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Pubblichiamo l'intervento di Paola Bonora al convegno "Fino alla fine del suolo. La nuova disciplina regionale sulla tutela e l’uso del territorio" tenutosi a Bologna, presso la Regione Emilia-Romagna, il 3 febbraio 2017. 5 febbraio 2017 (p.d.)

Non voglio in questa occasione discutere la tesi ecologista (il suolo come sostrato del vivente) o quella storicista (il patrimonio comune da tutelare e conservare), che pure reputo essenziali e a cui va la mia adesione morale prima ancora che culturale, intendo fermare l’attenzione sulle logiche di organizzazione dello spazio che la bozza di legge urbanistica della regione Emilia-Romagna presuppone.
L’avanzata del cemento e dell’asfalto si è scontrata con se stessa. L’eccesso produttivo e di costruito rimasto inutilizzato hanno fatto esplodere la bolla, saltare il mercato, diminuire di un terzo i valori immobiliari e aperto la crisi da cui non riusciamo a emergere. Un percorso di tale fallimentare evidenza che nessuno può più negarlo, non a caso tutti, costruttori in prima fila, si dichiarano ora concordi sulla necessità di limitare il consumo di suolo. Quando però si ragiona sui metodi per raggiungere questo traguardo le opinioni divergono a tal punto che sorgono dubbi persino sulla reale condivisione dell’obiettivo primario della limitazione. La bozza che pure lo dichiara principio di fondo assieme alla rigenerazione, introduce una tale congerie di esclusioni, deroghe, eccezioni da rendere vano l’aver fissato la soglia massima del 3%.
Il nocciolo del problema sta allora non tanto nel soppesare le retoriche adottate e stabilire chi mente di più in questo monòpoli dalle condizioni mutate, ma capire quale sia il contesto entro cui le nuove regole si troveranno ad agire e quali i ruoli e gli obiettivi dei giocatori. Che gli immobiliaristi vogliano far ripartire al più presto la partita è naturale e connaturato al loro negozio. Meno che l’istituzione si faccia paladina di questa parte in maniera privilegiata, ne promuova acriticamente gli investimenti e sottostimi gli interessi pubblici che stanno alla radice della sua rappresentanza. Interessi che, per quanto attiene il versante economico, potrebbero essere almeno in parte compensati da un maggiore equilibrio decisionale e fiscale tra i soggetti in campo, che preveda anche oneri non solamente premi e incentivi; in sostanza una più giusta ripartizione delle plusvalenze generate dalle trasformazioni urbane tra privati investitori e città pubblica. E mantenga a se’ la prerogativa della decisione e della razionalizzazione (se non la vogliono più chiamare pianificazione che fa troppo statalismo d’antan). Facoltà e compiti che si condensano nella potestà di governo, che non può discendere dalle volontà private di investimento, o comunque non solo o non prioritariamente da quelle. E si ponga anzi l’obiettivo di contenere le ingordigie del mercato che se lasciato libero di agire produce crisi devastanti come quella che stiamo patendo.
Peccato che ai comuni, esautorati di ogni potere di piano, sia concesso come unico strumento la negoziazione, che diventa la sede delle scelte urbanistiche su iniziativa unilaterale degli investitori. Con esiti che, nonostante i benauguranti auspici di “valorizzazione della capacità negoziale” espressi nel primo articolo, temibilmente metteranno in evidenza la debolezza degli enti minori nei confronti di apparati ben attrezzati - organizzativi, tecnici, di voice... - dei poteri economici con cui dovranno confrontarsi. Una battaglia decisamente impari, Davide e Golia ma senza la fionda – anche quando associati in Unioni, temo, come le previsioni urbanistiche pregresse (quelle che bisognava “far rientrare nel tubetto”) sono lì a mostrare. Chine invece agli step di partenza per scattare non appena la legge sarà approvata per fruire della liberatoria dei primi 3 anni; che ora sembrano diventati addirittura 5, chissà quanti diventeranno prima che si applichi il famoso 3%. Ma mi chiedo: siamo certi che ci sia domanda? Oppure costruiremo altri edifici destinati all’inutilità e a deprimere ulteriormente il mercato?
L’altro principio su cui la bozza si basa, la rigenerazione, è un lemma che nel linguaggio politico-urbanistico odierno è talmente abusato da aver perso significato preciso, è diventato il contenitore di tutto come del suo contrario. Anch’esso tuttavia, proprio nella sua insistente ricorsività, svela un progetto. I costruttori sono da tempo consapevoli della necessità di cambiare campo di investimento, che quello vecchio dell’espansione nelle aree agricole ha esaurito il proprio appeal e, fattisi accesi sostenitori del riuso, chiedono di rientrare nei nuclei storici, in aree degradate ma centrali da demolire e ricostruire. Operazioni che chiedono all’istituzione di sostenere sottolineando l’onerosità della prima parte del processo - acquisizione e bonifica - mentre dimenticano di segnalare le fruttuose implicazioni della seconda, ossia la forte rivalutazione che scaturisce da interventi di riqualificazione e intensificazione di aree centrali e semicentrali.
