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il manifesto, 13 giugno 2018. Le trasformazioni di quelli che erano spazi pubblici. Anche nelle stazioni abbiamo perso lo status di cittadini, e solo come consumatori possiamo trovare ristoro. (m.p.r.)

Ci sono luoghi e spazi della vita organizzata dalle origini millenarie, che hanno conservato per secoli, rinnovandole, le funzioni per cui erano sorte. Funzioni che nel giro di pochi anni sono state svuotate del loro antico scopo e simbolicamente annichilite. È il caso delle nostre stazioni ferroviarie. L’etimo latino di stazione rimanda allo stare, fermarsi in un luogo, una pausa nel cammino. Del resto, nell’antica Roma il termine statio indicava la tappa del servizio postale, così come sarà per la posta a cavallo nel corso del medio evo e per buona parte dell’età moderna.

Sino a pochi anni fa le stazioni ferroviarie, pur continuando a essere terminali di linee che conducono nelle varie città del Paese, hanno conservato questa funzione della tradizione, che faceva dei luoghi di partenza e di arrivo degli spazi pubblici di sosta, di riposo, di attesa e anche di incontro, di conversazioni occasionali. Sotto i nostri occhi, laddove è arrivata la modernizzazione del capitalismo neoliberista, tutto è silenziosamente cambiato. Pensiamo a Stazione Termini, il terminale della capitale, che insieme alla Stazione Centrale di Milano, è stata radicalmente ristrutturata. Era un luogo per viaggiatori che sostavano, in uno spazio comune organizzato per l’attesa e per il riposo, e oggi è diventato un emporio caotico dove lo spazio circostante è letteralmente sotto assedio.

Negli androni del pian terreno e in quelli del sotterraneo, non c’è spazio che per le merci. Non esistono pareti, ma vetrine di magazzini che si rincorrono per sale e corridoi senza soluzioni di continuità. Come se non fosse già abbastanza ricca l’offerta, si aggiungono giganteschi box prefabbricati, piazzati in mezzo agli androni, negozi, vetrine, luci. In alto, dove rimane ancora spazio superstite, numerosi schermi e display, armonie sonore per le glorie dei prodotti, per l’illimitata felicità dei consumatori.

La stazione non è più una stazione. Non c’è un angolo, una panchina su cui sedersi. Solo nei sotterranei, per un’errore originario degli architetti, che hanno costruito un paio di panchine in pietra (non asportabili) attorno a delle finte fontane, ci si può sedere, ma dopo avere atteso il proprio turno, perché sono continuamente occupate e tenute d’occhio da folle di stazionanti che attendono il loro turno.

Nel primo piano, un tempo esistevano dei sedili in plastica che ora sono stati smantellati. C’è tutta la società capitalistica della nostra epoca in una sola foto. Nei corridoi di passaggio tra una sala e l’altra, i senza casa seduti su sedie pieghevoli, con accanto qualche coperta per la notte, sotto valigie che devono camuffare il bivacco regolare con finte attese di partenze. Dovunque torme di giovani seduti per terra , con i loro pesanti zaini portati in giro per il mondo, anziane signore che si appoggiano come possono sul bordo metallico che circonda la vetrina della libreria. Altri passeggeri di varia età, il popolo plurietnico delle stazioni dei giorni nostri, vagano come anime del Purgatorio in attesa del loro treno.

Non ci si può sedere nella Stazione. Lo si può fare umiliandosi, distesi su un pavimento o nei bar, nei punti di ristorazione: solo se ci si spoglia dell’abito di cittadino e si indossa quello del consumatore. Solo se si paga si ha diritto alla stazione. Il viaggiatore deve camminare, perché altrimenti si isola in uno spazio proprio e non osserva, non acquista qualcosa di cui non ha bisogno, sfugge al messaggio pubblicitario. E deve pagare anche per soddisfare le sue necessità più elementari e improrogabili. A Stazione Termini, come ormai in tanti altri luoghi un tempo pubblici, non esistono toilet, se non a pagamento. Chi vi si reca può osservare la mirabilia elettronica che si deve affrontare solo per fare la pipi. Un cancello a vetri che dà accesso al bagno solo se inserisce in apposita feritoia una moneta da 1 euro: ben 1936 lire della nostra vecchia moneta. Di sicuro, visto l’asettico nitore del luogo, il servizio viene gestito da qualche società specializzata, probabilmente quotata in borsa. Ma questo non è necessario per stabilire che il capitale oggi cerca profitti anche nelle nostre deiezioni organiche.

Dunque, Stazione Termini offre oggi l’immagine esemplare del modello di società verso cui ci trascina il capitalismo dei nostri giorni. Un spazio sociale decomposto in una miriade di presidi privati dove è impedita anche una comunità provvisoria, dove tutti devono svolgere compiti utili, quelli di consumatori, anche nei momenti di pausa e di attesa. Un frammento di vita in cui il dominio dell’economia mostra il suo volto ormai assillante ed ostile. Un microcosmo della città che muore.


Articolo tratto dalla pagina qui raggiungibile

A Pisa e San Giuliano Terme, il 29-30 giugno 2018, una nuova tappa del percorso organizzato dalla scuola di eddyburg sul presente e sul futuro di un fondamentale strumento per il governo del territorio

Nel seminario intendiamo:

• arricchire le riflessioni critiche sul rapporto tra piano urbanistico, politiche pubbliche e iniziative civiche, attraverso un incontro pubblico;
• completare il nostro percorso con una riflessione sul rapporto tra patrimonio territoriale e spazio pubblico, attraverso una visita guidata a San Giuliano Terme;
• sottoporre a una verifica collettiva l’esito dell’attività svolta negli incontri di Pistoia e di Torino

Sede
I Cappuccini - Centro sociale,
via dei Cappuccini 2B - Pisa

Programma
Venerdì 29 giugno – ore 10.30-13.30

Spazio pubblico e trasformazioni della città esistente.
Seminario a ingresso libero e gratuito (l’iscrizione consente di riservare il posto)

Venerdì 29 giugno – ore 15.30-18.30
Fare spazio alle attività culturali: iniziative civiche, pubblica amministrazione prove di dialogo per una cooperazione virtuosa
Tavolo di lavoro – riservato agli iscritti

Sabato 30 giugno – ore 10.00-13.30
Il patrimonio territoriale come spazio pubblicoPasseggiata urbana – riservata agli iscritti

Iscrizioni
Sono ammessi 30 partecipanti alle attività riservate agli iscritti. L’iscrizione avviene con una e-mail a Monica Luperi (monica.luperi@gmail.com). Sono a carico dei partecipanti i costi di viaggio e soggiorno. Gli iscritti devono specificare se venerdì 29 partecipano al pranzo a buffet all'interno della struttura.

Qui il programma dettagliato

“Lavorare fa male alla salute”. E’ il titolo di un libro scritto da Jeanne Stellman e Susan Daum, pubblicato nel 1973 e subito radotto in italiano da Feltrinelli, una amara e spietata...(segue)


Lavorare fa male alla salute”. E’ il titolo di un libro scritto da Jeanne Stellman e Susan Daum, pubblicato nel 1973 e subito tradotto in italiano da Feltrinelli, una amara e spietata denuncia delle tante cause di morte e di dolore a cui sono esposti milioni di persone nell’ambiente delle fabbriche, dei cantieri, delle miniere.

Immaginate una guerra che non risparmia donne e bambini, durante la quale, nel mondo, ogni anno, 3 milioni di persone muoiono subito e per le ferite, le mutilazioni, le lesioni e le malattie riportate per cause di lavoro, e in cui 350 milioni di persone soffrono per incidenti avvenuti negli anni precedenti. Solo in Italia ogni anno i morti per il lavoro sono oltre 1000 e gli incidenti sul lavoro oltre mezzo milione. Questa guerra è in corso, continuamente, e le persone di cui parlo sono operai e contadini, guidatori di treni o navi o camion, fabbricano automobili o edifici o scavano carbone nelle miniere e pietre nelle cave. Di questi morti e feriti non esistono neanche statistiche esatte perché molti sono lavoratori non protetti, non registrati dalle agenzie delle Nazioni Unite o dai singoli governi. Spesso le morti o le malattie privano una famiglia dell’unica fonte di reddito.

Nel settembre 1943 nasceva a Roma l'associazione nazionale fra lavoratori mutilati e invalidi del lavoro (ANMIL) che il 19 settembre di ogni anno ricorda le vittime del lavoro. A livello mondiale la International Labour Organization ha deciso di dedicare un giorno, il 28 aprile di ogni anno, al problema dei pericoli e della sicurezza sul lavoro, quest’anno col tema della vulnerabilità dei giovani lavoratori.

Secondo il pensiero corrente sarebbe finita l’esistenza della “classe operaia”; si dedica molta attenzione all’ecologia e alla difesa della natura e dell’ambiente che sono intorno a noi. Si finisce però per dimenticare che la prima ecologia si ha nell’ambiente di lavoro dove un enorme numero di persone, alcuni miliardi nel mondo, vengono ogni giorno a contatto con le mani e col corpo con sostanze tossiche, operano in condizioni di pericolo, sono esposti a rumori e anche a sempre nuove forme di nocività.

Non si dovrebbe morire, e neanche ferirsi o ammalarsi per il lavoro, che non è una cosa astratta, il mezzo per portare a casa un salario o stipendio, ma è la più importante attività umana, quella che permette a ciascuno di noi, di muoverci, di scaldarci, di avere ogni giorno nei negozi gli scaffali pieni delle merci che desideriamo.

Si dimentica, o si fa finta di non sapere, che in ciascuna merce o sevizio (assistenza medica, mobilità, turismo, istruzione, eccetera) c’è “dentro” abilità e fatica e dolore - e anche morte - di qualche persona, donna, uomo, adulti o ragazzi, vicina o lontana.

Comunque le statistiche sulle morti per il lavoro sono ingannevoli perché vengono contabilizzati solo coloro che muoiono direttamente, cadendo dalle impalcature, o colpiti da getti di metalli incandescenti, o travolti da un macchinario o da un trattore, o in breve tempo dopo l’incidente; molti altri muoiono a mesi o anni di distanza per le conseguenze dell’assorbimento, durante il lavoro, di polveri o sostanze tossiche o cancerogene.

Il caso più clamoroso è quello dei morti fra gli operai che hanno maneggiato l’amianto, una delle perverse sostanze cancerogene che da oltre mezzo secolo sono presenti intorno a noi, un lento veleno che proviene dagli isolamenti termici e acustici, da tubazioni, recipienti e tettoie di amianto-cemento, dai freni degli autoveicoli, e che continua a minare la salute di coloro che son ancora esposti all’amianto nelle operazioni di rimozione, eliminazione e smaltimento di manufatti contenenti le pericolose fibre.

L’amianto è solo una delle molte nocività presenti nell’ambiente di lavoro. Da decenni le organizzazioni dei lavoratori si battono per eliminarle; nei paesi europei solo dopo lunghe e dure lotte, dopo varie inchieste parlamentari, sono state ottenute delle leggi che migliorano (che dovrebbero migliorare) le condizioni di lavoro e diminuire i pericoli e per informare i lavoratori sui pericoli da cui sono circondati e a cui sono esposti, spesso senza saperlo. Ci sono voluti anni per eliminare i più tossici fra i solventi clorurati impiegati nelle lavanderie “a secco”, o il benzene nelle colle impiegate nella produzione di scarpe, o per imporre le maschere di protezione per gli addetti alla verniciatura a spruzzo.

Spesso le norme non sono osservate perché rallentano il lavoro o impongono maggiori costi e minori profitti “ai padroni”; purtroppo spesso il pericolo “non si vede” e non si sente e i tumori o le malattie si fanno sentire a molti anni di distanza, come si è visto nel caso dell’intossicazione da cloruro di vinile o dai fumi delle cokerie o dagli altri silenziosi veleni, tanto che è difficile, anche a fini di assicurazioni e risarcimenti e responsabilità dei datori di lavoro, riconoscerli come la vera causa di molte morti.

Nocività, pericoli e veleni mutevoli nel tempo in seguito a “innovazioni” tecniche, all’uso di nuove materie prime, alla diffusione di nuove attività, come quelle che hanno a che fare con lo smaltimento dei rifiuti urbani e industriali, anch’essi di composizione mutevole a seconda della provenienza. Nelle stesse università e nei centri di ricerca ci sarebbe moltissimo da fare, per chimici, ingegneri, medici, merceologi, per aiutare i lavoratori a conoscere le sostanze pericolose con cui vengono a contatto.

I morti per il lavoro meritano al più qualche frettolosa riga nella cronaca dei giornali. Mi piacerebbe che le città, per ogni morto per il lavoro, proclamassero il lutto cittadino, dal momento che si tratta di persone che hanno dato la vita per assicurare una frazione del benessere di cui ciascuno di noi gode. Ci sono delle città in cui una via o una piazza è dedicata ai “Caduti sul lavoro”; sarebbe importante che di loro si parlasse nelle scuole, dal momento che i ragazzi di oggi sono pure i lavoratori di domani.

Alla fine ci siamo intesi” dice Angela Merkel evocando, a commento della crisi politica italiana, il parallelo delle trattative con Alexis Tsipras nell’estate 2015, dopo che l’Unione europea – spalleggiata dal vecchio establishment greco pronto a sollevare eccezioni di incostituzionalità – era intervenuta ad agitare spauracchi d’ogni sorta contro il referendum promosso dal premier appena eletto sul famigerato memorandum.

Tsipras allora non cedette, replicando alle minacce con una retorica serena ma determinata (tutt’altra cosa rispetto alle sparate del Salvimaio) che convinse il suo popolo al “No”. Ma l’Unione (questo il senso vero dell’intraducibile verbo sich zusammenraufen usato dalla Merkel, che vale “trovare un modus vivendi nonostante gli scontri e imponendosi autocontrollo”) impose poi il proprio diktat con le irriferibili minacce “al chiuso” nel drammatico vertice del 12 luglio, al termine del quale la linea politica di Tsipras fu stravolta, e rotolò la testa del ministro Varoufakis.

Keine sorge, troveremo un compromesso anche con gli italiani, dice la Merkel. Il commissario Oettinger, con il suo greve accento del Baden, ha solo il torto di parlare più chiaro quando professa fiducia nel nuovo “governo tecnocratico” di Roma e richiama il fatto – testuale – che “i mercati, le quotazioni dei bond, l’evoluzione dell’economia italiana potrebbero essere così drastici (einschneidend, propriamente “taglienti”) da fornire agli elettori l’indicazione di non votare populisti di destra o di sinistra”. L’applicazione è diversa, ma i criteri sono in fondo gli stessi (“l’impennata dello spread”, “le perdite in Borsa”, “l’allarme degli investitori”) richiamati da Mattarella nel suo discorso per silurare il governo Conte.

Singolari parallelismi. Nel 2013, per l’elezione del presidente della Repubblica, il Movimento 5 Stelle candidò con entusiasmo “uno dei vostri”, ovvero Stefano Rodotà, già presidente del principale partito della sinistra, e capace di intuire il potenziale di cambiamento e di aria nuova insito nel Movimento, se fatto reagire con le forze migliori del Paese: la risposta dell’establishment fu la chiusura a riccio; cinque anni dopo, la sinistra è ridotta a un ruolo di comparsa, e il Movimento è per metà in mano a Salvini. Nel 2018, nell’individuazione del ministro dell’Economia, la Lega propone “uno dei vostri”, ovvero Paolo Savona, già ministro nel governo Ciampi e vecchia (e discutibile) volpe della finanza, nonché capace di dire (da una prospettiva essenzialmente di destra) parole chiare sui difetti strutturali della moneta unica: la risposta dell’establishment è venuta domenica, e rischia di avere conseguenze ancor peggiori.

Si può sostenere che in ambedue i casi le forze proponenti giocassero in realtà un’altra partita, strumentale alla loro crescita ulteriore in termini di consenso dopo il prevedibile niet del sistema: può darsi. E del resto fra le due personalità corre un abisso – il governo Conte che si annunciava (come denunciato anche all’interno del Movimento da alcune voci libere) sarebbe stato sotto molti profili un incubo o una baraonda, e si sarebbe probabilmente incagliato in breve tempo, lasciando macerie. Tuttavia, la strategia di depotenziare il voto di milioni di italiani e di silenziare certe istanze col richiamo allo spread o al volere dei mercati, può pagare alla breve, per esempio evitando al Paese il trauma di ministri lepenisti pronti a effettuare rimpatri di massa – ma difficilmente funziona alla lunga. O si condivide la prospettiva di Oettinger (spaventare gli italiani per ridurli a più miti consigli nelle urne) oppure è una pia illusione che la destra “moderata” (per tale, ormai, viene fatto passare Silvio Berlusconi!) possa mantenere le posizioni in un Nord arrabbiato (lo mostreranno le imminenti elezioni comunali), o che la sinistra, desertificata dal perdurante renzismo e da mesi evanescente, possa davvero recuperare fiato drenando i “sinistrorsi delusi” di un M5S votato alla deriva gialloverde.

Si è creata una lacerazione istituzionale dolorosa; si è finito per aizzare la folla contro i giochi di palazzo e le agenzie di rating; si è schiacciato il M5S (fin troppo ingenuo di suo) sull’egemone Salvini; si è fornita una formidabile sponda a chi piccona il sistema seminando sfiducia nelle istituzioni e nell’Europa, o denigrando la democrazia rappresentativa.

Certo: la Grecia di oggi, imbambolata dalla sfiducia, svuotata di tutti i suoi asset strategici, umiliata e illusa con un misero avanzo primario di cui non si avverte alcun beneficio, vegeta in una cupa rassegnazione che forse, dopo anni, tornerà a premiare i vecchi partiti nelle elezioni del 2019. Ma non è affatto detto (ed è poi veramente auspicabile?) che in Italia accada lo stesso.

Questo articolo è inviato contemporaneamente a Il Fatto quotidiano

Così, hanno vinto le mamme no-inceneritore dopo anni di lotta contro il presunto “termovalorizzatore”di Case Passerini, l’impianto in grado di bruciare 200.000 tonnellate di rifiuti... (segue)
Così, hanno vinto le mamme no-inceneritore dopo anni di lotta contro il presunto “termovalorizzatore” di Case Passerini, l’impianto in grado di bruciare 200.000 tonnellate di rifiuti l’anno che doveva sorgere nella piana fiorentina, in prossimità della pista del nuovo aeroporto. Una lotta che ha portato in piazza migliaia di persone, condotta come le donne sanno fare, con inventiva, mobilitazione, allegria, inclusiva e allo stesso tempo distinta dalle opzioni e dalle strategie amministrative.

Il progetto, deciso politicamente nel 2005, aveva ottenuto una Via positiva nel 2014 e un’autorizzazione unica ambientale nel novembre 2015, ma era stato bloccato dal Tar regionale della Toscana nel 2016. Ora il Consiglio di Stato ha confermato la sentenza del Tar con grande scorno del sottobosco politico, quello che si ricicla nelle controllate pubbliche, nella fattispecie in Hera che insieme ad Ato Toscana controlla Q Thermo, la società che avrebbe dovuto realizzare l’impianto, con la nota distintiva di un presidente rinviato a giudizio per bancarotta e indagato per corruzione.

