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Componente essenziale di una buona politica del territorio è chiudere la stagione dell'abusivismo. Il Sindaco di Roma e il suo assessore hanno assunto come obiettivo «chiudere la la stagione del condono e dell’abusivismo edilizio». La Repubblica, edizione Roma, 30 gennaio 2015

L'ufficio condono ha negato la concessione della sanatoria a 7626 casi di abusivismo. Solo dal 2011 al 2014 i “no” sono stati 5941, più di tre volte quanto era stato fatto prima. L’assessore all’Urbanistica Caudo sta lavorando per sveltire lo smaltimento delle 209 mila pratiche ancora da definire dei tre condoni del 1985, 1994 e 2003. «Useremo sempre di più internet» afferma «e aumenteremo il personale». E intanto la giunta Marino varerà oggi un nuovo piano triennale anti-corruzione che prevede le denunce dei colleghi e il principio della rotazione degli incarichi.

I numeri, prima di tutto i numeri. Che sono al cardiopalma.

All’Ufficio Condono, dal 2011 gestito da Risorse per Roma dopo il lungo impero della società Gemma Spa, sono ancora da lavorare, al 19 gennaio 2015, 209.246 richieste di sanatoria di abusi edilizi, che riguardano le tre leggi di condono del 1985, 1994 e 2003. Un numero talmente grande che, se si proseguisse al ritmo sostenuto di circa 11 mila pratiche definite nel 2014, si finirebbe solo nel 2036.

Ma a far capire l’accelerata che si è fatta, basta dire che dal 1996 al 2009 le domande respinte sono state 1658. Mentre dal 2011 al 2014 le costruzioni dichiarate fuorilegge sono state 5941. Tutte, dopo l’istruttoria, potrebbero essere demolite o acquisite al patrimonio pubblico.

«Ora» spiegano l’assessore all’Urbanistica Giovanni Caudo e il generale dei carabinieri in pensione Cosimo Damiano Apostolo, responsabile del procedimento «l’Ufficio Condono ha una sede efficiente in una ex scuola di via di Decima, con un moderno front office e la possibilità di depositare un atto di sollecito per una concessione, che viene subito affidato».

Ma i numeri sono sempre un diluvio, anche se, come precisa Caudo, «per la prima volta il Comune sa esattamente quante pratiche ci sono ed il loro livello di lavorazione».

La trafila è lunga. Dopo il sollecito la pratica può dover essere sottoposta alla prova della scheda urbanistica, per verificare se in quel luogo sono stati posti dei vincoli. Oppure alle soprintendenze, che hanno 60 giorni di tempo per rispondere o far scattare il silenzio-assenso. Ma ci può essere la necessità di chiedere un’integrazione dei documenti. «Si spendevano 140 mila euro all’anno di raccomandate » spiega l’assessore «adesso invece facciamo le richieste attraverso la Pec».

Ma il tentativo di digitalizzazione non si ferma qui. «Abbiamo un sistema online» aggiunge Caudo, che si chiama Sicer, raggiungibile con un codice di accesso, dove si può capire il livello di lavorazione. E c’è già programmata una “cornice” che potrà contenere via via i documenti digitalizzati. Perché oggi purtroppo quasi tutta la documentazione è cartacea».

«Già adesso» afferma Apostolo «dal momento del sollecito alla concessione, se non ci sono ostacoli passano solo pochi mesi ». «E abbiamo intenzione» afferma Caudo «di aggiungere ai 45 istruttori al lavoro altri 80».

Nel 2014 il Comune ha incassato dai condoni quasi 19 milioni di euro, ma delle circa 11 mila pratiche lavorate, 2354 non sono state ritirate, con le 1105 non ritirate nel 2013 si arriva a circa 23 milioni. Dal 2007 al 2012 se ne contano altre 5730 per un valore di 7 milioni. In tutto 30milioni di euro.

«Manderemo una lettera» conclude il responsabile dell’Urbanistica «in cui li avvisiamo che potranno rateizzare fino a 4 anni. Se continuano a non ritirarla spiegheremo a quali conseguenze si espongono, di certo c'è, come ha chiesto il sindaco, che noi vogliamo dichiarare chiusa la stagione del condono e dell’abusivismo edilizio».

Qualunque sia l'intenzionedell'Autore, un pezzo che mescola in un avvincenteminestrone tante cose diverse, non fa un bel servizioall'informazione. La Repubblica,28 gennaio 2015, postilla (f.b.)

Una strada è un pezzo di mondo: asfalto o sampietrini, vetrine, tavoli e sedie che premono, gente che ci vive, auto che cercano spazio, lavori in corso, sviluppo, degrado e imprevisti. O forse, in realtà, è tutto prevedibile perché è già successo altrove, un po’ ovunque: un destino globale, anzi glocale. L’unicità è un’illusione, cambia soltanto la lingua che la esprime, il risultato è uno stereotipo universale. Prendi allora una strada nel cuore di una capitale, prendi via Urbana, rione Monti, Roma, scopri la carta degli imprevisti e registra divisioni ideologiche, astuzie, minacce, una specie di scontro di civiltà improbabile come quello per l’ascensore in piazza Vittorio (da qui, dodici minuti a piedi) descritto in un romanzo di Lakhous Amara.

Siamo nel quartiere dove è tornato Giorgio Napolitano e dove hanno vissuto e sono diversamente rimpianti il regista Mario Monicelli e un leggendario senzatetto di nome Angelo. Una ex provincia di fantasiosi pizzaioli, falegnami e rigattieri. Poi la scena è cambiata: al posto delle botteghe sono spuntati negozi d’abiti e bar clonati, mentre gli inquilini degli appartamenti sono saliti di grado e d’affitto. Qualcuno, il giornalista del Foglio Michele Masneri, ha provato a trarne materia per un romanzo, “Addio Monti”. Ma non era finita. Non ancora. Succede questo. L’Italgas inizia lavori che richiedono il blocco della strada, via Urbana appunto.

Dovrebbero concludersi con l’estate, ma è Roma: passa l’autunno, inizia l’inverno e s’affaccia l’eterno. A qualcuno il blocco piace, o fa comodo. Una taverna conquista metri quadrati, un’altra la imita, nessuno interviene. Su una pagina Facebook compare un apprezzamento per il nuovo assetto, nato per caso, ma perché non protratto per scelta? Il post riceve mille like. In questi tempi pretestuosi: i “like” diventano una “petizione”. La profezia si autoavvera. Flash mob per la pedonalizzazione, domeniche di struscio, operai che rallentano la posa dei sampietrini (quindi si fermano) spiegando: «Tanto diventa pedonale». La petizione prende forma e firme: una, cento, mille. Nomi illustri: il premio oscar Paolo Sorentino, l’olimpionica Novella Calligaris. Uno vive all’Esquilino, l’altra a Prati. Firmano mentre fanno acquisti, ricambiando sconti o complimenti. Nasce un comitato di opposizione, che cerca sostegno con metodi analoghi. Qualcuno si esprime civilmente. Un antiquario scrive all’assessore: “C’è chi sostiene che il commercio nelle strade pedonali vada meglio io non ne sono affatto certo e comunque nel dubbio preferisco guadagnare di meno e stare in una strada normale, seppur tenuta meglio”. Qualcun altro scade e imbratta l’insegna di un “nemico”, in quella che diventa una “battaglia”.

In realtà i destini di una strada sono spesso segnati e non li cambiano né l’autodeterminazione dei residenti, né lo svagato progetto delle amministrazioni pubbliche. Prendi Ludlow street, nel Lower East Side di Manhattan, rue de Sèvignè nel Marais, a Parigi, o Odenberger Strasse a Prenzlauer Berg, Berlino. Indirizzi storici, popolari, a tratti e in parte addirittura malfamati. Trascorrono decenni tra luci e ombre, canoni fissi e gente che s’inventa la vita. Poi qualche commerciante di livello superiore apre un negozio raffinato, qualche artista si trasferisce lì, arrivano i primi ristoranti di buon livello e, sopra, prende casa una coppia di giornalisti. Il neologismo dall’inglese è una delle parole più brutte del dizionario: gentrificazione. Un progressivo imborghesimento, simile a quello che negli individui è determinato dall’età. Come tutti rimpiangono la gioventù, così gli abitanti della prima ora hanno nostalgia del passato, quando al posto del condominio di lusso c’era un cinema, della vineria una farmacia. Non hanno avuto in dotazione il telecomando per premere il fermo immagine. Stessa sorte è però toccata ai loro successori, portatori del cambiamento.

A ognuno piace il mondo come l’ha determinato. È convinto che sia un microcosmo ideale, figlio di un’idea originale. In realtà le stesse dinamiche stanno accadendo altrove e in modo ugualmente inesorabile: le insegne variano, ma si assomigliano sempre più. Se le grandi arterie sono conquistate dalla “global street”, quella di Zaraland o dei negozi del lusso, uguale a Chicago come a Hong Kong, queste vene diventano “glocal street”. Propongono nomi adeguati (romaneschi e latini, nel caso di via Urbana). Attirano quella che viene universalmente chiamata movida. C’è chi si adegua e sente anzi il piacevole soffio dell’internazionalità. Altri preferiscono traslocare in direzione di presunte oasi destinate a durare il tempo che separa un’era dal successivo strato di gentrificazione: dieci anni, se va bene. Il tempo di imborghesirsi, veder sorgere locali tutti uguali e aspettare invano che una pubblica amministrazione intervenga.

postilla
Ognuno è libero di scrivere quel che gli pare, ci mancherebbe altro. Però così come è avvenuto e avviene con l'ormai famigerato rammendo delle periferie, anche nelle trasformazioni a senso unico dei quartieri più centrali pare il caso di tentare un minimo di chiarezza in più. Perché tanto per iniziare qui si mescolano in un minestrone appetitoso ma indigeribile due cose diversissime, come la città clone e la sostituzione sociale detta gentrification, oltretutto già da sola oggi usata in mille sfumature diverse nel mondo. La città clone è quella colonizzata da un genere standard di esercizi commerciali, che rende identici posti a mille chilometri di distanza che sarebbero di per sé diversissimi. A volte un processo così si accompagna anche alla gentrification vera e propria, che non è affatto un “neologismo” ma una cosa esistente da sempre nelle città, e che la sociologia urbana ha battezzato così mezzo secolo fa. Oggi certa cultura immobiliarista, e una stampa che ci è o ci fa, provano a ribaltare il tavolo rivendendo a tante amministrazioni locali l'idea secondo cui gentrification corrisponde a riqualificazione, rivitalizzazione, semplicemente perché aumenta le quotazioni immobiliari, unico criterio qualitativo per la città, secondo loro. Mentre invece, come noto, la fisiologica trasformazione dei quartieri (che non va ostacolata, ma quantomeno seguita e studiata) dovrebbe far sì che in centro come in periferia si mirasse teoricamente a costruire cittadinanza, sicurezza, identità. Invece di ostentare certo cinismo superficiale di maniera con toni “global” (f.b.)

Un articolo molto critico su un'iniziativa molto, e giustamente, discussa, con una replica di Carteinregola, del tutto giustificata. Il Fatto quotidiano.it, blog
La vicenda della costruzione dello stadio della Roma calcio ha concluso il suo primo tempo, per restare nell’ambito calcistico, con la decisione presa dal Consiglio comunale di Roma di attribuire al progetto che prevede la realizzazione 1 milione e duecentomila metri cubi di cemento (Antonio Cederna avrebbe detto ’12 hotel Hilton di Monte Mario’) il “riconoscimento dell’interesse pubblico”. E’ stata una scelta adottata a maggioranza contro la efficace opposizione dei consiglieri del Movimento 5Stelle: una scelta democratica, dunque. Converrà attrezzarsi per il secondo tempo della partita in cui, finita l’ubriacatura ideologica della “grande opera”, si dovrà tornare con i piedi per terra e ragionare sul complessivo assetto della città e sulle caratteristiche del progetto.

Dal punto di vista del generale assetto della città, occorre ribadire che la scelta del sito di Tor di Valle è frutto esclusivo e ostinato del promotore: la società calcio Roma. La legge sugli stadi approvata dal Parlamento consente di costruire i propri stadi e come tale deve essere rispettata. Ma non obbliga le amministrazioni pubbliche ad essere supine rispetto ai voleri della proprietà fondiaria. Nessuna legge vietava che il sindaco Marino imponesse di costruire lo stadio in un altro quadrante della città, dove gli oneri di urbanizzazione dovuti per legge e i maggiori oneri dovuti alla contrattazione urbanistica, avrebbero prodotto un beneficio più ampio per l’intera popolazione romana. Né vale a titolo giustificativo la motivazione che non è previsto che sia il Comune a scegliere il luogo ma può solo esprimersi sul pubblico interesse della proposta del privato. In questo modo si spiana la strada alla disegno di legge del ministroMaurizio Lupi che si basa proprio sulla subordinazione delle amministrazioni pubbliche rispetto alla proprietà fondiaria. E non è certo questo il mandato ricevuto da Marino dai suoi elettori.

Ma pur di giustificare l’interesse pubblico dell’operazione, il sindaco Marino ha elencato i benefici che verranno alla città: il prolungamento fino all’area dello Stadio di una linea metropolitana; la costruzione di un nuovo ponte sul Tevere e la creazione di un parco di 34 ettari. E’ evidente che identiche opere avrebbero potuto portare un grande beneficio per qualsiasi altro quadrante delle città dove vivono centinaia di migliaia di romani e dove non esistono metropolitane e parchi. Perché, dunque, non si è scelto un altro quadrante? La risposta è che è stata accettata senza fiatare l’indicazione di Cushman e Wakefield, società immobiliare di caratura internazionale, che fu incaricata dalla Roma di trovare l’area per il nuovo stadio, come aveva denunciato il 20 aprile 2012Gianni Dragoni sulle pagine del Sole 24 Ore. Insomma, il futuro della capitale d’Italia sta nelle mani di una grande società immobiliare controllata dalla finanziaria Exor (famiglia Agnelli) e di un esponente della finanza internazionale come James Pallotta.

Il sindaco Marino si vanta di essere è il più strenuo avversario dei poteri forti, ma purtroppo per lui e per la città, si è messo in ginocchio – indimenticabile a riguardo il suo viaggio presso gli uffici di Pallotta a New York nell’agosto 2014 – di fronte alle lobby. Non è una novità. Marino ha già delegato alla Cassa depositi e prestiti, come noto “potere debolissimo”, la trasformazione della preziosa area del Flaminio (ne parleremo nel prossimo post) e ha brindato insieme a Malagò, altro eterno volto dei poteri forti, per la candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2024. Con buona pace del sindaco, la sua amministrazione è il paradiso dei poteri forti.

Del resto, pur di mettere in ombra questo vulnus imperdonabile, si continua a sostenere “che l’amministrazione comunale non farà alcun investimento economico”. Credono ancora di prendere in giro i romani: le opere giudicate di interesse pubblico saranno realizzate attraverso l’esborso di denaro pubblico noto (gli oneri di urbanizzazione previsti dalla legge) e da altro denaro di proprietà pubblica derivante dai maggiori introiti dovuti agli aumenti di volumetria concessi. Si spenderanno dunque per opere utili solo e soltanto alla Roma calcio preziosi soldi pubblici.

E veniamo al merito del progetto per cercare di smontare il cumulo di bugie che sono state maldestramente costruite a difesa dello scempio. Ciò che dispiace dal punto di vista generale è che alla difesa della mura del Campidoglio siano stati arruolati anche associazioni che dicono di battersi per gli interessi della città, come ad esempio Carteinregola, ma ognuno sceglie la sua strada. Si afferma che non è vero che l’area sia in un deserto urbano ma “sta a ridosso del popoloso quartiere Eur-Torrino”. Questo quartiere si trova in realtà a cento metri di dislivello dall’area ed è da essa diviso da una invalicabile barriera morfologica costituita da una ferrovia e da due strade carrabili ad alta percorrenza. L’area scelta è un deserto urbano, punto e basta.

Si afferma poi che non è vero che vengano regalati 350 mila metri quadrati di cemento perché nell’area esistono altre volumetrie e il piano vigente prevede di realizzare 112 mila metri quadrati. Addirittura si afferma che “se si avvalesse del ‘Piano Casa’ potrebbe ulteriormente aumentarle e trasformare l’Ippodromo in appartamenti”. Ma quando mai! L’area è destinata a verde e attrezzature sportive: quelle volumetrie potevano essere realizzate per attività sportive, non per le più lucrose attività commerciali o per uffici. Riguardo al Piano casa è appena il caso di ribadire che non è applicabile alle zone di verde e attrezzature sportive. Pallotta riceve un gran regalo economico.

Terzo argomento, il più grave sotto il profilo della legalità, riguarda la questione sollevata da molti articoli di stampa che la società proponente non fosse titolare delle aree su cui si dovrà realizzare il progetto. Su questo punto Carteinregola afferma addirittura che “E’ un problema del privato, non del Comune. Se il privato non potrà più mantenere la proposta avanzata, automaticamente decadrà”. Decine di anni di rapporti tra pubblico e privato sepolti con disinvoltura: è noto infatti che amministrazioni pubbliche devono obbligatoriamente verificare la titolarietà della proprietà immobiliare del proponente. Altrimenti sarebbe il far west.

Occorre dunque iniziare a pensare collettivamente con la partecipazione delle associazioni che hanno a cuore il destino di Roma ad una differente localizzazione in modo da ottenere che gli interessi riconosciuti dalla legge alla società Roma calcio si sommino a quelli di centinaia di migliaia di romani che sono ancora privi di moderne linee di trasporto pubblico: con le centinaia di milioni sperperati per la felicità di Pallotta si possono costruire almeno due linee tramviarie che –oltre allo stadio- potrebbero portare sollievo ad una città in gravi difficoltà. E’ un’occasione irripetibile e la città sommersa dal fango della corruzione svelata dall’inchiesta Mafia Capitale, non può permettersi di delegare il suo futuro agli eterni poteri forti che l’hanno portata al fallimento che tocchiamo tutti i giorni con mano in termini di degrado e del quotidiano aumento delle tariffe e della cancellazione del welfare urbano ad iniziare dal trasporto pubblico.

La replica di Carteinregola


Gentile Redazione di ilfattoquotidiano.it,
come portavoce del Laboratorio Carteinregola, nonchè come vostra lettrice e estimatrice, desidero porre alla vostra attenzione un episodio di informazione non corretta, contenuto nel blog di Paolo Berdini, che essendo ospitato dal sito del Fatto Quotidiano, ritengo interessi anche la vostra testata, che da sempre apprezzo per l'autonomia, la coerenza e soprattutto il rigore nel riportare le posizioni altrui, senza lasciare margini a sottintesi non veritieri. Ora, nell'articolo pubblicato oggi sul blog del Fatto Quotidiano, "Nuovo stadio della Roma: perché lo pagheremo anche noi" (Paolo Berdini attacca esplicitamente Carteinregola, citando un nostro articolo sul progetto dello Stadio, pubblicato sul nostro sito il 22 dicembre scorso, Stadio della Roma: le nostre ragioni (e le leggende metropolitane) , ma soprattutto - e forse è proprio questo che ha scatenato tanto livore - ripreso da Eddyburg,(http://www.eddyburg.it/2014/12/il-nuovo-stadio-della-roma-le-nostre.html ) il sito di "urbanisti militanti" su cui spesso scrive lo stesso Berdini.

Naturalmente noi non abbiamo niente in contrario sul fatto che Berdini possa muoverci delle critiche - accade spesso - con l'unico limite, che ci sembra faccia parte anche della filosofia del vostro giornale, di riportare le posizioni senza faziosità. Cioè senza far intendere cose diverse dalla verità. Invece da quanto scritto da Berdini nell'articolo citato, chi legge potrebbe facilmente dedurre che Carteinregola sia a favore dello Stadio della Roma a Tor di Valle e che difenda il progetto del Sindaco a spada tratta. Invece sfido chiunque a trovare una sola riga in tutti i nostri articoli in cui non sia ribadita la nostra avversità al progetto dello Stadio, tra l'altro supportata da molte motivazioni addotte dallo stesso Berdini (soprattutto per le cubature come "moneta urbanistica" per pagare le infrastrutture di interesse pubblico). Anche se, devo dire, non condividiamo tutte le motivazioni di Berdini, perchè noi non abbiamo bisogno di "esagerare" la realtà per essere più convincenti. Anzi, pensiamo che solo dicendo le cose come stanno, accertando i fatti e separandoli dalle opinioni con rigore e serietà, si possa essere credibili.