La “rigenerazione” rappresenta insomma il core business degli anni futuri. Una svolta che implica l’accorciamento del ciclo edilizio, destinata ad incidere sul piano urbano e territoriale ma che è prima di tutto una svolta culturale. Il bene durevole per eccellenza, che non a caso definiamo e distinguiamo come immobile, entra nel gioco dello spreco consumistico e diventa labile, deperibile, riproducibile. Una sorte che è già capitata ai valori immobiliari, un tempo assunti a garanzia di investimento di lungo periodo e sicura rivalutazione che invece hanno mostrato la stessa volatilità dei prodotti finanziari di cui erano stampella. Una serie di antichi miti sono caduti, ora sta crollando anche quello della durevolezza dei manufatti.
Un cambiamento che sottende inoltre il passaggio dalla rendita marginale, avvantaggiata nei decenni della fuga dalla città e dello sprawl, a quella posizionale, di rivalutazione della centralità allocativa. Una riconfigurazione del modello di organizzazione spaziale dalle conseguenze importanti sia sotto il profilo territoriale che economico e sociale, da cui potranno derivare intense modifiche degli assetti attuali. Evoluzioni e scenari di cui l’istituzione è opportuno sia ben consapevole, le sue politiche svolgono infatti un ruolo performativo determinante.
Sullo scacchiere immobiliare si gioca insomma il destino delle città nei prossimi anni, coinvolte in un intenso processo di “riconversione” (introduco volutamente questo termine di taglio industriale che mi sembra più schietto) di abbattimento e ricostruzione - o comunque, come indica la legge, di densificazione, senza rispetto per distanze, altezze, dotazioni, vecchi orpelli di un’urbanistica garantista demodé. Che cambierà la fisionomia e le modalità di utilizzazione di aree centrali, o potenzialmente tali, ora degradate o anche solo sdrucite. Ci si dovrà intendere sul concetto di degrado, se non vogliamo trovarci i picconatori sotto casa. Torna insomma il piccone risanatore, nelle vesti gioiose e politicamente illuminate della rigenerazione.
Che alcune aree, quelle dell’urbanizzazione frettolosa e caotica dell’immediato dopoguerra, meritino riconversione è innegabile. Si aprirà in ogni modo il problema degli abitanti, spesso soggetti sociali disagiati, anziani, stranieri. Una questione che vedrà necessariamente coinvolte le periferie ai margini dell’urbanizzato, nel fatidico 3% di suolo consumabile (ma in realtà credo prevalentemente in forma di edilizia convenzionata “di pubblica utilità” e dunque esclusa da questo computo), in cui dovranno sorgere nuovi edifici costruiti all’uopo con contributo quantomeno esentivo e premiale pubblico, per ospitare le popolazioni espulse dalle zone gentrificate, diventate troppo onerose.
La dinamica è lineare: riconverto zone centrali demolendo e ricostruendo, in più costruisco in periferia su terreni vergini sotto l’ombrello dell’interesse pubblico, accorcio in questo modo il ciclo di vita dei manufatti e introduco l’idea della loro precarietà così mi garantisco un mercato imperituro. Un dispositivo perfetto. Attenzione alle ruspe!
Ma salvo le aree edificate negli anni ’40-’50, il resto del patrimonio edilizio (quello emiliano in particolare) è di buona qualità, ed è tuttavia responsabile del dispendio energetico, causa principale di inquinamento e sperperi. Si preferisce però enfatizzare la costruzione ex novo di pochi edifici smart, a minimo impatto ambientale e classe energetica massima, il cui contributo al bilancio ecosistemico complessivo è irrisorio, mentre resta indifferenza nei confronti della dispersione, dello spreco e del carico ambientale di tutto il resto della città.
La città energivora dovrebbe invece diventare il principale bersaglio delle politiche urbane, favorendo il restauro, l’ efficienza energetica e la sicurezza antisimica, anche attraverso misure fiscali che invoglino i piccoli proprietari degli immobili a impegnare il tanto risparmio accumulato anziché occultarlo in banche traballanti e partecipazioni azionarie truffaldine.
Alle istituzioni poi spetta il compito di garantire sistemi di seria certificazione in grado di capitalizzare gli investimenti in riqualificazioni dei valori. Un indirizzo, questo, che le grandi imprese – il cui processo produttivo è impostato su operazioni di ampia scala – non riescono neppure a concepire, troppo distante dalla loro mentalità e modalità organizzativa. Rinunciano in questo modo a innescare un circuito di salvataggio e rivitalizzazione delle tante piccole e medie imprese della loro filiera, quelle stesse che la crisi ha falcidiato producendo molta disoccupazione.
Un ruolo di orientamento verso la ecosostenibilità e la creazione di posti di lavoro che dovrebbe appartenere alle politiche delle istituzioni, nazionali e locali, le quali invece preferiscono favorire grandi operazioni finanziario-immobiliari spesso fallimentari e generatrici di corruzione.
L’Emilia-Romagna ha cambiato pelle. Una metamorfosi che la vede in prima linea nella promozione della rendita. Che male c’è, qualcuno potrebbe obiettare, se da questi incrementi derivassero vantaggi universali e maggiore cura della città pubblica. Così purtroppo non è, la corsa iperliberista degli anni scorsi è culminata in una crisi di proporzioni enormi, non è realistico pensare che se ne possa uscire ricalcando le stesse modalità. E poiché credo fermamente nel ruolo delle istituzioni nel modellare il futuro (com’era stato nel nostro glorioso passato), spero che ci si prenda il tempo per immaginare le conseguenze di ciò che si sta per varare.