Le sentenze del Consiglio di Stato e del Tar hanno annullato l’autorizzazione ambientale con una motivazione che potrebbe fare scuola e che getta luce su una prassi consolidata di illegalità, tollerata dalle amministrazioni e incoraggiata dei politici. La prassi è di eludere le prescrizioni legate a varie forma di valutazione poste a difesa dell’ambiente e della salute pubblica, in primis la Via.

Il consiglio di Stato non ha trovato niente da eccepire sull’iter procedurale seguito da Q Thermo, ma rilevato che non sono state realizzate, né realizzabili, le misure compensative necessarie per mitigare gli effetti inquinanti dell’impianto, in particolare le opere di rinaturalizzazione e di creazione di nuovi boschi circostanti, opere non più fattibili perché su di esse si sovrappone la pista del nuovo aeroporto. Entrambe le sedi giudiziarie hanno, inoltre, affermato che in linea di principio i provvedimenti compensativi di un’opera impattante devono essere realizzati prima della sua entrata in esercizio e non rimandati a un futuro indeterminato; aggiungiamo, con la speranza che la loro memoria si perda nel tempo.

Una vittoria gravida di conseguenze che si applicano perfettamente all’altra grande opera che incombe nella piana fiorentina, il nuovo aeroporto di Firenze. E qui conviene fare un passo indietro e ricordare che nel 2003 la società Aeroporto di Firenze (AdF) aveva proposto l’incremento di voli e passeggeri dell’aeroporto esistente, ottenendo un decreto di compatibilità ambientale: tuttavia con prescrizioni ritenute da AdF troppo onerose e perciò impugnate con ricorso al Presidente della Repubblica. L’impugnativa era stata discussa nel 2012, ma i suoi esiti tenuti nel cassetto dal Ministero dell’Ambiente, né comunicati alla Regione Toscana. Ora, finalmente, per la tenacia di Gianfranco Ciulli, coordinatore dei Comitati per la salute della Piana Prato-Firenze, sappiamo che il ricorso era stato respinto; ma il suo occultamento ha permesso a AdF di tirare avanti come se niente fosse: prescrizioni contestate, confermate dal Consiglio di Stato e dal Presidente della Repubblica e ignorate in modo illegale e pretestuoso.

La storia si ripete, o così si vuole, per la Via del nuovo aeroporto, dopo che opacità e collusione tra privati e istituzioni statali sono state consacrate del Decreto legislativo 104 del 2017. Applicando il Decreto, che permette a proponente e autorità competente di mettersi d’accordo sul grado di definizione del progetto, già ridotto da “definitivo” a “di fattibilità”, sono state ammorbidite o eliminate molte delle prescrizioni condizionanti il parere positivo alla Via. Ma alcune di quelle rimaste in piedi, se rispettate, renderebbero impossibile la più volte annunciata apertura della nuova pista, sempre entro due anni dall’ultimo annuncio e progressivamente spostate dal 2017 al 2020. Diventa, perciò, decisivo il ruolo dell’Osservatorio, preposto a monitorare la realizzazione del progetto e a verificare l’ottemperanza di quanto prescritto nel parere di compatibilità ambientale.

Ed ecco un accordo in variante tra ENAC e Ministero dell’Ambiente che esclude dall’Osservatorio i Sindaci dei Comuni interessati dal nuovo aeroporto a favore di un unico rappresentante, Dario Nardella, Sindaco della Città metropolitana, strenuo sostenitore del progetto, uomo di Renzi, oltre che rappresentante politico dell’establishment fiorentino. Un Osservatorio, centralizzato, lontano dai cittadini e dai loro interessi, vicino ai poteri forti, possibilmente opaco e inefficiente, con l’obiettivo di rimandare alle calende greche e infine di vanificare i provvedimenti compensativi più importanti, in primis la creazione di nuove aree lacustri a compensazione delle oasi faunistiche che saranno distrutte dalla nuova pista.

Cosa faranno ora Toscana Aeroporti ed Enac, dopo la sentenza del Tar che pone la parole fine al progetto dell’inceneritore sancendo che le opere compensative destinate a ridurre l’impatto ambientale devono essere fatte prima della realizzazione del progetto sottoposto a Via e non rimandate a un futuro imprecisato e incerto? Seguiranno la stessa strategia di non ottemperare a quanto prescritto o premeranno per qualche provvedimento legislativo ad hoc? Dopo la Legge Madia che sbilancia grandemente a favore dei privati i ruoli e i pesi nella Conferenza di Servizi e il Decreto 104, scritto sotto dettatura di Confindustria, c’è da aspettarsi di tutto.

Analisi di esperienze in atto e percorsi da intraprendere per l'uso socialmente corretto degli spazi abbandonati per trasformare le città in luoghi in cui i valori dell'uguaglianza e della democrazia siano la regola e non l'eccezione.

«Vuoti a prendere. Esperienze autogestite e organizzate dal basso per la costruzione di pratiche comuni. Giornata di autoformazione promossa da 20 pietre, ESA e Fuorimercato».

Le città sono implose, fatte a brandelli. In parte gentrificate sotto l’assalto dei fondi speculativi, in parte degradate, abbandonate a sé stesse. Non potrebbe essere altrimenti: le città sono le fedeli concretazioni delle crescenti disuguaglianze sociali e dell’abdicazione dei poteri pubblici. Sull’utilizzo degli spazi urbani si gioca una partita fondamentale dell’assetto dei poteri economici e politici. Protagonisti sono i movimenti urbani di riappropriazione dei luoghi della socialità, a partire dalla residenza e di resistenza alla “messa a reddito” delle aree di pregio (turistiche, residenziali di lusso, commerciali, direzionali di rappresentanza… dove maggiore é la possibilità di estrarre rendite).

I nodi pulsanti di questi movimenti urbani sono i centri autogestiti dalle comunità degli abitanti. “Arche di autonomia”, le definirebbe Raul Zibechi. Aree verdi e immobili liberati e riattivati per dare vita a servizi interculturali, welfare mutualistico, piccole attività economiche cooperatistiche ed ecosolidali, coworking…, insomma, autentica “rigenerazione urbana”. Ogni città è punteggiata da lotte per la conquista di questi spazi pubblici, uniche alternative alla individualizzazione solipsistica delle relazioni umane nell’età dell’iperliberismo. Nelle crepe del lacerato tessuto urbano sono nate esperienze di tutti i tipi: dai centri sociali occupati alle case del popolo, dalle banche del tempo ai comitati di quartiere, fino ai “beni comuni” riconosciuti tramite percorsi partecipativi.

A Bologna è stato creato un Comitato per la promozione e la tutela delle esperienze sociali autogestite (ESA) che nei giorni scorsi ha organizzato assieme alla rete dei produttori Fuorimercato un incontro di “autoformazione” presso la casa del popolo "Venti pietre allo scopo di consolidare i legami di solidarietà tra le varie realtà autogestite cittadine, aumentare il loro peso contrattuale con le varie controparti proprietarie e studiare gli strumenti giuridici-normativi più idonei per poter resistere e gemmare. Anche a Bologna ogni esperienza di autogestione ha storie e contesti diversi. Alcune tengono tenacemente il punto della occupazione: CSOA, come Crash ed XM24. Altre sono riuscite a strappare convenzioni con gli enti pubblici proprietari (è il caso del centro sociale Làbas dopo le imponenti manifestazioni popolari del settembre scorso a seguito dello sgombro forzato dall’ex caserma Masini) o comodati d’uso gratuiti temporanei con i proprietari privati di immobili dismessi (è il caso del "Venti pietre" nell’ex concessionaria automobilistica di via Marzabotto e dell’associazione Pianificazioni urbane). Altri usano il regolamento dell’Amministrazione condivisa, che prevede la stipula di “patti di collaborazione e sussidiarietà” (art 118 riformato della Costituzione) tra i cittadini e le pubbliche amministrazioni, promosso da Labsus in molte città italiane. Per tutti, i modelli culturali generali di riferimento sono le Giunte del buon governo zapatiste in Chiapas e le esperienze di autogoverno federaliste, ecologiste e femministe nella regione curda del Rojava (vedi il volume di Guido Candela e Antonio Senta, La pratica dell’autogestione, elèuthera, 2017, presentato all’incontro). Ma esistono molte altre esperienze più vicine a noi come quelle intraprese a Barcellona, che sono state raccontate da Lucas Ferro Solè di Podemos Catalugna.

Non esistono modelli unici – è stato detto -, ma il punto sicuramente più avanzato conquistato dai movimenti urbani in Italia è quello di Napoli [Je so' pazzo - n.d.r]. Descritti da Maria Francesca Di Tulio e Giuseppe Micciarelli dell’ex Asilo Filangieri, sono oramai una decina gli immobili di proprietà del Comune partenopeo cui è stato conferito lo status di “bene comune” in uso collettivo, autonormato dalle assemblee di gestione e riconosciuti da una serie di delibere comunali.

Da qualche tempo – su proposta del giurista Ugo Mattei, intervenuto in videoconferenza – è stata proposta la stesura di una Carta d’uso civico dei beni comuni urbani e una proposta di legge popolare nazionale che possa favorire le forme di riuso degli immobili abbandonati o mal utilizzati. Anche il Diritto deve diventare un campo di battaglia sociale per la conquista di nuovi strumenti giuridici (per produrre nuova legalità dal basso) per il “diritto alla città”, all’abitare e al vivere degnamente. I temi cruciali in discussione sono l’accesso e la gestione. É necessario liberare le amministrazioni pubbliche dal cappio del “pareggio di bilancio”.

La scelta sugli usi del patrimonio immobiliare – ad iniziare da quello pubblico, ma non solo – deve tornare ad essere una decisione discrezionale politica, cioè urbanisticamente, socialmente ed eticamente orientata, non condizionata dai “benefici economici” immediati realizzabili. Al “danno erariale” e ai “mancati introiti”, che la Corte dei Conti, ultimo anello della catena tesa dalla Troika, puntualmente contesta alle amministrazioni pubbliche che si rifiutano di “fare cassa” con la svendita dei beni pubblici, va contrapposto il concetto di “redditività sociale” dei beni comuni. Vanno, cioè, calcolati e misurati gli “impatti positivi” non monetari, extra-finanziari, quali la crescita del “capitale” umano e sociale, la reputazione e la bellezza dei luoghi. Concetti che vanno presi sul serio e fatti uscire dalla retorica corrente. Non serve scomodare premi Nobel (come la economista Elinor Ostrom) per capire che una comunità locale ricca di relazioni sociali solidali e di sistemi di auto-mutuo-aiuto crea più benessere duraturo per la popolazione che non una città privatizzata, attraversata da conflitti classisti, ostile nei confronti delle donne e degli stranieri, produttrice di disagi sociali e psicologici, inaffettività e violenza.

Certo, la condizione preliminare per consolidare e allargare le esperienze di autogestione è la mobilitazione popolare che denuncia lo scandalo dello spreco anche economico degli immobili in disuso (8 milioni di edifici abbandonati in Italia, hanno riportato Isabella Inti e Verther Albertazzi di Temporiuso e Planimetrie culturali). Va poi dimostrato attraverso azioni concrete (creazione di centri polivalenti, sportelli legali e servizi di welfare di prossimità, empori e mercati contadini, sistemi di scambio non monetari e piattaforme tecnologiche collaborative…) quali possono essere i benefici realizzabili se a gestirli sono le comunità locali. “Domini collettivi” (come recita la nuova legge che finalmente riconosce gli usi civici consuetudinari delle antiche comunaze), “Comunità patrimoniali “ (come recita la Convenzione di Faro sui beni colturali, mai ratificata dall’Italia) che adottano, curano e fanno propri luoghi e immobili percepiti come beni utili alla collettività, necessari a rendere effettivi i diritti fondamentali individuali all’abitare dignitosamente. I beni comuni sono quindi una forma di possesso che tutela i beni e socializza i benefici.

Non si tratta di sgravare gli enti proprietari (pubblici o privati) dalle loro responsabilità anche costituzionali (l’Articolo 41 sull’utilità sociale dell’iniziativa economica, privata e pubblica, è l’emblema della “Costituzione inattuata e tradita”), ma al contrario di farli uscire da uno stato di colpevole passività. In concreto: manutenzioni straordinarie, allacciamenti, guardiania e altri servizi onerosi vanno mantenuti in capo all’ente proprietario. Le autogestioni non devono nemmeno essere cavalli di Troia per l’esternalizzazione di servizi al “terzo settore”. Le assegnazioni tramite bandi, gare e concessioni (procedure apparentemente trasparenti e neutrali, che piacciono tanto ai tutori della legalità astratta e dell’equilibrio contabile del bilancio dello stato) in realtà sono trappole ideologiche che mettono in competizione i gruppi socialmente attivi, li obbligano ad aziendalizzarsi e li assoggettano alla logica del clientelismo. Per fare comunità capaci di autogoverno (dotate di capatibilities, direbbe Martha Nussbaum ) è necessario - al contrario - facilitare forme di gestione aperte, dirette, libere, responsabilizzanti. Il modello è quello delle assemblee di gestione ben organizzate in tavoli tematici e gruppi operativi, aperte a tutte e a tutti coloro che hanno qualche progetto da realizzare, la volontà di relazionarsi con l’altro da sé e il desiderio di non smettere di imparare dagli altri.

Casa del popolo Venti Pietre, Bologna, 12 maggio 2018

L'articolo è inviato contemporaneamente a Comune-info

(segue)

Bisognerebbe abolire nella discussione politica e sul modo di vita nel paese la parola «sinistra» o la locuzione «di sinistra». Si diventa abitudinari nel linguaggio specialmente quando prevale la mediocrità e la ristrettezza verbale nella comunicazione, non solo fra le classi povere; anzi oggi è la classe nello stesso tempo egemone e dominante a imporre l’uso generalizzato di uno smilzo vocabolario necessario sia a se stessa che detta legge, sia agli sfruttati che chiedono, perorano. Una buona cultura generale, una «lingua salvata» (Canetti) non abita più qui. «Sinistra» nella storia sociale europea è sempre corrisposta a un scelta precisa nell’azione e nell’intenzione, chiare e distintive; l’esempio della rivoluzione francese travalica il puro dato della collocazione dei deputati a destra o a sinistra del presidente dell’assemblea.

Dove gli ideali e le idee? Dove le realizzazioni socialdemocratiche, non dico socialiste, nelle amministrazioni regionali o comunali giacché la scena nazionale, dopo il quarto di secolo berlusconiano (e Berlusconi è ancora lì), presenta solo il sorprendente tempo breve di un gradasso Matteo Renzi per il partito del quale si è pur continuato a parlare di centrosinistra: partito che ha cancellato nell’acronimo la s (Pds) di «sinistra», per conservare la d, democratico (ci mancherebbe), approfittando della mancanza di cultura nelle sue file e fuori per far credere di ispirarsi alla tradizione rooseveltiana dell’omonimo partito statunitense, peraltro ridotta a deboli ricordi dopo le sconfitte elettorali al senato e alla camera e l’uscita di scena di Barack Obama. È badando ai fatti che anche il più generoso degli analisti politici non riuscirà a trovare alcun segno di riforma d’avanguardia o realizzazioni di tipo comunitario dove una presunta sinistra detenesse in questo secolo o detenga il potere, anzi strapotere (giunta comunale o giunta regionale e attinenti maggioranze). Dico strapotere e spiegherò più avanti.

Come una nemesi saettata dal cielo da un urbanista sincero d’altri tempi, ora vige il tradimento dell’urbanistica pubblica e sociale anche nei punti di maggior resistenza. Ah, il mito emiliano bolognese. Si è visto il nuovo modello. Le «sette città» bolognesi come i peccati capitali, o il settimo sigillo aperto dall’Agnello, da cui le strombettate trionfali dei sette angeli che non impediranno l’avvento di grandine e fuoco misto a sangue. O come la settima delle età dell’ansia, un’ultima città inquieta prossima alla morte (Auden/Bernstein, The Age of Anxiety, 1947). I bravi bolognesi d’antan, convinti di aver realizzato il miglior esempio di pianificazione generale e locale, se sopravvissuti si sono ritrovati nel nuovo contesto culturale ultraliberista, anzi reazionario, soggetti al più tristo patto col diavolo, quasi fossero il povero soldato col suo violino (Ramuz/Stravinskij, 1918) ma non giustificati dalla stessa sprovvedutezza.

E l’ultimo mito toscano? La rattristata Anna Marson ha creduto di far la rivoluzione (in urbanistica) e s’è trovata sola, sguarnita da ogni parte, salvo il gesto consolatorio di qualche collaboratore. Nella carta d’Italia che rappresenta il colore politico regionale dopo le ultime elezioni (impiegando i vecchi schemi), Emilia-Romagna e Toscana esse sole appaiono in rosso. Di buona memoria, come usa dire. Il distacco da tutto il resto, centrodestra o cinque stelle, è menzognero poiché un’omologazione generale ha cancellato le differenze, quelle profonde, credute irreversibili. La mondializzazione ha in sé l’italianizzazione, uniformità piatta dalla Vetta d’Italia a Capo Passero. Un colossale schiacciasassi si è aggirato dappertutto discendendo dal monte settentrionale al mare siciliano spianando ogni corrugazione.

Poteri e strapoteri oligarchici di sindaci, presidenti, giunte: ammessi da una normativa antidemocratica che i partiti della sinistra (eravamo ancora ben dentro al secolo scorso) avrebbero dovuto boicottare invece che sottoscrivere in ossequio al peana della stabilità. Sindaci e presidenti governano super-garantiti dalla numerosità post-legale della maggioranza, con le loro giunte imbottite di tecnici o amici non eletti. Ad ogni modo, per assurdo se ne poteva approfittare in senso progressista; come la destra poteva farlo in senso conservatore. Sarebbe stato scontro degli opposti. Così dove primeggiava, la formazione politica ritenuta di centrosinistra avrebbe potuto ottenere risultati superiori alle attese in ogni campo, avendo per presupposto i diritti e il bene della classe lavoratrice. Primo obiettivo: cercare di ribaltare gli esiti della nuova lotta di classe, quella, descritta da Luciano Gallino, dei ceti borghesi o arrivisti, ricchi vincitori contro i ceti subalterni poveri e perdenti (L. G. La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza 2012). E dove stava all’opposizione, nonostante la punizione numerica causata dalla regola elettorale, avrebbe potuto superare la frustrazione e scatenare battaglie d’impedimento, d’ostacolo all’amministrazione conservatrice o reazionaria.