E il "pezzo forte" del nostro articolo da lui criticato era dedicato a una circostanziata disamina delle nostre 5 ragioni contro il progetto dello Stadio, ragioni e posizione che Berdini si è guardato bene dal citare, alla faccia della correttezza che chi scrive su una testata di informazione dovrebbe garantire. Alla fine non credo che ne saremo danneggiati, visto che il nostro laboratorio, che si batte per l'interesse pubblico, tanto da organizzare un presidio di 4 mesi contro le delibere urbanistiche di Alemanno (due anni fa) e un presidio di due mesi contro il Piano casa di Zingaretti (4 mesi fa) non gode di un grande visibilità sulla stampa (ma il Fatto è stato il primo e pressochè unico giornale che ci ha dato la parola sul Piano Casa, quest'estate) è comunque per noi pubblicità.
Però ci piacerebbe che qualcuno ricordasse a Berdini che non si fa un gran servizio ai lettori travisando così i fatti, al riparo - e approfittandosi - della visibilità e dell'autorevolezza di una testata notoriamente indipendente come Il Fatto Quotidiano.
Buon lavoro

Anna Maria Bianchi

Il neo direttore generale dei Beni culturali, intervistato da Sara Grattoggi, risponde a Volpe: «Come risultato finale mi pare ovvio che le cinque grandi piazze di Roma antica vadano riproposte nella loro interezza, eliminando via dei Fori, e che il loro interesse pubblico d’insieme sia nettamente superiore a quello delle sistemazioni successive». La Repubblica, ed. Roma , 7 gennaio 2015
Professor Francesco Scoppola, come valuta le proposte della commissione stato-comune sull’area archeologica centrale?
«Ogni commissione - risponde il direttore generale del Mibact - lavora per riunire una pluralità di vedute e anche in questo caso mi pare che il confronto sia stato fruttuoso. Ma non sono certo io a dover valutare il risultato, visto che da poche settimane la mia competenza nel ministero è quella delle belle arti e del paesaggio, mentre per l’archeologia è stato riconfermato Gino Famiglietti».

Lei prese parte al progetto del 1985-1988 che prevedeva lo smantellamento di Via dei Fori Imperiali. Un punto che la commissione, però, non intende attuare, almeno in una prima fase.
«Anche in quel progetto lo scavo archeologico stratigrafico dell’area oggi occupata da via dei Fori Imperiali non rappresentava la prima fase da attuare, ma una delle ultime. Come risultato finale mi pare ovvio che le cinque grandi piazze di Roma antica vadano riproposte nella loro interezza, eliminando via dei Fori, e che il loro interesse pubblico d’insieme sia nettamente superiore a quello delle sistemazioni successive. Se ci fossero dubbi in proposito dovrebbe bastare a superarli lo straordinario afflusso di pubblico ottenuto da Piero Angela per il bimillenario della morte di Augusto. Per la prima volta le impalcature con le gradonate non guardavano le sfilate sul nastro d’asfalto ma lo scenario attorno a quella strada».

L’unico modo per superare il problema tecnico dei diversi livelli degli scavi e dell’attuale piano stradale sarebbe, secondo la commissione, una soluzione simile a quella proposta dal professor Panella, che prevedeva una leggera passerella in acciaio tra piazza Venezia e largo Corrado Ricci, poggiato sui livelli antichi, ma in linea con il percorso attuale. Scoppola, la vede come una soluzione praticabile?
«Il problema dei livelli diversi esiste e fu segnalato già da Leonardo Benevolo. Ma non si tratta certo di problemi insolubili e non è detto che si debba fare ricorso a qualcosa da aggiungere in via permanente».

La commissione intanto ha proposto una revisione del vincolo su via dei Fori. Cosa ne pensa?
«Nessun vincolo di nessun tipo ha mai proibito le indagini, le ricerche, le prospezioni, gli scavi stratigrafici».

Se per il momento non si smantellerà via dei Fori, si ipotizza invece la rimozione di via Alessandrina.
«Iil valore storico di via Alessandrina è indubbiamente maggiore di quello di via dei Fori e tuttavia è anch’esso secondario rispetto a quello degli spazi antichi».

La commissione giudica “assolutamente strategica” la prosecuzione della metro C non solo fino a piazza Venezia, ma anche oltre, secondo il progetto originario. Concorda?
«Quello della mobilità pubblica è certamente uno dei principali nodi da sciogliere prima di poter dare piena attuazione alla pedonalizzazione della zona archeologica centrale. Se i tempi e i costi della metropolitana romana si avvicinassero alle medie europee, scavando finalmente e sempre a “cielo chiuso” al di sotto della quota archeologica e scegliendo opportunamente il posizionamento delle stazioni e delle risalite in superficie in corrispondenza degli strati geologici privi di contenuto archeologico, la questione non si porrebbe neppure perché tutto sarebbe subito e contemporaneamente realizzabile».

Cominciano le tattiche dilatorie sul Progetto Fori? Una disamina puntuale delle molte e vistose contraddizioni e ambiguità in campo. Carteinregola, 6 gennaio 2015 (m.p.g.)

Sul quotidiano La Repubblica di oggi, il Presidente della “Commissione Paritetica per l’elaborazione di uno studio per un Piano strategico per la sistemazione e lo sviluppo dell’Area Archeologica Centrale di Roma” Giuliano Volpe, risponde all’intervista rilasciata dall’assessore Caudo sempre a Repubblica il 3 gennaio sulla volontà dell’amministrazione Marino di portare avanti il Progetto Fori con il ripristino della continuità dei Fori smantellando la strada costruita all’inizio degli anni ’30 da Mussolini. In realtà, nonostante l’annuncio, il titolo e il sommario dell’articolo anticipino che “il Mibact “boccia” Caudo: impossibile smantellare via dei Fori Imperiali“, le dichiarazioni di Volpe sono in realtà un capolavoro di “svicolamento” davanti alle domande, inutilmente incalzanti, del giornalista Boccacci.
Eccole:
1) “Qual è il giudizio sul progetto [del Campidoglio, confermato da Caudo nell’intervista a Repubblica]?"
2) “Il Campidoglio è favorevole allo smantellamento…e voi”?
3/4) “Che proponete?… Che cosa bisognerebbe aspettare?”
5) “…Che manca per realizzare un sogno coltivato ormai da tre decenni?”
6) "…La commissione è divisa…Adriano La Regina è favorevole allo smantellamento, con una posizione opposta a quella degli altri componenti…”

Ed ecco le risposte, rispetto allo smantellamento di Via dei Fori Imperiali, che non arrivano a nessuna conclusione chiara (tantomeno a un “no” deciso):
1) L’assessore Caudo [che nell’intervista ha definito “contraddittoria” la posizione della Commissione sulla rimozione della strada aggiungendo che restituisce posizioni diverse NDR] “su questo punto ha frainteso i contenuti della relazione”
2) La commissione ha sottolineato che “Via dei Fori Imperiali …è ormai parte integrante del paesaggio urbano… svolge una funzione di collegamento essenziale nella città"
3/4) “Abbiamo proposto una soluzione progressiva…un sostanziale miglioramento della situazione dell’attuale strada”… “E soprattutto un progetto organico…”
5) “C’è un problema tecnico che riguarda i livelli degli scavi, molto inferiori a quello della strada [sic!]” “la commissione ha proposto di proseguire sulla via dello studio e della progettazione di soluzioni innovative…“
6) “La Regina ha condiviso l’intera impostazione… solo sul punto della conservazione del tracciato strada c’è stata una posizione differente…”[il punto centrale del Progetto Fori NDR] e “più sui tempi che sugli obiettivi da raggiungere”…

L’unica cosa che ci sembra chiara, in realtà, è che nessuno ha il coraggio di realizzare davvero il progetto di Cederna, Argan e Petroselli, ma neanche di dire che il progetto di Cederna, Argan e Petroselli non “s’ha da fare”. Quindi si fa un po’ di teatro, si adducono i “tanti problemi tecnici“, dal dislivello in su – cioè si scopre l’acqua calda alla faccia di tutti quelli che da decenni hanno lavorato a un progetto che non è più da pensare, solo da realizzare – e si chiede altro tempo per approfondire ancora. Naturalmente per passare da uno “studio” a “un progetto strategico condiviso“… senza “preconcetti“, evitando le “polemiche“, e superando “le posizioni ideologiche contrapposte“. Amen.

A questo punto la palla passa a Ignazio Marino, che deve scegliere tra la silenziosa eutanasia del progetto prospettata dalla Commissione Paritetica (e dal ministro Franceschini?) e la realizzazione del Progetto Fori che ha promesso ai suoi elettori, portato avanti dal suo assessore, ma che in realtà non è né di Marino, né di Caudo, ma di Argan, Cederna, Petroselli (Benevolo, Insolera, Calzolari, Nicolini…).

In questi tempi bui, noi cittadini guardiamo al Sindaco Marino con fiducia e timore, perché sappiamo che si trova ad un bivio. Da una parte può approfittare delle eccezionali circostanze negative per tirare fuori un coraggio eccezionale e passare alla storia (non solo con il Progetto Fori). Dall’altra può scivolare più o meno consapevolmente nel solito opportunismo all’italiana, che prevede virtuose dichiarazioni d’intenti, che non passano mai ai fatti, mentre tutto continua come prima.

Ma in questo caso, il destino della Capitale sarebbe segnato: una lenta agonia, che forse è cominciata proprio quando si è persa la capacità di credere a progetti che pensavano in grande. In grande per l’ambizione del cambiamento e per il coinvolgimento di tutti e di tutta la città.

Riferimenti

Abbiamo pubblicato recentemente su eddyburg l'intervista all'assessore Giovanni Caudo, e un ampio servizio di Annamaria Bianchi. Altro materiale lo trovate nelle cartelle dedicate a Roma nel vecchio e nel nuovo archivio di eddyburg-

L'articolo di presentazione del ricco servizio di Carteinregola, il battagliero e rigoroso sito sull'urbanistica romana, 3 gennaio 2015

Il “Progetto Fori”, che prevede la realizzazione del più grande parco archeologico del mondo, che da Piazza Venezia si estenderebbe fino ai Castelli, è uno dei punti più importanti del programma elettorale di Ignazio Marino (1). Quest’estate il Sindaco e il Ministro Franceschini hanno nominato una Commissione Paritetica per “l’elaborazione di uno studio per un Piano strategico per la sistemazione e lo sviluppo dell’Area Archeologica Centrale di Roma”, che in questi giorni ha consegnato una relazione in cui lascia nell’ambiguità il previsto smantellamento della Via dei Fori Imperiali. Ma in un’intervista a Repubblica del 3 gennaio, l’Assessore alla Rigenerazione Urbana Giovanni Caudo assicura che il Comune andrà avanti con il Progetto, come promesso dal Sindaco Marino: «Bisogna rimuovere via dei Fori imperiali fino a largo Corrado Ricci» per «ricostituire l’integrità degli spazi dei Fori, assicurando la continuità fra Mercati Traianei, Foro di Traiano, Foro di Augusto, Foro di Nerva, fino al Foro della Pace voluto da Vespasiano». «Un progetto che accetta la sfida dell’innovazione e della sperimentazione per disegnare i percorsi, anche a quote archeologiche, tra piazza Venezia e largo Corrado Ricci» e che si allunga da via dei Cerchi fino al Giardino degli Aranci e oltre: «Una passeggiata unica al mondo, una esperienza urbana senza pari che restituirebbe un senso di cittadinanza a chiunque l’attraversi»(2).

Per la Roma di oggi e di domani, la fruizione collettiva dei beni culturali e ambientali può essere ritenuta un elemento peculiare della dimensione pubblica, attraverso la quale rafforzare l’idea stessa di cittadinanza: i beni culturali e ambientali devono essere “vissuti” non devono essere percepiti come “estranei” e non devono essere recintati. Per questo, ci impegniamo a fare di questo luogo magnifico e unico un luogo vissuto da tutti, il cuore del futuro della città.
(da “Roma è vita” programma di Ignazio Marino Sindaco) (1)

In questi tempi bui, in una Capitale che si è scoperta sprofondata nella mafia e nella corruzione, dove la gente deve fare i conti ogni giorno con una crisi economica di cui non si vede l’uscita e con l’inadeguatezza dei servizi necessari a una vita decente (trasporti efficienti, strade sicure, spazi pubblici decorosi, servizi sociali garantiti), parlare del Progetto Fori può sembrare un lusso. Anzi peggio: un esercizio di stile per intellettuali che continuano a ignorare il malessere generalizzato che ha già cominciato a tracimare. Ma invece proprio il Progetto Fori può diventare il simbolo della determinazione della città a uscire dal pantano, a non dare per scontato un destino segnato da menefreghismo-speculazione-malaffare e a ritrovare la rotta verso la propria identità più autentica.

Un’identità con radici che affondano dall’antichità fino alla storia recente, quando un vasto fronte di entusiasti illuminati (3) capisce che una scelta come quella di restituire i Fori alla loro interezza e alla città può diventare l’inizio di un nuovo mondo. Una scelta forte, intensa, ma anche difficile, che può essere strumentalizzata e resa impopolare. E che forse per questo ha rallentato il coraggio di chi aveva promesso in campagna elettorale di “cambiare tutto”. Infatti quest’estate la valutazione dell’intero progetto, già in fase di elaborazione e presentato nel corso di un convegno nel marzo del 2014 (4), viene affidata a una Commissione di “esperti”. Che si riuniscono, “audiscono”, relazionano: il documento consegnato nei giorni scorsi (5) è un’accurata disamina che più che uno strumento per andare avanti sembra l’ennesima pietra tombale cartacea su un progetto che aspetta di essere realizzato da decenni.

Nella relazione (6) la Commissione Paritetica lamenta il «ridotto tempo a disposizione (meno di quattro mesi) per affrontare un tema di enorme complessità, con il quale si sono confrontate varie Commissioni, progettisti, studiosi, associazioni, da oltre un trentennio». Appunto, diremmo noi. Invece i membri chiedono un altro mandato, in cui sia reso “permanente” l'”organismo paritetico” e gli sia affidato un lavoro ancora più importante: non solo l'”approfondimento dei vari temi affrontati” e la “verifica della fattibilità (in termini di tempi, costi, procedure, etc.) di una serie di progetti proposti” , ma anche “un’opportuna azione di monitoraggio” e il “coordinamento dei vari soggetti (istituzionali e non, pubblici e/o privati) che a diverso titolo saranno impegnati a svolgere le attività…“. In proposito ci chiediamo perchè debba essere tale Commissione nominata da Sindaco e Ministro a occuparsi di un progetto che sarebbe del tutto naturale fosse gestito dai vari soggetti istituzionali preposti. E anche in quale veste tale Commissione dovrebbe svolgere un’azione di “coordinamento”, anche “tra soggetti pubblici e privati”.

E soprattutto non possiamo non rilevare che mentre si invocano maggiori approfondimenti e l’inevitabile allungamento dei tempi per il Progetto Fori, l’idea avanzata poche settimane fa - con un tweet - di coprire l’arena del Colosseo sta facendo passi da gigante, inducendoci a pensare che anche per i beni culturali si riservi la corsia preferenziale a quelle iniziative che possono garantire “ritorni economici”. Infatti in questo caso la Commissione Paritetica si esprime subito favorevolmente, anche per la possibilità di ospitare “iniziative culturali compatibili con la corretta conservazione del monumento“(7). Cioè utilizzare il nuovo spazio ricavato nella suggestiva cornice dell’Anfiteatro Flavio per spettacoli ed eventi, comprese le kermesse commerciali per lanciare ogni sorta di prodotto (come è già accaduto per il Ponte Vecchio a Firenze usato come passerella dalla Ferrari (8). Ed è di questi giorni la notizia – di scala diversa ma emblematica della visione sempre più mercificata di ogni frammento urbano – dell’intenzione del neo assessore ai Lavori Pubblici Maurizio Pucci di utilizzare i sampietrini eliminati dal rifacimento di alcune strade per “fare cassa” (9)

Se non riusciremo a capire che su questioni come queste si sta giocando una partita importante per tutti, non solo per gli accademici e per gli appassionati di archeologia, abbandoneremo la città alla sua lenta agonia. Perchè su queste scelte si fronteggiano due mondi: il mondo di chi pensa che la nostra storia e la nostra città facciano parte di noi e che debbano essere trattate con rispetto e dignità, e il mondo di chi le considera merci, riducendole a mera risorsa economica da sfruttare.

Ricostruire la grande area archeologica dai Fori all’Appia Antica, dove la gente possa andare per restare, per camminare, per scoprire, dove il tempo possa rallentare e si possa respirare la bellezza della città vuol dire ritrovare un modo diverso di vivere. Riportare alla luce nel centro della città il suo cuore antico e aprirgli un varco che segue la sua storia, restituire uno spazio che non esiste e che non ha uguali nel mondo, vuol dire ridare ai cittadini romani una città nuova. Riportare le persone a vivere il centro e rimettere le persone al centro della città.

una planimetria del Progetto Fori

Riferimenti
Il testo integrale del servizio di Carteinregola, corredato da documenti, note e immagini, è visibile qui. L'intervista all'assessore Giovanni Caudo su eddyburg qui.

Dopo il parere del tavolo degli esperti l'assessore Caudo (intervistato da Paolo Boccacci) pronto a abbattere la strada del Ventennio. Finalmente parole chiare e la promessa di riprendere il progetto Fori, realizzando la visione di Antonio Cederna e proseguendo il lavoro di Luigi Petroselli. La Repubblica online, 3 gennaio 2015

Qualè il piano del Campidoglio, assessore Caudo?
«Nel disegno urbano, i Fori devono diventare un'area aperta, proprio comeafferma l'ex soprintendente La Regina, da vivere prima ancora come cittadiniche come turisti. Si deve consentire di realizzare singoli interventi ma dentroun quadro unitario e, infine, si deve stabilire una modalità di coordinamentotra tutti i soggetti interessati, in primis lo Stato e Roma Capitale»
Ma il Campidoglio è per lo smantellamento della via e la riunificazione degliantichi Fori?
«Certamente. La commissione di esperti ha rimesso in discussione il vincolomonumentale su via dei Fori Imperiali, anche se sulla rimozione della stradamantiene una posizione contraddittoria e restituisce posizioni diverse. Per noila rimozione dello stradone tra piazza Venezia e largo Corrado Ricci perliberare e dare continuità ai Fori Imperiali non può e non deve più continuaread essere un tabù. Chiunque, dopo aver visto la bellissima ricostruzionevirtuale del Foro di Augusto di Piero Angela, ha maturato la convinzione chenon può esserci un nastro di asfalto sopra i Fori. Ed è quanto prevedeva già ilProgetto di Leonardo Benevolo e di Francesco Scoppola nel 1988, bisognaripartire da lì».
Dunque la via è questa?
«La Commissione scrive che l'area archeologica «va resa più frequentabile e piùvissuta dai cittadini, anche solo per la lettura di un giornale o di un libro,per una chiacchierata o per una semplice passeggiata o per il normaleattraversamento, accompagnando i bambini a scuola o con le buste della spesa,valorizzando i tracciati esistenti» E io sottoscrivo in pieno questa tesi, comequella per cui bisogna «evitare ogni forma di separatezza tra la città modernadi Roma, con i suoi bisogni e i suoi problemi, e quella antica».
Ora serve un progetto definitivo.
«I prossimi mesi, come chiede il sindaco Marino, ci vedranno impegnati amettere a frutto questo lavoro e ad aggiornare il piano urbanistico complessivodel Progetto Fori, lo faremo e lo discuteremo con il ministero Beni culturali.Bisogna avere il coraggio di un progetto unitario di grande respiro. SulColosseo e sulla proposta di ricostruire l'arena non ho elementi per potermiesprimere, mi fido di quanto ha detto La Regina e mi richiamo alla sua prudenzanel valutare le modalità con cui si possono portare avanti interventi incomplessi monumentali così delicati. Oltre, ovviamente, all'opportunità difarli».
Veniamo allo smantellamento di via dei Fori.
«Bisogna rimuovere via dei Fori imperiali fino a largo Corrado Ricci. Un progettoche sono convinto riuscirà a dare ancora corpo alle diverse stratificazioni chel'area ha avuto, compresa quella degli anni '30, ma che sceglie di ricostituirel'integrità degli spazi dei Fori, assicurando la continuità fra MercatiTraianei, Foro di Traiano, Foro di Augusto, Foro di Nerva, fino al Foro dellaPace voluto da Vespasiano. Un progetto che accetta la sfida dell'innovazione edella sperimentazione per disegnare i percorsi, anche a quote archeologiche,tra piazza Venezia e largo Corrado Ricci».
E poi?
«Bisogna ripristinare le trasversali tra l'area archeologica e la città modernache gli è cresciuta sopra e intorno. Ad esempio quella che, da piazza Monti,alla Suburra, attraverso via Baccina arriva al Foro di Augusto, lo attraversa epassando dietro il Campidoglio e dopo aver intersecato la via Sacra procedeverso il Velabro, il tempio di Vesta e quindi il Tevere e si prolunga fin versoil basamento dell'Aventino con la risalita fino al giardino degli Aranci, peraltro da poco ultimata. Una passeggiata unica al mondo, una esperienza urbanasenza pari che restituirebbe un senso di cittadinanza a chiunque l'attraversi».
Come si trasformerà piazza del Colosseo?
«Con la sistemazione di uno spazio pedonale che restituisca il rapporto con lepreesistenze archeologiche ridando dignità ad esempio alla Meta sudans dallaquale si misuravano tutte le distanze ai tempi dell'antica Roma. Unasistemazione che superi l'attuale aiuola che «arreda« la piazza, che risolval'uscita dalla stazione metro Colosseo e indirizzi i flussi pedonali versol'inizio della via Sacra e, oltre l'arco di Costantino, verso l'ingresso alPalatino».
E via dei Cerchi?
«Sarà pedonalizzata e si aprirà un accesso al Palatino. Palazzo Rivaldi saràtemporaneamente centro servizi e spazio espositivo in attesa dellarealizzazione della stazione della Metro C che potrà ospitarne uno piùfunzionale. Mentre a piazza Venezia, venuto meno il collegamento stradale convia dei Fori Imperiali, si può superare l'attuale sistemazione a rotatoria, chela fa sembrare uno spartitraffico. Ora, dopo i lavori della commissione,possiamo dare corpo al Progetto Fori come previsto dal Prg del 2008 e dare vitaall'area archeologica più importante del mondo che sarà il cuore vivo epulsante di una città millennaria ora estesa su un territorio metropolitano dicui sarà possibile comprendere e apprezzare la modernità e declinarla al futuro».

