla Tunisia verso l’Europa e l’Italia in primo luogo, occorre chiedersi che cosa è successo davvero sulla sponda sud del Mediterraneo. Le rivolte che hanno portato alla caduta dei governi in Tunisia e Egitto, e alla sostanziale delegittimazione di quelli libico e siriano, cui si aggiunge quello dello Yemen, derivano innanzitutto dall’apparire sulla scena di questi paesi di una generazione di giovani che – come sottolineato da molti commentatori – sono determinati a vivere un futuro diverso da quello che si credeva essere già stato scritto. I flussi di informazione e di conoscenza sono alla base di questo ribellarsi: le nuove generazioni non sono più disposte a sottostare a un potere che si regge sull’autoritarismo, la violenza, il clientelismo. Le nuove tecnologie di comunicazione hanno contribuito a precarizzare le “regole di regime” e hanno permesso ai giovani di esprimere e allo stesso tempo costruire il cambiamento Le donne sono diventate protagoniste della rivoluzione dei gelsomini come a Tahrir Square, e non ci stanno più a restare in secondo piano, anche se c’è chi continua a provare a ricacciarle indietro.

Bastano questi due elementi per suggerire la portata di quello che è cambiato e che sta cambiando. Con la loro gestione patrimoniale dello Stato, i regimi che hanno governato fino a ieri hanno soffocato il potenziale che esiste in questi paesi. Invece è bene tener presente che dal Marocco alla Siria si tratta di un mercato potenziale di 200 milioni di persone che da anni attende una diversa ripartizione delle risorse per diventare un mercato reale. Una volta avviata, la costruzione di una società più democratica e dunque più equa trasformerà l’emigrazione da sola alternativa per la sopravvivenza propria e di quella di chi ci si lascia alle spalle, a una tra le scelte possibili. La storia dell’”idraulico polacco” dovrebbe aver insegnato qualcosa sulla relazione tra democrazia, emigrazione e sviluppo. Egitto, Tunisia, Algeria sono addirittura destinati a trasformarsi in paesi di immigrazione, così come già oggi il Marocco è paese di immigrazione per mauritani, senegalesi, maliani.

Il paradigma “più sviluppo per meno migrazione” non ha funzionato, ma non è stato applicato nemmeno quello della “migliore migrazione per più sviluppo” su cui l’Unione Europea ha puntato dalla metà degli anni 2000 dopo essersi resa conto di quanto necessari sono gli immigrati per il proprio stesso sviluppo. Le politiche migratorie hanno continuato e continuano ad essere centrate sulla visione dell’Europa come fortezza assediata dai clandestini, dai quali è necessario difendersi per motivi di sicurezza e di ordine pubblico, con il risultato che l’industria dell’immigrazione irregolare è sempre più florida e che molti immigrati regolari sono costretti a passare nell’area dell’irregolarità, facendo crescere il lavoro nero, informale o illegale. Con un’impostazione di questo tipo, le misure che si prendono non possono che essere orientate a bloccare gli arrivi. E così è stato, soprattutto nei paesi del Mediterraneo, Grecia, Italia e Spagna, dove si è investito esclusivamente per rafforzare i controlli e assicurarsi la collaborazione dei paesi della sponda sud nella lotta all’immigrazione clandestina. Il budget di Frontex, l’agenzia europea per la gestione, meglio sarebbe dire la lotta all’immigrazione, è passato dai 6 milioni di euro del 2005 a quasi 90 milioni nel 2009 la gran parte dei quali impegnati per le operazioni di pattugliamento congiunto del Mediterraneo. Siglando accordi con i regimi oggi al capolinea, si sono barattati aiuti economici in cambio dell’impegno a trattenere i migranti fuori dall’Europa e a riprendersi quelli che riuscivano a partire. I migranti hanno cominciato presto ad essere utilizzati come strumento di diplomazia parallela, per obiettivi politici che nulla hanno a che vedere con loro, uno su tutti il caso della Libia che nel 2004, in cambio di questo ruolo di baluardo contro i flussi migratori verso l’Europa ha ottenuto la fine dell’embargo sulle armi. Poco importa se tutto ciò avveniva a discapito della tutela dei diritti umani dei migranti - come è stato ampiamente documentato – o delle stesse popolazioni dei paesi nordafricani, come poi si è verificato.

Ora in quel “muro” faticosamente eretto dall’Europa nel Mediterraneo si è aperta una falla. Coloro che arrivano sulle coste dell’UE non sono profughi ma quei migranti privi dello status richiesto per l'ingresso che si volevano tenere fuori. I numeri non sono epocali, ma non si sa come, e non si vuole, gestire la situazione perchè ogni forma d’accoglienza - doverosa in paesi sviluppati, civili e democratici come si vogliono quelli europei- comporta un radicale ripensamento delle politiche migratorie, una rimessa in discussione dell’ossessione securitaria, una tacita ammissione che il mito dell’”immigrazione zero” non è perseguibile. Ci troviamo quindi in una situazione di stallo nella quale il “non intervento” sul fronte arrivi si contrappone ad una frenetica attività diplomatica per cercare di a ristabilire i vecchi accordi con i nuovi interlocutori. I governi provvisori nella sponda sud del Mediterraneo devono però rendere conto ai movimenti democratici che hanno portato alla loro formazione, e non è pensabile che il ruolo di sentinelle anti-migrazioni possa essere riproposto, né che l’Europa possa riproporlo, con il rischio di sospingere a un ritorno al passato i governi nati dalla domanda di democrazia che si è espressa in questi mesi e settimane.

Nel contempo, i governi locali sono comunque chiamati a attivarsi per far fronte alla presenza degli immigrati e rispondere alla loro “domanda di città”, cioè avere una casa, poter accedere ai servizi fondamentali, disporre di spazi dove incontrarsi, giocare, pregare. Una domanda di città che il più delle volte non coincide con quella della popolazione locale e che dunque richiede risposte che non possono essere univoche. Che lo vogliano o meno, i governi locali sono attori centrali nella gestione degli effetti della globalizzazione sui territori locali, il loro sviluppo e le loro popolazioni. Di fatto sono i governi locali ad essere chiamati a rispondere all’emergenza immigrazione di questi giorni; a loro viene chiesto il via libera per la costruzione di campi di accoglienza mentre il governo nazionale si occupa di stilare accordi di respingimento con i paesi di provenienza. Lampedusa è un esempio clamoroso, ma non è certamente l’unico, basta ricordare Ceuta, Algeciras, Crotone, Samos o Rodi. Ma è anche la popolazione locale che deve attrezzarsi a gestire la diversità, a normalizzarla invece che farne un problema, gettando le basi per una società e delle città interculturali. Anche in questo caso, la risposta degli abitanti di Lampedusa a un’emergenza, che con ogni probabilità poteva non diventare tale, è andata ben al di là di quello che ci si poteva attendere.

Non ci si può rallegrare del nuovo vento di democrazia che spira sulle coste del Mediterraneo e allo stesso tempo respingere chi, finalmente liberatosi da decenni di ruberie e oppressione di stato si sente finalmente legittimato a cercare anche per se stesso una vita migliore, un po’ più di benessere, quanto meno la speranza di ottenerlo. L’Europa, e con essa l’Italia non può che muoversi sulla linea di una serie di misure di breve periodo di carattere umanitario per accogliere dignitosamente l’immigrazione di oggi, e una politica di sostegno aperto al processo di democratizzazione che si è appena avviato, con la consapevolezza che si tratterà di un processo non breve, irto di contraddizioni e arretramenti. Le prime andranno governate, mentre agli arretramenti occorrerà opporsi con decisione. Perché ciò che oggi è locale è allo stesso modo fortemente connesso con altri “locali” nel mondo. Perché quello che si farà qui determinerà quello che accadrà lì.

La notizia pubblicata in trafiletto o poco più dai giornali nazionali pare giusto una curiosità: un gruppo di ragazzi che ha alzato il gomito ne combina un’altra, una specie di variante creativa di quei sogni in cui ci si aggira in mutande per il Vaticano. C’è lo svincolo automobilistico di Piazzale Roma, e lì in piena vista quella rampa, ripida ma non troppo, pensata dall’ingegnere archistar, poi il lastricato abbastanza liscio della spianata davanti alla Stazione con le fermate dei vaporetti, la strettoia di Lista di Spagna, infine il cul-de-sac di campo San Geremia. Già: perché non farsi un bel giretto?

Fra le varie sensazioni che ricordo abbastanza chiaramente, delle mie esperienze spaziali veneziane, c’è l’istintiva preferenza per un certo genere di ambienti urbani rispetto ad altri. Erano posti tutto sommato abbastanza diversi e sparsi per la città, ma pian piano ho iniziato ad accorgermi come mai la mia sensibilità adolescenziale reagiva in quel modo: il tocco (di solito ottocentesco o novecentesco) di qualche progettista aveva inconsapevolmente appiattito gli spazi peculiarmente veneziani a uno standard genericamente urbano, per quanto magari adattato nei particolari, nei materiali, negli interfaccia al contesto tradizionale ecc. Insomma là dentro era al tempo stesso abbastanza ovvio il fatto di trovarsi a Venezia, ma sottilmente si evocavano comportamenti e aspettative per nulla dissimili da quelle di qualunque altra via o piazza o ambito pubblico. E arriviamo ai giorni nostri.

C’è una grande area, che per chi ha appena attraversato la laguna venendo dalla terraferma mestrina rappresenta il passaggio dal resto del mondo a Venezia. Il terminal automobilistico Tronchetto-Piazale Roma, quello ferroviario di Santa Lucia e spazi circostanti, poi grosso modo una striscia irregolare che arriva sino alla barriera del Canale di Cannaregio. Quello che a parere di chi scrive dovrebbe saltare all’occhio subito, è che qui – consapevolmente o meno non saprei – tutte le grandi trasformazioni recenti paiono puntare in una unica direzione, ovvero prolungare l’ambiente di terraferma “moderno” in Venezia, anziché viceversa venezianizzare le teste di ponte automobilistica e ferroviaria. Con lo scavalcamento del canale progettato da Calatrava sostanzialmente si potenzia e rende esplicita questa infiltrazione.

Non si tratta, qui, di schierarsi pro o contro un modello o l’altro, ovvero tutela assoluta versus trasformazione o adattamento, conservazione vs innovazione eccetera. Piuttosto, il problema è capire, e semmai decidere coerentemente: si deve o non si deve creare una barriera invalicabile alla città d’acqua/pedonale, col suo delicato tessuto spaziale, permeablità, che coinvolge anche il sistema socioeconomico dei percorsi con le botteghe e via dicendo?

Il progetto di trasformazione implicito sull’asse automobilistico-ferroviario-pedonale che include il ponte di Calatrava pare spostare questa barriera in avanti, tendenzialmente verso il Canale di Cannaregio.

Cos’altro rappresenta infatti il nuovo asse di accessibilità diretta da Piazzale Roma, se non un implicito moderno shopping-mall (con le prevedibili proteste dei negozianti sull’altra riva del Canal Grande)? E i ragazzi in vena di bravate automobilistiche hanno colto in pieno l’occasione, usando coerentemente il nuovo “parcheggio di corrispondenza” a campo San Geremia.

Del resto lo diceva Henry Ford un secolo fa: la città è piena di problemi, ma per risolverli in fondo basta eliminarla, e con l’automobile si può. Resta da capire, fra picchi petroliferi e cambiamenti climatici, se il gesto marinettiano dei giovani sbucati dallo sprawl veneto non possa essere interpretato ben oltre la questione di ordine pubblico. Coi chiari di luna che girano, prima di ucciderli, come consigliava Marinetti, forse val la pena riflettere.

(di seguito: la nota di agenzia dal sito del Messaggero, e il commento di un lettore che in fondo dà quasi ragione alla mia tesi)

Venezia, in auto sul ponte di Calatrava: bravata di quattro giovani ubriachi“Impresa” alle 5 di mattina di un gruppo di amici di Jesolo. Denunce e foglio di via per tre anni

VENEZIA - Con l'auto hanno superato il Ponte della Costituzione, ideato da Santiago Calatrava, e poi hanno parcheggiato in campo San Geremia, davanti alla sede della Rai Veneto, e sono andati a fare un giro per Venezia. Quando i quattro giovani di Jesolo (Venezia), due ragazzi e due ragazze, sono tornati, hanno trovato ad attenderli gli agenti della polizia e sono stati portati in questura dove hanno cercato di spiegare le ragioni del gesto.

Il conducente è stato denunciato per guida in stato di ebbrezza.

Per ubriachezza molesta sono stati denunciati invece altri due, un ragazzo e una ragazza, che facevano parte del gruppo, mentre un quarto componente, una ragazza, è risultata sobria e nei suoi confronti non sono stati presi provvedimenti. Per tutti e tre coloro che erano in stato di ebbrezza il questore Fulvio Della Rocca ha firmato il foglio di via - ossia il divieto di rimettere piede a Venezia - per tre anni.

Il tutto è accaduto poco prima delle cinque di questa mattina.

I quattro, una volta giuntiinPiazzale Roma a bordo di una Volkswagen Polo grigia di proprietà del padre di uno dei due ragazzi, forse un po' brilli, hanno pensato bene di superare il ponte ideato da Calatrava e dopo essere passati davanti al piazzale della stazione ferroviaria si sono fermati nel primo grande campoveneziano che hanno trovato.

alla gogna! (il commento di un lettore)

Il giudice che leggerà che la patente gli è stata revocata per "passeggiata" sotto l'effetto di alcool, non potrà fare altro che annullare la revoca.

Io non capisco i commenti, chi dice che non deve guidare per 3 anni, chi dice che dovrebbero morire in un canale.

Si è un po’ perso il senso della misura. É stato un atto goliardico, immaturo, ma che di fatto non ha recato danno ne a persone ne a cose ne a loro stessi. Cosa mai dovrebbero subire?

Sopratutto, se l'auto è arrivata fino a lì vuol dire che non ha trovato barriere architettoniche che potessero impedirlo. E si applicano solo le leggi che ci sono, se ci sono. Transitare con l'auto su un sito storico, parcheggiare su una zona vietata, transitare su un ponte pedonale. Questo è quello che è successo. Queste sono le multe che prenderanno.

Tutti quelli che riempiono le code degli sportelli per contestare le multe li ritrovo qui che vorrebbero le pene esemplari, patetico.

Una volta si diceva di certi incapaci scansafatiche che erano braccia inopinatamente strappate all’agricoltura, dove almeno qualche piccolo contributo alla collettività potevano garantirlo. Da qualche giorno, all’agricoltura è stata anche strappata la grande area triangolare dell’Expo 2015 fra i due tracciati autostradali verso Torino e i Laghi. Niente orto, perché non attira gli investitori, ma un bel supermercato del futuro: grande pensata ragionieresca di un tizio che pare l’interpretazione al ribasso della figura di amministratore di condominio tanto decantata per sé dall’ex sindaco di Milano, oggi nume tutelare dei neo-riformisti.

Reazione istintivamente scandalizzata del progettista Stefano Boeri, che insieme a un qualificato gruppo di architetti e urbanisti aveva ideato un master plan interamente dedicato all’oggetto centrale dell’evento, ovvero ciò che si mangia e come vive. Reazione istintivamente di opposizione dell’opposizione politica, che con lo stesso Boeri – stavolta in veste di candidato – e di altri rappresentanti in consiglio denuncia la svolta cementizia dell’operazione Expo. Macché, ribatte l’ideatore dell’ipotesi supermarket con parcheggio che piace agli investitori, andate e vedere e non c’è un cubetto cementizio in più, magari anche di meno. Perplesso e inorridito Carlo Petrini, fra i principali ispiratori del tipo di evento e dei relativi spazi, dove l’orto sta a significare un rapporto diretto e tangibile fra uomo, territorio, vita, città, campagna, e appunto alimentazione.

Intanto, a molte migliaia di chilometri di distanza ma facilmente scavalcabili col solito web, il McKinsey Global Institute pubblica in questi primi giorni di primavera 2011 un rapporto sulla mutevole Mappa del Potere Economico delle Città, sostenendo varie tesi fra cui quella essenziale suona più o meno così: fra megacities multimilionarie e centri di dimensione intermedia, sono 600 le città che concentrano e concentreranno crescita economica e relativo potere di attrazione per le imprese da qui al 2025. Ma nel 2025 le 600 città NON SARANNO PIÚ LE STESSE, l’asse si sarà spostato sensibilmente dal classico baricentro occidentale verso Asia e Sud America, le cui grandi e medie agglomerazioni urbane presentano caratteristiche di grande interesse. Fra cui brillano popolazione giovane, spinta all’innovazione ed elasticità, crescita appunto (ovvero anche forte incremento dei consumi individuali), spinta verso trasformazioni infrastrutturali di grande respiro anche per realizzare servizi che ora mancano del tutto.

Ora, che ci azzecca un antico avamposto romano nella pianura irrigua, poi centro manifatturiero, oggi sedicente capitale del design e servizi, popolazione anziana e spirito depresso, con l’immagine di McKinsey? Nulla. La mastodontica tragedia umana dell’urbanizzazione asiatica a Milano al massimo si replica in tragicomica farsa quando un assessore (bravissimo a restare serio mentre ne spara di gigantesche) si inventa sulla carta un fulmineo balzo di popolazione del 50% solo per giustificare nuove cubature. A Milano l’idea dell’Expo in qualche modo si era conquistata l’immaginario, locale e mondiale, sia per la straordinaria attualità del nuovo rapporto fra città e campagna nel terzo millennio, sia per le potenzialità (ragionieri e sfigati permettendo of course) culturali offerte da un antichissimo territorio agricolo-industriale di ripensarsi recuperando il meglio della propria storia e proiettandola verso il futuro.

L’Orto Globale, ben oltre la superficie più o meno cementificata del triangolo fra le due autostrade, si proiettava sul mondo a simbolo di tutti gli altri orti, dai lotti industriali abbandonati di Detroit alle strutture verticali autogestite delle donne dello slum di Nairobi. E si proiettava sul territorio locale irraggiandosi idealmente e non verso la greenbelt agricola metropolitana con le sue eccellenze produttive, e anche oltre verso le (ancora troppo rare) sperimentazioni e innovazioni di un nuovo rapporto fra città e campagna, dall’innovazione colturale alle energie da fonte rinnovabile ai piani regolatori che contengono al minimo o riducono a zero il consumo di territorio.

Questo non è coerente con l’idea del mondo che hanno i nostri attuali ragionieri e amministratori di condominio. Il loro modello è un altro, appunto il supermercato con comodo parcheggio, il tre per due, la televendita per gonzi, i cieli azzurri e acque limpide educatamente contenuti nei manifesti e negli spot. Il loro modello urbano in fondo è quello decantato da certi economisti, quelli che leggono anche in un bel morso di pantegana nella culla dello slum globale una spinta al Pil. E se li mandassimo a zappare?

A seguito della presentazione ufficiale del progetto definitivo della nuova Tangenziale Est Esterna di Milano, fatta dalla società concessionaria lo scorso mese di febbraio, si susseguono, nei territori interessati, assemblee pubbliche organizzate dagli enti locali che hanno lo scopo di illustrare ai cittadini la nuova opera e raccogliere eventuali osservazioni, che le Amministrazioni Comunali possono poi fare proprie nei pareri di competenza da trasmettere alla società.

Avendo partecipato a più di una di queste serate vi ho notato alcuni aspetti ricorrenti piuttosto rilevanti: sale affollatissime di professionisti, tecnici, amministratori, mamme, insegnanti, pensionati, addirittura giovani…insomma, di cittadini. Seduti uno a fianco dell’altro, su spesso scomode sedie (a volte addirittura in piedi) ad ascoltare dati sulle pendenza delle rampe d’accesso, sulle distanze dall’abitato, sulle barriere antirumore, percentuali e stime di traffico presunto, eccetera: un dato di partecipazione, quanto meno numerico, notevole, a testimonianza che i temi territoriali interessano ancora molto quando qualcuno si prende la briga di parlarne.

Un altro elemento ricorrente è il tentativo, da parte degli amministratori locali, di circoscrivere la questione TEM alla dimensione strettamente comunale, per cui le serate molte volte si svolgono all’insegna dei peggiori esempi di partecipazione di tradizione italica: si tenta di consolare il grande proprietario terriero che si vede un proprio campo di 200 mq tagliato dalla nuova strada, la giovane coppia che ha appena acquistato uno “splendido appartamento vista campagna” che tra qualche anno si trasformerà in “affaccio sulla rampa d’accesso”, e altre questioni populiste di queste genere come annunciare con trionfo l’aver fatto spostare una rotonda di accesso alla TEM oltre i confini comunali (sull’onda del motto: abbiamo scacciato gli oppressori!); fa niente se lo spostamento fisico è di esattamente 75 metri.

Ed infine, l’ultimo tema è l’assoluta evidenza che la nuova autostrada, che a detta di molti dovrebbe garantire lo sviluppo lombardo finora frenato dalla mancanza di infrastrutture, è stata progettata con criteri e tecniche costruttive vecchie, obsolete, altrove superate. Impatti ambientali fortissimi e, sembrerebbe, scelte progettuali che sottovalutano e sottostimano il problema della deviazione delle numerose acque superficiali e del drenaggio di quelle provenienti dalla falda che, come tutti sanno, in questa zona è piuttosto superficiale.

Ma a parte queste osservazioni io credo che ci siano due differenti aspetti per valutare la vicenda della realizzazione della nuova Tangenziale Esterna milanese: uno di tipo politico e uno più strettamente urbanistico.

Dal punto di vista politico credo che lo scandalo stia nel fatto che i risultati ottenuti dall’Associazione dei Comuni insieme alla Giunta provinciale presieduta da Penati, che sono stati ufficializzati nella stipula dell’Accordo di Programma del 2007 rischiano fortemente di rimanere solo sulla carta.