Potete scaricare qui il testo dal titolo "La città pubblica tradita", scritto da Paola Bonora ed apparso su “il Mulino”, 6/2016, pp. 958-966.

Finalmente, dopo la sezione Emiliana di Italia Nostra ed l'associazione eddyburg una voce nazionale contro la nuova urbanistica emiliana, cavallo di Troia per un ulteriore peggioramento in tutta la penisola. Aspettiamo INU, WWF, Legambiente, LIPU, Forum difesa del paesaggio....

Il Consiglio nazionale di Italia Nostra chiede di bloccare la nuova Legge Urbanistica che la regione Emilia Romagna sta per approvare:

“Il testo presentato tradisce i due principali obiettivi che hanno ispirato la nuova legge, ovvero il contenimento del consumo di suolo e la rigenerazione delle città”. Italia Nostra Emilia Romagna, con l’architetto Pier Luigi Cervellati, Paola Bonora – Università di Bologna, Ezio Righi – responsabile Urbanistica del consiglio regionale Emilia Romagna e i due consiglieri nazionali, Ilaria Agostini e Giovanni Losavio, hanno posto l’accento sulla pericolosità di una legge che esalta il privatismo e il liberismo immobiliare, nega la potestà comunale a pianificare e aumenta, anziché frenarlo, il consumo di territorio.