«Noi pensiamo che il fine non giustifica i mezzi, e che negli interventi di trasformazione della città le cubature non possono essere usate come “moneta urbanistica”, seppure “a fin di bene”». Carteinregola, 22 dicembre 2014

Oggi in Assemblea Capitolina si vota la dichiarazione di pubblico interesse della “Proposta dello Stadio della Roma a Tor di Valle” – Studio di fattibilità”. Su Roma città aperta la diretta audio fm 88.9, sul sito di Roma Capitale lo streaming della diretta del dibattito. I lavori proseguiranno anche nel pomeriggio. Intanto M5S ha diramato un comunicato in cui mette i dubbio la validità della seduta per violazione dell’orario di convocazione (art. 35 comma 4 del regolamento del Consiglio comunale)

Lo diciamo ancora una volta: siamo contrari alla dichiarazione di pubblico interesse della proposta, non perchè siamo contro al progetto di un nuovo Stadio della Roma, ma perchè non condividiamo i principi su cui si fonda e le modalità con cui è stato condotto. Ma siamo – come sempre – anche per una corretta informazione – e soprattutto per una corretta opposizione. Contrapponendo le nostre ragioni a quelle dell’Assessore Caudo con argomentazioni serie e fondate, senza ventilare interessi illeciti, imbrogli e falsi ideologici per contestare scelte che, anche se non condividiamo, fino a prova contraria sono assolutamente legittime. Ne riportiamo una sintesi, rimandando per approfondimenti ai nostri precedenti articoli/dossier.

Il punto di dissenso

Se dovessimo riassumere in un unico punto il nostro dissenso dalla Delibera del Nuovo Stadio, si potrebbe ridurre a questo: l’Assessore Caudo guarda ai risultati concreti per la città, considerando l’ “operazione Stadio”consentita dai due commi come un’opportunità da cogliere, per portarsi a casa quelle che considera importanti risorse non solo per il quadrante ma per tutta la Capitale. Noi invece pensiamo che il fine non giustifica i mezzi, e che negli interventi di trasformazione della città le cubature non possono essere usate come “moneta urbanistica”, seppure “a fin di bene”.

Per l’Assessore i vantaggi dell’operazione sono quantificabili sia in termini economici (secondo i suoi calcoli il “guadagno pubblico” sarebbe circa il 25% del ricavato degli investimenti privati), sia in termini infrastrutturali. E le nuove strutture per la mobilità non servirebbero solo il nuovo Stadio ma tutto il quadrante, con interventi sui collegamenti su ferro esistenti e con i parcheggi al servizio dell’impianto sportivo e dell’annesso Business Center, che diventerebbero parcheggi di scambio per i pendolari che vivono fuori dal GRA. Anche il nuovo quartiere con edifici direzionali, commerciali, recettivi, contribuirebbe al decentramento di funzioni e servizi allentando la pressione e gli impatti sul centro storico.

Secondo noi invece le trasformazioni urbane non possono essere il risultato di una stratificazione di proposte dei privati, seppure valutate e guidate dalla mano pubblica volta per volta, ma devono essere il frutto di una pianificazione lungimirante, che costruisca un’idea di città condivisa con i cittadini. Come del resto prometteva il programma del Sindaco Marino di cui è autore l’assessore Caudo. Una contraddizione di principio, che non è sfuggita all’Istituto Nazionale di Urbanistica, che, nel suo documento di qualche tempo fa, non a caso aveva sottolineato come tutta l’operazione fosse l’ennesimo caso di “urbanistica contrattata” concludendo che “l’esame di proposte imprenditoriali e il negoziato sui loro contenuti e condizioni sono necessità ineliminabili della città e della metropoli contemporanea” (3). Un sistema che noi – al contrario di quanto sostiene l’INU – invece vogliamo credere che non sia inevitabile, come non vogliamo rassegnarci all’idea che per dotare delle infrastrutture necessarie i quartieri che tutte le amministrazioni che si sono succedute da almeno vent’anni hanno abbandonato a se stessi, sia necessario mettere in conto nuove cubature. E se non escludiamo aprioristicamente che a Tor di Valle, all’interno del GRA, accanto alla stazione della metro B, in un’area già in parte urbanizzata, possa avere senso inserire una nuova centralità, riteniamo che non sia con questi commi, con questa tempistica, con queste modalità che impediscono adeguati studi preliminari ed escludono la città dal dibattito, che si possa progettare una trasformazione così consistente.

Le nostre ragioni

1) Non siamo contrari alla realizzazione di un nuovo stadio: quelli esistenti – Olimpico e Flaminio – non sono più adatti, per motivi diversi e – soprattutto l’Olimpico – per gli impatti gravissimi dal punto di vista della sicurezza e della mobilità dei quartieri limitrofi. Argomento di cui nessuno sembra preoccuparsi, a partire dal prefetto Pecoraro che consente che si riproponga ad ogni partita una situazione inaccettabile e pericolosa nelal zona Faminio/Prati/Ponte Milvio. Realizzare un nuovo stadio, con soluzioni innovative all’altezza delle città moderne soprattutto per la sicurezza ci sembra indispensabile e anche di pubblico interesse. Nè ci sembra criticabile – in tempi in cui ci si spertica in elogi della rigenerazione urbana – costruire uno stadio moderno al posto di un ippodromo abbandonato. Tuttavia ci sono questioni che dovrebbero essere affrontate fin d’ora, come la possibilità il rischio della moltiplicazione degli stadi di ogni sorta (da quello della Lazio a qualsiasi altra squadra e sport) che – dato il precedente – potrebbe diventare il grimaldello per costruire interi quartieri direzional/commerciali in luoghi non forniti delle necessarie infrastruttre per lo stadio. In nome dell’equilibrio economico.

2) L’ambiguità della necessità dell’ “equilibrio economico”. A nostro avviso il Sindaco e l’Assessore alla Trasformazione Urbana della Capitale avrebbero dovuto avere voce in capitolo e respingere questa formulazione dei commi della Legge di stabilità, pretendendo una legge fatta come si deve con tutte le precisazioni necessarie. Invece i commi in questione, mentre descrivono molto dettagliatamente tutte le minacce in caso di inadempienza da parte dell’amministrazione nella turboapprovazione della proposta dei privati, nulla dicono su cosa si intende per tipi di intervento “strettamente funzionali alla fruibilità dell’impianto e al raggiungimento del complessivo equilibrio economico-finanziario dell’iniziativa e concorrenti alla valorizzazione del territorio in termini sociali, occupazionali ed economici” se non che sono esclusi “nuovi complessi di edilizia residenziale” (4). Secondo noi gli edifici del Business Center non dovrebbero essere una soluzione praticabile per garantire l’equilibrio economico per coprire i costi delle infrastrutture necessarie. Altrimenti si aprirebbe (si aprirà) la porta alla realizzazione di altri milioni di cubature, volti a garantire la sostenibilità economica di altri stadi previsti in luoghi non adeguatamente provvisti di infrastrutture. E neanche il criterio che le cubature del BC vanno a coprire i costi di infrastrutture al servizio non solo dello stadio ma di tutta la città ci sembra adeguato. Perchè ripropone il solito schema “cubature in cambio di opere che le casse pubbliche non possono affrontare”, che è stata una delle sciagure subite dalla città. Una pratica che ha messo in mano all’iniziativa di privati, quindi sottomesse alla legge del profitto, scelte che avrebbero dovuto essere guidate da una regia mirata esclusivamente all’interesse pubblico.

3) Interrompiamo la logica dello scambio servizi/infrastrutture/riqualificazione con nuove cubature ai privati. E’ triste, in questi giorni in cui si scopre che da anni un’organizzazione mafiosa ha predato sistematicamente le risorse pubbliche per foraggiare politici e pubblici amministratori (e temiamo che il bilancio finale sarà ben più salato), pensare che per avere quei minimi e doverosi servizi per i cittadini – una ferrovia che funziona come una metro, una strada messa in sicurezza, una stazione in più della metropolitana, un parco nell’ansa del Tevere – il Comune debba regalare ai privati che mettono i soldi necessari il diritto di costruire nuovi edifici. Non sappiamo se all’estero funzioni così, ma secondo noi il pubblico interesse dell’operazione avrebbe dovuto limitarsi al progetto “A” – lo Stadio con annessi uffici, qualche albergo, anche negozi e centro Nike – che rientra nell’area dell’Ippodromo e nelle previsioni del PRG. Con la condizione per il privato di realizzare le infrastrutture necessarie alla sua sostenibilità per la città, quindi con la sistemazione della mobilità su ferro e della rete viaria. E se l’equilibrio economico non fosse stato raggiungibile, la risposta avrebbe dovuto essere “no grazie”, con la possiblità per il privato di individuare un’altra area, in cui i costi risultassero inferiori perchè già in parte infrastrutturata (5).

4) Fretta e pressioni al posto di pianificazione. Vogliamo prima i dati. Resta il fatto che molte contestazioni riguardano proprio il tipo di interventi messi come condizione preliminare del progetto dello Stadio – in particolare la realizzazione di un prolungamento della metro B con una stazione “Tor di Valle” – a fronte di una situazione della mobilità insostenibile che le opere proposte non risolverebbero adeguatamente. Tuttavia non ce la sentiamo di esprimerci al riguardo, non avendo a disposizione dati oggettivi frutto di studi preventivi, che tuttavia non ci risulta siano stati commissionati neanche dall’assessorato. E ritieniamo ingiustificabile che non ci siano stati dibattiti pubblici sull’argomento nè che tutti i documenti non siano stati messi a disposizione dei cittadini on line (nei giorni scorsi sono state pubblicate sul sito del Dipartimento urbanistica le slides con i dati della presentazione dell’Assessore Caudo)

5) A proposito di trasparenza e partecipazione. Ci limiteremo a citare un passaggio del programma elettorale del Sindaco Marino, che oggi chiama a raccolta in Campidoglio i tifosi della Roma per perorare la delibera:

“I processi di rigenerazione devono avvenire promuovendo il più ampio coinvolgimento dei soggetti interessati al fine di assicurare che gli interventi migliorino la vivibilità e la qualità delle parti di città coinvolte e ne sia garantita la sostenibilità sociale ed economica. A tal fine istituiremo i Laboratori di Città che descriviamo più avanti con i quali promuoviamo non la solita partecipazione ma il protagonismo di cittadini e anche delle imprese che in forme civiche prendono parte ai processi di rigenerazione” “La qualità è anche aprirsi alla partecipazione. I Laboratori di Città e l’Agenzia di rigenerazione urbana serviranno anche a costruire nuovi percorsi di partecipazione informata dei cittadini alle scelte urbanistiche della città. Vanno poi aperti nuovi canali di comunicazione e dibattito pubblico, gestiti dall’amministrazione pubblica, che devono svolgersi sia in maniera decentrata, nei luoghi della città dove le cose avvengono, ma anche in uno spazio da creare al centro, un “forum” dedicato, perché molte di queste trasformazioni interessano l’intera comunità urbana”

Le leggende metropolitane

§ 1) Lo Stadio e il Business Center sorgerebbero nell’ agro romano. L’area (privata) nel PRG è classificata “verde privato e attrezzature sportive” , si trova all’interno del raccordo anulare, e dove già esiste un grande impianto sportivo abbandonato – l’ippodromo di Tor di Valle. A 500 metri si estende il popoloso EUR Torrino, e anche dall’altra parte del Tevere, oltre l’autostrada per Fiumicino insiste un consistente quartiere.

§ 2) Lo Stadio e il Business Center sorgerebbero in area esondazione /area a rischio idrogeologico. L‘area non è a rischio esondazione. Il rischio riguarda il quartiere di Decima, soggetto all’esondazione del fosso di Vallerano, la cui sistemazione è stata individuata dall’amministrazione comunale come una delle opere che condizionano la dichiarazione di pubblico interesse (6). Nella conferenza dei servizi l’Autorità di Bacino del Fiume Tevere ha inserito delle prescrizioni, che ci riservaimo di valutare quando i relativi atti saranno disponibili (cosa che ci auguriamo avvenga l più presto)

§ 3) Il Comune poteva/doveva indicare un altra location (ad esempio Tor Vergata). A chi continua a tirare fuori dal cappello Tor Vergata, come se fosse una location alternativa credibile, lo diciamo una volta per tutte: i famosi commi non prevedono che sia il Comune a scegliere il luogo, a meno che sia il Comune stesso a costruire lo stadio. In caso contrario può solo esprimersi sul pubblico interesse della proposta del privato. E ipotizzare di buttare giù una struttura per la quale sono già stati sborsati 250 milioni di euro di soldi pubblici, che costerebbe un altro bel po’ per la demolizione, ci sembra davvero improponibile

§ 4) L’area non è edificabile – il PRG non prevede edificazioni. Nel PRG l’area è verde privato attrezzato e attrezzature sportive. Già oggi il proprietario potrebbe edificare un 112.000 mq di SUL (pari a circa 358 mila mc).. E se si avvalesse del “Piano Casa” potrebbe ulteriormente aumentarle (e trasformare l’Ippodromo in appartamenti)

§ 5) Si potrebbe riqualificare lo Stadio Olimpico/lo Stadio Flaminio. Lo stadio Flaminio non ha le dimensioni e i requisiti richiesti dalle attuali normative. Lo stadio Olimpico è situato in un’area inadatta, chiusa tra il Tevere e Monte Mario, con rischi per la sicurezza pubblica e un blocco totale della mobilità del quadrante Roma Nord durante le partite. Tantomeno è fornito di parcheggi o di linee di metropolitana.

§ 6) Il Comune dovrà sborsare risorse pubbliche. Il Comune non farà alcun investimento economico, neanche per le opere infrastrutturali, che saranno compensate con diritti edificatori

§ 7) Lo Stadio può diventare un relitto nel deserto come le Vele di Calatrava o la Nuvola di Fuksas. Nessun punto in comune tra le opere: infatti lo stadio è un’opera privata realizzata da privati, mentre le Vele e la Nuvola sono stati costruiti (e non terminati) con denaro pubblico

§ 8) Le cubature realizzate per il Business Center sono una speculazione edilizia che arricchirà i privati mentre al Comune resteranno le briciole (si rimanda all’intervento dell’assessore per valutare i vantaggi economici per il Comune)

§ 9) Il Comune non può stabilire l’interesse pubblico di un progetto che potrebbe dimostrarsi irrealizzabile dopo una sentenza che potrebbe modificare l’assetto proprietario dell’area, oggetto di un fallimento. E’ un problema del privato, non del Comune. Se il privato non potrà più mantenere la proposta avanzata, automaticamente decadrà.

§ 10) Se viene dichiarato il pubblico interesse lo Stadio si farà a tutti i costi Il percorso del progetto è ancora lungo, prevede una conferenza decisoria della Regione Lazio e soprattutto che il proponente accetti le condizioni poste da Roma Capitale. Se anche una sola delle richieste vincolanti non venisse rispettata, l’operazione finirebbe su un binario morto.

A futura memoria

Non possiamo nascondere che la diffidenza dei cittadini anche rispetto alle assicurazioni date dall’Assessore è giustificata da molti anni di promesse mancate, o di deroghe e norme modificate in corso d’opera. Anche la famosa esclusione di cubature residenziali tra le edificazioni per il raggiungimento dell’equilibrio economico, non è escluso che ritornino sulla scena. Sappiamo che basta un codicillo infilato nottetempo da qualche manina in una commissione parlamentare (come è già successo), magari in un provvedimento che tratta di tutt’altro (come è già successo), che viene approvato grazie alla fiducia (come è già successo) che tutto può cambiare. E tutti gli accordi e i buoni propositi possono sciogliersi come neve al sole.

«Paghiamo il prezzo di anni di assue­fa­zione al pen­siero unico che esalta la com­pe­ti­ti­vità, il con­su­mi­smo, la cre­scita ad ogni costo, l’individualismo pro­prie­ta­rio. Ideo­lo­gie che hanno len­ta­mente avve­le­nato la nostra vita quo­ti­diana riu­scendo a far brec­cia in cia­scuno di noi». Il manifesto, 18 novembre 2014

La que­stione urbana delle grandi città, la que­stione delle peri­fe­rie — bal­zata oggi agli onori della cro­naca nazio­nale con gli epi­sodi di Tor Sapienza — rischiano di diven­tare i nuovi incubi dei governi degli anni a venire sovrap­po­nen­dosi tra­gi­ca­mente alla crisi eco­no­mica in corso e pro­du­cendo una miscela esplo­siva dalle con­se­guenze imprevedibili.

Quando le que­stioni si fanno com­plesse da ana­liz­zare per ritardi sto­rici, per defi­cit di ana­lisi, inca­pa­cità o altro e quando le solu­zioni non sono a por­tata di mano, c’è un mec­ca­ni­smo effi­cace che mette quiete le coscienze: la ricerca del capro espia­to­rio. Ce lo ha inse­gnato la sto­ria; sull’argomento tanto ha scritto l’antropologo e filo­sofo fran­cese René Giscard. È il mec­ca­ni­smo attra­verso il quale si iden­ti­fica irra­gio­ne­vol­mente in una per­sona (o in un gruppo) la causa respon­sa­bile di tutti i pro­blemi non risolti, quasi sem­pre con l’obiettivo nasco­sto di evi­tare di affron­tare le vere cause o i veri respon­sa­bili. Que­sta volta il ruolo di capro espia­to­rio è toc­cato al mal­de­stro e incauto Marino sulle cui spalle sono state fatte cadere tutte le respon­sa­bi­lità di un disa­stroso declino delle con­di­zioni urbane di Roma che per­dura in realtà sot­to­trac­cia da anni.

La per­sona si pre­senta adatta al ruolo: fuori dalle lob­bies poli­ti­che, non romano, uomo che prende da solo deci­sioni che le regole del poli­ti­ca­mente cor­retto vor­reb­bero che fos­sero invece con­cer­tate con gli appa­rati, per­sona che non riscuote par­ti­co­lari sim­pa­tie dei media. Pec­cato che in altre grandi città ita­liane, gover­nate da sin­daci eletti fuori dalle con­sor­te­rie poli­ti­che e per espressa volontà popo­lare, come Doria a Genova, Pisa­pia a Milano, De Magi­stris a Napoli, le cose non vadano poi così diver­sa­mente, tanto che è più che lecito chie­dersi se il declino urbano delle grandi città non sia piut­to­sto da ricer­care ben più in alto o ben più in pro­fon­dità. Per­ché alle varie anime del Pd romano non par vero di poter indi­care il capro espia­to­rio di quanto acca­duto nel sin­daco Marino, e cosi rimet­tere in moto la vec­chia mac­china clien­te­lare, men­tre a sini­stra, si denun­cia - non certo a torto - il mon­tare dell’intolleranza xeno­foba, che offre var­chi di con­se­gna agli impren­di­tori poli­tici della paura, sem­pre attivi nella destra ita­liana. In realtà i fatti degli ultimi giorni meri­tano uno sguardo non solo meno stru­men­tale e rav­vi­ci­nato, ma soprat­tutto più ampio e generale.

Quando dopo il quin­di­cen­nio di governo delle sini­stre (Rutelli prima e Vel­troni dopo), venne can­di­dato per la seconda volta al ruolo di sin­daco della capi­tale lo stesso Rutelli, la sini­stra rimase atto­nita dalla scon­fitta subita cui con­tri­bui­rono pesan­te­mente gli abi­tanti delle peri­fe­rie, quelle che un tempo veni­vano chia­mate «le cin­ture rosse, lo zoc­colo duro del Pci». Tanto che il medio­cre Ale­manno rimase lui stesso incre­dulo per il con­senso rice­vuto che gli per­mise di salire al colle del Cam­pi­do­glio. Le fan­ta­sma­go­rie del cosid­detto «Modello Roma» (il Pil urbano al 4.5%, Roma come loco­mo­tiva d’Italia, Roma come Bar­cel­lona, Dubai…), ave­vano fatto velo a un cre­scente disa­gio delle con­di­zioni di vita nelle peri­fe­rie, tanto che in quei tempi riscosse un certo suc­cesso media­tico la parola «risen­ti­mento» per espri­mere lo stato d’animo degli abi­tanti. Risen­ti­mento per essere stati lasciati soli al loro destino, risen­ti­mento per avere il Pd abban­do­nato ogni lavoro sul ter­ri­to­rio (sman­tel­la­mento di tutte le sezioni di par­tito che tanto ave­vano sto­ri­ca­mente con­tri­buito alla for­ma­zione di una eman­ci­pa­zione delle coscienze). Pochi e ina­scol­tati furono coloro che ten­ta­rono di spie­gare come i «suc­cessi» di Vel­troni non ave­vano alcun riscon­tro in que­sti luo­ghi lon­tani dal cen­tro dove, invece, si con­ti­nuava a cemen­ti­fi­care oltre ogni ragio­ne­vole misura, creando nuove e mostruose peri­fe­rie urbane.

L’approvazione del Piano Rego­la­tore Gene­rale, alla fine del man­dato Vel­troni, non segnò una inver­sione di ten­denza rispetto al pas­sato: il blocco degli immo­bi­lia­ri­sti con­ti­nuava quasi indi­stur­bato a deci­dere per Roma uno svi­luppo ancora inso­ste­ni­bile con la com­pli­cità di appa­rati ammi­ni­stra­tivi e politici.