Val la pena ricordare che il progetto originario dell'infrastruttura, che risale all’anno 2003 e fu presentato dalla giunta provinciale presieduta da Ombretta Colli, prevedeva la costruzione di una nuova arteria autostradale che avrebbe raccordato i flussi veicolari provenienti dall’autostrada A4 (Milano-Venezia) e dalla nuova Direttissima Bre.Be.Mi. con l’autostrada A1 (Milano-Bologna). Solo grazie al lavoro della nuova giunta provinciale di Penati e dell’associazione dei Comuni, si sono svolti incontri e mediazioni che hanno consentito di raggiungere un’intesa per la modifica del progetto. Tale modifica ha portato alla sottoscrizione dell’Accordo di programma (2007) che ha come oggetto “la realizzazione della tangenziale est esterna e il potenziamento del sistema di mobilità dell’est milanese e del nord lodigiano” e che comprende, oltre al progetto della nuova tangenziale, importanti opere di riqualificazione e di integrazione delle strade esistenti, dove si riverseranno i nuovi flussi di traffico, (la strada Rivoltana, la Cassanese, la Paullese, la Cerca) ma anche l’impegno a potenziare le reti di trasporto pubblico su gomma e su ferro.

I risultati dell’Accordo di Programma 2007 sono a forte rischio di attuazione in quanto la società Tangenziale Esterna spa, per motivi economici, sembra avere dei problemi a rispettare gli accordi e quindi ecco saltare alcune opere di mitigazione ambientale (alcuni sottopassi saranno sostituiti da cavalcavia) e di compensazione ambientale (riqualificazione strade esistenti, potenziamento trasporto pubblico, ecc).

C’è anche da dire che erano state previste delle opere compensative che avevano poco senso: ad esempio alcuni comuni del Lodigiano toccati solo marginalmente dalla nuova infrastruttura avevano ottenuto come contro parte chi la costruzione della nuova palestra comunale (in paesi di 800 anime), chi la costruzione di un’altra opera pubblica. Insomma, forse nella fase preliminare, quando serviva soprattutto il benestare delle amministrazioni locali e nessuno doveva badare ai conti, le “opere compensative” sono state concesse con eccessiva leggerezza.

Per portare comunque avanti l’infrastruttura la società concessionaria non si interfaccia più con l’Associazione firmataria dell’Accordo di Programma ma contratta con le singole Amministrazioni Comunali proponendo dei veri e propri baratti, (voci di corridoio parlano addirittura di manciate di milioni di euro messe metaforicamente sulla scrivania di qualche primo cittadino in cambio dell’accettazione della mancata realizzazione di opere di mitigazione; soldi che per molti consentirebbero l’apertura di qualche cantiere per soddisfare qualche promessa per proprio programma elettorale). E il dramma è che molte Amministrazioni Locali si prestano a questo giochetto, chi per ragioni di appartenenza politica e chi per dare un po’ di sollievo ai propri bilanci comunali.

Il tema/dilemma di molti, a mio avviso, potrebbe essere: se io -Amministrazione Comunale- rifiuto a priori qualsiasi tavolo di discussione esco dalla trattativa e non posso che subire scelte fatte da altri senza ottenere nulla oltre alla colata di asfalto oramai inevitabile; se invece accetto di valutare le proposte e di avanzare richieste forse c’è qualche possibilità di riuscire ad ottenere qualcosa per il mio territorio. Fare i duri e puri o sporcarsi le mani? Forse è su questa scelta che si dovrebbero costruire i dibattiti pubblici e spiegare ai cittadini che si è deciso di sedere al tavolo e perché….senza essere necessariamente tacciati per essere pro-TEM o connivente con il sistema di potere lombardo.

L’associazione dei Comuni potrebbe impugnare l’Accordo di Programma ma questa scelta presupporrebbe un gioco di squadra e un fronte unico da parte dei Sindaci che al momento appare quantomeno indebolito.

Dal punto di vista urbanistico credo che nessuno può negare che la TEM sarà il nuovo confine di Milano e, se mai si giungerà alla sua istituzione, sarà il limite est della città metropolitana. Se non viene adottata nessuna politica territoriale di scala vasta lo “scenario tendenziale” dell’est Milano vedrà un processo di densificazione con ben pochi controlli e privo di funzioni qualificanti nel margine interno in parallelo a uno sprawl diffuso e massacrante (peraltro già in atto) nel margine esterno.

Se esistesse un livello di governance sovra locale si potrebbe pensare a un’accorta strategia di “perequazione territoriale” che guiderebbe un processo di densificazione cui però starebbero dietro delle logiche localizzative per alcune funzioni di qualità da “strappare” a Milano città, mentre per la parte esterna si potrebbero valorizzare le funzioni agricole che si stanno perdendo a causa delle spinte speculative e di rendita fondiaria, secondo il modello dell’agricoltura a km 0, dell’agricoltura periurbana, dello sviluppo sostenibile, ecc.

Dato che questo livello non esiste e la Provincia è assolutamente contraria a coprire questo ruolo, si può solo sperare nella “buona volontà” delle Giunte locali. Che introducano nei propri Piani di Governo del Territorio criteri per impedire l’effetto “capannoni lungo l’autostrada A4”, che utilizzino i soldi che TEM concederà loro per attuare progetti e misure di compensazione ambientale…insomma, davvero poco, considerando che questi temi non sono un patrimonio comune consolidato e che con il cambiare dei colori di alcune casacche politiche fiorirebbero le varianti e i capannoni.

Le cave sono un ulteriore problema che si porta dietro la TEM ma perché non osare e controproporre, in cambio della concessione all’esercizio della cava:

1. procedure trasparenti per chi vi avrà accesso e quindi rendere controllabile il settore del movimento terra che risulta essere il più appetitoso per le mire della criminalità organizzata;

2. la trasformazione dell’area, alla fine dei lavori, in una zona di pregio ambientale, di un parco attrezzato.

Forse un azzardo ma il giocare in attacco, o quantomeno provarci, a volte, può far trovare nuove vie.

Da qualche giorno alcuni esponenti delle Prefetture italiane sono protagonisti di vicende non proprio trasparenti. Corrado Catenacci, prefetto di Napoli ed ex commissario ai rifiuti della Regione Campania è stato arrestato nell'ambito di un'operazione per reati ambientali, in particolare e' stata accertata l'esistenza di un accordo illecito tra pubblici funzionari e gestori di impianti di depurazione campani che ha consentito, per anni, lo sversamento in mare del percolato senza alcun trattamento preventivo, contribuendo ad inquinare un lunghissimo tratto di costa.

A Genova la Corte dei Conti ha aperto un fascicolo per accertamenti sulla spesa sostenuta (pari a € 105.000,00) per i lavori di ristrutturazione della stanza da bagno dell’appartamento del prefetto, Francesco Musolino, che comprendono l’installazione di un bagno turco, di idromassaggio e di coperture marmoree.

E ancora, dagli atti giudiziari del “caso Ruby” emerge come il prefetto di Milano, Gian Valerio Lombardi , abbia ricevuto, in almeno tre incontri, presso gli uffici prefettizi, la sig.ra Garcia Polanco Marysthell, assidua frequentatrice e animatrice delle serate di Arcore, per favorire la sua pratica di cittadinanza, come richiestogli dal Presidente del Consiglio Berlusconi.

Insomma, se la carica di Prefetto è la massima rappresentazione sul territorio dello Stato e dell’ordine pubblico, lo scenario non sembra particolarmente rassicurante.

Un ulteriore caso emerge dalle vicende lombarde dell’ultima ora ed ha come soggetto il marito del Prefetto della città di Lodi.

Il contesto è quello lobbystico e corporativo della Regione Lombardia, settore sanità, in perfetto Comunione-e-Liberazione-style.

Già la nomina a direttore generale dell’ASL – Milano 1 di Pietrogino Pezzano, decisa dal governatore Roberto Formigoni nel dicembre scorso, aveva suscitato molte polemiche, fino a spingere i gruppi consiliari regionali di opposizione (Pd, Sel e IdV) a presentare una mozione per la revoca dell’incarico, in quanto erano presenti gravi accuse sui rapporti di Pezzano con alcuni ambienti mafiosi (mozione bocciata poi dalla maggioranza del Consiglio Regionale). Il nome di Pezzano compare infatti nei documenti della maxi inchiesta “Infinito” sulla presenza della ‘ndrangheta in Lombardia condotta dalla Procura di Milano. Alcune fotografie lo ritraggono assieme a ‘ndranghetisti della Brianza come Saverio Moscato e Candeloro Polimeno e il suo nome viene rintracciato in alcune intercettazioni di Pino Neri, ‘ndranghetista di casa nel Pavese.

Ed ecco che Pezzano nomina, solo il 27 gennaio scorso, il Dr. Giovanni Materia quale Direttore Sanitario della stessa ASL – Milano 1. E solo 6 giorni dopo, il 2 febbraio, lo stesso è costretto alle dimissioni in quantorinviato a giudizio per abuso d’ufficio dal gup di Messina, Maria Teresa Arena. I fatti contestati risalgono al novembre 2005 quando Materia era direttore sanitario del Policlinico di Messina dove, secondo gli inquirenti, operò delle pressioni sulla Commissione d’esame che doveva valutare i candidati di un concorso all’Istituto di Medicina del Lavoro del Policlinico al fine di favorire Umberto Bonanno, ex presidente del consiglio regionale.

Ho avuto modo di conoscere personalmente il Prefetto di Lodi, Dott.ssa Strano, quando, sulla scia della mia tesi di laurea sugli effetti delle infiltrazioni mafiose nei processi di governo del territorio, l’Ufficio Tecnico comunale nel quale lavoro, di un piccolo paese della provincia di Lodi, ha elaborato un Protocollo di Legalità da inserire nel proprio Piano di Governo del Territorio di prossima approvazione.

La consultazione con il Prefetto aveva l’obiettivo di verificare i contenuti anche dal punto di vista giuridico e di costruire un percorso istituzionale che potesse introdurre nel lodigiano criteri di trasparenza nei processi decisionali di tipo urbanistico e territoriale.

Nonostante durante l’incontro il Prefetto si sia dichiarata interessata a questa iniziativa, a quasi 2 mesi dall’incontro non ci sono pervenuti riscontri o richieste di approfondimento, solo, in risposta ai numerosi solleciti del nostro Sindaco, abbozzi di scuse e rimandi in nome delle troppe carte da sbrigare sulla scrivania e di eventi contingenti improrogabili.

Non resta che prendere atto che, nonostante la Direttiva sui controlli antimafia, scritta nel giugno scorso dal Ministro Maroni ai Prefetti , nella quale si ribadiva la necessità di affinare gli strumenti a disposizione, tenendo conto delle realtà territoriali ed ambientali, per colpire le organizzazioni criminali nei loro interessi economici, garantire libertà di impresa in sicurezza e favorire lo sviluppo dell'economia legale, alcune lungaggini burocratiche disincentivano iniziative potenzialmente virtuose.

In particolare, la direttiva sottolinea l'esigenza di valorizzare quelle iniziative pattizie, i protocolli d'intesa, che si sono già rivelate strumento prezioso per tutti quegli operatori economici che hanno chiesto, ed ottenuto, la "prossimità" delle istituzioni a supporto della libera attività d'impresa.

Peccato che non tutte le istituzioni ci credano allo stesso modo.

Nonostante qualcuno si ostini ancora a sostenere che la criminalità organizzata al nord non esiste, che leggi speciali sulla legalità “giù al nord”, nella terra dei giustizieri padani, non servono, dalla lettura degli atti dei processi, dalle testimonianze dei pentiti, dai documenti delle forze di polizia emerge l’immagine di una Pianura Padana controllata da un’economia illegale sempre più vischiosa e camaleontica, pronta a fare affari con chiunque. Riciclaggio di denaro per investire in imprese di movimento terra, per interrare nei cantieri (alle porte di Milano, non nella Locride!) tonnellate di rifiuti tossici, sui quali, una volta ricoperti, giocheranno i nipoti di questa Milano-bene, che forse sa, ma che continua a fare finta di niente e a stringere mani poco pulite in nome di lauti guadagni.

S. Maria la Carità è un comune sconosciuto, ma le sue vicende ben raccontano della tutela del paesaggio, dell’abusivismo, dello spreco delle risorse del territorio, dell’assenza delle istituzioni, della prevalenza dell’interesse di parte su quello collettivo, in Campania. Nasce nel 1978 distaccandosi da Gragnano, porta della penisola sorrentina.

Sottoposto alla disciplina del Put, unico (e serio) piano urbanistico/paesaggistico redatto dalla Regione in 40 anni di storia, sistematicamente violato da abusi edilizi e deroghe pubbliche, S. Maria conta 11000 abitanti. L’unico piano regolatore della sua storia risale al 1994 in regime di commissariamento dopo anni di diatribe locali. Le forti caratteristiche agricole evidenziano un’economia fondata sulla presenza di aziende specializzate nella floricoltura. Questo ha allontanato da S. Maria le grosse speculazioni immobiliari, ma il suo sviluppo demografico, l’assenza di pianificazione locale che disciplinasse l’uso corretto del territorio, la vicinanza d’altri comuni con forti esigenze abitative pur’essi senza prg, hanno generato in molti sammaritani la convinzione di risolvere da sé il problema casa. Per questo al Comune sono pervenute 3000 istanze di condono. In media ogni famiglia ha una domanda di condono: ogni casa ha un abuso o è tutta abusiva. La storia ha insegnato a tanta gente che il “fai da te” è il modo per risolvere i propri problemi sempre connessi all’assenza delle istituzioni, consolidando la convinzione che ciò sia addirittura “normale”. Tutto si risolve e subito con i pratici consigli del tecnico “esperto” e una delle tante imprese sempre disponibili a edificare nell’orto una nuova casa: per sé, per i figli e qualcuna pure da mettere a reddito per coprire le spese, trascurando scientemente che nessuna legge consente più nuovi condoni.

Un giorno della situazione se ne è occupata la magistratura (l’azione della quale risulta spesso rallentata da tutti i gradi di giudizio immaginabili) e sono arrivate pure a S. Maria, inesorabili, le ruspe.

Così negli altri comuni, in Costiera, a Ischia, sul Vesuvio, nei Campi Flegrei, a Capri, Procida, sul litorale domizio, nel Cilento, tutte zone soggette alla rigorosa pianificazione paesaggistica redatta dal Ministero per i beni culturali in luogo dell’omissiva Regione Campania, commissariata dal Presidente della Repubblica con un provvedimento esemplare (unico caso in Italia).

Un anno fa i “neo” abusivi si sono costituiti in comitati. Anche a S. Maria ne è nato uno: “Amici dei territori”. Presidente è uno di quegli esperti geometri, già condannato per concussione nelle funzioni di tecnico comunale e perciò allontanato (dal Prefetto) dai pubblici uffici. Tanti gli iscritti al comitato in un anno, quasi quanti sono quelli di Italia Nostra in Italia. E’ allora facile trovare l’interlocutore politico che faccia sue le istanze provenienti “dal territorio”.

Il decreto che sospende le demolizioni, la Lr 1/2011 che ammette la sanatoria anche per chi ha realizzato opere abusive insanabili non a caso simili a quelle previste in deroga dal piano casa (pure nelle zone vincolate), le dichiarazioni della nuova Regione di voler porre mano alla revisione dei piani paesaggistici per far rapidamente spazio a nuovi condoni, e riformulare la Lr 10/2004 che aveva limitato ai cittadini campani il libero accesso al condono introdotto dalla legge 326/03, rappresentano il nuovo scenario verso cui il fronte ambientalista dovrà misurarsi.

Gli alleati sono divenuti assai improbabili. Spariti dalla scena politica i partiti d’opposizione che arginavano le colate di cemento dei Piani provinciali e comunali delle amministrazioni di turno, viste le annunciate deregolamentazioni regionali che disporranno l’approvazione degli strumenti urbanistici da parte delle stesse amministrazioni che li hanno promossi, senza più controllo (i Prg saranno approvati dai Comuni senza controllo delle Provincie sulla conformità ai piani sovraordinati, alle leggi regionali e nazionali, e così via “sussidiareggiando”), visto anche l’impoverimento delle risorse degli organi decentrati del Mibac che arrancano nel garantire la tutela del paesaggio.

Di recente a S. Maria un agricoltore si è vista respinta l’istanza per realizzare una serra. Ha ricorso al tribunale perchè il decreto degli anni 70 di vincolo paesaggistico dell’intero territorio comunale non era mai stato esposto all’albo pretorio. Lo sapevano tutti in paese e pure in Soprintendenza. Il tribunale gli ha dato ovviamente ragione. Di colpo S. Maria non ha più vincoli. Tutte le 3000 istanze di condono passeranno: basterà che gli abusivi abbiano pagato oblazioni e prodotto quattro certificati. L’intimidito Mibac ha ricorso al Consiglio di Stato contro la sentenza del Tar, pure fuori dai termini previsti dalla legge. Non si è preoccupato semmai più semplicemente di perfezionare la procedura sbagliata.

Perderà nuovamente. E pure agli ulteriori più recenti 1500 abusi che la Regione sta preoccupandosi di salvare, non ci saranno ragioni di tutela paesaggistica da opporre. Ai forse troppo pochi cittadini di S. Maria rispettosi delle leggi, che sfuggono alla statistica di un’istanza di condono per famiglia, lo Stato non saprà che dire. Sta inesorabilmente avanzando un nuovo modo d’intendere l’interesse collettivo.

1. Ambiguità del vuoto



Nel tentare una analisi critica delle dinamiche insediative nell’XI Municipio di Roma, correlate alle indicazioni del PRG, ho articolato i “luoghi” di interesse in tre grandi categorie: i luoghi dei “grandi progetti”, i luoghi della solidarietà e del conflitto, i vuoti urbani. Quest’ultima voce non mi convinceva. Ho dovuto allora confrontarmi con questo mio disagio, per capire da dove derivasse. Semplice: derivava dall’aver utilizzato un termine che nasconde un modo distorto di vedere i fatti urbani.

“Vuoto” è un concetto che evidenzia una mancanza, un’assenza. Parliamo di una bottiglia come vuoto per dire che non ha un contenuto: evidenziamo così che manca il requisito fondamentale per cui una bottiglia viene realizzata. Può esserci una bottiglia vuota, certo, ma questa circostanza viene considerata del tutto provvisoria: o la bottiglia si riempie di qualcosa, oppure è “inutile”. In modo analogo si tende a considerare un ambito urbano “vuoto”: lo è perché non ha un contenuto, che invece dovrebbe avere. In questa condizione quell’ambito è inutile, non ha “senso”; unica possibilità per dagli senso è riempirlo (perché a differenza di una bottiglia non si può gettare via, magari nel sacchetto della raccolta differenziata). E va riempito con un contenuto che rappresenta il motivo per cui quell’area esiste: una costruzione, o comunque un qualunque fatto insediativo.

Il paradigma del “vuoto” si applica anche ad altri consolidati termini del lessico urbanistico. Uno dei più frequenti, anche se con diverse declinazioni linguistiche, è quello di area dismessa. Per il Devoto - Oli, dismettere vuol dire “cessare di usare”. Ancora una definizione in negativo, dunque, che sottolinea una condizione anomala rispetto a uno stato “normale”, che è quello di essere utilizzato. Anche in questo caso, attribuire ad un contesto la condizione di area dismessa presuppone che si debba operare per eliminare questa incongruenza, provvedere quindi ad un nuovo utilizzo. Non si può lasciarlo così com’è, quel contesto dismesso, la testimonianza può magari vivere attraverso una permanenza di alcuni segni (gli involucri, a volte gli ambienti interni), ma si ferma lì: “nuove” funzioni, residenziali, culturali, commerciali, di servizio sono destinate a riutilizzare l’area.

Nel continuare l’esplorazione, emerge come una particolare categoria di luoghi sfugga (o meglio, tenti di sfuggire) al paradigma del vuoto: mi riferisco a quelli che in generale vengono definiti spazi pubblici, a quei contesti cioè che sono “vuoti” perché non vi insistono manufatti (intesi come edifici destinati a residenza o a servizi), ma non vengono considerati tali perché viene loro riconosciuto un carattere collettivo, che per rimanere tale richiede l’assenza di edificazioni. La piazza è un tipico esempio, ampiamente trattato nella pubblicistica perché rappresenta uno dei più potenti simboli della città sociale. Ebbene, questa anomalia appare sempre più come un retaggio culturale in dismissione. Il più delle volte le piazze sono diventate parcheggi, hanno cioè assorbito una funzione spuria rispetto al loro significato, perché strettamente “privata”. Ma a questa piegatura si affianca una tendenza molto più devastante in termini sia concettuali che fattivi: la tendenza a “riempire” le piazze con manufatti dotati di funzioni specifiche. Mentre passeggiavo per la meravigliosa Siviglia, sono rimasto assolutamente sconcertato nello scoprire come a Plaza de la Encarnacion si stia realizzando un gigantesco intervento, dall’equivoco nome “Metropol - parasol”, che si inserisce nella sciagurata scia dell’“archistar production” (si tratta, in questo caso, dell’architetto tedesco J. Mayer). La struttura portante è composta da alcuni enormi pilastri a forma di fungo; le loro sommità sono collegate, a trenta metri di altezza, da una copertura in legno a nido d’ape (il “parasol”), destinata ad ospitare un centro commerciale, servizi di ristorazione, uffici turistici ed altre funzioni; una piazza panoramica ed una “promenade” completano l’opera . Non so quanto questa opera possa “esaltare la bellezza di una delle più affascinanti tra le mete culturali di tutta la Spagna” (www.archiportale.com) o quanto possa rappresentare “un luogo di identificazione in grado di ricordare al mondo quanto sia culturalmente ricca la città andalusa” (www.ingegneri.info). La mia impressione è stata di tutt’altro genere, come di una profonda ferita inferta alla città pubblica, una sorta di espropriazione di senso; certo, la piazza magari non era “bella”, poco più che uno slargo nel traffico urbano, ma una cosa è riformulare una piazza, un’altra è negarla. Purtroppo il caso sivigliano non è l’unico; soprattutto nelle città caratterizzate da una “grande storia” e da un’aurea culturale, interventi come quello di Plaza de la Encarnacion si sono diffusi con una progressione geometrica (un esempio per tutti, la nuova “Ara pacis” a Roma).