La sinistra approvò la nuova legislazione rivendicando un principio assoluto di autonomia locale, l’esigenza di democrazia capillare, la garanzia di libertà da qualsiasi controllo d’ordine politico-amministrativo superiore. Non erano motivazioni, queste, di vecchie battaglie di comunisti e socialisti? Eh, no. Quando ci battevamo per una vera autonomia locale il potere di sindaco e giunta era in tutti i sensi estraneo all’enormità dell’attuale condizione oligarchica. In primo luogo tutte le deliberazioni della giunta, fosse anche quella per lo spostamento di un tombino della fognatura, dovevano essere approvate dal Consiglio comunale, luogo non fittizio di discussione democratica fra posizioni diverse e opposte, spesso al limite dello scontro; in ogni caso difficoltosa (non esistevano premi spropositati di maggioranza). Poi le delibere dovevano sottostare al taglieggio della giunta provinciale amministrativa, alias prefettizio (ossia lo stato). Controllo di legittimità, la formula; al contrario, visto il merito lo scopo consisteva nell’ostacolare e respingere le decisioni dei Comuni di sinistra su pressione della Democrazia cristiana.

Tuttavia l’azione dei Comuni rossi trovava la strada per distinguersi in realizzazioni locali differenti da quelle delle amministrazioni bianche e alleati grigi o rosa sottomesse alla ragion di stato e, sempre, agli interessi del padronato (termine non più in uso, ma largamente espressivo). Guardiamo l’urbanistica. Non tutto splendeva a sinistra nel piano regolatore e attinenze, per misurata competenza e anti-velleitarismo previsionale; ma non erano pochi i casi di questo tenore. Si videro anche tentativi quasi rivoluzionari: al di là della scontata dotazione dei servizi sociali, un disegno organico e strategico di terreni ricostitutivi di demanio pubblico attraverso l’esproprio (Milano possedeva fino agli anni Trenta un ampio patrimonio fondiario. Ci pensarono podestà e compari a smantellarlo, svendendone buona parte a cricche speculatrici e a pesci grossi dell’economia). Ancora: quando la rivista «Urbanistica» (direttore Giovanni Astengo) pubblicò nel fascicolo n. 41 del 1964 i primi Piani di Zona, si notava che almeno un Comune rosso non aveva adottato progetti di quartieri emarginati in lontane periferie per non turbare la continuità di riproduzione reddituale nell’aggregato urbano.

Omologazione, dicevo. Riguardo alla pianificazione urbanistica locale esiste una sola tendenza, un solo progetto egemonico: liberismo impietoso, spesso culturalmente provocatorio nell’essenza di servizio agli appetiti del «padronato» (guarda caso) ora indentificato come finanzieri, speculatori fondiari, industrialotti (i grandi industriali magari illuminati almeno a 60 watt si sono estinti), imprenditori edili e imprese di costruzioni.

Quando fu diffusa la nuova maniera dei bolognesi, talmente esagerata nell’aver gettato il destino della città in mano al Moloch per natura dedito a distruggere i beni dell’umanità e del singolo uomo, qualcuno credette di poter vantare, qui a Milano, una diversità, una distinzione motivata con noti vecchi titoli – capitale economica e capitale morale… capitale della moda e del design: eppure, i primi scaduti come una cambiale fasulla dell’ex campione milanese del mercato immobiliare Ligresti, i secondi propagandati come «attrattività» mondialista di una città che in quattro decenni era riuscita a perdere mezzo milione di residenti e si è salvata dal temibile crollo demografico grazie a 250.000 immigrati extracomunitari, sfruttati silenziosamente nei lavori trascurati dai milanesi, autoctoni o alloctoni che siano [1].

[1] Ho scritto diversi articoli in eddyburg su Milano. Per chi volesse inserire l’attuale in una informazione critica ampia se non esaustiva, ne elenco alcuni ritrovabili nel sito:
- Com’era Milano e com’è al tempo dell’Esposizione, 9 aprile 2015.
- La contesa degli identici a Milano, madre della compravendita, 21 aprile 2016.
- I sindaci: l’urbanistica è mia, 15 maggio 2016.
- Meno «rito ambrosiano» ma nuovi ritualismi, 21 settembre 2016.
- Negli anni Ottanta ci invitavano a berla, Milano, ora ci chiamano a darle l’incenso, 17 novembre 2016.
- MILANO ONALIM. La vita d’oggi in città, 17 marzo 2017.
- Realtà e propaganda nella condizione urbana, 22 febbraio 2018.


Spetterà alle inchieste, e agli storici, stabilire come sia stato possibile che martedì a Parigi 1200 black bloc incappucciati - peraltro ben annunciati - abbiano potuto prendere indisturbati la testa del corteo del 1 maggio e abbandonarsi ad atti violenti tra Austerlitz e Bastille, venendo contenuti solo tardivamente da una polizia assai mal condotta (severe in proposito le parole del leader del sindacato CGT Philippe Martinez, ad onta dei trionfalismi del ministro dell’interno Collomb). Di certo la declinazione violenta e repressiva della manifestazione (109 arresti) ha giovato al presidente in carica per almeno due motivi. Da un lato, a breve termine, ha creato un precedente che potrebbe intimidire (giustificando ogni contromisura) la grande manifestazione contro il governo indetta da partiti e associazioni per sabato 5 maggio (“la fête à Macron”): una dimostrazione che, nel cuore di una stagione di scioperi ostinati in tutti i settori della vita pubblica francese, vuole rappresentare una prima “spallata” se non al presidente almeno all’arroganza del suo potere, refrattario al dialogo sociale e assai disinvolto nella prassi parlamentare.

D’altro canto, le violenze hanno obliterato le vere ragioni di un corteo eterogeneo e colorato, che era in grado di dar voce a istanze disparate in una prospettiva di lotta comune. Non sono frasi fatte. In Piazza della Bastiglia nel pomeriggio di martedì si trovavano banchetti e volantini di ogni genere; molti, com'è naturale, parlavano di questioni francesi: la mano libera alla finanza selvaggia, il taglio delle tasse ai più ricchi, la legge restrittiva sul diritto d’asilo, l’indifferenza alle questioni ambientali, il nuovo sistema selettivo di accesso agli studi, la regionalizzazione dell’orientamento universitario, la demolizione del diritto del lavoro, le privatizzazioni di ferrovie, aeroporti e giochi d'azzardo, le nuove lotte per il reddito di cittadinanza, per la tutela dell’ambiente, per la cogestione delle imprese, per una nuova Banca nazionale.

Ma a queste rivendicazioni si mescolavano fisicamente, sul campo, una serie di questioni internazionali connesse con l'attuale modello di sviluppo e di governo del pianeta, e tutte incarnate non da improbabili opinionisti in doppiopetto bensì da folti gruppi di uomini e donne dei Paesi interessati: in pochi metri s’incontravano così il genocidio dei Tamil in Sri Lanka, i nefandi accordi per il rimpatrio dei migranti del Mali, le atrocità del regime iraniano, il movimento per la liberazione della Cabilia, la lotta dei Palestinesi per una loro patria, le legittime aspirazioni a uno stato dei Curdi (scesi in piazza a centinaia e centinaia), gli arresti ingiusti di comunisti sauditi, presidenti brasiliani, giornalisti turchi e dissidenti marocchini, e via dicendo.

In nessun’altra città la presenza di così tante comunità radicate e vigili sul destino proprio e del mondo intero si congiunge a una riflessione così matura e severa sui limiti della società neo-capitalista, non nell’ottica di difese corporative di vecchi privilegi ma nella prospettiva di un fascio di problemi da affrontare su scala globale: è per questa caratura internazionalista e interclassista (dagli studenti ai ferrovieri ai sans-papiers: anche persone che in teoria dovrebbero farsi la guerra tra loro) che, al di là delle nostalgie del cinquantenario, il riaccendersi del maggio francese fa paura all’establishment.

A volte, anche fuori dalle piazze, basta poco per farsi capire: i cinque attori che in un teatro di Montmartre danno vita alla pièce di Judith Bernard Amargi! (dal nome della cancellazione del debito nell’antica Mesopotamia) illustrano in un'oretta con precisione e garbo come qualmente il sistema del debito, descritto nei suoi presupposti storici e teorici da Solone a Piketty, stia portando il mondo alla catastrofe morale e materiale, nella fattispecie all’eventualità di un vasto conflitto armato. La via d’uscita immaginata sul palcoscenico (una complessa società senza più proprietà lucrativa né banche, fatta di cogestione e microcredito e salario universale) può sembrare utopistica, ma ha senz'altro il merito di offrire un’alternativa alla rassegnazione, o ad una pericolosa involuzione destrorsa e nazionalista.

Anche le tragedie, nel nostro paese, vengono utilizzate come strumenti per la privatizzazione di parti importanti di città. Una tragedia della mancata accoglienza dei migranti in Sicilia viene trasformata in un affare immobiliare a Milano. (m.p.r.) con riferimenti

Nell’articolo pubblicato sulle pagine milanesi de la Repubblica, "Barcone a Milano, progetto a rischio", 30 aprile 2018, sempre acritiche quando si tratta di commentare i grandi progetti urbanistici, si manifesta una certa preoccupazione: forse il “Barcone dei migranti” non arriverà nel cortile della ex Facoltà di Veterinaria.

Quella tragedia rimane incancellabile nella nostra memoria: 700 vittime annegate nel 2015, intrappolate nella stiva di una carretta del mare affondata nelle acque antistanti Augusta. Mancava poco al salvataggio, reso vano dalla criminale disattenzione di un comandante ubriaco.

Il recupero del relitto è stato guidato da una task force della Marina Militare e quello delle salme da una équipe medico-scientifica che è stata capace di dare un nome alle vittime per affidarle al dolore dei parenti e a una sepoltura degna.

Quando questo terribile evento, che era stato affrontato con la pietas dovuta, ha cominciato a perdere il suo significato profondo? Quando si è pensato di utilizzarlo a supporto del progetto di trasferimento delle Facoltà Scientifiche dell'Università Statale dal quartiere di Città Studi nell’area exEXPO e della valorizzazione immobiliare delle aree liberate. Il Barcone dovrebbe infatti essere collocato nel cortile della ex Facoltà di Veterinaria come prima testimonianza di un futuro “Museo dei diritti umani”.

La decisione appare chiaramente strumentale e criticabile; una critica da non confondere, ovviamente, con le reazioni ostili dei leghisti e dei razzisti dei quali brulica la città.

Che ci sia un ampio disaccordo nel merito del progetto fra coloro che subiranno le conseguenze del trasferimento da Città Studi (studenti, ricercatori e professori delle Facoltà Scientifiche e residenti del quartiere) è a tutti ormai noto. Che il governo Gentiloni abbia destinato 500.000 euro per il viaggio di trasferimento a Milano del Barcone forse è meno noto ai non milanesi: un cinico espediente per sviare l’attenzione da un ennesimo progetto fortemente desiderato soltanto dai proprietari di un’area, quella dove si è svolta EXPO; che non è attrattiva per il mercato [1].

Ma il viaggio del Barcone sembra in forse. Il sindaco Sala, si riferisce nell’articolo, dopo aver incontrato il sindaco di Augusta nel cui mare sono annegati i migranti (e che ha ripetutamente chiesto di realizzare un “museo della memoria” dedicato a tutti i migranti annegati nel Mediterraneo), ci sta ripensando. Anzi, meglio: ‘si cava fuori’ e scarica sulla Università Statale, e in particolare sul Rettore e il Senato Accademico, la responsabilità della decisione finale; anche perchè il sostegno finanziario al progetto, promesso dal governo in carica prima delle elezioni politiche, è diventato completamente aleatorio.

Giuseppe Sala è d'altra parte sempre stato convinto che siano altri, e non il governo locale, a potere/dovere decidere in ultima istanza dell’urbanistica milanese; è da decenni un convinto sostenitore del ‘mercato’: degli standard qualitativi, della contrattazione pubblico/privato senza valutazione ex ante e senza regole di trasparenza, dei Programmi Integrati di Intervento, della perequazione estesa, del 'mix flessibile'. Da quando è stato eletto sindaco, ha proceduto senza incertezze in questa direzione ormai consolidata dai sindaci che lo avevano preceduto: in primis, con l’ADP sugli Scali Ferroviari, successivamente con il progetto di svuotamento del quartiere storico vocato alla scienza più importante della città, per citare soltanto i due casi più rilevanti.

Ingannano il suo garbo, la sua propensione al sorriso, la sua buone educazione, una certa, sempre più inusuale fra i sindaci del nostro paese, attenzione al linguaggio della solidarietà? Ma Sala bifronte è comunque un più che fedele sostenitore della ricetta urbanistica di Lupi che tanti danni ha prodotto al tessuto sociale della città. Così come lo è il suo assessore all’Urbanistica Pierfrancesco Maran.

Purtroppo, oggi più che mai, a Milano non sono soltanto i privati speculatori che ragionano (ovviamente) da privati speculatori e gli amministratori locali che ragionano da privati speculatori, ma anche parte cospicua della ‘lobby universitaria’: della quale fanno parte certamente il Rettore della Statale Vago (che non sembra essere un grande ‘visionario’) e, soprattutto, i più che navigati urbanisti del Politecnico che, da Pisapia in poi, hanno sempre garantito il supporto tecnico-scientifico alle peggiori operazioni di privatizzazione della città. Sono loro che hanno ricevuto dal Comune l’incarico per la “definizione di nuovi scenari urbani nell’ambito di Città Studi”. Inutile dire che la scelta dei collaboratori, anche in questo caso come in tutti i precedenti, non è avvenuta sulla base dei requisiti scientifici, ma della ‘fedeltà alla linea’. Chi ha intelletto per capire, occhi per vedere e, soprattutto, attenzione alla tutela delle vocazioni storiche dei quartieri milanesi e alla vivibilità della città, non ci sta. Chi ha a cuore il destino dei migranti, si indigna una volta di più.

[1] Le quote di AREXPO S.p.A risultano così ripartite: Regione Lombardia, 34,67%; Comune di Milano, 34,67%; Fondazione Fiera Milano, 27,66%; Provincia di Milano, 2,0%, Comune di Rho: 1%.


riferimenti

Sul trasferimento delle Facoltà Scientifiche di Città Studi nell’area ex Expo si vedano su eddyburg gli articoli di Marina Romano Milano Città Studi. Cittadini che non si rassegnano, di Giorgio Origlia Città studi: si dirà che il trapianto è riuscito ma il donatore è morto?, di Ennio Galante Città degli Studi: 3 domande a lorsignori, l'appello del gruppo cittadinanza attiva e comitato FAI Che ne sarà di città degli studi?, di Giancarlo Consonni Che azzardo l’università sui terreni dell’Expo, uno sguardo d'insieme delle trasformazioni in corso a Milano di Gianni Barbacetto e Marco Maroni Ancora grattacieli e cemento, il nuovo sacco di Milano

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. E certo non ci dispiace sentire la Farnesina, una volta tanto, fare la voce grossa perfino con un paese amico come la Francia. E tuttavia avremmo preferito - e non da oggi - che una tale coralità di sdegno si fosse manifestata per quel che ormai da qualche anno accade alla frontiera di Ventimiglia. In questa linea di confine, dove una lunga catena di disperati cerca di raggiungere la Terra Promessa del Nord Europa, la Francia, i governanti francesi hanno allestito una barriera che è diventata una macchina di persecuzione dell'immigrato. Un dispositivo di caccia allo straniero ormai sin dentro i nostri confini, per l'appunto. I governi della Francia, del Paese dove è fiorita la cultura della tolleranza e l'idea suprema dell'umana fraternità come scopo della politica; il paese dove da sempre trovano asilo i perseguitati, hanno offerto al mondo l'immagine più meschina e degradante del proprio paese. A partire dal socialista Hollande - uno dei tanti che, in Europa, ha fatto strame della propria tradizione politica – meritatamente cancellato dalla geografia politica francese.

Gli italiani e gli europei, grazie alle immagini della TV, hanno potuto osservare a quale doloroso calvario i gendarmi francesi condannano centinaia di giovani africani e mediorientali, che tentano la sorte attraversando di notte, a temperature insostenibili, i valichi alpini, come quello del Monginevro. Gli italiani e gli europei hanno appreso del trattamento riservato a Beauty, una donna di trent'anni, incinta, malata di linfoma allo stato terminale, fornita di permesso di soggiorno e fatta scendere dal pulman che la portava in Europa, perché il marito era “irregolare”. Un episodio raccontato dalla stampa democratica in tutti i suoi atroci particolari.

Un episodio in cui la ferocia diventa oscena e la Francia, un paese opulento e sottopopolato, espone la sua immagine al disonore del mondo. E tuttavia, se non ci inganniamo, solo Marco Revelli ha avuto il coraggio intellettuale di dire quello che i commentatori perbene, rispettosi sino alle virgole dell'ordine costituito, non osano dire: «È impossibile pensare che dietro questi comportamenti reiterati non ci sia un ordine dall’alto. Che dietro la vergogna del Monginevro non ci sia l’infamia dell’Eliseo, e la firma di quell’Emmanuel Macron che a parole si presenta come campione di europeismo e di libertà, comprensivo delle ragioni dell’Italia e critico della sua solitudine sul tema migranti, ma che nei fatti alza muri come un Orbán qualunque. Ma è anche necessario aggiungere che al fondo di ogni catena di comando ci sta un uomo, che quell’ordine lo esegue. E che chi nella neve dei 1.900 metri ha vessato, offeso, esposto alla malattia e alla morte altri esseri umani, perseguitato i soccorritori e angariato i fragili, porta per intero la responsabilità della propria abiezione» (il manifesto, 1.4.2018).

E qui Revelli individua una questione di prima grandezza, perché oggi il potere, soprattutto quello supremo, ama nascondersi, magari dietro un sorriso affabile e sorridente. E in questo caso affida alle divise dei gendarmi frontalieri i compiti operativi dei suoi nascosti comandi. Come potrebbero, del resto, delle semplici guardie agire con tanta pervicace ferocia senza un comando politico dall'alto, del Ministero degli interni, e come questo potrebbe imporre un tale indirizzo senza l'avallo del Presidente? Se tale catena di comando è un fatto ben noto ed ovvio degli stati contemporanei, se ne trae una conseguenza che bisogna avere il coraggio di smascherare: la viltà del potere più alto.

Bisogna guardare dentro questa divisione del lavoro interna alla macchina del comando politico, dentro, direbbe Foucault, la “microfisica del potere”. Perché se Macron lucra consensi elettorali con la sua politica di ostentata ostilità agli immigrati, non è poi lui a subire conseguenze personali di eventuali e immaginabili ritorsioni. Nessuno, infatti, può pensare che la sofferenza inflitta ai disperati che cercano salvezza in Francia, non venga conosciuta da chi medita attentati terroristici nelle nostre città. E non è difficile immaginare quali nuove, rabbiose motivazioni tratrà dal rinfocolato desiderio di vendetta generato da tanti episodi. E tuttavia, quando la follia omicida lo spingerà, la sua azione rispetterà l'asimmetria e le maschere del potere che reggono il mondo. A essere colpiti e morire saranno cittadini innocenti.

Articolo inviato contemporaneamente a il manifesto

Il 2 aprile 1968 è stato approvato il decreto interministeriale sugli standard urbanistici che sancisce l'obbligo di riservare, nei piani urbanistici, almeno 18 mq di suolo destinato a spazi pubblici e attività collettive per ogni abitante. Un obbligo posto a garanzia di un diritto sociale.

