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Acqua, di cui si celebra ogni anno la “giornata” il 22 marzo, amica e nemica. Nei mari del nostro pianeta esistono grandissime riserve di acqua salina, inutilizzabile per dissetare umani e animali e per irrigare i campi; l’acqua dolce, in gran parte immobilizzata in forma solida nei ghiacci polari e montuosi o presente nei laghi e nel sottosuolo. Acqua che evapora continuamente e continuamente ricade sulle terre emerse e nel suo scorrere sulla superficie del suolo assicura la vita vegetale e animale nei campi e nelle foreste; acqua che nel suo moto rapido verso i fondovalle, asporta gli strati superficiali del suolo e provoca frane; acqua che cade sulla terra in modo irregolare, governata dal succedersi delle stagioni, per cui lascia tante terre aride per molti mesi e poi arriva irruente e si spande al di là degli argini dei fiumi, allagando i campi e gli edifici.

Acqua amica, necessaria per le fabbriche e per i campi; fonte di benessere nelle case, dove arriva aprendo un rubinetto, indispensabile per bere, per cuocere gli alimenti, per lavare il corpo e gli indumenti e le stoviglie, acqua che accompagna le scorie della vita domestica giù dai lavandini, verso fogne e depuratori e poi ritorna al mare, anche se con un carico, maggiore o minore, di sostanze estranee e inquinanti. Questo nei paesi ricchi, perché nei paesi poveri la preziosa acqua deve spesso essere raccolta dai pozzi e trasportata a distanza, un lavoro in genere sulle spalle delle donne, e dopo l’uso spesso l’acqua sporca ristagna nelle strade dei villaggi, fonte di malattie che colpiscono specialmente i bambini. Il Papa Francesco alcuni giorni fa, in un discorso all’Accademia Pontificia della Scienze, ha ricordato che ogni giorno mille bambini, ogni giorno!, muoiono nel mondo per malattie legate all’acqua.

Eppure talvolta, nei paesi poveri, l'acqua si trova a pochi metri di profondità e basterebbe disporre di pompe per sollevarla; l'acqua contaminata potrebbe essere depurata con sistemi relativamente semplici per renderla potabile; l'acqua sporca potrebbe essere incanalata in semplici fogne; qualcuno invoca una "ingegneria della carità", innovazioni semplici da esportare nei paesi poveri per alleviare la loro sete, per sgominare le malattie diffuse dall'acqua inquinata.

L'acqua è occasione di divisione politica e di conflitti; i fiumi sono difficilmente attraversabili dagli eserciti e sono stati scelti come confini fra popoli nemici. I confini di molte regioni italiane sono ancora costituiti dai fiumi che dividevano gli antichi stati in guerra, prima dell'unità d'Italia. Molti conflitti in Africa, Asia, America Latina, molte contese fra stati europei, fra Stati Uniti e Canada e fra Stati Uniti e Messico, hanno la loro origine nelle controversie per l'acqua.

L'aridità di molte zone del pianeta, le bizzarrie dei fiumi in altre zone, provocano quelle migrazioni planetarie di cui cominciamo a sentire i segni anche da noi. Sono problemi di acqua quelli che spingono i popoli fuori dalle loro terre che non sono più in grado di dare cibo e li portano sulle coste dell'Europa opulenta o del Nord America. Gli Stati Uniti hanno dovuto stendere, lungo il Rio Grande, quel "muro americano" che cerca di frenare le immigrazioni dal Messico. Nel discorso prima ricordato il Papa ha detto che non è da escludere una grande guerra mondiale per l’acqua.

La sete si sconfigge con condotte, dighe, tubazioni, pozzi, con la regolazione del corso dei fiumi; la violenza dell'acqua si sconfigge con il rimboschimento, con la difesa del suolo, con nuovi argini; l'avvelenamento delle acque si sconfigge con depuratori e filtri. Ma tutti questi accorgimenti tecnici saranno inutili se non sono mossi dalla consapevolezza che attraverso l'acqua siamo uniti tutti noi esseri umani e che la migliore distribuzione e uso dell'acqua richiedono una sola ricetta: la solidarietà.

La solidarietà presuppone azioni politiche, ma prima di tutto una rivoluzione educativa e culturale; le crisi e i conflitti derivano dalla ineguale distribuzione dell'acqua nello spazio e nel tempo. Le lunghe storie dei popoli hanno fatto si che le riserve idriche dei laghi e nei fiumi spesso siano contenute nei confini politici e amministrativi di stati e regioni diversi, ciascuno dei quali considera l'acqua come sua proprietà. La guerra alla sete e alle alluvioni richiede invece che tutti i popoli che abitano intorno ai corpi idrici superficiali si sentano uniti e ne usino le risorse a fini comuni, solidali, appunto. In Italia esistono leggi che prescrivono che le risorse idriche siano amministrate e utilizzate nell'ambito di unità geografiche, i bacini idrografici, che possono stendersi fra diverse regioni, le quali devono collaborare con piani comuni.

Le acque del Tevere e dei suoi affluenti non "appartengono" al Lazio, o all'Umbria o alla Toscana, regioni amministrative che comprendono nei loro confini tali acque, ma fanno parte di un grande unitario bacino e devono essere e usate in forma coordinata, "solidale", per ricavarne acqua potabile e per i campi. Purtroppo spesso regioni, enti acquedottistici, enti di bonifica, non vogliono rinunciare a quelli che considerano propri diritti di proprietà sull'acqua.

Vorrei avanzare, in questa giornata mondiale dell'acqua, una modesta proposta. Mi piacerebbe che i ragazzi delle scuole si esercitassero a disegnare, su una carta geografica "muta", i confini dei bacini idrografici - quelli che raccolgono al loro interno il fiume principale e i suoi affluenti e che sono delimitati dagli spartiacque - e li confrontassero con quelli politici e amministrativi, del tutto artificiali e arbitrari. E che provassero a pensare che non esistono austriaci, ungheresi, jugoslavi, romeni, eccetera, ma esiste il "popolo del Danubio", che non esistono lombardi, piemontesi e emiliani, ma il "popolo del Po", che il "popolo dell'Ofanto" non "appartiene" alla Puglia, alla Basilicata, alla Campania, ma alla terra del fiume comune.

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La città rovesciata, la città sottosopra. Avevamo creduto che l’amministrazione «arancione» gui­data da Giu­liano Pisapia avrebbe raffigurato un tipo nuovo di centrosinistra urbano, risolutamente orientato a sinistra. Invece, l’abbiamo verificato ben prima della conclusione, esso fu apportatore di pensieri e pratiche che avrebbero potuto appartenere a un qualunque moderatismo senza punti socialdemocratici, attento alla do­manda dei dominatori della città: finanzieri, corporazioni commerciali, imprenditori e impresari edili, questa coppia soprattutto. Se c’è oggi una città esemplare della libertà edificatoria come una volta Roma, è Milano. Del resto, dispersa da trent’anni anche la me­moria della grande vitalità dovuta a una miriade di produzioni industriali e una dotazione terziaria in buona parte funzionale al sostegno delle produzioni, l’ascendenza della costituzione attuale sembra piuttosto quella delle tornate amministrative del centrodestra, con sindaci come Gabriele Al­bertini («governare la città è come amministrare un condominio») e Letizia Brichetto Moratti (ex ministro di università e ricerca scientifica - «meglio le scuole private della scuola pubblica di massa»).

Fu il primo, contraddicendo la dichiarazione minimalista, ad aprire le porte della città ad architetti internazio­nalisti, estranei alla storia e ai contesti urbani, per voler innalzare i tre (uno è in ritardo) balordi grattacieli di una City Life (la prima «Nuova Milano») sull’area dell’ex-Fiera, accompagnati o circondanti da impressionanti cataste di casamenti: quelli che un sagace collega ha paragonato alle non meno gigantesche e spaventevoli navi da crociera che ogni giorno infliggono incessanti vibrazioni al corpo di Venezia, scuotendolo e così av­vicinandolo al crollo finale. Un geniale foto­montaggio, un’immagine di quegli edifici milanesi come sorges­sero dall’acqua al fondo di una calle larga, denuncia la doppia orrendezza, di architettura terranea e navale-marinara, attestante la de­cadenza delle due città. Riguardo a Milano, demolisce l’artificio basato su due car­dini: il gradi­mento popolare delle forme edilizie balzane in sé oltre che prive di qualsiasi ordinamento urbani­stico; l’assordante coro assessorile intorno a una prodigiosa «attrattività» milanese. Similmente, di­svela il senso mortale della svendita di Venezia a un turismo contro-culturale dei 20 milioni di visi­tatori an­nui e della violenta trasformazione di edifici carichi di storia socioeconomica e di bellezza archi­tettonica in contenitori per consumi di una massa estranea alla città: guarda caso, mediante il compito as­segnato all’archi-star di turno, quasi per inviare un segnale di appartenenza ai confratelli infurianti sempre più a Milano nel tempo dei centrosinistra, il primo col sindaco proveniente da Sel, il suc­cessivo col novizio e invece gran marpione Giu­seppe Sala.

Ancora una volta in Italia, anche nella città che nel corso storico si è contraddistinta per conve­niente diver­sità (la capitale morale…), gli amministratori accettano e cavalcano con le molte entità interessate l’esclusiva riproduzione edilizia urbana la più smaccata, sprezzante i bisogni di proletari e piccolo borghesi, mobilitante incalcolabili capitali d’ogni provenienza, compresa quella mafiosa. E questo, ossia le più recenti “Nuove Mi­lano” del «Progetto Porta Nuova» (pro­prietà fon­diaria comprata da emirati e principati) i nostri lo vantano come autentica modernità pro­gressista, nuovista, solo perché espressa attraverso forme di corpi suscitanti le meraviglie dei compari e dei qualunque a causa del loro consistere: colossali come lo scimmione d’epoca so­verchiante omini e donnine, contorti come il discorso di un analfabeta, volgari come i loro gemelli qatarini, sauditi, kuala-lumpuresi…

Nella nostra città la mania di grattacielo il più alto impossibile imperversa nella mente (se è questa la sede…) di sindaci, assessori, funzionari municipali, di numerosi architetti, critici d’arte (Philippe Daverio), forse anche della casalinga di Voghera fosse venuta ad abitare qui. Sicché la previsione pertinente alla più vasta opera­zione fondiaria d’oggi a Milano, la riconversione dei sette scali ferro­viari, circa 1 milione e 300 mila mq, non lascia alcuna speranza alla moderazione di interventi uni­camente destinabili alla realizzazione di una col­lana di parchi (parchi veri, senza snaturamento at­traverso sospettabili «attrezzature») e, di edilizia, soltanto quanta ne occorra per risolvere la do­manda arretrata di alloggi popolari [1]. Invece l’accordo di programma fra FS e Comune di Milano si sta definendo lungo la linea del soddisfacimento di ingiuste pretese pecuniarie delle prime e di in­casso della porzione di speculazione privata che spetta al secondo. E come?

Immagi­niamo ogni scalo come un’aiuoletta coltivata a verdura o prato nel centro e circondata da una filza fit­tissima di paletti per l’avvinghio di altro cultivar. Ingrandiamo l’immagine di cento volte appor­tando i dovuti adatta­menti realistici e presenteremo il progetto per uno qualsiasi dei terreni-scali in causa (ma anche, notiamo, degli altri spazi destinati da Prg - Pgt a parco territoriale e grandi ser­vizi): come nell’aiuola, in mezzo il verde, poco alberato e fratturato dalle «attrezzature», lungo il pe­rimetro una schiera di grattacieli da 100 - 200 metri di altezza, magari «verdi» come usa adesso a causa di terrazzi ripieni di pianterelle e cespugli, forse anche di fagiolini o pomodori [2]. Può darsi che i cinque professionisti incaricati dall’assessore all’urbanistica (vio­lando la regola del concorso pub­blico) di proporre soluzioni di massima per lo sfrutta­mento intensivo delle aree sia diversa, ma lo sarà di poco giacché uno schema di questo tipo cir­cola da mesi e assicura formidabili cubature mediante l’inganno del «grande verde».

Mentre gli scali ferroviari perdono la vecchia funzione, non c’è milanese, residente o lavoratore pendolare, qualsiasi sia la sua appartenenza, che non spenda discorso per richiamare l’urgente necessità di creare un moderno sistema di trasporto metropolitano incentrato «sul ferro e non sulla gomma», ad ogni modo sul mezzo pubblico, specie linee tranviarie e autobus a bassa emissione di residui inquinanti della combustione. Questa dovrebbe essere, pare ovvio, la posizione del Comune e dell’Atm (Azienda tranviaria milanese). Al contrario costoro, quatti quatti, operano in stretta alleanza per obbiettivi retrogradi. Così, tre fra le principali ragioni concatenate che rendono difficile la vita cittadina, traffico automobilistico, inquinamento dell’aria, uso disagevole dei mezzi pubblici di­ventano simbolo di tradimento delle aspettative civili.

Vediamo. Hanno cominciato a gennaio con l’abolizione del servizio di dieci linee di bus notturni dal lunedì al giovedì e la domenica (salvata la movida di venerdì e sabato…). A metà febbraio è co­minciato l’inasprimento dei tagli anche nelle tre linee storiche della metropolitana (Rossa, Verde, Gialla): aumento degli intervalli fra i treni e restrizione dell’orario di punta. Dal 20 febbraio, poi, le lunghe attese domenicali dei passaggi in 17 li­nee di tram spingono i «clienti» a desistere… Infine, dal 26 febbraio il piano denominato dall’Atm «raziona­lizzazione» (l’utente esperto capisce subito cosa vuol dire), si apre in tutta la sua aziendale e comunale elo­quente espressività: venti linee gra­vemente amputate. Negate per sempre soluzioni intelligenti e molto utili, per prima quella, usuale nel passato, di percorsi tranviari da periferia a periferia passanti per il centro. Ora, linee troncate brutalmente hanno un ca­polinea presso piazza Duomo. Diventa normale la costrizione a im­piegare due mezzi anziché uno, moltiplicando la durata e la penosità dello spostamento, oppure a rinunciare o ricorrere all’automobile. Altri particolari pur interessanti li trascuriamo.

Complessivamente le decisioni cozzano pesantemente contro uno solido muro di contraddizioni. Sottrag­gono mezzi pubblici, aumentano le auto, l’aria pericolosamente inspirata satura di polveri sottili, Pm10, non demorde (l’altr’anno 85 giorni di forte superamento della soglia dei 50 mcg/mc – n.b. soglia troppo alta, e nessuna regola per Particulate Matter da 2,5, le micro-polveri terribili, per così dire). Tutto si tiene, basta os­servare gli investimenti: l’anno scorso il Comune non è stato capace di contrastare il governo che ha sot­tratto 12 milioni al trasporto pubblico; quest’anno se ne aggiunge­rebbero altri 11. Ascoltiamo consiglieri co­munali di partiti diversi: I° «Tagliare il trasporto pubblico mentre lo smog sale è da irresponsabili… ora si sta esagerando» (da Forza Italia). II° «Di­venta biz­zarro chiedere ai cittadini di lasciare a casa l'auto se non si potenziano i mezzi pubblici, anzi si ta­gliano» (dal presidente della Commissione mobilità, del Pd). III° «I tagli al trasporto pubblico dan­neggiano soprattutto chi vive in periferia e nei Comuni della cintura. Costringerli a spostarsi in auto significa condannare Milano al traffico e all'inquinamento» (da M5S).

Intanto altri motivi complicano la vita in città. La costruzione della linea 4 della Metropolitana (suc­cessiva alla quinta già in funzione) procede sconvolgendo in maniera incomprensibile il centro e grandi direttrici viarie ra­diali, residenziali commerciali e di penetrazione dall’hinterland o dalla tota­lità regionale. Nei cantieri estesi lungo i viali che ricordiamo alberati anche in tutto lo spazio interno (parterre) sembra che si voglia impedire la visione e il controllo degli accadimenti. Alti pannelloni di plastica dura e spessa connessi perfettamente fra essi e con la base diventano muraglie impenetrabili. Quale tecnica stanno impiegando le imprese, se questi larghi e lunghi viali completamente re­cinti sembrano richiedere lo scavo per intero della superficie? Perché non si sono scelte le tecno­logie che rendono il «tube» indipendente dai tracciati stradali? Troppo co­stoso? Lo sappiamo, non si è costruita la metropolitana in altri tempi, quelli giusti, per così dire. Come a Londra, a Parigi, a Mosca…Adesso gli enti pubblici locali non possono che affrontare gli alti costi per l’impiego delle tecniche più aggiornate agendo sugli equilibri di bilancio e soprattutto ottenendo maggiori fi­nanziamenti statali; debbono farlo, l’adeguamento alla riduzione non può diventare il sistema corrente.

Il sacrificio delle alberature per il Comune è scontato: quante saranno a fine lavori le piante ad alto fusto perdute se verso la fine di luglio gli abitanti di una sola parte di Viale Argonne denunciavano «l’inutile abbat­timento di 573 alberi, molti dei quali secolari»? E nel vasto spazio del viale proseguente verso il centro, con il corso Indipendenza e oltre? E dalla parte opposta della città il massacro di via Lorenteggio, dobbiamo darlo per accettato? [3]. Attenzione, qui non stiamo piangendo inutilmente la morte arborea che i nostri governanti considerano una pinzillacchera. Stiamo affermando che i loro errori o le loro pretese o le loro inadempienze nei confronti dello stato spingono verso il brutto il segno barometrico della qualità vitale milanese. Infatti ai lavori per la metropolitana si intersecano per durate incommensu­rabili la posa delle tubazioni e i relativi sbancamenti per il teleriscaldamento, nonché la sostituzione, qua e là, dappertutto all’improvviso, dei tubi metaniferi nelle vaste fosse. Da ultimo ma non il meno impor­tante: si è ritornati all’assurda costruzione di silo sotterranei in pieno centro, calamite che attirano quelle automobili a cui si vorrebbe impedire l’entrata. Que­sta volta si tocca il vertice della incon­gruenza con un grande garage in via Borgogna, vale a dire addosso a piazza San Babila (super-centro conosciuto da tutti), d’altronde quasi impossibile da percorrere fino a quando non sarà pronta la nuova stazione della metropolitana. Ah… dimenticavamo: i lavori per questa linea 4 e contorni dovrebbero terminare nel 2022 (annunci su diversi cartelloni). L’esperienza ci informa che signi­fica: non prima del 2024.

Osservazione conclusiva. La questione delle opere pubbliche urbane si deve porre dapprima come verifica del grado di necessità, poi immediatamente come dovere di pianificazione integrale e inte­grata: dei luoghi, dei momenti, delle durate, del livello di incidenza sul benessere e benestare dei cittadini, partendo quanto­meno dal rifiuto dell’affastellamento dei cantieri, insensato per defini­zione. Purtroppo l’attinente vocazione delle istituzioni pubbliche e delle aziende non rientra in alcun capitolo della presunta efficienza milanese, d’altronde sbandierata troppo spesso per non crederla un distintivo ammaccato, al più una medaglia di ver­meil.

[1] Cfr. L. Meneghetti, Meno «rito ambrosiano» ma nuovi ritualismi», in eddyburg, 21 settembre 2016.
[2] «Babilonia del 2000. Coltivare sui terrazzi dei grattacieli zucchine, cavoli, fagiolini, cipolle, pomodori, pa­tate, mele, fragole, verdura e frutta da esibire come status symbol: è l’ultima follia miliardaria di New York, una moda che il New York Times ha definito “l’esclusiva fattoria dello zio Tobia”. Le cifre? Da vertigine, of course. 90 dollari per un pomodoro o una mela, 4.000 dollari al mese per il giardiniere, quasi un metro cubo d’acqua al giorno per l’innaffiamento. Questi orti che vanno trasformando New York in una sorta di Babilonia del 2000, sono curati come lussuosi salotti da specialisti del Landscape Design, ribattezzati dallo slang “i giardinieri dei piani alti”». In «Condé Nast Traveller», fascicolo monografico New York. New millennium city!, p. 137, siglato M. S. [Massimo Spampati].
[3] Non importa se i non milanesi non conoscono i luoghi citati. Basti ricordare che la struttura urbana è ra­diocentrica, cerchie attorno al nucleo storico e radiali. Strade e viali di penetrazione immaginabili possono essere riportati alla realtà di quelli nominati.