La disfatta di Ale­manno è tutta a suo «merito», la sini­stra non c’entra; il sin­daco ex squa­dri­sta, eletto «a sua insa­puta» dal moto di risen­ti­mento pro­fondo con­tro la sini­stra, tra­scorse il suo man­dato tra gaffe e inef­fi­cienza; ma ciò nono­stante il Pd non aveva più la forza per imporre al ruolo di sin­daco un uomo del suo appa­rato. Così che Igna­zio Marino, il «mar­ziano», l’uomo fuori dal gioco delle con­sor­te­rie poli­ti­che cat­turò il favore del popolo romano che di pro­fes­sio­ni­sti della poli­tica non ne voleva più sen­tir par­lare. Que­sto, in breve e sche­ma­ti­ca­mente per spie­gare la pre­senza di un sin­daco mai accet­tato dalla gran parte del Pd e tanto più avverso per aver scelto per­so­nal­mente molti uomini (e donne) della sua giunta.

Ma è stata la crisi eco­no­mica e le poli­ti­che comu­ni­ta­rie ad aver ulte­rior­mente aggra­vato una situa­zione già di per sé esplo­siva. Le con­di­zioni di ulte­riore e pro­gres­sivo impo­ve­ri­mento della popo­la­zione delle peri­fe­rie hanno aggra­vato le con­di­zioni di vita delle per­sone favo­rendo il dif­fon­dersi di atti­vità cri­mi­nali, spac­cio della droga, infil­tra­zioni camor­ri­sti­che. A ciò si aggiunge l’insostenibile con­di­zione di disoc­cu­pa­zione che affligge i gio­vani spesso arruo­lati in atti­vità di spac­cio e micro­cri­mi­na­lità. Le poli­ti­che neo­li­be­ri­ste hanno creato disu­gua­glianze feroci pro­du­cendo una lotta dar­wi­niana per la soprav­vi­venza così che sono sal­tati tutti i vin­coli di soli­da­rietà che in pas­sato si sta­bi­li­vano tra per­sone povere, tra per­sone che strin­ge­vano patti di mutua col­la­bo­ra­zione e coo­pe­ra­vano per sopravvivere.

Poi c’è la spen­ding review che favo­ri­sce la sven­dita ai pri­vati dei ser­vizi che i comuni non sono più in grado di garan­tire o la cui fun­zio­na­lità comun­que com­por­te­rebbe sacri­fici sotto forma di tasse tale da ren­dere impo­po­lare l’amministrazione che pra­ti­casse tale obiet­tivo. Molte ammi­ni­stra­zioni inol­tre, per fare cassa rila­sciano con­ces­sioni a edi­fi­care senza badare molto alle con­se­guenze urba­ni­sti­che e a quelle del con­sumo di suolo, o ai dis­se­sti idro­geo­lo­gici: ogni minuto in Ita­lia scom­pa­iono quat­tro­cento metri qua­drati di suolo coperti dal cemento. Il rila­scio di con­ces­sioni ad edi­fi­care è diven­tato uno dei prin­ci­pali modi di repe­rire denaro ali­men­tando una bolla immo­bi­liare simile a quella che pro­vocò la crisi ame­ri­cana dei sub­prime. L’immobiliare, afferma Tocci, è stato il pro­se­gui­mento della finan­zia­riz­za­zione con altri mezzi, con la com­pli­cità di molte archi­star che valo­riz­zano ter­ri­tori con i loro oggetti sra­di­cati dai luo­ghi e in linea con l’immaginario globale.

Roma ne è esem­pio con lo sta­dio del nuoto a Tor Ver­gata rima­sto uno sche­le­tro nel deserto o con la costo­sis­sima Nuvola che divora immense risorse finan­zia­rie per non par­lare del ven­ti­lato pro­getto di costruire un nuovo sta­dio in un’area a rischio idro­geo­lo­gico a Tor di Valle in barba al Piano Rego­la­tore e al buon senso con discu­ti­bili cri­teri di pre­sunta uti­lità pub­blica.

Meglio sarebbe se il sin­daco desi­stesse da que­ste ini­zia­tive sba­gliate e ripren­desse invece il dia­logo con la città che lotta e che sof­fre come pure fati­co­sa­mente sta pro­vando a fare con gli abi­tanti di Tor Sapienza distin­guendo fra le buone ragioni delle pro­te­ste dei cit­ta­dini romani e le stru­men­ta­liz­za­zioni dei nuovi bar­bari ed inqui­na­tori della coscienza civica.

In que­sto qua­dro deso­lante arri­vano a col­mare la misura gli immi­grati con tutto il loro carico di pene e sof­fe­renze, mai accolti come si dovrebbe da parte di una città vera­mente capi­tale e uti­liz­zati a scopo elet­to­rale da pro­pa­gande di segno oppo­sto. Così che diven­tano anch’essi i capri espia­tori di tutti i mali pro­dotti dal neo­li­be­ri­smo. Paghiamo il prezzo di anni di assue­fa­zione al pen­siero unico che esalta la com­pe­ti­ti­vità, il con­su­mi­smo, la cre­scita ad ogni costo, l’individualismo pro­prie­ta­rio. Ideo­lo­gie che hanno len­ta­mente avve­le­nato la nostra vita quo­ti­diana riu­scendo a far brec­cia in cia­scuno di noi.

È da qui che biso­gna ripar­tire: da un pro­getto di con­vi­venza e con­vi­via­lità e di acco­glienza che fac­cia rina­scere nelle nostre città quei prin­cipi di vita asso­cia­tiva e fio­rire della cul­tura che fecero dei comuni ita­liani ed euro­pei i luo­ghi da cui nac­que il Rinascimento.

Un governo della città che si apra ad una demo­cra­zia pub­blica fon­data sulla par­te­ci­pa­zione delle comu­nità locali e dei quar­tieri, con nuove isti­tu­zioni di pros­si­mità che sap­piano inter­pre­tare e rap­pre­sen­tare il biso­gno di sicu­rezza, di soli­da­rietà, di con­di­vi­sione che pure sono sen­titi dai cit­ta­dini romani e scon­fig­gere la piaga dell’egoismo, della com­pe­ti­zione sel­vag­gia, della cac­cia all’untore che inde­bo­li­sce le comu­nità a tutto van­tag­gio di ideo­lo­gie raz­zi­ste e xeno­fobe che avve­le­nano gli animi e i cuori e lasciano die­tro di se solo mace­rie e rovine fisi­che e morali, e distrug­gono la con­vi­venza civile e demo­cra­tica. Ci pia­ce­rebbe ripren­dere con tutti quelli che lo vor­ranno il filo di un impe­gno civile col­let­tivo per non lasciare la nostra bella città nelle mani dei poteri forti e della cat­tiva poli­tica che l’hanno sevi­ziata ed oltrag­giata o dei mesta­tori dell’odio sociale e della guerre etni­che e di religione.

Roma, Via Giulia. Riemerge una proposta che minaccia di «vanificare una scoperta archeologica, negare il verde pubblico, calpestare la volontà popolare in nome di un maxi-parcheggio (non del tutto) sotterraneo» E la giunta Marino l'approva. Il Fatto Quotidiano, 3 settembre 2014

Nel cuore di Roma, prove tecniche di Sblocca Italia: ovvero come vanificare una scoperta archeologica, negare il verde pubblico, calpestare la volontà popolare in nome di un maxi-parcheggio (non del tutto) sotterraneo. Firmato: giunta Marino e ministero per i Beni culturali. È questa, in estrema sintesi, la prospettiva che si sta concretizzando per un pezzo di una delle vie più famose, belle e importanti del mondo. Qui l'aborto di uno sventramento fascista (1931) aveva lasciato in eredità un vuoto, che la fantasia degli amministratori romani non ha saputo riempire se non progettando di murarci un gran cubo porta-macchine.

I saggi di archeologia preventiva della soprintendenza statale hanno portato, però, a scoperte (di edifici di età augustea: un quartiere termale e soprattutto una rarissima stalla dei cavalli che correvano al circo) che “consentono un sostanziale avanzamento della conoscenza della topografia antica del Campo Marzio e potranno costituire d’ora in avanti un sicuro riferimento per la storia dello sviluppo urbano antico” (così la relazione finale degli scavi).

In un paese normale che si farebbe? Si accoglierebbe finalmente la richiesta dei residenti, che vorrebbero un giardino, e si troverebbe il modo di tenere insieme il verde e l'archeologia. Invece a Roma no: nonostante le severe prescrizioni dell'altra soprintendenza (quella comunale) e del Dipartimento urbanistica del Comune stesso, il 3 luglio scorso la Giunta approva la variante del parcheggio interrato (che poi interrato non sarà). Con la conseguenza che la rampa di accesso dal lungotevere costituirà una profonda trincea, invalicabile dai pedoni, e verrà compromessa la continuità dell’asse tra i rioni Trastevere eRegola. Né sarà più possibile vedere i reperti, che in parte sarannoriseppelliti, in parte trasferiti altrove (!). Non c'è da stupirsi se il 9agosto scorso due associazioni (Coordinamento Residenti Città Storica eCittadinanzattiva Lazio) hanno formalmente diffidato il sindaco “a nonrilasciare il permesso a costruire del parcheggio interrato”. Anche il buonsenso lo diffiderebbe.

Riferimenti

Vedi, su eddyburg, l'articolo di Paolo Grassi del 27 dicembre 2004, quello di Anna Rita Cillis del 17 febbraio 2013 e quello di Tomaso Montanari del 9 marzo 2013, ripresi dalla stampa nazionale nonchè, su carteinregola, la documentata nota di Paolo Gelsomino, del 18 agosto 2014

Un appello delle associazioni cittadine romane per la tutela del territorio perché, prima di decidere, il sindaco Marino apra una discussione responsabile nella città su un intervento, legittimato da aberranti decisioni nazionali, che sconvolgerebbe gran parte della capitale d'Italia. Carte in regola, 30 agosto 2014


Carte in regola - per una nuova cultura delle regole è un sito e un'associazione che raggruppa numerose associazioni, comitati e altri gruppi di cittadinanza attiva che operano nel territorioromano.

Si avvicina il termine (4 settembre) in cui il Comune di Roma dovrà esprimersi sul progetto dello Stadio della Roma a Tor di Valle, dopo la “bocciatura” dello studio di fattibilità presentato a luglio da James Pallotta, presidente della A.S Roma, e dal costruttore Parnasi, e le condizioni “sine qua non” consegnate alla Newco, la settimana scorsa a New York, dal Sindaco e dall’Assessore Caudo, che dovrebbero essere state accettate dai proponenti .

Un progetto che resta fortemente osteggiato da un fronte decisamente eterogeneo, che spazia dai competitors Caltagirone e Bonifaci, che dalle colonne dei quotidiani di proprietà sparano a zero sulla proposta della A.S Roma e della Eurnova di Parnasi, ai politici soprattutto di centrosinistra, alle associazioni ambientaliste. E se noi continuiamo a non essere affatto convinti dell’operazione, dobbiamo dire che non ci convincono neanche le tante “conversioni” alla causa, a partire da quella dell’editore del Messaggero. E, come al solito, continuiamo a ragionare sui fatti e sui dati, sgombrando il dalle strumentalizzazioni, e soprattutto ponendo le domande indispensabili per capire come stanno davvero le cose.

Ma fin da ora rivolgiamo un nuovo appello al Sindaco affinchè “fermi la macchina” e sospenda la decisione sul pubblico interesse della proposta, avviando immediatamente un confronto con tutte le istituzioni – compresi i Municipi – e soprattutto con la città, intesa come cittadini e realtà dei territori. In ballo non c’è la messa in sicurezza di un impianto sportivo di provincia, ma un’operazione urbanistica e immobiliare di grande portata, che interessa una consistente fetta di territorio della Capitale d’Italia. E che è anche il primo “banco di prova” di una iniziativa legislativa del Governo Letta assolutamente inaccettabile, che consiste in due commi ambigui e generici, che sono già stati interpretati in maniera opposta da diversi esponenti della stessa maggioranza.

Un appello perché:

Chiediamo a Ignazio Marino di utilizzare tutta la sua autorevolezza di Sindaco di Roma Capitale per chiedere al Presidente Matteo Renzi di garantire l’interesse della nostra città: per regolare un progetto complesso come quello della costruzione e della sostenibilità economica di uno stadio è necessaria una legge dedicata, esaustiva e soprattutto univoca. Sul fronte dell’urbanistica, Roma ha già pagato altissimi prezzi, con focolai di insostenibilità sparsi in ogni municipio, a cui l’assessore Caudo lavora instancabilmente da più di un anno, per rilanciare un’altra idea di città. Continuiamo su questo percorso. Cambiamo tutto, insieme ai cittadini.

Riferimenti

Nel sito carteinregola potete trovare aggiornati dossier sull'argomento.

Se il Valle non è diventato un centro commerciale o un teatro privato è merito di chi ha occupato: alla faccia di chi per tre anni ha linciato mediaticamente gli occupanti e i loro sostenitori. Il Fatto Quotidiano, 31 luglio 2014

In un Paese in cui non ci sono soldi, personale, volontà per restaurare quasi nulla di tutto ciò che di importante ci cade quotidianamente sulla testa è incredibile che la Soprintendenza ai beni architettonici di Roma avverta l’improcrastinabile necessità di restaurare il Teatro Valle. Lunedì 28 abbiamo consegnato a Marino Sinibaldi (incaricato, dal Comune, in quanto presidente del Teatro di Roma, di trattare con la Fondazione Valle Bene Comune) una lettera (firmata da Paolo Berdini, Massimo Bray, Paolo Maddalena, Ugo Mattei, Salvatore Settis e da chi scrive) chiedendo di «conoscere esattamente la natura di questi lavori: e cioè la loro entità, lo stadio della loro progettazione, l’identità dei responsabili, la disponibilità dei finanziamenti il calendario con cui si svolgeranno».

Su nessuno di questi punti è arrivata una risposta: ma in compenso è arrivata l’intimazione del Comune ad uscire dal Valle entro oggi. Con le mani in alto, verrebbe da aggiungere. Una resa senza condizioni. Insomma: la tutela del patrimonio culturale subisce l’ennesima onta, quella di venire strumentalizzata per far finire un’esperienza preziosa. E c’è da scommettere che il teatro verrà chiuso, poi si cercheranno i fondi, poi si farà un progetto. E solo tra tre o quattro anni si riparlerà di riaprire il Valle. Se va bene.

Intendiamoci: la disponibilità di Sinibaldi ha finalmente portato nella sorda gestione della vicenda attuata dal Comune di Roma una vera sensibilità culturale e politica. Il documento presentato da Sinibaldi dà atto alla comunità del Valle di una straordinaria vittoria politica: «Il Teatro di Roma opererà affinché sia raccolta e valorizzata l’esperienza culturale di questi anni. Ciò potrà compiersi attraverso un coinvolgimento della Fondazione nelle attività teatrali, nell’ottica della creazione di unmodello di Teatro Partecipato dalle associazioni e dagli artisti attivi nella città di Roma. La Fondazione Teatro Valle Bene Comune potrà inoltre collaborare con proprie proposte ai progetti elaborati dal Teatro di Roma (in particolare il progetto “Teatro dei diritti”), all’ideazione di iniziative volte all’allargamento del pubblico e alla formazione degli artisti e dei lavoratori teatrali». Se il Valle non è diventato un centro commerciale o un teatro privato, insomma, è merito di chi ha occupato: alla faccia di chi per tre anni ha linciato mediaticamente gli occupanti e i loro sostenitori. Soltanto ieri il «Foglio» – intervistando un Dario Franceschini prostrato a tappetino di fronte a Matteo Renzi – ha parlato per l’ennesima volta di «occupazione illegale travestita da operazione culturale». Ecco, il documento del Comune consegna questo tipo di giudizi a un estremismo di destra rabbioso, e senza uno straccio di idea.

E dunque? Perché non accettare che il pretesto dei fantasmatici lavori della Soprintendenza lasci depositare la polvere per qualche anno, per poi lavorare tutti insieme al teatro partecipato immaginato da Sinibaldi? Il perché lo ha spiegato martedì Christian Raimo in uno dei testi più belli e lucidi scritti in questi tre anni: «La lotta degli occupanti e della Fondazione Valle Bene Comune (5600 soci, mica pochi) è stata di due tipi: una battaglia di resistenza e una battaglia di proposta. Quella di resistenza è chiara a tutti – non fate che questo posto venga lasciato al degrado, alla insignificanza, alla privatizzazione, alla disperazione che nutre chiunque oggi abbia deciso di fare cultura in Italia. Ma l’imprudenza che veniva rivendicata è stata anche un’altra: si è voluto pensare, provandolo a praticare prima di tutto e poi stilando dispositivi giuridici ad hoc, un diverso modello di governo della cosa pubblica.

È possibile una gestione senza un cda? È possibile dare cariche turnarie a chi deve amministrare? E, domande ancora più scabrose: è possibile contrastare il governo insensato della Siae? È possibile livellare gli stipendi dei vari lavoratori? È possibile rendere popolari i prezzi dei biglietti? Su questi punti qui non c’è stato riconoscimento ieri. Questi sono i motivi principali per cui il teatro ha continuato a essere occupato in questi tre anni. Il Valle è stato un modello di educazione politica, studiato, promosso, premiato anche all’estero.

“…Questo è il senso di quello striscione che campeggia ora davanti al teatro, ora in platea, ora in galleria, dal giugno del 2011, ‘Com’è triste la prudenza’. La frase è del drammaturgo Rafael Spregelburd, e la sfida era simile: una battaglia di una nuova classe – quella degli artisti, dei lavoratori della cultura – nel trasformare un desiderio artistico in un modo diverso di vedere il mondo. La sensibilità di una narrazione del contemporaneo che si lancia a immaginare nuovi modelli gestionali… Si tratta di capire non cosa accadrà al Valle, ma cosa accadrà a noi”.

Ecco. Non avrei saputo dirlo meglio di così.

L’occupazione del Valle non è solo contro la privatizzazione, ma contro un’amministrazione pubblica che di fatto nega il bene comune e contraddice il progetto della Costituzione.

Com’è triste una sinistra che non ha più voglia di cambiare il mondo, a cosa serve una sinistra che nemmeno sa più che un altro mondo è possibile?

Alessandro Capponi intervista l'assessore Giovanni Caudo sulla spinosa vicenda dello stadio a Tor di Valle. I "paletti" del Comune alla scelta obbligata da una sciagurata legge nazionale. La Repubblica, ed. Roma 13 luglio 2014

«La penso come il presidente dell’associazione dei costruttori: non sono loro i poteri forti». L’assessore all’Urbanistica, Giovanni Caudo, sta parlando di quanto fatto «in un anno per tutti gli operatori del settore, piccoli e grandi, senza guardare in faccia nessuno»: la polemica è ormai quotidiana - con tutto ciò che sta accadendo tra lo stadio della Roma, Parnasi, Caltagirone - e di certo le ultimissime puntate dello scontro racchiudono il curioso record di aver messo d’accordo l’editore del Messaggero e Legambiente, «un miracolo dei tempi moderni» come scritto da Stefano Menichini su Europa, in un editoriale dal titolo perfetto per spiegare ciò che sta accadendo con lo stadio della Roma: «Una partita di potere».

Assessore, buongiorno. Ma quindi farete lo stadio a Tor di Valle così come si legge in questi giorni? Così senza metropolitana e con 220 milioni di compensazioni?
«Due premesse. La prima: qualsiasi proposta è soggetta a modifiche e quindi anche questa. La seconda: io lo chiamerei lo stadio della trasparenza, visto che il dibattito a tratti polemico al quale lei faceva riferimento l’ho voluto io perché tutti i documenti sono nella Casa della Città, un luogo tra Garbatella e Ostiense nel quale tutti i romani possono visionare questo e altri importanti progetti. Tutto aperto ai cittadini, altro segno di discontinuità col passato».

Il progetto, nel merito.
«La proposta ci è stata presentata da un gruppo privato in accordo con la Roma, sulla base di una legge nazionale. Per me si tratta di una proposta semplicistica: oltre i 340 milioni per lo stadio ne metterebbero 50 per le opere infrastrutturali, gli altri 220 andrebbero compensati con edificabilità per uffici...».
Troppi?
«Ragioniamo, il progetto è complesso e vale, euro in più euro in meno, un miliardo. Sia chiaro: io non ho pregiudizi ma l’amministrazione non può ridursi al ruolo di passacarte e nell’operazione dev’esserci spazio per l’utilità pubblica. 220 milioni da compensare sono troppi o pochi? Io in verità, in un momento nel quale a Roma grazie al piano casa molti uffici si stanno trasformando in case, rilancerei: cosa ne sarà di questi uffici una volta completati? Rimarranno vuoti? C’è una capacità di attrarre investimenti e creare nuova occupazione? Sono queste le domande a cui si deve dare una risposta».
Ce ne sarebbe un’altra, prima: la metropolitana...
«La cura del ferro per quella zona non è solamente importante, è fondamentale. Lì ci sono tre stazioni: Tor Di Valle sulla Roma-Lido, Muratella e Magliana sulla tratta del trenino da Fiumicino. In questo senso la loro proposta è carente: propongono di arrivare a Tor Di Valle con la linea B. Evidentemente non basta, perché tutte le tratte, inclusa quella del trenino, devono essere in rete. La nostra condizione è chiara: allo stadio bisogna poter arrivare in metropolitana. Voglio dire che in questa proposta l’interesse della Roma e quello dei privati sono chiari: ma quello pubblico?».
Risponda lei.
«È il sindaco che chiede di realizzare un progetto che metta al centro il riordino dell’area e in cui sia immediatamente percepito l’interesso pubblico che non può esaurirsi nel dare un magnifico stadio alla squadra ma deve incontrare una definizione più chiara dei tanti vantaggi che Roma deve avere. Il nostro interesse è risolvere i problemi che già ci sono in quella zona, le infrastrutture, e mentre il progetto sulla strada va bene - il collegamento tra la Roma-Fiumicino e l’Ostiense-via del mare con lo svincolo che consente di uscire prima e poi entrare in zona Eur - sulla cura del ferro non ci siamo...».