Come ci ricorda Edoardo Salzano, si può dire che la città nasce con gli spazi pubblici. Si può dire che l’uomo, nel suo sforzo di costruire il proprio luogo nell’ambiente, genera quella sua meravigliosa invenzione che è la città a un certo momento della sua vicenda: precisamente quando, dal modificarsi del rapporto tra uomo, lavoro e natura, nasce l’esigenza di organizzarsi (come urbs, come civitas e come polis) attorno a determinate funzioni e determinati luoghi che possano servire l’insieme della comunità.

Attraverso la pianificazione urbanistica possiamo considerare la città a partire dal pubblico e dal pedonale, anziché dall'individuale e dall'automobilistico. Ogni città contiene un potenziale "sistema" formato dall'insieme delle aree qualificanti in termini naturalistici, storici, sociali, culturali, che possono essere collegate fra loro sia attraverso la contiguità fisica sia attraverso una ridefinizione del sistema della mobilità che privilegi gli spostamenti a piedi e in bicicletta lungo itinerari interessanti e piacevoli. Un potenziale, unico e non riproducibile, che può offrire agli abitanti, alle organizzazioni sociali e alle istituzioni pubbliche gli spazi necessari per fornire, collettivamente, risposte alle esigenze e alle aspirazioni delle singole persone.

Gestire il patrimonio ereditato dall’applicazione degli standard urbanistici aprendolo alle iniziative civiche, considerare gli spazi pubblici come il fulcro della rigenerazione urbana, recuperare all’uso pubblico luoghi degradati e sottoutilizzati, guardare alla fruizione dei beni culturali come a un elemento peculiare della dimensione pubblica attraverso il quale rafforzare l’idea stessa di cittadinanza, ricomporre e riorganizzare il magma di costruzioni della città dello sprawl facendo leva sul tessuto diffuso di attrezzature e servizi di prossimità ancora riconoscibili, coniugare le esigenze di sicurezza e salubrità ambientale attraverso il palinsesto di aree verdi presenti all’interno delle aree urbane. Questi sono solo alcuni dei compiti che possono essere svolti dalla pianificazione urbanistica attraverso un impiego appropriato degli standard urbanistici.

La legge ponte e il decreto sugli standard urbanistici hanno rappresentato uno dei punti più alti della storia urbanistica italiana. Così come cinquant’anni fa, anche oggi possiamo considerare il rapporto fra metri quadri di suolo pubblico e abitanti non come una mera questione funzionale, ma come l'espressione della sostanza politica dei piani e delle politiche urbane. Anche oggi, come allora, le garanzie fornite attraverso gli standard urbanistici sono, al contempo, uno stendardo da rivendicare e una piattaforma sulla cui base andare avanti.

Nel sito della scuola di eddyburg sono consultabili i documenti raccolti in occasione delle edizioni del 2009 e del 2017 dedicate agli spazi pubblici. Qui il link alla lectio magistralis di Edoardo Salzano sugli spazi pubblici, tenuta a Pistoia nell’aprile 2015, e all'intervista sugli standard urbanistici curata da Andrea Pantaleo.

... (segue)
ad una sparatoria. E questo titolo, molto provocatoriamente, fu dato a una rivista da un gruppo di intellettuali di varia provenienza politica e formazione, all'indomani dell'uccisione, a Bologna, l'11 marzo del 1977, dello studente Francesco Lorusso.

La grande manifestazione di protesta che investì la città provocò un'ondata di repressione poliziesca che portò alla chiusura di Radio Alice: una voce indipendente fra le più popolari d'Italia. In quel momento Bologna venne a incarnare uno dei punti di più aspro conflitto tra forze politiche di sinistra radicale e il potere istituzionale nelle sue varie incarnazioni. Ma in quell'anno memorabile, che produsse gravi lacerazioni nel corpo della sinistra tradizionale, i conflitti nella città emiliana possedevano una intelligenza anticipatrice che a 40 anni di distanza non possono non sorprendere.
E' una sensazione che si prova leggendo oggi Il cerchio di gesso.Antologia (1977-1979) a cura di Vittorio Boarini, Giulio Forconi e Giorgio Gattei, Pedangron Bologna , 2018 ( pp.318 € 18). La raccolta antologica ospita scritti di varie dimensioni e impegno, che vanno da una lunga poesia civile di Roberto Roversi su Bologna e sul recente eccidio, al saggio introduttivo di Gianni Scalia – uno di primi a lasciare il gruppo per dissensi interni – a scritti degli stessi curatori, di Luigi Ferrajoli, Federico Stame, Pietro Bonfiglioli, Giuseppe Caputo, Anna Panicali e vari altri. In coda le testimonianze di quella breve esperienza a 40 anni di distanza, di D.Bigalli dello stesso Boarini, Bernardino Farolfi, Forconi, Gattei, Maurizio Maldini e Paolo Pullega.

Il senso di anticipazione che si percepisce in questi scritti intrigano lo storico che guarda a quei fatti dalla catastrofe politica dei nostri giorni. Quegli intellettuali che protestavano contro forme intollerabili di violenza e di sopraffazione, in realtà cominciavano a esprimere non solo disagio per un welfare cittadino avviato al declino, ma un dissenso sempre più dispiegato nei confronti della politica nazionale del PCI, ispirata dalla dalla scelta del “compromesso storico” con la Democrazia Cristiana. Nelle parole di Gianni Scalia le ragioni della rivista, che sono quelle di una rivolta intellettuale e morale molto ampia, si comprendono con rara chiarezza. E sono parole per il nostro tempo: « Dovrebbe essere semplice da capire: il Potere diventa assoluto, e funziona come tale se manca l'opposizione al potere, se l'opposizione fa parte del potere, si “compromette” col potere, se il potere si produce e si riproduce con il consenso dell'opposizione». Scalia e gli altri, in effetti, vedevano da Bologna e dall'Emilia, vale a dire dal punto più alto del successo egemonico del PCI, l'inizio del suo storico dissolvimento. E lo scorgevano marxianamente – vale a dire con l'insuperabile bussola analitica di Marx – nel progressivo disancoraggio della sinistra istituzionale dalle sue radici di classe: «Quello che ci minaccia è la perdita della “memoria” di classe, nella classe che è irriducibilmente espropriata ed è irriducibilmente, potenzialmente rivoluzionaria, perché c'è sempre la divisione intollerabile di oppressi e oppressori, di sfruttati e di sfruttatori.» Parole queste ultime che ssuoneranno arcaiche ai politici perbene della sedicente sinistra dei nostri giorni, impegnata a conseguire sempre più scarsi consensi elettorali, piuttosto che organizzare e rappresentare le classi lavoratrici e i ceti subalterni.

Non è qui possibile dar conto dei temi affrontati dalla rivista nei suoi pur pochi anni di vita. Basti qui accennare almeno al fatto che negli scritti antologizzati in questa pubblicazione si riflette anche il generale processo involutivo verso cui si avviava la vita civile del nostro Paese. Repressione e rivolta si fronteggiavano in quegli anni in una contrapposizione lacerante.Tutta «la società – scriveva Boarini in un saggio dell'ottobre 1978 – è idealmente e materialmente in armi: il pluralismo politico e sociale sembra tendere a identificarsi con una pluralità di partiti o gruppi armati». L'ombra del terrorismo calava sulla realtà italiana finendo col rendere “criminale” ogni critica radicale alla società divisa in classi.

postilla
Il "compromesso storico" proposto da Enrico Berlinguer, dopo i fatti del Cile, alle due forze mondiali idealmente ostili al sistema capitalistico (la comunista e la cattolica) era cosa ben diversa dal modesto "compromesso politico" tra partiti della sinistra (Pci e Psi) e la Dc) basta leggere il saggio di Berlinguer pubblicato in tre puntate dal settimanale del Pci, Rinascita

Il 22 marzo è la mia giornata e quest'anno voglio parlare di me: sono la goccia di acqua. Di gocce simili a me ce ne sono in numero sterminato, tutte intorno a voi, nel mare davanti a Genova o Palermo o Trieste, ma siamo tutte in continuo movimento e ciascuna di noi ha una sua storia. Io sono in questo momento nel mare, ma sta sorgendo il Sole e il suo calore scalda me e tutte le mie compagne. Questo calore mi trasforma dallo stato di goccia liquida allo stato di vapore e mi disperdo perciò nell'aria. C'è una forza che mi spinge verso l'alto, nell'atmosfera, ma ben presto mi sento circondata da aria fredda che mi costringe a tornare, dallo stato di vapore, allo stato di goccia d'acqua, che è poi lo stato più naturale per me, che mi piace di più.

Come goccia sono più pesante dell'aria e scendo rapidamente; molte mie compagne, e qualche volta anch'io, ricadiamo di nuovo nel mare, ma oggi cado sul suolo di una zona interna dell’Appennino. Benché sia così piccina, arrivo sul terreno con una forza di caduta enorme al punto da disgregare le rocce e da sollevare tutto intorno la polvere; non per vantarmi (e non ci sarebbe da vantarsi) nella mia caduta sul suolo scavo un cratere quasi come una bomba. Il terreno su cui sono caduta è inclinato e io scendo in basso, verso quella che voi chiamate pianura e costa, trascinandomi dietro un po' della polvere disgregata dal terreno.

l mio cammino finisce dopo poco, in un lungo tubo buio; sento una grande forza che mi trascina, voi umani le chiamate pompe, e una di queste mi attira e mi spinge; per un po' di tempo non vedo niente, ma poi ritrovo la luce uscendo da un rubinetto e mi ritrovo fra le mani di un bambino che si sta lavando. La cosa mi piace fino a un certo punto perché il bambino si toglie lo sporco dalle mani con una roba schiumosa, quella che voi chiamate sapone, e io mi ritrovo tutta inquinata.

Dopo qualche istante sono trascinata, con tante mie compagne, lungo lo scarico del lavandino e qui le cose cominciano a mettersi male; lo scarico è collegato con altri tubi e altri tubi ancora e qui sono circondata da tantissime mie compagne ancora più sporche e inquinate di me; tutto intorno a noi, povere gocce d'acqua, ci sono porcherie, residui di cibo, sostanze schiumose, avanzi di fibre che, mi dicono, vengono dalle macchine che voi chiamate lavatrici. Voi umani scrivete delle belle poesie sull'acqua e anche un vostro santo ha detto che l'acqua è vostra sorella, ma all'atto pratico ci trattate davvero male. Alla fine arrivo in un aggeggio che chiamano depuratore e, con vari maltrattamenti, separano da me almeno una parte delle sporcizie con cui ho viaggiato nelle ultime ore.

Finalmente un tubo mi rigetta nel mare; ero così contenta di viaggiare nell'aria e sul suolo, ma adesso mi rendo conto di avere passato una brutta avventura; speriamo vada meglio la prossima volta. Dopo qualche giorno di nuovo il calore solare mi fa evaporare dal mare e questa volta vengo trascinata da un vortice di vento che mi porta in alto e lontano. Nel mio stato di vapore guardo sotto di me e vedo altri grandi mari e terre e questa volta trovo uno strato freddo a grande altezza e finalmente torno allo stato liquido di goccia e scendo verso il suolo.

Nella mia precedente caduta sulla terra nessuno si è occupato di me e mi hanno anzi maltrattata con le lavatrici e le fogne e i depuratori, ma adesso, mentre sto scendendo, vedo tante mani alzate verso di me ci sono tanti bambini e la loro pelle è colorata di scuro, molto diversa da quella bianca del bambino che mi ha usato per lavarsi le mani. La mani di questi bambini mi toccano, mi accarezzano, come se fossi un regalo del cielo; da quel che capisco, da mesi non vedevano una goccia di acqua e ne avevano disperato bisogno per preparare il cibo, per bere, per irrigare i campi da cui trarre i raccolti, per abbeverare i magri animali che vedo intorno a me. Questi umani almeno mi dicono grazie e mi raccolgono come una cosa preziosa; ogni piccola goccia di acqua come me viene messa entro vasi e stanno tutti attenti perché nessuna di noi cada a terra o vada persa.

Chi sa perché voi umani siete così diversi nei confronti della umile e preziosa goccia di acqua. Mi piacerebbe che la prossima volta che scendo su una delle vostre terre, piene di automobili e di pompe e lavatrici e tubi, mi salutaste con affetto o almeno con rispetto. Se qualche volta qualcuna di noi scorre troppo rapidamente verso la pianura e allaga i vostri campi non è colpa nostra; siete voi che avete maltrattato il suolo dimenticando che noi gocce d'acqua abbiamo le nostre regole e forze e possiamo arrivare nella vostra vita senza danni se imparate a conoscere come ci muoviamo sul suolo, nel sottosuolo, fra gli alberi e dentro le foglie.

L'acqua è vita e noi gocce d'acqua la vita portiamo a tutti voi terrestri, di pelle bianca o colorata.

(segue)

Qualcosa di interessante sta crescendo in Toscana; si tratta dell'’opposizione di sette sindaci al verticismo del giglio magico che viene dall’interno del Pd, non a parole ma su fatti concreti: un segnale non da sottovalutare, perché, se compreso e raccolto, potrebbe delineare un’importante novità politica.

Il terreno del contendere si trova nella nevralgica area metropolitana, dove in questi giorni si sta assistendo a un tentativo di accelerazione delle pessime operazioni in corso - in primis il nuovo aeroporto e il sottoattraversamento Tav. Specularmente, le dichiarazioni di politici e notabili locali tradiscono la preoccupazione che i risultati delle elezioni e la conseguente crisi della nomenclatura renziana mettano in forse alcuni progressi faticosamente raggiunti a furia di strappi a leggi e procedure. «Senza la nuova pista non acquisteremo la Fortezza da Basso (sede delle manifestazioni espositive fiorentine)» dichiara Leonardo Bassilichi, presidente della Camera di Commercio. Concetto ribadito in tono ricattatorio nel titolo de La Nazione Firenze del 13 marzo, «L’aeroporto non si fa? Allora niente Fortezza». E, ancora, si chiede La Nazione «Orfana del giglio magico, Firenze rischia la retrocessione?», rassicurando però i lettori con un «ma Renzi pensa al rilancio».

Ancora più chiaro il ministro Lotti: «Credo che sull'aeroporto si sia fatto tutto: mi auguro che si arrivi velocemente all'inizio dei lavori perché questo è il punto su cui il Pd e anche il nostro governo hanno fortemente lavorato e finalmente si è arrivati alla parte finale. Iniziamo i lavori: dopo resteranno solo le polemiche di chi dice sempre no». Una volta tanto siamo d’accordo: governo e Pd hanno fatto di tutto per togliere la parola ai cittadini: negando il dibattito pubblico previsto per legge, escludendo i Comuni interessati dall’Osservatorio che dovrebbe monitorare il rispetto delle prescrizioni Via sull’aeroporto, eliminando nel suo ruolo di controllore ambientale ogni terzietà all’Arpat, diventata una sub-articolazione della struttura direzionale della Giunta Regionale; con buona pace del legislatore nazionale, che aveva inizialmente concepito il sistema Anpa come un’authority completamente sganciata dal potere esecutivo.

Anche peggiore è la situazione del sottoattraversamento di Firenze da parte dell’alta velocità, con l’arresto di Duccio Astaldi, presidente del comitato di gestione di Condotte spa, sull’orlo del fallimento e i lavoratori non pagati in sciopero. Ma corruzione, malaffare e inefficienza nella Tav fiorentina, già denunciate nel 2016 in un’audizione della Commissione Ambiente del Consiglio regionale da Raffaele Cantone, hanno lasciato indifferente l’establishment politico-imprenditoriale fiorentino. Perché ora dovrebbe turbare la notizia che l’impresa appaltatrice dell’opera sia in drammatica crisi finanziaria e con i vertici indagati?

Tuttavia, qualcosa di interessante si sta muovendo in direzione opposta e non è casuale che proprio a Firenze e dintorni, dove il potere e l’ideologia renziana è più forte, si stiano manifestando le maggiori contraddizioni all’interno del partito. Da una parte l’establishment imprenditoriale che fa tutt’uno con i notabili del Pd, dall’altra sette sindaci dello stesso partito che, almeno su due questioni strategiche - aeroporto e nuovo inceneritore - si stanno opponendo alle decisioni dei vertici; ciò che al di là della sostanza delle specifiche operazioni, significa due politiche antitetiche: quella che decide dall’alto in nome del fare a ogni costo e rifiuta qualsiasi mediazione, anche nelle forme minimali di un dibattito pubblico; e la politica che ancora si ricorda che essere di sinistra significa tutelare gli interessi e la qualità di vita dei cittadini-elettori, il contrario del populismo che viene imputato a chiunque non la pensi nella scia del main stream della governabilità. Non si tratta di una contraddizione dettata da tattiche di corto respiro, ma nel merito: una spaccatura che potrebbe esaurirsi, soffocata dal potere dei vertici, ma cui potrebbe anche seguire una proposta politica che si leghi dal basso a comitati e movimenti, con una prospettiva diversa del ruolo del Pd, finora facilitatore delle politiche confindustriali.

I sindaci che si stanno ribellando ai diktat dei vari Lotti, Nardella, Nencini, Bassilichi, rivendicano il diritto-dovere di partecipare in rappresentanza dei loro quattrocentomila amministrati e indicano l’unica strada percorribile dal Pd se vuole dar senso alla parola “sinistra” e riconquistare il proprio elettorato: ripartire dal basso, ascoltare la gente, sostenere i diritti dei più deboli. I sette sindaci che hanno fatto ricorso al Tar su contenuti e procedure del progetto dell’aeroporto non si oppongono pregiudizialmente all’opera, ma vogliono che siano rispettate tutte le prescrizioni della Via; e se ciò non fosse possibile e se non vi fossero garanzie per la sicurezza e la salute delle popolazioni chiedono che l’opera non si faccia. Guardando più avanti, in prospettiva, propongono esplicitamente un diverso modello di sviluppo: una politica che punti sulla qualità dell’ambiente come fattore di crescita economica e sociale; aggiungiamo noi: che investa nell’università, nella ricerca, nella formazione del capitale umano; che assecondi e rafforzi gli ecosistemi naturali e non li violenti, con conseguenze disastrose. Noi, con loro, ci accontenteremmo di un partito che sappia comprendere le sfide del futuro e non guardi indietro, avendo come paradigma politico l’autostrada Bre-Be-Mi. Inutile, dannosa e costruita su rifiuti tossici.

Qui le attiviste e gli attivisti che hanno dato nuova vita a un ex manicomio raccontano per eddyburg come hanno, con l'aiuto della città, rovesciata la storia delle tecniche di repressione sociale in un presente di solidarietà collettiva.


Dove era prigione abbiamo fatto libertà

Che cos’è, oggi, l’ex-OPG “Je so’ pazzo”? Per capirlo fino in fondo non si può prescindere dal racconto di ciò che è stato ieri, il riscatto e la trasformazione attuali hanno infatti radici molto profonde, sono la risposta a tante vite negate e storie mai raccontate che si sono consumate tra le mura dell’imponente struttura di via Imbriani, a Materdei, nel cuore di Napoli.