Dalle inadempienze regionali nella formazione di piani paesaggistici, alla mancanza di una seria legge sul consumo di suolo, alla commercializzazione dei Parchi Nazionali. il Fatto Quotidiano, 15 marzo 2017 (p.d.)

Ieri il ministero della Cultura ha celebrato la prima Festa del Paesaggio. Dario Franceschini doveva rivolgere qualche annuncio importante al Paese? Per esempio il completamento della serie di piani paesaggistici regionali? Nemmeno per sogno. Poteva al più comunicare la firma di quello recente del Piemonte e però avrebbe dovuto ammettere che in oltre tre anni di governo i piani paesaggistici approvati sono appena tre, Piemonte, Puglia, Toscana, più le coste della Sardegna...
Pensavamo: sta a vedere che questo ministro, frenetico nel festeggiare, annuncia finalmente l’emanazione di un decreto-legge, fra i tanti, per porre un freno immediato al consumo di suolo visto che il relativo disegno di legge dorme i sonni più grevi... Neanche per sbaglio. E allora? No, ha voluto “sensibilizzare gli italiani ai loro tanti bei paesaggi” con iniziative le più ovvie: visite a musei, magari a collezioni di quadri sui paesaggi (intatti) dei secoli scorsi, videoproiezioni (del Bello, non del Brutto, ovviamente), ecc. Tante in Campania, evitando con cura di parlare della parte ormai sfigurata per sempre. Va ricordato che, pur essendo l’edilizia nazionale in crisi almeno dal 2008, secondo i dati ufficiali dell’Ispra, il consumo di suoli liberi, per lo più agricoli o boschivi, è proseguito con pazza allegria. Sono stati “impermeabilizzati” in media 35 ettari al giorno, altre decine di migliaia di ettari quindi in regioni che hanno già un 10% di suolo compromesso stabilmente, e cioè Lombardia, Veneto e Campania, ma Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Puglia, Piemonte, Toscana e Marche sono appena dietro. Consumo di suolo significa consumo di paesaggi, erosione massiccia, potenziamento delle alluvioni per l’acqua piovana che non filtra più in falda, e altro. Un po’di rossore no? Napoli, per ragioni antiche, è “impermeabilizzata” o sigillata al 64%, per Stendhal “la città indiscutibilmente la più bella del mondo, con tanta campagna dentro”... In provincia di Napoli il Comune di Casavatore è coperto quasi al 90% dalla coltre di cemento+asfalto. Ministro Franceschini, perché non celebra qui la Festa del Paesaggio facendola diventare, come è più giusto, la Festa al Paesaggio?
Un altro vanto paesaggistico del governo Renzi e di quello Gentiloni che lo ricalca, avendo mantenuto i due ministri responsabili del paesaggio (il sullodato Franceschini e il latitante Gianluca Galletti all’Ambiente), è certamente la nuova legge sulle aree protette presentata dal senatore Massimo Caleo (Pd) e già approvata al Senato, con la quale si stravolge la bella e positiva legge Cederna-Ceruti, la n. 394 del 1991 che ha agevolato la creazione di tanti Parchi Nazionali, tanti coi governi Ciampi (ministro Valdo Spini) e Dini (ministro Paolo Baratta). Il partito erede, in teoria, di quella tradizione ora non vuole più presidenti che siano esperti o scienziati, né direttori di stacco nazionale (li vuole nominati dai cda locali), dà la possibilità di finanziarsi con royalties ricavate dai concessionari di trivellazioni petrolifere, cave, sciovie, ecc. Commercializzatevi e sarete felici! E la legge Caleo – che Ermete Realacci già presidente di Legambiente ora a capo della commissione Ambiente alla Camera aveva giurato di non far passare nel testo (obbrobrioso) del Senato – da oggi sostanzialmente integra veleggia già verso l’aula di Montecitorio dove approderà il 27 marzo. Una vergogna nazionale. E pensare che eravamo riusciti a far passare i Parchi Nazionali da 4 a 23 con un risultato considerato “rivoluzionario”. Difatti oggi viene barbaramente ridimensionato dalla reazione. Con lo Stelvio diviso in tre pezzi. Un “modello”, secondo il giocondo Galletti.
Ieri il premier Paolo Gentiloni, in gioventù direttore di Nuova Ecologia (che non risponde ad alcun appello ecologista come quello per i Parchi), ha riportato a galla “Casa Italia”, quel non ben identificato calderone nel quale Matteo Renzi, dopo il sisma di Amatrice, aveva mescolato sicurezza antisismica e idrogeologica, periferie, ricostruzione, ecc. “Ci vorranno decenni”, ha detto Gentiloni. Anche di più con le idee così confuse. Mentre per la sicurezza anti-sismica gli esperti le hanno chiare: concentrare le risorse sulla fascia rossovivo delle zone ad alta pericolosità, e cioè la punta messinese e trapanese della Sicilia, tutta la dorsale appenninica dalla Calabria fino alla Marca urbinate, più l’alto Friuli.
Ascoltando la voce non degli archi star ma di scienziati come Roberto De Marco, direttore per anni del Servizio Sismico Nazionale silurato insieme al Servizio stesso (inglobato nella Protezione civile da Berlusconi&Bertolaso). Il resto sono chiacchiere. E il Belpaese si sfascia, rovina, uccide, imbruttisce.

Un museo può essere il catalizzatore di un processo di valorizzazione territoriale che coinvolge comunità, istituzioni e imprese? Due studiosi spiegano perché è importante promuovere la costituzione di musei del territorio nel sud d'Italia (m.b.)

«(…) pensiero meridiano non vuol dire apologia del sud, di un’antica terra assolata ed orientale,

non è la riscoperta di una tradizione da ripristinare nella sua integrità. Pensiero meridiano è quel pensiero che si inizia a sentir dentro laddove inizia il mare, quando la riva interrompe gli integralismi della terra (in primis quello dell’economia e dello sviluppo), quando si scopre che il confine non è un luogo dove il mondo finisce, ma quello dove i diversi si toccano e la partita del rapporto con l’altro diventa difficile e vera.» (F. Cassano, 1996)

Può un museo contribuire alla costruzione di un percorso di identità e di senso che si fa costruzione territoriale? L’identità meridiana come fattore di costruzione civica che riconosce i bisogni, le emergenze, le disparità e propone categorie interpretative. Un museo come luogo di conservazione e di produzione della memoria della storia del Mezzogiorno, di ricerca e di educazione, per le scuole, i territori e le comunità. Un museo che parli di resilienza, di fragilità, di Appennino, di agricoltura e di cibo, di montagna e di costa, di innovazione, di migrazioni. I mutamenti in atto cambiano l’idea di Sud, o dei Sud, inteso non come dimensione geografica, ma come condizione analitica che pone al centro le fragilità, le diversità, le disparità. Il Sud come dispositivo ha prodotto nel corso nei secoli sistemi di civiltà complessi e stratificati. Se la storia contemporanea non pare dipanarsi intorno a magnifiche sorti e progressive, i processi storici del Mezzogiorno e dei suoi territori consegnano un insieme plurale di esperienze di civilizzazione – un’unità pluriverso (Purcell e Horden, 2000) che è in primo luogo incontro. In questi territori i sedimenti successivi e i caratteri molteplici delle strutture territoriali possono farsi costruzione di un’unità simbolica. Tale processo implica la costruzione di una memoria comune, precondizione perché il Mezzogiorno riconosca se stesso e immagini il suo avvenire.

Un museo può contribuire alla costruzione di una memoria collettiva, ovvero di un’identità? Come declinare questa ricostruzione attiva, questa invenzione filologicamente rispettosa, critica e consapevole? Quale passato? Come tante storie diventano la “nostra” storia? Come la conoscenza di quella storia contribuisce a scrivere il futuro? Un museo che sappia indagare la dimensione sociale, ambientale, storica e politica, culturale del Mezzogiorno oggi, secondo un modello dove i rapporti tra ricerca, formazione ed educazione siano integrati tra loro, e che, come il tempo presente, sia capace di leggere i mutamenti repentini con la tensione a interpretarli, superando la descrizione, in favore della rappresentazione di fatti che divengono già processi. I ricercatori a volte sono bravi divulgatori, qui si è chiamati a sperimentare, consapevoli che non si classificherà, forse piuttosto si mapperanno i mutamenti con meticolosità e scrupolo per la costruzione dell'atlante dei Sud, declinato al futuro.
Un museo qui si costruisce intorno a una piccola collezione permanente e si apre a mostre temporanee, anche a carattere monografico. Nel quadro di iniziative co-organizzate e co-prodotte con università, enti e istituzioni culturali italiani ed esteri, che esplorano temi, forme e strumenti.
Parafrasando David Thorp potremmo dire di pensare a un’istituzione culturale del XXI secolo che sia flessibile, sincera, democratica, multiculturale, contraddittoria e audace. Splendida quando è ricca, eroica quando non ha denaro. Deve avere la testa fra le nuvole, funzionare in maniera esemplare, avere lo spirito di squadra, i piedi per terra e un cuore grande così. Che ami i territori, si prenda cura del pubblico, tolleri il fumo e rimanga aperta sino a tardi.

Rapporti complessi tra variabili territoriali e processi di mutamento sociali ed economici in atto mostrano una progressiva marginalizzazione dell’economia italiana e del suo tessuto produttivo dalle dinamiche europee e mediterranee: un’inedita geografia della dismissione del nostro ruolo di riferimento culturale e politico prima ancora che economico. In un territorio come quello italiano a carattere marcatamente policentrico, si osserva il consolidamento delle specializzazioni come dei divari territoriali, il conflitto tra regioni e traiettorie di crescita, nel quadro di un modello di sviluppo dissipativo, che ha avuto pesanti effetti sociali, ambientali e paesaggistici. Le determinanti dei mutamenti sono riconducibili a fattori molteplici di natura sociale, economica, ambientale, istituzionale, legati a un quadro sovranazionale e globale. Se sono mutate le tendenze globali e i riferimenti macroeconomici, conseguentemente sono cambiati i paradigmi concettuali e rapporti stessi tra politiche culturali, sociali come di formazione e ricerca. Tali transizioni impongono la rilettura stessa di alcune categorie interpretative dei processi storico sociali, economici ambientali e culturali dei territori.

In questa cornice assume un ruolo chiave la formazione. Solo per citare un tema si consideri il numero degli iscritti all'università che in altri paesi continua a crescere, e in Italia negli ultimi anni si è ridotto di un quinto (Viesti, 2016). Lo scenario della formazione e della ricerca, in particolare nel Mezzogiorno, pone in luce temi connessi - tra gli altri - alla capacità di coinvolgimento dei soggetti, pubblici e privati, preposti o interessati allo sviluppo territoriale. Il quadro delle iniziative a carattere culturale nel Mezzogiorno va componendosi intorno a strutture insulari che in alcuni casi vanno sperimentando percorsi di innovazione sociale che possono trovare una valorizzazione reticolare di incontro e scambio. Lo stesso patrimonio artistico culturale e naturale del Mezzogiorno, potenzialmente in grado di determinare flussi turistici rilevanti, esprime una eterogenea capacità di attrazione. Ulteriore problematica che rende la domanda per i beni culturali modesta è il ruolo giocato dai contesti simbolo che tendono a concentrare flussi turistici in poche realtà.

Un’istituzione museale è chiamata a orientare la propria missione al principio della responsabilità sociale, nei diversi domini che caratterizzano la propria missione di istituzione culturale riconoscendo che si è chiamati a operare all’interno di sistemi caratterizzati da diversi gradi di complessità per la trasmissione della conoscenza, secondo criteri sistematici di confronto con il territorio ai suoi diversi livelli di governo, con gli attori pubblici e privati valorizzando e reinterpretando le diverse competenze e generando figure e percorsi capaci di affrontare le sfide della complessità.

Il carattere innovativo della proposta per l’istituzione di un museo dei Sud del XXI secolo è legato alla sua capacità di integrare educazione, ricerca e formazione. Questa proposta pone al centro il ruolo della territorializzazione degli strumenti e delle proposte per i molti Sud di cui si compone quello che oggi è l’arcipelago Mezzogiorno. Da qui deriva la necessità di sensibilizzare i soggetti attuatori chiamati a progettare un’offerta territoriale rispetto alle forme e alla singolarità di una domanda (anche inespressa) dei territori stessi in misura radicalmente nuova rispetto a quanto è accaduto con le politiche di intervento straordinario, la domanda diventa, in tal modo, il modello concreto dello sviluppo di un Sud che non è solo un non ancora nord (Cassano, 1996).

Le profonde trasformazioni sociali economiche e ambientali che investono la contemporaneità si inseriscono all’interno di processi di mutamento che investono la scena globale e quella locale. Un museo può configurarsi come catalizzatore di un processo di valorizzazione territoriale che coinvolge comunità, istituzioni e imprese. In questo sviluppo è utile riprendere la lezione di Bevilacqua (1998) che ha eletto il valore della bonifica italiana a principio del Novecento: “Se si voleva risanare un’area era vana fatica arginare un fiume, costruire l'anno dopo un ponte, l'altro ancora prosciugare uno stagno. Dopo un po’ il disordine idraulico riprendeva il sopravvento su tutto. Occorreva al contrario simultaneamente prosciugare lo stagno, costruire il ponte, arginare il fiume, edificare gli abitati per richiamare popolazione”. Simultaneamente si riferisce alla necessità di attivare a partire da un solido progetto culturale, economie derivate e derivabili, in un quadro che determini dinamiche sistemiche. La questione meridionale è una questione di raccordi: innescare uno sviluppo autonomo occorre accompagnare i territori e le comunità a collegarsi, a cooperare, a organizzarsi, a fare massa critica: a fare società (Bevilacqua, 1998). La consapevolezza di lavorare in un quadro d’inedita complessità - connessa alla fragilità dei sistemi sociali, economici e ambientali - impone di orientare gli obiettivi di un’istituzione culturale all’interno di un progetto territoriale unitario.

I rapporti tra la complessità delle interazioni tra codici culturali, le opportunità di accesso alle informazioni e l’annullamento della località e della distanza, la dimensione globale dei sistemi produttivi e dei mercati e, dall’altro lato, i temi connessi alle condizioni di rischio legate ai fattori naturali come alle crescenti disuguaglianze e ai divari sociali e urbani, impongono una rinnovata riflessione sul significato e sul ruolo di un’istituzione culturale nelle sue molteplici articolazioni e potenzialità. Il museo oggetto della presente proposta deve caratterizzarsi per un tasso elevato d’innovazione, legato alla possibilità di recuperare una dimensione dinamica e critica dell’educazione e della divulgazione come della ricerca e della formazione. In questa prospettiva la condizione urbana e il territorio sono letti e interpretati nelle loro componenti fisiche, morfologiche nonché socioeconomiche e culturali, lì dove gli stessi ambiti rurali si confrontano con l’urgenza di reinterpretare funzioni, modelli e flussi, in un rapporto dialettico rispetto ai mutamenti in atto nelle aree urbane.

Il percorso scientifico e strategico dentro cui è collocata la presente proposta guarda al bacino del Mediterraneo come riferimento territoriale e cognitivo delle proprie linee di ricerca e di divulgazione, sul piano identitario, culturale e politico. Le dinamiche in atto nel Mediterraneo mostrano numerosi fattori d’instabilità e di frammentazione geopolitica, sociale, urbana e demografica che costituiscono una sfida a un tempo politica, culturale e scientifica per un’istituzione museale contemporanea.
A conclusione di queste riflessioni vale la pena richiamare alcune questioni di metodo, ovvero alcuni caveant. In primo luogo, l’evidenza che il cambiamento sociale guida quello economico, non viceversa. In questo senso proviamo a recuperare un orizzonte di intervento lungo, parliamo di avvenire, per favore. Ancora, proviamo a recuperare una cornice di senso e di ruolo per l’osso d’Italia e per quello mediterraneo in genere. Infine, proviamo a ritrovare lo spessore della visione, che si configuri non come istanza - dentro logiche clientelari o neofeudali - che la comunità locale o parti di classi dirigente o intellettuali e studiosi rivolgono agli attori istituzionali, bensì l’incontro tra tutti coloro che hanno responsabilità.

Sul Blog di Grillo guerra senza quartiere al consumo di suolo: “Ogni giorno il cemento sommerge un’area di suolo vergine pari a 100 campi di calcio… non c’è più tempo da perdere… concretizzare sul territorio una grande battaglia… proposta di legge... (segue)

Sul Blog di Grillo guerra senza quartiere al consumo di suolo: “Ogni giorno il cemento sommerge un’area di suolo vergine pari a 100 campi di calcio… non c’è più tempo da perdere… concretizzare sul territorio una grande battaglia… proposta di legge sull’azzeramento del consumo di suolo…”.

Finalmente, ci siamo detti in tanti. Un leone.

Ma l’esempio è sfortunato. Perché d’ora in avanti si dovrà dire 100 campi di calcio più uno, quello della Roma. E al seguito ventimila parcheggi e molti metri cubi.

Il progetto di stadio con valanga di cemento e impermeabilizzazione eterna del suolo è antiquariato urbanistico, urbanistica patteggiata. Eppure credevamo che 5Stelle non avrebbe confuso il pubblico interesse con quello di pochi, speravamo che non ci toccasse assistere ad una contrattazione tipo zio Paperone e Paperino, uno spara alto e uno spara basso, poi si incontrano. Il suolo di Tor di Valle esposto in un bancone come primizia.

E invece ecco le solite dichiarazioni vintage. Il vicesindaco dice che “la revisione del progetto ha dei caratteri fortemente innovativi”, i giornali scrivono di “volti distesi e dichiarazioni rassicuranti”, la tivvù racconta che James Pallotta chiede alla sindaca se le piace lo stadio e che la sindaca risponde “we love it”.

I tifosi minacciavano manifestazioni di massa e invece erano cinquanta infelici davanti al Campidoglio. Più giornalisti che tifosi.

Ci hanno perfino rifilato la panzana che, se non si costruisce, la Roma calcio chiederà i danni e invece nessun danno può essere richiesto se non esiste una concessione edilizia. Ma non esiste concessione edilizia perché prima serve una variante al piano urbanistico. E neppure la variante esiste, neanche le autorizzazioni paesaggistiche. La variante sarà discussa in consiglio comunale. Lo stesso consiglio dove la consigliera Raggi ruggiva contro lo stadio che ora ama.

Il Piano regolatore lo permetterebbe questo benedetto stadio. La variante serve per i metri cubi in più e in consiglio ne vedremo delle belle. Magari passerà con i voti del PD.

Al momento esiste solo l’imbarazzante dichiarazione di interesse pubblico ereditata dalla giunta Marino. Ma dopo questo accordo di 5Stelle forse tanto valeva tenersela quella giunta. Di pubblico interesse non c’era traccia nei grattacieli storti del vecchio progetto e non ce n’è in quello attuale divoratore di suolo. Il pubblico interesse è solo un’espressione, aria che vola.

E la rete? Oh, i capi non l’hanno interpellata.

Eppure questa benedetta rete l’hanno interrogata sulla scelta del presidente della repubblica, sulle unioni civili, su leggi elettorali e riforme di ogni tipo, sull’esistenza di Dio, su cosa c’è oltre la morte. Figuriamoci l’urbanistica. La rete pullula di urbanisti da tastiera.