Intanto, con il progetto dello stadio, questa amministrazione ha fatto ritrovare sulle stesse posizioni Legambiente e Francesco Gaetano Caltagirone...
«Anche questo è un esito dell’operazione “Lo stadio della trasparenza”, siamo interessati a raccogliere tutte le opinioni e le osservazioni. Ricordo poi che il 3 agosto dello scorso anno, appena insediati, abbiamo cancellato 23 milioni e 610 mila metri quadrati di aree potenzialmente edificabili ma alla notizia non è stato dato il benché minimo risalto... In più di un anno non abbiamo fatto un atto che cancellasse anche solo un metro quadrato di aree agricole, niente, e invece abbiamo liberato 9.500 ettari di città malamente costruita che saranno rigenerati, e si badi che quello della rigenerazione è l’unico settore dell’investimento edilizio in crescita...».

Poi si lamenta se i costruttori la attaccano...
«Tutti a Roma devono poter lavorare. Ma abbiamo anche fatto in modo che tutti i costruttori dessero seguito agli obblighi firmati sulle convenzioni, in modo da costruire parchi o scuole o strade a seconda dei casi, ed è evidente che il privato ha fin qui sfruttato la disattenzione dell’amministrazione nel passato... Dico di più: una delibera consentiva a Porte di Roma di cambiare cubatura per il 30 per cento del totale, l’abbiamo portata al 18; in questo caso riguardava il costruttore Parnasi, mentre a Grottaperfetta abbiamo difeso le regole anche se scontentavamo i comitati... È necessario far rispettare le regole: per tornare alla richiesta avanzata ai costruttori di dare seguito agli impegni presi, si sappia che abbiamo pezzi di quartieri che non sono nel contratto di servizio Ama, strade mai completate...».


Riferimenti

Sulla legge che "liberalizza" gli stadi 8e i numerosi annessi e connessi) vedi su eddyburg l'articolo di Paolo Baldeschi, La legge sugli stadi in un paese normale

Intervista di Milena Farina all'assessore comunale alla Trasformazione urbana Giovanni Caudo: una persona scomoda per i partigiani della città della rendita. Il Giornale dell'architettura online, 25 aprile 2014

ROMA. Continua il braccio di ferro, soprattutto intorno alle destinazioni d'uso, alle nuove volumetrie e alle modalità di realizzazione della centralità Romanina prevista dal PRG, tra l'assessore alla Trasformazione urbana Giovanni Caudo e i cosiddetti poteri forti rappresentati dagli immobiliaristi della capitale (cfr.www.abitarearoma.net). Cogliamo l'occasione per pubblicare la versione integrale dell'intervista comparsa sul numero 117 (primavera 2014) dell'edizione cartacea del nostro Giornale, attualmente in distribuzione, al neoassessore della giunta Marino dopo oltre 8 mesi dal suo varo. L'intervista, insieme ad altri due articoli, intende inoltre fare il punto sullo stato d'avanzamento delle grandi opere incompiute, sulle politiche avviate in tema di mobilità e sulle varie scelte urbanistiche. Architetto e professore associato di Urbanistica presso l’Università di «Roma Tre», Caudo (Fiumefreddo di Sicilia, 1964) si è interessato in particolare alle questioni abitative nella città contemporanea.

Assessore Caudo, la decisione di cambiare nome all’assessorato è stato uno dei primi segnali del nuovo corso dell’amministrazione. Perché il termine urbanistica vi è sembrato inadeguato?
Il nuovo nome deriva dalla constatazione che siamo passati dall’urbanistica dell’espansione tipica del ‘900 a un nuovo ciclo in cui si ritorna alle origini della disciplina, che alla fine dell’800 si occupava del risanamento della città esistente. La scelta ha quindi un duplice significato, culturale e operativo.

Quali sono le azioni più significative in tal senso, dopo la revoca della Delibera della giunta Alemanno sui nuovi ambiti di riserva nell’agro romano?
La delibera, oltre a evitare un’ulteriore urbanizzazione su 2.365 ettari di agro romano (161 nuove aree edificabili), è il primo segnale della volontà di riportare l’azione all’interno delle previsioni del PRG e in particolare in quelle aree individuate come parte della città da riqualificare, pari a 9.500 ettari: abbiamo avviato 5 PRINT che sono tra gli strumenti previsti dal PRG per intervenire in queste aree; poi c’è l’attenzione alla trasformazione delle aree dismesse o dismettibili, come il patrimonio del demanio e in particolare le caserme del Ministero della Difesa.

Il primo intervento di trasformazione urbana annunciato è la Città della Scienza in via Guido Reni, di fronte al MAXXI. Sarà l’occasione per sperimentare una nuova modalità di gestione delle trasformazioni complesse?
La trasformazione dello stabilimento militare materiali elettrici di precisione è l’operazione più importante avviata sul patrimonio demaniale, che interessa un vero e proprio pezzo di città. Qui abbiamo cercato di determinare una linea di azione per gli interventi di rigenerazione articolata in tre strategie: si rende accessibile l’area, attraverso la costruzione di un’armatura di spazio pubblico che permetta di reinserirla nel tessuto urbano, in continuità con la piazza del MAXXI; s’inseriscono funzioni pubbliche, delle quali la Città della Scienza è l’elemento principale; si favorisce la messa a valore dell’area in modo da produrre le risorse necessarie per sostenere l’intervento pubblico (residenze e funzioni commerciali). Abbiamo appena predisposto la variante urbanistica, che fissa i nuovi parametri e le invarianti dell’intervento pubblico; ora sta partendo la fase di consultazione con la formazione di un’assemblea partecipata degli abitanti, dalla quale usciranno gli elementi che saranno posti a base di un Documento di progettazione preliminare; poi organizzeremo un concorso internazionale per il masterplan di tutta l’area, con 5-6 gruppi selezionati su curricula che parteciperanno a una serie di incontri intermedi per la discussione di temi specifici (spazio pubblico, risparmio energetico, tipologie insediative). Per la città della Scienza si organizzerà anche un concorso di progettazione, una volta messo a punto il progetto scientifico che, oltre alla parte espositiva, prevede laboratori di ricerca e aree per l’innovazione scientifica e culturale.

La strategia della trasformazione sembra molto più complessa da gestire rispetto a quella dell’espansione, poiché ci si scontra con interessi consolidati. Quale sarà il ruolo della partecipazione, visto il dissenso che ormai sembra accompagnare ogni proposta di cambiamento?
Il dialogo con la città si è interrotto negli anni passati e insieme è cresciuta la sfiducia nei confronti dell’amministrazione comunale. Per ricostruire questo rapporto è necessario parlare con trasparenza e costruire momenti di partecipazione, a partire da situazioni concrete. Nel caso di via Guido Reni, stiamo avviando la partecipazione sulla base di una variante urbanistica già approvata, nella quale sono state individuate le quantità necessarie a garantire la sostenibilità economica dell’intervento per i soggetti coinvolti: il demanio dello Stato che vende l’area, l’operatore privato che realizza la valorizzazione immobiliare (Cassa Depositi e Prestiti Investimenti SGR), l’Amministrazione che acquisisce metà dell’area (27.000 mq di SUL) per funzioni pubbliche e il contributo straordinario. Sarà aperto un tavolo con le associazioni, il Municipio e un gruppo tecnico dell’assessorato che potrà esprimere indicazioni sulle funzioni pubbliche più adatte e sulla collocazione delle funzioni private.

Il vostro programma s’inserisce nel PRG, quindi viene confermata l’idea di città policentrica? Intendete rilanciare il tema delle centralità, visto che uno dei limiti del piano è la loro scarsa caratterizzazione funzionale nonché debole capacità aggregativa?
La struttura policentrica del piano è stata in gran parte realizzata già negli anni precedenti, anche se non è percepita dalla città: il 70% delle centralità erano già attuate quando è stato approvato il piano e altre sono state realizzate nel frattempo. Ora stiamo lavorando sulle loro connessioni con il sistema di trasporto pubblico: a dicembre abbiamo approvato in giunta la delibera per la realizzazione della stazione ferroviaria a Ponte di Nona, una delle centralità più discusse per l’assenza di collegamenti con la rete su ferro oltre che per la pessima qualità dell’intervento; tra le centralità da realizzare, a Romanina abbiamo previsto il prolungamento di 2 fermate della metro A e a Massimina si realizzerà una nuova stazione sulla linea FR1. Lavoreremo inoltre in variante al piano per collocare nuove concentrazioni di funzioni intorno alle stazioni delle linee ferroviarie già esistenti all’interno del GRA (Ponte Mammolo, Grotta Rossa, Ipogeo degli Ottavi, Anagnina), che potrebbero avere un effetto di riequilibrio del sistema dei flussi spostando i pesi nella zona intermedia tra la città consolidata e l’esterno. Non si rinuncia a un’ulteriore cura del ferro, ma in attesa delle nuove linee Metropolitane portiamo le funzioni dove il ferro c’è già o è sottoutilizzato.

Quale sarà l’impatto delle compensazioni previste dal PRG? È possibile individuare strumenti per disinnescare questo meccanismo che già ha fatto «atterrare» grosse cubature su Roma?
Per buona parte delle compensazioni erano già state individuate 84 aree di «atterraggio», con un meccanismo, quello dell’equivalenza di valore, che ha trasformato i 4 milioni di mc in 6,4 milioni di mc per via della loro collocazione più periferica. L’Assemblea capitolina ha già approvato negli anni scorsi le delibere relative a 61 aree, che sono dunque già operative, mentre noi stiamo lavorando sulle altre 23. Gli anni non sono passati invano, come si vede. Anche se promuovessimo una moratoria urbanistica, questi atti andrebbero comunque avanti. Stiamo lavorando affinché le nuove collocazioni siano coerenti con il piano ma anche con il nostro programma, ovvero rilocalizzando la cubatura in aree già urbanizzate; seguiremo la stessa logica nella localizzazione degli ulteriori 3,5 milioni di mc che restano da compensare, portandoli in aree più centrali in modo da ridurli. Dunque la nostra azione prevede la chiusura delle compensazioni ancora in itinere e, come obiettivo di fine mandato, la cancellazione dell’articolo del piano che le prevede perché è un principio sbagliato e di difficile gestione.

A proposito di strumenti difficili da gestire, che impatto avrà nei prossimi anni l’attuazione del Piano Casa? Cosa può fare l’amministrazione per evitare che tali interventi sconvolgano gli equilibri di tanti quartieri e rendano superflue le previsioni del PRG?
Dal punto di vista dei principi il Piano Casa non è sbagliato. È sbagliata la Legge Regionale che ha esteso le maglie della normativa oltre l’intervento edilizio arrivando alla dimensione urbanistica. In questo modo invece di semplificare si complica, perché gli interventi che hanno un impatto urbanistico devono passare al vaglio dell’Assemblea capitolina, quindi hanno un iter più complesso. Intanto abbiamo concordato con la Regione di modificare la legge, in particolare il comma 3 dell’articolo 3-ter che è il più devastante in termini di pesi insediativi in quanto prevede nelle aree non edificate una premialità del 10% calcolato sull’intera cubatura prevista da un piano attuativo. Nella nuova proposta di legge regionale questa possibilità viene ridotta. Si poteva fare di più, l’accordo Stato Regioni su cui si fonda il cosiddetto Piano Casa, infatti, non prevede l’applicazione a volumi non esistenti. Così di fatto il Piano Casa si applica anche alla nuova edificazione e non solo all’esistente, è l’unica Regione che consente questa fattispecie.

Attraverso quali strumenti l’amministrazione si sta facendo carico della questione abitativa?
Vista la carenza di risorse pubbliche, ci stiamo muovendo su due binari: limitando il nostro intervento alle situazioni di estrema emergenza ovvero trovando una soluzione abitativa per le famiglie – circa 3.000 – che sono in graduatoria per la casa popolare con il massimo di punteggio; proponendo ai costruttori che oggi hanno il problema dell’invenduto di mettere sul mercato alloggi a prezzi convenzionati, in cambio della riduzione degli oneri. Stiamo infine concludendo le procedure del 2° PEEP che prevede 14 nuovi interventi di edilizia agevolata, per circa 3.000 alloggi.

Che idea avete del centro storico? Il progetto di pedonalizzazione del tridente non rischia di trasformare ulteriormente questa parte di città in una sorta di parco turistico, dal quale i romani si sentono esclusi?
Nel tridente stiamo completando la ripavimentazione delle strade: è una predisposizione alla pedonalizzazione che sarà attuata dopo aver individuato un sistema di parcheggi per attutire i disagi ai residenti e lasciare l’auto fuori dal centro storico. Per contrastare la progressiva commercializzazione, abbiamo messo in campo due interventi strategici: la sistemazione intorno al Mausoleo di Augusto, dove si costruirà una nuova piazza laddove ora c’è uno slargo; il piano di recupero di via Crispi con l’ampliamento della Galleria d’arte moderna. Stiamo inoltre individuando gli immobili sottoutilizzati e dismessi per introdurre nuovi usi pubblici, con destinazioni solitamente escluse dal mercato.

Quali sono le difficoltà nel governare dinamiche metropolitane che vanno oltre i confini della stessa provincia con strumenti limitati alla dimensione territoriale comunale? Che caratteristiche dovrebbe avere l’architettura istituzionale di Roma Capitale?
È necessario aprire un dibattito su questo tema. I finanziamenti per Roma Capitale dovrebbero essere stabiliti con una Legge Speciale in relazione a obiettivi legati al suo ruolo, visto che in ogni caso lo Stato si trova periodicamente a ripianarne i debiti. Noi come assessorato la dimensione metropolitana l’abbiamo già assunta: nella macrostruttura abbiamo costituito un’apposita unità operativa che dialoga su un doppio livello, con i Municipi e con i Comuni contermini, anticipando lagovernance che sarà tipica della città metropolitana.

Come si immagina Roma alla fine del mandato?
La città si sta preparando anche con le scelte urbanistiche a due importanti appuntamenti: il 150° anniversario di Roma Capitale nel 2020 e il Giubileo nel 2025. Traguardando l’orizzonte di medio periodo, m’immagino una città più ordinata che si è riappropriata delle regole come strumento per costruirsi il proprio futuro; una città che guarda alla sua dimensione metropolitana in cui le periferie sono luoghi che si riposizionano rispetto a un nuovo concetto di centralità; una città che ha ricostruito un appeal internazionale oggi completamente perso. Una città in cui le scelte urbanistiche devono essere a sostegno dei percorsi di sviluppo sociale ed economico e non essere fine a se stesse.

(di Milena Farina, edizione online, 15 aprile 2014)

«Dalla modernità post-bellica, che includeva le nuove periferie, alla neoliberista «stagione dei sindaci» (Veltroni e Rutelli), fino all'oggi dei tessuti disgregati in una miscela esplosiva». L'ottava puntata dell'inchiesta sulle città italiane. Il manifesto, 27 marzo 2014

Su Roma, a par­tire dal secondo dopo­guerra, sono state svolte diverse e impor­tanti nar­ra­zioni. La prima, tra il 1943 e il 1955, è quella dei film neo­rea­li­sti di Visconti, Germi, De Sica, De San­tis. Una Roma post-bellica, una città pro­vin­ciale che coin­ci­deva con la sua parte sto­rica ancora non colo­niz­zata dai turi­sti. Qual­che anno dopo, tra il 1950 e il 1960, il genio pro­fe­tico di Paso­lini è riu­scito a rap­pre­sen­tare la grande tra­sfor­ma­zione di que­gli anni: la fine di un mondo con­ta­dino e il dramma del sot­to­pro­le­ta­riato urbano, entrambi in via di can­cel­la­zione dalla sto­ria con l’avvento delle prime mani­fe­sta­zioni di moder­nità. La let­te­ra­tura socio­lo­gica e antro­po­lo­gica poneva intanto la sua atten­zione su quello straor­di­na­rio mondo di immi­grati dal sud e con­ta­dini inur­bati che si accam­pava a ridosso delle mura e che dava vita a ine­dite tipo­lo­gie urba­ni­sti­che: bor­gate, bor­ghetti, barac­ca­menti. Sono da ricor­dare le ana­lisi di Fer­ra­rotti e Macioti, le foto di Pinna, le testi­mo­nianze di vita come quella di don Sar­delli all’Acquedotto Felice, le descri­zioni dei grandi scrit­tori romani «d’origine» come Mora­via o Elsa Morante, quella degli scrit­tori d’adozione come Caproni, Gadda, Gatto, Penna, Bertolucci.

La città, per la prima volta, si esten­deva oltre le sue sto­ri­che mura, inva­deva l’agro, la cam­pa­gna romana; nasce­vano le nuove peri­fe­rie che acco­glie­vano il nuovo ceto impie­ga­ti­zio, soprat­tutto coloro che, in città, lavo­ra­vano nelle aziende muni­ci­pa­liz­zate o nelle fer­ro­vie. Da allora nar­ra­zioni impor­tanti come quelle sopra citate non ce ne sono più state. Quelle peri­fe­rie, allora lon­tane, quasi sco­no­sciute, una volta evo­cate sono entrate a far parte della sto­ria moderna di Roma, le si sono — potremmo dire — «appic­ci­cate addosso» come una pelle: non c’è una Roma antica e una Roma moderna — diceva Paso­lini — ma solo una, antica e moderna con­tem­po­ra­nea­mente. Nelle peri­fe­rie sto­ri­che l’emarginazione, il senso di dise­gua­glianza veniva ela­bo­rato — ricorda Wal­ter Tocci — tra­mite un altrove tem­po­rale, un’utopia di buona società, da rag­giun­gere attra­verso l’emancipazione. In sostanza, le peri­fe­rie sto­ri­che non erano luo­ghi di dispe­ra­zione, di soli­tu­dine, di disin­canto; piut­to­sto luo­ghi cari­chi di spe­ranza, dell’attesa di un riscatto. In esse tro­vava con­senso e faceva pro­se­liti il «vec­chio» Par­tito Comu­ni­sta che tra i suoi obiet­tivi poli­tici com­pren­deva il pro­getto del riscatto di que­sto popolo con­tro il potere e il domi­nio delle grandi fami­glie di pro­prie­tari di ter­reni e immo­bi­liari poi.

La seconda grande trasformazione

Nel 1993 diventa sin­daco Fran­ce­sco Rutelli e dopo di lui, nel 2001 Wal­ter Vel­troni. In que­gli anni, in Ita­lia, si assi­ste al feno­meno chia­mato «rina­sci­mento urbano». Da Roma a Napoli, da Salerno a Cata­nia, si inau­gura la sta­gione dei sin­daci che, eletti diret­ta­mente dai cit­ta­dini, danno vita a ini­zia­tive urbane che fanno nascere la spe­ranza che cam­bia­menti signi­fi­ca­tivi nella vita quo­ti­diana sono pos­si­bili. Roma si appre­sta a pro­get­tare il nuovo piano rego­la­tore che sosti­tuirà quello pre­ce­dente del 1961.

Il quin­di­cen­nio rosso, dal ’93 al 2008, verrà ricor­dato per il ten­ta­tivo di (pre­sunta) moder­niz­za­zione di una città con­si­de­rata in ritardo rispetto ai pro­cessi di rin­no­va­mento avve­nuti in altre città euro­pee ed extraeu­ro­pee (Lon­dra, Bar­cel­lona, Bil­bao, e per­fino Dubai). Ma cos’era real­mente que­sta moder­niz­za­zione così tanto invo­cata e cosa sot­ten­deva que­sta cate­go­ria (ideo­lo­gica) del ritardo? Que­sta idea — la moder­niz­za­zione — si rivela ben pre­sto un com­plice potente dell’ideologia libe­ri­sta poi­ché essa viene ali­men­tata dal dogma della con­cor­renza inter­na­zio­nale, dall’esaltazione della velo­cità, dal mito della deci­sione effi­cace, dal fetic­cio dello svi­luppo, dall’eliminazione di ogni con­flitto rite­nuto un sabo­tag­gio della sta­bi­lità poli­tica. La com­pe­ti­zione eco­no­mica tra le città spinge inol­tre que­ste ultime a «rifarsi il trucco» per ade­guarsi alle regole dell’economia finanziaria.