Se oggi possiamo raccontare questa storia è grazie al lavoro di tanti volontari, prima di tutto degli psichiatri, degli psicologi, degli storici, dei sofferenti psichici e delle loro famiglie, che ci aiutano quotidianamente a ricostruire la memoria di questo luogo – e a trasmetterla anche attraverso le tante visite organizzate con le scuole della città e iniziative sulla storia delle istituzioni totali che ospitiamo al suo interno – e che animano il nostro sportello di ascolto, una delle tantissime attività gratuite che si svolgono presso l’ex-OPG.

La storia del complesso edilizio

Se “OPG” sta per Ospedale Psichiatrico Giudiziario, se lo chiamiamo “ex” perché da tempo non è più un luogo di prigionia e di libertà negata, la storia racchiusa in queste mura è molto più antica e complessa di così: è nella seconda metà del Cinquecento, infatti, in particolare nel 1566, che le prime tracce di una struttura simile a una masseria vengono documentate nell'opera cartografica di Antoine Lafrery.

Fra il 1572 e il 1574 questi terreni della cosiddetta collina “Infrascata”, vengono acquistati dagli Agostiniani di San Giovanni a Carbonara, i frati Cappuccini allora risiedenti nell'antica sede del convento di Sant'Eframo Vecchio a Capodimonte, nell'attuale zona dei Ponti Rossi. La loro idea è semplice e ambiziosa allo stesso tempo: fondare una nuova chiesa e un nuovo convento di “forma quadra e sufficiente ampiezza” per potersi trasferire in via definitiva in un posto più salubre di quello abitato fino a quel momento.

I lavori di edificazione iniziano nel 1575 grazie alle elargizioni della nobildonna Fabrizia Carafa a favore dei preti mendicanti e le prime strutture vengono immediatamente descritte come “magnifiche” e “fuor dell'usato” per la loro grandiosità. Il monastero è dotato di biblioteche, archivi e di una grande farmacia; probabilmente assume col tempo la funzione di convalescenziario, una sorta di infermeria in cui le persone, pur non avendo bisogno di cure particolari, sono aiutate a “guarire” grazie a lunghi soggiorni. 160 cellette ospitano i religiosi, oltre al chiostro, i cortili, le aree comuni.


L’incendio e la ricostruzione:

da convento a ospizio carcerario

Nel 1840 un grande incendio distrugge gran parte del complesso. All'interno della chiesa vanno persi gli affreschi della volta, opera di Filippo Andreoli e l'altare di Antonio di Lucca, maestro marmoraro del centro antico. Le uniche opere rimaste sono una statua di San Francesco d'Assisi, opera di Francesco Sammartino e una statua della Madonna giunta a Napoli dal Brasile nel 1828. Il re Ferdinando II delle Due Sicilie dispone l'immediato restauro del complesso, che riapre così già nel 1841, con uno stile architettonico rinnovato, prevalentemente neoclassico, in linea col gusto artistico dell'epoca. Nonostante la pronta ristrutturazione l'equilibrio della vita conventuale dura indisturbato fino al 1865 quando, dopo l'Unità nazionale, la Legge di Soppressione degli Enti Ecclesiastici porta allo sgombero dei frati Cappuccini e tutto il comprensorio del Sant'Eframo Nuovo è sequestrato e poi destinato all'uso di “Casa di Correzione ed Ospizio Carcerario”. Libri, manoscritti e qualsiasi traccia della vita di convento sono rapidamente dispersi. Nel 1898 nuovi lavori di ristrutturazione predispongono l'intero complesso conventuale all'organizzazione architettonica degli spazi che possiamo notare ancora oggi.

Da carcere per adulti, però, graduali trasformazioni si susseguono negli anni fino all'istituzione di un vero e proprio Manicomio Criminale: nel 1912, infatti, il carcere di arricchisce di una Sezione Antropologica e Medico-Legale per detenuti con problemi psichici provenienti da tutto il Regno d'Italia. La finalità è quella di tenerli in osservazione per accertare la diagnosi ed individuare eventuali intenti simulatori dei detenuti. Nel 1921, ancora, si istituisce una vera e propria Infermieria Psichiatrica delle carceri di Napoli; nel 1923, per Decreto Ministeriale, la struttura sarà denominata “Manicomio Giudiziario”, entrando a tutti gli effetti in funzione nel 1925.

Da questo momento in poi il Sant'Eframo Nuovo è ancora una volta ampliato per far posto agli internati ed essere adattato alla sua nuova funzione. Dell'antica struttura restano i tre chiostri, due chiese sovrapposte e pochi reperti, poi trasferiti altrove.


Da carcere a manicomio criminale

Nel 1975 il manicomio è convertito in Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Nel 2000 alcune zone della struttura vengono dichiarate inagibili e questo porta al progressivo trasfermento degli internati presso il Centro Penitenziario di Secondigliano. La dismissione dell'intero complesso risale al 2007.

In quasi 500 anni di storia questo posto è stato: un podere incolto posseduto da nobili, un convento, poi un carcere, un manicomio e infine un ospedale psichiatrico giudiziario. Di qui è passata la storia delle tecniche di repressione di tutta la nostra società.

Il Sant'Eframo Nuovo è sempre stato un posto isolato, enorme e imponente, eppure quasi invisibile, inaccessibile, un posto negato anche negli anni dell'abbandono, dal 2007 al 2015, quando è stato e lasciato al saccheggio, all'umidità, all'erosione.


Nasce Je so’ pazzo

Dopo otto anni di incuria e desolazione, il 2 marzo del 2015 lo stabile viene occupato da un gruppo di circa sessanta persone, giovani, studenti, lavoratori e disoccupati. Nasce così l'esperienza della comunità “Je So Pazzo”, l'interruzione di un destino di chiusura, violenze e dolore, l'apertura di tutti i cancelli.

Per noi occupanti liberare questo luogo non ha significato riempirlo come fosse un contenitore vuoto, ma confrontarsi con la storia della struttura, rispettarne la memoria, e allo stesso tempo ripensare gli spazi per le nuove esigenze. Progettare un luogo per destinarlo ad un uso pubblico (o, ancor meglio, comune) è già un rilevante atto sociale; farlo confrontandosi costantemente con la comunità che ne usufruisce, ascoltando e assecondando i differenti bisogni, lo trasforma in un atto politico.

Parlare nella nostra esperienza vuol dire inevitabilmente anche parlare della nostra città, dell’aria che tira, delle speranze e dei progetti che abbiamo per il futuro, parlare cioè di Napoli dal nostro punto di vista. In questa terra spesso ricordata solo per i “morti ammazzati”, la disoccupazione e la “monnezza”, negli ultimi anni sta cambiando qualcosa, tanto che si inizia a parlare di “anomalia”, di “laboratorio napoletano”. Di questo cambiamento facciamo parte, nel nostro piccolo, anche noi, con l’esperienza dell’ex-opg occupato

“Je so’ pazzo” proprio come la canzone di Pino Daniele che tutti abbiamo cantato o fischiettato almeno una volta, perché in una realtà dove la normalità è fatta da disoccupazione, precarietà, discriminazioni razziali e di genere, preferiamo dichiararci pazzi, organizzarci per riprendere parola, costruendo – dal basso – un’alternativa al mondo grigio e disperato che osserviamo quotidianamente.


Entriamo per cambiare

È il marzo 2015 quando siamo entrati per la prima volta nell’OPG di Sant’Eframo di Materdei ci siamo trovati di fronte ad una struttura immensa, abbandonata, vandalizzata, dalla quale nel tempo avevano sottratto di tutto: utensili, fili elettrici, tubi, persino i letti e i tavoli che costituivano l’arredo delle celle. Un luogo sempre vissuto dagli abitanti del quartiere come distante, ostile, come “un buco nero” incastrato nei vicoli stretti di Materdei.

Fin dai primi giorni dalla nostra entrata, un numero incalcolabile di persone ha sentito il bisogno di venirci a trovare: chi per portare generi di prima necessità trasportando buste piene di torte, rustici, caffè e pasta al forno; chi armato di pennelli e rastrelli per dare una mano ai primi (e più che necessari) lavori; chi semplicemente per curiosare o portare un sorriso.

Se siamo riusciti a restare, nonostante le difficoltà di ogni genere, è stato solo per due ragioni: perché eravamo determinati in quanto sentivamo che quella era un’occasione unica per fare qualcosa per la nostra città e perché la gente intorno a noi ci ha voluto subito bene e ci ha aiutato in ogni modo possibile e immaginabile. Non solo pasti e coperte, ma aiuto concreto nel mettere a disposizione gratuitamente le proprie competenze. È così, grazie a questo esercito di imbianchini, mamme e bambini, avvocati, architetti, medici, cuochi e atleti che si è unito a quello di noi occupanti della prim’ora, abbiamo cominciato a recuperare gli spazi della struttura che si presentava in uno stato di abbandono, sporcizia e degrado assoluti: il primo e il secondo chiostro erano ingombri di rifiuti e quasi totalmente inaccessibili a causa della vegetazione cresciuta a dismisura negli anni, occupando percorsi e portici.

La città è con noi: aiuta e chiede

Le prime settimane sono state caratterizzate anche da numerose visite guidate alla struttura, da concerti, reading e spettacoli per la raccolta fondi, da assemblee con gli abitanti del quartiere, da nottate passate ad organizzare le attività per i mesi successivi. Era impossibile, infatti, ignorare le idee e le proposte di chi iniziava a vedere quel luogo, che fino a quel momento era stato vuoto e inospitale, come una casa di tutti, una casa del popolo, da riempire di attività sociali utili alle esigenze del quartiere e della città.

Analogamente non si sono potute ignorare le richieste, esplicite e improrogabili, dei numerosi piccoli abitanti che si sono presentati con scarpette ai piedi, pallone sotto il braccio e magliette del Napoli, che esigevano la riapertura del vecchio campetto di calcio della struttura, inaugurando così la nascita della prima attività sociale: il calcetto popolare. In contemporanea il neonato gruppo del “teatro popolare” ha provveduto a intonacare e ritinteggiare le pareti del piccolo teatro, a buttare giù il vecchio palco ormai inutilizzabile e ricostruirne uno nuovo, a sistemare le quinte, a preparare reading e spettacoli.

Ricordiamo ancora l’emozione di vedere uno dei cortili dedicati, un tempo, al passeggio all'aperto dei detenuti, pieno di spettatori venuti ad assistere al primo spettacolo auto-organizzato all’interno della struttura, noncuranti delle piantane da salotto usate come fari, dei “tubi innocenti” usati come scenografia e dell’unico leggio traballante messo al centro della scena.

Da allora, in questi tre anni abbiamo ospitato nel nuovo teatro dell’ex-OPG circa cinquanta spettacoli teatrali, decine di concerti, abbiamo dato spazio a laboratori, per adulti e bambini, a sessioni di prove di gruppi teatrali del quartiere che prima non sapevano dove riunirsi, alle prove di una banda musicale e di un’orchestra sinfonica grazie alla quale abbiamo potuto “offrire” al quartiere e alla città concerti di musica classica a ingresso gratuito, mostrando così che la cultura, anche e soprattutto quella “alta”, deve e può essere accessibile a tutti.


Aperti sei giorni su sette

Tutti gli interventi sulla struttura, necessari per renderla funzionale alle nuove esigenze, sono stati fatti nell’ottica della conservazione della memoria storica del luogo, senza cioè dimenticare che quella struttura, che ora ospita spazi di gioco, momenti di approfondimento e di dibattito, è stata, in un tempo non lontano, un luogo di sofferenza e di reclusione.

Attualmente l’ex-OPG è aperto sei giorni su sette e ospita più di sessanta attività fisse settimanali completamente gratuite: corsi sportivi (danza, boxe, kung fu, pilates, corsi di yoga, di meditazione, arrampicata sportiva); una “camera del lavoro” e uno sportello legale ai quali si rivolgono lavoratori che hanno bisogno di consulenza e che vogliono incontrarsi per organizzarsi e lottare contro i licenziamenti, il lavoro nero, la privazione dei diritti sindacali; uno sportello per i migranti che necessitano di un aiuto per svolgere le pratiche per il permesso di soggiorno, per affrontare l’iter della richiesta d’asilo, per accedere alle cure sanitarie; la scuola d’italiano e corsi di lingue.

È stato istituito anche uno sportello di ascolto psicologico e psichiatrico e un ambulatorio (ginecologico, ortopedico, oculistico, cardiologico, di medicina generale) dove si fanno visite, consulti, ecografie, giornate di prevenzione, che sono diventati un punto di riferimento senzatetto e migranti, ma anche per tutti coloro che, pur conducendo vite “regolari”, con la crisi sono scivolati nella soglia di povertà, a dimostrazione che il sistema sanitario nazionale, purtroppo troppo spesso, specialmente al Sud, non riesce a garantire l'assistenza minima necessaria. Per combattere questo impoverimento dilagante raccogliamo medicinali, vestiti, giocattoli, che, grazie all’aiuto di alcune associazioni, distribuiamo con cadenza regolare a tutti coloro che ne hanno bisogno. Abbiamo un doposcuola aperto da settembre a giugno e un asilo condiviso dove le mamme si aiutano a vicenda a crescere i più piccoli. Inoltre (siccome vogliamo il pane, ma anche le rose!) abbiamo attivato tanti laboratori artistici tra cui disegno, fotografia, pittura, teatro, laboratori creativi e artigianali per bambini.

Un laboratorio di solidarietà

Se abbiamo potuto fare, nel corso di tre anni, tutto questo, senza finanziamenti da parte di enti pubblici o privati di alcun tipo, è stato solo grazie ad un popolo generoso, che ha voglia di attivarsi e di cambiare, di mettere a disposizione il proprio tempo e le proprie competenze, che sente che l’aria sta cambiando e vuole partecipare a questo cambiamento: in tutta Napoli negli ultimi anni c’è stato infatti un fiorire di esperienze di autogestione, di attivismo dal basso, di riappropriazione e riqualificazione di spazi abbandonati a scopo sociale e abitativo.

In estrema sintesi questo è quello che abbiamo fatto e stiamo facendo, ma il nostro scopo non è certo solo quello di costruire un’isola felice o un luogo destinato a supplire alle carenze dello Stato. Vogliamo essere un laboratorio di solidarietà senza tuttavia smettere di pretendere quei diritti, propri dello stato sociale, che negli ultimi anni abbiamo visto ridursi al minimo.

Le “attività sociali” – ludiche, culturali, sportive – che organizziamo non sono solo un modo per trascorrere assieme il tempo o per soddisfare bisogni che vengono trascurati o negati, ma sono l’occasione per ritrovarci, crescere e trovare delle modalità di intervento comuni sul nostro territorio e sulla nostra città, per migliorarli, per prendere la parola. Da questo punto di vista, piano “sociale” e “politico” sono per noi strettamente intrecciati, sono la trama per partecipare attivamente alla vita pubblica e da cui avviare un processo di trasformazione radicale dell’esistente.

In questo consiste per noi il “potere popolare”: nel riprendersi la possibilità di scegliere e di decidere, nel partecipare attivamente alla vita pubblica.

Ciò che ci sembra utile e importante non è solo promuovere le idee in cui crediamo e portare avanti le battaglie che riteniamo necessarie, ma innescare intorno ad esse un vero processo di partecipazione. Crediamo infatti fortemente nell'attivazione di ampie fasce della popolazione che imparino a conoscere i meccanismi decisionali, a vigilare sul loro svolgimento, a imporre alle istituzioni le loro priorità e le loro soluzioni pratiche. Riteniamo che sviluppare la democrazia significhi metterla alla prova nella pratica, per poterla concretamente realizzare; certi che, in seno al popolo, vi sono capacità di governo, competenze, energie, insomma una forza dirompente, unica, che aspetta solo di potersi esprimere concretamente. Tocca a tutti noi dimostrarlo.

Le attiviste e gli attivisti dell’ex-OPG “Je so’ Pazzo”

Napoli, 14 marzo 2018

In questi tempi di pistoleri e di razze bianche, di suprematisti e di macerazioni, forse l’unico modo per provare a sconfiggere il male oscuro dell’ignoranza, e per mettere in discussione i presupposti stessi dell'odio, è quello di decostruire dall’interno alcuni stereotipi dell’immaginario collettivo: i cowboy bianchi, le discoteche americane, gli immigrati cattivi da rimpatriare, i tiranni dell'Africa nera... È quanto provano a fare i Parigini, in un Paese e in una città assai provati dalle contrapposizioni di razza e di cultura, tramite interventi d’arte e di pensiero che non si vogliono destinati soltanto agli addetti ai lavori, ma provano a coinvolgere l'espace public.

Il fotografo e videoartista franco-algerino Mohammed Bourouissa, forse il più celebre fra quelli ispirati dalle contraddizioni della metropoli (la sua serie Périphérique, ricca di memorabili istantanee degne di un pittore, rimane la più efficace e inquietante introduzione visuale al fenomeno delle banlieues), ha vissuto per molti mesi nella comunità afroamericana di Filadelfia: la sua installazione Urban Riders (fino al 22 aprile al Musée d’Art Moderne de la Ville de Paris) presenta il frutto di quel suo incontro, e si propone di capovolgere con decisione l'inveterato mito del cowboy bianco. Nei sobborghi di Filadelfia, attraversati da afroamericani a cavallo, va finalmente in scena un rodeo interamente “nero”, con destrieri lungamente allevati e allenati in apposite scuderie, e finemente parati per il gran giorno ("Horse Day") per mezzo di strabilianti gualdrappe intessute di stracci multicolori, di tappi di bottiglia, di CD legati alla meglio, in slanci cromatici che non sfigurerebbero dinanzi all'affresco senese di Guidoriccio da Fogliano. Con minore artificio e maggior concretezza rispetto a Tarantino (il cowboy nero di Django Unchained), Bourouissa propone - nell’America di Trump - un’umanità marginale e inattesa, determinata e aperta, che dà corpo alla propria identità secondo parametri simili a quelli dei “bianchi” di Hollywood, ma ricorda sorprendentemente anche l'estetica equestre degli Arabi o dei Messicani. Ci sono dunque il ragazzo nero che incede su un cavallo bardato al modo di Napoleone, il mito di Pegaso precipitato a Fletcher Street, e i volti della città riflessi sulla carrozzeria deformata delle auto, i controversi destrieri della modernità: i "dannati della terra" (Bourouissa cita spesso Frantz Fanon) sono vicinissimi a noi.