La rete è contro l’eruzione di cemento a Tor di Valle e di colpo non conta più.

Gli sviluppisti promettono un grande Pil se si fa lo stadio. Eppure si è visto il Pil prodotto dai disastri romani elencati da Paolo Berdini. Altro che Pil. L’urbanista foglia di fico è caduto. Ora la giunta è nuda e siamo al solito mercato dei mattoni.

Certi denunciano che Tor di Valle è piena di immondezza, topi, prostitute e tossici.

Allora, anziché chiamare la nettezza urbana per l’immondezza, i derattizzatori per i topi, la buon costume per le prostitute e la narcotici per i tossici, invocano betoniere.

Ma un pericolo reale c’è a Tor di Valle: il massimo rischio idraulico. Che non si cancella con un pennarello. Vedremo come lo mitigano, vedremo. In un Paese che paga caro il suo dissesto c’è ancora chi pensa a costruire e costruire. Predica “consumo di suolo zero” e ne ingurgita un’enorme quantità.

Saranno inutili le lezioni delle bolle speculative edilizie che azzoppano intere economie? Le disgrazie legate all’uso folle dei luoghi? Inutile ricordare che Roma ha la mostruosità di 250.000 case vuote?

Non basterà la “politica di un po’ meno metri cubi” per salvare chi promette una cosa e poi ne fa una opposta. Chi dichiara guerra al consumo di suolo e poi il suolo lo consuma senza pietà. Chi difende l’interesse pubblico con le parole, ma di fatto sostiene l’interesse di pochi.

Svanita la possibilità di un’idea di città, di una filosofia dell’abitare, anche 5Stelle si arrende all’edilizia e rende definitiva la sconfitta dell’urbanistica. Nessuna risposta alle esigenze reali e invece risposte dannose a bisogni fittizi.

Ma speriamo, speriamo che la sindaca conservi i vantaggi della “a”. Noi ci contavamo.

Panico tra i paladini del trasporto pubblico: dopo parecchi anni in cui la tendenza pareva invertirsi rispetto al periodo di abbuffata automobilistica, con un aumento deciso dell'utenza, si notano anche vistosi cali (segue)

Panico tra i paladini del trasporto pubblico: dopo parecchi anni in cui la tendenza pareva invertirsi rispetto al periodo di abbuffata automobilistica, con un aumento deciso dell'utenza, si notano anche vistosi cali. Meno gente, a volte anche molta meno gente, che prende la metropolitana, l'autobus, il trenino suburbano, anche se resta aperta la domanda su come si spostano, adesso, tutte quelle persone. Forse sta qui il vero nodo: sia nel capire come vanno da un posto all'altro questi ex utenti del trasporto collettivo, sia soprattutto quando, perché, e con che obiettivi personali si muovono, generalmente parlando. Anche perché, restando a tristi temi nazionali e macroregionali delle nostre parti, ogni volta che le popolazioni dei sistemi metropolitani sono assediate da schifezze inquinanti, inizia il carnevale delle quantificazioni e dei rimpalli «politici».

Sul versante diciamo così di sinistra il mantra è sempre: basta con le politiche autostradali, investiamo di più sul mezzo pubblico, solo così riusciremo ad abbattere gli inquinanti micidiali per la salute dei cittadini. Sul versante della destra liberale, dopo adeguato spezzettamento in una mezza dozzina di parti delle fonti inquinanti (comprese le pizzerie forno a legna, in qualche articolo comparso sulla stampa locale, magari solo per tirare poi in ballo kebab e simili), si finisce per puntare sulla classica efficienza, lo sviluppo, le esigenze della logistica ... insomma per aspettare che qualche folata di vento disperda i veleni fino alla prossima emergenza.

Si tratta, in entrambi i casi, di posizioni comunque ideologiche, ovvero che non tengono conto di quella domanda di fondo posta dai rilevatori di contraddittorie tendenze trasportistiche: dove va la gente, perché ci va, e come ci va? Almeno due delle risposte verificate sul campo, paiono di notevole interesse come indicatori di tendenza: una quota importante di «ex poveri» che accede per vari canali al possesso e uso del veicolo privato, e abbandona il trasporto pubblico; un'altra quota di utenti che continua ad essere tale ma esclusivamente per i movimenti pendolari classici casa-lavoro casa-studio, passando ad altre modalità per quelli del tempo libero, del consumo, dei viaggi occasionali. E qui, primo salto deduttivo, vale la pena aggiungere subito una questione collaterale: come si sta evolvendo, questo equilibrio tra due motivi-metodi di spostamento, alla luce dei cambiamenti nel mercato del lavoro, nell'organizzazione delle imprese, delle innovazioni tecnologiche? Un segnale importante potrebbe arrivarci, molto empirico, dal visibile crollo dell'ora di punta in corrispondenza della chiusura estiva delle scuole, unica vera attività «fordista» residua di tante aree metropolitane uscite dal ciclo dello sviluppo industriale tradizionale. Ma andiamo oltre.

Anche immaginando che tutti gli immigrati, minoranze, poveri, insomma coloro che erano prima obbligati a spostarsi solo col mezzo pubblico per motivi di reddito, siano passai in blocco a quello privato (qualcuno sostiene come status symbol di residenza suburbana, altri dicono per nuova coercizione da forme dell'insediamento). Anche immaginando che invece tutti gli altri, utenti del trasporto non collettivo per funzioni non lavorative, abbiano realizzato il sogno degli appassionati di ciclismo, saltando improbabilmente in sella paludati in braghette fosforescenti d'ordinanza, qualcosa accomuna certamente i due gruppi nell'indicare comunque tendenze comuni, ineludibili. Che si possono riassumere nell'aspirazione a «personalizzare la mobilità», anche collateralmente all'innegabile generale atomizzazione delle altre esperienze abitative, di fruitori di servizi, di persone che per un motivo o l'altro si trovano a cambiare spesso percorsi, orari, ritmi e tipi di lavoro.

Metropolitana Milanese - Foto F. Bottini
Pare davvero singolare, ad esempio, a fronte di certi imponenti flussi di lavoratori della manutenzione e refurbishment edilizio, o della distribuzione e logistica, dentro e fuori le aree metropolitane, che se ne ignori l'importanza sia per la rete dei trasporti che per l'economia più in generale. Prendiamo l'esempio più recente di Milano, dove si sono vistosamente sovrapposti in pochissimi giorni almeno quattro strati, distinti quanto inscindibili, della medesima questione: l'occasione della settimana della moda (che tra poco vedrà una replica quasi fotocopia col salone del mobile), i disagi dei cantieri della nuova metropolitana tangente al centro sulla fascia occidentale, i tagli e allungamenti dei tempi di attesa dei mezzi pubblici per motivi di bilancio, l'emergenza sanitaria estesa a tutta la megalopoli padana, di cui innegabilmente la mobilità privata su gomma costituisce una fetta essenziale.

Perché mai non si pone, almeno in questi casi di vera emergenza socioeconomica, abitativa, sanitaria e di efficienza, la questione in modo integrato? Perché si continua da un lato la litania a favore del trasporto pubblico (evidentemente di per sé inadeguato a rispondere a queste nuove economie, non parliamo poi della scala insediativa di regione urbana a media densità), e dall'altro il modello automobilistico novecentesco chiaramente fallimentare? Ultimo ma non certo in ordine di importanza, e concludendo: perché non si prova seriamente a coordinare, e all'interno di competenze uniche, norme uniche, documenti unici, la questione spaziale e quella dei flussi, almeno dei flussi materiali, rifugiandosi al momento dentro quell'iper-uranio denominato smart city? Se qualcuno ha una risposta, ci faccia sapere.

Una interessante serie di articoli dal New York Times sul trasporto pubblico, specie i primi due dedicati al citato declino della quantità di utenti, e ai probabili motivi dell'insoddisfazione per la qualità media del servizio

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Si è svolto, nei mesi scorsi un vasto dibattito interno e internazionale sulla eliminazione delle armi nucleari, il più grande pericolo che incombe, insieme ai mutamenti climatici, sul futuro non solo degli italiani, ma di tutti i terrestri.

Ci sono oggi, all’inizio del XXI secolo, circa 15.000 bombe nucleari negli arsenali di nove paesi: Stati Uniti e Russia (che hanno il maggior numero di bombe), e poi Cina, Regno Unito, Francia, Israele, Pakistan, India e Corea del Nord.

Da anni si levano le voci di coloro che chiedono l’eliminazione di tali bombe la cui potenza distruttiva è oltre cento volte superiore a quella di tutti gli esplosivi usati durante la seconda guerra mondiale. Una bomba termonucleare “piccola”, da una dozzina di chiloton, ha la potenza distruttiva equivalente a quella di una dozzina di migliaia di tonnellate di tritolo.

Da anni le speranze di disarmo si scontrano con l’opposizione dei paesi, grandi e piccoli, dotati di bombe nucleari che non vogliono rinunciare al potere di minacciare qualsiasi ipotetico avversario che avesse l’idea di aggredirli, a sua volta, con un attacco nucleare; la chiamano deterrenza.

Eppure il Trattato di non proliferazione delle armi nucleari NPT, firmato da quasi tutti i paesi nel 1975 prescrive che si deve evitare la diffusione di tali armi con l’obiettivo (articolo VI) di arrivare ad un futuro disarmo nucleare totale.

Eppure nel 1998 la Corte internazionale di Giustizia ha riconosciuto l’illegalità delle armi nucleari, armi di distruzione di massa come quelle chimiche e biologiche la cui esistenza è stata pure vietata. Nonostante questo non si riesce a far nessun passo verso trattative per il disarmo nucleare.

Soltanto di recente un gruppo di paesi ha preso l’iniziativa di proporre alle Nazioni Unite una risoluzione (A/C.1/71/L.41) che imponga l’avvio di trattative per il disarmo nucleare. Il 26 ottobre 2016 la I Commissione dell’Assemblea Generale ha votato a larga maggioranza a favore di tale risoluzione; l’Italia, che ospita alcune bombe termonucleari americane ad Aviano e Ghedi, ha votato contro. Se ne è parlato in un breve intervento intitolato: Vergogna in eddyburg.

Per inciso lo stesso giorno il Parlamento Europeo aveva approvato a larga maggioranza una risoluzione (2016/2936(RSP)) di sostegno all’apertura di trattative di disarmo nucleare.

La proposta di risoluzione A/C.1/71/L.41, è stata esaminata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 23 dicembre 2016 ed è stata approvata con 113 voti a favore, 35 contrari (Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Russia, Israele, eccetera) e 13 astensioni (fra cui la Cina).

In questa votazione il rappresentante dell’Italia ha votato a favore dell’avvio di trattative per il disarmo nucleare.

A molti di noi si è allargato il cuore: finalmente un gesto di pace, magari influenzato dall’invito al disarmo nucleare espresso con energia nel messaggio per la giornata della Pace annunciato da Papa Francesco per il 1 gennaio 2017.

Nei giorni successivi alcuni parlamentari hanno presentato delle interrogazioni al governo esprimendo apprezzamento per il voto all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e chiedendo che, per coerenza, venga chiesto agli Stati Uniti di ritirare le bombe nucleari depositate in Italia.

Entusiasmo di breve durata. Il viceministro Mario Giro ha risposto, nella seduta della commissione esteri del 2 febbraio 2017: “Desidero chiarire che l’intenzione di voto dell’Italia durante la sessione plenaria della 71ma Assemblea Generale delle Nazioni Unite sulla Risoluzione «Taking forward multilateral disarmament negotiations», è stata alterata da un errore tecnico-materiale che ha interessato anche altri Paesi. L’erronea indicazione di voto favorevole è stata successivamente rettificata dalla nostra Rappresentanza Permanente presso le Nazioni Unite, che ha confermato il voto negativo espresso in Prima Commissione. Secondo quanto mi segnalano, tale errore sembra essere dipeso dalle circostanze in cui è avvenuta la votazione, a tarda ora della notte del 23 dicembre”.

La risposta continua spiegando perché il governo italiano è contrario all’avvio di colloqui per il disarmo nucleare ed è fautore, invece, di un “approccio progressivo” al disarmo.

Comunque nelle registrazioni di voto, in questa fine di febbraio 2017, il voto dell’Italia del 23 dicembre 2016 risulta ancora “YES”, a favore dell’avvio dei negoziati per il disarmo nucleare e non sembra quindi che il governo italiano abbia fatto correggere l’”errore” del suo funzionario.

Il voto italiano a favore di tali negoziati è stato dovuto ad una distrazione del funzionario che era in aula, quasi a mezzanotte dell’antivigilia di Natale, o ad una obiezione di coscienza del funzionario alle direttive del governo, o al pentimento o ripensamento del governo stesso?

Una commedia per il comportamento del governo, e una vergogna se davvero il governo continua nella decisione di opporsi a trattative che allontanino i pericoli di catastrofi rese possibili dall’esplosione anche solo di una bomba nucleare per errore di un operatore o per un atto terroristico.

Mi risulta che ci siano iniziative per chiedere al governo almeno di partecipare alle riunioni della commissione, istituita dalla risoluzione (ora denominata A/RES/71/258) approvata dalle Nazioni Unite, che dovrebbe avviare le trattative per il disarmo nucleare e che si svolgeranno a New York dal 27 al 31 marzo e dal 15 giugno al 7 luglio 2017.

Bisogna continuare a mobilitarci soprattutto alla luce della politica del nuovo presidente degli Stati Uniti che dichiara di voler potenziare e ammodernare il suo arsenale di bombe nucleari, e alla luce delle crescenti tensioni internazionali.

Bisogna continuare a mobilitarci, ricordando l’avvertimento con cui finisce il libro e il film L’ultima spiaggia (1959), davanti ad un pianeta i cui abitanti sono stati sterminati dalla radioattività liberata da una guerra nucleare cominciata “per caso”: “Fratelli, siete ancora in tempo a rinsavire”. Ma il tempo è poco.

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Il carattere paradigmatico della sit-com "stadio della Roma" ha ormai ampiamente trasceso non solo l'ambito locale, ma anche quello della "sola" urbanistica e gestione della cosa pubblica. Che le sorti di un'area della città siano decise con tale approssimazione nell'uso degli strumenti amministrativi e normativi e in un ribaltamento degli orientamenti della pubblica amministrazione determinato da fattori esclusivamente mediatici o di opportunismo elettorale, ci parla di una degenerazione del processo democratico tanto profonda quanto pericolosa.

Della vicenda questa nota richiamerà solo gli elementi che chiamano in causa l'amministrazione del patrimonio culturale e paesaggistico, sottoposta a pesantissimi attacchi - sulla stampa e sui social media - per aver osato esercitare il proprio diritto di tutela sull'area, a partire dalla struttura del l'ippodromo di Tor di Valle.

Il documento di notifica dell'avvio del procedimento di dichiarazione dell'interesse culturale (l'atto iniziale del vincolo) di un paio di settimane fa, non giunge affatto con tempistiche sospette o ritardate: la conferenza di servizi è in pieno svolgimento e, da quel che risulta dalle ultime circonvoluzioni della giunta capitolina, il progetto subirà un cambiamento radicale. Pur in una situazione a dir poco fluida, quindi, la Soprintendenza ha svolto il proprio compito: unica istituzione in grado di apportare elementi di chiarezza nel magma indistinto di questa vicenda.

Si è scritto (fra gli altri, Sergio Rizzo, Corriere della Sera, 20 febbraio 2017) di una presunta contraddizione fra il documento di questi giorni e un precedente parere dell'allora Direzione Regionale, del 2014, allora responsabile del procedimento. Quel parere era conseguente ad una primissima fase del progetto, lo studio di fattibilità, mancante, come si rilevava già allora di una serie determinante di elementi di giudizio, oltre che delle procedure VAS e VIA che il parere Mibact del 2014 giudica, a giusto titolo, dirimenti. Oltre a queste limitazioni chiaramente espresse, non si trattava certo di un "via libera" incondizionato: tali erano le condizioni imposte sotto il profilo archeologico e quello paesaggistico, oltre che il richiamo di una serie vincoli preesistenti nell'area che un'amministrazione anche solo prudente, per non dire coscienziosa, ne avrebbe dovuto trarre conseguenze immediate e non superficiali.

A quanto risulta, invece, nulla è stato fatto per quanto riguarda ad esempio le procedure di verifica dell'interesse archeologico, ovvero sia quelle ricerche e sondaggi che, in via preliminare, dovrebbero servire per valutare la possibilità di impatto col patrimonio archeologico, rischio vicino alla certezza in una zona come quella, che comprende la via Ostiense e il fosso di Vallerano.

In estrema sintesi, da oltre due anni, gli organi di tutela sottolineano criticità dell'opera a più livelli, inascoltate, a fronte di un progetto a dir poco incompleto e per di più mai consolidato: come se ad un medico venisse richiesta una diagnosi senza radiografie, tac, e con esami del sangue con valori diversi da un giorno all'altro.

Tutt'altro che autocratico - carattere che solo la capziosità o l'ignoranza possono attribuire a simili procedimenti - ogni vincolo è l'esito di un'accurata indagine su una molteplicità di fonti e di ambiti (archeologico, paesaggistico, architettonico, storico artistico) e non può che derivare dal confronto di competenze plurime. Questo aspetto di multidisciplinarietà e di confronto è ribadito, nel caso in questione, dal giudizio - concorde - di 4 Comitati tecnici del Ministero Beni culturali, interpellati dalla Soprintendenza e costituiti da esperti delle discipline archeologiche, architettoniche, paesaggistiche e storico artistiche.

Gli esperti dei 4 Comitati riuniti, nella loro argomentazione, non solo ribadiscono l'importanza architettonica dell'Ippodromo, ma elencano molteplici elementi di rischio della lottizzazione nel suo insieme, ognuno dei quali basterebbe a renderne altamente improbabile la realizzazione.
Ancora, ad oltre due anni di distanza dal primo parere, né le procedure di VAS e VIA risultano compiute, e neppure l'adozione della variante del PRG, condiciones sine qua non i cui esiti, con molta leggerezza amministrativa, si continuano a dare per scontati.

Ciò che risulta evidente dall'intera successione dei procedimenti di questi ultimi 2-3 anni è che gli organi di tutela, nel loro insieme, sono stati interpellati solo nei passaggi assolutamente obbligatori dal punto di vista procedurale, ma mai coinvolti a livello di progettazione: confinati al solito ruolo di burocrati depositari di saperi specialistici, non necessari nel momento della pianificazione anche se (almeno sinora) ineludibili.

È una drammatica lacuna politica e culturale che si perpetua - non casualmente - da decenni: pianificazione territoriale e tutela del paesaggio e del patrimonio viaggiano, in Italia, su binari paralleli che si incrociano solo episodicamente perché pensati, dalla classe dirigente del nostro paese, come portatori di istanze diverse, spesso contrastanti e, nel caso della tutela, residuali e da circoscrivere.

È quanto avvenuto con l'ininterrotta sequenza di provvedimenti che da alcuni anni a questa parte hanno limitato, scientemente, l'operatività degli organi di tutela. Dalle "riforme" del Ministero allo SbloccaItalia, fino alla riforma Madia che con il nuovo regolamento della Conferenza di Servizi - regolamento cui dovrà attenersi anche il progetto dello stadio romano - ha inferto un colpo forse decisivo all'autonomia e alla prescrittività delle decisioni degli organi di tutela.

Eppure in quelle poche scarne paginette prodotte dal Mibact e dai suoi Comitati sono contenuti più elementi di rilevanza strategica che in tutto il diluvio delle migliaia di faldoni sinora elaborati dai privati proponenti: vi si parla di un'area fragile, quella di Tor di Valle, ma ricca sia dal punto di vista del patrimonio culturale - archeologico e architettonico - che di quello paesaggistico, si sottolineano i pericoli di costi eccessivi per la collettività a fronte di un progetto su cui i proponenti, a tutt'oggi, non hanno ancora fornito elementi di giudizio indispensabili.