Ancora un esempio, anche se di natura diversa, riguarda l’ambito di Potzdamer Platz a Berlino. Di natura diversa perché in quel contesto una piazza c’era stata; ma, come è noto, prima i bombardamenti durante la seconda guerra mondiale, poi la spartizione della città tra i “vincitori”, infine la realizzazione del muro avevano creato un’ampia area di circa 12 ettari abbandonata e desolata. Una vera e propria “terra nullius”. Questo intenso significato sociale avrebbe meritato maggiore considerazione, ma l’ansia di dimenticare e la retorica dei fasti della “modernità” (naturalmente guidati dagli enormi interessi economici in gioco) hanno determinato tutt’altro esito. Come al solito il massiccio intervento, coordinato e progettato dalle più acclamate archistar della storia contemporanea, ha sollevato ammirazione e meraviglia; a me è sembrato invece che, ancora una volta, si sia persa una buona occasione per interpretare la città e il suo “senso” attraverso la collettività che la produce e la abita.

Concludo il discorso sul vuoto accennando ad un’altra categoria, che peraltro richiederebbe una trattazione specifica che va al di là dei limiti di questo scritto. Mi riferisco alle aree non edificate che siamo soliti definire come “aree agricole”, “aree non urbanizzate” e con altre definizioni analoghe. Per questo tipo di ambiti sarebbe necessaria un’articolazione tassonomica, perché in effetti le condizioni in cui possono trovarsi sono molteplici. Pur senza entrare nel merito, si può facilmente affermare che almeno una parte di queste condizioni viene di fatto considerata alla stregua di un “vuoto urbano”; tanto che, nel lessico urbanistico del novecento, sono state coniate espressioni come “aree di attesa”, “aree cuscinetto”, “aree urbanizzabili”, e così via. Vuoti quindi incomprensibili se non associati ad una istanza di mutare questo loro anomalo carattere attraverso un intervento insediativo.

Il paradigma del vuoto è dunque espressione di una specifica visione dell’insediamento, che ha come sua regola primaria l’edificazione di ogni centimetro quadro, e sopporta di malavoglia alcune indispensabili eccezioni; una visione, neanche a dirlo, permeata dall’obiettivo della rendita e del profitto. Questo paradigma orienta pesantemente la cultura e la pratica del governo del territorio, e si esprime nelle politiche, nei piani, nei progetti, spesso con l’adesione di professionisti “di marca” che danno lustro all’equivoca tensione verso la “modernità”.

Allora, se si vuol contrastare questa visione, non dobbiamo più utilizzare il termine “vuoto urbano”. Dobbiamo trovare un altro modo per rappresentare quelle realtà, per dare loro un senso. Per questo, ci si deve ancorare ad un diverso paradigma. Un paradigma che espunga dal concetto di suolo (o di territorio, è lo stesso) l’associazione con il “valore di mercato”. In fondo, si dice “vuoto urbano” perché quel suolo, in quanto non investito da un fatto insediativo, non esprime la sua funzione di produttore di profitto o di rendita. Ecco il problema.

2. Un diverso paradigma: “suolo bene comune”



Si può partire, per questo, dall’invertire l’ottica. Per contrastare il principio che assegna ad ogni superficie una potenzialità insediativa, dobbiamo affermare che queste aree non sono “vuote”, ma sono brani di terra (anche se magari sono coperti da uno strato di asfalto o di pavimentazione), residuo prezioso di uno “stato primario” che costituisce più in generale l’essenza di ogni metro quadrato di suolo. Coprirlo con un fatto insediativo costituisce un’alterazione di una “condizione naturale”, è dunque un’azione modificatrice che può essere accettata solo se adeguatamente motivata, e non da ragioni speculative. Se mi si consente il gioco di parole, la natura del suolo proviene dalla natura.

Ma la questione non si ferma qui. I luoghi si definiscono anche attraverso il contenuto sociale che viene loro attribuito. Un contenuto che deriva dalle memorie individuali e collettive sedimentate, ma che può formarsi e consolidarsi anche attraverso una esplorazione cosciente dell’immagine che un luogo suscita in termini di “prospettiva di futuro”. Se chiedo (come mi è capitato di fare più volte) ad un abitante di Garbatella cosa dovrebbe diventare una parte di “terra” che si insinua tra un edificio a otto piani ed un altro simile, non mi risponderà mai “questo è un vuoto, occorre riempirlo di edifici”. Magari mi dirà: “caro mio, qui trent’anni fa ce stavano le pecore, er pastore era amico de mi’ padre, e quarche vorta ce dava er formaggio che faceva proprio lui, dentro ‘na baracca che stava proprio llà, vedi? Certo, ar giorno d’oggi nun se po’ pretenne de facce pascola’ le pecore, però sarebbe bello, nun crede?”. Certo, sarebbe bello; ma perché no?

Allora, cominciamo intanto dal cambiare lessico. Come definire questi ambiti? Non è facile trovare un termine che non riproponga, magari in modo più velato, il punto di vista del “vuoto”. A questa ambiguità vanno incontro ipotesi come “area libera”, oppure “area inedificabile”, o ancora “area indisponibile”; ognuno di essi richiama in qualche modo (magari per opposizione) una visione del suolo come contenitore di edificazione: libera perché non occupata, inedificabile perché lì non si può costruire, indisponibile perché non è concesso averla a disposizione per realizzarvi qualcosa. Così non se ne esce fuori. Ci vuole un riferimento che abbia un deciso valore programmatico, che mostri cioè l’istanza di un radicale superamento di questa visione “in negativo”. Una proposta semplice è attribuire a questi luoghi la qualifica di “suolo comune”. Questa ipotesi risponde ad un duplice obiettivo: sottolineare la loro essenza concreta, fattiva, che il termine suolo immediatamente richiama; mettere in campo, con l’appellativo comune, un paradigma troppo a lungo espulso dall’immaginario collettivo ma che suscita oggi una sempre maggiore attenzione.

Risolta provvisoriamente la questione terminologica, possiamo ora proporre una strategia d’azione che, considerata la complessità del tema, deve necessariamente essere scandita nei modi e nei tempi. Propongo la seguente articolazione, impostata seguendo un criterio di priorità.

A) Costituzione di “Reti di coordinamento locale per il suolo comune”

Il primo traguardo operativo da raggiungere è la costituzione di aggregazioni di soggetti collettivi della società civile e della sfera politica, singoli cittadini, “professionisti” (urbanisti, avvocati, economisti, ecc.). Potremmo definire queste aggregazioni “Reti di coordinamento locale per il suolo comune”. Queste reti dovrebbero aggregarsi in relazione agli specifici contesti urbani/territoriali di cui si prenderebbero cura: nei singoli municipi o quartieri delle grandi città, in piccoli centri, in contesti non urbani.

B) Indagine sui “vuoti” esistenti

Un secondo passo consiste nel promuovere e svolgere una accurata indagine nei singoli contesti su cui agiscono le Reti di coordinamento, tesa ad individuare i “vuoti urbani” interessati ad una ridefinizione come “suoli comuni”. Ciò comporta:

- individuare i “vuoti”

- inserirli in un’adeguata cartografia di base

- capire chi ne è il proprietario

- individuare le forme di proprietà (demaniale, pubblica, privata, ecc.)

- individuare le forme di gestione (pubblica, privata, mista, ecc.)

descrivere in che condizioni si trovano, con particolare attenzione a distinguere tra aree “non coperte” (ad esempio, acque, aree senza alcuna funzione attiva, giardini, parchi pubblici, ecc.) e aree comunque rese “impermeabili”, cioè coperte per motivi funzionali (piazze, strade, parcheggi e simili, ma anche campi sportivi, ecc.)

- evidenziare le indicazioni normative definite per queste aree dagli strumenti urbanistici. Va qui sottolineato che alcuni ambiti di questo tipo sono stati apparentemente “sottratti” al paradigma dei vuoti perché dichiarati “verde pubblico”, “spazi aperti” o qualcosa del genere; ma anche in questa categoria esistono delle notevoli diversità di situazioni, legate soprattutto al tipo di proprietà ed alle modalità di gestione delle aree. Altri ambiti invece si trovano in una condizione opposta, perché ad essi è stata attribuita dagli strumenti urbanistici una destinazione d’uso diversa, che prevede una qualche forma di “riempimento del vuoto”.

- verificare l’esistenza di progetti approvati o in itinere.

C) Attribuire la qualifica di “suolo comune” alle aree demaniali e di proprietà pubblica

A questo punto, si deve procedere in primo luogo ad azioni tese ad attribuire la qualifica di “suolo comune” alle singole aree demaniali e di proprietà pubblica dove non insistano edificazioni. Vanno però valutate con attenzione le diverse situazioni relative alle condizioni materiali, alle destinazioni d’uso ed alle modalità di gestione delle singole aree.

- per le aree non coperte, deve essere vietato qualunque intervento di edificazione o di impermeabilizzazione; la terra (o l’acqua) deve essere lasciata libera, o resa di nuovo libera se nell’area esiste una qualche forma di copertura artificiale “non funzionale”. Elemento centrale è che le decisioni e le azioni devono essere stabilite a partire dagli abitanti: la terra dovrà essere messa a loro disposizione affinché individuino collegialmente le forme di gestione e di fruizione: ad esempio, impiantare degli orti urbani, realizzare un bosco, un giardino, un vivaio non commerciale, un parco, e così via.

- per le aree rese impermeabili, l’obiettivo è comunque di stabilire il divieto assoluto di edificazione di ogni tipo, fermo restando l’affidare ai cittadini ogni decisione riguardante le modalità e le forme del loro utilizzo.

In entrambi i casi le destinazioni d’uso definite dagli strumenti urbanistici e le condizioni di gestione possono determinare situazioni molto diversificate.

Per le aree non coperte affidate ad una gestione pubblica (giardini pubblici, parchi urbani, ecc.), il passaggio allo status di “suolo comune” non presenta grandi difficoltà (anche se non è da considerarsi così lineare come potrebbe sembrare). Ma possono esistere situazioni di aree demaniali o di proprietà pubblica non coperte che sono destinate dagli strumenti urbanistici ad una qualche funzione che presuppone una loro “copertura”, o comunque un loro utilizzo legato ad interessi privati (un tipico esempio è la concessione a privati delle spiagge). Qui l’azione collettiva dovrà spingere affinché siano modificate la destinazione d’uso e/o le modalità di gestione.

Per le aree demaniali o di proprietà pubblica rese impermeabili per motivi funzionali, ci si può trovare più spesso in presenza di interessi privati nella gestione (altro esempio tipico, gli impianti sportivi). In questo caso si possono determinare “resistenze” anche notevoli. Ciò comporta esercitare adeguate forme di pressione sulla sfera politico-istituzionale, ed in primo luogo sulle istituzioni proprietarie e su quelle più “vicine” al territorio (Municipio, Comune, Provincia). Le obiezioni che ci si può aspettare riguardano la necessità dell’istituzione pubblica che detiene quei “beni” di piazzarli nel mercato per recuperare quattrini, perché le finanze pubbliche sono asfittiche e per realizzare l’interesse pubblico si deve arrivare a compromessi con il privato, e così via.

D) Azioni relative alle aree di proprietà privata

Per i “vuoti urbani” di proprietà privata, si deve spingere affinché l’amministrazione pubblica li acquisisca, ma attraverso l’esproprio e non con compromessi speculativi tipo compensazioni. Ritorna la solita obiezione: non ci sono soldi. Ma questa è una risposta “politica”; la carenza di fondi non è una “condizione ineluttabile”, deriva dai princìpi assunti e dalle conseguenti scelte che vengono fatte ai diversi livelli istituzionali, dall’UE al singolo comune. Allora, a questa obiezione si controbatte “politicamente”, su quattro piani.

• Sul piano dei princìpi: i “diritti edificatori”

La critica si deve orientare sul principio dei “diritti edificatori acquisiti”, che rimanda alla più ampia questione della rendita fondiaria ed immobiliare (con le correlazioni sempre più stringenti al campo della speculazione finanziaria). La centralità del mercato nei processi di sviluppo urbano produce una evidente incongruenza: il “valore” viene conferito dal mercato al suolo a seguito di una dinamica evolutiva che è stata generata da una collettività; così, un singolo proprietario si appropria di un valore che lui, come individuo, non ha contribuito minimamente a formare.

• Sul piano dei paradigmi: la “crescita”

E’ da tempo consolidata una visione che, in ogni campo, assume il concetto di “crescita” come paradigma costitutivo e insieme criterio valutativo cruciale nella società contemporanea. Questo trionfo della quantità sulla qualità, dell’avere sull’essere, viene ormai sottoposto ad aspra critica da una parte del pensiero contemporaneo, che non possiamo qui riprendere, se non per attestare la possibilità di un altro modo di vedere le cose.

• Sul piano della programmazione economica: le grandi opere

Si tratta di argomentare sulle modalità seguite dall’amministrazione pubblica nel destinare i fondi a propria disposizione; ad esempio, nello stabilire ingenti impegni di spesa per le “grandi opere”, con i conseguenti spropositati compensi alle archistar o urbastar del momento. Il tema si inquadra peraltro nel campo più generale della finanza pubblica, in riferimento anche alle aporie del “federalismo”.

• Sul piano della gestione urbanistica: gli strumenti di concertazione

La questione riguarda l’utilizzo degli “strumenti di concertazione” tra pubblico e privato, che le istituzioni locali definiscono come irrinunciabili proprio in conseguenza delle difficoltà finanziarie in cui versano: assunto come principio ineluttabile il “diritto edificatorio”, sposato il paradigma della crescita infinita e dichiarata la permanente penuria delle casse, non rimane altra via che concordare con i privati la gestione del territorio, nel tentativo, tanto dichiarato quanto vano, di recuperare una qualche agibilità pubblica in cambio di ampie concessioni alla speculazione. Questo approccio alla città e al territorio va combattuto.

Riconosco che alcune di queste azioni possano apparire “velleitarie”. Credo però che non abbia tanto peso il raggiungere un obiettivo, quanto il percorso che si deve fare per tendere ad esso.

Postilla

Se si vuole trasformare davvero una società insostenibile e un habitat dell'uomo devastante, allora nessuna operatività è possibile se non ha il suo motore in una visione totalmente alternativa, quindi utopistica. Claudio Napoleoni, a chi gli rimprovrava di formulare proposte utopistche, rispondeva: "il fatto è che posti a un livello inferiore i problemi non sono risolubili". Perciò non definirei queste azioni "velleitarie".

Estrema periferia di una grande città, terzo millennio.

Qualche volta i confini comunali sono il punto in cui l’abitante della villettopoli ogni sera sulla strada di casa inizia (inquinamento permettendo) a tirare il fiato. È qui che, senza dover fare i conti con qualche striscia di edifici troppo poco arretrati, le cosiddette grandi arterie iniziano a fare il loro mestiere, e la guida a rilassarsi un po’, anche se la coda prosegue magari fino ai confini dell’area metropolitana. Qui però succede anche un’altra cosa: la strada smette di essere una strada urbana, per trasformarsi in qualcosa di totalmente diverso. Non un’autostrada né superstrada, ma neppure una via di città, per quanto senza edifici vicini. È un ibrido, che per molti versi concentra il peggio di tutti i modelli a cui fa riferimento.

foto di f. bottini

La prima cosa che si nota, anche senza farci troppo caso, è che non siamo più in città, ma neppure (figuriamoci!) in campagna. Il paesaggio è una specie ci corridoio su cui si aprono delle porticine, da imboccare eventualmente a colpo sicuro. Quella che manca, di solito, è l’idea di spazio aperto vero e proprio, ovvero della strada che attraversa un territorio, si mescola con le sue componenti, eventualmente sale, scende, curva, insomma fa parte del luogo.

Non è uno scherzo del destino, ma uno degli effetti perversi di certa progettazione a canna di fucile. In cui la strada appunto non fa assolutamente parte del mondo in cui si colloca, ma è pensata in tutto e per tutto al di fuori di esso, come perfetto tubo in cui far scorrere veicoli da un punto all’altro, e solo in quei punti eventualmente costruire un interfaccia.

Il tipo di interfaccia più evidente è quello dello svincolo o della rotatoria, del tutto indifferente al resto del mondo proprio perché il rapporto da costruire è fra una strada e l’altra. E fin qui passi, ma ci sono gli altri, subdoli e traditori: quelli che costruiscono, o meglio pretendono di costruire, un rapporto con la città, la campagna, o tutte le loro gradazioni intermedie.

È meglio partire dalla versione più brutale, quella dell’accesso ai campi, che fa capire subito dove si va a parare. C’è la canna di fucile a varie corsie, ben lubrificata di guardrail singolo o doppio su entrambi i lati, sulla mezzeria la striscia bianca o i cordoli coi cespugli. E all’improvviso ZAC! si apre uno scorcio di mondo. Una strada tradizionale, come per fortuna ce ne sono rimaste ancora parecchie, non ha alcun bisogno di queste brutali discontinuità (il controllo del territorio qui è monopolizzato da smaltitori abusivi di spazzatura, prostitute, contadini e/o pensionati locali con l’orto) perché esistono slarghi di ogni tipo e immissioni graduali dirette e indirette.

foto di f. bottini

Invece la logica del condotto per mezzi meccanici, che ignora chi ci sta dentro a quelle scatolette, vive con fastidio la rinuncia alla continuità, e ce lo dimostra ancora meglio nella versione più elaborata dello ZAC (Zona ad Amministrazione Controllata?), ovvero nell’accesso a quelli che gli americani chiamano giustamente e da decenni auto-oriented-development. Una cosa costruita su misura per l’automobile, e che anche se finge di rivolgersi all’essere umano automobilista di fatto lo ignora, salvo in quanto titolare di portafoglio da svuotare. Il prototipo è sicuramente il distributore di benzina: fa parte della città, della campagna, del paesaggio? Macché, lo sappiamo tutti benissimo che è solo un prolungamento laterale della strada, rigorosamente chiuso su tutti i lati salvo accesso e uscita sulla carreggiata. Meno immediatamente si capisce che quel modello poi si estende anche a tutto il resto, solo che essendo un pochino più raffinato ce ne accorgiamo troppo tardi.

È capitato quasi a tutti, per un motivo o l’altro (sosta per un viaggio un po’ lungo, l’attesa di qualcosa di più complicato del pieno di benzina) di passeggiare fino al punto in cui un’area di servizio confina col paesaggio circostante, e di verificare come si tratti, in tutto e per tutto, di un prolungamento della strada. Capita però meno spesso di arrivare nello stesso modo ai margini di un parco uffici, di una fascia commerciale, o peggio ancora di quelle ancora rare mescolanze di questi due modelli con il quartiere residenziale: sono tutti spazi identici al distributore di benzina nel loro appiattire tutto o quasi tutto a un prolungamento della strada, mascherato come succede con la strada da arredi, aiuole (se sono più grandi si chiamano giardini), muretti ecc. Identica alla strada-canna di fucile, è anche la segregazione totale fra auto, pedoni, ciclisti, e fra spazio costruito e paesaggio naturale, rurale, storico. ZAC! Ogni escrescenza del genere si mangia un pezzo di territorio, e raggiunta un certa massa critica ha bisogno di un altro stelo-strada per far crescere il prossimo baccello, un po’ come in quel film, L’Invasione degli Ultracorpi.

foto di f. bottini

Insomma la recente sentenza sull’interpretazione corretta del Codice della Strada, quando dice che gli alberi (insieme a tutto quanto non è coerente col condotto di flusso meccanico) vanno levati di torno, non dovrebbe preoccupare solo ed esclusivamente pensando ad uno o più scorci di paesaggio potenzialmente deturpati dall’incrollabile logica “da casello a casello” applicata all’universo, ma allo spazio che in fondo sottende: un intero territorio nazionale ridotto a baccelli auto-oriented, con l’eccezione di qualche enclave di tutela artistica, paesaggistica, naturale. Apocalittico? Macché, basta rifletterci solo un istante.

La sicurezza, come ci potrebbe spiegare con maggiori dettagli uno specialista, sta nell’unire la logica dei cosiddetti spazi condivisi (teoria sviluppata da un ingegnere stradale, mica da uno stravagante esteta che aveva alzato il gomito) a quella della parkway, bellissimo concetto dell’era pionieristica dell’auto, poi travolto da certa modernità un po’ sfigata e fine a sé stessa. Proviamoci.

Le mille luci della città: un modo di dire talmente antico e sedimentato da suonare fin banale. Bright Lights Big City il miraggio che da sempre attira popolo e immaginazione verso quei marciapiedi su cui trabocca la vitalità concentrata della metropoli. Ma c’è luce e luce.

Forse non si nota tantissimo, o forse si, ma è proprio l’idea di rapporto stretto fra le mille luci e il loro senso ad essere tirata in ballo. Cosa si vede di solito nelle cartoline classiche della città, più o meno addobbata per le feste, più o meno consumistiche queste feste? Si vedono i contorni dello spazio urbano sottolineati dalle file di lampadine, più ammenicoli vari di complemento. C’è addirittura una marca di divani che nello sprawl della città dispersa prova con qualche effimero successo a dare identità crepuscolare e notturna a luoghi che non ne hanno alcuna, solo trasformando edifici di qualità varia (dallo scatolone prefabbricato ad hoc al mozzicone di cascinale sull’antico crocicchio) che occupa in una specie di insegna coi profili di tubi al neon bluastri.

Addirittura il battesimo globale del Santa Claus biancorosso della Coca Cola, all’inizio del Novecento, avviene esattamente con questo genere di proposta: la slitta con le renne guidata dal panzone barbuto, sormonta una scia di stelle e stelline che dal cielo scende giù transustanziando gradualmente nelle file di luminarie ad avvolgere la famosa prua del Flatiron Building di Daniel Burnham all’angolo strategico fra la Quinta Strada e Broadway. Babbo Natale sì, ma ben avvitato a una idea forte di ambiente urbano, fisico, complesso.

Oggi succede ben altro. C’è un figliol prodigo che sta tornando, ma non chiede il permesso a nessuno per prendersi tutto il vitello grasso e cucinarselo come gli pare. Se ne era andato dalla città, quel figliolo, sotto forma di negozio un po’ cresciuto, all’inseguimento di una clientela spesso più attenta allo spazio per parcheggiare che a tutto il resto. Una clientela sempre più estranea allo spazio urbano, alle sue complicate relazioni, e via via inconsapevole o disinteressata rispetto a quello che le scorreva sotto ai piedi. Del resto non ce n’era affatto bisogno, là nell’ex campagna, di capire cosa succedeva davvero: c’erano altri che lo capivano per loro e glie lo spiegavano nei messaggi pubblicitari. Il mondo degli shopping mall comodamente a trenta chilometri dalla casa unifamiliare, trenta chilometri da percorrere naturalmente con un mezzo adeguato, di stazza e qualità, per comprare tutto ciò che serve a sopravvivere tanto lontani dalla fonte di approvvigionamento. Senza MAI chiedersi perché: non è di moda.