Il vantato limite del 3% posto all’ulteriore consumo di suolo è già in sé molto elevato: le città di Ferrara, Modena, Parma, Ravenna, Reggio Emilia, ad esempio, si amplierebbero di circa due chilometri quadrati ciascuna. Inoltre, con tutte le eccezioni disposte nelle sue maglie, l’effettiva trasformazione di campagna coltivata in aree urbane, complessi industriali o grandi infrastrutture, che non sono computate nel consumo di suolo, potrà facilmente raddoppiare o triplicare il già eccessivo contingente del 3% di suolo ritenuto urbanizzabile.

Le norme nazionali in materia di densità, altezze, distanze sono rese liberamente derogabili, e la dotazione di verde e servizi, che oggi per la residenza deve essere di almeno trenta metri quadrati per abitante, è azzerata; addirittura possono essere omessi i parcheggi pubblici.

Alla tutela e riqualificazione dei centri storici e del patrimonio edilizio di interesse culturale non è dedicato neppure un articolo, ma solo qualche riga in quello sul territorio urbanizzato.

Scompaiono gli obblighi in materia di edilizia residenziale sociale disposti dalla legge regionale in vigore, che impone a tale scopo la cessione gratuita di un quinto delle nuove aree edificabili per residenza, e sulle altre destinazioni un robusto contributo finanziario.

La proposta di legge vieta poi perentoriamente ai comuni di stabilire la capacità edificatoria e dettagliare i parametri urbanistici ed edilizi degli interventi ammissibili nelle aree urbane da riqualificare e rigenerare, e pertanto di valutarne sistematicamente la sostenibilità nel territorio urbano. Apparentemente svincolati dall’obbligo di pianificare le trasformazioni intensive del loro territorio, i comuni sono in realtà esautorati da ogni potere cogente e asserviti all’iniziativa e alle scelte incontrollabili dei più forti interessi privati immobiliari. Un sovvertimento totale delle politiche urbane e territoriali molto grave che potrebbe costituire un precedente pericoloso: qualora approvata, infatti, questa legge – anche a causa dell’autorità riconosciuta per decenni all’Emilia Romagna nell’ambito urbanistico – potrebbe costituire l’apripista a nuove normative regionali dello stesso conio inaugurando, dunque, una nuova stagione di “mala urbanistica”.

In occasione della giornata di studio "Fino alla fine del suolo, La nuova disciplina regionale sulla tutela e l’uso del territorio", indetta dai gruppi consiliari del Movimento 5 Stelle e de L'Altra ER" l'associazione di promozione sociale eddyburg . ribadisce le sue posizioni sulla devastante proposta. Riferimenti in calce


Per molti urbanisti italiani l’esperienza dell’Emilia Romagna, anche prima dell’attuazione dell’ordinamento regionale, ha rappresentato un modello fertile e virtuoso, e senza confronti nel nostro Paese, di buona pianificazione urbanistica e territoriale. Basti ricordare la prestigiosa Consulta urbanistica regionale che contribuì in modo determinante alla formazione del decreto ministeriale sugli standard del 1968. In anni più recenti, in attuazione della cosiddetta legge Galasso, la regione Emilia Romagna (assessore Felicia Bottino) si è dotata di un esemplare piano paesistico che ha tutelato con rigore le risorse storiche e ambientali della regione. Anche i comuni sono stati protagonisti di buone pratiche: in primis Bologna – in particolare al tempo degli assessori Giuseppe Campos Venuti e Pierluigi Cervellati – , ma anche Modena, Reggio Emilia e altre realtà locali che sono state a lungo un riferimento obbligatorio della cultura urbanistica, non solo italiana.

Ma a partire dagli anni Ottanta del Novecento, il primato dell’Emilia Romagna è andato progressivamente in crisi: gli strumenti urbanistici dell’ultima generazione hanno ceduto alla filosofia della globalizzazione, del privatismo, della contrattazione. È stata anche cancellata la tutela integrale dei centri storici che da Bologna era stata esportata in tutto il mondo.