Quanto infine alla popolarissima affermazione secondo la quale "le Soprintendenze dettano legge su tutto: hanno un indiscriminato potere privo di controllo democratico - non essendo elettive - e davvero spropositato" (sic il direttore del Messaggero, 24/02/2017 da ultimo di una lunghissima serie di giornalisti e politici di primo livello), nessuno dei suoi sostenitori ha ancora saputo rispondere alla constatazione secondo la quale, i funzionari della tutela, che agiscono sulla base di competenze comprovate da pubblici concorsi, sono come i medici: nel caso di un intervento a cuore aperto, davvero sceglieremmo che ad operarci fosse il raccomandato di turno o un chirurgo eletto "democraticamente"?

Le manipolazioni populistiche e mediatiche che la vicenda dello stadio della Roma ci propina quotidianamente ormai, dovrebbero piuttosto farci riflettere su di un più consapevole uso del fragilissimo strumento della democrazia. E su come la capacità di ogni amministrazione di decidere in maniera informata e trasparente ne sia elemento non negoziabile e unica garanzia della tutela dell'interesse collettivo.

Il ministro Minniti vuole farli lavorare gratis e molti sindaci vogliono impiegarli in lavori volontari: è sempre più chiaro che l’unica possibilità che siamo disposti ad elargire ai migranti... (segue)

Il ministro Minniti vuole farli lavorare gratis e molti sindaci vogliono impiegarli in lavori volontari: è sempre più chiaro che l’unica possibilità che siamo disposti ad elargire ai migranti è quella di essere usati come schiavi, il che, del resto, già avviene nei campi e nei cantieri.

Alcuni commentatori hanno criticato i provvedimenti che intendono istituzionalizzare lo sfruttamento di migliaia di persone accomunate dal fatto di essere state costrette ad abbandonare la loro terra, interpretandoli come il segnale di un cedimento alla propaganda razzista. Minor attenzione si è posta alla dimensione territoriale di programmi che, prevedendo la concentrazione forzata in appositi insediamenti, da creare ex novo o attraverso il ri-popolamento di zone abbandonate dai nativi, rischiano di dare origine a un vero e proprio regime di apartheid.

Tale prospettiva è tutt’altro che remota e trova conferma in una serie di progetti che economisti e gruppi di investitori hanno elaborato per realizzare “insediamenti a statuto speciale nei quali ai profughi sia consentito intraprendere lavori dignitosi, per provvedere alle proprie famiglie e contribuire allo sviluppo economico, sia dei paesi ospitanti che di quelli di provenienza”. Alcune idee sono state abbandonate, ad esempio quella del miliardario egiziano Naguib Sawiris (fondatore di Wind e insignito del titolo onorifico di commendatore dell’ordine della Stella della solidarietà italiana) che voleva comprare un’isola nel Mediterraneo per metterci cento mila profughi e impiegarli nella costruzione di una nuova città. “La chiamerò Little Siria”, aveva detto, e “assumerò grandi architetti per restituire lo stile architettonico del loro paese d’origine”.

Altre proposte, invece, godono del sostegno ampio e crescente da parte di influenti istituzioni internazionali. Una delle più ambiziose è Refugee cities, messa a punto dalla omonima organizzazione con sede negli Stati Uniti, con l’obiettivo di fornire una risposta “pragmatica e fattibile per trasformare i profughi da onere a beneficio, da peso sulle risorse pubbliche e fonte di disagio sociale a produttivi generatori di reddito, lavoro e investimenti stranieri”.

Michael Castle Miller, il direttore esecutivo di Refugee cities, è un avvocato che vanta una pluridecennale esperienza nello sviluppo di “zone economiche speciali”. E delle zone economiche speciali il progetto, destinato a “liberare il potenziale dei rifugiati”, riprende molte caratteristiche, a partire da una solida partnership tra pubblico e privato, indicata come indispensabile precondizione per il suo successo.

Nella fase iniziale, lo stato dovrebbe elaborare il quadro legislativo e normativo per consentire la formazione di “città speciali” e il rilascio di permessi di lavoro validi solo al loro interno; i profughi, infatti, conserveranno il loro passaporto d’origine, ma non potranno uscire dai confini della città. Contemporaneamente, un’impresa privata di riconosciuta esperienza formerà un team di economisti, avvocati e scienziati sociali che eseguirà uno studio di fattibilità, prendendo in considerazione le aree a disposizione e tenendo conto della domanda di mercato, dell’impatto ambientale e sociale e delle competenze e capacità dei profughi. Una volta individuati i luoghi più adatti, l’impresa presenterà il progetto alle autorità, alle popolazioni locali e agli investitori nazionali e internazionali, che saranno attirati dalla “disponibilità di forza lavoro addestrata e da un quadro normativo eccezionalmente favorevole”.

Quindi, un’altra impresa, specializzata in infrastrutture, comprerà, o affitterà con un contratto a lungo termine, i terreni necessari, vi costruirà le opere di base, dalle strade alle reti idriche ed elettriche e affiderà a una terza impresa il compito di fornire tutti i servizi, dall’istruzione dei bambini alla raccolta dei rifiuti, incluso l’addestramento professionale.

Per garantire il rientro dell’investimento delle imprese private, lo stato si impegnerà ad erogare sussidi ai profughi, affinché il loro reddito sia tale da metterli in grado di “pagare merci e servizi a prezzi di mercato”. Inoltre, per migliorare il business environment di questi enormi campi di lavoro recintati, delegherà il governo dei territori speciali ad apposite autorità nazionali o sopranazionali, la cui “efficienza” stimolerà l’avvio di riforme anche nel paese ospitante.

Fra i molti sostenitori di Refugee cities, uno dei più importanti è Middle east investment initiative che, dal 2005 raggruppa una serie di economisti, finanzieri e diplomatici. Ne fanno parte, tra gli altri, John Negroponte, già ambasciatore americano in Honduras (era chiamato l’ambasciatore della tortura), alle Nazioni Unite e in Iraq; Thomas Pickering già ambasciatore in Russia, India e Israele e Madeleine Albright, già segretario di stato durante la presidente Clinton e principale azionista di un fondo di investimento che ha fatto ottimi affari grazie alle privatizzazioni imposte al Kosovo. Una serie di personaggi, cioè, che dopo aver esportato la democrazia in tutto il mondo , adesso si offrono come investitori in progetti umanitari.

Sul fronte accademico, il direttore di Refugee cities è particolarmente legato a Paul Romer, consulente della Banca mondiale e direttore del Marron institute of urban management, il dipartimento della New York university specializzato in ricerche e progetti per promuovere l’urbanizzazione a scala globale.

Romer è noto per la proposta di creare nei paesi “poveri” una serie di città stato, denominate charter cities, governate dai paesi “ricchi”. In queste “enclaves illuminate all’interno di uno stato da educare, avamposti liberisti e zone per promuovere le riforme”, dovrebbero confluire e trovare lavoro tutti gli abitanti “non contenti dei loro governi corrotti e inefficienti”. Il modello a cui Romer si ispira è Hong Kong, dove si sono “rifugiati i profughi che scappavano dal maoismo” e la cui creazione è stata decisiva per introdurre il libero mercato in Cina. Finora, i tentativi di costruire charter cities in Magadascar e Honduras non hanno avuto buon esito, ma Romer continua a propagandare la sua idea. In Italia, l’ha presentata al festival dell’economia del 2016, organizzato a Trento dal professor Tito Boeri, presidente dell’INPS.

Forse l’INPS non investirà i soldi delle pensioni in città per schiavi (con charter cities li aiutiamo a casa loro, con refugee cities li aiutiamo a casa nostra!) E’ certo, però, che il moltiplicarsi di imprese internazionali che si specializzano nella fornitura di prodotti per rifugiati, e di gruppi di pressione che spingono i governi nazionali a privatizzare “la valorizzazione della risorsa rifugiato” è una tragica conferma che il dislocamento forzato di milioni di persone non è un fenomeno inevitabile provocato da conflitti irrazionali, ma fa parte di un lucido e articolato progetto di messa in schiavitù della maggioranza dell’umanità.

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Lo studio di architettura danese Bjarke Ingels Group ha vinto il concorso indetto dalla San Pellegrino, società controllata della multinazionale Nestlé Waters che possiede 50 marchi di acqua in bottiglia, per l’ammodernamento e l’ingrandimento dello stabilimento di Ruspino nel comune di San Pellegrino Terme, destinato a diventare «il biglietto da visita del gruppo e ad accogliere i visitatori provenienti da tutto il mondo», con un progetto che «rivisita gli elementi classici dell’architettura e dell’urbanistica italiana: le arcate, il portico, il viale, la piazza».

Secondo i dirigenti della società, l’iniziativa rappresenta «un esempio concreto della nostra filosofia di creazione di valore condiviso e di sviluppo di benefici tangibili per le persone, il territorio e l'economia… l'obiettivo è quello di rendere il sito produttivo sempre più in grado di sostenere il business nei prossimi anni, di migliorare il luogo di lavoro per i dipendenti e di creare un dialogo fra l'immagine dell'azienda e il territorio circostante». Inoltre il progetto, scelto da una giuria presieduta da Luca Molinari, rinomato critico e storico di architettura, ha l’enorme merito di «integrare e migliorare il territorio d’origine dell’acqua minerale aggiungendo un tocco di stile moderno».

Il progetto si estende su 17 mila metri quadrati e non si limita a rinnovare i fabbricati che attualmente ospitano produzione e uffici. All’interno di quello che gli autori del progetto chiamano Campus San Pellegrino, infatti, saranno realizzati nuovi volumi per il cosiddetto Experience Lab, una serie di spazi dove “avvicinare fruitori e visitatori al mondo San Pellegrino con contenuti tecnologici e interattivi” e una piazza da utilizzare per manifestazioni ed eventi aperti al pubblico, al cui centro si innalzerà una grande scultura, che riproduce la stratigrafia della roccia e mostra il percorso trentennale durante il quale l’acqua naturale si mineralizza e acquista il gusto “puro e inconfondibile di S. Pellegrino”. Saranno anche ampliati i parcheggi e costruito un nuovo ponte per collegare il sito con il comune di Zogno.

Gli amministratori locali hanno accolto con entusiasmo l’idea di far sorgere questa sorta di parco a tema dell’acqua minerale. «E’ una prova dell’attenzione concreta e dell’attaccamento verso il nostro territorio», ha detto Vittorio Milesi, sindaco di San Pellegrino Terme, «che si inserisce nel clima di sviluppo turistico della nostra cittadina e siamo convinti che possa innestare altre iniziative partite in questi anni, ma che hanno trovato difficoltà a causa della crisi economica». Dichiarazioni simili sono state rilasciate dal sindaco di Zogno, Giuliano Ghisalberti : «la nostra comunità guarda con favore al progetto, siamo convinti che la cooperazione tra pubblico e privato sia un modello virtuoso per riqualificare il nostro territorio e rilanciare l’immagine di tutta la valle Brembana nel mondo, generando certamente effetti positivi sull’occupazione». Anche i sindacati sono d’accordo, perché «davanti a un investimento così importante (si parla di 90 milioni di euro), il giudizio non può che essere positivo».

Nessuna perplessità è stata espressa sui possibili oneri e “imprevisti” effetti negativi per la collettività. E nessuno ha messo in discussione le concessioni (12 pozzi nel comune di San Pellegrino) ed i ridicoli canoni d’affitto di cui beneficia la ditta, che il ministro dell’agricoltura Maurizio Martina ha definito «ambasciatrice del made in Italy».

In questo clima di unanime gratitudine per i padroni- «l’eccellenza si può costruire anche in questo paese quando ci sono imprenditori e grandi aziende che investono nei territori» ha detto Molinari durante la presentazione ufficiale presso la Fondazione Feltrinelli a Milano, merita di essere segnalato l’unico commento negativo che è apparso su un sito che ha pubblicato il progetto, dove una sconosciuta lettrice ha lasciato un sintetico messaggio: Boycott Nestlé.

Le proteste di questi giorni riaccendono il fuoco... (segue)

Le proteste di questi giorni riaccendono il fuoco di una rivolta che, con andamento carsico, perdura ormai da mesi. La miccia, in questo caso, è stata accesa dal caso della biblioteca universitaria di lettere. Un paio di settimane fa sono stati installati i tornelli per il controllo degli accessi. Tornelli immediatamente smontati dal CUA, il Collettivo Universitario a capo della rivolta, che ha successivamente presidiato la biblioteca. Mercoledì 9 febbraio, su disposizione del prefetto richiesto di un intervento dagli organi di governo universitari, la polizia, in assetto antisommossa, ha fatto irruzione nei locali della biblioteca, dove erano presenti numerosi studenti- non solo appartenenti al CUA, ma semplici utenti - e ne ha sgomberato gli spazi. Da qui la reazione del CUA che rivendica il diritto al libero accesso della biblioteca e che, da allora, quotidianamente, ha indetto proteste su questa vicenda.

L’accesa discussione aperta dall’episodio ha visto il sindaco Merola prontamente schierato a difesa del rettorato, mentre il personale delle biblioteche universitarie ha sottolineato a più riprese le difficili condizioni in cui si trova ad operare. Non frequento quelle biblioteche se non in maniera del tutto saltuaria. Non vivendola in prima persona, non so quindi valutare la gravità del degrado vissuto nelle aule e nell’area universitaria in genere, né soprattutto i rapporti di forza fra i vari gruppi che usano a diverso titolo quegli spazi. So che ormai da mesi, a partire dagli scontri per il caro mensa dello scorso autunno, cova sotto la cenere una rivolta che dà voce ad un disagio estremamente diffuso.

So, da cittadina bolognese, che questa città ha ormai perso anche gli ultimi residui di ciò che la rendeva famosa per l'accoglienza. Che la politica locale vivacchia, ormai da decenni, nella più completa stasi culturale, contrabbandando, ad esempio, per urbanistica del centro storico - ambito che l'aveva resa maestra in Italia e in Europa, molti anni fa - operazioni estemporanee di discutibile maquillage ad uso turistico.
Praticamente nulla, da molti lustri a questa parte, è stato fatto per offrire agli studenti quei servizi di cui la città è sempre stata avarissima, con fenomeni di caro-affitti mai combattuti con soluzioni organiche e di lungo periodo. Eppure l’alma mater rappresenta da parecchi anni a questi parte la principale “azienda” bolognese e gli studenti (circa 85.000 iscritti su una popolazione di circa 380.000 abitanti) una percentuale importante degli users cittadini, di certo la più vitale. Città universitaria per eccellenza, quindi, che ha però sempre vissuto il rapporto con gli studenti dell’Ateneo in modo ambiguo. La politica locale degli ultimi decenni, asfittica e inconsapevole, ne è cartina al tornasole perfetta.

A più riprese, in questi giorni, se non altro per la suggestione della ricorrenza anniversaria, sono stati evocati paralleli con il movimento del '77 che qui a Bologna ebbe uno dei centri principali di azione e di elaborazione. Paralleli manifestati soprattutto in negativo, per respingerli, quasi apotropaicamente, e derubricare le vicende odierne sotto l’etichetta di un disagio sociale indistinto o di puri e semplici vandalismi. “Punture di spillo” (Carlo Galli) sono state definite le proteste di oggi a confronto con il Movimento di allora.

Anche quarant’anni fa, però, come qualsiasi testimone poco men che distratto sa, per molto tempo fu negata ai protagonisti del Movimento qualsiasi dignità politica in senso pieno. All'epoca dei fatti - tutto si consumò in pochi mesi, meno di un anno - la sinistra storica si rivelò straordinariamente incapace di comprendere quel fenomeno, letto dai più benevoli solo come pulsione vitalistica senza sbocchi, e di cui si vollero cogliere soprattutto gli aspetti deteriori di violenza, condannabili senza riserve, ma fino ad un certo momento non prevalenti. E persino oggi, nelle “celebrazioni” che si riaffacciano (v. la Repubblica del 12 febbraio) si tende a riconoscere e rivalutare, del ’77, quasi esclusivamente l’aspetto “culturale” (come se ‘cultura’ e ‘politica’ fossero poi due sistemi scindibili), quella carica dirompente di innovazione creativa che ribaltò le modalità comunicative ed espressive di quella e delle generazioni successive. Quei ragazzi apparvero irriducibili alle vecchie categorie politiche, come lo sono i ragazzi del CUA oggi, privi, ora come allora, di ogni rappresentanza nel quadro delle forze politiche più o meno storiche.

I tornelli dell’alma mater non ci parlano solo di Bologna, ovviamente. Nelle stesse ore in cui si svolgevano questi fatti, il 10 febbraio, è stato approvato dal Consiglio dei Ministri il così detto “Daspo urbano”, un provvedimento che conferisce ai sindaci poteri di ordinanza contro episodi di degrado e vandalismo, ma anche contro attività che con i temi securitari non hanno una stretta connessione, come il commercio abusivo. Il decreto, che consentirebbe l'inibizione di intere aree urbane di "pregio" a chi è colpito da “daspo”, ha suscitato un residuo di perplessità persino nel sindaco Nardella, che ha definito il provvedimento "talmente potente" da dover essere usato “cum grano salis”.

Occorrerà analizzarne attentamente il testo, che apre molti interrogativi sulla legittimazione di una sorta di categorizzazione degli spazi urbani, ma fin da ora sembra evidente che l’uso della forza pubblica è l’unica risposta che si continua a fornire agli episodi di degrado. Accomunando e appiattendo, in questa categoria, fenomeni fra loro diversi e diversissimi e condannandosi, con ciò, alla loro incomprensione.

Dagli spazi universitari alle “zone di pregio” delle città, l’unica risposta al degrado diffuso è una sorta di “militarizzazione” degli spazi pubblici, proprio per questo destinati ad essere completamente snaturati. Una città suddivisa in zone a differente gradiente di sicurezza, in cui la differenza fra periferie e aree di pregio – i centri storici turistici e monumentali innanzi tutto - è destinata inevitabilmente a ingigantirsi.

Tornelli e daspo sono stati i provvedimenti con cui, in anni recenti, si è cercato di contrastare la violenza degli stadi: nessuna radicale inversione di tendenza del fenomeno si è verificata e gli stadi continuano ad essere tristi catini semivuoti, disertati dal pubblico delle famiglie o comunque non ascrivibile alla categoria degli ultras.

Queste risposte, applicate agli spazi urbani come unica misura preventiva, appaiono null’altro che una manifestazione, tragica quanto inconsapevole, di impotenza di fronte ad un disagio sociale crescente e diffuso. Che questa risposta venga dalla classe di governo, ha purtroppo smesso di stupirci; più inquietante è che nella stessa risposta si rifugi l’università. Quello che dovrebbe essere il luogo del confronto e dell’innovazione culturale, della condivisione dei saperi e che invece, sempre più avvitata in logiche aziendaliste, si sta trasformando, per dirla con le parole di Federico Bertoni, professore dell’alma mater (Universitaly. La cultura in scatola, Laterza 2016) in una “customer oriented corporation”.

p.s. Neppure nei giorni più caldi del '77, quando via Zamboni, sede storica dell’Università, era attraversata da barricate e le autoblindo presidiavano minacciosamente l’intera area, la polizia fece mai irruzione nei locali universitari. Limite invalicabile che neppure le forze dell’ordine di epoca fascista osarono infrangere. Fino ad oggi.

Riferimenti

Sul "daspo" e sulle sue nuove applicazioni da parte dal governo renziano attuale vedi su eddyburg gli articoli raccolti sotto il titolo I poveri come huligani

"Le scissioni (o le guerre) hanno spesso motivazioni immediate che appaiono irrazionali, al di sotto dell’evento catastrofico che determinano", scrive ieri Peppino Caldarola su Lettera 43 ("Con Renzi il Pd diventerà una Margherita dimezzata".