Quel mondo si accendeva davvero solo con le luci artificiali, perché con un soleggiamento normale faceva decisamente schifo. Anche di giorno, non a caso, lucine e lucette accese dappertutto, e a migliorare l’effetto (come si faceva qualche volta nelle festicciole pomeridiane da adolescenti) si chiudeva tutto per fare buio. Tecnicamente si chiama enclosed shopping mall, ovvero un posto senza finestre, dove parlano solo le luci, tutto è una specie di insegna brillante nella notte. Adesso questo figliol prodigo sbarca in città, con le sue indiscutibili pretese, e si è preventivamente comprato una bella fetta di cervelli e di assessori (due cose non necessariamente coincidenti).

C’è una bella differenza, fra le antiche luci di Bright Light Big City e questi festoni un po’ strapaesani, ma non è il tono incolto e poco metropolitano. Quelle nuove luci non c’entrano nulla con la città: la ignorano, volutamente. Nello stesso modo in cui certe architetture globalizzate nascono eteree su un tavolo da disegno o schermo di computer a Singapore, e poi atterrano di botto a Casalpusterlengo sotto forma di qualche milione di quintali, così le file di lampadine vivono in un mondo tutto loro, più o meno come gli archi al neon di McDonald’s avvitati ovunque a significare sé stessi, cancellando qualunque “supporto”.

Muri, buoni a tener su tasselli, su cui si scarica il peso dei cavi, dei pannelli ecc. La città diventa, semplicemente, questo. Non deve comunicare nulla. Ci pensa la televisione. Al massimo, nei casi migliori, può fare da sfondo, ma non pare troppo importante. In fondo sono cose per cui basta la grafica computerizzata. Puff! Sparita. Accorgersene, forse, aiuta.

Nota: consiglio su questo argomento anche la lettura del bel testo di Marshall Berman su Times Square, la capitale mondiale delle insegne luminose, che ho tradotto tempo fa per Mall (f.b.)

I predatori

“Vorrei fare dell’Italia una Disneyland culturale” è il titolo su Sette, il magazine del Corriere della sera, dell’intervista a Mario Resca diVittorio Zincone. “Sì alle aziende dentro l’università” è il titolo del fondino di Bebbe Severgnini, sempre sul Corriere del 13 gennaio 2011.

Di Resca, si sa ormai tutto: è il responsabile della “valorizzazione del patrimonio culturale” scelto dal ministro Bondi, nonché membro dei consigli di amministrazione di Eni e Mondadori, già manager di McDonald’s, Cirio, Standa, Casinò di Campione ecc. Viene da una famiglia operaia: “Mi iscrissi alla Bocconi vincendo una borsa di studio all’insaputa dei miei genitori”. “Partecipai ai cortei e a qualche occupazione. Ma non ero molto barricadiero. Prima comincia a lavorare per il mensile economico L’espansione. Poi entrai nella Chase Manhattan Bank. Gli amici mi accusavano di essermi venduto all’imperialismo. Mi difendevo dicendo che l’imperialismo si può combattere dall’interno”.

Il nostro manager è contento: “Nell’ultimo anno c’è stato il 15% dei visitatori in più”. E il futuro gli darà ragione: “Nei prossimi 20 anni, se ci crediamo, potremmo assistere a un nuovo rinascimento della produzione di ricchezza basato sulla leadership del nostro patrimonio culturale. L’Italia potrebbe diventare una grande Disneyland culturale. Crediamo davvero che il futuro dei nostri figli sia ancora nelle fabbriche e nel manifatturiero? Lì non abbiamo speranze”.

Pompei non lo sfiora: tutta colpa dei sovraintendenti: “Per guidare la Fiat non è stato chiamato il progettista di un motore Panda, ma un manager come Marchionne. Per gestire Pompei, che ha problemi di sicurezza e migliaia di visitatori al giorno, non ci si può affidare ad un archeologo”. Convinzione avvalorata alla fine dell’intervista. Chiede il giornalista: “Sa dove si trova La madonna del parto di Piero della Francesca? Risposta: “Mi pare in Toscana. Non l’ho mai vista. Lo sa che la volevo portare in trasferta nelle sale del Senato?”.

Ma andiamo con ordine. I musei in Italia sono tanti: 450 solo quelli statali. Forse Resca ne vuole chiudere qualcuno? “No. Voglio valorizzare quel che abbiamo. Soprattutto i siti meno visitati. Magari delegando qualche gestione ai privati”. Però non ne vanno aperti altri: “Dobbiamo valorizzare quel che abbiamo, non aprire nuovi buchi nel bilancio per autocelebrare la politica”.

E’ favorevole alle feste nei musei? C’è forse un problema di decoro? Insinua il nostro giornalista. Risposta: “A me è capitato di cenare all’ombra di incredibili capolavori: un dinner di classe in un museo non è male”. Si teme che un uomo d’azienda come lei punti a mercificare la cultura. Risposta: “La mercificazione era già qui prima che arrivassi io”. Altre domande. E’ favorevole o contrario alla tassa di soggiorno proposta per i turisti? Risposta: “La considero una stupidaggine. Dobbiamo attirare i turisti con nuovi servizi, non con nuove tasse”. Se lei fosse premier? “Defiscalerei le donazioni”. Concetto ripreso: “Berlusconi ha molti meriti, ma non è ancora riuscito a liberalizzare il Paese.”.

Ancora più memorabile l’opinionista, saggista, sociologo di successo Severgnini che inizia così: “Davanti all’Aula del Quattrocento, nella romantica e unitaria Pavia, hanno appeso uno striscione giallo: ‘Fuori le aziende dall’università!’. Domanda:perché? Sono il mostro che vuole divorare il sapere, infilandosi nei consigli di amministrazione? Il seducente vampiro che risucchia i brevetti (…) Questa ostilità va spiegata. In un momento di magra e di tagli rinunciare ad agganciare le università all’economia è una scelta impegnativa. (…)”. Per Severgnini sarebbe meglio scrivere: “Dentro le aziende nell’università!. Con regole chiare, paletti evidenti, vantaggi reciproci: ma siano benvenute. Mi dice un’amica biologa: ‘se le industrie interessate alle nostre ricerche non retribuissero i dottorandi, avremmo una soluzione sola: niente dottorandi’ (…) Impariamo dagli Stati uniti, dove gli ex alunni sono corteggiati e il rapporto con le aziende è incoraggiato e governato da regole chiare (…) Basta dogmi pelosi. Se lo studente tratta le aziende come appestate, mentre è all’università, rischia di venir ripagato con la stessa moneta, appena è laureato e cerca lavoro”. Più chiaro di così.

Oggi, 11 gennaio 2011, il quotidiano della Confindustria, il Sole 24 ore, dedica un ricco inserto speciale alla edizione biennale “Pitti immagine uomo” di Firenze. Foto di giacche, scarpe, orologi… i migliori brand e gli indossatori più sexy. Nulla di nuovo, se non fosse per l’editoriale di apertura a cinque colonne, così titolato. Occhiello: “Nuove visioni. La 79° edizione di Pitti si apre in una difficile congiuntura economica e sociale”. Titolo: “Così la crisi ha cambiato l’idea di felicità e di natura”. Sommario: “L’uomo 2011 potrebbe ribellarsi agli effetti del turbo capitalismo e del narcisismo esagerato che ha prodotto disastri su persone e sistemi”. A firma di un giornalista filosofo Walter Mariotti direttore del raffinatissimo supplemento mensile Lifestyle, sempre del Sole, che vi invito a guardare ogni tanto, perché spesso pubblica servizi interessanti.

Ecco ampi stralci dell’articolo.

«Essere felici. E’ il programma minimo per il 2011, realizzabile ad una sola condizione: il coraggio di abbandonare l’idea base del capitalismo classico che fonda il nostri immaginario personale e collettivo. La convinzione di uno sviluppo crescente e infinito. Del resto dopo l’ultima crisi siamo paradossalmente fortunati. Sappiamo che l’accumulazione è un mito, che non si può separare l’economia dall’etica ed equilibri ecologici perché il prezzo è troppo alto: la devastazione dell’ambiente, del mercato e di qualcosa ancora più profondo ed essenziale: l’inconscio, fonte della verità degli uomini contemporanei».

Mariotti passa ad intervistare lo psicanalista Massimo Recalcati, che afferma:

«E’ l’epoca del turbo capitalismo, dell’inebetimento maniacale, della gadgettizzazione della vita, della burocrazia robotizzata, del culto narcisistico dell’io, dell’estasi della prestazione, della spinta compulsiva al godimento immediato come nuovo comandamento assoluto. (…) Recalcati parla di ‘antiamore’ di una società dominata da legami liquidi, dove ogni giorno si sbriciolano i riferimenti simbolici che facevano da bussola per orientare le nostre vite (…) di ‘ assimilazione conformista con il mondo esterno’.(…). Come uscirne? Come riscoprire la verità del proprio desiderio oltre gli schemi del turbo capitalismo? Ancora una volta la risposta è semplice ma coraggiosa. Un nuovo modello di pensiero, che riancori l’economico nel sociale facendo della sobrietà la base necessaria. Un patto sociale inedito, che risponda all’individualismo degli ultimi trent’anni strutturando forme di identità e di democrazia attraverso consumi qualitativi e alternativi basati su principi di sovranità essenziale».

La parola quindi passa ad un altro filosofo, Eduardo Zarelli, direttore della casa editrice Arianna che spiega - tra l’altro- che «l’uomo non può mutare se stesso senza mutare l’approccio relazionale con la natura». Prosegue Mariotti:

«Occorre una vera svolta culturale ed esistenziale che riesca nuovamente a collocare l’uomo nella natura innescando una revisione critica dell’idea di civiltà tecno-scientifica. ‘L’ecologia profonda – spiega Zarelli – oltrepassa l’approccio scientifico fattuale per raggiungere la consapevolezza del sé e della saggezza della manifestazione naturale. L’uomo è polisticamente inteso come parte di un tutto relazionale. L’implicazione di questo principio è l’ecocentrismo, secondo cui la natura va protetta di per sé, per il suo valore intrinseco, indipendente dall’utilità strumentale o intergenerazionale. Se arrechiamo danni alla natura danneggiamo noi stessi.. Il tipo di approccio alla realtà che se ne ricava è radicale: bisogna interamente ripensare l’attuale società, le forme culturali e il posto dell’uomo nella natura. Occorre agire sulle cause invece che sugli effetti (…) Non giocare la natura contro l’uomo e i suoi processi ribaltando lo schema meccanicistico dello sfruttamento in un’irreale fuga dalla civiltà, ma praticare la via intermedia del giusto mezzo all’insegna del riequilibrio olistico tra cultura e natura (…) nello sposare la semplicità volontaria dello stile di vita a una felicità cercata nella virtù, nella misura, della compiutezza in controtendenza alla dissoluzione dei consumi nell’egoismo narcisistico che fa della felicità un diritto, a prescindere dai doveri dell’uomo nei confronti della natura e della comunità di cui è parte. Dolo una felicità-virtù può ridurre i bisogni materiali, la complessità organizzativa e la tensione psicologica e decisionale del singolo; all’opposto una società edonistica, sposando una felicità-piacere, proietterà i bisogni nell’artificio e nell’illimitatezza fino a rendere patologica l’indecisione individuale nell’ansia abulimica o anoressica dell’eccesso o del suo rifiuto»

E così chiude:

«E’ il cuore di tenebra del capitalismo, la sua ultima fermata verso una visione riduttiva dell’uomo creato per ben altri orizzonti. Liberi dall’immaginario - che oggi qualcuno cima ‘narrazione’ - di uno sviluppo deviato che rende sudditi e consumatori per riscoprirsi soggetti liberi e creativi, in grado di sintonizzarsi di nuovo con l’essere divino della natura umana. Rinunciando alle seduzioni faustiane dell’avere che hanno prosperato per troppi anni tradendo tragicamente l’idea di felicità». Fine.

Tutto questo al Pitti!

Pare che a Milano, faro guida del cabaret politico-amministrativo che poi si irraggia per tutto il paese, ne abbiano inventata un’altra. Un’altra cazzata, si intende.

Dal 15 novembre, se tutto va nel senso ipotizzato da questi programmatori della nostra vita, sarà vietato circolare senza catene a bordo in tutto il territorio della provincia. Della provincia di Milano, ovvero di quel luogo nel quale già nel periodo fra le due guerre si scherzava, tra tecnici, sui regolamenti edilizi comunali evidentemente ricopiati da qualche non-pensante, visto che riportavano abbondanti norme per i terreni in pendenza. Mentre appunto la provincia di Milano (allora tra l’altro molto più estesa di oggi) salvo qualche cavalcavia e la vigna di San Colombano, era piatta come il tagliere della polenta.

Un editoriale firmato sul Corriere da un economista della Bocconi si chiede: cui prodest? E la risposta in effetti pare proprio alla portata anche di chi alla Bocconi non è mai neppure passato davanti: i rivenditori di accessori auto. Perché le sedicenti spiegazioni neotrasportistiche, assai poco scientificamente desunte dalle recenti esperienze di ingorghi biblici causa nevicate, paiono proprio campate per aria.

È vero che ormai, ogni qual volta scendono un paio di candidi fiocchi, abbondano gli imbecilli messi di traverso sulla strada, o finiti direttamente nel fosso, perché pare non sappiano rinunciare alla partenza a scatto, alla frenata in stile Formula Uno all’ultimo momento, alla rotatoria imboccata usando il volante manco fosse il collo del nemico mortale. Ma è anche vero che, ad esempio nelle province pedemontane, nonostante dislivelli e precipitazioni più abbondanti, di casi del genere ce ne sono meno, e sinora a nessuno è saltato in mente di minacciare di multe e taglio punti patente chi non ha le catene a bordo.

Appunto: le “catene a bordo”. Perché poi bisogna montarle. Chi lo fa? La stessa ragazzotta che non riesce a distinguere l’asfalto asciutto (grigiastro o nero) da due dita di neve (se non altro grigio parecchio più chiaro)? Ma per favore!

In definitiva, pare proprio che ci risiamo: la nostra “sicurezza” usata come scusa per inventarsi inenarrabili sciocchezze, fare un piccolo favore agli amici e agli amici degli amici, fingere di risolvere un problema mentre invece se ne creano alcune dozzine. A parte il raggio d’azione esteso, pare la fotocopia del coprifuoco per i negozi, ovvero una monumentale cazzata in punta d’autorità assessorile. Qui però, vorrei entrare da dilettante allo sbaraglio nel campo della psichiatria: perché lo fanno? Intendo, a parte fingere di fare qualcosa, e a parte regalare un po’ di giro d’affari a garagisti e ipermercati.

La risposta suona più o meno: perché sono di destra.

Leviamo pure di torno la malafede, la goffaggine, lo sprezzo del ridicolo, e resta un’idea della vita, diciamo, alla Sarah Palin: armatevi di Winchester e scatole di munizioni, fate il pieno a SUV e motoslitta, e poi scendete sul territorio a vendere cara la pelle.

Fuori dalle palle il big government che vuole le vostre tasse per spalare la neve e chiudere le buche, trionfa il fai da te dell’Individuo, magari un po’ nascosto dietro le ovvie miserie degli individui con la minuscola. Un po’ come dire, e per anni l’abbiamo ascoltato senza farci tanto caso, la pubblica amministrazione non riesce a garantire la sicurezza delle persone e della proprietà, allora armatevi. Eccetera. Del resto, pur con eleganza britannica, anche il ministro per le aree urbane Eric Pickles quando ha imposto la teoria urbanistica dello “ spazio condiviso” declinata alla neo-conservative pensava la stessa cosa: via tutte le infrastrutture stradali inutili, cartelli, cordoli, libertà … ma in fondo voleva dire solo, arrangiatevi.

E quando, catene a bordo o no, vi ci vorranno (è già successo e succederà) ad esempio nove ore di viaggio allucinante nella notte bianca, per spostarvi da San Donato Milanese a Vimercate, ringraziateli. Quelli che le pensano, queste diaboliche sciocchezze, e quelli che in un modo o nell’altro li sostengono. Altro che un favore ai garagisti!

Colpisce lo stupore con cui i giornali hanno riferito del governatore delle Puglie in visita in California, dove è stato fotografato in compagnia della granitica massa di Terminator Schwarzenegger: che ci sarà mai in comune fra questi due, oltre all’evanescente titolo, appunto, di Governatore? Oltretutto uno ex leader della quinta potenza mondiale, l’altro al secondo mandato nell’assai più modesto Tacco dello Stivale? Restiamo alle parole, a partire da quella più improbabile: Terminator. Che vuol dire, anche, linea d’ombra, passaggio dal buio alla luce, dal freddo al caldo, da una condizione a un’altra. E qui forse si comincia a capire meglio cosa ci azzeccano quei due: in una logica di mondi contrapposti, propongono ciascuno a modo suo una prospettiva trasversale. Partiamo da Schwarzenegger. Un po’ come successo da noi con Berlusconi, all’inizio non lo prendevano molto sul serio il mister muscolo, ex attore d’azione, anche dopo che si era fatto eleggere alla massima carica in California. Ma poi sono arrivate diverse sorprese: alcune positive.

Di governatori repubblicani anomali se ne sono già visti negli Stati Uniti: si pensi ad esempio al governatore dell’Oregon Tom McCall che fece passare nel 1973 una “legge urbanistica” (Senate Bill 100) che nulla aveva da invidiare alle migliori leggi urbanistiche europee dell’epoca, arricchendola anzi di contenuti molto avanzati in materia di tutela delle risorse ambientali e di pianificazione partecipata. E’ grazie a lui se la fascia costiera, una delle più belle che si affacciano sul Pacifico, è stata resa completamente inedificabile. L’anomalia repubblicana di Terminator sta nell’aver affrontato con lungimiranza la lotta al cambiamento climatico. Gran parte dello schieramento conservatore-petroliero ha strepitato di un complotto comunista contro lo sviluppo; lui ci ha visto (insieme al più lungimirante venture capital) un’occasione. Da sviluppare con azioni politiche coerenti: incentivi alle imprese che innovano, leggi che scoraggiano certi investimenti e ne sostengono altri, azioni correttive nel modo di operare della pubblica amministrazione; ma anche una nuova sensibilità per il costo collettivo e sociale dello sprawl.

Un bell’esempio di quest’ultima attenzione lo troviamo nel Senate Bill 375 del 2008: a partire da obiettivi di riduzione delle emissioni inquinanti, si arriva (e questo gli interessi penalizzati l’hanno intuito subito con vero terrore) a mettere in dubbio la legittimità dell’American Dream, ossia del diritto inalienabile ad accaparrarsi privatamente quante più risorse ambientali e territoriali possibili, a spese della collettività. Naturalmente questa definizione è di parte: ma come altro chiamare il modello a tutt’oggi in vigore, secondo cui il denaro del contribuente finanzia le politiche pubbliche di sostegno alla raffinazione di petrolio, alla costruzione di autostrade, i crediti agevolati all’edilizia monofamiliare per una popolazione esclusivamente WASP in aree remote?

Il vero sogno americano era sognarsi che tutto questo fosse gratis. Con il Senate Bill 375 in pratica i fondi pubblici destinati ai trasporti verranno erogati con priorità alle aree metropolitane (ne sono state individuate 18 MPO – Metropolitan Planning Organization) che sono sollecitate a predisporre programmi di pianificazione coerenti con gli obiettivi ambientali. Ossia, appunto, in collisione con l’American Dream, perché si dovranno progettare quartieri compatti, strade urbane e fruibili a piedi, servizi, attività economiche e commercio integrati alla residenza, tutto coordinato con una rete di trasporti collettivi e mobilità dolce. Niente “di sinistra” forse, ma migliore gestione di risorse scarse e maggiore lungimiranza. Al di là degli strali dei destrorsi più o meno interessati, dai petrolieri al Tea Party, Schwarzenegger era e resta una persona con riferimenti conservatori, di destra, ma che cerca con vario successo di superare quel Terminator, quella linea d’ombra novecentesca che divide per schieramenti ideologici e, spesso, per miopia preconcetta.

Un altro esempio di Repubblicano anomalo lo troviamo sulla costa orientale: a New York dove il sindaco Michael Bloomberg ormai da diversi anni porta avanti il suo PLANYC 2030 per la sostenibilità ambientale. Da noi magari si parla solo della pedonalizzazione parziale di Broadway, o del pur interessante e innovativo recupero a parco della ferrovia sopraelevata della High Line, ma le politiche urbane che coerentemente questo piano innesca sono molto altro. E vanno dall’integrazione a rete delle iniziative alimentari-sociali (gli incentivi urbanistici per nuovi negozi nei quartieri poveri, gli orti urbani, i tetti verdi), al sostegno per le produzioni e sperimentazioni energetiche locali, alla mobilità dolce, alla straordinaria serie di azioni di rezoning intraprese dall’ufficio urbanistica: il Planning Department diretto dalla signora Amanda Burden con prospettive che ricordano le teorie di Jane Jacobs. E neppure Bloomberg lo si può “accusare” di essere anche solo lontanamente di sinistra. Un esempio: la liquidazione di tanto patrimonio di edilizia residenziale pubblica, dalla messa sul mercato di veri gioielli del Novecento come Stuyvesant Town (sinora destinato a ceti medi come insegnanti ecc.), a meccanismi che ben conosciamo anche noi come i cicli di riscatto degli alloggi popolari, che di fatto sottraggono potenzialità e strategia all’investimento e alla pianificazione (*).