Oltre la Senna, la mostra fotografica del maliano Malick Sidibé alla Fondation Cartier (Mali Twist, chiusa il 25 febbraio) ha offerto un’immagine non banale del continente africano, non di rado considerato dalla pubblica opinione secondo parametri affatto esterni, e farisaicamente appiattito lungo assi che non gli appartengono. Certo, non tutti i Paesi africani hanno attraversato l’età dell’oro conosciuta dal Mali all’indomani dell’indipendenza (1960), quando i dancing della capitale Bamako pullulavano di una gioventù vivace e disinibita, la musica combinava sonorità indigene e straniere, e il futuro sembrava passare attraverso i juke-box, le domeniche in topless lungo le rive del Niger (luoghi oggi degradati dall'abbandono), e una singolare forma di non-belligeranza tra religione musulmana e slancio edonistico. Le foto di Sidibé immortalano quegli anni con una freschezza che ha a tratti del pasoliniano (penso in particolare alla Battaglia delle pietre, del 1976), e si capiscono così, a posteriori, le ragioni dello speciale interesse degli estremisti islamici nella destabilizzazione di un Paese tanto libero e "occidentale"; d'altro canto, s'intuisce lo spazio di eleganza, di emancipazione femminile, di sofisticazione artistica e musicale che i Maliani hanno saputo creare, senza aver nulla da invidiare al ricco Occidente bianco.

Dalla guerra civile della Repubblica Centrafricana viene invece il protagonista del film Une saison en France (di Mahamat Saleh-Haroun, Francia 2018), toccante storia di un rifugiato che dopo aver perso la moglie nel suo Paese ed essersi ricostruito una vita decorosa coi due figli nella banlieue di Parigi, si vede rifiutato l'asilo (per un errore, forse; per un nome sbagliato su una lista, o per una lista dal nome sbagliato), e al fianco di una compagna francese d'origine polacca (Sandrine Bonnaire) affronta il calvario della clandestinità e della paura, fino ad approdare a una Calais appena smantellata. Il film non sfugge alla retorica, e attraversa momenti un po' didascalici e rigidi; tuttavia, nel momento in cui la politica non smette di propugnare quasi a una voce il rimpatrio di legioni di persone come principale soluzione al problema migratorio, questo racconto offre uno spaccato di cosa voglia dire concretamente eradicare a forza di carte bollate nuovi cittadini (per di più onesti) da un tessuto sociale che li sta lentamente assorbendo.

Tutto questo non interessa soltanto la triste temperie elettorale e post-elettorale italiana, ma anche la Francia - la quale, per inciso, ha nei Paesi africani sopra citati interessi militari e strategici ingenti, nei quali ha da ultimo coinvolto anche il nostro debole governo. Emmanuel Macron - eletto proprio sull'onda della reazione alla xenofobia lepenista - sta approvando nuove norme sull'immigrazione che preoccupano molti, anche all'interno del suo partito, dove 30 deputati hanno pronti emendamenti sostanziali in vista dei prossimi passaggi parlamentari. La "circolare Collomb" (dal nome del ministro degli interni) prevede ormai il censimento e la scrematura degli immigrati (“triage”, come in ospedale) da parte delle squadre mobili della polizia già nei centri di accoglienza; si prevedono procedure più rapide per giudicare l'asilo ma anche un iter più stringente per richiederlo, tempi di detenzione più lunghi per gli immigrati irregolari, e rimpatri di massa e immediati per chi non ha diritto, con la fine perpetua degli accampamenti "tipo Calais". Soprattutto nel mondo dell'associazionismo, vi è chi ritiene questo programma politico - segnatamente l'intervento delle forze dell'ordine e la contestuale scrematura degli immigrati “sul campo" - sia perfino più a destra di quello di Sarkozy; l’ex first lady Valérie Trierweiler ha dichiarato di ritenere "inaccettabile che si trattino gli esseri umani peggio degli animali”. Ma il Consiglio di Stato ha per ora ritenuto tutto compatibile con la Costituzione.

L’arte e il dibattito non risolvono, ma possono aiutare. Fino al 10 marzo al Théâtre de l’Odéon, dinanzi al Senato della Repubblica, si è rappresentato il Macbeth di Shakespeare nella messa in scena di Stéphane Braunschweig; per scelta del regista, il protagonista della tragedia, intrisa di stregoneria e di Medioevo, di tirannia e di ambizione, era il senegalese Adama Diop. L'idea non pare avere soltanto una ragione artistica (l’umanizzazione quasi spiazzante di uno dei personaggi più complessi e contraddittori del teatro occidentale), ma anche un risvolto culturale, nella misura in cui ha suggerito - in forma dubitativa - una forma di avvicinamento e di confronto tra mondi, dinamiche e contesti che troppe volte tendiamo a considerare remoti e inconciliabili tra loro.


o... (segue)

1.- Anni fa uno studioso di demografia e problemi sociali scriveva che abbiamo aggiunto anni alla vita ma non vita agli anni. Dentro il senso così vero e profondo di quest’affermazione si radica la questione dell’ambiente vitale: la qualità dello spazio, una città e un territorio umanamente abitabili. La classe dominante (oggi la borghesia finanziaria e speculatrice) e i ceti sottoposti consenzienti poiché stretti nella logica consumistica non hanno voluto realizzare quegli assetti economici, sociali e spaziali che appunto aggiungano vita agli anni poiché rivolti esclusivamente al benestare e al benessere dell’uomo e a produrre superiori relazioni umane nella comunità vantaggiosamente insediata.

2.- Lo spazio e il suo uso, in una situazione antropologica di civiltà nel significato straussiano, dovrebbero rappresentare elevati rapporti sia ravvicinati che estesi fra gli uomini. Così, spesso, è avvenuto nel passato. Oggi sono diventati fattore ostile, generatore di penosità e ansia, alla fine punitivo, come una prigione: condizione ben più pesante per gli strati più deboli della popolazione, in primis per gli anziani, sempre più numerosi grazie alla durata media della loro restante vita, nonostante tutto molto maggiore che nel remoto passato. Non sembrerebbe necessario fornire nuove dimostrazioni, misure, come se esistesse ancora qualcuno da convincere circa la realtà in cui si ritrova. Eppure le lamentale di singole persone e di gruppi di cittadini risuonano qua e là ma non riescono a diventare contestazione di massa. Allora competerebbe a sociologi, economisti antiliberisti, urbanisti, architetti, geografi… indicare gli ideali che dovranno distinguere il sentimento comune, per ora invalidato da incultura, insipienza, vocazione all’assoggettamento.

3.- In una visione sia a scala territoriale che a scala urbana il nodo strutturale da cui partire è la diminuzione della popolazione nelle città, specie nel centro storico, cui corrisponde la dislocazione nelle periferie metropolitane e regionali. Fenomeno che a Milano ha raggiunto fino al primo decennio del XXI secolo entità assolute incredibili (perdita di 550.000 residenti), ma che non aveva risparmiato gli altri capoluoghi. Se Milano non potesse contare su oltre 250.000 stranieri residenti regolari (per l’abitazione si arrangiano in ogni maniera) avrebbe circa un milione e 100.000 abitanti (oggi, circa 1.350.000), quando all’inizio degli anni Settanta ne conteneva 1.740.00 [1]: una città ancora arricchita dalla presenza di tutte le classi sociali, classe operaia e borghesia produttiva per prime, totalmente diversa dalla città commerciale e finanziaria priva del confronto fra differenze, se non quelle fra vendere e comprare: le merci e lo stesso denaro.

4.- La Milano propagandata come centrale dell’animazione attorno ai due settori ritenuti motori di nuovi sviluppi economici e, addirittura, culturali, salone del mobile e tanti saloncini delle sfilate di moda non inganni; non si caschi nell’abbaglio dei tanti posti per giocosi incontri al momento dell’uno e degli altri (ah! la città viva…). Le case di moda in crisi, già vendute ad aziende straniere o prossime a chiudere, come poterle ritenere fonte di buona vita, attiva o non attiva? A una giornalista di «Vogue», pendolare fra New York e Milano e indubitabile conoscitrice del settore, chiedo di qualificare il prodotto d’oggi (prescindendo dal fatto che la maggior parte della lavorazione avvenga in paesi orientali ove lo sfruttamento tocca livelli inammissibili nell’Europa occidentale e nordica); la risposta è secca: «fuffa!». Il salone del mobile, poi, con la sua immensa catasta di cose d’ogni genere non prodotte nella nostra città – e se lo fossero non si potrebbe spacciarla come fondamento dell’economia sociale riformatrice – rappresenta il grado a cui è giunta la confusione a-culturale della domanda e dell’offerta [2].

5.- Mentre le nascite continuano a essere superate dalle morti, le uscite, quasi mai emigrazioni a lunga distanza, raffigurano un obbligo ad andarsene fuori dalla città, una decisione forzosa anche se magari descritta da sociologi ciechi quale libera volontà di tornare alla (scomparsa) campagna. La causa consiste nella mancanza di una decisa, convinta politica della residenza milanese rivolta alle famiglie lavoratrici. La realtà amministrativa e politica si è dipanata lungo i decenni fra distruzione dello storico Istituto autonomo case popolari (Iacp) e formazione dell’Azienda lombarda edilizia residenziale (Aler), premessa alla privatizzazione del patrimonio pubblico e impedimento a una domanda di giovani coppie per un’affittanza «popolare» milanese. Unica fuggevole speranza: il Comune, che si è accollato meno della metà degli alloggi, potrebbe comportarsi in senso opposto, garantendo la difesa del patrimonio indiviso.

6.- Questa insufficienza è il risvolto logico di un laisser faire a favore di una terziarizzazione spropositata in primo luogo fagocitatrice di abitazioni esistenti, poi destinataria dei tristi edifici di quest’epoca, spesso grattacieli presto invecchiati e abbandonati (decine quelli di Ligresti) o nuovi lucidati col Sidol-Henkel difficili da riempire; mentre era già iniziato lo svuotamento negli edifici del centro storico e del contorno non destinabili a un mercato di abitazioni a buon mercato. Tutte le amministrazioni succedutesi fino a oggi a iniziare da quella del sindaco Formentini (anni Novanta) hanno cavalcato un fenomeno ritenuto inevitabile e non governabile, creduto in ogni caso ultramoderno, post-industriale, post-tutto [3].

7.- Mentre vigevano anche gli effetti autonomi di trasferimento residenziale causati dalla pesante deindustrializzazione, i maggiorenti vantavano primati di terziario «avanzato» quando la gran massa invasiva e aggressiva apparteneva ai settori più tradizionali (magari anche «neri»), il contrario che generatori di progresso civile. Il peggior liberismo urbanistico in ordine ai settori funzionali non solo ha costretto molte famiglie a trasferirsi nei circondari ma esse hanno dovuto farlo senza poter scegliere il luogo. Intanto, nell’insieme il sistema classista impediva nuovi ingressi in città per risiedervi a lavoratori dipendenti del terzo settore milanese che avrebbero potuto riequilibrare in equa misura il rapporto casa lavoro.

8.- Possedere una casetta nell’hinterland più scomodo non reca alcun vantaggio se il prezzo aggiuntivo consiste nel penare due o tre ore, e più, di andirivieni per lavoro (stressanti spostamenti in automobile e avvilenti viaggi su mezzi pubblici inadeguati). La proprietà della casa secondo l’Agenzia delle entrate (giugno 2017) riguarderebbe in Italia il 77 % delle famiglie, per questo un Berlusconi continua tuttora a ripetere (il condannato ritornato nell’agone politico senza che qualcuno obiettasse) che il problema della casa non esiste. Al contrario, è il momento di distinguere prescindendo dalla diffusione della proprietà che peraltro nelle città grandi è molto inferiore (Milano, circa 60 %, secondo la stessa agenzia). Riguardo a nuovi modelli di organizzazione dello spazio fondati sulla conoscenza delle diseguaglianze sociali e sulla certezza che le divisioni classiste del territorio hanno comportato la sua degradazione funzionale ed estetica, occorre proiettare la residenzialità nella concezione e nella realtà di habitat: collocare in una prospettiva di nuova città (nuova metropoli) la città storica e la città nuova (il territorio comunale), la città madre e le periferie metropolitane.

9.- La scelta in favore di un potente rilancio della residenza urbana, accompagnata dalla visione di una metropoli indipendente dall’economicismo liberista, può influenzare la struttura della popolazione per fasce di età e per classi di lavoro/non lavoro, indirizzandola verso forme coerenti ai bisogni e alle libere più alte aspirazioni dei gruppi umani. La resistibile caduta quantitativa e selettiva della residenzialità nei centri urbani, contrastata solo dagli immigrati stranieri in forte maggioranza extracomunitari, sancisce la perdita di un complesso sistema di rapporti e di equilibri fra le destinazioni funzionali (produttive e riproduttive) e un conforme uso degli spazi. Un sistema che Milano e le altre città medie e piccole, pianeti e satelliti di un’organizzazione territoriale policentrica quanto mai funzionale, hanno potuto conservare a lungo nel corso storico. Il territorio lombardo, fino alla seconda rivoluzione industriale costituito da poli urbani compatti e da ampie fasce agricole estese a tutta la regione, anche nella parte meno fertile a nord della linea delle risorgive, ha divorato se stesso attraverso il soddisfacimento dell’appetito del capitale trascorrendo dapprima lentamente poi a rotta di collo dal piano dei profitti a quello delle rendite fondiarie ed edilizie, infine declinate in assoluta e criminosa speculazione finanziaria ruotante spiralmente su se stessa senza alcuna validazione sociale.
NOTE
[1] Per un’ampia trattazione di questi temi, vedi il mio articolo Com’era Milano e com’è al tempo dell’Esposizione, eddyburg, 9 aprile 2015.

[2] Il collegamento del Salone ai numerosi negozi di arredamento ha prodotto un ulteriore legame con luoghi per i consumi e il divertimento, preesistenti o nuovi (movida e consimili). Sembra che il design abbia introdotto una specie di estetismo di massa commettendo falli irreparabili. La cultura di un design milanese ineguagliato altrove e punto di riferimento internazionale per l’arredo e l’allestimento di qualità si è esaurita con lo spirare del secolo breve. In seguito gli autori si sono rifugiati nell’azzardo o nel semplicismo o nell’insensato inquinando le sorgenti delle idee e degli ideali.

[3] Si criminalizza il terziario, dicono gli amministratori pubblici. Invece è valutazione della realtà. Ho lasciato da parte la presenza massiva dell’ndrangheta-mafia che, come ho descritto in altri articoli, sguazza soprattutto nel commercio (25%, pizzerie 50%, stima della procura milanese) ripulendovi facilmente capitali senza etichetta di provenienza, e nei cantieri per i movimenti di terra e le fondazioni.

Il mondo della cosiddetta cultura nazionalpopolare e dell'intrattenimento sa benissimo di essere immerso fino al collo dentro criteri di mercato anche piuttosto perversi, dove impera assoluto (o quasi, vabè) lo slogan business is business, e qualunque produzione ha come obiettivo quello di vendersi a un pubblico più vasto possibile. Il che dovrebbe far riflettere, soprattutto quando pensiamo che la medesima valutazione, consapevolmente o meno, permea di sé ogni forma (o quasi) di giornalismo informativo, dal più pettegolaio e dichiaratamente vicino alla pura fiction al più serioso e «politico di inchiesta» che però non rinuncia mai all'immagine caratterizzante. Perché esistono immagini ricorrenti, stereotipate, accostamenti automatici di situazioni e sensazioni, «senso del luogo», del tutto campati per aria? E perché li si usa con tanta noncuranza o leggerezza, come se non se ne conoscesse l'enorme potere di condizionamento quasi subliminale dell'opinione pubblica? Forse davvero, si scherza col fuoco senza neppure sospettare di accenderlo e alimentarlo. E le città sono il caminetto ideale per questi esperimenti incendiari da apprendisti stregoni a propria insaputa.

Lo slogan immobiliarista come convenzione sociale

Milano, 10 feb. 2018 - Foto F. Bottini
Quante volte siamo inciampati nella cronaca dei più efferati delitti «ambientati dentro» l'implicita innocenza o colpevolezza di uno spazio urbano? Così tante non solo da aver perso il conto, ma anche da essersi abituati a considerarlo normale, parte del rito, persino credibile tanto quanto le forme dell'impaginazione o la posizione e scelta delle eventuali foto di contorno: la «insospettabile stradina di linde villette» dove mai e poi mai ci si sarebbe aspettati il «sottoscala dell'orrore»; la cittadina tranquilla e sonnacchiosa che «si risveglia» nel panico delle latenti contraddizioni; e naturalmente gli «allucinati falansteri metropolitani» dove tutto il male del mondo sta già concentrato, e pronto a fare il suo mestiere. Del resto questa incredibile geometrica potenza degli stereotipi urbani è il motivo per cui con tanta facilità e spontaneità anche brillanti teorie come quella del decentramento pianificato nelle città giardino di Ebenezer Howard, si sono rapidamente involute nel proprio opposto, alimentando l'eterna illusione suburbana, o le estremamente moderne osservazioni di Jane Jacobs sono sfociate nei peana sul quartiere tradizionale da cartolina, del tipo poi riprodotto in serie dai gentrificatori di tutto il mondo. Eppure, molti osservatori per nulla casuali ci hanno provato, a leggere i segnali della città per quello che sono o potrebbero essere. Solo per fare un esempio basta citare la Teoria della Finestra Rotta, che parte da sistematiche osservazioni concentrate soprattutto negli anni '70 della crisi metropolitana più nera, della fuga dei ceti medi verso il suburbio, del crollo di solvibilità fiscale da insicurezza reale e percepita.

Dall'affermare chiaramente all'essere davvero ascoltati, cosa c'è di mezzo?

Ma puntuale come un cronometro, anche un lavoro teorico a suo modo ineccepibile come la Broken Window Theory nella formulazione originaria, affondava negli stereotipi, e il luogo comune invece di cogliere il potenziale di questo collegamento tra sicurezza percepita e uso mirato delle risorse scarse di ordine pubblico a scopi urbani preventivi (perché di questo originariamente si trattava), trasformava tutto in «politiche ferro e fuoco». Con che obiettivo, di fatto? Beh, ce l'abbiamo davanti agli occhi, volendo guardare a posteriori: la gentrification degli ex quartieri degli stereotipi negativi, e lo spostamento dei problemi nello «insospettabile scantinato dell'orrore» sotto la linda villetta che altre, nuove ricerche ci spiegano non essere poi tanto linda. E guardando la questione da un'altra, non troppo diversa prospettiva, pare che i medesimi stereotipi – nazionalpopolari ma non troppo - in agguato pervadano anche certe stravaganti idee di recupero delle periferie a colpi di prevalenti interventi edilizio-urbanistici, quando in realtà l'eventuale degrado delle strutture fisiche è solo conseguenza, e non componente base, del vero problema. Ma è dura discutere con chi una volta impugnato con forza uno slogan non intende certo lasciarlo andare, specie se ne ha fatto strumento di identità e legittimazione. E così, nonostante l'evidenza, dovremo continuare ancora per decenni, magari per sempre, a sorbirci una «informazione» come quella su Macerata, capoluogo provinciale sonnacchioso dove non succede mai niente perché in un posto così e così niente deve mai succedere, finché all'improvviso … Beh: chi vuole si legga al link cosa ne pensano gli studiosi della Brookings Institution, dei rapporti tra politica e «stereotipi spaziali».