Una considerazione non ipocrita, finalmente, nel coro dei commentatori a tempo pieno, intenti a simulare stupore/sconcerto/disappunto di fronte ad una scissione che sembra, a loro dire, consumarsi nel maggiore partito italiano per una mera e banale questione di date.

Il fatto è che la questione di date banale non è - dal momento che proprio su quella la sedicente (e comunque assai tiepida) disponibilità di Matteo Renzi a prodigarsi per conservare di quel partito l'unità incontra un ostacolo insormontabile e inderogabile: dead end. Non dovrebbe meravigliare che il che-cosa-viene-prima-e-cosa-dopo polarizzi prepotentemente la libido di un politico che ha sostituito la velocità all'eguaglianza nel quadro dei valori fondativi della sinistra.

Ma anche trascurando la storia delle date, quel che fingono di non comprendere i commentatori, dileggianti gli scissionisti "impiccati al calendario", è che quella sorta di disintegrazione del nucleo, in cui si trasforma di giorno in giorno sotto i nostri occhi la scissione del Pd, è da ascriversi in larghissima parte, esattamente all'insaziabile libido dominandi proprio del segretario uscente.

Dopo l'avventurosa sfida referendaria del 4 dicembre, mostra tuttora, anche nell'estremo presunto (e dovuto) appello ad evitare la scissione, come al di là delle tante stra-parole autoaccusatorie, di non aver ancora capito che cosa il 4 dicembre è stato sconfitto:

"Milioni di italiani chiedono una politica che non sia solo contro qualcuno. Che non sia solo contestazione, ma sia fatta di proposte. Io ci sono e sono in campo. Con umiltà e tranquillità. Ma anche con coraggio e determinazione. Siamo in tanti. Milioni di persone. Non sufficienti a vincere un referendum, d'accordo. Ma in grado di cambiare tante cose. E non rinunceremo a farlo" (Intervista a Matto Renzi di Aldo Cazzullo, Il Corriere della Sera, 17 febbraio 2017, corsivo mio)

Chi si illuda che con ciò si aprano "nuove fasi" è servito: ci sono tutti gli elementi per capire che, nel Renzi-pensiero, si riparte esattamente dal punto in cui si è lasciato il giorno prima del referendum. E specie per un punto: la "sua" leadership, vera invariante di qualsiasi "discussione aperta", "conferenza programmatica", "convenzione congressuale" e compagnia

Lo si è visto nel vuoto di analisi e di proposta che ha esibito in apertura/chiusura dell'ultima Direzione nazionale, veicolando come unico contenuto intellegibile la necessità che ogni scelta parlamentare o di governo sulle regole (legge elettorale) o sulle grandi questioni (manovra aggiuntiva), come ogni scelta che riguarda il partito (congresso, elezioni, persino il sostegno al governo Gentiloni, che si è vergognosamente rifiutato, tramite lo stridulo Orfini, anche solo di mettere ai voti...) sia in ogni caso modellata sulle sue proprie esigenze/opportunità contingenti o immediatamente a venire.

"L'innovazione... produce un ambiente diverso da quello da cui si è mosso Un ambiente mutato che chiama al mutamento gli stessi che più hanno concorso a mutarlo. Cambiare se stessi è l'incarico più gravoso di tutti", scriveva Renzi nel 2014 a commento della nuova edizione di Destra e sinistra di Bobbio, proponendo di sostituire alla polarità distintiva eguaglianza/diseguaglianza quella, più aggiornata, innovazione/conservazione.

Quel testo è stato per molti versi profetico - oltre che programmatico, subito interpretato come "manifesto" di governo - di ciò che dalla leadership del nostro ci si poteva/doveva aspettare...

Molti, dentro il Pd - spesso per quel mix di acquiescenza ed opportunismo di sapore vagamente feudale che Fausto Anderlini descrive in Alea iacta est , che vi invito a leggere, - hanno sorvolato sulle implicazioni della nuova polarità, seguendo il capo come leali vassalli nella sua corsa all'innovazione sans phrase.

Quando è la velocità il massimo valore, meglio sgombrare il campo da ogni tediosa perdita di tempo, come per esempio fermarsi a pensare. Si potrebbe diventare rapidamente sospetti...

E molti, nella c.d.minoranza interna, hanno inghiottito rospi, non facendo nulla a lungo per frenare quella corsa. Hanno subìto - anche per colpa loro - accuse di codardia e tradimento dalla base per ogni fiducia votata in Parlamento, dal job acts alla buona scuola, fino al riscatto, almeno, sulla riforma costituzionale.

Ma quella corsa era destinata a continuare solo fino a quando fosse stato lui, Renzi, a indurre nell'ambiente il cambiamento, non il contrario.

E oggi è proprio lui a mostrarsi incapace di percepire i mutamenti dell'ambiente, e del tutto restio, per usare le sue parole, a "cambiare se stesso".

Ed è proprio questo il fattore Sarajevo, per cui il vaso, da tempo colmo e in precario equilibrio, trabocca. Ancora una volta, la determinazione a occupare a qualsiasi prezzo, sconfitte politiche comprese, un posto che ritiene sia di diritto suo...

Un politico non può dire "ce ne andiamo perchè il segretario è fuori controllo" - anche se molti in questi giorni hanno provato a lasciarlo intendere tra le righe: perchè è un bambino ingenuo e innocente che si alza, nella favola, per gridare a tutti gli altri che il Re è nudo...

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Il paradosso, clamoroso fino allo scandalo, è diventato inoccultabile, eppure il ceto politico non vuole vederlo. Il risparmio delle famiglie italiane continua a gonfiarsi - come ha ricordato di recente il governatore della Banca d’Italia - e non va agli investimenti, accresce la tesaurizzazione. Sono anni che questo accade, nonostante gli effetti della crisi mondiale e nonostante l’immobilità o quasi, quando non la regressione, dell’economia italiana. Naturalmente non tutte le famiglie risparmiano, solo una percentuale, mentre le altre non solo hanno difficoltà a risparmiare, ma vanno impoverendosi. Quindi una parte del Paese continua ad accumulare, non investe, mentre un’altra parte, crescente, perde terreno, con danno generale e lacerazione del tessuto sociale.

Ebbene, questa divaricazione distruttiva avviene in un Paese come l’Italia dove la ricchezza netta delle famiglie è fra le più alte d’Europa: quasi 8 volte il reddito disponibile, mentre quello della Francia è 7,5 volte, quello della Germania 5,5. La nostra ricchezza immobiliare, soprattuttutto la casa, rimane sovrastante fra tutti i grandi stati continentali (G. De Felice, Gli italiani sono un popolo di cicale che affonda nei debiti, in AA.VV. Il pregiudizio universale, Laterza 2016). A questa maggior ricchezza patrimoniale del resto corrisponde anche un minor indebitamento delle famiglie. A fine 2015 esso era intorno al 43% del PIL, contro il 54% della Germania, il 56% della Francia, l’87% del Regno Unito. Anche le nostre imprese, per quanto strano possa sembrare, sono meno indebitate della media dell’Eurozona (77% contro 105%).

A fronte di questa continua accumulazione della ricchezza privata si staglia, come una montagna, il nostro debito pubblico (oltre il 133% del PIL) che illustra, a chi ha intelligenza per leggere i fenomeni, la storia dell’economia italiana degli ultimi decenni. I privati, famiglie e imprese, si sono arricchiti a spese dello stato che è andato accumulando debiti. Si sono arricchiti, certo anche con il lavoro e l’impresa. Ma una parte crescente ha accumulato ricchezza attraverso l’evasione fiscale, grazie alle esenzioni e alle agevolazioni pubbliche, per mezzo di una corruzione famelica dilagante. Ebbene dovrebbe essere evidente a tutti che, governi di centro-sinistra o di centro-destra, nulla è cambiato e nulla cambia nel modello di accumulazione capitalistica dell’Italia. E questo è il nodo che paralizza il nostro Paese.

E’ noto, infatti, che le politiche neoliberistiche hanno provato, a tutte le latitudini del pianeta, il loro irrimediabile fallimento. Ma in Italia esse continuano a provarlo in maniera specifica alla luce dei caratteri storici del nostro capitalismo. L’Italia è diventato un paese industriale moderno grazie al ruolo del potere pubblico, grazie all’azione dello Stato, sia in età liberale, con l’impulso dato alla creazione delle infrastrutture ferroviarie e viarie, la siderurgia e la chimica, sia in età fascista con la nascita dell’IRI, non diversamente che nel dopoguerra con l’ENI e gran parte delle industrie a partecipazione statale. La storia naturalmente non è né un vincolo né un’ipoteca sul futuro. Ma è ormai evidente che l’Italia, senza una capacità di stimolo e di investimento diretto da parte del potere pubblico, contando sull’attrazione di investimenti esteri attraverso la precarizzazione del lavoro, annaspa e affonda.

Ebbene, come uscire dalla trappola? La politica di austerità della UE ci condanna a morte. L’ultima capitolazione del nostro ministro dell’Economia di fronte alle imposizioni di Bruxelles non lascia dubbi. L’Unione è governata da modesti contabili che stanno distruggendo uno dei più ambiziosi progetti politici del Novecento. E l’Italia non ha né le forze né il prestigio per opporre un diverso corso alla Germania e ai suoi alleati. Nel frattempo, crescita o non crescita, flessibilità del lavoro o meno, la disoccupazione della nostra gioventù naviga sul 40%. Una cifra spaventosa. Come può sopravvivere un paese che condanna alla disperazione sociale quasi la metà delle nuove generazioni?

Ma dietro queste cifre e quelle relative al risparmio delle famiglie, esiste un legame che occorre portare in luce. Perché il paradosso insostenibile non è solo quello tra debito pubblico e risparmio privato. Esso riguarda anche le generazioni. Perché le famiglie che risparmiano e non investono, sono anche quelle i cui figli non trovano lavoro o lo svolgono in condizioni precarie, o trovano rifugio all’estero. I nonni e i padri, accumulano ricchezza e i figli e i nipoti sono impossibilitati a esprimere la propria energia e creatività.

Allora, non è evidente che il passo drammaticamente necessario è trasferire una quota significativa di ricchezza privata al potere pubblico per investimenti diretti di grande peso? È questa la leva più potente per rimettere in moto l’economia nazionale. Ma naturalmente il nostro ceto politico latita, perché teme gli esiti elettorali di una proposta di patrimoniale. Eppure qualcuno deve trovare l’onestà e il coraggio di dire ai padri e ai nonni delle famiglie abbienti d’Italia che senza il loro contributo i loro figli e nipoti non hanno avvenire e che l’Italia arretrerà, scivolando nella disgregazione sociale e nelle reti criminali. Occorre elaborare una proposta egemonica, tecnicamente ben congegnata, una specie di prestito generazionale, per affidare alla mano pubblica un grande progetto di investimento, che può costituire anche una delle forme più dinamiche di redistribuzione della ricchezza.

Sono decenni che il governo americano elabora visioni, strategie e progetti per la realizzazione di un rete di ferrovie ad alta velocità dedicata a collegare le maggiori città degli Stati Uniti....(segue)

Sono decenni che il governo americano elabora visioni, strategie e progetti per la realizzazione di una rete ferroviaria ad alta velocità dedicata a collegare le maggiori città degli Stati Uniti. Ma, fino ad oggi, con scarso successo. L’ultima iniziativa: il documento strategico proposto dalla amministrazione Obama nel 2009 dal titolo “High-Sped Rail Strategic Plan” che ipotizza la realizzazione in 25 anni di “corridoi di alta velocità ferroviaria” accessibili all’80% dei cittadini americani

Fino ad oggi l’ambizioso progetto è rimasto sulla carta: per i costi elevatissimi, lo scarso entusiasmo di molti Stati ad impegnare risorse pubbliche ingenti, le resistenze della lobby delle autostrade e le abitudini più che consolidate nello stile di vita della popolazione che è completamente auto-dipendente. L’unica, per ora, eccezione è rappresentata dalla California.

La California, oltre a costituire una delle aree a più alto livello di sviluppo economico-tecnologico al mondo, è anche una delle più congestionate e inquinate, appunto per via della totale dipendenza dal trasporto su gomma. I dati sono impressionanti: 170.000 miglia di autostrade che sono, comunque, le più congestionate degli Stati Uniti; una perdita economica, calcolata in 18,7 miliardi di dollari all’anno, per il tempo speso negli spostamenti casa/lavoro e nel consumo di benzina; un aumento del traffico a un ritmo 5 volte più elevato della costruzione di nuove strade o corsie autostradali; un elevatissimo consumo del trasporto aereo anche sulle medie distanze: nella sola tratta fra San Francisco e Los Angeles, 5 milioni di passeggeri annui, con un ritardo di un’ora o più per 1 vettore su 4.

Le previsioni di crescita sono ancora più preoccupanti. Nei prossimi 30-40 anni, agli attuali 38 milioni di residenti si aggiungerà una popolazione pari a quella dell’intero stato di New York, raggiungendo una dimensione demografica alla quale non si può più pensare di continuare a rispondere con una offerta trasportistica “more of the same”.

Nel 2008, i cittadini della California, chiamati alle urne, hanno approvato il progetto della ferrovia ad alta velocità che collegherà San Francisco con Los Angeles. A oggi, si tratta dell’unico in corso di realizzazione, fra i 5 corridoi di alta velocità previsti per le maggiori aree metropolitane statunitensi. Consentirà di connettere le due grandi metropoli in 3 ore, con treni che viaggeranno alla velocità di 200 miglia (circa 320 km) all’ora. La ferrovia dovrebbe essere completata entro il 2029 e si prevede, in prospettiva, la sua estensione anche a Sacramento e San Diego, per una lunghezza complessiva di 800 miglia (con 24 stazioni). L’Agenzia incaricata della gestione del progetto (CHSRA) sta inoltre collaborando con gli altri attori locali per realizzare un piano di modernizzazione dell’intera rete ferroviaria statale.

Ma l’alta velocità è un progetto sul quale si è cominciato a riflettere in California già dagli anni ’80 dello scorso secolo. L’attuale governatore Jerry Brown, che aveva già rivestito questa carica dal 1975 al 1983, ne è stato, e continua ad esserne, il più convinto sostenitore.

In estrema sintesi, i principali passaggi decisionali che hanno portato al decollo del progetto sono stati i seguenti.

Nel 1992, a livello federale, la inclusione del corridoio ferroviario ad alta velocità fra San Francisco e Los Angeles fra i progetti cofinanziati con ISTEA (Intermodal Surface Transportation Efficiency Act ). ISTEA è stata un provvedimento legislativo, fra i più innovativi per l’epoca, dedicato al finanziamento di progetti integrati di pianificazione territoriale e pianificazione dei trasporti pubblici. Finalizzato esclusivamente alla realizzazione di trasporti pubblici su ferro, è stata approvato durante la presidenza Clinton, grazie al deciso impegno ambientalista dell’allora vicepresidente Al Gore. Nel 1993, la costituzione della Intercity High-Speed Rail Commission alla quale è stato affidato il compito di realizzare i primi studi di fattibilità della rete. Infine, nel 1996, la istituzione della California High-Speed Rail Authority (CHSRA) con compiti formali di redazione del progetto e di gestione delle opere: un progetto da sottoporre comunque a referendum popolare, obbligatorio per tutti i grandi interventi di rilevanza sopralocale.

Nei fatti, il referendum popolare, che doveva svolgersi nel 2004, è stato rinviato al 2008 quando, in corrispondenza con le elezioni statali, il 52,7% dei votanti si è espresso a favore della Proposition 1A (Safe, Reliable High-Speed Passenger Train Bond Act for the 21st Century) e della emissione di obbligazioni per 9 miliardi di dollari.

I lavori per la realizzazione della rete ad alta velocità sono effettivamente iniziati soltanto nel 2013 e, malgrado gli altissimi, e crescenti, costi, e la decisa opposizione manifestata dai gruppi di interesse strettamente collegati alla ‘lobby autostradale’, hanno continuato a procedere.

L’articolo del San Francisco Chronicle, riportato nel NYT del 13 febbraio , descrive l’andamento dei lavori e il fervore dei cantieri, ma anche la preoccupazione che alle inevitabili opposizioni locali venga ad aggiungersi una opposizione che potrebbe, quella sì, rappresentare un colpo mortale per il destino del progetto.

Riuscirà Trump a bloccare i lavori in corso della prima linea di alta velocità ferroviaria negli Stati Uniti? Gli basterebbe sospendere i finanziamenti del governo federale nei confronti di uno Stato, la California, che il neo-eletto ‘presidente/dittatore’, portatore degli interessi e delle aspirazioni dell’estrema destra più reazionaria, ha già più volte definito, con il suo garbo istituzionale, “fuori controllo”.

A.- Avvenimenti tragici hanno contrassegnato la mancanza di abitazioni per i lavoratori immigrati, fossero anche ridotte al minimo le dotazioni... (segue)

A.- Avvenimenti tragici hanno contrassegnato la mancanza di abitazioni per i lavoratori immigrati, fossero anche ridotte al minimo le dotazioni. Le storie crudeli dei raccoglitori di frutta e verdura nel meridione costretti a vivere quasi senza alcun riparo o, al meglio, in accampamenti di lamiera, cartone ed eternit residuale, ci hanno raccontato persino di sangue e di morte. Casi di infima minoranza, ci dicono istituzioni e popolazioni, locali e no. Ancor meno di quelli riguardanti i Rom, episodi che pure non hanno ceduto molto ad altri in materia di rischio vitale per persone e famiglie. Fra le comode dimenticanze («è passato tanto tempo…»): l’incendio accuratamente completo dell’insediamento di Opera (comune confinante con Milano), appiccato da cittadini razzisti scatenati dall’odio e dal rancore verso l’altrui «diversa» esistenza stessa.

B.- Detratto tutto questo ma anche quanto del rimanente non conosciuto nel modo di abitare dei residenti italiani e stranieri (ora circa 5 milioni) sia presumibilmente non conforme a misura e qualità richieste dalla partecipazione di tutti al processo sociale che distingue il nostro paese, dobbiamo per l’ottava volta (dunque il settimo sigillo non ha sancito il compimento!) richiamare l’attenzione di eddyburg al problema della casa[i]. Infatti, nessuno qui si pone dalla parte menzognera di un’idea di mercato iper-liberistico già attuato o prossimo all’esclusività: «lasciato a briglia sciolta il mercato trova esso la piena soddisfazione del problema». Lo proponiamo invece secondo una concezione sorta nell’immediato dopoguerra e cresciuta nella realtà degli anni Sessanta, per diventare concreto obiettivo (illusorio non solo per i liberisti antemarcia): la casa per tutti, parallelamente al lavoro per tutti.

C.- Riprendiamo in mano un opuscolo 15x21 di trenta pagine con una bella copertina gialla edito a Milano da Gőrlich nel 1945, macerie dei bombardamenti ancora fumanti. È quel fiducioso entusiasta di Piero Bottoni l’autore (iscritto al Pci dal 1944, tra parentesi). Il titolo: La casa a chi lavora[ii]. Carta povera, da dopoguerra; bel carattere, bodoniano; stampa chiara, forte; il meglio possibile dati i tempi. La finta fascetta stampata sulla copertina reca l’assunto: «L’abitazione non più oggetto della speculazione individualistica, ma servizio della vita collettiva. L’abitazione, come l’alimentazione, diritto base dell’uomo sociale derivante dal dovere del lavoro. “L’assicurazione sociale per la casa”, la nuova previdenza atta a garantire vita natural durante a tutti i lavoratori l’uso di un’abitazione confortevole e sana».