Tornando dalle nostre parti, vediamo quello che è successo e sta ancora succedendo a Milano, con le incombenti elezioni del sindaco che si mescolano alle convulse vicende nazionali sia a destra che a sinistra. La linea d’ombra, il Terminator, i candidati alle primarie milanesi hanno cercato di superarla subito, dichiarandosi a vario titolo indipendenti da partiti e schieramenti. Con varie sfumature, e magari anche contraddizioni: le appartenenze, visibili e meno visibili, sono lì e prima o poi saltano fuori. Ma il senso era: proviamo a entrare nel merito delle questioni. Non pare proprio che siano stati aiutati in questo percorso, almeno dal vivo della campagna per le primarie a oggi. Salvo forse in quello che poteva apparire l’esatto contrario: la comparsata sostegno a Pisapia di Nichi Vendola, dove nonostante il tipo di pubblico assai schierato il tentativo era proprio di uscire dallo schema. Come invece non è avvenuto per nulla col candidato “ufficiale” del Pd, Stefano Boeri, il cui insuccesso è stato in gran parte determinato dalla invadenza del suo sponsor.

Qual è il problema, a nostro modo di vedere? Si può partire da quanto è sotto gli occhi di tutti: una città, Milano, ridotta al lumicino sul versante sociale, ambientale, urbanistico; avulsa da qualsiasi riflessione strategica con la sua area metropolitana, ormai libero territorio di caccia per i grandi interessi in settori parassitari, finanza ed edilizia in testa. Per non parlare degli aspetti anche formalmente criminali ormai organicamente alleati in questa “città dei veleni”.

Ma la domanda che oggi ci poniamo con crescente preoccupazione è: come se ne esce?

Sicuramente non recuperando il sedicente “meglio” del bel tempo che fu, che a Milano è assai difficile da rintracciare. Allo stesso modo, non può valere la sola opzione “prima di tutto mandiamoli a casa”, ma neppure pensare che tutto si risolva mettendo in campo la solita accoppiata alternativa di governo & buone intenzioni.

Si parla spesso di puntare al centro, senza poi capire esattamente di cosa si tratti. Per qualcuno, in positivo e in negativo, è solo tirare a campare, o peggio cambiare qualche faccia o slogan perché nulla cambi. Invece, ciascuno a modo suo, Schwarzenegger, Vendola, Bloomberg, Pisapia (gli americani con solide radici a destra, gli italiani a sinistra) propongono un percorso, di coinvolgimento di chi ci sta in un progetto innovativo, coerente, responsabile, e soprattutto fuori da schieramenti e alleanze prefissati a priori.

Vendola e Pisapia per ora hanno un problema in più: i tantissimi che in buona fede stanno tirando loro la giacchetta, ricordando che c’è il partito, la linea, e via con la lista di tutto ciò che è “fondamentale”. Mentre invece l’unica cosa fondamentale è, senza rinunciare alle radici, che anzi rafforzano la proposta, pensare a cose molto pratiche, in grado queste sì di coinvolgere i cittadini: di far loro aprire gli occhi e di farli tornare a sperare.

Sarebbero dunque appena poco più di 2 mila le domande inoltrate ai Comuni per ottenere gli ampliamenti di volume previsti dai cosiddetti piani casa. Più della metà nelle sole Veneto e Sardegna; regioni ahimè non sempre nella fascia d'eccellenza nelle politiche di tutela del territorio (è possibile dimenticare che Zaia ha dovuto aspettare le alluvioni per ammettere che la maggioranza delle campagne è stata divorata dai capannoni?).

Altrove, nel resto del Paese, quasi nulla. Un migliaio di richieste in tutto. Un'inezia per delle leggi che, stando ai loro proponenti, avrebbero dovuto rilanciare l'edilizia e sanare il disagio abitativo. Che chi cercava casa non avesse nessun miglioramento da quei provvedimenti era ovvio e, infatti, dodici mesi dopo, sono cresciuti gli sfratti (+17%; dati ministero interni) e con la prevista cancellazione del fondo affitti altre 400 mila famiglie si troveranno presto sulla strada. Meno scontato invece che questo robusto ricostituente risultasse vano su un comparto, quello edile, che continua a languire e a bruciare posti di lavoro.

Davvero però non si può dire, come fanno invece le associazioni datoriali di categoria, che il fallimento dei “piani casa” vada attribuito alla loro severità e ristrettezza. Basta andare a rileggere l'intesa stato-regioni del 31 marzo 2009 con cui venne dato il via libera a quei provvedimenti per scoprire quanto poi le regioni, legiferando, tennero in scarso conto i vincoli là contenuti. Se il protocollo Fitto-Errani prevedeva infatti che la normativa non superasse la vigenza di 18 mesi, fosse riferita ai soli edifici residenziali e comunque non superiori ai 1000 mc e autorizzasse ampliamenti non superiori al 20%; tali e tante furono le eccezioni poi contemplate nelle leggi approvate dal finire col riconoscere anche gli edifici condonati, quelli inseriti nei centri storici e nelle aree protette e di concedere, in certi casi, anche aumenti pari alla metà del volume originario!

Insomma, si è realizzato un complesso di leggi contradditorie unite solo dal comune denominatore di sospendere e umiliare gli strumenti urbanistici ordinari.

Avvilisce ora che di fronte a dati inconfutabili che attestano il fallimento di quei provvedimenti, molte regioni, anche rette da coalizioni di centro sinistra, anzichè accompagnare alla naturale scadenza i loro piani casa, immaginino di prorogarli abbassando ulteriormente i vincoli di tutela. Rischia di essere una gara alla deregulation, all'aggressione del territorio e al sostegno alla speculazione. Capita pertanto di ascoltare, in queste settimane, l'ipotesi di inserire nei “piani casa” anche gli edifici abusivi; di estendere i benefici agli immobili commerciali e industriali e financo la facoltà di abbattere e ricostruire anche in sito diverso edifici fino a 3.000 mc concedendogli per giunta un incremento del 35%!


È davvero impossibile assumere un altro punto di vista? È proprio proibito, anche qui, sfidare l'impresa sul piano della qualità, della ricerca e, finalmente, dell'utilità? Occorre davvero insistere nel ricordare che il problema casa nel nostro Paese non è affatto dato da un deficit di volumi, ma piuttosto dalla sua scadente qualità, dall'assoluta indifferenza alle sue caratteristiche energivore, dall'inesistenza di una politica di alloggi a basso costo? Insomma, si può almeno provare ad indicare il tema di città più belle, più giuste e più utili?
Chissà che non sarebbe un modo per provare già ad andare oltre Berlusconi.



Bruno Pastorino 
è Assessore alle politiche per la casa del Comune di Genova

Negli ultimi mesi sono state numerose le inchieste e le indagini condotte dalla Magistratura e dalle Forze dell’Ordine che hanno svelato, anche in territori fino a poco tempo fa considerati off-limits per la criminalità organizzata, importanti operazioni e trasformazioni urbanistiche che vedono coinvolti, in intrecci poco trasparenti, cosche mafiose ed esponenti del mondo istituzionale.

Spesso il nesso tra criminalità organizzata e territorio viene circoscritto al fenomeno dell’abusivismo edilizio tralasciando di analizzare in che modo i processi decisionali possono venire alterati dalle pressioni della criminalità organizzata che, in questo modo, può orientarli a proprio vantaggio, compromettendo la competitività e lo sviluppo del territorio. Infatti appare sempre più evidente come il pesante condizionamento esercitato dalla mafia sulle scelte di pianificazione sia spesso la causa dello stravolgimento di un ordinato sviluppo urbanistico, che viene così scavalcato da interessi di tipo criminale che sono di ostacolo a una gestione del territorio che abbia come obiettivo il perseguimento dell’interesse collettivo. Alcuni fenomeni che, seppure non imputabili esclusivamente all’agire mafioso, sono influenzati negativamente da eventuali infiltrazioni, sono tipicamente quelli legati alla sovraproduzione edilizia (fenomeno che può essere ricondotto alla necessità di investire e riciclare i proventi di altri traffici illegali nell’attività edilizia da parte delle cosche), ma anche alla cosiddetta “ecomafia”, settore che comprende i reati ambientali, perpetrati in particolare negli ambiti del movimento terra e del ciclo di gestione dei rifiuti, notoriamente caratterizzati da una forte presenza mafiosa.

La relazione tra criminalità organizzata e pianificazione, nella realtà del nord Italia, può essere ricondotta a un approccio tipicamente speculativo nella gestione del territorio che si collega anche al fenomeno della corruzione, coinvolgendo parti sempre più estese sia della componente politica che di quella gestionale e amministrativa di molti enti locali.

Il contesto del nord Italia presenta, a tal proposito, alcune caratteristiche che sembrano favorire le infiltrazioni degli interessi criminali nella gestione del territorio. Da circa un decennio la Regione Lombardia ha avviato un processo di riforma urbanistica che, in nome della semplificazione e dell’efficienza, ha introdotto procedure di pianificazione e programmazione sempre più de-regolative. Il nuovo sistema lombardo di “pianificazione negoziata” è imperniato su un modello di partnership pubblico-privato che priva le strutture pubbliche degli strumenti non solo di controllo ma anche di guida delle scelte strategiche; non prevede criteri oggettivi e prestazionali che regolino la contrattazione e consente, in questo modo, processi decisionali opachi e criteri di valutazione molto discrezionali.

Lo strumento paradigmatico di questa stagione urbanistica lombarda è il Piano Integrato d’Intervento con il quale le Amministrazioni Comunali, previa adozione di un Documento d’Inquadramento (che indica gli obiettivi che si intendono raggiungere e che comunque è modificabile in ogni momento), possono indirizzare le proprie scelte di sviluppo a seconda delle opportunità – o delle proposte – che il contesto immobiliare offre loro.

È facile comprendere, a questo punto, come il contesto lombardo, nonostante alcune ancora forti resistenze soprattutto di carattere propagandistico volte a tutelare l’immagine della “Milano capitale morale d’Italia”, offra ampi varchi per le infiltrazioni criminali.

E forse non è un caso se dalle indagini della Direzione Investigativa Antimafia emerge come nell’ultimo decennio si sia progressivamente diffusa e radicata la presenza della malavita organizzata al nord, fenomeno peraltro dimostrato anche dalle classifiche annuali redatte da Legambiente sui reati ambientali, nelle quali la Lombardia guadagna posizioni ogni anno, e dai dati relativi alle operazioni antiriciclaggio che, nel 2009, hanno visto localizzate nel nord Italia circa la metà di segnalazioni registrate nell’intera penisola.

Nonostante questi dati non lascino dubbi, la percezione mafiosa sul territorio lombardo resta ancora molto bassa. Le attività criminali compaiono raramente sotto i riflettori e non provocano allarme sociale, raramente ricorrono alla violenza, mai alle stragi; piuttosto si presentano con una nuova generazione di “mafiosi con le scarpe lucide”, sempre più inseriti nei settori vitali dell’economia nei quali si presentano con formule e operazioni finanziarie molto avanzate, ricorrendo al decisivo supporto della cosiddetta “zona grigia”.

Società intestate a prestanome che, tramite la corruzione di esponenti politici e di tecnici, si aggiudicano appalti per la realizzazione di opere pubbliche oppure ottengono i permessi per la realizzazione di operazioni immobiliari, anche in difformità con gli strumenti urbanistici vigenti, rappresentano quello che la magistratura definisce un “sistema consolidato e capillare”, nel quale non sempre è di immediata definizione il confine che separa una realtà mafiosa da pratiche speculative e di corruzione prive però di fini criminali.

Un caso di speculazione e corruzione: le inchieste Parco Sud e Parco Sud II

Le inchieste della Magistratura, Parco Sud e Parco Sud II, che hanno interessato il comune di Trezzano sul Naviglio, consentono di comprendere molto bene i meccanismi che portano l’alterazione dei processi decisionali, e quindi delle scelte amministrative, a tutto vantaggio degli interessi criminali nei territori dell’hinterland milanese. Trezzano è un paese di circa 20.000 abitanti, localizzato nella periferia sud occidentale di Milano; circa un anno fa è balzato agli onori della cronaca in seguito all’arresto di numerosi esponenti del clan ‘ndranghetista dei Barbaro-Papalia e a quello dell’ex sindaco, oltre al coinvolgimento di alcuni consiglieri e del responsabile dell’ufficio tecnico comunale.

Qui è stato proposto, e approvato, un piano di Lottizzazione che interessa un’area a margine del tessuto urbanizzato, localizzata in prossimità del limite del Parco Agricolo Sud Milano, nonostante alcuni vincoli urbanistici - dettati dalla presenza di due pozzi idrici e di un corso d’acqua con relative fasce di rispetto - imponessero importanti limitazioni edificatorie.

Nell’istruttoria della pratica questi vincoli sono semplicemente omessi dalla cartografia e dagli estratti di Piano Regolatore; non viene redatta la relazione idrogeologica che avrebbe dovuto attestare la compatibilità tra il progetto e la vulnerabilità delle risorse idriche sotterranee; non vengono rispettate le distanze dai pozzi di captazione né dal corso d’acqua.

Confrontando l’assetto planimetrico del progetto con i vincoli esistenti è evidente come la situazione progettuale del Piano di Lottizzazione sia molto diversa da quella legale e si può facilmente comprendere che il rispetto della normativa vigente avrebbe comportato uno sfruttamento edificatorio ridotto e quindi minori introiti economici da parte dell’operatore immobiliare vicino al clan ‘ndranghetista.

Ri-regolazione e trasparenza per costruire vantaggio sociale

Ai fini della tutela della legalità, se da un lato appare sempre più anacronistico insistere esclusivamente sul potenziamento delle forze dell’ordine e sull’azione repressiva, dall’altro la ricerca di nuovi strumenti che, anche nel campo urbanistico, siano in grado di ostacolare gli interessi della criminalità organizzata, rischia di diventare un mero esercizio tecnico che, in assenza di un serio intervento sulla trasparenza dei processi decisionali e sul coinvolgimento di tutte le componenti sociali, appesantirebbe ulteriormente l’apparato normativo senza apportare reali contributi e benefici.

L’attivazione di processi di pianificazione maggiormente integrati e partecipati può essere efficace solo se accompagnata da un ripensamento circa le funzioni e il ruolo dell’amministrazione pubblica. Per poter diventare strumenti efficienti per la tutela degli interessi collettivi nei processi di governo del territorio le diverse proposte - politiche attive, standard più esigenti, valutazioni ambientali strategiche - hanno bisogno di un attore pubblico che sia in grado di rappresentare la propria visione strategica e il proprio progetto di territorio inserito in una prospettiva di lungo periodo, all’interno della quale collocare le singole scelte decisionali, che solo in questo modo non sarebbero più dipendenti da proposte e offerte immobiliari estemporanee.

Inoltre il soggetto pubblico deve saper costruire, attorno alle proprie scelte politiche, il maggior livello possibile di consenso sociale. Consenso sociale che non deve essere perseguito tramite il soddisfacimento degli interessi più forti, siano essi di natura più o meno lecita, quanto tramite l’elaborazione di uno scenario di sviluppo locale il più largamente condiviso.

Infatti qualsiasi seria strategia di contrasto non può che agire nella direzione della trasparenza per tutelare gli interessi della collettività e per rompere quegli intrecci che le organizzazioni criminali stringono con il mondo politico e istituzionale e che consentono una gestione del territorio troppo spesso asservita a interessi di dubbia legalità.

Come ben noto a chi nota, qualunque cosa si voglia dimostrare o smentire c’è sempre da qualche parte uno studio americano a cui appoggiarsi. Recente o un po’ meno, meglio se da qualche prestigiosa accademia ma ci si può anche accontentare, spunta sempre la ricerca piena di tabelline dove il fumo non fa poi troppo male, le donne sono giusto lievemente inferiori in qualcosa per una questione genetica, abitare almeno a cento chilometri dall’ufficio e a sessanta dal vicino di casa è il presupposto di una sana coesione sociale.

E però, questo genere di studi diciamo di nicchia (forse nel senso che nicchiano) esiste proprio grazie alla soverchiante massa di prodotti mainstream, con cui spesso condividono anche metodo e verificabilità dei risultati.

Prendiamo uno degli ultimi, di cui sono state anticipate alcune conclusioni in questi giorni, condotto da tale Jack Schemenauer con il coordinamento del geografo David Walker, Wesleyan University, Ohio. I due hanno preso in esame un quartiere, quello di Northland nella città di Columbus, che come capita spesso aveva da anni preso una brutta piega: prima area urbana a forte e apparentemente incrollabile vocazione commerciale e di servizi, poi via via abbandonata dagli esercenti, singoli, a gruppi, per interi blocchi complementari, a favore del suburbio. I motivi sono pure quelli soliti, della abbastanza recente suburbanizzazione soprannominata white flight, coi bianchi di ceto medio che iniziano ad andarsene in villetta: vuoi perché così vuole la moda o la voglia di far giocare i figli in giardino, vuoi per la diffidenza verso nuovi arrivati dalla pelle un po’ più scura.

Per non farla troppo lunga, rinviando magari a quando lo studio sarà pubblicato (adesso i due se lo tengono stretto aspettando il Summer Science Research Symposium), la scoperta è che una iniezione di vita con afflusso di immigrati, nel tessuto malato del quartiere abbandonato dagli abitanti più ricchi e dai negozi, lo ringalluzzisce. Banale? Parrebbe proprio di no, a giudicare da tutto il dibattito sui quartieri difficili, i deserti alimentari e di servizi che innescano circoli viziosi di degrado urbanistico e sociale, la difficoltà delle politiche pubbliche di invertire queste tendenze quando si sono troppo radicate. La premiata ditta Schemenauer & Walker per proporre meglio il suo prodotto di ricerca sul mercato si è giustamente inventata anche un marchio: immigrantification. Gioco di parole immediatamente comprensibile, e che strizza l’occhio contemporaneamente a due noti processi di trasformazione urbana, come l’immigrazione e l’evoluzione socioeconomica detta gentrification, fondendoli in un solo neologismo. Ma la cosa non finisce qui, ovviamente.

Il neologismo sta anche a significare una prospettiva del tutto nuova, a diversi anni luce anche dal recente mito della cosiddetta classe creativa professional-giovanilista. Ovvero che esiste, e per conto suo, basta lasciarlo fare ed eventualmente sostenerlo, un processo spontaneo per cui là dove c'è domanda di beni e servizi, qualcuno proverà a dare una risposta, non necessariamente più avida e malvagia di altre. Nel caso specifico di Northland a Columbus, l’iniziativa nasce da due specifici gruppi etnici, quello somalo e messicano, e dalle loro attività commerciali, oltre che dal riconoscimento di questo valore da parte della municipalità. E la immigrantification, come ben riassume la parola, nel volgere di qualche anno ha voluto dire prima solo un po’ più di movimento attorno a qualche esercizio, poi anche riqualificazione edilizia, e poi posti di lavoro, attività collaterali, avanzamento sociale e urbanistico generale. E senza cacciar via nessuno, a differenza di quanto avviene con la classica gentrification.

Il solito studio americano buono per tutte le stagioni, soprattutto per quella estiva dei convegni e dei titoli accademici con lancio stampa? A dire il vero, se si dà un’occhiata al panorama della riqualificazione urbana parrebbe proprio di no: forse non sono altrettanto visibili delle scintillanti prospettive di qualche archistar, o degli opuscoli patinati delle immobiliari, ma basta studiare un po’ qualunque caso di città in evoluzione per scoprire grandi e piccoli esempi del genere. Il meccanismo più o meno si ripete, cambiano le etnie, i canali decisionali e di finanziamento, il percorso specifico. Resta la capacità di affrontare e magari in parte risolvere alcuni problemi posti dalla famosa libera circolazione di capitale e lavoro, tanto sbandierata in teoria, tanto discriminata in pratica.

Nelle città italiane invece, Milano in testa, che si fa? Se mi è consentito un neologismo volante, direi urbanicidio.

Ovunque ci sono segni di vita diversa da quella nata nei laboratori della speculazione immobiliare, la missione impossibile è sempre, stroncarla! Visto che appunto trattasi di missione impossibile, i robottini a molla con manganello che ci ritroviamo praticano lo scostamento. Robert Moses mezzo secolo fa lo chiamava orgoglioso lavorare di mannaia, giù fendenti su quel tessuto vivo, da scarnificare e rendere pronto per gli innesti artificiali della modernità.

I danni di quel metodo ce li stiamo godendo ancora oggi, ma gli appassionati della bipenne, da buoni e utili analfabeti, non hanno mi sentito nominare né Robert Moses, né (figuriamoci) l’immigrantification. C’è un esercizio commerciale, una attività di servizio? Chiuderla, con la forza, e se non si può coi cavilli legali e le ordinanze speciali. Certo non sono più i bei tempi delle squadre che spaccano vetrine e scrivono maledetto negro, o ebreo, fuori dalle palle ecc. ecc. Ma lo stile è inconfondibile. Si svuotano le strade, si caccia la gente, e nel silenzio frusciano i quattrini della riqualificazione Made in Italy.

Nota: credo che per saperne un po' di più sul tema, la cosa migliore sia rinviare ad altre fonti, c'è un articoletto (il più recente, 21 settembre) del New York Times che trattava soprattutto il neologismo dal punto di vista semantico, oppure quello (24 agosto) più attento allo sviluppo locale del periodico d'affari di Columbus Business First; qui di seguito comunque, visto che partivo da una dissertazione sulle "ricerche all'americana", allego direttamente scaricabile la domanda accademica con gli obiettivi di massima (gennaio 2010 scadenza presentazione dei progetti), che ho ricavato dal sito dell'Università (f.b.)

Data fatidica, l’otto settembre! Anche nel sito eddyburg è stato riprodotto un pezzo di Alberto Asor Rosa, da il manifesto dell’8/09/2010 che, con il titolo “L’Italia di mezzo c’è, ma non si vede”, affronta il tema della rappresentazione di quella fascia del nostro paese che rimane, compresa fra il meridione disastrato e problematico e le regioni subalpine tentate dalla secessione.

Certo, le regioni in cui si articola la Repubblica Italiana risentono della volonterosa e patriottica casualità con cui furono disegnati, sulla carta, i compartimenti statistici da Piero Maestri che presiedeva ai censimenti del nascente Regno dal 1860. Seguì i confini comunali e provinciali e quelli degli antichi stati ed usò dei nomi di ispirazione classica, cercando per quanto possibile di cancellare le tracce di “antichi servaggi”. In qualche caso andò giù con la mano pesante: la sinistra storica proponeva un sistema di leva militare territoriale, alla tedesca e per esorcizzare la minaccia repubblicana latente fra reparti di coscritti romagnoli, la Romagna fu smembrata fra Emilia e Marche, e anche un po’ di Toscana, accorpandola con aree di tradizioni meno turbolente.