Riferimenti:
Jenny Schuetz, Does TV bear some responsibility for hard feelings between urban America and small town America? Brookings Institution, 12 febbraio 2018
E magari per chi non li ha visti, gli articoli de La Città Conquistatrice dedicati alla Sicurezza Urbana

Diciamo la verità, tutta la verità, almeno a sinistra, circondati come siamo da un oceano di menzogne pubblicitarie. Non siamo contenti di come il nostro campo politico... (segue)

Diciamo la verità, tutta la verità, almeno a sinistra, circondati come siamo da un oceano di menzogne pubblicitarie. Non siamo contenti di come il nostro campo politico è arrivato all’appuntamento elettorale. Un anno perduto appresso alle oscillazioni quotidiane di Giuliano Pisapia, quando pure appariva evidente l’inconsistenza del tentativo e l’inadeguatezza del suo proponente. Poi, al momento della configurazione di un nuovo organismo politico, con la nascita di Liberi e Uguali, l’esplosione di logiche spartitorie e pattizie che hanno emarginato i protagonisti del Brancaccio e dunque una vasta area di movimenti e di giovani. Il tutto condito dalla incoronazione dall’alto, come il deus ex machina delle tragedie antiche, di un personaggio esterno alla storia politica delle formazioni che si fondevano.

Come se il prestigio pur alto di un uomo delle istituzioni, come Pietro Grasso, avesse potuto compensare l’assenza di democrazia nella scelta dei candidati: pratica inveterata che costituisce una delle cause della fuga dai partiti politici e della diserzione delle urne. Tutto questo mentre a sinistra una nuova formazione, Potere al popolo, mostra altre forze vitali del nostro campo che si disperdono, in un momento di acuto scontro politico e ideale in atto nel Paese

Ma se è andato male il percorso con cui si è arrivati alla scadenza elettorale non è che la campagna con cui ci si presenta al 4 marzo stia andando splendidamente. Pur tra spunti apprezzabili, mancano indicazioni programmatiche limpide e nette, in grado di caratterizzare e distinguere il campo della sinistra. E nelle indicazioni, a livello di linguaggio elettorale, una strada di efficace comunicazione è costituita dalla opposizione radicale ad alcune riforme del governo Renzi. Quella contro il Jobs Act è certamente di grande importanza e parla a una larghissima platea di lavoratori e di italiani. Anche se la critica a quel monumento antioperaio andrebbe articolata con maggiore ricchezza di motivazioni.

Ma c’è un ambito fondamentale della vita del nostro Paese, una istituzione strategica per il nostro avvenire, che oggi non appare sufficientemente vicina agli sguardi e agli interessi della sinistra. E’ la scuola. Il luogo dove si formano le nuove generazioni. Ebbene, occorre dire con forza quello che è ignorato da gran parte degli italiani: la scuola così come l’abbiamo conosciuta, luogo di formazione culturale, civile, spirituale è quasi andata distrutta. Essa è stata trasformata e diventa sempre di più, una unica, indistinta, scuola professionale. La cultura, l’insieme di discipline in cui si articola il sapere del nostro tempo è ormai ridotta ad apprendistato, un campo neutro e frantumato di “competenze”, di cui gli studenti devono appropriarsi per accedere al lavoro.

Com’ è noto l’alternanza scuola lavoro prevede 400 ore annue di prestazioni lavorative da parte dei ragazzi degli istituti tecnici e 200 da parte dei liceali. Ore sottratto allo studio, alla riflessione, al dialogo con gli insegnati. Questi ultimi sempre meno sono impegnati nell’insegnamento diretto e nella preparazione delle loro lezioni e sempre più assorbiti da compiti di valutazioni del lavoro. di rendicontazione, misurazione dei risultati, elaborazione di progetti per raccogliere risorse per i loro istituti, ecc. La scuola azienda – un progetto avviato in Europa alla fine degli anni ’90 - diventa un pilastro di una più ampia riforma del mercato del lavoro, in cui le istituzioni pubbliche della formazione vengono piegate ai presunti bisogni produttivi delle aziende. Una esagerazione? Invitiamo a leggere, in Gazzetta, (25/1/2018) il decreto congiunto del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali e del MIUR che istituisce il Quadro nazionale delle qualificazioni rilasciate nell'ambito del Sistema nazionale di certificazione delle competenze.

È evidente che siamo arrivati alla cancellazione di un paradigma educativo che l'Europa aveva elaborato nel corso di alcuni secoli, vale a dire il profilo culturale della modernità, il fondamento della nostra civiltà. E l’aspetto davvero grottesco di questa drammatica involuzione del processo formativo, è che avviene in una fase storica in cui la vorticosa innovazione dei processi produttivi rende obsoleto in breve tempo qualunque “competenza”. La scuola che vuole formare i giovani non come cittadini e spiriti liberi, ma come lavoratori, equivale a rincorrere a piedi un treno in corsa, ma correndo in direzione contraria. Abbiamo bisogno di generazioni culturalmente ricche e dotate di capacità creativa, per fare della tecnologia che avanza strumenti di liberazione umana e di un superiore assetto di civiltà. E invece si vogliono fabbricare soldatini di un esercito del lavoro per una guerra che si combatte con altre armi.

Per queste ragioni l’impegno a cancellare alla radice l’assetto aziendale della formazione - di cui la Buona scuola è l’ultimo esito - non è solo un tema efficace di campagna elettorale, ma un obiettivo strategico irrinunciabile della sinistra.

Articolo inviato contemporaneamente a il manifesto

Quale Roma vorremmo? Perché questa città, ancorché bellissima, è diventata il luogo dei misfatti, degli intrighi, dei costruttori e loro amici, dei Sindaci che non avrebbero nessun credito nemmeno come direttori di un supermercato. Mi è capitato di entrare in città attraverso Porta San Sebastiano e, come in un sogno ad occhi chiusi, ho immaginato che quel parco dell’Appia Antica mi seguisse fino alle Terme di Caracalla e poi, ancora, sfociasse nei Fori con tutta la sua carica di storia, di presenze silenziose, di colori del cielo. E’ stato solo un sogno ma ho pensato che fosse quello immaginato da Petroselli, Cederna, De Lucia e tanti altri. Poi, seduto su una pietra, ho aperto un quotidiano (uno qualsiasi) alla cronaca cittadina: ho letti di buche, cinghiali in transito, topi, discariche, municipalizzate, trasporti, immigrati, senzatetto, sfrattati. Un brutto risveglio da quel breve sogno.

Ho richiuso gli occhi e immaginato un giorno di festa dove venivano aperte le tante caserme di Roma, i cui spazi venivano restituiti alla città insieme ai tanti alloggi occupati da chi la casa non ce l’ha. Ho visto spazzini, insieme ad abitanti, pulire strade e marciapiedi, salutati da un coro di persone scese nella strada per contribuire all’opera. Ho sognato i Fori riempirsi di ragazzi delle scuole, girare tra i ruderi, sentirsi orgogliosi di quella grande storia raccontata da quelle presenze solenni.C’era aria di festa in quel mio sogno, il suono di un fiume che scorreva lì vicino e le grida di tanti bambini che giocavano in strade dove una volta passavano auto veloci, e, ora: biciclette, tricicli, carrozzelle, pattini, che si mescolavano alla folla; felice, ognuno, di essere in compagnia di altri in questa grande città.

Ho riaperto per un attimo gli occhi e ho visto le ferite inferte: recinsioni, reti metalliche, camionette che sbarrano il passo, militi che, pur se gentili, evocano spettri di una minaccia sconosciuta e misteriosa, segnali di pericolo. Questa volta, chiudendo gli occhi, ho avuto un incubo: il Colosseo divorato da tante cavallette travestite da turisti; l’ho visto, così solenne, sgretolarsi d’incanto, pezzo dopo pezzo, molecola dopo molecola. Ho sentito il rombo degli arei della parata del 2 giugno, il gran silenzio interrotto dal rumore assordante dei carri.

Ho visto cinghiali rotolarsi in Campo dei Fiori tra la spazzatura, intimoriti solo dalla presenza di nutrie che arrivavano risalendo i muraglioni del fiume, e poi, ancora, gabbiani e gabbiani dare la caccia ai colombi. Sulla gran Colonna di Traiano appollaiati strani pappagallini gialli e verdi come vedette che mettono in guardia altri uccelli a stare alla larga e un cielo nero solcato da rondoni e falchi. Ho visto il fiume trasformarsi in una marea di fango che trascinava con sé relitti di barche e rami spezzati.

Ho di nuovo aperto gli occhi e pensato come vorrei questa città: è un sogno che tengo per me.

Qualche giorno fa, l’8 gennaio, è stato pubblicato un curioso articolo sul quotidiano la Repubblica, passato inosservato, dal singolare titolo: “Il 2017 è stato l’anno migliore”, in assoluto della lunga storia dell’umanità. L’autore è Nicholas Kristof, editorialista del prestigioso New York Times, vincitore di ben due premi Pulitzer, quindi, se ne dovrebbe dedurre, voce autorevole del giornalismo internazionale. Se il titolo dell’articolo suscita serie e legittime perplessità, il suo contenuto lascia ancora più sorpresi. La percentuale, afferma, della popolazione mondiale che soffre la fame, è in miseria, o non sa leggere e scrivere, non è mai stata così bassa. La percentuale di bambini che muoiono non è mai stata così bassa. Anche la percentuale di persone sfigurate dalla lebbra, accecate da malattie come il tracoma o affette da altri mali, è scesa. Ogni giorno, il numero di persone di tutto il mondo che vivono in povertà estrema (quelli che guadagnano meno di due dollari al giorno) scende di 217.000 unità, ogni giorno 325.000 persone in più hanno accesso all’energia elettrica e 300.000 persone in più hanno accesso a un’acqua potabile pulita.

Più oltre, nell’articolo, si afferma anche: in tempi recenti, come gli anni Sessanta, la maggioranza degli esseri umani era analfabeta dalla nascita e viveva nella miseria più estrema. Ora meno del 15 per cento della popolazione mondiale non sa leggere e scrivere e meno del 10 per cento vive in estrema povertà. Tra altri quindici anni l’analfabetismo e la povertà estrema saranno quasi del tutto scomparsi. Dopo migliaia di generazioni, questi fenomeni stanno, più o meno, svanendo alla vista.

Che dire? Un esempio fulgido di come le magnifiche sorti e progressive dell’umanità sono all’opera, nonostante i dubbi di Leopardi e di tutte le generazioni che sono a lui seguite. A me l’articolo ha fatto ricordare un divertente sillogismo con il quale mia nonna (democristiana doc) riusciva a stroncare, alla fine degli anni Cinquanta, i miei aneliti comunisti quando avevo l’età di 13 anni. Ella diceva: adesso non c’è più la guerra, nessuno più muore di fame, abbiamo la radio, siamo nel benessere. Tu osi contestare tutto questo? Di chi il merito se non del partito che ci governa (democristiano)? Di fronte all’evidenza di queste evidenze non mi rimaneva che restare in silenzio, pur sospettando che quello non era certamente il migliore dei mondi.

L’editorialista, però, non può fare a meno di riconoscere che il mondo sta andando a scatafascio, ma ha una sua ricetta per salvarlo. Più avanti nell’articolo afferma: in quale momento storico preferireste vivere? Francis Scott Fitzgerald diceva che la prova di un’intelligenza di prima categoria è la capacità di intrattenere due pensieri contraddittori nello stesso momento. Provate con questi (ecco la ricetta, nda): il mondo sta registrando importanti progressi, ma è anche esposto a minacce letali. Il primo pensiero dovrebbe darci la forza per agire rispetto al secondo.

Non ci avevamo pensato! Basta dunque non vedere il mondo che sta andando a scatafascio e concentrarci sulle magnifiche sorti e progressive, per risolvere tutti i problemi. Straordinario questo articolo che ci insegna a fare come gli struzzi che, di fronte, a un pericolo mettono la testa sotto la sabbia per non vedere. E’ un esempio di come i mass media possono manipolare le menti delle persone e far credere loro che questo è il migliore dei mondi possibili. Anzi, non potremmo desiderare di meglio e ringraziare chi ce lo ricorda e chi ci governa!

(segue)

Sulle pagine milanesi dei quotidiani è riapparsa la questione del turismo, da una nebbia padana che non ha potuto nascondere le stolidezze che dicono o fanno gli amministratori pubblici (la bandiera nera spetta per una parte alle arie dei lavori per la nuova linea della metro, per un’altra al patto illegittimo per il riutilizzo degli scali ferroviari. Al turismo bandiera gialla).

Già alla fine di settembre 2017 il sindaco vantava grandi conquiste con sorprendente imprecisione: sette milioni di visitatori nell’anno, la notizia di un giorno; superamento degli otto milioni quella di un altro appena successivo. E «gli pare» che Milano batterà Roma; vittoria che «per l’economia e la reputazione di Milano è fondamentale». Tutti capiscono che il nostro spara palle di grosso calibro per abbattere la vecchia capitale reale, così che appaia più alta la capitale economica (non morale, con tutta quella ’ndrangheta che l’accompagna). Un assessore romano risponde che Roma sconfigge Milano 14 milioni a 7. Statistiche provenienti da La Stampa - Secolo XIX indicano che la capitale disperata resta pur sempre la regina di bellezza per italiani e soprattutto stranieri, 20 milioni gli arrivi e 40 le presenze nell’ultimo anno: incredibile dictu audituque? Ad ogni modo, fossero anche molti di meno, mostrerebbero la predominanza delle visite dette «mordi e fuggi» per additare un turismo rientrante nel grigio sistema del consumo di tipo culinario, anziché nella grande conca della cultura generale e dell’arte.

Ugualmente Venezia. Da molto tempo le quantità (anche decisamente inferiori a quelle segnalate da istituzioni, da enti pubblici e privati, da amanti appassionati - etiam nos) paiono insopportabili dalla città storica - come fosse una persona tanto fisicamente fragile - con l’osteoporosi diffusa per cause persistenti dalla fine del XVIII secolo; ma dalla seconda metà del XX concentrata nella corporeità del torso, al limite della frattura, eppure selezionato dalle agenzie turistiche per darlo in pasto a irresponsabili grappoli umani: sarebbero questi a morsicare le ruskiniane pietre prima di fuggire? L’isola veneziana deve fronteggiare la parte gravosa dell’assalto al territorio comunale, tuttavia forse inferiore all’attesa preoccupata se crediamo ai numeri dell’annuario municipale dell’anno 2016. Infatti: riguardo all’intero comune si sarebbero registrati 4 milioni e mezzo di arrivi e 10 milioni e 200.000 presenze turistiche (cifre arrotondate); nella città storica i primi e le seconde si riducono al 60÷70 per cento, ossia rispettivamente a circa 2.800.000 e a 6.800.000: però in uno spazio urbano di meno che 50.000 residenti, spazio e abitanti fissi ancor più ridotti, fin quasi a zero secondo l’ipotesi di concentrazione in quel torso.

Esposti disciplinatamente i dati numerici, quanto sicuri non sappiamo, li accantoniamo riconoscendogli un peso generico assoluto ma non la capacità di raccontarci la realtà degli accadimenti nelle città malversate dal turismo. Sì, è così, il turismo nella maniera d’oggi e del passato prossimo è malversazione, Carla Ravaioli ce lo ha spiegato una dozzina di anni fa con l’articolo in eddyburg Il turismo inquinante (11 aprile 2005), da noi rilanciato dopo pochi giorni con Coraggiosa Carla Ravaioli (22 aprile 2005), entrambi ricordati da Salzano insieme al fondamentale quasi saggio di Luigi Scano Turismo insostenibile, 8 dicembre 2006 [1]. Niente è cambiato da allora.

Il turismo di folla, lasciato allo sfruttamento liberistico dai governanti, dallo stato al piccolo comune, o, peggio, profittato direttamente da questi per risanare i bilanci e diminuire i debiti, inquina con la propria impronta contro-culturale ogni ambito della vita, le città e il territorio; una maniera che seziona il 10÷20 per cento dei beni culturali, artistici, paesaggistici in conformità alla convenienza dell’azienda o dell’ente, li delimita teoricamente e materialmente, li spreme, li schiaccia, li tagliuzza, ne riduce il valore mentre aumenta il consumo di gruppo (gruppone); ossia ne cava il massimo di produttività quindi di incasso. L’80÷90 per cento è destinato all’avvilimento, se non al degrado, all’abbandono, infine al disconoscimento. A meno che si tratti di coste marine, montagne, laghi, colline che quanto più si estendano, si invadano e si denaturalizzino tanto più generano il compiacimento di massa per vacanze e divertimenti stagionali, intanto che la conquista della seconda casa in proprietà permanente ha soddisfatto o soddisfa in avvicendamento oltre cinque milioni di famiglie: in tutto questo risiede per Carla Ravaioli il peggio dell’«inquinamento turistico».

Seguirà l’invettiva di Luigi Scano verso azzardate soluzioni per la sua Venezia, del resto epitome al cubo del falso daffare e dei veri affari di politici, amministratori, manager pubblici e privati in tutte le città storiche. Scontata l’attenzione agli interessi dei pochi residenti, ben più decisivo sarà il principio «di non ledere, se non marginalmente e inavvertitamente [quelli] arroccatissimi e fortificatissimi delle categorie, delle sotto-categorie, dei gruppi, dei soggetti, individuali e societari, che, per lucrare sulla funzione turistica della città storica di Venezia e della sua Laguna, da anni e da decenni stanno, come locuste predatorie e voraci, sfregiando, sconciando, divorando, consumando l’una e l’altra». Eppure restano ai veri amici, piccola minoranza di conoscitori e amatori, le parti, non poche, trascurate dalle locuste; fortunatamente, vien da dire, giacché resistono riservate ad essi, cui raccontano la loro storia umana e sociale e la connaturata bellezza, ormai estranee agli intontiti residuali abitanti.

Dicevamo della grande conca della cultura generale e dell’arte. Il turismo ufficiale contabilizzato che ne è fuori non vi rientrerà mai senza un rivolgimento sociale. Le masse guidate da un’azienda o da un ente pubblico verso quel 10÷20 per cento dei beni adatti o adattati a cavarne un plus-profitto applicando gli stessi metodi storici del capitalismo nell’utilizzo del lavoro, restano prigioniere della loro ignoranza così come gli operai restavano prigionieri della loro povertà. Se Venezia ne è testimone, Milano ne è primatista. Ne consegue d’altra parte un ostacolo ai desideri e alla libertà delle persone colte o propense a valersi del cervello e del cuore per continuare l’autoformazione e, attraverso la percezione dell’elevatezza dell’arte, goderne l’effetto di puro piacere e di elevamento del sé.

Prima di tutto: niente scalfisce il dominio del turismo commerciale. L’abbiamo mostrato nell’articolo La contesa degli identici a Milano, madre della compravendita [2]. E siccome nel gigantesco ruotante sistema delle entrate e uscite relative agli spazi commerciali i capitali della ‘ndrangheta si puliscono e si legittimano coprendo almeno il 25 per cento dell’intero affare (secondo la Procura milanese), ne desumiamo ancora una volta con Carla Ravaioli che li turismo milanese è intriso di mafiosità.