D.- Per un cittadino d’oggi insaccato nel neoliberismo queste affermazioni di principio parrebbero oscure, incomprensibili o, se capite, pericolose. Ad ogni modo il testo resta un saggio di inquadramento di diversi temi urgenti (fra cui una prospettiva di capovolgimento nel campo urbanistico ed edile) che s’involgono intorno alla questione centrale; e se non approderà alla reale attuazione del progetto più che previdenziale, influirà di qualcosa sulla costituzione dell’Ina-casa, sullo sviluppo degli Istituti autonomi per le case popolari (Iacp) e, nell’immediato, sui criteri di assegnazione degli alloggi «sinora al di fuori dei “diritti del lavoro”»: infatti, «la crisi degli alloggi per il popolo già prima della guerra esisteva per un complesso di cause» fra le quali la negazione di un diritto «derivante… dal dovere del lavoro» accompagnata dall’«assoluta indipendenza di luogo fra gli organismi del lavoro e le abitazioni per i lavoratori… e un assoluto agnosticismo dell’industria nei confronti del problema sociale della casa».

E.- La relazione originaria fra dovere e diritto approderà a un principio basilare della sinistra sindacale e politica, l’identificazione dei due diritti, al lavoro e alla casa; ma solo dopo che il primo, scolpito fra le più chiare rivendicazioni dell’Assemblea costituente e premessa alla definizione del primo articolo della Costituzione, pareva conquistato una volta per tutte al momento del nuovo contratto all’Alfa Romeo (1963), manifesto di un sensibile spostamento di reddito dal capitale/profitto al lavoro/salario. La rivendicazione del diritto alla casa non apparteneva alla tradizione culturale dei sindacati. Quando Bottoni pubblicò il suo progetto, la loro rifondazione non era compiuta, le propaggini disastrate della struttura corporativa fascista non poteva non averla ritardata. Così fu lui, architetto già impegnato nella ricostruzione materiale e morale del paese (anche consultore nazionale della Camera dei deputati nel 1945-46) ad arrivare primo nel porre sul tavolo delle misure urgenti quelle dell’abitazione per tutti, aprendo un orizzonte sconosciuto nel campo dei diritti. Che i «tutti» fossero lavoratori pareva scontato (in realtà famiglie di lavoratori, secondo il modello una famiglia = un alloggio adeguato).

F.- Furono invece i sindacati, seppur in ritardo rispetto alle lotte per i contratti, a organizzare il primo e poderoso sciopero generale «per la casa», 19 luglio 1969 (preceduto il 3 dallo sciopero operaio di Torino chiuso dal lungo scontro in corso Traiano fra manifestanti e polizia) e a indicare un obiettivo più radicale, emblematizzato dall’espressione «casa uguale a servizio sociale». Si saldavano in uno i due diritti e si aprivano speranze di nuove costruzioni sociali e politiche. Inoltre la parte più avanzata dei movimenti di opposizione traeva da «casa e lavoro» una nuova rivendicazione di straordinario valore sociale e politico: il diritto alla città. Il libro di Henri Lefebvre, Le droit à la ville era stato pubblicato in Francia nel 1968[iii], prima del maggio. «Questo diritto… non può che formularsi come diritto alla vita urbana trasformata dal superamento delle leggi del mercato, del valore di scambio, del denaro e del profitto».[iv] Quasi mezzo secolo dopo Salvatore Settis ricupererà il principio lefebvriano davanti a una Venezia in corso di spopolamento irreversibile e in vendita, anzi venduta a un turismo internazionale incolto, cieco, distruttivo. La stessa civiltà urbana è in pericolo, e potrebbe travolgere l’intera società umana[v].

G.- Al di qua dell’ipotesi rivoluzionaria dello storico e sociologo francese, all’epoca poteva essere ancora viva e crescere la speranza che la città confermasse e arricchisse la capacità di assicurare a uomini e donne il lavoro e l’abitazione. Intanto il riformismo socialdemocratico europeo, quando attuava importanti programmi per l’abitazione pubblica nella città industriale accettava che il capitalismo moderno urbano dovesse sostenere la riproduzione, di cui componente fondamentale era l’abitazione adeguata al bisogno, per assicurarsi un buon andamento della produzione. Quando la globalizzazione ridurrà in briciole le precedenti coerenze economiche e sociali, il capitale potrà dislocare la produzione ovunque, muovere i lavoratori a piacere usufruendone la riproduzione, ma fregandosene di farli abitare degnamente.

H.- Gli Istituti autonomi avevano agito in conformità alla situazione politica. L’Iacpm (milanese) fin dal primo Novecento distingueva il capofamiglia lavoratore come assegnatario dell’abitazione: prevalentemente operaio (67% 1909-10; 58 % 1919-20) fino a che la logica fascista non cominciasse a privilegiare altri ceti (1923-24, operai 49,6%; 1926-27, operai 46,8%)[vi], allineandosi con le disposizioni del Testo unico 1919 che nel campo dell’edilizia popolare stabiliva condizioni molto favorevoli alla classe media (appartamenti anche da dieci stanze!). Nell’immaginario catalogo delle realizzazioni negli anni Trenta a Milano, periferiche ma non tutte ristrette e mediocri per forma (Iacp era già diventato Ifcp, Istituto fascista case popolari), emerge il quartiere Fabio Filzi, in Viale Argonne, noto esempio di un nitido razionalismo milanese sia per impianto urbanistico sia per l’architettura (Albini, Camus e Palanti, 1935-38). Nel secondo dopoguerra e nei successivi decenni l’Istituto sarà presente anche con altri istituti come il Comune e l’Incis nella costruzione di nuovi quartieri. Sarà Il QT8, quartiere sperimentale dell’ottava Triennale (1947) progettato da Bottoni dal 1945 insieme al parco del Monte Stella, capolavoro di architettura naturalistica, a mostrare l’alta qualità urbanistica e architettonica a cui può giungere la quartieristica popolare. Solo alla fine degli anni Cinquanta un'altra realizzazione di Iacp e Incis, il quartiere Feltre prossimo al fiume Lambro (confine orientale del comune), progetto di diversi architetti coordinarti da Gino Pollini, presenterà una bella abitabilità.

I.- La stragrande parte degli insediamenti saranno deludenti per ubicazione anti-urbana, disegno d’insieme e degli edifici, né potranno rispondere almeno quantitativamente alla domanda di casa d’affitto a canone controllato. Non sarà unica responsabile la soppressione degli Iacp (che comincerà dal 1977) e la loro trasformazione in aziende: Ater la sigla, cioè Azienda territoriale per l’edilizia residenziale, il territorio sarà quello della regione; la prima lettera del nome potrà sostituire la t di territorio (in Lombardia, Aler, che gestirà anche l’edilizia sociale del Comune fino a che sarà da questi affidata a Metropolitana Milanese). Eloquente l’abolizione del termine popolare e la sostituzione di istituto con azienda. Che infatti non nasconde la voglia di privatizzazione, non tanto «giuridica» quanto per il modo di amministrare e per quale scopo. Si comincerà col privatizzare il patrimonio privilegiando la proprietà dell’alloggio contro l’originaria funzione sociale dell’affitto, si venderà non solo agli inquilini presenti ma anche sul mercato generico, si lasceranno peggiorare le condizioni di degrado; talvolta ne approfitteranno gestioni di tipo mafioso speculando su occupazioni abusive di famiglie senza casa. Bisogna ricordare che la Lombardia era ed è governata dalla destra (Lega e alleati). Ugualmente il Comune di Milano, amministrato a lungo da Forza Italia e alleati prima del tardo centrosinistra, non poteva esprimere alcun interesse a contrastare le immobiliari, per condivisione dei principi neoliberisti fautori della massima deregolamentazione dei rapporti economici e sociali in ogni campo, non ultimi lavoro e casa.

Uno sguardo statistico con sorpresa

K.- Bisognerebbe sempre dubitare dell’Istat quando pubblica per la prima volta i risultati di un censimento. Lo stesso istituto li definisce «primi risultati» o «risultati provvisori». Anni dopo arrivano i «risultati definitivi». E le interpretazioni possono cambiare, anche radicalmente. Capita con la revisione del censimento 2011 verso la fine del 2014. L’aumento modesto delle abitazioni in totale sembrava dovuto alla diminuzione degli alloggi non occupati (emblema dello spreco, Italia primatista europea) da 5,640 milioni a 4,865. Ah! finalmente un segnale positivo... I tabulati definitivi mostrano un capovolgimento: abitazioni 31,208 milioni invece che 28,864 (errore incredibile), occupate 24,135, non occupate ben 7,072 milioni, il 22,6%, nuovo primato. Per l’Istituto gli alloggi non occupati possono essere «vuoti» o «occupati da non residenti». Sappiamo che i Comuni accoppiano strettamente la residenza all’obbligo di «stare» in una casa con indirizzo civico preciso, la condizione che non lo soddisfa è rara; ad ogni modo, utilizzando numeri non revisionati risulterebbero meno di mezzo milione le famiglie in abitazioni senza avere la residenza. Oltre alla coabitazione, che permane intorno agli 800.000 casi, esiste la sistemazione scandalosa in baracche, tende e simili che riguarderebbe circa 71.000 persone. Numero di sicuro molto inferiore alla realtà, ma che l’Istat cerchi di individuare gli homeless significa riconoscimento di un fenomeno drammatico in aumento (più che triplicato – sempre secondo l’Istat), distintivo dell’allineamento italiano alla coerenza capitalistica odierna.

L.- La proporzione degli alloggi vuoti, seconde, terze… abitazioni, o libere per affittarle o venderle o tenute artatamente fuori mercato per favorirne l’aumento del prezzo o rallentarne la caduta in tempi di crisi (nell’insieme circa il 5-6%), è risultata ancora del 21%, altro che 17 % calcolato al momento della prima diffusione dei dati censuari. Allora la gran quantità di abitazioni non occupate definite dall’Istat «per vacanze o fine settimana» continuano a rappresentare una parte dell’irrisolta questione dell’eccesso di produzione. Da oltre quattro decenni ripetiamo che in Italia abbiamo prodotto troppe case, soprattutto le case che non servono, tra l’altro componenti non secondarie del consumo irragionevole di suolo; mentre resta viva e senza risposta adeguata la domanda di case popolari specialmente nelle grandi città.

Concludiamo riportando il valore Istat circa il cosiddetto titolo di godimento dell’abitazione relativo alla proprietà. Che ristagna attorno a un dato del 72%; sarebbe probabilmente più alto se lo ricavassimo dai consuntivi dell’Agenzia delle entrate. L’ipotesi di Berlusconi governante, proprietà della casa all’80%, sembra un obiettivo (ammesso che lo sia) difficilmente raggiungibile.

[i] Vedi gli articoli:
1.- Esiste ancora una «questione delle abitazioni»?, in eddyburg, 10 novembre 2005, poi in L’opinione contraria, Libreria Clup, Milano, 2006, p. 103.
2.- Avere non avere casa a Milano, idem, 17 marzo 2006, poi in idem, p. 147.
3.- La casa della città pubblica. Bigino di storia per la scuola di eddyburg, in eddyburg, 18 giugno 2006, poi in idem c.s. , p. 165.
4.- Allora esiste ancora il problema della casa?, in eddyburg, 5 marzo 2008, poi in Libere osservazioni non solo di urbanistica e architettura, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2008, p. 143.
5.- Come dare l’ultima mazzata alla città pubblica, in eddyburg, 8 gennaio 2010, poi in Promemoria di urbanistica, architettura, politica e altre cose, Maggioli, 2010, p. 129.
6.- Un po’ di conti sulla casa, in eddyburg, 25 novembre 2010.
7.- Equivoci, ambiguità ed errori del censimento, in eddyburg, 8 maggio 2012.
[ii] Il testo è l’ampliamento e l’approfondimento di un articolo apparso in «Domus», agosto 1941.
[iii] Edizione italiana: H. Lefebvre, Il diritto alla città, introduzione di Cesare Bairati, Marsilio, Padova 1970.
[iv] C. Bairati, Ivi, p. 14.
Quasi mezzo secolo dopo Salvatore Settis richiamerà i principi lefebriani in un libro su una Venezia in via di continuo spopolamento e di svendita a un rovinoso turismo internazionale. È in pericolo la stessa civiltà urbana. Solo comprendendo come e da chi i diritti sovrani sono calpestati si potrà organizzare una riscossa.
[v] Cfr. S. Settis, Se Venezia muore, Einaudi, Torino 2014, p. 96.
[vi] Dati percentuali in D. Franchi, R. Chiumeo, Urbanistica a Milano in regime fascista, La Nuova Italia Editrice, Firenze 1972, tabella di p. 143

... (segue)

In Sardegna il progetto di industrializzazione, oggi tra le cause riconosciute della disgregazione sociale e dello spopolamento dell’interno, iniziò con il primo piano di Rinascita, all’alba degli anni Sessanta, dopo una lunga preparazione politica nazionale e locale. Ci dotammo perfino di un assessorato alla Rinascita. Ma quei circa mille miliardi per rinascere attizzarono immediatamente l’interesse di grandi capitali lontani e il bambino isolano nacque blu. Si divise il territorio per zone omogenee e con squilli di trombe dorate partì il processo di industrializzazione che però mostrò i segni di una precoce, grave sofferenza sin dai primi anni Settanta.

Molte voci inascoltate si sollevarono contro. Ma fu inutile perché le forze in campo erano impari. E grande parte della politica locale praticava un credo industrialista. Nel ’72 la rovina del settore petrolchimico era già così grave che si finanziò nel ’74 una seconda Rinascita, però nel ’75 chiude il polo petrolchimico di Porto Torres. Oggi Porto Torres è ridotta a contenitore di veleni intollerabili.

Insomma, era iniziata una serie di fallimenti dolorosi, di crack, di insolvenze, di crisi e dissesti. L’inverosimile cartiera di Arbatax nasce nel ’64 e, di insuccesso in insuccesso, chiuderà definitivamente dopo 20 anni di sostegni a vuoto da parte della regione e dello stato. Nel ’73 nasce l’ancora più incredibile polo di Ottana (il greggio veniva trasportato su gomma sino al centro dell’isola) e muore presto lasciando un deserto e una popolazione di spaesati sgomenti. A Villacidro una fabbrica di vagoni ferroviari, la Keller, apre negli anni Ottanta e, dopo una lunga agonia, fallisce nel 2014. Rockwoll, produzione di lana di roccia, ha una storia di patimenti sino alla cassa integrazione iniziata nel 2008. La tortuosa vicenda della Vinyls, polimeri plastici a Porto Torres, si conclude qualche anno fa con la chiusura degli impianti.

La multinazionale Alcoa installa negli anni Novanta un nuovo ciclo dell’alluminio nel Sulcis costituito da importazione della bauxite dall’Australia (anche in Sardegna c’è bauxite ma la miniera di Olmedo chiude in questi giorni), lavorazione del prodotto intermedio che è l’allumina (durante il quale si rilasciano i tossici fanghi rossi) e infine la fusione del metallo. Veniva raccontato come un ciclo perfetto. Ma Alcoa chiude la fonderia nel 2014 dopo un’interminabile vai e vieni. Fare alluminio in Sardegna è svantaggioso e chiudono. Oltre alla tragedia sociale la produzione di allumina ha lasciato un’immensa quantità di veleno a cielo aperto più di cento ettari, a due passi dall’abitato di Portoscuso. Una perizia del politecnico di Torino tratteggia il quadro drammatico di un disastro ambientale che perdurerà secoli. Un incubo, altro che “sogno industriale”.

Ora esiste un altro tragico progetto di riavvio degli impianti dell’allumina. E si dimentica il processo penale in corso per l’inquinamento (imputato un amministratore delegato di Eurallumina che oggi siede al tavolo della discussione), si dimentica che quei terreni sono sotto sequestro giudiziario, non si fa cenno alle bonifiche obbligatorie e vogliono accumulare più veleni. Nell’oblio anche il rischio di malattia per gli abitanti e i dati epidemiologici inquietanti. Neppure una parola sul fatto che quell’area è un sito di importanza nazionale per l’inquinamento e che grazie a questa politica finalmente abbiamo anche noi un’importanza nazionale. E le centinaia di milioni di euro per il Piano Sulcis che dovrebbe fornire una via alternativa di crescita e progresso ad una delle aree più critiche d’Italia?

Però i fatti sono testardi e restano là a dimostrare che la visione di una Sardegna industriale ha creato un camposanto lavorativo e sociale in una grande porzione dell’isola. Poco aiuto alle imprese locali e, per decenni, rulli di tamburo e guide rosse ai Rovelli e a chiunque venisse da lontano a proporre le produzioni più incredibili e improbabili. Perfino felici che qualcuno distante ci avesse visto, convinti di entrare finalmente nella modernità e nella storia.

Ma oggi finalmente c’è un No, articolato e motivato, del Ministero dei Beni Culturali all’idea folle di riaprire un impianto che continuerebbe a rovesciare veleno infernale a Portoscuso. Qualcuno ha detto che può “rinascere l’alluminio sardo”. Be’, sarebbe un sollievo non sentire mai più parlare di rinascite e reincarnazioni, imparare a darci l’obiettivo di una condizione di normalità e di vivere in una regione finalmente normale. Nel 2012 due economisti, Francesco Pigliaru (oggi Presidente della Giunta sarda) e Alessandro Lanza, descrivono sulla Nuova Sardegna i danni del “modello” Alcoa e Carbosulcis che nel solo decennio 1985-1995 costarono in sussidi a fondo perduto 1200 miliardi di lire, più i contributi della Regione e dell’Enel che sopravvalutò del 100% il prezzo del pessimo carbone prodotto nel Sulcis. E pensare, scrivono Pigliaru e Lanza, che ogni lavoratore con tutti quei quattrini avrebbe avuto una dote di un miliardo di lire con una rendita mensile di circa 1400 euro per vent’anni. E a fine periodo il capitale iniziale invariato. Gli uffici regionali non hanno ancora concluso la valutazione di impatto ambientale sulla riapertura dell’Euroallumina però abbiamo la certezza che di veleni terribili ne avremmo sulla testa un volume enorme pari alla mole di un palazzo di 46 metri, quindici piani intrisi di tossine e della consistenza di un budino. Questo è previsto nel piano di riavvio.

Al No del Ministero dei Beni culturali tre senatori del PD - nostri contemporanei anche se reclamizzano un progetto riapparso da un tempo remoto - hanno accusato un rappresentante dello stato di aver bloccato il processo di riapertura con il suo parere negativo. Eppure glielo impongono le leggi, il diritto. Non un’astrazione sognante: il Diritto. E noi aggiungiamo che lo obbligano, oltre al piano paesaggistico e a varie altre norme, anche il naturale buon senso e il principio ancora più naturale di precauzione. Ma il mondo alle volte è a testa in giù. E così la politica, responsabile del fallimento economico, dell’avvelenamento dei luoghi e del mancato sostegno ai lavoratori, colpevole di una condizione feudale che fa del Sulcis una delle regioni più sofferenti d’Italia, anziché additare se stessa, indica come colpevole del “mancato sviluppo” un rappresentante dello stato perché non pronuncia un affabile sì a quindici piani di schifezze.

Il Messaggero veneto ha pubblicato, il 7 febbraio, lna lettera (“La lettera di Michele che si è ucciso a 30 anni”) che la rete dei social network ha ampiamente...(segue)


Il Messaggero veneto ha pubblicato, il 7 febbraio, luna lettera (“La lettera di Michele che si è ucciso a 30 anni”) che la rete dei social network ha ampiamente ripreso. È alla lettera di Michele che mi riferisco in questa riflessione.

Ci sono immagini che restano scolpite nella pietra. Sono immagini di realtà che, prima ancora, sono state incise per sempre nella carne e nelle ossa di chi le ha viste in faccia, e ne ha lasciato memoria. Una di queste è la topografia assoluta di Primo Levi de I sommersi e i salvati. Una realtà definitivamente e per sempre tripartita, i sommersi, i salvati; in mezzo, con i suoi contorni nebbiosi, la “zona grigia”.