Poi dai primi del 1900 si cominciò a chiamarle “Regioni”, attribuendovi anche specificità storiche e folkloriche distinte, illustrate e rese popolari nelle esposizioni nazionali ed internazionali del nuovo secolo, finché la Costituente non se le trovò pressappoco definite e ne fece l’ossatura del nuovo assetto istituzionale. Quel che è fatto è fatto, ed ora sembra ragionevole, a parte qualche modesta correzione di confini, lasciare tutto com’è e cercare di trarne ogni opportunità.

L’Italia di mezzo indicata da Asor Rosa, comprenderebbe a nord l’Emilia-Romagna e a sud il Lazio, ma potrebbe estendersi anche all’Abruzzo che, aggregato tradizionalmente alle regioni del Meridione in quanto parte dell’ex regno borbonico, è più assimilabile ai caratteri dell’Italia Centrale. Per quanto riguarda l’Emilia-Romagna, le affinità con le altre regioni sono più storico politiche che geografiche, se non per la comune dorsale appenninica. Ciò che può accomunare questo territorio è soprattutto la struttura reticolare di centri urbani di taglia varia, il paesaggio costiero e il fertile rapporto fra le città e le loro campagne. La storia poi di queste regioni di antiche autonomie mostra un loro secolare, anche se spesso critico e burrascoso, rapporto con Roma, in tutte le fasi dall’età imperiale a quella papale e allo stato unitario. Ove si manifestasse una forma di solidarietà e di programmazione comune, l’insieme di queste regioni può assumere una funzione di collante rispetto ai divergenti impulsi delle aree più lontane dalla Capitale.

Asor Rosa tuttavia non si abbandona a prematuri entusiasmi e segnala gli aspetti contingenti che ostacolerebbero una efficace politica congiunta delle regioni centrali: il degrado delle forze politiche (democratiche-progressiste) che hanno finora garantito la stabilità amministrativa di queste regioni; lo scarso peso che questi fedeli elettorati riescono ad esprimere come sulle scelte di dirigenza, parlamentare e governativa.

La tesi fin qui esposta non è una bizzarra e solitaria elucubrazione, ma sviluppa qualcosa che sembra già in cammino. Ha risposto (su il manifesto 16/09) Andrea Barducci, Presidente della Toscana, ricordando che alcuni presidenti ed assessori di Toscana, Marche, Umbria, Emilia- Romagna e Lazio si sono incontrati nell’ottobre dello scorso anno il per redigere un documento, il “Patto di Cagli” ed istituire un coordinamento su indirizzi di azione comune.

I temi del Patto sono:

1) – Come questi territori rispondono alla crisi economica, sia per le politiche di resistenza che per le politiche di innovazione;

2) - La necessità di modernizzazione delle infrastrutture, sia su gomma sia su ferro;

3) - L’esigenza di progettare, sempre più insieme, questa parte del paese per intercettare le opportunità che provengono dall’Europa, pensando quest’area come una macro regione europea;

4) – Federalismo fiscale, che oggi appare solo come una cornice: nei prossimi mesi andrà riempito di contenuti, criteri e risorse;

5) – La necessità di coordinare gli interventi nelle zone di confine con particolare attenzione alla fascia appenninica;

6) – L’urgenza di rafforzare gli investimenti nel settore della formazione e alla stesso tempo garantire una presenza, la più capillare possibile, dell’offerta didattica;

7) – Coordinamento delle iniziative celebrative nel centro Italia, per il 150° anniversario dell’unità, al fine di rafforzare simbolicamente il ruolo di questi territori come cerniera che tiene insieme l’intero paese.

Barducci ribadisce le qualità di queste regioni virtuose, il loro contributo all’innovazione amministrativa, il loro sistema socio-economico diffuso e solidale, la resistenza alla crisi economica con il mantenimento della coesione sociale, del welfare sostenibile e delle istituzioni per la formazione. Su tali basi esse potranno accettare la sfida e sviluppare un modello riproducibile per tutto il Paese.

Ma già un paio di giorni prima, sempre sullo stesso quotidiano, Sergio Sinigaglia era intervenuto segnalando i seri limiti del buon governo dei post-comunisti. La geopolitica dell’Italia Mediana rende stimolante la proposta, ma non tiene conto del progressivo calo di efficacia, efficienza e consenso del governo democratico-progressista di quelle regioni. Senza risalire ai conflitti, ai conformismi degli anni 70, allo sviluppo quantitativo e non sostenibile di quella economia e di quel territorio, Sinigaglia denuncia la logica sviluppista e delle grandi opere che ha imperversato fra gli amministratori ulivisti e dalla quale le stesse dirigenze non riescono tuttora a staccarsi mentre il tessuto civile si sta sfilacciando e non tiene, fra disaffezione e tentazioni securitarie, davanti alla insinuante penetrazione leghista.

Secondo me si può dire anche di più: il Patto, un anno fa, era già in forte ritardo rispetto alla “occasione storica” nella quale le regioni amministrate dai democratici-progressisti avrebbero potuto porre un ragionevole argine alla deriva secessionista della Lega e porgere una mano solidale al Meridione. Purtroppo il “gran partito” e i suoi nuovi amici erano in tutt’altre faccende affaccendati, al centro con i bei risultati che si son visti e nella periferia a intestardirsi in una governance e in un tipo di sviluppo giunto da tempo alle fase finale.

Alla denuncia di Sinigaglia si potrebbero aggiungere esempi su esempi: dal primato nella privatizzazione dell’acqua e dei beni comuni alla pratica degli accordi che svilisce la pianificazione urbanistica, dalle scelte autostradali devastanti (il Passante di Bologna) al ritardo incolmabile del trasporto pubblico e alla proliferazione di inceneritori, per non parlare degli imbarazzanti risvolti nei vaudeville del Comune di Bologna e della Regione Lazio.

La stessa organizzazione economica che strutturava la rete solidaristica delle regioni “rosse” si degrada, fra la Coop che “non sei più tu” e l’Unipol che “abbiamo una banca”, mentre gli eredi delle cooperative muratori di Bologna e Ravenna aspirano a tuffarsi in dubbie avventure, fra cui la Val di Susa e il Dal Molin.

Un’altra occasione perduta, quindi? Un’altra spugna da gettare? Forse, ma non senza prima aver tentato. Mentre il berlusconismo si scompone come un pugile suonato, c’è forse ancora una possibilità per le quattro Regioni a presidenza democratico- progressista: riunirsi nell’anniversario del “Patto di Cagli” e, solidalmente, avviare una politica coordinata e diversa che le riavvicini alle istanze diffuse del “nuovo mondo possibile e necessario” avviando, in grande scala, quel processo di transizione ad una diversa economia che alcuni Sindaci coraggiosi stanno tentando, assieme a nuove forze vive che li pungolano e sostengono.

Può sorgere un nucleo dell’Italia di mezzo che abbandoni lo sviluppo velleitario e contrasti i ricatti dei potentati, appellandosi alla iniziativa dei Comuni e alla partecipazione dei cittadini per realizzare dei nostri bellissimi territori, delle preziose città, delle antiche e prestigiose istituzioni, un modello di politica locale. Esso avrebbe la capacità di attrarre anche le altre regioni, dall’Abruzzo terremotato e saccheggiato al Lazio in crisi perenne con la costruzione di una alternativa di convivenza civile anche nel federalismo solidale, come è nei voti di tutti gli interventi che ho citato.

Allora avrebbe ragione Alberto Asor Rosa, ed io con lui, a confidare nella forza misteriosa ed epica di questi paesaggi, di queste antiche autonomie, di queste vecchie lotte di popolo, di quell’ Italia umile «per cui morir la vergine Camilla, Eurialo e Turno e Niso di ferute».

Il motore della crescita

Abbiamo alle nostre spalle un ciclo edilizio straordinario per intensità e durata, paragonabile solamente a quello del “boom” economico degli anni ’60. La presenza di una domanda significativa (1) , la facilità di accesso al credito, le politiche nazionali (2) e la deregulation urbanistica hanno innescato una miscela esplosiva. In un quindicennio sono stati costruiti alloggi, edifici industriali e commerciali, strutture ricreative e turistiche per svariati miliardi di metri cubi. Investire nel mattone è stato facile e redditizio: i prezzi si sono impennati verso l’alto, raggiungendo i valori massimi dell’intera storia del novecento, gli investimenti hanno avuto rendimenti superiori persino a quelli dell’oro, e i profitti delle compravendite sono rimasti nelle mani dei proprietari delle aree e in quelle dei grandi costruttori. Si chiama rendita urbana questa enorme ricchezza che non abbiamo saputo né contenere, né tassare, né convertire in opere utili per la collettività.

Collusione pubblico privato e cattura del regolatore

In cambio di pochi spiccioli, si lasciano nelle mani degli immobiliaristi decisioni cruciali sulla localizzazione degli interventi, sulla qualità degli spazi pubblici, sulle destinazioni d’uso. In molte città, a partire da Roma e Milano, il decisore pubblico (regolatore) è stato catturato dai percettori delle rendita urbana: le scelte non sono definite sulla base di una domanda sociale, né tengono conto dell’esigenza di tutela dell’ambiente e del paesaggio o di una qualche razionalità funzionale, ma rispondono ad una logica meramente immobiliare. Nel medio periodo non soltanto questa deriva minaccia la qualità dell’ambiente e della città, ma rischia di mettere in ginocchio anche i bilanci: i nuovi abitanti e le nuove funzioni generano una domanda aggiuntiva di servizi a cui l’amministrazione comunale deve fare fronte con risorse proprie. Si produce quindi un doppio trasferimento di spese: dal privato alla collettività e dai bilanci correnti a quelli futuri. Infine, conviene ricordare che percettori della rendita sanno farsi ascoltare molto bene e con tutti i mezzi: non di rado, infatti, dietro l’evidente collusione pubblico-privato abbiamo visto svilupparsi la corruzione.

I diritti negati

Il suolo consumato, il paesaggio deturpato, la città dilatata e sfrangiata, il disastro dei trasporti, i fabbisogni delle famiglie senza risposta: gli effetti negativi di questo sviluppo malsano sono talmente evidenti che non occorre certo essere urbanisti o esperti di scienze ambientali per rendersene conto. Anche la parte più sana dell’economia soccombe di fronte all’inefficienza delle città e al capitalismo di rapina. In un paese che privilegia rendite e camarille, non può che sentirsi straniero chi vede nel lavoro uno strumento mediante il quale l’uomo è in grado di comprendere il mondo (cioè tutto ciò che è fuori di sé) e di governarlo (cioè di utilizzarlo ai fini propri e della propria specie).

Un altro modo di guardare al territorio e alla città

Che fare per contrastare questa deriva? Lo strumento attraverso il quale contrastare la speculazione (cioè quella componente della domanda che trova la sua principale o esclusiva giustificazione nella convenienza contingente dei promotori) è la pianificazione. E’ solamente attraverso i piani urbanistici che è possibile selezionare quali componenti della domanda di uso e trasformazione del territorio è opportuno soddisfare. Ed è con la pianificazione, non certo attraverso una congerie di accordi con questo o quel costruttore, che possiamo farci carico del territorio che ereditiamo e del progetto di futuro che vogliamo costruire.

Riqualificazione vuol dire prestare attenzione a quel che c’è

Se definiamo le scelte di piano guardando prioritariamente alla domanda sociale e ai vantaggi collettivi, non sarà difficile rendersi conto che all’interno del territorio urbano vi sono ampi spazi per soddisfare le esigenze presenti e quelle del prossimo futuro. Se consideriamo il territorio e la città come un bene comune e non come una riserva di caccia per gli investimenti immobiliari, ci renderemo conto che la crescita infinita – tanto verso l’esterno, quanto verso l’alto – è priva di giustificazioni. A valle di un secolo in cui si è costruito molto, e non di rado molto male, è necessario occuparsi prioritariamente di quello che già c’è. Le occasioni di intervento non mancano: molte aree hanno perso l’originaria funzione e possono essere trasformate, interi segmenti delle periferie necessitano di interventi diffusi sugli edifici e sugli spazi scoperti, molte aree interstiziali e di frangia, se ripensate e riprogettate, possono costituire altrettante “occasioni di socialità”.

Sfide di oggi e per il domani

La crisi attuale ha interrotto bruscamente il formidabile ciclo edilizio cominciato agli inizi degli anni novanta. Tutto è cambiato: gli scenari demografici e quelli economici, per quanto possiamo capire in questa fase di repentino cambiamento, indicano che non sussistono i presupposti per una nuova fase espansiva. Proseguire sulla stessa strada è quindi dannoso e inutile. Nell’immediato, occorre ripensare profondamente l’azione pubblica. Il federalismo e il trasferimento agli enti locali dei beni demaniali sono il primo banco di prova per quelle amministrazioni locali che non vogliono farsi complici del saccheggio dei beni comuni e riaffermare il diritto ad una città pensata dagli abitanti in funzione delle esigenze di tutti.

La sfida per il domani riguarda un ripensamento complessivo dell’economia e delle forme di insediamento sul territorio che ne sono la concretizzazione materiale. Oggi, ad un’economia distorta e a disuguaglianze sociali crescenti corrisponde un assetto territoriale scriteriato, tanto disorganizzato quanto squilibrato, tanto caotico quanto iniquo. Arrestare l’espansione informe della città significa, in fin dei conti, compiere il primo passo per sottrarsi a questa deriva.

note

(1) Immigrazione, nuove famiglie, desiderio di cambiare casa o città, ristrutturazione del commercio, della produzione e dei servizi hanno alimentato il mercato edilizio.

(2) Abolizione dell’equo canone e liberalizzazione dei canoni di locazione, scudo fiscale, dismissione dei patrimoni immobiliari pubblici, condono edilizio, “piano-casa”. Del tutto coerenti con questa impostazione sono – inoltre – le politiche di contenimento della spesa pubblica degli enti locali, congegnate in modo tale da indurre gli enti locali ad agevolare gli investimenti immobiliari.

Nel giorno del Yom Kippur 5734 Egiziani e Siriani attaccano Israele, da sud nel Sinai e da Nord nel Golan, è il 6 Ottobre del 1973, dopo due settimane, il 24 Ottobre, la guerra si chiude con Israele che riesce, dopo una prima settimana in cui subisce, a respingere l’attacco e a mettere timore ai due Stati Arabi. Due settimane che cambiarono l’Occidente, lo cambiarono perché per la prima volta dalla fine della seconda guerra, questo si scoprì vulnerabile. Lo sviluppo economico con cui il mondo occidentale aveva conosciuto prosperità e opulenza, affondava le sue radici nella sabbia della dipendenza petrolifera dai paesi arabi. Finita la guerra sul campo iniziò quella economica, con i paesi dell’OPEC che chiusero i rubinetti del petrolio: “la crisi petrolifera del 1973”. Fu nelle città e in televisione che la crisi si mostrò con tutta evidenza. Fu anticipata la conclusione serale dei programmi televisivi, le domeniche erano senza auto. Si circolava in bici, a cavallo, con i pattini a rotelle, a piedi. Nel lessico quotidiano entrò la parola austerità. Un contraccolpo, il rischio di una “marcia indietro” irruppe proprio dentro le città fino ad allora lo scenario più importante di uno sviluppo che si pensava senza fine. La modernità era la città, lì approdava, chi era fortunato e aveva coraggio, dopo essersi lasciati alle spalle la campagna e le misere condizioni del paese, là da qualche parte, nel sud o nel Nord est del Paese, nelle isole.

Dietro quelle città senza auto che si riempivano di folle appiedate bisognava leggere però un cambiamento ben più profondo. Qualcuno ci provò a raccontarlo:

«fino a ieri avevamo provato a crescere, a svilupparci in termini di reddito proprio puntando sull’automobile. Fino a ieri la preoccupazione non era come liberarci delle macchine, ma semmai come entrarci ancora di più. … La macchina oggi semiproibita è stata in questo dopoguerra il razzo al quale ci siamo attaccati per uscire dal sottosviluppo. Un razzo è bene dirlo, più potente di quanto non si pensi solitamente. Basteranno pochissime cifre: nel 1959 in Italia circolavano poco più di un milione e mezzo di autovetture (non consideriamo cioè gli autobus e i camion) e il nostro reddito nazionale lordo era (a lire costanti 1963) di appena 24 miliardi; alla fine del 1972, tredici anni dopo, le auto erano diventate tredici milioni mentre il reddito (sempre a lire costanti) era riuscito a superare di poco i 46 miliardi. Cosa significa tutto questo? Che mentre in tredici anni il reddito è aumentato di 1,9 volte (cioè non si è nemmeno raddoppiato), la circolazione di automobili è salita di 7,5 volte. non c’è da meravigliarsi che abbia invaso tutta la nostra società. Non stupisce che sia diventata un problema, una specie di maledizione».

Finiva (o sarebbe dovuto finire) quindi un modello di crescita che era tanto semplice quanto insostenibile. Semplice perché si basava su due assunti: che l’energia si ricavava solo dal petrolio e che le persone per spostarsi avrebbero usato solo l’auto. Erano queste le due idee guida del capitalismo che già allora mostravano la corda. La crisi mediorientale e la conseguente crisi energetica ne anticiparono solo l’esplosione . L’Italia, che forse non ha mai sperimentato un capitalismo maturo, fece di queste due idee il suo credo principale; si pensi che 9/10 del fabbisogno energetico del paese allora era prodotto dal petrolio. E per quanto riguarda le auto basti ricordare che nel 1973 l’”economia dell’auto” valeva circa 11.000 miliardi, il 13% della ricchezza nazionale. Dentro un problema energetico che toccava nel complesso il modello di sviluppo dei paesi occidentali c’era quindi una specificità e una peculiarità tutta italiana. Ma, come detto, dietro quelle domeniche a piedi c’era l’esigenza di guardare più a fondo, oltre il folclore dei caselli domenicali di ciclisti e degli appiedati: dentro, sul fondo c’era l’esigenza di cambiare il modello di sviluppo. Si svolse in quei mesi un dibattito importante nel quale si confrontarono posizioni diverse. Nel rileggere le cronache di quei giorni si coglie una preoccupazione tra le forze politiche e gli intellettuali di sinistra, ovvero che sulla crisi energetica si potesse giocare una partita politica di segno reazionario, che riproponesse una società autarchica, chiusa; il rischio di un ritorno al primitivismo come lo esorcizzò il filosofo Paolo Rossi. La crisi aveva messo al centro la questione della fine del modello di sviluppo seguito fino a quel momento e la necessità di mettere in essere un modello alternativo. Una necessità che, si disse, nasceva dall’essere precipitati in un nuovo “dopoguerra”, ma questa volta senza essere stati in guerra.

Si respirava un clima culturale che insisteva come avvertì Giorgio Ruffolo, su «interpretazioni mistico reazionarie, che ad ogni crisi dell’umanità ripropongono lo spauracchio di un’apocalisse; e che esprimono in tal modo un sostanziale scetticismo nella ragione e nell’uomo, sottindendendo un senso autoritario della risposta alla crisi». Le posizioni progressiste si orientavano invece nel rivedere il sistema di valori sociali che si dovevano perseguire e di sottoporre a critica gli stili di vita dominanti in quegli anni in cui l’affermazione del modello individuale aveva messo radici profonde nella psicologia e nei comportamenti individuali e si apprestava a dispiegare in modo pervasivo la sua forza. Zangheri, allora sindaco di Bologna, descriveva così questo nodo della discussione:

«non c’è dubbio che un mutamento è necessario, ma in direzione di quali fini e valori esso va effettuato? Credo che sia abbastanza diffusa la consapevolezza che la svolta deve essere compiuta in direzione di consumi e attrezzature sociali, e di modi di vita sociale. Qui si pone subito un quesito: i valori sociali collettivi sono antitetici e alternativi rispetto a quelli individuali? Non lo credo. Il libero e spontaneo realizzarsi di ognuno, la felicità personale, la versatilità dell’inclinazione possono anzi trovare spazio proprio là dove cessano la sfrenata competitività individuale e la ricerca egoistica del profitto. Se dovessi indicare in concreto dei valori nuovi, essenziali (…) suggerirei quelli più semplici: la salute fisica e psichica, il verde, l’ossigeno, l’alimentazione, la cura delle età deboli. (…) Con tutti i limiti propri di un’esperienza locale, vorrei ricordare che a Bologna si sono compiuti in questi anni tentativi di concepire ad esempio l’urbanistica come arte e tecnica collettive. Tutti i provvedimenti di assetto del territorio sono stati realizzati dai quartieri, e con i quartieri. La conquista delle aree di uso sociale, è stata una conquista di massa nel senso che vi hanno partecipato, attraverso la discussione, l’iniziativa, la lotta, larghi strati di cittadini. Ora i quartieri gestiscono queste aree meglio di qualunque azienda specializzata. Vorrei sottolineare non solo il risultato raggiunto per porre un limite invalicabile alla speculazione edilizia, ma anche attraverso la gestione diretta del territorio i cittadini prendono coscienza profonda dei valori che hanno contribuito a salvaguardare: se ne sentono corresponsabili e compartecipi. La progettazione, la costruzione collettiva di uno spazio abitato, diventano così opera di realizzazione dell’uomo».

Una strada per uscire dalla crisi sembrava potesse essere quella di un nuovo modello di vita ispirato a nuovi valori che dovevano essere quelli più semplici, quelli più vicini all’uomo. Maturava attorno a questa convinzione la possibilità di cogliere quella contingenza per fare affermare valori nuovi e di non farla andare sprecata, anche per questo si rifiutava la discussione astratta sul nuovo modello di sviluppo, che non affrontasse la questione dei valori e degli obiettivi che si intendevano perseguire e su come concretamente perseguirli. Bisognava contrastare una discussione generica, di maniera, che poteva favorire la diffusione di suggestioni regressive, reazionarie, non scientifiche. Inevitabilmente la discussione ripropose la necessità di una regolazione pubblica, di una programmazione che potesse dare profondità temporale alle iniziative economiche e sociali e che potesse contrastare gli squilibri intrinseci alle scelte individuali i cui esiti potevano compromettere il bene comune. Era necessaria «un tipo di programmazione, un tipo di organizzazione complessiva che sappia coinvolgere tutti, e in ugual misura, nelle necessità e nelle prospettive di sviluppo». Più esplicita la posizione di Giorgio Ruffolo:

«Ora mi pare che la formula di una organizzazione sociale moderna, adeguata a quei valori, sia quella della pianificazione con il consenso: il che significa una organizzazione sociale diversa da quella che abbiamo noi, cioè uno Stato diverso, uno Stato decentrato nel quale i cittadini associati possano sostituirsi agli organismi burocratici: uno Stato in cui si riconoscano. Questo è il “nuovo modello”».