Ed eccoci all’ultimo progetto di legge regionale sulla tutela e l’uso del territorio che compie un irresponsabile svolta deregolativa che, di fatto, delegittima la stessa disciplina urbanistica. Il progetto di legge, che nelle prossime settimane dovrebbe essere approvato dalla Giunta regionale, prevede una strumentazione urbanistica comunale articolata in: piano urbanistico generale (Pug) e accordi operativi. Spetterebbe al Pug stabilire “la disciplina di competenza comunale sull’uso e la trasformazione del territorio” (art. 29, c. 1, lettera a). Ma come? La novità dirompente è che “il Pug “non può [corsivo nostro] stabilire/definire la capacità edificatoria, anche potenziale, delle aree del territorio urbanizzato e di quelle di nuova urbanizzazione, né dettagliare gli altri parametri urbanistici ed edilizi degli interventi ammissibili, con la sola eccezione degli interventi attuabili per intervento diretto” (art. 32, c. 4 e art. 37, c.1).

Quindi, ed è bene sottolinearlo, secondo il progetto di legge alla “disciplina di competenza comunale sull’uso e la trasformazione del territorio” è addirittura inibito di “stabilire la capacità edificatoria, anche potenziale, delle aree del territorio urbanizzato e di quello urbanizzabile, né dettagliare gli altri parametri urbanistici ed edilizi degli interventi ammissibili”.

Com’è possibile? A chi spetta allora, se non al piano urbanistico comunale, di definire la capacità edificatoria e i parametri urbanistici? La risposta sta nel testo di legge: spetta agli accordi operativi derivanti dalla negoziazione fra l’amministrazione comunale e gli operatori privati che abbiano presentato al comune un’apposita proposta (art. 37, c. 3), da approvare in 60 giorni: in tempi evidentemente proibitivi per i comuni! E siffatti accordi “sostituiscono ogni piano urbanistico operativo e attuativo, comunque denominato” (art. 29, c. 1, lettera b). La conseguenza è un piano urbanistico comunale privo di contenuti dimensionali e localizzativi: in pratica, non si saprà quante saranno e dove saranno ubicate le nuove residenze, le attività produttive, le attrezzature e i servizi.

Un altro contenuto inaccettabile della nuova legge urbanistica è quello relativo al contenimento del consumo del suolo. Il testo di legge statuisce che ogni comune potrà prevedere un consumo di suolo pari al 3% del territorio urbanizzato. Quest’espansione è destinata a opere d’interesse pubblico e a insediamenti strategici “volti ad aumentare l’attrattività e la competitività del territorio” (art. 5, c. 2). Non sono consentite nuove edificazioni residenziali, a meno che non siano destinate ad attivare interventi di rigenerazione del territorio urbanizzato e per interventi di edilizia residenziale sociale (art. 5 c. 3).

Non sono invece computati ai fini del calcolo del 3%: i suoli per opere d’interesse pubblico per le quali non sussistano ragionevoli alternative; gli ampliamenti di attività produttive; i nuovi insediamenti produttivi d’interesse strategico regionale; nonché gli interventi previsti dai piani urbanistici previgenti autorizzati entro tre anni dall’approvazione della nuova legge (art. 6, c. 5). Si mettono così al sicuro i cosiddetti diritti acquisiti, ed è stato calcolato che, alla fine, tenendo conto anche delle discutibili modalità di individuazione della superficie urbanizzata, il consumo di suolo consentito sarà di gran lunga superiore, fino al doppio o al triplo, del previsto 3% della superficie urbanizzata. Come nei piani urbanistici degli anni della grande espansione.

Trascuriamo altri contenuti del progetto di legge – in particolare quelli relativi al possibile ridimensionamento degli standard e alle complicazioni che il nuovo labilissimo assetto della strumentazione comunale determinerà nei riguardi della pianificazione sovraordinata –. Tornando agli accordi operativi, secondo la proposta di legge potranno essere elaborati e presentati esclusivamente dalla proprietà fondiaria. Al comune spetteranno soltanto l’assurda verifica di conformità nei confronti di una pianificazione di fatto delegittimata in quanto priva di disposizioni cogenti, e la negoziazione con i privati in materia di dotazioni, infrastrutture e servizi. In assenza di proposte private, il comune non potrà dunque decidere alcunché, meno che mai elaborare propri piani urbanistici.