Se il lager è, come suggeriscono alcuni forse non a torto, la metafora più pregnante del mondo in cui viviamo – allo stesso modo in cui si era detto che il carcere fosse la metafora par excellence degli Anni ’70 -, non è difficile oggi, in Europa, sapere chi siano i “sommersi”, qui, nei paesi che si protendono sul grande pietoso cimitero che è diventato il Mediterraneo. Sepolti nelle profondità marine perché la loro fuga non è andata a buon fine. Altri “sommersi”, che apparentemente ce l’hanno fatta perché ancora viventi, abitano i sotterranei e le friches delle nostre città, e a volte muoiono durante le rigide notti d’inverno.

Si può pensare che, per simmetria, “salvati” siano quanti semplicemente non sono finiti in fondo al mare – ma non è così semplice.

Si diceva dei giovani in fuga dall’Italia, lunga è la polemica sui cosiddetti “cervelli in fuga”, grandi sono i sacrifici e le aspettative che la nostra generazione di genitori ha investito sul buon esito di quella fuga. Perché quei figli siano, alla fine, i “salvati” dalle minacce del mondo. Un mondo che non c’è più la speranza di poter cambiare nell’arco di tempo della singola esistenza, un mondo in cui cercare luoghi al riparo.Dove stava Michele, che si è tolto la vita?, il ragazzo che ha lasciato quella lunga lettera che pesa come come un lucido, potente, ineludibile atto di accusa, in particolare, scrive, “un’accusa di alto tradimento”. Un atto d’accusa circostanziato, esploso nei dettagli.

Dove stava Michele, che ha scelto lucidamente la parte dei “sommersi”, perché dei sommersi sentiva di condividere la frustrazione, l’impossibilità di vivere per sopravvivere, il destino del “minimo”?

«Non posso passare la vita a combattere solo per sopravvivere, per avere lo spazio che sarebbe dovuto, o quello che spetta di diritto, cercando di cavare il meglio dal peggio che si sia mai visto per avere il minimo possibile.Io non me ne faccio niente del minimo, volevo il massimo, ma il massimo non è a mia disposizione»

Nel maneggiare la parola del ragazzo morto sorge un fastidioso spontaneo pudore - e tuttavia anche la convinzione che a quella parola, a quella lettera che ha curato - e che comunque ha saputo scrivere magistralmente, dall’altra parte del cielo malato della sgrammatica fastidiosa dei social -, a quelle ultime parole chiare cui ha affidato il suo pensare e sentire Michele tenesse, e tenesse anche al fatto che venisse letta.

Tutto si scrive perché, prima o poi, qualcun altro legga…

«Sono… stufo di invidiare, stufo di chiedermi cosa si prova a vincere, di dover giustificare la mia esistenza senza averla determinata, stufo di dover rispondere alle aspettative di tutti senza aver mai visto soddisfatte le mie, stufo di fare buon viso a pessima sorte, di fingere interesse, di illudermi…»

Quello che appare in queste parole è un mondo dove “vincere” è divenuto nuovamente in modo strisciante un imperativo categorico – per un’intera generazione di giovani occidentali. Un mondo che impone di “vincere” può uccidere i propri figli in molti modi: Quello in cui è morto Michele è uno di questi.

Ma Michele - allo stesso modo dei corvi del SonderKommando, che hanno sepolto la loro storia dentro barattoli-stagni all’ombra delle betulle bianche di Birkenau -, Michele ha lasciato scritto, chi e come lo ha ucciso. Condannato nella “zona grigia” del “sopravvivere” al “minimo”, poiché niente di più avrebbe avuto chi come lui appartiene a una generazione perduta - consapevole tuttavia, e desiderante, del “massimo”, e stanco di “invidiare”, lui, che pure sopravvivere avrebbe potuto, ha scelto il reticolato.

«Da questa realtà non si può pretendere niente. Non si può pretendere un lavoro, non si può pretendere di essere amati, non si possono pretendere riconoscimenti, non si può pretendere di pretendere la sicurezza, non si può pretendere un ambiente stabile».

Ci si chiede in giro che cosa avrebbe potuto fare ognuno di noi: la potenza della parola di Michele fa male, piega la parola, irride il dolore, cancella il senso.Ci si può chiedere però, al contrario, quanti di noi o dei nostri prossimi non siano in realtà già molto vicini, alle condizioni di Michele: non condizioni psichiche o fisiologiche o altro. «Condizioni oggettive». Perché quanto ci separa dall’abisso dei sommersi, anche qui, nel cuore dell’Occidente, può trovarsi ad essere solo un crosta sottile. Che può frantumarsi sotto i nostri piedi per un battito d’ali…

Riconoscere Michele in noi stessi - la sua frustrazione nella nostra, la sua delusione nella nostra, la sua miseria nella nostra, la privazione del suo diritto nella nostra, la sua sensibilità “sbeffeggiata” in quella di ciascuno di noi - questo può essere un modo per far qualcosa che forse avrebbe desiderato: cercare di capire…Fino a che quella crosta sottile non si frantumi anche sotto i nostri piedi…

(segue)

Volete avere, in frammento, un’idea della pochezza culturale e della mediocrità irrimediabile delle nostre classi dirigenti? Osservate le vicende del nuovo stadio della Roma. Già un nuovo stadio in una città come la Capitale, resa ormai informe dalla cementificazione dell’ultimo quindicennio, dovrebbe apparire come un delitto urbano. La città è soffocata dal traffico per i troppi poli di espansione costruiti senza collegamenti in ferro. Esistono già due stadi, uno dei quali il Flaminio è in uno stato vergognoso di abbandono. E nessuno si sogna di ristrutturarlo. Le squadre di calcio , in Italia, perdono costantemente spettatori e hanno una media di presenze a partita di circa 21 mila spettatori, che è fra le più basse d’Europa. La Roma, fra l’altro, è fra le squadre italiane quella che subisce, insieme al Napoli, la maggiore contrazione: - 17,8% nell’ultima stagione .

Ebbene, sembra che la costruzione del nuovo stadio debba decidere i destini prossimi venturi della città. «Vogliamo il nostro Colosseo moderno» twitta il capitano Francesco Totti, che spende in questo modo “edificante” - è il caso di dirlo - la propria popolarità ricattatoria contro la Giunta e soprattutto contro l’assessore Berdini, che pretende il rispetto, quanto meno, del Piano regolatore. Questi eroi dello sport, che non vediamo mai spendere la loro popolarità per rivendicare una migliore condizione del vivere civile, per la pulizia delle strade, per la sicurezza delle nostre scuole, si fanno vivi solo quando si tratta di difendere i recinti del loro sopramondo di privilegi.
A Totti si è poi aggiunto l’allenatore della Roma, Spalletti, che ha dettato le linee-guida della futura programmazione urbanistica della città. La quale - a suo dire- si deve dotare dei «suoi stadi» , come Londra e le altre città europee. Non poteva mancare naturalmente il rafforzo - o l’endorsement, come direbbero gli anglisti - del presidente della Regione Zingaretti, che crede molto nel cemento per lo sviluppo economico di Roma e dintorni. Ma in soccorso della nobilissima causa è arrivato addirittura il cinguettio – la regressione zoologica dell’umano parlare ci conforta molto per l’avvenire - dell’ex presidente del Consiglio: «Se si dice no a tutto, come accade in qualche città, si blocca il futuro. E ci si condanna a vivere di rimpianti».
Il nostro futuro è il nuovo stadio della Roma? A questo ci siamo ridotti? Vi immaginate che immane perdita e da quali cocenti rimpianti saremmo tormentati se non si dovesse costruire? È questa la visione e l’orizzonte progettuale dell’uomo nuovo osannato da mezza Italia? E nessuno grida che siamo alle solite, che un ceto imprenditoriale rozzo e predone e un’opinione pubblica drogata persistono in una strada fallimentare di sviluppo economico? La vecchia strada che punta non a investimenti innovativi, in tecnologie e servizi, ma all’edificazione e al consumo di suolo quali leve per la cosiddetta crescita? Oggi dovremmo considerare penalmente rilevante il consumo di suolo in un Paese dissestato come l’Italia e a Roma facciamo finta di niente, solo perché l’inverno è stato secco. Ma è questa, ahimé, la memoria civile e territoriale d’Italia. Ne riparleremo alla prossima alluvione.

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Lo spazio pubblico se è veramente tale rappresenta il luogo ideale per manifestare politicamente. Quando non lo è, la manifestazione serve a mettere in risalto questo deficit democratico urbano. Los Angeles Times, 2 febbraio 2017

Mi occupo dei rapporti tra protesta politica e forma urbana da oltre vent'anni, dai tempi in cui scrivevo la mia tesi specialistica nei primi anni '90, e con terribile dilettantismo e ingenuità mescolavo storia dell'architettura e scienze politiche. Ma non credo proprio di aver mai assistito a nulla di simile a quanto accaduto in questi giorni all'aeroporto internazionale di Los Angeles e in altri del paese.

Reagendo all'ordine esecutivo con cui il presidente Trump sospendeva l'accoglienza dei richiedenti asilo, e impediva temporaneamente l'accesso al paese ai cittadini di sette nazioni islamiche, sono scesi in campo i contestatori, dall'aeroporto internazionale Birmingham-Shuttlesworth in Alabama allo O’Hare di Chicago. Hanno invaso parte degli scali di New York e San Francisco, e i terminali di Dallas, Boston, Miami, Washington, D.C., Phoenix, Seattle, Albuquerque, Denver, Missoula in Montana, Portland, Maine. Certo in termini di numeri – quantità assolute – non si trattava di manifestazioni paragonabili alla marcia delle donne il giorno dopo l'insediamento di Trump. Solo a Los Angeles, con le donne si contavano persone a centinaia di migliaia, mentre i contestatori al Tom Bradley International Terminal erano alcune migliaia, forse decine, di migliaia.

Ma per certi versi l'effetto di questa protesta negli aeroporti è stato maggiore, o quantomeno da valutare in termini diversi. Certamente più focalizzato, dato che sono tanti gli immigrati che si muovono in aereo. Ed è certamente vero che i terminal internazionali degli aeroporti americani, per quanto se ne detestino le lunghe code e le forme anonime, ben simboleggiano il tipo di cultura cosmopolita che il nazionalismo della retorica «America First» degli elettori di Trump ha stigmatizzato. Da quel punto di vista, si può quasi quasi interpretare la stessa ordinanza di Trump come una specie di contestazione, contro l'architettura della globalizzazione e della libera circolazione, delle persone e delle culture, tra questo paese e il resto del mondo.

Non credo proprio che Stephen K. Bannon, la mente dietro alla strategia dell'ordinanza, sia stato più di tanto colpito da quel caos negli aeroporti del paese. Certo la fulmineità del decreto, e l'altrettanto fulminea reazione dei contestatori, paiono identiche nel loro essere frenetiche, una caratteristica ormai tipica di questo mandato presidenziale, ma la cosa nuova delle manifestazioni negli aeroporti è il modo in cui si usa quello spazio urbano: un ambiente che consideriamo architettonicamente carente, diventa invece un vantaggio per la lotta politica. Alcune delle proteste (che hanno assunto nei vari luoghi forma di cortei, sit-in, preghiere di gruppo, o altre modalità di disturbo dell'attività degli scali) si sono svolte dentro i terminali, quegli spazi dai pavimenti lucidi, enormi come hangar, che sono quasi identici in tutto il mondo. Là dove contestatori o mezzi di informazione non sono riusciti a occupare quegli strategici spazi interni, si sono quantomeno rilevate utili informazioni normative. Alcuni giornalisti sono stati allontanati dal terminale 4 del JFK mentre si svolgeva la protesta, in quanto spazio di proprietà privata, a differenza del resto dell'aeroporto, pubblico e gestito dalla Port Authority di New York e New Jersey.

Proprio per questo genere di restrizioni, le proteste più vistose hanno avuto luogo all'esterno dei terminali, dentro quelle strette fasce dove l'aeroporto sfuma nella città, sulla linea di demarcazione tra un interno presidiato e un esterno imprevedibile e tumultuoso. A differenza della piazza pubblica, ottimo luogo per la manifestazione politica nella misura in cui è effettivamente pubblica, l'aeroporto pare un luogo adeguato, proprio per le sue carenze spaziali che di solito non notiamo. Marciapiedi strettissimi; passerelle pedonali che scavalcano i parcheggi; minuscole isolette sicure nell'asfalto per aspettare l'autobus navetta; strade perimetrali che circondano qualunque aeroporto: è questo, il palcoscenico su cui la rappresentazione risulta più efficace per i contestatori, sia perché si blocca il traffico, sia perché i mezzi di informazione ne traggono l'immagine di una folla arrabbiata e vociante.

In aeroporti già molto sovraccarichi come quello di Los Angeles, già gli spazi operano al limite ogni giorno, e il blocco definitivo, la trombosi urbana, è esattamente il risultato ottenuto e sfruttato dai contestatori. Un'informazione che ovviamente arriva anche alla controparte. Greg Lindsay - della New Cities Foundation e coautore insieme a John D. Kasarda del libro Aerotropolis: The Way We’ll Live Next - sottolinea come quel problema della terra di nessuno non sia solo spaziale, ma anche legale: «Con le proteste si capisce chiaramente come le autorità responsabili dovrebbero risolvere alcuni nodi fondamentali per impedire l'accesso. A New York il governatore Andrew Cuomo ha dovuto chiedere alla polizia della Port Authority di riaprire l'ingresso del treno, che era stato chiuso proprio per impedire che i contestatori arrivassero in metropolitana».

Non sappiamo come andrà a finire. Magari queste manifestazioni negli aeroporti si esauriranno, man mano nuove decisioni della Casa Bianca innescheranno altre diverse contestazioni. E del resto ce lo ha spiegato chiaramente Lindsay, quanto è più semplice fare ordine pubblico in un aeroporto, rispetto a un centro città. Però qualcosa mi dice che gli attivisti più attenti, in queste manifestazioni riusciranno a individuare qualche genere di modello ripetibile.

(c) Los Angeles Times, 2 febbraio 2017 - Titolo originale: Building Type: The airport as public square and protest central – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Isabella Conti, la sindaca di San Lazzaro di Savena che si è opposta alla “colata di cemento” voluta da privati e cooperative, ha espresso, un po’ a sorpresa, una critica decisa, persino sdegnosa... (segue)

Isabella Conti, la sindaca di San Lazzaro di Savena che si è opposta alla “colata di cemento” voluta da privati e cooperative, ha espresso, un po’ a sorpresa, una critica decisa, persino sdegnosa, nei confronti di contenuti e relatori del convegno "Fino alla fine del suolo", organizzato il 3 febbraio a Bologna dai gruppi consiliari regionali del Movimento 5 Stelle e de L’Altra Emilia-Romagna.

Dice fra l'altro Conti: "Non tollero questo atteggiamento da filosofi in punta di penna o noi qui in trincea a trovare il meglio per i nostri territori...".

Le sfugge, forse, o forse non ricorda che per esempio Vezio De Lucia – uno dei relatori -, già dirigente dei Lavori pubblici, cacciato all'epoca dal ministro Giovanni Prandini, è stato fra le tante altre cose assessore all'Urbanistica del comune di Napoli... Già, perchè, amministratori o tecnici, siamo stati tutti quanti "in trincea", e alcuni di noi lo sono stati in situazioni e frangenti decisamente difficili...

Questo “vuoto di memoria”, diciamo così, dà qualche indizio eloquente sul retroterra reale di questa leva di amministratori e politici, che a tutti i costi e in ogni occasione rivendica la propria condizione di vaterlos, senza-padre. Questa “orfanità originaria”, rivendicata, esibita, sfidante, è tema ormai ricorrente nella politica italiana, da quando le interpretazioni “classiche” della psicanalisi – Freud, Sofocle, Edipo… - sono state pubblicamente messe in mora dal nostro (ex)-giovane ex-premier, a favore invece della costellazione propugnata dallo psych più à la page Massimo Recalcati: – Recalcati (appunto!), Omero, Telemaco… “Siamo la generazione di Telemaco”, ebbe a dire l’ex-giovane ex-premier…

Salvo poi, come ha notato con particolare e piacevolmente ironica profondità Alfredo Moranti sul suo blog "Il carteggio Aspern", salvo poi, non appena qualcuno tira in ballo l’eredità in termini di dobloni (il patrimonio dell’ex PCI, per capirci), rivelarsi molto diversi dall’adamantino virgineo figlio di Ulisse, per mostrare al contrario una meno nobile parentela con i Proci…

C’è un’altra fondamentale differenza: diversamente da chi mostra simili “vuoti di memoria”, Telemaco ricorda, per questo attende, per questo non cede. Per questo, infine, riconosce il padre, si riconosce non-orfano. Gli orfani originari rifiutano di ricordare – e specie se si tratta del passato di qualcun altro.

C’è spazio solo per il proprio presente – per la patetica nostalgia del proprio, luminoso, futuro…

"Ciò che hai ereditato dai padri, dice Goethe, riconquistalo, se vuoi possederlo davvero". In questo caso, invece, all'eredità si rinuncia con decisione e ripulsa.

Senza nemmeno conoscere la sua consistenza, a prescindere. È sufficiente che faccia capolino un minimo di prestigio professionale o accademico della generazione di chi, anziché trovarsi in alto mare o tra le braccia di Circe, come ogni serio buon padre Ulisse dovrebbe, non solo torna, ma osa anche parlare, perchè la generazione dei senza-padre metta mano metaforicamente, come quel celebre Ministro della Cultura, "alla pistola". Perchè si deve impedire in ogni modo che chi è tornato metta le mani su quell’arco che, solo, è in grado di tendere…

Noi non siamo stati una "generazione Erasmus" - a parte l'arretratezza dell'integrazione europea (Erasmus era di là da venire) -, molti di noi hanno avuto l'ambizione di poter mettere le proprie piccole o grandi capacità al servizio di questo Paese.

E qualcosa vorrà dire se, oggi, chi si trova in quella che fu la nostra condizione - i giovani, e soprattutto i giovani dotati di alta formazione -, opta decisamente e senza esitazione o rimpianti per la fuga dall'Italia - esplicitando la convinzione che, quali che siano le tue intenzioni o le tue capacità, per il Paese non c’è forse quasi più niente da fare..

La "trincea" resta allora appannaggio di chi programmaticamente non ha eredità nè memoria, di chi non avrebbe mai l'umiltà di ammettere che si trova nella necessità di "riconquistare" qualcosa - dal momento che detiene, e solo per la sua nascita, sotto il pastrano il bastone di maresciallo...

Purchè quell’arco di cui si diceva resti il più possibile fuori portata, sepolto nel “passato” che non è il caso di ricordare…


L’intervista a Isabella Conti, di Beppe Persichella, è su Il Corriere di Bologna, 5/2/2017, “Conti contro gli ambientalisti – “Sono filosofi, noi in trincea”

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progettato e prodotto grazie al sostegno di Ikea Foundation, la branca “umanitaria” creata nel 1982 dalla omonima società svedese.

Negli ultimi anni, la fondazione ha sempre più concentrato l’attenzione verso i “bambini in situazioni disagiate” ed ha individuato quattro temi cruciali per migliorarne le condizioni di vita: un luogo da chiamare casa, salute, educazione, reddito familiare. Nel 2013 ha deciso di finanziare Better Shelter, un’impresa “sociale” che aspira a diventare “leader nella messa a punto di soluzioni abitative di emergenza”, consentendole di realizzare il progetto e di sperimentarlo in situazioni concrete. Il risultato è una serie di elementi modulari, che smontati stanno in una confezione piatta facilmente trasportabile, e che possono essere assemblati in 4 ore. Better Shelter costa il doppio di una tenda, ma dura molto di più, è più spazioso, consente un migliore controllo della temperatura interna e garantisce sufficiente energia solare per poter accendere una luce di sera.