La sintesi in forma di auspicio allora operata da Giorgio Napolitano fu: «una crisi drammatica come quella che ora si è bruscamente manifestata, (…), rappresenti un’occasione importante per far fare un passo avanti al paese sulla via di una direzione pianificata della vita economica e sociale». Si coglieva, solo in parte, la verità profonda che quella crisi mise in evidenza, e cioè le conseguenze globali, non più sostenibili per la collettività, di comportamenti individuali legittimi nella sfera del singolo ma insostenibili a livello di interesse generale.

Sappiamo che quella fu solo l’alba di un fenomeno la cui portata oggi sentiamo in tutta la sua forza dirompente e a cui pare non ci siano più argini. La crisi non portò ad affermare dei valori “più alti”, valori che non “fossero più individualistici, non più solo consumistici, né competitivi.”. La ragione delle cose si orientò su percorsi diversi da quelli di chi considerava che:

«il solo modo corretto per affrontare il problema è quello di porre alla base dello sviluppo la ragione, cioè di programmare. Non c’è altra soluzione che questa. Ma programmare vuol dire piegare alle esigenze dell’interesse generale le tendenze spontanee delle forze capitalistiche, perché i fatti ci dimostrano che le tendenze spontanee, abbondanate a sè stesse, portano alla situazione di oggi».

La ragione è andata in direzione diversa e la crisi di oggi ci ripropone lo stesso volto del problema: i limiti dell’agire individuale e l’affermazione del bene comune. L’energia ricavata dal petrolio e la maledizione dell’auto sono in buona misura ancora le ragioni del nostro dibattere. Non siamo usciti dalla civiltà dell’auto/dell’individualismo egoista, e perciò restano attuali le parole di Giuseppe Turani: «Ma allora questo significa che non possiamo uscire dalla civiltà dell’auto? Che il nostro incubo felice è destinato a rimanere soltanto un incubo? No. Il significato è un altro. Dopo aver vissuto per quasi trent’anni sull’automobile non possiamo pensare di liberarcene a colpi di decreti nel giro di qualche settimana. Occorre un “piano automobile” che ci dia città diverse, un’organizzazione del tempo libero diversa, una rete di trasporti pubblici diversa. E’ un programma che non si può calcolare a mesi ma ad anni»

La posizione della cultura urbanistica sulla crisi energetica è sintetizzata dall’ editoriale del numero 62 di Urbanistica dove Astengo dà il suo punto di vista su quanto era successo e formula una ipotesi. Ne riportiamo ampi stralci.

«Tutti immersi nella pesante crisi economica dimentichiamo spesso le sue lontane radici. Non è inutile, quindi, richiamare alla mente che fra le sue non secondarie origini sia la mancata programmazione dello sviluppo economico nel paese e il correlativo mancato controllo dell’uso del suolo, ripudiati entrambi, dieci anni orsono, proprio nel momento iniziale dell’esperimento di centro sinistra, quando con il clamoroso ripudio della predisposta riforma urbanistica, venivano gettati a mare i principali strumenti operativi della programmazione, che veniva in tal modo ridotta al solo enunciato delle intenzioni.

«Che cosa poi nel decennio successivo abbia saputo produrre sul territorio la “libera iniziativa”, senza piani e programmi, è sotto gli occhi di tutti .(…) Quest’analisi dimostrerebbe con le cifre che l’attuale crisi economica discende anche da scelte urbanistiche, dalla distribuzione territoriale degli investimenti dalla modalità con cui gli interventi sono o non sono stati normati e come essi in effetti si sono attuati; scelte che non si possono sbrigativamente imputare solo al sistema capitalistico in generale, come è ormai d’uso, ma che vanno analizzate e motivate nello specifico, concorrendo in tal modo ad un’analisi sui motivi della lunga crisi urbanistica in cui ci dibattiamo da decenni.

«Una lunga notte urbanistica che ha addormentato le capacità inventive e paralizzato le amministrazioni locali, mentre il saccheggio del territorio è stato portato alle estreme conseguenze fino a quando, per autoconsumo delle proprie energie, il dissennato processo di sviluppo urbanistico ha trovato il suo limite ed è entrato nell’attuale spossatezza e di arresto.

«Come uscirne? Non è all’orizzonte alcun nuovo provvedimento legislativo per la “legge quadro”, segno che non esiste al vertice la esatta percezione dello sconquasso urbanistico del paese e dei costi economici da esso indotti.

«Difficile dunque che dall’alto venga l’indicazione di un “nuovo corso”: la sola speranza è di ripartire dal basso. (…) Vivo è ancora rimasto, fortunatamente, lo specifico campo locale dell’operatore politico ed è in queste sedi che sta riprendendo, sia pure a pezzi e bocconi, il discorso urbanistico; è partendo da qui che, poco per volta, il discorso potrà diffondersi e dilatarsi, generalizzandosi, fino a diventare nuovamente problema politico per tutti. Senza contare che a livello regionale, superata ormai la prima durata fase di messa in moto del nuovo meccanismo, si stanno delineando numerose iniziative, dalla Lombardia alla Calabria, di indubbio interesse per la ripresa in termini nuovi del discorso sulla programmazione e l’assetto territoriale. Qualcosa dunque si muove.(…)

«Ed anzitutto dobbiamo, tutti assieme, dare una risposta al quesito se, giunti, come siamo, ad un punto morto in un ciclo almeno decennale di insensato sviluppo territoriale ed insediativo, sia ora da riprendere il cammino, con tutti gli sforzi che ciò comporta, per ripercorrere, con un successivo ciclo, lo stesso tipo di sviluppo, ripetendo gli stessi errori che alla fine presenterebbero gli stessi risultati, solo mostruosamente amplificati, o se non sia giunto il momento di cercare un’altra via d’uscita. La risposta è a portata di tutti, soprattutto di chi, nonostante i venti avversi, non ha del tutto ammainato le vele».

L’ipotesi era che dopo le sconfitte subite sulla legge del regime dei suoli e sulla mancata programmazione, si dovesse ripiegare “nel possibile” rappresentato dalla pianificazione locale. Un discorso urbanistico coerente con una visione tecnica dell’urbanistica ma che si rivelò insufficiente dinanzi alla rilevanza della crisi. L’impressione è che ci fu sul momento una sottovalutazione del rapporto tra la crisi energetica e la città, anche Leonardo Benevolo che scriveva sul Corriere della Sera non dedicò nessun intervento diretto a quanto stava avvenendo . Nel 1971 la dotazione di linee metropolitane nelle città italiane ammontava ad appena 47 km, 11 a Roma, 23 a Milano e 13 a Napoli. Quelle in costruzione ammontavano nel 1973 a 23,5 km. A fronte dei 2.400 mld di lire necessari per realizzare i previsti 400 km di nuove linee, per tutti gli anni ’70 la disponibilità di risorse economica fu di appena 640 mld . Cifre, che rendono evidente la condizione di vulnerabilità con cui le città si presentarono dinanzi alla crisi energetica.

Non si può non cogliere nel dibattito che si svolse su l’Unità la consapevolezza di un cambiamento forte ma le ricette individuate apparivano già allora deboli, debolezza che confluiva nello stesso punto dal quale Astengo, ormai sfiduciato, si voleva discostare: una visione programmatica, un piano forte in grado di affermare il principio di un interesse generale sull’agire dell’individuo. La proposta di Ruffolo di una “pianificazione con il consenso” segnalava per contro l’incertezza sull’ispirazione ideale del modello centralistico e l’esigenza di un confronto sui valori che si intendevano perseguire.

Nello stesso tempo la sensibilità di chi avvertiva l’esigenza di un avvicinamento alla centralità del cittadino organizzato in forma associata, nella gestione e nell’uso delle risorse, divenne subito dopo solo una rivendicazione di tipo amministrativo con la nascita delle circoscrizioni, dei comitati di quartiere, di quella che anni dopo si rivelò essere una burocrazia della rappresentanza.

Verrebbe da dire che la questione è sempre la stessa e che siamo ancora lì, a quel confronto, a quegli argomenti che già allora apparivano stanchi, figuriamoci a distanza di quarant’anni anni. Siamo ancora lì anche con la straordinaria coincidenza che i nodi sociali vengono al pettine proprio nel rapporto tra lavoro, produttività e industria automobilistica, ma questo merita un altro approfondimento.

Ma anche se i fattori in gioco sono comunque quelli, e si riducono necessariamente al rapporto tra agire individuale e bene collettivo, che è per l’appunto il fondamento stesso di legittimità dell’urbanistica, tutto è diverso e resta aperta la contesa sul modo con cui ogni stagione politica e culturale è in grado di declinare questo rapporto per mettere in equilibrio la tensione tra individuo e collettivo. Dovremmo allora imparare a non usare ricette vecchie per problemi nuovi. L’urbanistica dovrebbe essere sensibile alla “vita che accade” a ciò che nella città appare ogni giorno, cogliere il volto della città come “apparire manifesto” in continua trasformazione.

Guardare da oggi al modo in cui la cultura urbanistica seppe rispondere a quella crisi è compito difficile e il rischio di forzature e male interpretazioni che non tengano conto della congiuntura sociale e culturale di quegli anni è molto alto. Quello che si coglie però è come una certa insensibilità dell’analisi urbanistica dinanzi a quanto la crisi energetica nascondeva, oltre alle apparenze. Quasi un distacco dall’evento e, di conseguenza forse, le chiavi interpretative che la cultura urbanistica seppe offrire ci appaiono distanti, incapaci di cogliere il segnale di allarme che quella crisi portò nella nostra vita quotidiana e che nascondeva però una messa in discussione dei modelli di sviluppo di quello che già allora era in nuce e che dopo fu chiamato il capitalismo egoista.

Le città non divennero il luogo dal quale ripensare i valori dell’agire individuale e collettivo a partire dal contenimento della mobilità privata. Non furono il campo di sperimentazione di modelli di sviluppo alternativi che concretizzavano i valori sociali e contenevano l’individualismo. La cultura urbanistica si affidò alla strumentazione ai poteri taumaturgici del fare il piano, all’urbanistica paleotecnica, operò alla scala locale imponendo spesso delle visioni di piano che si rifacevano a modelli diversi, che tentavano di ribaltare il modello di sviluppo imperante. Ma così non si potè che constatare sempre più la distanza con ciò che gli abitanti facevano e pensavano con i valori portati nella vita quotidiana che erano invece sempre più marcatamente individualistici. L’idea di piano da una parte e gli abitanti, sui quali sempre più si imprimevano i comportamenti consumistici del capitale, dall’altra.

La città è allo stesso tempo il campo di azione e il prodotto più complesso del modello di sviluppo economico e sociale ed è nell’urbano che si può agire per avere modelli di sviluppo alternativi e/o per correggere gli squilibri prodotti dall’agire individuale ed egoista. La crisi economica, le crisi, ormai ripetute, possono essere meglio capite nelle città ma anche per questo è qui che meglio possono essere affrontate. E’ con un progetto sulle città italiane che sarà possibile considerare in modo diverso la crisi economica attuale e non rimanere stretti tra l’adattamento ai crescenti squilibri e la riduzione del danno con tentativi progressivamente più conservatori e reazionari. Le vicende successive alla crisi del 1973 ci raccontano che forse fu proprio allora che non si comprese la complessità di una posizione che coniugava lo sguardo sugli stili di vita delle persone, lo sguardo più prossimo al cittadino, e lo coinvolgeva in modo diretto nell’organizzazione dello spazio urbano.

Milano, oggi.

E una doverosa premessa: qualunque cosa è meglio del nulla attuale, privo di visione che non siano vaghi medioevi signorili prossimi venturi, condito di sparate senza senso, guarnito di odioso razzismo e spudorata strumentalità fine all'affarismo. Ma la soluzione che sta emergendo onestamente pare sbucata fuori dalle classiche battute qualunquiste da bar. Lo stesso tipo di battuta che (molti) anni fa diceva più o meno: la presidenza della Repubblica non conta un cazzo, mettiamo lì Gianni Agnelli che almeno è elegante e parla bene.

E giusto per restare ancora un istante in questo genere di fantapolitica nazionalpopolare, cosa si sarebbe pensato se ai tempi suoi, invece del cognato, Craxi avesse puntato su – tanto per fare un nome fra i tanti – Trussardi, per la poltrona di Palazzo Marino? Elegante, eloquio gradevole, bella presenza, capacità di relazione a prova di bomba, e in varie direzioni, politiche e non. Che ci vuole di più? Appunto, cosa si sarebbe pensato ai tempi, e cosa si deve pensare oggi, col “candidato della società civile” che il Pd milanese sembra aver finalmente pescato?

Cito dalla pagina nazionale di Repubblica (1° settembre 2010), che per la seconda volta torna (anche giustamente) sul tema: “Un’archistar che sta disegnando il Cerba, il Centro europeo per la ricerca biomedica promosso da Umberto Veronesi e realizzato da Salvatore Ligresti, ma il cui cuore batte a sinistra. Tradizione di famiglia, alto borghese e milanesissima. Il profilo giusto, secondo il vertice milanese del Pd, per rappresentare un mondo partecipe della politica cittadina ma lontano dalle ideologie”. Questa è una frase – più o meno - qualsiasi, presa dalla parte centrale dell’articolo. Provo a scomporla e vedere cosa può dire al popolo bue & sovrano, con un approccio più o meno da wikipedia.

Archistar. >Figura sociale che evoca nell’immaginario collettivo del terzo millennio sensazioni simili a quelle degli stilisti verso la fine del XX secolo, o dei leader postcoloniali nel dopoguerra, o ancora prima dell’ingegnere jack-for-all-the-trades ottocentesco. Mentre noi stiamo a guardare affascinati i metri quadri di tavole a colori esposte all’immancabile urban center di Casalpusterlengo, nella sala consiliare accanto di solito stanno votando all’unanimità la demolizione dell’abitato dove sta casa nostra, per far spazio al nodo di eccellenza globale appunto progettato dall’archistar. Che bello, in futuro, guardare ogni mattina dal campo profughi in cui ci avranno simpaticamente alloggiato sorgere il sole, che si riflette sulle pareti a specchio del centro congressi!

Cerba. Centro Ricerche Biomediche Avanzate. Per fare le ricerche biomediche avanzate, come dice la parola stessa, bisogna avanzare, dal margine della città costruita verso la Tangenziale, esattamente per sessanta ettari di terreno agricolo, precedentemente destinato a parco dai comunisti. Obiettivo quindi condivisibile da chiunque si senta di casa in “un mondo partecipe della politica cittadina ma lontano dalle ideologie”. Lontano dalle ideologie, ma vicino alla Tangenziale. Sui disegni dei progetti firmati archistar, tra l’altro la Tangenziale confina direttamente con l’Oltrepo pavese e le sue colline farcite di vigneti. Visto cosa ci impedivano di vedere, tutte quelle ideologie?

Umberto Veronesi e Salvatore Ligresti. Vedi secondo paragrafo. Non sono né cognati di Craxi, né stilisti. Ma vedi comunque secondo paragrafo.

Alta borghesia milanesissima. Vedi Moratti. Vedi anche physique du role?

Il cuore che batte a sinistra. Al momento una quantità sterminata di cuori, che battono più o meno ognuno per proprio conto, ahimè distribuiti con densità residenziali anche inferiori ai classici due per capanna: che sia quello il villaggio globale? Assomiglia molto di più allo slum globale di Mike Davis.

Proprio il posto in cui rischiano di trascinarci quei genialoni delle grandi strategie di consenso progressista: non si era detto prima facciamo i programmi, e poi troviamo un candidato. Col cuore che batte, la borghesia milanesissima e tutto il resto, ma per fare cosa? Solo per farci ribollire nel brodo archistar della comunicazione efficace copiata dalla concorrenza? Oppure il programma non importa cercarlo, perché basta andarlo a cercare nelle varie parole chiave citate, in neretto e non, con relativi programmatori?

L’unico progetto citato, non è naturalmente l’unico in assoluto, e anzi il ruolo istituzionale di tutte le archistar globalizzate pare proprio quello, ovvero di verniciare di scintillante desiderabilità collettiva alcuni interessi particolari. Che naturalmente nella vulgata neoliberale poi dovrebbero scendere a cascata come manna a beneficiare tutti. Si potrebbe per esempio citare il gigantesco intervento alla Maddalena, prima sede del G8, poi espropriata a favore del palcoscenico post-terremoto abruzzese, e con l’archistar esattamente nel ruolo di chi doveva far digerire alla società locale, a colpi di immagini, promesse (anche qualche aggiustamento, dai!) il progettone calato dall’alto, con tutti i suoi impatti.

Nulla di fazioso in tutto quello che si è detto sinora, salvo l’imbarazzo davanti all’ennesima pensata di una sedicente classe dirigente, che prima ancora di aver proferito sillaba a proposito di una visione alternativa per la metropoli, si sceglie il candidato-immagine, che a parere di chi scrive non “parla” solo nelle intenzioni dichiarate, ma anche e forse soprattutto nei risultati concreti. Di sicuro non in certe enunciazioni “programmatiche” nel migliore stile rendering, traboccanti di suggestioni, ma che non vanno oltre gli abituali I have a dream che, mi si consenta, anche in anni recenti dalle nostre parti non hanno raccattato molto.

Specificando in conclusione, che comunque, si può anche sostenere che è meglio del nulla attuale, che una pagina bianca è meglio … di una pagina nera. Neh? Ma parliamo di programma, e poi magari anche di chi tiene in mano il telecomando.

Nelle ultime settimane le decisioni della Fiat hanno suscitato reazioni e commenti sulle prime pagine dei giornali. Ora l’attenzione sta scemando ed il trasferimento della produzione in paesi dove le imprese possono ridurre i salari e scaricare oneri e costi sulla collettività viene presentato come un evento ineluttabile o le cui responsabilità vanno attribuite alla irragionevolezza dei sindacati. L’acritico riferimento alla cosiddetta globalizzazione e alle presunte leggi della competizione serve a molti per nascondere le cause che provocano la chiusura delle fabbriche ed ignorare il peso che nelle specifiche situazioni ha il valore del suolo sul quale sono insediate.

Assai opportune sono, quindi, le riflessioni che eddyburg ospita sull’intreccio tra rendita e profitto e sulla complicità di politici e tecnici nel promuovere, sostenere e propagandare la trasformazione delle città da luoghi del lavoro a siti per il divertimento. A tali riflessioni non sembra inutile accompagnare una, seppure sommaria, rilettura delle vicende di tre città che nella seconda metà del ventesimo secolo sono state forgiate dalle scelte e dagli interessi dell’industria dell’automobile.

Detroit

Nel 1950 Detroit era la città americana che “cresceva” di più. Il reddito medio dei suoi 1.900.000 abitanti era più alto di quello delle altre grandi città e più alta era anche la percentuale di case in proprietà. Il suo successo era legato a quello delle tre big dell’automobile - Ford, General Motors e Chrisler - che controllavano ogni aspetto della vita cittadina. Dopo il primo insediamento di Ford nel 1903, l’industria automobilistica aveva avuto un impulso straordinario durante gli anni dell’amministrazione Roosevelt che aveva concentrato nelle fabbriche dell’Arsenal of Democracy la produzione di aeroplani e veicoli da combattimento. Grandi masse di lavoratori, molti dei quali afroamericani, erano affluiti in città, la cui struttura venne profondamente cambiata dalla costruzione di edifici e infrastrutture.

Di fronte ai primi segnali di crisi degli anni ’60, invece di investire in innovazione per produrre modelli adatti a far fronte alla concorrenza giapponese e al crescente prezzo del petrolio, i padroni di Detroit trovarono più conveniente chiudere, ridimensionare, o trasferire le fabbriche e lucrare sulla rendita fondiaria e immobiliare. Con il supporto e la collaborazione dell’amministrazione cittadina che ne condivise ogni scelta - dalla infruttuosa promozione della candidatura di Detroit alle Olimpiadi del 1968 alla costruzione del gigantesco Renaissance Center, alla realizzazione di 3 grandi casino per revitalizzare l’economia grazie all’industria del gioco d’azzardo, innescarono una ristrutturazione economica, sociale e fisica dagli effetti devastanti.

Motor Town, la città dell’automobile, è così diventata la città “che muore più velocemente”. Nel 2010 gli abitanti sono circa 900.000 - la metà rispetto a 50 anni fa- oltre l’80% sono afroamericani e la disoccupazione e la povertà continuano a crescere. Accanto al degrado sociale, una delle conseguenze forse meno note della distruzione delle industrie è l’enorme numero di lotti abbandonati o in demolizione - la cui superficie complessiva ammonta ormai ad oltre un terzo della città - che stanno tornando semirurali.

In questa “prateria urbana”, che potrebbe essere considerata una rivincita della natura, un numero crescente di piccole aree vengono occupate da gruppi di cittadini che le coltivano dando origine ad una sorta di economia agricola di sussistenza.

Alcuni vedono in queste iniziative un segnale positivo, non solo della volontà di resistenza degli abitanti ma per il tipo di organizzazione fisica e spaziale a cui possono dar luogo, altri le considerano un modo inefficiente di uso del suolo. Le critiche più forti vengono da quegli imprenditori che non contestano l’opportunità di usare la terra a fini agricoli, ma ritengono che l’operazione vada fatta su scala commerciale. Per questo hanno iniziato a comprare interi isolati vuoti e chiedono alla città la cessione gratuita della terra di proprietà pubblica, oltre che cospicui incentivi ed esenzioni fiscali, per avviare le loro “fabbriche agricole”.