La cele­bra­zione di Grandi Eventi serve a imbel­let­tare la città come fosse una vetrina, men­tre prende piede e si afferma un modello cul­tu­rale basato sull’individualismo pro­prie­ta­rio, il suc­cesso per­so­nale, la com­pe­ti­zione che fa per­dere valore alla coe­sione sociale e alla respon­sa­bi­lità comu­ni­ta­ria. Tutto quello che non serve alla santa cre­scita (per­sone, cul­ture, tra­di­zioni, virtù) viene but­tato via, diventa spaz­za­tura, ritardo, appunto, per­ché le nuove regole sta­bi­li­scono che gli inve­sti­menti andranno solo dove la tec­no­lo­gia sosti­tui­sce le forme tra­di­zio­nali di vita e la velo­cità annulla le rela­zioni sociali e rende inu­tili i luo­ghi pub­blici. Per altri versi non viene fre­nato il sac­cheg­gio del ter­ri­to­rio ini­ziato molti anni prima e che ora agi­sce attra­verso una mol­ti­pli­ca­zione della ric­chezza immo­bi­liare in una città la cui cre­scita demo­gra­fica si è arre­stata sin dagli anni Set­tanta con due milioni e set­te­cen­to­mila abi­tanti. Le nuove regole libe­ri­ste impon­gono che per moder­niz­zare la città occorre sta­bi­lire accordi con i pri­vati quasi sem­pre con van­tag­gio tutto a favore di que­sti ultimi. La sen­sa­zione è che a que­sta cre­scita di ric­chezza immo­bi­liare fa da con­tro­canto un sem­pre più impo­ve­ri­mento urbano in ter­mini di mar­gi­na­lità, soli­tu­dine, coe­sione sociale, servizi

Nel 2008, anno della scon­fitta cla­mo­rosa del can­di­dato sin­daco Rutelli, esce il libro di Wal­ter Siti, Il con­ta­gio. Un libro che svela, più di qual­siasi ana­lisi poli­tica, il «risen­ti­mento» degli abi­tanti delle peri­fe­rie che da tempo, ave­vano vol­tato le spalle alla sini­stra. Le peri­fe­rie con­si­de­rate un tempo lo zoc­colo duro del par­tito comu­ni­sta, ora si sono tra­sfor­mate in ghetti dove nes­suno si salva. Ma la por­tata della tra­sfor­ma­zione antro­po­lo­gica è ben più vasta di quella che appare. Abban­do­nata ogni ideo­lo­gia, le bor­gate romane si sono ade­guate ai valori bor­ghesi del con­sumo e del pos­sesso dell’ultimo gad­get a ogni costo, ai sogni del suc­cesso, alla dif­fi­denza reci­proca tra per­sone, men­tre la bor­ghe­sia del cen­tro tende sem­pre più a imi­tare que­sti modelli, peri­fe­riz­zan­dosi. L’ipotesi rifor­mi­sta alla base del modello vel­tro­niano — il famoso Modello Roma — non trova alcuna acco­glienza, anzi suscita indif­fe­renza e osti­lità («mai visto un bor­ga­taro rifor­mi­sta» è la bat­tuta che si legge nel libro si Siti).

Una città diseguale

Un dato pre­oc­cu­pante che emerge dalla cro­naca di ogni giorno è la cre­scita della dise­gua­glianza e della povertà. Esse for­mano una miscela esplo­siva insieme alla sot­toi­stru­zione, micro­cri­mi­na­lità, dif­fu­sione di droga, disoc­cu­pa­zione intel­let­tuale, com­merci ille­citi. Sem­pre più la città appare la disca­rica della glo­ba­liz­za­zione che fran­tuma i rap­porti sociali, crea gruppi anta­go­ni­sti, spinge verso l’individualismo pre­da­to­rio. Sono que­sti gli obiet­tivi che la nuova giunta gui­data da Igna­zio Marino dovrebbe met­tere ai primi posti: la lotta con­tro la povertà, le dise­gua­glianze, l’esclusione, l’isolamento per favo­rire la rina­scita di un senso civico, la coe­sione sociale, l’appartenenza, la respon­sa­bi­lità sociale. Credo che que­sto possa essere fatto a par­tire dalla gene­ra­zione dei gio­vani offrendo loro pro­getti e oppor­tu­nità di lavoro per venire incon­tro ai loro biso­gni eco­no­mici ma anche ai loro desi­deri di con­vi­via­lità, di frui­zione cul­tu­rale, di scam­bio di espe­rienze e per arric­chire il capi­tale sociale e cul­tu­rale della nostra città (si veda il pro­getto delle «Case Zanardi» per Bolo­gna). Se non dalla città da dove dovrebbe nascere il rin­no­va­mento auspi­cato? Non sono le città i labo­ra­tori sociali dove si può ela­bo­rare un diverso con­cetto di dif­fe­renze, di cul­tura del limite, di spi­rito civico e di par­te­ci­pa­zione all’uso del tempo e dello spa­zio quo­ti­diano? In una parola, forse è pro­prio a par­tire dalla città che potrebbe essere resti­tuita la spe­ranza di un cam­bia­mento della poli­tica che si pro­pa­ghi all’intero ter­ri­to­rio, all’intero paese.

Fosse la volta buona! Intervista al sindaco Ignazio Marino. «In ritardo di 125 anni, per riportarci al centro del dibattito culturale mondiale». Il manifesto, 22 marzo 2014

Sin­daco Igna­zio Marino, sul pro­getto di demo­li­zione di via dei Fori impe­riali esi­ste già un vostro piano o siamo ancora alla discus­sione preliminare?


Esi­ste già un piano del Comune abba­stanza det­ta­gliato che mira a rea­liz­zare il parco archeo­lo­gico più grande del pia­neta. Un piano che pur­troppo arriva tar­di­va­mente: basti pen­sare che la prima volta che si scrisse una legge per la siste­ma­zione dell’area archeo­lo­gica di Roma è stato nel 1881 con il mini­stro della Pub­blica istru­zione Guido Bac­celli che inse­diò una com­mis­sione col com­pito di siste­mare la zona monu­men­tale della Capi­tale arri­vando infine alla prima legge sulla zona archeo­lo­gica romana, la 4730 del 14 luglio 1887. Quindi con 125 anni di ritardo, e già allora l’area indi­cata era la stessa che indi­chiamo oggi: il Foro romano, i Fori impe­riali, il Colos­seo, il Foro di Augu­sto, parte del Celio, il Circo Mas­simo, le terme di Cara­calla e la via Appia antica.

Ma è pro­prio di que­sto che ha biso­gno Roma?

È un’esigenza, non un’idea biz­zarra: né di Guido Bac­celli, né una mia rei­te­ra­zione. Tutto que­sto si giu­sti­fica per­ché in que­sti luo­ghi è nata la civiltà occi­den­tale. Sotto il bal­cone dell’ufficio del sin­daco c’è la Tri­buna dei Rostri dove è salito Marco Anto­nio per pro­nun­ciare l’orazione fune­bre per Giu­lio Cesare. Accanto c’è la via Sacra, dove i sol­dati che tor­na­vano dalle cam­pa­gne di guerra depo­si­ta­vano gli ori frutto dei sac­cheggi, e sulla quale hanno cam­mi­nato Cice­rone e Ver­cin­ge­to­rige, Cati­lina e Catone. È chiaro insomma che è capi­tato a noi pos­se­dere que­ste aree ma abbiamo la respon­sa­bi­lità e il pri­vi­le­gio di custo­dirle e valo­riz­zarle nell’interesse dell’umanità.

Ai romani, che vedranno scon­volta tutta la via­bi­lità, pro­ba­bil­mente con grosse riper­cus­sioni sul traf­fico cit­ta­dino, cosa ne verrà?

Sulla via­bi­lità io sono molto netto: è vero, se apris­simo alle auto un tratto della Via Sacra cer­ta­mente sca­ri­che­remmo una parte del traf­fico urbano, ma io sono asso­lu­ta­mente con­tra­rio. Non pos­siamo assu­merci la respon­sa­bi­lità di dan­neg­giare un’area già molto dan­neg­giata e saccheggiata.

Ma il parco archeo­lo­gico è anche una straor­di­na­ria e non uti­liz­zata risorsa eco­no­mica. Già da subito, dal 21 aprile pros­simo, abbiamo pro­gram­mato ogni sera tre cicli di spet­ta­coli a paga­mento in sei lin­gue diverse: attra­verso olo­grammi e tec­no­lo­gie lumi­nose rico­strui­remo nell’aspetto ori­gi­na­rio la Roma di Augu­sto di due­mila anni fa e il Tem­pio di Marte Ven­di­ca­tore che venne costruito in 40 anni dall’imperatore Augu­sto a ridosso dei Mer­cati di Tra­iano. È un pro­getto rea­liz­zato non con i soldi del comune ma avremo un ritorno in tre anni del 150% delle risorse investite.

Chi ha inve­stito su que­sto progetto?

Zètema, una società con­trol­lata dal comune con fondi pro­pri. E que­sto è solo l’inizio. Per­ché credo che in nes­sun posto al mondo avreb­bero uti­liz­zato il Colos­seo come una rota­to­ria spar­ti­traf­fico, o lasce­reb­bero al buio e non frui­bili di notte que­ste nostre aree uni­che al mondo. Vogliamo che Roma torni al cen­tro del dibat­tito cul­tu­rale del pia­neta. Ma per con­ti­nuare que­sto pro­getto abbiamo biso­gno che il mini­stero dei Beni cul­tu­rali isti­tui­sca una com­mis­sione per vedere quali dei vin­coli impo­sti nel 2001 dall’allora governo Ber­lu­sconi è pos­si­bile rimuo­vere. Ave­vamo comin­ciato a discu­terne col mini­stro Bray e tre giorni fa ho incon­trato Fran­ce­schini, anche per par­lare dell’accesso ai fondi euro­pei a cui stiamo lavo­rando dall’inizio di febbraio.

Per il Colos­seo, dopo il fal­li­mento della via com­mis­sa­riale, si è dovuti arri­vare al restauro spon­so­riz­zato da Diego Della Valle. Per que­sto pro­getto, c’è l’ipotesi di tro­vare un “club di Mecenate”?

Non è solo un’ipotesi, è un lavoro molto avan­zato con un gruppo di filan­tropi inter­na­zio­nali. Ma la dif­fe­renza con una spon­so­riz­za­zione pri­vata è che noi non vogliamo inne­scare risvolti di tipo com­mer­ciale o pub­bli­ci­ta­rio. Stiamo chie­dendo di inve­stire risorse eco­no­mi­che allo scopo di par­te­ci­pare appunto a un “club di filan­tropi” che senta il biso­gno, l’onore e l’orgoglio di par­te­ci­pare a que­sta opera. E già abbiamo un numero di dona­tori certi o poten­ziali: sin­goli impren­di­tori molto bene­stanti o addi­rit­tura Stati che hanno inte­resse a dimo­strare quanto ci ten­gano a que­sta area archeo­lo­gica sim­bolo della civiltà occidentale.

Eppure, se tra gli esperti di archeo­lo­gia si discute di quale era romana vada ripor­tata alla luce, molti archi­tetti e urba­ni­sti pro­pon­gono un’altra idea di città, con il cen­tro antico di Roma arric­chito e valo­riz­zato da opere moderne, come avviene in altre capi­tali europee.

È un dibat­tito inte­res­sante e impor­tan­tis­simo, e per que­sto ho sol­le­ci­tato Bray e adesso Fran­ce­schini a isti­tuire una com­mis­sione di altis­simo livello. Per­ché non ho l’arroganza di imma­gi­nare che possa essere io o la giunta a deci­dere. Sap­piamo che al di sotto dei Fori impe­riali si potreb­bero ripor­tare alla luce i Fori di Nerva e di Cesare e parte del Foro di Augu­sto. Ma sopra que­sti Fori si è costruito nei quasi due mil­lenni suc­ces­sivi. Non posso essere io a dire quale pro­get­tua­lità e quale visione sia la migliore.

Ma poi, una volta ripor­tata alla luce l’antica Roma, la lasce­remo mar­cire come avviene ora, e non solo nella Capi­tale? D’altronde, sulla manu­ten­zione dei siti archeo­lo­gici e sugli spre­chi di sovrin­ten­denze e com­mis­sari ha già detto tutto la Corte dei conti…
Nella nostra visione, con gli incassi dei biglietti, insieme ai fondi euro­pei e alle dona­zioni filan­tro­pi­che, si può con­tri­buire signi­fi­ca­ti­va­mente alla manu­ten­zione di que­sti luo­ghi unici al mondo. Anche se deve essere garan­tita la pos­si­bi­lità di accesso cul­tu­rale a chi ha meno risorse, come gli stu­denti o gli anziani. Pre­sto avvie­remo ulte­riori pedo­na­liz­za­zioni e posso dire che l’idea è di rea­liz­zare il parco archeo­lo­gico entro la fine di que­sta consigliatura.

Finalmente inizia la realizzazione il progetto della nuova Roma, sognato da Antonio Cederna e avviato dal grande sindaco Luigi Petroselli. Un buon inizio: la rimozione dell'ingombro infrastrutturale con cui l'imperialismo fascista si era impossessato dei pezzi della storia della Roma antica. La Repubblica, ed. Roma, 18 marzo 2014

«UN SUBLIME spazio pubblico», l’aveva definito Benevolo. Un parco archeologico senza macchine che dai Fori abbraccia il Colosseo, il Palatino e il Circo Massimo, il vertice di un cuneo — lo chiamava così Cederna — che da piazza Venezia e poi dalla Passeggiata archeologica arriva all’imbocco dell’Appia Antica e si spinge fino ai Castelli. Caudo procede con prudenza (ne parlerà in un convegno venerdì al Teatro dei Dioscuri organizzato dall’Associazione Bianchi Bandinelli). L’impianto è ambizioso, prevede che l’archeologia entri nel tessuto urbano e non sia solo un oggetto di contemplazione turistica. La fetta di strada da sopprimere è già a traffico limitato e sopporta un passaggio di macchine molto ridotto.

Caudo ha studiato il piano prima da urbanista. E ora da assessore. Non si parte da zero. «Quando mi sono insediato», racconta nel suo ufficio all’Eur, «ho trovato gli studi delle due commissioni che fra il 2004 e il 2006 lavorarono alla sistemazione dell’area. Le conclusioni, però, conducevano alla sopravvivenza della strada d’epoca fascista». Dunque un’ipotesi contraria alla sua, o no? «Le conclusioni, secondo me, erano in contrasto con tutte le analisi condotte dalle stesse commissioni, che invece portavano a ritenere superflua, anche dal punto di vista della mobilità, la via dei Fori imperiali, almeno nel tratto fino all’imbocco di via Cavour. E allora perché conservarla? Non vorrei che la sua permanenza fosse il frutto di un’ostinazione ideologica». Soluzioni di traffico alternative? «Una potrebbe essere rendere a doppio senso via Nazionale». Il piano deve essere condiviso da tutta l’amministrazione Marino, e dalle sovrintendenze, comunale e statale. L’ex ministro Bray si era impegnato a costituire due commissioni, una per rimuovere il vincolo imposto sulla strada nel 2001, un’altra per studiare l’assetto della zona. Ma le commissioni non sono partite. Ora la parola spetta al suo successore, Franceschini.

Caudo squaderna sul suo tavolo una mappa: «Gli studi mostrano che gli assi per accedere ai Fori erano trasversali e scendevano da Monti. Noi abbiamo intenzione di ripristinarne almeno uno entro agosto prossimo, creando un percorso pedonale che parte da via Baccina, nella Suburra, e collega via Alessandrina, attraversa i Fori imperiali, via della Consolazione, arrivando in via San Teodoro e via del Velabro. Il tracciato è previsto dalla commissione del 2006 e offre una prospettiva del tutto diversa da quella, storicamente meno fondata, che, come un cannocchiale, inquadra il Colosseo da piazza Venezia».

L’intesa con le sovrintendenze è indispensabile, insiste Caudo, per completare lo scavo una volta eliminata la strada che lo sovrasta. E anche in previsione di realizzare una maglia di passerelle rimovibili che consentiranno di scendere alla quota archeologica e di osservare dall’alto le strutture antiche.

Il piano di Caudo è a scadenza da definirsi, ma intanto il Campidoglio ha fissato una serie di passaggi in un cronoprogramma. Fra i più importanti figurano, entro giugno prossimo, l’introduzione della ZTL nel triangolo di Monti; successivamente, entro agosto, il senso unico riservato ai soli mezzi pubblici lungo via dei Cerchi (strada iche entro l’agosto 2015 verrà chiusa al traffico) in modo che il Palatino si ricongiunga con il Circo Massimo. Se scompare il tratto di via dei Fori imperiali fino a largo Corrado Ricci, che ne sarà dell’ultimo segmento, quello che giunge al Colosseo? «Resterà», risponde Caudo. «D’altronde sotto quel manto stradale non c’è strato archeologico: lì era la collina della Velia, distrutta per realizzare la via dell’Impero. La nostra intenzione è quella di riportare alla luce il Foro della Pace che è sotto largo Corrado Ricci. Le auto non potranno più spingersi in fondo a via Cavour e dunque il pezzo superstite di via dei Fori imperiali diventerà una passerella integralmente pedonale».

Riferimenti

Numerosi altri articoli e documebti sull'argomenbto, raccolti vel vecchio e nel nuovo archivio di eddyburg, sono raggiungibii scrivendo "progetto Fori" oppure "Vezio De Lucia" nella finestra sensibile in alto, tra la testata e la lente d'ngrandimento. Vedi anche la cartella Appia Antica.

Il centro di Roma è un buco. Un buco nero urbanistico, culturale, politico, sociale. >>>
Il centro di Roma è un buco. Un buco nero urbanistico, culturale, politico, sociale. L'area archeologica più importante al mondo rappresenta una ferita aperta nel cuore della città che continua ad interrogarci da decenni in cerca di risposte.Ridotta ad un suk a cielo aperto senza forma, faticoso e scarsamente leggibile nel suo insieme da turisti e cittadini, spazio irrisolto la cui vocazione culturale irrevocabile, stuprata dalla costruzione dello stradone fascista, via dei Fori Imperiali, nel 1932, continua ad essere contraddetta quasi per inerzia da presenze e attività incongrue e soprattutto da una desolante mancanza di progetto.

Abbandonato in una situazione ibrida dall'ignavia della politica e dall'impotenza della cultura, questo spazio possiede tuttavia una forza intrinseca che ha continuato a reclamare, in tutti questi anni, una soluzione adeguata.ll progetto Fori, l'idea di trasformare l'area centrale in un grandioso parco archeologico che, eliminando via dei Fori Imperiali, ricongiunga il foro romano e i fori imperiali e si saldi al suo naturale ampliamento, l'Appia Antica, riappare così nella storia della città a più riprese. Ma è solo col sindaco Petroselli, che tale progetto, fortemente voluto dall'allora Soprintendente Adriano La Regina riesce ad entrare in una fase operativa. A partire dagli ultimi mesi del 1979, il progetto Fori diventa il perno su cui ridisegnare un'altra idea di città: è quindi, come comprende prima di tutti Antonio Cederna, sostenitore ad oltranza di quell'idea, un progetto urbanistico e culturale, prima che archeologico.Inserire un cuneo di natura e cultura che si allargasse a partire dall'area centrale, significava cercare di ricucire, almeno in parte, il tessuto già fortemente compromesso di una città stravolta da una crescita informe e allo stesso tempo restituire ai cittadini romani uno spazio adeguato per leggere la loro storia.Era, insomma, un modo per riavvicinare al loro passato anche chi abitava nelle più lontane periferie, dandogli l'occasione per godere collettivamente di una bellezza unica. Da questo punto di vista il progetto Fori rappresentava un altro tassello di quella strategia di recupero delle periferie più degradate cui ha ispirato la propria azione politica Luigi Petroselli.

Entrato in una sorta di limbo alla morte improvvisa del sindaco, il progetto Fori ha però continuato a vivere una sorta di esistenza carsica, riapparendo a tratti nel dibattito cittadino anche se sempre più snaturato e sminuito.La strada fascista, ritenuta inamovibile per esigenze di mobilità e poi congelata da un'incredibile vincolo nel 2001, ha nel frattempo perso di importanza nel sistema viario cittadino. Ai lati si è ricominciato a scavare, quasi peggiorando la situazione di incompiutezza dei fori imperiali, a tutt'oggi abbandonati senza una sistemazione che ne permetta una fruizione decorosa e anche solo la leggibilità.

Poi, l'anno scorso, Ignazio Marino, fin dalla campagna elettorale, ha riportato quel progetto al centro del suo programma e, fra i primissimi atti di governo, ha decretato la pedonalizzazione di via dei Fori Imperiali. Da subito si sono levate schiere di detrattori di ogni tipo. Fra le critiche più ricorrenti, quella che, sventolando le cifre del disastroso bilancio capitolino, ridotto alla questua governativa da troppi anni di dissipazioni, bolla il progetto Fori come inutile sperpero di soldi pubblici per quello che viene considerato una sorta di capriccio di intellettuali nostalgici. Che diamine, rispetto alle priorità delle aziende pubbliche sull'orlo del disastro, delle periferie degradate e senza servizi, di una mobilità molto al di sotto dei parametri europei, perchè trastullarsi con l'area centrale?

Perchè quest'area, da troppo tempo esclusa dalla fruizione dei cittadini, non è solo il centro fisico della città. Ne è l'ombelico simbolico: e da lì bisogna ripartire. Ne è l'ombelico storico, lì dove è nata fisicamente una storia che è alla radice di tutta la cultura occidentale ed europea in primis.Perchè riqualificare questa zona a partire dalla sua storia, significa riuscire a determinare un'inversione di tendenza nell'evoluzione urbanistica della città che avrà effetti dirompenti. E significa dimostrare una capacità gestionale, da parte dell'amministrazione pubblica, smarrita da troppo tempo. E infine significa, sul piano culturale, tornare ad avere una visione sistemica di lungo periodo e di altissima innovazione.E questa sfida molteplice, una volta affrontata, non potrà che divenire la chiave di volta per affrontare i mille altri problemi che gravano su questa città.