Oltre che a finanziare la ricerca e la sperimentazione, il contributo della fondazione è stato determinante per mettere in contatto la società con l’UNHCR, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati e della quale Ikea è uno dei partners più importanti. Va tenuto presente, a questo proposito, che “dal momento che il numero di profughi continua a crescere e che i finanziamenti a disposizione di UNHCR continuano a diminuire”, l’agenzia sta incoraggiando la collaborazione con il settore privato per trovare “nuove soluzioni e innovazioni tecnologiche” e meglio assistere le persone che sono state obbligate a lasciare le loro case.

Nel 2015, quindi, UNHCR ha comprato le prime 30000 confezioni di Better Shelter ed è molto soddisfatta di questa “partnership strategica”, che mostra come “le imprese globali possano fornire soluzioni che funzionano veramente, aiutandoci a rispondere alle emergenze, a individuare nuove idee e a creare più opportunità per i rifugiati di vivere una vita dignitosa”.

Se non c’è dubbio che, da un punto di vista tecnico, Better Shelter sembra un riparo più confortevole delle tende e baracche che normalmente si trovano nei campi dei profughi, colpisce la eccezionale spettacolarizzazione che ha preceduto e accompagnato l’assegnazione del premio ai suoi progettisti.

Non si è trattato, infatti, solo di una ben orchestrata campagna pubblicitaria, ma di una serie di iniziative da parte di prestigiose istituzioni culturali a livello mondiale. Prima è stato ospitato dal museo di architettura di Stoccolma, poi è stato esposto a New York nella grande mostra dal titolo Insecurities: tracing displacement and shelter organizzata dal MOMA, il museo d’arte moderna che l’ha addirittura incluso nelle sue collezioni permanenti. Adesso, è installato in Kensington Road, a Londra, davanti alla sede del museo del design.

Da più parti sono stati avanzati dubbi sul rischio che simili iniziative alimentino l’illusione che la cosiddetta emergenza profughi sia un problema che l’innovazione tecnologica e le imprese private possono risolvere. In quest’ottica, inoltre, il rifugiato viene ridotto ad uno dei tanti tipi di cliente alle cui particolari esigenze e necessità il mercato è in grado di rispondere con appositi prodotti. Secondo UNCHR, però, questa è solo la prima parte di una collaborazione a lungo termine con la fondazione Ikea che l’agenzia “auspica si estenda alle cure sanitarie e all’istruzione”.

Chi parla di gentrification al giorno d'oggi, spesso si concentra su dettagli forse di qualche importanza ma inessenziali a cogliere l'entità del problema (segue)

Chi parla di gentrification al giorno d'oggi, spesso si concentra su dettagli forse di qualche importanza ma inessenziali a cogliere l'entità del problema. I più lontani dal capirne le dimensioni sono, come spesso accade, gli esteti, ovvero chi chiama gentrificazione qualcosa che non lo è, assomigliando invece molto al vecchio meccanismo dello sventramento urbano ottocentesco. La città si è evoluta, a spese dei suoi abitanti naturalmente, e presenta potenzialità di investimento per qualcuno, salvo spazzar via quegli abitanti e le loro sovrastrutture edilizio-sociali, si tratti di case, fabbriche, negozi, tessuto stradale e di spazio pubblico. Nel medesimo posto nascerà un nuovo quartiere, abitato e usato da chi è in grado di sborsare quanto atteso dagli investitori.

C'è poi il processo di sostituzione sociale allo stato puro, quello che scientificamente si chiama davvero gentrification, così come fissato mezzo secolo fa dalla sociologa Ruth Glass studiando le trasformazioni di una zona di Londra: gli abitanti di un quartiere hanno costruito faticosamente nel tempo le loro strutture spaziali e sociali, gli equilibri dentro cui vivono, e si tratta di una massa di valore assai appetita dal mercato, con una specifica. Ovvero che delle relazioni sociali al mercato non frega assolutamente nulla, bastando e avanzando il puro contenitore, l'immagine esterna, gli aspetti diciamo così folkloristici. Lo sventramento non c'è, sostituito da un processo strisciante, dove nuove famiglie e attività prendono il posto delle vecchie, gli edifici si «riqualificano», le botteghe si fanno il cosiddetto refurbishment, di solito spariscono le attività produttive e i posti di lavoro.

Fin qui, i dettagli, dei vari modelli, puri e misti (perché le due cose di solito si mescolano), della gentrification. Che non finisce certo a quel punto, dato che come si dice il vuoto in natura non esiste. Per un principio da vasi comunicanti, se le eleganti signore vanno a riempire coi loro divani d'antiquariato le stanze lasciate libere dalle famiglie di lavoratori, non solo queste famiglie di lavoratori dovranno andare a scavarsi nuove nicchie, ma i cerchi concentrici si faranno sempre più ampi. Così il mitico mercato protegge il proprio investimento, confermando la vera natura del processo di gentrification, che non è solo e tanto la sostituzione dei borghesi ai proletari (come dicono ormai spesso infilando orrendi strafalcioni anche i vocabolari e le enciclopedie), ma l'imporsi dell'omogeneità là dove regnava la complessità. Omogeneità è anche l'allargarsi progressivo, all'infinito tendenzialmente, di questo identico sistema socio-economico-spaziale e degli stili di vita. E forse non è un caso se questo modo masochista di concepire la «riqualificazione urbana» si accompagna al ritorno verso le zone centrali di chi le aveva abbandonate per il suburbio borghese una o due generazioni fa. Perché ormai pare che l'omogeneità assoluta, che fa il paio con la mitica privacy familiare, debba essere valore imprescindibile, ma quando ci si allarga oltre un certo limite saltano resilienza e vitalità.

Un segnale chiaro di questo enorme problema, a quanto pare tecnologicamente irrisolvibile al momento, era emerso con gli attentati dell'11 settembre 2001, e un certo ritardo nei soccorsi, dato che i soccorritori professionisti, lavoratori per definizione, abitavano lontanissimi dal simbolico luogo dell'opulenza finanziaria scelto dai terroristi. E del resto da lustri ormai si leggevano storie di insegnanti delle scuole, infermieri negli ospedali e ambulatori, vigili del fuoco e poliziotti, costretti a trasferte infinite per recarsi in un luogo di lavoro strettissimamente connesso alle persone che ci stanno, ma da cui dovevano star fuori. In pratica, loro non erano propriamente «persone», là dentro il gigantesco quartiere omogeneo prodotto dalle aspettative del mercato. Tutto nato nel laboratorio suburbano, in quei quartierini immersi nel verde ma chiusi come fortezze ai non ricchi, salvo ai pendolari giardinieri, colf, operai della manutenzione, guardiani. I quali però potevano abitare solo lontano, a volte lontanissimo, al punto da doversi organizzare come nomadi, in qualche vero e proprio campo abusivo di colf giardinieri badanti, a portata di mano dalle irraggiungibili villette degli arricchiti. Adesso, il medesimo problema si ripresenta nelle forme surreali dell'economia della rete, e dei lavori semi-schiavisti assimilati sadicamente alla cosiddetta sharing economy: sono i tassisti di Uber, letteralmente accampati nei parcheggi, dentro le auto che poi useranno per scorazzare i ricchi clienti qui e là. E la domanda ovviamente, qui non riguarda solo qualche quota di abitazioni economiche da introdurre obbligatoriamente nei quartieri di lusso, neanche fossero le antiche stanze della servitù dei palazzi nobiliari.

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Il 4 novembre 2016, si è celebrato a Venezia il cinquantesimo anniversario della grande alluvione. Per l’occasione sono stati allestiti convegni, mostre e spettacoli nel corso dei quali notabili locali ed esperti internazionali si sono esibiti in rimembranze e autocelebrazioni. Uno dei pochi interventi interessanti è l’intervista che il sindaco Brugnaro ha rilasciato all’inviato della Stampa, Giuseppe Salvaggiulo. E’ un documento che dovrebbe essere tenuto presente da coloro che spesso ridicolizzano le dichiarazioni del sindaco, al quale non si dovrebbe negare, invece, il merito di enunciare in modo esplicito e inequivocabile gli obiettivi che la sua amministrazione persegue e gli interessi che rappresenta e tutela.

Nell’intervista, Brugnaro ha espresso con chiarezza la sua “visione” ed ha elencato i quattro punti principali sui quali si incardina la sua azione di governo: «il turismo non è un’emergenza, tutt’altro»; «le grandi navi non fanno male a nessuno»; «sul waterfront grattacieli fino a cento metri con terziario e residenziale»; «i soldi pubblici servono a portare qui le multinazionali».
Tra le molte iniziative avviate in conformità a tali intendimenti, di particolare rilievo, per la dimensione e per il tipo di interessi coinvolti, è il moltiplicarsi di strutture ricettive attorno alla stazione di Mestre, in corrispondenza della testa di ponte che congiunge la terraferma alla città insulare. L’idea di devolvere alla speculazione immobiliare/turistica le aree adiacenti alla stazione (nonché quelle ricavabili costruendo una piastra sopra il fascio dei binari, come previsto fin dal 1993 da un progetto di Renzo Piano) non è di Brugnaro, ma risale all’ex sindaco Cacciari e ai suoi accordi con le Ferrovie e la società Grandi Stazioni. L’unica differenza è che gli interlocutori privilegiati da Cacciari, ai tempi dei governi dell’Ulivo quando si privatizzava per fare favori agli amici, erano i “mecenati” nostrani - da Benetton allo stesso Brugnaro- mentre Brugnaro, che si definisce il sindaco più renziano d’Italia, è a caccia di “investitori da tutto il mondo”.
Al momento, il cantiere in fase più avanzata è quello sull’area dell’ex concessionaria di automobili Vempa, dove la società tedesca A&O sta costruendo un ostello di 320 stanze con 750 posti letto. Il progetto, presentato nel 2009, aveva subito suscitato l’entusiasmo della stampa cittadina, a cui giudizio “con l’arrivo di un ostello attrezzato e moderno, Mestre potrebbe smarcarsi dall’etichetta di cittadina di provincia e mettere in evidenza le sue potenzialità di metropoli … la mega-società tedesca sa di aver scelto una location perfetta… a due passi da via Torino dove di qui a breve sorgerà una cittadella universitaria”. Anche il comune era molto favorevole. “Ai tedeschi che chiedono garanzie circa trasporti pubblici e riduzione degli oneri di urbanizzazione” l’assessore all’urbanistica Gianfranco Vecchiato aveva assicurato di ”sostenere questo investimento”, ed infatti ci si era accontentati di 220 mila euro di oneri.
I lavori sono stati poi sospesi durante la gestione del commissario straordinario Zappalorto che, per ridurre il debito del comune, oltre a chiudere servizi pubblici e aumentare tasse e tariffe per i cittadini, aveva imposto un aumento degli oneri di urbanizzazione portandoli a 1 milione e 440, cifra ritenuta troppo esosa dai tedeschi e non solo da loro. “Mazzata sui costruttori”, è il commento della Nuova Venezia. Ora il commissario non c’è più, gli aumenti e i tagli che colpiscono i cittadini sono rimasti, ma con la A&O ci si è messi d’accordo per 650 mila euro.
Un buon affare. Investitori tedeschi hanno conquistato anche la vicina area ex Demont, in via Ca' Marcello a fianco della stazione, che il fondo di investimento MTK di proprietà di Tilmar Hansen si é aggiudicato all’asta per 4 milioni e 800 mila euro. Vi sorgeranno quattro strutture distinte (un apart-hotel, un ostello e due alberghi), gestite da altrettante catene alberghiere: il gruppo irlandese Stay City specializzato negli appartamenti turistici ammobiliati (175 stanze); la catena austriaca "Wombat's", del gruppo City Hostels che punta su una clientela “giovane, dinamica ed elegante” (500 stanze), la catena tedesca "Leonardo Hotels", che fa capo al gruppo turistico israeliano Fattal (500 stanze) e il gigante cinese della "Plateno" (208 stanze) che nel suo sito web decanta la vicinanza all’ “iconico centro storico di Venezia”. Il progetto prevede anche due silos per il parcheggio di circa 700 posti auto.
I contrasti che su questo punto sembravano essere sorti con il comune sono stati risolti e quindi i lavori possono partire “senza ritardi difficilmente comprensibili dagli investitori stranieri, poco avvezzi ai tempi lunghi e incerti delle approvazioni degli enti locali nel nostro paese”. Il conclamato beneficio pubblico derivante dagli oneri di urbanizzazione non è affatto evidente, dal momento che le opere a carico dei privati consistono in realtà in abbellimenti e migliorie degli ambiti di pertinenza della loro proprietà, ad esempio un marciapiede in via Cà Marcello e una piazza tra gli alberghi. Dal canto suo il comune provvederà (con i fondi statali del piano periferie) a migliorare la viabilità, ma nel complesso si ritiene soddisfatto perché l'operazione consentirà di risanare “un'area fortemente degradata della città”.
Altre 150 stanze “low cost ma di alta qualità” saranno presto disponibili con l’apertura di un albergo in via Piave, sul retro del Plaza, mentre sono in attesa dei permessi le costruzioni della Venice Campus (gruppo Mantovani) all’ex mercato ortofrutticolo di via Torino e l’albergo di 130 stanze della Pancin Sas sull’area di via Trento dove sorgevano “le palazzine abbattute dai privati su richiesta del comune, perché ricettacolo di bivacchi e cattive frequentazioni”. Mentre attorno alla stazione è tutto un fervore di opere, si stanno anche finalizzando gli accordi per intervenire sulla stazione stessa, cominciando dalla costruzione di un albergo al posto dell’ex palazzo delle Poste, di proprietà dell’immobiliare Favretti. Il nuovo edificio di tredici piani (200 stanze) avrà un doppio affaccio, uno sul viale della stazione, l’altro direttamente sul binario 1.
L’intervento era già previsto dal masterplan della stazione ferroviaria, avviato dalla giunta Cacciari. Ora dopo aver ottenuto dalla Regione la “liberazione” dal vincolo che insisteva sull’edificio, in quanto esempio di architettura brutalista, e con l’approvazione dell’accordo di programma, l’immobiliare Favretti sta cercando nuovi compratori perché la società spagnola H10 ha rinunciato ad acquistare l’albergo. Comunque, il rappresentante della società immobiliare ha espresso soddisfazione perché «dopo decenni di pastoie ed impedimenti burocratici che hanno, di fatto, impedito l'accesso di nuovi investitori a Venezia, ho trovato un'amministrazione attenta, competente e determinata a promuovere un nuovo sviluppo economico della città». Mentre l’assessore al turismo, Paola Mar, dichiara «Mestre è diventata una città turistica… questi investimenti sono un’occasione per darle dignità di città», si preannuncia anche una completa trasformazione dell’intera stazione in centro commerciale, a servizio delle strutture turistiche.
A questo proposito, così si è espresso il direttore di AVM l’azienda veneziana mobilità: «non sono sicuro che parlare di stazioni significhi discutere di mobilità. Penso a Grand Central a New York o a Shinjuku a Tokio… solo metà di chi vi transita è diretto ai treni.. ci vogliono servizi di eccellenza, da boutique a ristoranti stellati». In comune “si sta lavorando” sul restyling della stazione e lo stesso sindaco vi si dedica personalmente. Come ha avuto modo di vantarsi in consiglio comunale, infatti, non solo egli è in possesso di una laurea in architettura, ma l’ha ottenuta con “una tesi sulla stazione di Mestre”. Il destino!

(segue)

Il 23 gennaio, il sindaco Brugnaro va a Parigi, in “missione” presso l’Unesco, per evitare che Venezia sia trasferita dall’elenco dei siti etichettati patrimonio dell’umanità, per il loro valore “universale ed eccezionale”, a quello dei siti “a rischio”.

Tale ipotesi è stata ventilata, alcuni mesi fa, in una risoluzione dell’organizzazione internazionale che ha “intimato” alle autorità italiane di affrontare concretamente, ed entro febbraio, le questioni - grandi navi, infrastrutture, turismo, spopolamento - che minano “l’integrità e l’autenticità” della città e rischiano di trasformarla in “un semplice villaggio turistico”.

Brugnaro aveva immediatamente reagito con toni sprezzanti. “A Venezia devono pensarci i veneziani.. di discorsi ne abbiamo le scatole piene”, aveva detto, “ e poi siamo noi che portiamo valore all’Unesco e non viceversa”. Anche adesso, poco prima di partire, ha riaffermato che “è ora di smetterla con le offese aristocratiche”, ma non ha reso note le “soluzioni” che illustrerà nell’incontro parigino. Soluzioni che non sono nemmeno state discusse in consiglio comunale, ma sulle quali si vanta (e probabilmente è la verità) di avere l’appoggio di quelli che contano, cioè dei gruppi che più estraggono profitti dal “sito”: armatori e tour operators, costruttori e investitori immobiliari, con il loro corollario di intermediari e di lucrose attività esentasse. In particolare, ha ribadito l’accordo totale con l’ex presidente dell’autorità portuale Paolo Costa – ha detto di volerlo assumere come consulente del comune- che rifiuta qualsiasi riduzione sia della dimensione delle navi che del numero degli arrivi.

In mancanza di informazioni su quello che Brugnaro racconterà ai funzionari dell’Unesco, le sue decisioni restano l’indizio più chiaro per capire quali siano gli obiettivi e gli interessi della sua amministrazione.

Singolarmente, alcune possono sembrare di modesto rilievo. Ad esempio l’aumento del 5% della tariffa smaltimento dei rifiuti ai residenti, perché vogliamo mostrare ai turisti una città pulita; l’acquisto di pistole che “sembrano mitragliatori” per i vigili urbani, perché vogliamo ripulire la città da poveri la cui vista disturba i clienti che fanno shopping; l’uso degli studenti di un liceo cittadino come “volontari” durante il prossimo carnevale per dare informazioni ai turisti, perché sia ben chiaro che siamo nati per servir.

Nel loro complesso, però, tali decisioni delineano una visione “culturale” ben definita, secondo la quale la città fisica appartiene a chi è in grado di farne l’uso più redditizio. E siccome a Venezia, niente può più competere con il turismo di rapina, la soluzione di Brugnaro & company è di reagire alla domanda crescente con un’offerta crescente, il che significa nessun limite ai cambi di destinazione d’uso da residenza ad albergo, continua occupazione e sottrazione di suolo pubblico, sistematico smantellamento di servizi pubblici e riuso a fini turistici degli edifici che li ospitavano, nuove massicce costruzioni in adiacenza ai terminal (porto, stazione, aeroporto) e sull’ intera gronda lagunare.

Un progetto che di recente ha riscosso il sostegno entusiasta di Brugnaro e della giunta -“la pubblica amministrazione deve sapere essere elastica… per intercettare investitori nel momento in cui hanno interesse ad effettuare determinate operazioni”- prevede la costruzione, in adiacenza alla stazione marittima, di un albergo di duecento camere, un enorme parcheggio oltre che di una serie di attività commerciali. Il tutto diventerà “una nuova porta d’accesso, con la creazione di una piazza grande come quella di San Marco” .

Forse l’Unesco si riterrà soddisfatta per la prospettiva di una piazza più grande di san Marco. Certamente a Brugnaro, secondo i sondaggi uno dei sindaci più amati d’Italia, importa più il giudizio dei tour operators che non sembrano molto preoccupati per le minacce dell’Unesco. Nella peggiore delle ipotesi, metteranno Venezia nella lista dei luoghi da visitare “prima che sia troppo tardi”, e non è detto che con questo slogan non riescano ad incrementare gli arrivi.

P.S. eddyburg seguirà con attenzione la vicenda

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