Come sempre per i detentori del capitale, è dall’enclosure delle terre comuni, dalla privatizzazione delle risorse di tutti, che si deve far ripartire il ciclo dello sviluppo.

Il sindaco Coleman Young - che da giovane aveva lavorato alla Ford - ed Henry Ford II durante l’inaugurazione del Renaissance Centre ammirano la torta che riproduce gli edifici

Torino

Negli anni ’50, Torino era in piena espansione economica e fisica. Grazie ai fondi del piano Marshall e agli aiuti del governo italiano, che costruì interi quartieri per alloggiare i 300.000 nuovi abitanti fatti affluire per rispondere alle sue esigenze di manodopera, la Fiat trasformò Torino nella “Detroit d’Italia” e divenne la padrona della città.

Alle lotte operaie degli anni ’60 e alla “crisi” la società degli Agnelli rispose con una accelerata automazione e con il “decongestionamento” di alcuni impianti in località dove la forza lavoro era più docile, nonché con la diversificazione degli investimenti e il ridimensionamento della parte industriale a vantaggio di quella finanziaria. Stabilimenti e filiali situate in aree divenute pregiate vennero chiuse ed i terreni fino ad allora rimasti sottoutilizzati vennero destinati a gigantesche operazioni immobiliari con il sostegno delle pubbliche amministrazioni e dei più famosi architetti. Se ovunque l’avvio delle dismissioni industriali e dei grandi progetti di riqualificazione e rivalorizzazione del territorio coincise con la nascita dello star system in architettura, la Fiat si dimostrò all’avanguardia anche in questo settore e nel 1983 indisse una consultazione internazionale di 20 grandi firme per esplorare il futuro del Lingotto. Presentandone i risultati, molto lucidamente Giovanni Klaus Koenig scrisse “non è poi così assurdo identificare nella grande industria l’unica forza economica e culturale capace di sostituire il principe, il papa o il re di Francia nel dare un nuovo volto a un brano di città”. E, brano dopo brano, a tutta la città e alla società.

Negli anni successivi la ristrutturazione di Torino non ha conosciuto sosta, la città ha perso (scacciato) 350000 abitanti e conquistato un posto nella mappa degli eventi per turisti e benestanti. Il piano regolatore del 1996 ha sancito la nuova “visione” e le Olimpiadi hanno accelerato il processo di valorizzazione turistico immobiliare la cui evoluzione viene con devozione seguita e propagandata dall’amministrazione comunale e dal suo dipartimento di urban marketing.

Ai superstiti di Mirafiori, non resta ora che sperare che non si intenda “rivalorizzare” il loro ghetto.

Il sindaco Sergio Chiamparino e il suo predecessore Valentino Castellani esibiscono fasci di biglietti delle Olimpiadi

Kragujevac

Già capitale della Serbia, Kragujevac è una città di media dimensione con una consolidata tradizione industriale e una buona dotazione di servizi ed attrezzature. Nel 1953, la Fiat cominciò a produrre automobili negli stabilimenti della Zastava, che fino ad allora aveva fabbricato soprattutto armamenti, ed ha continuato ad espandere la propria attività nel complesso industriale che, però, rimaneva di proprietà dello stato jugoslavo. Negli anni ’90, durante la prima guerra scatenata dalle multinazionali e dai loro governi per ridurre all’obbedienza i paesi riluttanti ad accettare le regole del fondo monetario internazionale e dell’organizzazione internazionale del commercio, la fabbrica è stata bombardata dalla Nato ed i suoi addetti hanno perso lavoro e reddito. Un territorio che viveva dignitosamente è stato devastato in modo tale da poter esser ribattezzato “la valle degli affamati”.

Ma l’importazione della democrazia richiede qualche sacrificio ed ora “tutto sembra andare per il meglio”. La Fiat finalmente ritorna, dice il sindaco, che la accoglie come un benefattore., dimenticando che lo stato serbo ha dovuto “venderle” fabbrica e terreni oltre a garantirle vantaggi economici molto rilevanti. Dal canto suo la città, che ora può vantarsi di essere una mecca for investors, ha avviato un piano di investimento e di sviluppo che consiste nella cessione del ricco patrimonio fondiario pubblico e nella cementificazione del generoso sistema di verde urbano che la città socialista aveva conservato.

Nel sito dell’urban directorate del comune di Kragujevac si può consultare la mappa con le aree già cedute ai privati e scempiate da centri commerciali, uffici e condomini - che non sembrano alla portata dei locali abitanti cittadini - e quelle “in offerta”, accanto ad ognuna delle quali, con apprezzabile trasparenza, compare l’indicazione che le vigenti prescrizioni possono essere modificate “per rispondere alle richieste degli investitori”. Grazie a queste iniziative il Ministero per l’economia e lo sviluppo regionale, dopo una valutazione condotta assieme agli esperti di USAid e delle istituzioni internazionali che “aiutano” la Serbia nel suo passaggio al “libero mercato”, ha concesso a Kragujevac il marchio di business friendly city.

L’urbanistica come arma di guerra

Se è un luogo comune che le città, come le società che le costruiscono, sono in continuo cambiamento, bisognerebbe cercare di estrarre da una congerie di fatti una logica e non limitarsi a registrare la successione degli eventi Chi è stato ridotto alla fame non ha altra scelta che accettare le condizioni che gli vengono imposte, ma i commenti circa la lungimiranza degli amministratori che regalano il loro paese agli investitori stranieri sono inappropriati se non osceni. Non sappiamo se tra vent’anni il fondo monetario internazionale ci obbligherà a mangiare il pomodoro prodotto nella urban farm di Detroit, se Torino sarà l’elegante sede del parlamento della Repubblica del nord e Mirafiori un parco a tema dal titolo “c’era una volta l’industria”, se Kragujevac attirerà fondi di ricerca dalla unione europea per riconventirsi e diventare un modello di città sostenibile. E’ certo, però, che le vicende di queste tre città, “essenzialmente produttive” secondo la terminologia usata da Jane Jacobs, mostrano che il presunto conflitto tra rendita e profitto non esiste dal momento che chi possiede denaro lo può spostare da una parte all’altra del pianeta e da un’attività all’altra alla ricerca del più alto rendimento e può usare l’urbanistica come arma nella guerra per il possesso della terra e delle risorse comuni.

Come avrà sicuramente detto anche Oscar Wilde, dalla morte nasce la vita, eccetera. Insomma stamattina col caldo padano ancora a livelli sopportabili sono andato al cimitero, per annaffiare il micro giardinetto sulla tomba dei miei. E nella relativa tranquillità della necropoli, trascinando su e giù dalla fontanella la dozzina di innaffiatoi che ancora servono a far sopravvivere le piantine nuove, ripensavo alla notizia appena letta sul Corriere della Sera, e che riguardava una zona quasi adiacente al cimitero: la famigerata Cascinazza.

Un articolo ripreso anche da eddyburg, dove si racconta l’ennesima micidiale stronzata dell’urbanistica targata centrodestra per la striscia residua di green-wedge attorno al corso del fiume Lambro: una bella botta di grattacieli, che fanno tanto moderno! Anche qui, scimmiottando benissimo i cugini di cordata milanesi, e ignorando naturalmente qualunque realtà tangibile e logica (a costruirne un’altra ci pensa poi la propaganda) l’enfasi è tutta sullo “sviluppo”, sulla “densificazione” e naturalmente sul “creare nuovo verde” con la classica tecnica per cui si prende un ettaro apparentemente smaterializzato, si costruisce su tre quarti della superficie, e sul quarto rimanente si “crea” il verde, di solito pure a patchwork discontinuo, che troppo grande magari ci vanno quegli sporcaccioni dei rom, o quegli altrettanto sporcaccioni di immigrati sudamericani con le loro feste all’aperto.

Dato che con questo caldo si finisce sempre per svegliarsi un po’ più presto del solito, prima di andare al cimitero avevo anche letto un altro articolo, stavolta dedicato all’Expo 2015. Un anno 2015 che ormai si avvicina pericolosamente, e mentre i nostri grandi eroi del decisionismo centrodestro si cimentano sui massimi sistemi dall’arraffo, questo è mio e questo pure, la natura ahimè sta facendo il suo corso. Perché qual è il tema dell’evento? Lo sappiamo tutti: nutrire il pianeta, e quindi anche i nostri tossici del cemento hanno dovuto accettare, per adesso solo nei sognanti rendering degli ubiqui architetti creativi, le famose serre, il percorso nella natura addomesticata a scopi agricoli, insomma tutte quelle cose lì. Ma alla natura non si comanda, nel senso che ha i suoi tempi, i pomodori non maturano dall’oggi al domani, e men che meno è possibile chiamare una task force internazionale di architetti e scenografi teatrali per allestire quei campi coltivati la settimana prima dell’inaugurazione.

La cosa, piuttosto ovvia, la spiega sull’edizione locale de la Repubblica un preoccupato agronomo: questi si scannano per la presidenza delle società, per i terreni in proprietà o in comodato, ma non ci azzeccano proprio coi tempi inderogabili (davvero inderogabili) del terreno vivo, delle cose che ci crescono dentro, del ciclo naturale ecc. ecc. La vita, la morte, la rinascita … insomma tutti quegli argomenti che finiscono per frullare nella testa, anche senza rendersene conto, girellando per cimiteri.

Al ritorno, in bicicletta, ho deciso di passarci, dalla Cascinazza, dove al momento riescono ancora a brucare le capre, e c’è un ambiente coerente da terzo millennio, mica da anni ’60 di brillantina, Macedonia filtro, e gomito fuori dal finestrino, come piace a certi modernizzatori nostrani. Ed è scattata l’intuizione. Mica tanto geniale a dire il vero, ma tocca accontentarsi. Provo a riassumerla.

A Milano non riescono a fare i campi per l’Expo. A Monza (non nella savana africana, e neppure nella Capitanata) c’è una splendida area agricola, sostanzialmente poco conosciuta dalla cittadinanza salvo appassionati, oggetto di cupidigia da lustri, e vitale per uno sviluppo urbano davvero equilibrato, come ribadiscono da almeno mezzo secolo tutti i piani urbanistici degni di questo nome (patacche escluse). Uno degli elementi di maggiore debolezza, per resistere alle solite pressioni speculative, anche alle più spudorate, è la scarsa conoscenza delle aree da parte degli abitanti. Non è un caso, se ad esempio col parco di greenbelt a Milano spesso qualche assessore fa sparate incredibili sul valore ambientale vero o presunto di certe parti di territorio: se lo può permettere, perché sono pochissimi coloro che effettivamente sanno di cosa sta parlando. In breve, un’area di qualità, frequentata, che contribuisce a costruire l’identità locale, che è percepita come parte integrante e indiscutibile della città, è oggetto di spontanea vigilanza per quanto riguarda trasformazioni ed eventuali speculazioni.

Per disegnare una manciata di rendering di campi e serre probabilmente non c’è neppure bisogno di scomodare qualche archistar chiacchierina che le ribattezza foresta trasversale, o viticcio regionale: basta magari un bel concorso fra studenti di un istituto d’arte. A Monza ce n’è uno, di istituto d’arte, giusto dentro la Villa Reale, altro oggetto di parallela cupidigia. Poi, naturalmente, che si facciano o meno, le cose, dipende da tante variabili: ma vuoi mettere l’immagine? L’idea che quello è un parco, un posto dove si va, visibile, accessibile, bello, pieno di gente e di cose da fare, stramoderno con le urban farm che sono il fiore all’occhiello di qualunque amministrazione davvero progressista.

Cose da fare, cose concrete, cose visibili: questa è l’immagine di un Partito del SI, lontana mille miglia sia dalle lamentele perché non si hanno abbastanza conduttori televisivi prezzolati, sia dai sorrisetti di compatimento, perché con quattro serre di cetrioli idroponici non si riesce a “superare il capitalismo”.

In effetti non era nelle intenzioni. Ma non risulta però che coi sorrisetti sofferti di compatimento si sia mai superato alcunché.

Nota: gli articoli citati nel testo sono quello di Riccardo Rosa dal Corriere della Sera, sui grattacieli alla Cascinazza, e quelli di Alessia Gallione da Repubblica, dedicati alla "emergenza serre" nell'area Expo (f.b.)

Pare che la crisi ecologica del Golfo prodotta dalla piattaforma petrolifera BP abbia innescato uno sgradevole ma diffuso sentimento anti-britannico. Niente a che spartire con le doverose rimostranze del presidente Obama al premier David Cameron, per affrontare contemporaneamente l’emergenza ambientale e quella finanziaria sull’altra sponda dell’Atlantico. I sentimenti che prevalgono sono in fondo quelli di sempre nei paesi che si sentono “sfruttati”: l’invasione dall’esterno, la convinzione che con quella gente è meglio non averci proprio a che fare ecc. Qualcuno evoca addirittura antichi rancori da colonia ribelle contro la corona imperiale.

Pro o contro questo diffuso sentimento naturalmente intervengono sulla stampa i commentatori, e un articolo su un quotidiano sembra particolarmente progressista nel suo sottolineare come globalizzazione debba essere soprattutto cooperazione, non scontro fra universi chiusi. Del resto, ricorda l’autore, per molti anni si è strologato di una vera e propria megalopoli virtuale transatlantica, la cosiddetta “NyLon” (contrazione di New York-London), unificata non solo dai flussi finanziari sui cavi telematici, ma da un vero e proprio pendolarismo di persone, e conseguenti strettissimi scambi di abitudini, interazioni spaziali, insomma come una specie di villaggio, a modo suo, salvo quel passaggio iper-spaziale sul jet, che però poi in fondo non è tanto diverso da un vagone della metropolitana, no? Si legge un giallo, si sbirciano i calzini orrendi del vicino, e dopo un po’ si scende in un altro posto …

Insomma un inno alla pace universale, alla fratellanza fra i popoli … macché: solo una santa alleanza di paladini del libero mercato contro i porci comunisti.

Avete letto bene: porci e comunisti. Per essere esatti i nemici sono di due tipi distinti, per quanto politicamente e culturalmente fusi: PIGS e socialist. PIGS è un eloquente acronimo, che sciolto suona semplicemente Portogallo, Italia, Grecia, Spagna, ovvero gli inaffidabili lazzaroni mediterranei che hanno combinato tutto il guaio finanziario e adesso da par loro piangono miseria e pretendono elemosine. Pfui! I socialisti sono quegli strascichi di vetusto collettivismo idiota all’europea, tipo Sarkozy o peggio ancora quella carampana della Merkel, sul punto di chiedere qualche tipo di regolamentazione degli scambi finanziari. Ecco, insomma a cosa servirebbe, l’intesa transatlantica: a spezzare le reni a questi residuati della storia. Ma non è tutto, anzi a parere del sottoscritto è solo una specie di scusa. Lo si capisce dal nome dell’autore dell’articolo: Joel Kotkin.

Già, il tuttologo Kotkin, che spazia dalla demografia, alla sociologia, all’economia, alla geografia, ma soprattutto difende sempre la “libertà”, peregrinando da vero cavaliere errante attraverso le varie fondazioni e centri studi conservatori, fellow di qui, visiting professor di là, general consultant da un’altra parte. Statunitense, negli ultimi tempi lavora però a Londra, e qui si spiega in parte questa grande sensibilità ad organici rapporti transatlantici. Ma cosa fa, esattamente, a Londra? Ma fa il suo solito mestiere: predisporre studi e rapporti, come l’ultimo sponsorizzato dal conservatore Legatum Institute, dove si sostiene una granitica tesi: le politiche ambientaliste stroncano la mobilità sociale! Ovvero, scendendo un attimo dai grandi slogan e leggendo il rapporto: le politiche urbanistiche del Labour, per quanto elastiche in termini di tutela della greenbelt e urbanizzazione su aree davvero di recupero, fanno salire il prezzo delle case, impedendo ad esempio alle giovani coppie di iniziare a “salire i gradini” della vita. Il titolo è esattamente La Scala Spezzata. Dov’è finita la democrazia? Si chiede il desolato Kotkin.

Una domanda che l’autore, da diversi anni, si pone quasi sempre alla fine di riflessioni a ben vedere ruotanti attorno a un unico punto: la villetta nella prateria, simbolo e concrezione di tutto ciò che di buono e bello esiste al mondo. E che naturalmente è accerchiata dall’assedio delle forze del male. Il male, lo sappiamo, si nasconde ovunque, e cela le sue corna aguzze magari dietro le matite colorate del new urbanism quando chiede maggiori densità, solo un pochino meno dispersive dello sprawl speculativo peggiore; il male si nasconde anche dietro quei grossi papaveri di Washington, che invece di finanziare doverosamente a miliardi le autostrade, magari pensano di sperimentare quei carrozzoni clientelari che sono le ferrovie, le metropolitane, o altri inutili ninnoli effeminati, come pedonalizzazioni o piste ciclabili: doppio pfui! Sono decine, i rapporti, libri, studi (gli articoli sui giornali probabilmente migliaia) che Kotkin ha fatto orbitare nell’universo di dati, cifre, conclusioni, per poi farli atterrare nel porto sicuro del suo grande lotto con villetta e giardino, naturalmente attrezzato di svincolo, centro commerciale e posto di lavoro ad almeno venti chilometri che se no disturbano i giochi dei bambini.

E così si capisce anche questo ultimo viaggio nello spazio globale democratico (globale perché fra i buoni ci sono Cina, Russia, Singapore …) di libero mercato di Kotkin, anche se nello specifico stavolta l’articolo rinvia l’atterraggio dell’Enterprise sul prato della villetta ad una prossima puntata. Da dove era partito tutto? Non dalla perfida Albione, ma dalla BP, che tanto per chiarire ancora gli acronimi è molto, ma molto, più Petroleum che British. E come sa chiunque si sia occupato di insediamento disperso per più di un pomeriggio, il settore petrolifero e l’industria automobilistica sono i principali sponsor, almeno da tre generazioni a questa parte, di quello che si chiama sprawl, e che NON È un destino cinico e baro, o un prodotto di qualche architetto perverso, o ancora un segno di vitalità economica e insieme radicamento familiare. È un sistema socioeconomico all’interno del quale tutto si tiene, perché i consumi individuali e collettivi indotti, e gli investimenti pubblici indispensabili a questo modello, mantengono al centro i lucrosi profitti proprio del settore automobilistico e petrolifero, oltre ad altri (che dire ad esempio dei soli impianti di riscaldamento individuali?).

Proprio per evitare di perdere l’orientamento, e farsi trascinare nelle orbite galattiche della tuttologia a gettone che imperversa ovunque, ad esempio con certe sparate sul nucleare che si leggono in questi giorni in Italia, forse è meglio ricordare sempre che i grandi principi li abbiamo inventati noi. Nel senso che qualche nostro antenato vicino o lontano un bel giorno guardava la mela sull’albero, o la schiuma nel mastello, e ha cominciato a macinare qualche estrapolazione. Forse dopo l’invenzione della frutta in scatola e della lavatrice è il caso di rinfrescare, o quantomeno verificare, i grandi principi: compreso ad esempio il modo in cui guardiamo alla città dispersa. Energivora, antisociale, malsana, insomma culla di tutti i mali. Ma perché?

Chiederselo, continuare a chiederselo guardandosi intorno intendo, forse è l’antidoto migliore contro le parabole degli sviluppisti a tariffa variabile, o dei profeti di austerità altrui, che sotto sotto lavorano per in nemico … (eccetera).

Nota: il citato concetto di megalopoli virtuale Ny-Lon è stato oggetto di un fascinoso articolo di John Gapper sul Financial Times, 24 ottobre 2007, disponibile anche in italiano su Mall; l’opera sostanzialmente pro-sprawl, petrolio, automobili ecc. di Joel Kotkin è ampiamente documentata sia su http://eddyburg.it che su http://mall.lampnet.org ; e naturalmente anche quella di più rudimentali spaccamontagne nostrani, ma questa è un’altra storia. O no? (f.b.)

Le agenzie di rating che certificano l'attendibilità dei bilanci di un paese ci diranno, prima o poi, che i beni comuni contano: che la bellezza del paesaggio italiano è una ricchezza che se si compromette resta un debito grave alle generazioni che verranno. Prima o poi un inviato di Obama ci farà notare che il nostro deficit rischia di aumentare se si sprecano le risorse del territorio. Insomma qualcuno spiegherà che all'Italia non basta rappezzare il bilancio dello stato, ma che serve impedire il sopravvento dello sciame di brutture, di insediamenti illegali che avanzano nella galassia di altre illegalità. Una massa di case che impegna ciclicamente molto denaro pubblico: se va bene per portare urbanizzazioni, nel caso peggiore per aiutare i disgraziati quando gli scivola la terra sotto i piedi.

Condono edilizio. Il provvedimento (rigettato da Napolitano?) era in elenco, la carta pronta per fare quadrare i conti. Ci riproveranno si dice (usando la leva del condono catastale?). Un' incertezza che basta per aggiungere altra edilizia illegale alle preesistenze.

Possibile che non si capisca che a questo Paese non gli è rimasto molto altro che la superstite qualità dei luoghi ? Basta guardarsi attorno per capire che è una fondamentale risorsa. Almeno il paesaggio non si delocalizza come un'azienda, né si replica per il piacere di un magnate.

Possibile che non capiscano il danno? Per esempio a chi esporta prodotti grazie al mito del Belpaese nello sfondo di ogni réclame? Agli operatori turistici che faticano a dirottare i vacanzieri dai posti brutti ?

Le politiche della destra italiana sono quelle che conosciamo. L' obiettivo è prendere da ogni luogo restituendo poco o nulla e secondo le convenienze di cricche pronte a ogni occasione (pure in danno ai luoghi straziati da catastrofi). E se i progetti per saccheggiare la Sardegna sono diretti da tipi come Flavio Carboni non siamo messi bene.

Il territorio è colpito dal malgoverno ordinario, bastano le pessime scelte fatte, come i piani-casa bene accolti pure nelle regioni governate dalla sinistra, mentre ci aspettiamo i contraccolpi dal federalismo demaniale. Un nuovo condono sarebbe troppo.

Resta sempre l'interrogativo sulle reazioni dell'opinione pubblica a fronte di programmi come questi, e sull' impegno delle forze di opposizione a fare in modo che il Pil non sia l' unica bussola verso il nostro futuro.

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