L’ente che indirizza le masse e ne ricava profitto forse più di ogni altro è la curia. Le indirizza verso la visita del Duomo e le governa nell’acquisto del biglietto, nell’ingresso, nell’uso dei sevizi igienici (costruiti addosso all’angolo meridionale della facciata). Uno spettacolo spiacevole che supera quant’altri ne esistano riguardo all’accesso «turistico» di altre cattedrali, anche una San Marco, o una San Pietro… Come bestiame incanalato mediante transenne metalliche in un percorso ritorto più volte, le si conduce anziché al macello alla biglietteria o ai servizi, poi a uno dei portali, adesso l’ultimo a destra dei cinque della facciata.

Sembra logico che per aumentare l’introito sia utilizzata e messa in risalto, dirimpetto al fianco destro della chiesa (guardando la fronte), la vecchia entrata al museo per accedere al nuovo Duomo Shop, punto di vendita ufficiale della Veneranda Fabbrica. L’allestimento commerciale si incentra sulla grande sala viscontea colonnata, alcuni anni fa esposizione di importanti testimonianze della signoria. Il museo, per dar spazio allo shopping, è stato spinto all’indietro nel corpo del Palazzo Reale, è accessibile dalla piazzetta del palazzo e a sua volta diventa un altro passaggio al magazzino di vendita [3].

Non siamo troppo scandalizzati per la gestione turistica della curia profittante dell’enorme richiamo in Italia e all’estero del Duomo e della piazza. È innegabile l’indirizzo commerciale prevalente rispetto alle domande della cultura. Che la manutenzione della cattedrale richieda un mucchio di quattrini è vero ma, di questo passo e generalizzando una condizione che non è soltanto milanese benché quest’ultima sia in testa alla classifica, dove verrebbe cacciata se non nella discarica delle buone idee e azioni la possibile mobilitazione politica e delle quasi-classi minoritarie consapevoli dell’ingiusta distribuzione delle risorse pubbliche?

Una divisione che rispecchia l’essere attuale del capitalismo italiano. Magari a scapito di più convenienti rese sociali futuribili, per un lato punta forte sulla speculazione (finanziaria, edilizia, commerciale), per un altro conduce una «nuova» lotta di classe per contrastare lo sviluppo delle classi operaia e media [4]: infatti, prende le iniziative più adatte a impedire la costituzione di risorse, nei bilanci economici dello stato e di ogni altra istituzione, che possano favorirlo. Così il potere capitalistico coarta tutte le funzioni che devono appartenere ai diritti sociali e popolari: la scuola, l’università, la ricerca sia scientifica che umanistica; deve diminuire costantemente, in proporzione e in assoluto, il sostegno pubblico delle arti, della musica, della cultura in generale, il sostegno di ogni popolazione e persino delle singole persone che aspirino alla conoscenza. La lotta anticapitalistica delle classi subalterne, che non sono affatto scomparse, comprende la riconquista di questi diritti.

Vi rientra, non è una forzatura affermarlo, anche il diritto di godere l’effetto di una visita esauriente, preparata e orientata, del Duomo di Milano sull’intelligenza e sul sentimento!

Il municipio con gli assessorati e altre istituzioni pubbliche o pubblico-private, dal momento dell’avvento del centrosinistra succeduto all’amministrazione del sindaco Letizia Brichetto Moratti, ex ministro dell’università e ricerca scientifica, ha in sostanza confermato una politica culturale frammischiata col turismo. Siccome quest’ultimo, come si è visto, trionfa dentro all’incessante ciclo della compravendita, le istituzioni indirizzano le masse aspiranti a conoscere i beni artistici e culturali della città allo stesso modo, cioè secondo la maggior resa economica.

Per questo «servizio» funziona oggi Milanoguida, un’organizzazione che propone con largo anticipo visite guidate a pagamento (biglietto d’ingresso più accompagnatore-narratore) in primo luogo alle mostre, poi a qualcuno dei complessi storici monumentali. Enorme lo squilibrio numerico delle visite offerte fra le prime e i secondi, peraltro scelti, quest’ultimi, secondo criteri inadeguati rispetto alla grandezza della dotazione milanese. Dev’esserci una specie di virus che infetta i decisori occulti per le visite d’arte e i relativi aspiranti. Infatti persiste inguaribile e diffusa la malattia denominata Frida Kahlo. Insomma, per una nuova mostra delle pittrice messicana (3 febbraio - 3 giugno 2018, Milanoguida vanta già ora 18 esauriti delle 31 visite guidate previste nel mese di febbraio (prezzo tout compris 22 euro). Per capirci senza altre discussioni: nello stesso mese, finora Sant’Ambrogio non ottiene alcuna indicazione mentre ha ospitato a gennaio due sole visite guidate. Per chiudere con un altro dei tanti esempi possibili riguardo agli squilibri che è la stessa politica a-culturale di Milanoguida a provocare: Santa Maria della Passione, la seconda chiesa di Milano per dimensione dopo il Duomo, magnifica l’architettura, bellissimi il decoro e le opere d’arte, unica la contrapposizione di due famosi organi del ’500-‘600 ai lati del presbiterio, dotati di ante dipinte e protagonisti di concerti in duo, non è stata selezionata per visite di gennaio e presenta una sola segnalazione per febbraio [5].

[1] Qui riportiamo il dato giornalistico di 12 milioni di visitatori annui. Che sarebbero diventati 20 secondo scritture o parlate dei giorni nostri.
[2] In
eddyburg, 21 aprile 2016.
[3] L’incentivo all’acquisto avviene rivolgendosi direttamente e paternamente al visitatore: «Potrai immergerti in un percorso coinvolgente e unico, suddiviso per tematiche ed esperienze: dal design all’abbigliamento e gli accessori, passando da oggetti per la casa, libri e souvenir originali e di qualità, presentati in modo suggestivo e attraente». Davvero un emporio in linea con il miglior consumismo.
[4] Vedi: Luciano Gallino,
La lotta di classe dopo la lotta di classe, Intervista a cura di Paola Borgna, Laterza, Roma-Bari 2012.
[5] Tutt’altra levatura culturale, generale e specialistica, presenta un’intraprendenza estranea alla macchina organizzativa di Milanoguida. La denominazione: Iniziative culturali di Pierfrancesco Sacerdoti, di Google Gruppi. Sacerdoti è un giovane architetto conoscitore, entro una competenza complessa di architettura e di arte, delle testimonianze milanesi a partire dall’eclettismo ottocentesco fino all’attualità, attraversando il Liberty, il modernismo e il Novecento, il razionalismo, la nuova critica post-razionalista e le contraddizioni dell’attualismo internazionaliste. Su queste basi egli conduce piccoli gruppi di cittadini, magari in bicicletta nelle buona stagione, alla scoperta di una città poco conosciuta o in ogni modo non esibita secondo l’effettiva qualità delle opere che la contraddistinguono.

(segue)

Finalmente,dopo quasi tre anni dalla presentazione del Master Plan, la Valutazione diimpatto ambientale del nuovo aeroporto di Firenze ha avuto un esito positivocon le firme dei ministri Galletti e Franceschini. Tanto è occorso aiproponenti per raggiungere un traguardo che, con un po’ più di modestia e buonsenso era a portata di mano e nonostante la sproporzione delle forze in campo:da una parte il governo, con Renzi e Galletti in testa, Enac, ToscanaAeroporti, la Regione Toscana, il Comune di Firenze, l’Associazioneindustriali, la Camera di commercio, politici di ogni tendenza e partito, tuttala stampa locale, dall’altra i comitati e successivamente qualche sindaco“dissidente”. Ora che, come nel gioco dell’oca, il progetto è tornato a puntodi partenza, di nuovo la responsabilità passa al Presidente della RegioneToscana e all’uomo politico Enrico Rossi. Vediamo perché.
Come diconsueto i giornali fiorentini, dando la notizia della firma della Via e delle relativeprescrizioni, hanno registrato e amplificato l’esultanza di Toscana Aeroporti edel Sindaco Nardella, attori ormai indistinguibili, per un presunto via liberaal nuovo aeroporto, di cui era stata annunciata l’entrata in esercizio nel 2017- ma che solo ora, proprio negli ultimi giorni del fatidico 2017, muove ilprimo passo. A dimostrare, sia la connivenza acritica della stampa locale, siala vacuità degli annunci della proprietà, sia, soprattutto, gli errori di Enace Toscana Aeroporti, sicuri, per “prassi consolidata”, di potere trasgredireleggi, regole e procedure; tanto sicuri da riuscire ad aggrovigliarsi in unmare di contrattempi e contraddizioni.

Un’esultanzagiustificata quella dei vari Eurnekian, Carrai, Nardella, notabili fiorentini ePd toscano? Sorge qualche dubbio in proposito. Basti ricordare che laCommissione Via aveva chiuso i suoi lavori nel novembre 2016 con un parerepositivo corredato da ben 142 prescrizioni. Un esito non assolutamente graditoa Enac e a Toscana Aeroporti, che perciò avevano chiesto al Ministro dell’Ambientedi sollecitare una nuova valutazione da parte della Commissione, ottenendo daquesta un secco rifiuto.
Nonriuscendo a tagliare il traguardo per vie normali, occorreva rovesciare iltavolo e cambiare le regole del gioco; ed ecco,” l’arma finale”, il decretolegislativo 104 del giugno 2017 che, prese a pretesto le direttive dell’UE, haprovveduto a sanare le irregolarità dei proponenti, in primis quella di averepresentato a Via un Master Plan e non un Progetto definitivo, come prescrivevala legge. Nella sostanza, però, sono rimaste in piedi tutte le precedentiprescrizioni tra cui, come riportato dal Corriere fiorentino (29/12/2017): “è confermatol’obbligo di predisporre i nuovi habitat al posto di quelli cancellatidall’aeroporto, prima che partano i cantieri per la nuova pista; è con­fermatala centralità e la complessità, dello sposta­mento del Fosso Reale e dellarealizzazione di tutte le opere per ridurre il rischio idraulico in un'areaalluvionale (si intende “soggetta a esondazioni”) da sem­pre”. Aggiungiamo: è confermatol’obbligo della costituzione - prima dell'approvazione del progetto da partedel MIT - di uno studio riferito al rischiodi incidenti aerei, redatto da un soggetto terzo pubblico; obbligoparticolarmente sgradito a Enac, affezionato al ruolo di controllore di sestesso. E altre 138 prescrizioni, gran parte delle quali richiede la verifica el’approvazione da parte delle autorità competenti.
Ma,allora, perché la società Toscana Aeroporti esulta ora, dopo essersi oppostaalle prescrizioni della Commissione Via nel 2016 e dopo avere perso un anno pergiungere allo stesso identico risultato? Perché il suo Presidente, MarcoCarrai, annuncia che “ora si può partire con la nuova pista”, contraddicendo findall’inizio le prescrizioni appena rese pubbliche? Anche dando scontato uncerto gioco delle parti dove si fa buon viso a cattivo gioco, si potrebbesospettare che vi sia un altro motivo: il fatto che, a seguito del DL 104/2017,una volta che il Master Plan ha avuto tutte le necessarie approvazioni nellaConferenza dei Servizi, si passa direttamente al progetto esecutivo; e, inquesta fase, con lo spezzettamento del progetto in settori, fasi, sub-progettidestinati agli appalti, si apre la possibilità di eludere, bypassare,ammorbidire, procrastinare, eliminare, le prescrizioni più onerose. Si potrebbedire che, per “prassi consolidata”, una volta avviati i lavori, non valgono piùle prescrizioni e nessuno è in grado di imporne il rispetto.
Ed eccoperché il gioco ritorna nelle mani di Enrico Rossi. Tra le varie prescrizioniministeriali ve ne è una fondamentale, l’obbligo di costituire un Osservatorioambientale di undici rappresentanti, presieduto dal Ministero dell’Ambiente condue membri e con un’analoga partecipazione della Regione Toscana. Quale saràquesta partecipazione? Dobbiamo credere alle intenzioni e dichiarazioni diEnrico Rossi quando nel marzo 2016 si proponeva come presidente di uncostituendo osservatorio e garante dei suoi lavori.

A noi che consideriamoil nuovo aeroporto fiorentino un’opera inutile e potenzialmente dannosa, farebbepiacere un radicale ripensamento di Rossi. Dobbiamo dare atto, tuttavia, che sconfessareun aeroporto da lui sempre sostenuto, dopo avere abbandonato il Pd a favore diun altro partito, sarebbe una prova palese di incoerenza istituzionale e unsuicidio politico. Al contrario, sarebbe del tutto confacente al ruoloistituzionale e, perché no? a una maggiore autonomia politica, farsi garantedel diritto alla salute, al benessere e alla sicurezza dei cittadini di Firenzee della Piana. Vale a dire che Enrico Rossi ha l’occasione di dare un segnaledi politica diversa, più trasparente, più di sinistra, se eserciterà nell’Osservatorio,come i cittadini sia aspettano, un peso decisivo per assicurare che tutte leprescrizioni della Via siano compiutamente e tempestivamente realizzate; acosto di arrivare alla conclusione che il progetto non è sostenibile e quindi nonrealizzabile.

Concepire i luoghi della cultura come infrastrutture per la vita collettiva a supporto della sfera pubblica. Una riflessione.

Pubblicato originariamente su: http://www.campodellacultura.it/discutere/luoghi-della-cultura-e-produzione-di-spazio- pubblico/

Cosa rende i “luoghi della cultura” - intesi come luoghi destinati alla produzione e fruizione di cultura - degli “spazi pubblici”, cioè delle infrastrutture per la vita collettiva a supporto della sfera pubblica?
Possiamo dire che ciò risulti da un incontro tra pratiche sociali e politiche pubbliche, cioè da processi bottom up e top down. In questo senso si dovrebbe partire dalle politiche pubbliche, cioè dalle attività di progettazione di luoghi e spazi della cultura in cui il settore pubblico svolge un ruolo di propulsore e coordinatore.
Due sono le categorie di politiche pubbliche, nel contesto locale e urbano, che tale quesito chiama in causa: quelle designate con il termine di “politiche culturali” - termine ampiamente diffuso ancorché con significati variabili - e quelle che possiamo chiamare “le politiche degli spazi pubblici” – termine assai meno familiare alle nostre pratiche di governance urbana. Le due espressioni rimandano a due diversi frames, due diverse “cornici di senso” in cui pensare, coordinare, indirizzare e comunicare una serie di azioni volte alla realizzazione di spazi destinati alla vita culturale della città. Obiettivi prioritari e risultati attesi presenteranno significativi scostamenti, importanti per valutare l’efficacia delle politiche messe in atto.
Nel primo caso, pensando in termini di politiche culturali, si adotterà necessa- riamente una visione in qualche misura astratta della cultura quale oggetto che abbisogna di spazi fisici, intelaiature organizzative, supporti amministrativi per fornire una gamma di prodotti destinati di volta in volta al consumo interno (e allora si parlerà di “servizi”) o all’afflusso di risorse esterne (e allora si parlerà di “investimenti”). La cultura in questa ottica può essere sia un “servizio” da erogare - non diversamente da quelli di welfare e non a caso oggi si incomincia a parlare di “welfare culturale” - sia una “risorsa” da sfruttare per accrescere la “competitività” di una città. All’interno del frame delle politiche culturali troviamo tanto la terminologia progettuale dei “contenitori” e degli “eventi” culturali, sempre più orientati alle politiche dette “di competizione”, quanto la terminologia amministrativa dei “servizi” culturali tendenti ad assimilarsi alla categoria più generale dei servizi sociali o “servizi” tout court, e orientata da logiche solidaristiche o anche assistenziali.
Nel secondo caso, il riferimento prioritario è quello concreto - ma non solo fisico - dello spazio pubblico quale elemento fonda- mentale dell’esperienza urbana: gli spazi pubblici sono quelli che rendono significativa la vita cittadina, che ne connotano la qualità, che favoriscono azioni e interazioni non soltanto orientate al consumo e nemmeno ad una generica socialità ma anche alla produzione di discorsi, azioni cioè di inventiva culturale e politica. Se questa è la cornice di senso dell’azione di policy, allora essa non può prescindere da una ricognizione dei luoghi esistenti e da una analisi delle loro componenti storiche, sociali, memoriali ed identitarie. E’ solo a partire da questa ricognizione che si può metter mano efficacemente al recupero di luoghi o alla progettazione di nuovi spazi, inserendoli in modo non casuale nel tessuto urbano e nelle coordinate spazio-temporali della vita cittadina. La cultura - nelle sue componenti di patrimonio materiale e immateriale - si rivela allora una componente fondamentale dello spazio pubblico, sia esso piazza o museo, biblioteca o università.
Questo secondo approccio chiama in causa la separazione tra la gamma di servizi o il repertorio di eventi culturali di cui una città dispone da un lato, e l’assetto urbanistico degli spazi che li contengono dall’altro, introducendo una terza variabile, quella delle pratiche sociali che li informano e li plasmano. Si rende allora necessario considerare la produzione di spazio pubblico anche a partire da un approccio bottom up, ricordando che l’azione progettuale ha bisogno di incontrarsi con le pratiche sociali (e viceversa). Quali sono gli snodi attraverso i quali avviene questo incontro? Una serie piuttosto ampia di studi di caso che ho avuto occasione di condurre e esaminare mi ha portato ad individuarne quattro.

1. I frames spesso individuabili attraverso il nome del luogo o del progetto. Raramente uno spazio pubblico sarà tale se conosciuto e designato solo con riferimento alla sua funzione di biblioteca, museo, università o altro. I luoghi della cultura che sono autentici spazi pubblici sono conosciuti con nomi che evocano storia, identità, sedimentazioni legate ai luoghi: il Mattatoio di Roma, la Sala Borsa di Bologna, il District Six Muesum di Cape Town. Il nome è il legame con la memoria collettiva.

2. Il radicamento (o anchoring) dello spazio-luogo nel tessuto urbano, non solo fisicamente ma in virtù delle pratiche che lo connotano. Tale radicamento dipende non solo dalle connessioni reali ma anche dalle mappe mentali. Le une e le altre sono strettamente connesse e producono quella percezione dei luoghi che è insieme sedimentata e mutevole nel tempo. Un esempio efficace di mutamento delle mappe mentali è dato dal recupero del centro storico di Cosenza, percepito appunto come il recupero alla centralità di un intero quartiere e non come la semplice realizzazione di una serie di spazi e contenitori culturali.

3. Il significato simbolico dei luoghi o spazi che talvolta si è perso ma può venire recuperato, come nel caso del convento di Santa Cristina a Bologna, diventato recentemente sede del Centro delle Donne.

4. Un timing efficace dell’azione di policy, capace di tenere insieme i momenti di comunicazione, progettazione, ascolto e realizzazione come nei casi di pianificazione strategica efficace (da Barcellona a Torino).

La partecipazione dei cittadini alla produzione di spazio pubblico appare tale quando trova il modo di esplicarsi in maniera trasversale lungo queste quattro articolazioni, assai più di quando prende la forma di “dispositivi partecipativi” formali (spesso appiattiti sulla “domanda” o incongruentemente orientati su temi tecnici o estetici) inseriti quale componente, ormai quasi d’obbligo, di un “processo decisionale” in cui queste dimensioni sono rimaste largamente inconsapevoli o trascurate.

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