Certo si tratta di una sfida complicatissima, che ha bisogno di un progetto perfettamente elaborato in molteplici aspetti: economico, urbanistico, trasportistico, archeologico.

Proprio per cominciare questo percorso, almeno sul piano, peraltro fondamentale, della discussione culturale, l'Associazione Bianchi Bandinelli ha organizzato un incontro che si terrà il 21 marzo prossimo a Roma, presso il Teatro dei Dioscuri.Archeologia e città: dal progetto Fori all'Appia Antica, è il titolo del convegno che riproporrà quindi, anche il tema della necessaria, ma finora negata, complementarietà dell'area archeologica centrale con la sua naturale prosecuzione extra moenia, l'Appia Antica. La regina viarum, splendido e sempre più isolato esempio di quanto una gestione pubblica, quella della Soprintendenza Archeologica dello stato, con mezzi risibili, possa contrastare la pressione dell'abusivismo e della speculazione edilizia, regalando a cittadini e turisti spazi pubblici di bellezza incomparabile.

È tempo che si torni ad affrontare questo nodo in modo non estemporaneo, rintuzzando una volta per tutte i gattopardismi di sempre, che puntuali si riaffacciano anche in questi giorni. Si pensi allo scombiccherato progetto che sotto l'etichetta di Grande Programma Europeo Roma Grand Tour (tutte maiuscole, of course) vorrebbe ridurre l'archeologia romana ad un catalogo di una decina di monumenti-bignami, frantumando in una serie di figurine didattiche l'irripetibile complessità di un patrimonio unico.

È tempo di ribadire che il centro di Roma, non può essere un non-luogo, quasi una terra di nessuno, ma deve tornare ad essere, finalmente, quel "sublime spazio pubblico" (Benevolo) che la città e i cittadini aspettano e devono tornare a pretendere.

Qui il programma del convegno "Archeologia e città: dal progetto Fori all'Appia Antica", Roma, 21 marzo 2014

L'articolo è pubblicato contemporaneamente su L'Unità on-line, "nessundorma"

La partita che si gioca a Roma è un episodio del lavorio dei neoliberisti per strozzare progressivamente i possessori dei patrimoni collettivi per privatizzarli e ridurli a strumenti del capitale finanziario. Attivissimi in questa impresa gli esponenti della politica delle "larghe intese", annidati nelle istituzioni e nel nuovo parastato. Il manifesto, 28 febbraio 2014

Strano esor­dio quello del pre­mier Renzi, che, dal pate­tico inse­dia­mento a Pre­si­dente del Con­si­glio, non perde occa­sione per rimar­care il legame che vuole man­te­nere con i ter­ri­tori, riven­di­cando il modello del «sin­daco d’Italia». Strano esor­dio per­ché il primo atto signi­fi­ca­tivo del suo governo è stato il ritiro del decreto «Salva Roma», met­tendo così a rischio l’approvazione del bilan­cio di Roma Capi­tale e facen­dola peri­co­lo­sa­mente avvi­ci­nare al totale default.

Attri­buire tutto que­sto alle forze di oppo­si­zione, che, in quanto tali, non hanno i numeri per far sal­tare alcun­ché, appare deci­sa­mente poco cre­di­bile; e forse le ragioni di quanto sta suc­ce­dendo andreb­bero ricer­cate nel rias­setto degli equi­li­bri interni alle diverse elite politico-finanziarie, che, a diversi livelli, hanno con­tri­buito al rag­giun­gi­mento della pol­trona più ambita (per ora) da parte del ragazzo che non ha l’età.

In realtà, la par­tita che si sta gio­cando sui destini di Roma Capi­tale costi­tui­sce un inte­res­san­tis­simo labora­to­rio del con­flitto che, nei pros­simi mesi, vedrà gli enti locali al cen­tro dello scontro.

Sapien­te­mente spo­gliati nell’arco degli ultimi quin­dici anni da un com­bi­nato dispo­sto di misure for­mato dal patto di sta­bi­lità interno, dalla dra­stica ridu­zione dei tra­sfe­ri­menti era­riali, da vec­chi tagli e più moderne spen­ding review, fino alla costi­tu­zio­na­liz­za­zione del pareg­gio d bilan­cio, gli enti locali sono ora cotti a pun­tino per dive­nire i più effi­cienti ese­cu­tori delle poli­ti­che libe­ri­ste, rese «ine­vi­ta­bili» dalla trap­pola del debito pub­blico e dall’aver assunto come prio­rità indi­scu­ti­bili i vin­coli mone­ta­ri­sti impo­sti dall’Unione Europea.

Gli enti locali sono al cen­tro del con­flitto, in quanto ancora deten­tori di una quan­tità di beni – ter­ri­to­rio, patri­mo­nio immo­bi­liare e ser­vizi pub­blici– valu­ta­bili attorno ai 570 miliardi (stime Deu­tsche Bank del 2011) ed entrati da tempo nel mirino dei grandi capi­tali finan­ziari, alla dispe­rata ricerca di asset sui quali inve­stire l’enorme massa di ric­chezza pri­vata pro­dotta dalle spe­cu­la­zioni finan­zia­rie dell’ultimo decennio.

Non è certo un caso la tra­sfor­ma­zione, in atto negli ultimi anni, di Cassa Depo­siti e Pre­stiti da ente per il soste­gno a tassi age­vo­lati degli inve­sti­menti degli enti locali a SpA mista pubblico-privata che si pone come part­ner finan­zia­rio per il soste­gno alle grandi opere, per la «valo­riz­za­zione» del patri­mo­nio degli enti locali, per l’aggregazione in grandi mul­tiu­ti­lity della gestione dei ser­vizi pub­blici locali.

Se que­sta è la par­tita, appare a dir poco insuf­fi­ciente l’indignazione del sin­daco Marino con rela­tive minacce di dimis­sioni. Ciò che sta per essere pro­gres­si­va­mente dismessa è la fun­zione pub­blica e sociale dell’ente locale in quanto tale, per tra­sfor­marne il ruolo da ero­ga­tore e garante dei ser­vizi per la col­let­ti­vità a faci­li­ta­tore dell’espansione degli inte­ressi finan­ziari e spe­cu­la­tivi su ogni set­tore delle comu­nità territoriali.

Una solu­zione imme­diata per evi­tare oggi il default di Roma Capi­tale verrà sicu­ra­mente tro­vata e avrà, in piena sin­to­nia con il decreto «Salva Roma» appena riti­rato, le mede­sime carat­te­ri­sti­che di dare un po’ di respiro nel breve per ren­dere più strin­gente la catena del ricatto nel medio periodo.

L’idea del sin­daco e della giunta capi­to­lina di poter gover­nare la città non met­tendo in discus­sione alcuno dei vin­coli strut­tu­rali che ne impri­gio­nano la pos­si­bi­lità di azione è desti­nata in breve tempo a rive­larsi per quello che è: nient’altro che una pura illu­sione oggi, desti­nata a dive­nire com­pli­cità domani.

Per que­sto, una solu­zione vera al con­flitto in corso fra Governo e Roma Capi­tale non può venire dalle dina­mi­che isti­tu­zio­nali, bensì solo ed uni­ca­mente da una mobi­li­ta­zione sociale ampia con­tro la trap­pola del debito e per un’indagine popo­lare e indi­pen­dente sullo stesso, con­tro il patto di sta­bi­lità e per la fuo­riu­scita imme­diata dallo stesso di ogni inve­sti­mento rela­tivo alla riap­pro­pria­zione dei beni comuni e alla rea­liz­za­zione del wel­fare locale, con­tro le pri­va­tiz­za­zioni e per una gestione par­te­ci­pa­tiva dei ser­vizi pub­blici locali, con­tro gli inte­ressi finan­ziari e per una nuova finanza pub­blica e sociale.

Si tratta sem­pli­ce­mente di riap­pro­priarsi della democrazia

Perché pagare onerosi affitti alla grande proprietà immobiliare quando esistono edifici già pubblici che si vorrebbero alienare? Il manifesto, 27 novembre 2013

Al sindaco di Roma Ignazio Marino si possono attribuire molte responsabilità per l'opaca e contraddittoria azione di governo fin qui messa in atto, ma almeno un grande merito lo ha conseguito. Poco tempo fa, per la prima volta, ha reso pubblico l'elenco degli affitti passivi che il comune di Roma paga alla grande proprietà edilizia per lo svolgimento delle sue funzioni, e cioè per gli uffici comunali, le scuole e altro. Va dato atto al sindaco di aver compiuto un gesto importante, ed è forse a questo che bisogna ricondurre la forte opposizione che incontra oggi Marino.

Il sindaco ha infatti messo a nudo il dominio incontrastato della grande proprietà immobiliare che sta portando Roma al collasso economico.Scorrendo l'elenco si comprendono bene i motivi per i quali i predecessori non hanno inteso rendere pubblica la sconvolgente tabella: tutti i romani avrebbero potuto constatare che una parte rilevante dei loro soldi, per la precisione 52 milioni di euro, transita dalla casse comunali a quelle della proprietà edilizia. E avrebbero potuto anche verificare che questo enorme flusso di denaro pubblico non viene da qualche recente emergenza. Al contrario, perdura indisturbato da decine di anni. E ciò di fronte alla possibilità di avviare un oculato investimento poliennale per realizzare edifici di proprietà o anche in presenza di un vasto patrimonio pubblico inutilizzato che potrebbe con modesti investimenti essere riutilizzato per ospitare uffici pubblici e diminuire l'esposizione finanziaria.

Ma vediamo nel dettaglio la giostra infernale, fermandoci soltanto ai casi più eclatanti. In testa alla classifica dei beneficiati per numero di immobili si trova l'Ente Eur, noto di recente per la distruzione del Velodromo olimpico e per le gesta dell'ex amministratore delegato Riccardo Mancini, fedelissimo di Alemanno, finito in carcere. Ebbene, l'ente prende dalle tasche dei romani 9,6 milioni di euro per ospitare uffici e una scuola. I contratti di affitto sono molto vecchi, datano per la maggior parte dal 2002 e 2003, gli anni d'oro del «modello Roma» inventato da astuti politicanti: sono dunque almeno dieci anni che ci sveniamo per rimpinguare i bilanci dell'Eur e gli abbiamo trasferito a occhio e croce 90 milioni di euro.

Scandaloso è in particolare l'ammontare di un ultimo contratto d'affitto acceso nel 2013. In tutta Roma e anche all'Eur i valori di affitto sono calati per la crisi immobiliare che attraversiamo. Molti conduttori hanno ricontrattato con i proprietari i valori di locazione strappando diminuzioni. Ebbene, a fronte di affitti a metro quadro anno di 211 e 214 euro stabiliti negli anni 2002 e 2003, nel 2013 il comune di Roma affitta altri 9 mila metri quadrati a un valore medio di 338 euro al metro quadro. Gli affitti calano dunque per tutti meno che per il comune di Roma e non essendoci più organi di controllo - sono gli effetti della nefasta legge del 1993 - si spera ormai soltanto nell'intervento della Corte dei Conti.

15 milioni e seicento mila euro, il primo posto in classifica, vanno a Milano '90 del costruttore Scarpellini. Di questi, oltre 6 milioni vanno per l'esercizio della democrazia, e cioè per le sedi dei gruppi consiliari nell'edificio di via delle Vergini e altri 9 per l'edificio di largo Loria, lungo la Cristoforo Colombo, che ospita in 18.000 metri quadrati autoparco, ragioneria e altro. Il costo unitario di questo affitto stipulato nel 2008 arriva a circa 530 euro al metro quadrato e forse comprende anche l'erogazione di servizi, altrimenti sarebbe incomprensibile.

E veniamo ad altri tre beneficiati. Il primo è il più grande fondo immobiliare italiano, Idea Fimit, di proprietà De Agostini con la partecipazione dell'Inps (un'eredità dell'Inpdap) il cui fondo Alpha affitta sempre in zona Cristoforo Colombo 9.950 mq. per 2,5 milioni anno. Un'altra società immobiliare, Il tiglio, affitta per oltre un milione di euro anno uffici municipali di 3.200 mq. dall'altro lato della città, lungo la via Flaminia. Altre due società, Fresia srl e Valle Giulia srl affittano ben 20.550 mq di uffici a via Ostiense: lì paghiamo oltre 5 milioni per anno. Come si vede, una girandola di localizzazioni che ci costano per i collegamenti tra uffici un fiume di soldi di gestione: ma di questa voce non c'è ovviamente alcun riscontro, va tutto nel grande calderone del debito complessivo.

Con due esempi possiamo invece comprendere la possibilità immediata di voltare pagina e riportare tutte le attività all'interno del grande patrimonio pubblico esistente non utilizzato. Per il canone degli uffici del giudice di Pace di via Teulada, paghiamo circa 2 milioni e 400 euro anno. A duecento metri c'è il bellissimo deposito Atac di piazza Bainsizza abbandonato da anni per tentare una volgare speculazione. Perché non portare lì quegli uffici? Ancora. I depositi del teatro dell'Opera sono stati affittati nientemeno che nella borgata Finocchio a 15 chilometri dall'edificio di piazza Beniamino Gigli. Sparsi per Roma e molto più vicini, ci sono decine di capannoni di vecchie caserme abbandonate: perché non risparmiare soldi ed evitare speculazioni e vendita di quell'immenso patrimonio pubblico?

E infine una perla. La famiglia Pogson Doria Pamphili affitta per 228 mila euro anno i locali per la biblioteca comunale di piazza Grazioli. Siamo ovviamente a favore della diffusione della cultura, ma questo affitto va avanti dal 1988 e ci è pertanto costato almeno 5 milioni, una cifra notevole con cui si potevano costruire almeno cinque nuove biblioteche invece di alimentare la rendita parassitaria.

Un quadro desolante, dunque, a cui va aggiunto quanto si mormora sempre più spesso e cioè che il comune di Roma paghi per l'assistenza alloggiativa dei troppi cittadini che non hanno i mezzi per avere o affittare una casa, più di 40 milioni di euro anno ai soliti gruppi immobiliari formati ad esempio, dicono i bene informati, da Bonifaci, proprietario del Tempo o dalla famiglia Totti. A tal proposito speriamo che il sindaco Marino renda al più presto pubblico anche questo elenco per dovere di chiarezza. Comunque sono circa 100 i milioni che i cittadini romani trasferiscono alla rendita immobiliare.

La sessione di bilancio iniziata lunedì rischia di far concludere prematuramente l'esperienza di Ignazio Marino. Molti sono stati i suoi errori di supponenza e di prospettiva. Vogliamo soltanto ricordare l'ultimo in ordine di tempo: a fronte di una periferia che impiega mediamente due ore per raggiungere il centro, il sindaco ha proposto la realizzazione di tre nuove linee tramviarie che interessano sempre e soltanto il centro pregiato. Uno schiaffo alla periferia che non alimenta il consenso, mentre l'opposizione si avvale di protagonisti convinti come il gruppetto di Marchini e di grandi giornali come il Messaggero. E sta qui, forse, la motivazione più profonda dello scontro di questi giorni. Marino e il suo assessore Caudo stanno tentando con rigore di far prevalere l'idea che non è costruendo altri quartieri in periferia che si salva questa città che ha già troppi alloggi invenduti. Si salva solo se fa fino in fondo i conti con una rendita immobiliare predatrice che sta facendo fallire la città.

52 milionI transitano dalle casse del comune di Roma a quelle della proprietà edilizia. Cui vanno aggiunti i 40 per l'assistenza alloggiativa

«Il disprezzo di chi sta bene verso chi soffre è sintomo di una cieca negazione della violenza della crisi economica e delle incapacità politiche di affrontarla. Ignorare o criminalizzare non servirà a nulla». Il fatto quotidiano, "Blog di Barbara Collevecchio", 31 ottobre 2013

Cos’è un essere umano senza il diritto ad una casa? Psicologicamente è ridotto ad uno zero, senza dignità, senza diritti, senza la possibilità di un riparo, prima fisico, poi psicologico. Come si può buttare per strada ragazze madri, disoccupati, anziani, famiglie? Qui c’è una mappa degli stabili abbandonati di Roma, chi rivendica il diritto ad abitare e a vivere una vita dignitosa è un criminale o è criminale una politica che umilia e rinnega i bisogni primari di un essere umano? Da dove parte questo movimento popolare che chiede le basi minime per vivere da essere umano? Il Coordinamento Cittadino di lotta per la casa è il primo movimento autorganizzato sul diritto alla casa che nasce a Roma.

È dal Dopo il 1996 il Coordinamento lancia la battaglia per il riconoscimento dello “stato di emergenza” nella città di Roma e da quel momento inizia una nuova dura fase di lotta che porta, nel settembre 1999, alla prima ratifica del “Protocollo sull’emergenza abitativa” che a Roma prevede 170 miliardi di vecchie lire per gli acquisti di nuove case popolari e in più i finanziamenti per altri sei progetti di autorecupero ed altri interventi in alcune periferie romane. I tempi di approvazione e di attuazione sono però infiniti e l’emergenza è cresciuta fino ad esplodere. La Conferenza Stato/Regioni/Province/Comuni, convocata dal Governo Letta per il 31 ottobre con l’obiettivo di definire un decreto sulle politiche abitative, ha avuto un prologo decisamente insoddisfacente nell’incontro tra i movimenti sociali e il ministro Maurizio Lupi. La giornata di oggi è stata una “giornata di lotta e determinazione che ha visto riscendere in piazza e consolidarsi come vera opposizione agli occhi del paese tutta quella composizione sociale – con in testa lo spezzone migrante – manifestatasi negli assedi del 19 ottobre e nella presa di Porta Pia“.

Una malattia è fatta da sintomi: reprimere con manganellate la rabbia degli esclusi è cercare di reprimere e rimuovere i sintomi di un malessere, ma, come la psicologia insegna, i sintomi li puoi mettere a tacere ma la malattia e il disagio restano. Più lo stato reprimerà più in chi è senza diritti monterà la rabbia. I moralisti disprezzano chi è depresso, chi è emarginato, dicono che la casa te la devi sudare. Questo disprezzo di chi sta bene verso chi soffre è sintomo di una cieca negazione della violenza della crisi economica e delle incapacità politiche diaffrontarla. Ignorare o criminalizzare non servirà a nulla. Questo è solol’inizio.

Il racconto di un segmento importante della storia del Progetto Fori: come si passò dall'intenzione al progetto. Dal sindaco Marino e dalla sua giunta i primi segnali di una ripresa del cammino interrotto dopo la scomparsa del sindaco Luigi Petroselli. La speranza è che su quella strada si cammini con coerenza. Corriere della sera, 23 ottobre 2013

Trent’anni or sono, era il 1983, il sovrintendente all’archeologia di Roma, Adriano La Regina ed il celebre storico dell’architettura Leonardo Benevolo proposero al nostro studio di preparare una proposta generale dell’area centrale dei Fori. Fu costituito un gruppo formato, oltre che dallo stesso Benevolo e da un suo collaboratore, da Augusto Cagnardi e dai professori Zambrini e Podestà per uno studio urbanistico e dei trasporti che consentisse la completa pedonalizzazione dell’area; dal professor Pizzetti per lo studio del verde e dal professor Campagnoli per la sistemazione delle aree degli scavi archeologici, che concernevano l’area su cui era stata costruita l’assai discutibile via dei Fori Imperiali negli anni Trenta, con la demolizione della collina della Velia, una delle quattro, con il Palatino, il Celio e l’Oppio al centro delle quali si colloca il Colosseo.

L’area presa in considerazione era assai vasta e comprendeva la riorganizzazione dell’area archeologica centrale, quella che nel suo insieme era già stata presa in questione dagli studi della fine del XIX secolo. L’intervento sul Colosseo e la via dei Fori Imperiali era oggetto di uno studio a parte. Per la sistemazione del parco archeologico centrale furono prese in esame diciassette «aree problematiche» che riguardavano i diversi confini con i tessuti storici pontifici, e con alcune sistemazioni dopo che Roma divenne capitale d’Italia. In particolare sull’asse dell’attuale via del Tempio con le sue possibilità archeologiche (basilica Ulpia, Foro di Traiano e Forum Augusti), la ricostruzione della collina della Velia, al di sotto della quale avrebbe potuto trovar posto il museo archeologico.

È probabile che molte delle ipotesi presentate siano state negli ultimi trent’anni superate da nuove soluzioni archeologiche e da decisioni generali del nuovo piano e del sistema dei trasporti ma è importante collocare, dopo trent’anni, il primo indispensabile passo dell’area della pedonalizzazione della via dei Fori Imperiali compiuto dalla nuova amministrazione comunale di Roma nella logica più ampia della sistemazione del parco archeologico centrale anche rispetto ai più ampi obbiettivi individuati trent’anni orsono e che certamente oggi troveranno nuovi ostacoli. Il lavoro della proposta generale di progetto durò circa due anni e nel 1985 fu pubblicato, a cura di Leonardo Benevolo, un volume (De Luca Editore) che riportava l’insieme dei vari studi e progetti ed un secondo volume ne fissava alcune precisazioni di previsioni progettuali. L’introduzione di Adriano La Regina terminava ricordando come gli obiettivi fossero l’allontanamento del traffico e la conseguente possibilità di ricomposizione dei grandi complessi della zona archeologica centrale di Roma, concludendo che «una siffatta interpretazione viene ora elaborata da questo studio e la Soprintendenza Archeologica di Roma ne propone, dopo ogni necessario approfondimento, l’adozione e la concreta attuazione da parte della città e del Governo». Ma la proposta non ebbe mai esito concreto.