Si tratta di un progetto di legge che renderà leggendaria l’autonoma capacità d’intervento, il talento e l’inventiva dei comuni e degli enti locali dell’Emilia Romagna dei trascorsi decenni.

Di fronte a questo ennesimo tentativo di rottamazione della pianificazione, eddyburg sollecita le associazioni nazionali che hanno tra i loro obiettivi la tutela del territorio in tutte le sue componenti (naturalistche, storiche, paesaggistiche, culturali,) ad attivarsi per evitare che la proposta della RER, diventi il cavallo di Troia per l'ulteriore imbarbarimento della legislazione italiana in materia

Riferimenti

Una puntuale ed ampia analisi critica del progetto di legge è contenuta nel documento della sezione emiliano-romagnola di Italia nostra, che trovate qui in eddyburg. Vi segnaliamo anche, sempre su eddyburg, la lettera aperta ai governanti della Regione E-R, e gli articoli di Enzo Righi, di Ilaria Agostini e di Giovanni Lo Savio., scritti per i nostri frequentatori

In Lombardia, l'amministrazione leghista vuole consentire per legge l'utilizzo dei seminterrati, in deroga ai piani urbanistici, per abitazioni e attività produttive, con postilla (m.c.g.)

Il governo leghista della Regione Lombardia, con il disegno di legge (n. 0258) dedicato alrecupero ad uso abitativo, commerciale o terziario dei piani seminterrati, conferma ancora una volta di non riuscire a segnare una reale discontinuità rispetto al ventennio di Formigoni, nonostante una campagna elettorale, quella del 2013, fatta dall'attuale Governatore con tanto di ramazze e scope di saggina per indicare un cambiamento che, di fatto, non si è verificato.

Nel 1996, all'inizio del primo mandato di Formigoni, c'era stato il tema dei sottotetti che, in deroga alle previsioni dei piani regolatori, potevano essere trasformati in nuove unità immobiliari con funzioni residenziali. Oggi la Giunta leghista ne offre la versione "underground", con il primo comma dell'articolo 1 che é proprio il copia e incolla della L.R. 15/96. La proposta di legge in discussione ha l'obiettivo di consentire l'uso degli attuali seminterrati (sì, proprio quelli che a ogni acquazzone si allagano) per fini abitativi, commerciali e terziari.

È bene ricordare che questi spazi, attualmente, non sono conteggiati nella volumetria che si edifica e infatti non hanno i requisiti minimi di abitabilità previsti dalle norme igienico-sanitarie: hanno soffitti più bassi, hanno meno luce e meno aria, spesso hanno problemi di umidità, tant'è che sono definiti come "locali accessori", cioè senza permanenza fissa di persone. Inoltre sono proprio quei locali che, in occasione di temporali o forti piogge, si allagano, essendo a una quota inferiore rispetto al piano stradale e molte volte anche al sistema fognario.

È da anni che la maggioranza del Pirellone parla di riformare la legge urbanistica, una legge (elaborata alla fine del secondo mandato di Formigoni) che ha generato una iper-produzione di piani urbanistici comunali ognuno dei quali, in modo del tutto autoreferenziale, ha fatto previsioni insediative spesso molto creative, slegate da concrete politiche di sviluppo territoriale e in assoluta assenza di un coordinamento di scala superiore. Il risultato di oltre un decennio di applicazione di quella norma sta nelle migliaia (circa 400.000) di metri quadrati che, oggi, i quasi 1.500 PGT lombardi si portano dietro e la cui realizzazione sembra comunque garantita da una legge sul contrasto del consumo di suolo la cui attuazione rimane molto controversa.

È evidente che all'attuale maggioranza lombarda manchino le idee o la forza politica (o entrambe le cose) per portare avanti un disegno di legge complessivo sul tema del governo del territorio. Basta vedere i provvedimenti parziali che sono stati approvati in questi anni (L.R. 31/2014 per il contrasto al consumo di suolo, L.R. 4/2016 per la mitigazione del rischio idrogeologico, Strategia regionale per l'adattamento climatico del 2014) su iniziativa di Direzioni Organizzative differenti, indicatore di una mancanza di coordinamento interno, tecnico oltre che politico, su questi temi che oggi più che mai richiederebbero invece collaborazione tra chi si occupa di ambiente, di gestione idrica, di agricoltura, di energia, di urbanistica e di sviluppo sostenibile.

Un ultimo punto interrogativo rimane poi riguardo a quale domanda abitativa, commerciale e terziaria sia rivolta questa proposta. Quali bisogni si vogliono soddisfare in un territorio, come quello lombardo, in cui l'offerta immobiliare ha da tempo superato la domanda, tanto che uno dei temi urbanistici più problematici è la gestione di una sovraproduzione edilizia di aree che in molti casi rischiano di diventare abbandonate e degradate senza neppure essere state occupate?

postilla

“Vado a vivere in cantina” potrebbe essere il titolo del disegno di legge (n. 0258) promosso dalla regione Lombardia. Qui potete scaricare il testo, composto da soli tre articoli.

Non si tratta, in effetti, di una novità assoluta. Il recupero dei seminterrati è purtroppo previsto in numerose leggi regionali, come illustra questa rassegna predisposta dall'Ufficio Studi Confappi-Federamministratori, disponibile in rete.

Suggeriamo di rivedere la piece esilarante di Marco Paolini sul Veneto e i tavernicoli.
In quel caso oggetto dell’ironia dissacrante dell’autore/attore erano i ‘nuovi cavernicoli’: gli abitanti della villettopoli diffusa veneta, con le loro ‘tavernette’ dove venivano consumati i riti del familismo trionfante. Nel nuovo scenario, che riguarderà invece anche il tessuto edilizio degli habitat densi, il ‘seminterrato lombardo’ più che scelta abitativa individuale potrà costituire una ulteriore ghiotta occasione di speculazione edilizia: naturalmente, per una nicchia di mercato a basso reddito.
La giustificazione, retorica e quanto mai irritante, è sempre la stessa:contenere il consumo di suolo e il consumo energetico. In realtà, si trattadell’ennesima occasione offerta ai Comuni per fare cassa approfittando delladrammatica emergenza casa. E’ il mercato bellezza! Eccola la sedicente politica abitativa ‘inclusiva’ della regione locomotiva d’Italia: ma sostenibile naturalmente! (m.c.g.)

Appello urgente contro le proroghe del Piano casa della regione Lazio. Carteinregola, online 30 dicembre 2016 (m.c.g.)

Carteinregola ha inviato un appello al Presidente Zingaretti contro proroghe in qualsiasi forma del Piano casa della Regione Lazio introdotte nel bilancio in discussione alla Pisana. Intanto giunge notizia di un maxiemendamento della maggioranza che contiene una proroga di qualche mese, come sembra anche confermare un articolo sul Giornale d’Italia di Francesco Storace, che attacca Sinistra Ecologia e Libertà* rea, secondo il consigliere regionale di La Destra, di costringere «i loro alleati [del PD NDR]a mendicare due mesi in più o in meno sulla poroga del Piano [casa]».

Comprensibile che il centrodestra e la destra, da cui il Piano casa in questione prende le mosse, si batta per la sua proroga. Meno comprensibile che lo faccia un partito – il PD – che nell’era Polverini era schierato con SEL e Radicali italiani contro quegli stessi articoli – Art 3 ter quater etc – che sono rimasti quasi identici nella versione che ora si vorrebbe di nuovo prorogare (AMBM)

L’appello :Basta con il piano casa della Polverini

Il 31 gennaio scadrà la Legge Regionale n. 21/09 – il cosiddetto “Piano Casa” – nella versione della Giunta Zingaretti, la PL 75, approvata e prorogata nella notte tra il 30 e Il 31 ottobre 2014. Un Piano che, per la parte edilizia, ha riproposto con poche modifiche la “mutazione genetica” introdotta dalla Presidente del centro destra Polverini. Basta confrontare i due “Piani Casa” Polverini e Zingaretti – in calce è scaricabile la versione con i due testi a fronte – per toccare con mano che si è continuato a consentire aumenti di cubatura e cambi di destinazione “in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici”, dando ai privati la possibilità di ampliare edifici ancora da costruire, o di cambiarne la destinazione d’uso, permettendo di trasformare capannoni industriali in appartamenti o addirittura in centri commerciali.