È quindi con grande soddisfazione che, a nome dei progettisti ancora viventi, ho accolto la meritoria iniziativa del nuovo sindaco di Roma, che ha deciso di sperimentare la pedonalizzazione della via dei Fori Imperiali. Ovviamente considero questo un primo importante passo verso il necessario approfondimento delle proposte generali che, con tutti gli aggiornamenti utili, ho cercato di riassumere in questa mia breve descrizione che trent’anni or sono il nostro gruppo ha cercato di mettere in campo. Si tratta ora di mettere in atto il nuovo e complessivo progetto per la sistemazione del grandioso patrimonio di tutta l’area centrale della nostra capitale: un compito difficile ma opportuno.

Riferimenti

Vedi anche il recente articolo di Vezio De Lucia, la sua lezione all'edizione 2009 della Scuola di eddyburg. Numerosi altri documenti sul progetto Fori e sulle proposte per il Parco dell'Appia antiva (due progetti urbani tra loroi strettamente connessi) li trovate digitando le parole Progetto Fori e Appia Antica sul cerca della nuova e della vecchia edizione di eddyburg

Intervistato da Federico Gurgone, il soprintendente romano dal 1976 al 2004, analizza anche storicamente il caso di via dei Fori Imperiali. «L'aspirazione a creare una zona monumentale nel cuore di Roma è sempre esistita». Il manifesto, 18 ottobre 2013

La prima giunta di sinistra ottenne il Campidoglio con lo storico dell'arte Giulio Carlo Argan nel 1976 e lo resse fino al 1985, termine del mandato di Ugo Vetere. In mezzo, la breve e intensa esperienza di Luigi Petroselli. Soprattutto con lui, nonostante gli anni di piombo, la Città Eterna parve davvero lanciata verso quella modernità ancora agognata. Il segno programmatico della discontinuità fu la visione audace di una rivoluzione urbanistica. L'idea di un parco archeologico centrale senza eguali, che sacrificando via dei Fori Imperiali collegasse i fori all'Appia Antica, non poteva accontentarsi di restare materia di discussione per soli intellettuali e guadagnò per mesi le prime pagine della stampa internazionale. Tuttavia, l'ambizioso progetto, approvato in sede tecnica e politica nel novembre del 1982, si arenò con la prematura morte del sindaco. Prima però, si ottennero risultati epocali: nel 1980 furono smantellate Via del Foro Romano, che separava il Campidoglio dal Foro Romano, e la trafficata strada che scorreva tra quest'ultimo e il Colosseo, relegato al ruolo di rotatoria.

Protagonista indiscusso di quegli anni fu Adriano La Regina, soprintendente di Roma dal 1976 al 2004. È quindi d'obbligo chiedere lumi all'archeologo, all'epoca accusato di essere un «Nerone dalle manie demolitorie», per lasciarsi alle spalle gli slogan e penetrare nelle reali problematiche sollevate dal manifesto di Marino, il sindaco con cui l'archeologia torna politica per sigillare una cesura. La Regina è oggi presidente dell'Istituto nazionale di archeologia e storia dell'arte, che ha sede a Palazzo Venezia, luogo del nostro incontro.

È soddisfatto dei primi provvedimenti presi da Marino su via dei Fori Imperiali?Ho aderito con convinzione al suo programma partecipando alla manifestazione del 3 agosto. Finora, tuttavia, abbiamo soltanto ascoltato buone intenzioni, nell'ambito delle quali ottimi segnali sono rappresentati da quella che non è nulla più se non una semplice riduzione del traffico, piuttosto che una reale pedonalizzazione. Di per sé, tale provvedimento è comunque utile perché riduce l'inquinamento che, per le emissioni dei motori e le polveri prodotte dal logorio dei pneumatici sull'asfalto, danneggia gravemente i monumenti. Già avevamo avuto piena consapevolezza di questo dramma nel 1978, quando fu per la prima volta verificato e misurato il decadimento delle superfici marmoree dei monumenti romani.

Sono ancora validi i toni apocalittici usati negli anni '70, quando Argan fu assalito dal dilemma «o i monumenti o le automobili»?Considerando che negli ultimi decenni il traffico è aumentato, simili preoccupazioni sono ancora più attuali: pedonalizzare via dei Fori Imperiali è necessario, non solo preferibile. Se i monumenti sembrano meno deturpati da quel nerume grasso che li affliggeva allora, ciò si deve alla sistematica operazione di pulitura e consolidamento finanziata con la cosiddetta Legge Speciale per Roma, la n. 92 del 23 marzo 1981. Quelle misure devono essere però replicate: curare senza eliminare le cause del danno significa accettare la ciclicità del processo. Il nostro progetto, rispetto a quello attuale, aveva un respiro maggiore perché riguardava il recupero integrale delle piazze monumentali antiche allo scopo di restituirle all'uso urbano, politica che ebbe inizio con l'apertura gratuita del Foro Romano al pubblico.
Del resto, teoricamente, non c'è differenza tra Piazza Navona e il Foro Romano. Ovviamente servono controlli e cautele, ma non possiamo dare per scontato che la nostra società sia incivile e che non sia degna di vivere un monumento. Se ragionassimo così, rinunceremmo a inseguire la crescita culturale della comunità.

Dovremmo quindi attualizzare l'antico senza imbalsamarlo, passando dal concetto di monumento a quello di luogo pubblico. In alternativa alla sostanziale continuità urbanistica tra l'epoca napoleonica, sabauda e fascista, il Parco archeologico assume il volto della più rivoluzionaria intuizione urbanistica concepita dalla Roma moderna.L'aspirazione a creare una zona monumentale nel cuore della città è sempre esistita. Le basi teoriche vennero gettate nel Rinascimento, quando Raffaello volle ricostruire con il disegno la città antica per riguadagnarne la conoscenza. Questa volontà diventò concreto impegno politico nel primo ventennio del XIX secolo, nel momento in cui Pio VII iniziò la trasformazione del Campo Vaccino in un'area archeologica unitaria. Solo nel 1980, con l'eliminazione della strada ai piedi del Campidoglio e il collegamento del Colosseo con il Foro Romano, tale programma è stato completato. Il nostro progetto, quello formalizzato nel 1982, non era stato invece mai adombrato, se non in maniera larvale all'inizio del '900 con Corrado Ricci. Non si poteva però pensare, allora, di sbancare lo storico quartiere Alessandrino, costruito a partire dal XVI secolo sui resti dei Fori Imperiali. La possibilità di immaginare un'organizzazione diversa di quello spazio nacque solo constatando che, con le demolizioni di età fascista, lì si è creato un vuoto. Se ciò non fosse accaduto, in seguito a nessuno sarebbe venuto in mente di scavare un intero rione rinascimentale, come nessuno oggi pensa di buttar giù Piazza Navona per tirar fuori lo Stadio di Domiziano.
Tutto cambiò al cospetto di una catastrofe. Nel 1944, a Palestrina, fu distrutto da un bombardamento l'abitato medioevale sovrappostosi al Tempio della Fortuna Primigenia: a quel punto, fu d'obbligo recuperare il santuario. Allo stesso modo, anche a Roma abbiamo assistito alla cancellazione totale di secoli di storia per creare uno stradone anodino diventato presto un'autostrada urbana. A questo punto, siccome al di sotto abbiamo capolavori di Apollodoro di Damasco, i vari fori e il Tempio della Pace, spingiamoci oltre e scaviamo via dei Fori Imperiali. Ne vale la pena.

Pensa sia questo l'obiettivo del sindaco?C'è sicuramente una certa timidezza da parte dell'amministrazione, forse per evitare di riaprire in maniera eclatante dibattiti che, oltre tutto, non possono che essere utili, se l'opinione pubblica viene coinvolta con chiarezza. Un progetto superiore deve esserci necessariamente. Una semplice pedonalizzazione avrebbe una dimensione contenuta anche perché riguarderebbe solo i romani e turisti che, probabilmente, preferirebbero passeggiare nei fori piuttosto che su via dei Fori Imperiali. Il recupero di un nucleo monumentale senza pari al mondo, invece, accenderebbe un interesse universale. Quanto sta succedendo può evolvere in senso positivo, oppure si può arenare nelle secche di un innocuo cabotaggio.

Quale senso avrebbe la strada senza automobili, taxi, autobus? La via non è un monumento in sé. È chiaro che una pedonalizzazione totale porterebbe nella direzione del suo scavo. Se c'è un padre nobile di un simile approccio, il merito va soprattutto all'architetto Leonardo Benevolo: il teorico di una nuova Roma in cui si deve costruire per sottrazione, non per addizione. Tanti e tali i guasti speculativi da cui è stata mortificata, che per restituire alla città decoro urbano e qualità della vita bisogna procedere per eliminazione. Fu Benevolo, considerato da molti un matto, un Nerone peggiore di me, a conferire valore scientifico al nostro progetto, coinvolgendo urbanisti di primo piano e specialisti del traffico.

Una via dei Fori Imperiali non pedonale ha inoltre il difetto di concentrare il traffico sul centro, mentre bisognerebbe de-localizzare Roma per migliorarla. Il dibattito sui fori deve riguardare anche la periferia? Toccare punti nevralgici comporta obbligatoriamente un nuovo disegno della città, globale. Troppi interventi hanno stravolto la periferia romana. Noi avevamo individuato lo strumento cardine della sua protezione nel vincolo dei suoli agricoli, chiedendo invano una legge che li tutelasse. La maggior parte dei terreni urbani sono stati oggetto di manovre speculative per poterli acquistare come suoli agricoli e, in seguito, chiederne la conversione in edificabili: costa molto meno trasformare un campo in un quartiere, che intervenire su un quartiere già esistente. Pensammo che se questi terreni fossero stati tutelati sarebbe stato indotto automaticamente il recupero delle periferie, così come era avvenuto per i centri storici grazie alla legge Ponte del 1967.

Una prospettiva di città, quella degli anni che vanno dal 1976 all'85, alimentata da un coraggio mai più ritrovato. Perché fallì?Se Petroselli non fosse scomparso così improvvisamente, avremmo ottenuto successi maggiori. Non so, tuttavia, se avrebbe avuto la forza di portare a compimento l'intero progetto. Si cristallizzarono subito due posizioni opposte e troppi furono gli interessi in ballo perché la cultura non fosse soverchiata dalla politica. Il dibattito fu ferocissimo, come si può leggere sui quotidiani dell'epoca. E, alla fine, prevalse la Roma democristiana.

Ma lei ancora ci crede?Io sono sicuro che il Parco Archeologico Centrale si farà e che l'asse Fori-Appia andrà ben oltre i limiti del comune di Roma. L'incertezza riguarda soltanto i tempi. L'idea ha una forza di attrazione inarrestabile; il futuro asseconderà naturalmente questa tendenza. Ci piacerebbe però che non fosse troppo in là, che non ci vogliano duecento anni come fu necessario per riportare in vita il Foro Romano.

Non ho visto il film, ma intanto giudico questa una efficace recensione al Grande Raccordo Anulare, maestro di scempi del territorio là dove questo non è governato dalla pianificazione, strumento di una visione olistica, ma dagli interessi e dalle visioni settoriali. Luigi Piccinato definiva gli autori di quel prodotto territoriale “gli ingegneri anali”, certo in riferimento alla azienda di appartenenza. Dinamopress, 30 settembre 2013

Un film? Un documentario? O piuttosto un invito alla rassegnazione urbana?

In un punto che non sono riuscito a riconoscere il Grande Raccordo Anulare taglia, sovrastandola, una sinuosa pista dove scorrono velocissime automobiline telecomandate. Una serpentina di curve che, rincorrendosi, non spezzano il folle ritmo di quei bolidi. Il contrario di quello che avviene sopra. Qui le colonne di auto procedono lentamente in attesa di trovare come “tirarsi giù”da quell’anello di asfalto imposto, nell’immediato dopoguerra, alla città e fuori da ogni logica urbanistica, dall’ allora rinata Associazione nazionale strade (Anas). Un pesantissimo lascito a segnare per sempre il destino urbanistico di Roma e il proprio espandersi a macchia d’olio.

Non è però all’urbanistica, al comporre il disegno della città (almeno non direttamente), che guarda il Sacro GRA, la pellicola di Gianfranco Rosi vincitrice quest’anno del Leone d’oro della Mostra del Cinema di Venezia. Più che a quell’infrastruttura circolare, che accompagna alla semplicità del proprio tracciato la difficoltà di individuare i punti in cui quella strada entra nel tessuto urbano, Rosi sembra piuttosto domandarsi come un anello, che sembra fatto per percorrerlo senza fermarsi mai, abbia saputo farsi “territorio”.

I potenti signori dell’Anas battezzarono il Raccordo come “autostrada urbana”. Di fatto un ossimoro. Come può un largo nastro d’asfalto (l’autostrada) farsi largo nel tessuto compatto di una città costruita nel tempo: prima dentro le mura e, poi, con una marmellata di case, addossate le une alle altre con insufficienti strade (l’urbano, spalmate tra le vie consolari)? Girandogli intorno. Questo è quanto è stato fatto e, anche questo, ha segnato il primato del trasporto automobilistico privato come elemento principale del muoversi in città.

Solo che, a differenza del Grande Raccordo, che nel tempo prima si è saldato e poi si è andato facendo sempre più largo, la città, Roma, ha subito un metabolismo diverso. Fatto, certo, di aberranti forme di ingrassamento, figlie del processo bulimico della rendita, ma soprattutto facendo dell’urbanizzazione, e quindi della costruzione della città, la struttura principale dell’accumulazione capitalistica.

Il Grande Raccordo Anulare misurabile in termini di chilometri è invece immisurabile. In questa parte della metropoli perde (ma lo è mai stato?) il suo essere un elemento dimensionale, un limite (come le mura), un confine (non individua un dentro e un fuori), un essere lontano e un essere vicino in una città in cui la periferia non è mai stata capace di costruirsi come un’alternativa reale al centro storico. E’ un oltre. Un’ “astrazione“ come ci raccontava Renato Nicolini . Un segno artistico “senza nessun collegamento, dove gli snodi in cui le consolari attraversano il GRA non hanno motivo di essere, tranne l’assolutezza del cerchio”. Una “ macchina celibe , forse - ancora Renato - qualcosa di grande forza simbolica- continuazione ideale della cupola di San Pietro, ma anche, del tempietto di San Pietro in Montorio del Bramante”.

Un ritratto esatto. Il GRA poggiando sul territorio dell’oltrecittà, dice molto di più delle storie (delle vite) che incontra, diventa il simbolo di come il capitale finanziario costruisce la città scippando le trasformazioni urbane a chi materialmente le produce e privando chi è condannato a vivere in questo abitare di ogni diritto alla città. Il GRA è il simbolo dell’Oltrecittà, quella parte del proprio territorio dove Roma è diventata metropoli perché lì, ma non solo, è iniziata a pensarsi come luogo dove far coesistere le trasformazioni territoriali e quelle istituzionali.

E’ lì che si sommano gli immobili invenduti perché si vuole ogni cittadino indebitato per il resto della vita, ma anche con questo non avrà casa; è lì che i padroni dei “residence” succhiano soldi (tanti) al Comune per riciclare, in case dalle cento finestre corrispondenti ad altrettanti monolocali, le tante famiglie buttate sulla strada magari da quelle stesse case fonte dell’indebitamento; è lì che si costruiscono i recinti “ sicuri” in cui ci si accorge che si ha paura ad abitare in schiere edilizie circondati dall’isolamento sociale, è lì che si costruisce il disprezzo per le “periferie”, per chi le abita, per chi le attraversa; è lì che si torna elezione dopo elezione per dire che finalmente è pronto qualcuno a rappresentarti. E’ in questo magma che il film si cala, costruendo non una storia, ma sommandone alcune.

Solo che, tutte, sembrano avere in comune una sorta di rassegnazione. Lo è quella della ragazza, che vive con il padre in un monolocale, che aspetta che qualcosa accada; lo è quella di chi, sempre nel medesimo residence, rimpiange la casetta del campeggio dove era stata ospitata; lo è quella del sedicente convintissimo principe che affitta per location di set per fotoromanzi (esistono ancora?) una residenza costruita intorno una vasca da bagno dorata, lo è quella della ragazza che balla sul bancone di un bar (attenta a non sbattere la testa su una trave che, anche con le riprese fatte dall’esterno e la sapiente colorazione di Luca Bigazzi, riporta quel locale più che al “Nightawks” di Hopper alla trascuratezza costruttiva di un ingegneraccio romano) decisa a fare a meno del “rossetto rosso che la fa tanto troia”; lo è il pescatore di anguille che sta lì in una casa sul fiume come “mio padre e mio nonno” che ci fa capire, sbeffeggiando il “sapere” di chi si occupa delle sue stesse cose aggravato dal fatto di trovarselo scritto su di un giornale, il senso vero del film: andare a vedere chi ha rinunciato all’abitudine delle relazioni.

L’oltrecittà è metropoli, il luogo dove è più alta la forma di resistenza alla privazione del plusvalore prodotto dall’attività del comune. Nel cerchio del GRA di Rosi non c’è traccia . Ad accorgersene a suo modo è il cacciatore del “punteruolo rosso” che ha capito che per salvare le palme deve riuscire ad ascoltarle. C’è bisogno di ascolto. Lui lo fa con violenza forte della sua “missione”. L’unico a provarci è forse il barelliere con la sua giornata in cui, non per mestiere, mette in pratica esercizi di cura verso gli altri: asciuga le mani dell’anziana mamma preda ad una forma di perdita senile di memoria, le tira fuori i gorgoglii di quand’era bambina, fa lo stesso, aiutandosi con garze e fazzolettini, togliendo il sangue dal volto verso chi raccoglie dopo un incidente, ma non trova nessuno che mostri attenzione a lui. Così per avere compagnia mangia parlando con una ragazza pescata in un collegamento Skype con il computer infilato tra piatto e bicchiere.

Tutti i protagonisti del film, personaggi reali, che sullo schermo interpretano se stessi e le loro storie di ordinaria rinuncia, sembrano riciclare intorno quell’anello un abitare che non hanno mai avuto. Che sono decisi a rinunciare ad avere. Costretti a scegliere (ed accettare?), come sono: se in quei pochi metri quadri mettere un tavolo o un letto o, quando c’è la necessità di tutti e due, optare per la soluzione del letto a castello; a ricevere dalla città quale esclusivo elemento di spettacolo solo traffico; a stupirsi di vedere un segno urbano (ringraziare?) che “comunque il cupolone si vede anche da qui; ad assicurare ( quindi tutto funziona ?) che quella strada gira e rigira, ma trova sempre, se hai un incidente, come portarti all’Ospedale; che affittando stanze puoi tirar su i soldi e continuare a compiacerti della pergamena che elenca i tuoi “titoli”; che da solo puoi, non tanto salvare una palma, ma far valere le “tue ragioni” che tu si che….; che puoi continuare a vendere il tuo corpo con la libertà di scegliere di farlo a casa tua e, quindi, alzare il prezzo; di parlare di vini e di viaggi che non hai mai fatto, ma che devono essere certo descritti in qualche libro che forse hai letto…..

Percorrendo l’Oltrecittà solo pochi anni prima (il progetto ancora continua) gli Stalker (gruppo interdisciplinare di esplorazioni urbane) hanno saputo trovare e riportare sulla scena urbana altre storie. Persone e comunità resistenti, conflitti e progetti di trasformazione, saperi e lavori , affetti, lotte e sogni. Sempre, girando a piedi intorno lo stesso anello, ovunque incontrando in tutti (e fornendo a chi li ha accompagnati in questi anni di viaggio) la consapevolezza di essere lì dove viene rivendicato il diritto alla città.

L’occhio di Rosi pare non volersene accorgere preferendo sezionare la vita degli “altri” quasi con intento divulgativo. E’ casuale che faccia parte del gruppo di produzione il medesimo produttore (Marco Visalberghi) che da sempre segue le incursioni televisive di Piero Angela?

Solo qualche mese fa lo Gianfranco Rosi ci ha consegnato una preziosa “anteprima”; una sorta di “prologo”al suo lavoro, in cui Renato Nicolini ripreso in un viaggio sul GRA in un camper, ci raccontava una Roma diversa, perché sapeva che a quell’anello comunque erano aggrappati, o sfiorava, tanti “ futuri possibili”. Gianfranco Rosi, con straordinarietà, è riuscito in quell’occasione a farsi complice di Renato nel farci capire che il futuro a cui lui faceva riferimento era quello anteriore: il tempo in cui pensiamo all’oggetto del nostro interesse come realizzato anche se ancora ciò non è avvenuto. Renato sapeva che il dominio del capitale finanziario ci avrebbe stretto intorno questa città, ma che saremo stati capaci ( avremo lottato) per liberarsene.

Non ho “individuato” il posto dove il GRA seziona le piste de minibolidi, ma ho ben riconosciuto, per averla progettata qualche anno fa, una piazza ritagliata all’interno di una zona di edilizia popolare. Lasciata alla più completa assenza di ogni forma di manutenzione è oggi quasi una miniforesta. Vedendo che non ci sono però elementi di degrado o di rottura delle sedute o delle pavimentazioni mi pare di capire che chi quella piazza usa, anche lasciando crescere il verde, non ha rinunciato a far morire uno spazio di libertà dal cemento. Intorno al GRA nell’oltrecittà il viaggio continua.

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