E tutto questo estromettendo i Comuni dalle decisioni che riguardavano il governo del loro territorio, quindi senza alcuna valutazione degli impatti degli interventi sull’ambiente, la mobilità, la qualità della vita dei residenti.

A pochi giorni dalla scadenza, apprendiamo che un emendamento del centro destra, facendosi portavoce delle tante sollecitazioni di alcuni ordini e categorie collegate al settore edilizio, ne chiede la proroga, da sei mesi a un anno e mezzo.

Chiediamo fermamente che non sia dato seguito né a tale proposta né ad alcuna analoga modifica che consenta il perpetuarsi di una normativa che privilegia l’interesse privato a scapito del governo pubblico del territorio, che piega la rigenerazione urbana alle esigenze del profitto, che restringe la democrazia e la partecipazione dei cittadini nei processi di trasformazione della città. Non a caso il Piano casa Polverini ha fatto scuola e trovato seguaci in molte Regioni a guida centrodestra.

Chiediamo al Presidente Zingaretti, alla sua Giunta e a tutti i consiglieri regionali che intendono tutelare i diritti della collettività, per uno sviluppo della nostra Regione compatibile con la qualità della vita dei cittadini e la tutela del nostro patrimonio ambientale e paesaggistico, di chiudere per sempre il capitolo del Piano Casa Polverini, senza ulteriori proroghe più o meno mascherate.

È dalla capacità di proposte innovative che i cittadini possono valutare positivamente l’operato dell’amministrazione regionale cui compete la regolamentazione del territorio e non dalla stanca riproposizione di norme pensate da altri e soprattutto un altre epoche.

Associazione Carteinregola, Italia Nostra Roma, VAS Roma…

Edoardo Salzano, Enzo Scandurra, Carlo Cellamare, Elio Rosati (Segretario Cittadinanzattiva Lazio), Emanuele Montini (Segretario generale Italia Nostra), Paola Bonora, Paolo Maddalena…

(L’appello sta raccogliendo varie adesioni di associazioni e urbanisti, giuristi e intellettuali che saranno man mano inserite nella pagina)

NOTA: Per valutare l’opportunità o meno di tale proposta sarebbe stato interessante conoscere l’incremento dei pesi insediativi nell’ambito del territorio comunale che doveva essere monitorato con il “Registro degli interventi”, istituito ai sensi dell’art. 3 c.9 della stessa legge, presso ciascun comune e i cui dati riepilogativi devono essere trasmessi annualmente alla stessa Regione. L’assenza di ogni informazione al riguardo non depone a favore della trasparenza e dell’equilibrio della proposta di proroga.

Scarica il confronto con il testo a fronte tra il paino casa Polverini e il paino casa Zingaretti definitivo.

Che cos’è il Piano casa e come si è trasformato nel Lazio

Il cosiddetto “Piano casa” nasce da un’Intesa Stato-Regioni del 2009, che introduce la possibilità di ampliamento delle cubature per “edifici residenziali uni-bi familiari”, o nell’ambito di “interventi straordinari di demolizione e ricostruzione”, per un periodo che non deve superare i 18 mesi. La Regione Lazio di Piero Marrazzo approva un Piano in linea con l’Intesa, ma con l’arrivo del centrodestra di Renata Polverini, nel marzo 2010, due successive leggi regionali (nel 2011 e nel 2012) modificano il Piano, estendendo a dismisura – allora unica Regione in Italia – le possibilità edificatorie dei privati, perfino in aree protette. Due diversi Ministri ai Beni Culturali impugnano i provvedimenti davanti alla Corte Costituzionale. L’opposizione PD, Radicali italiani, SEL, IDV, FdS, Verdi, insorge e minaccia referendum.

Ma quando torna il centrosinistra, nel febbraio 2013, la giunta Zingaretti, modificati gli articoli a rischio incostituzionalità con la PL 76, il 31 ottobre 2014, con il voto unanime della maggioranza (Pd, Sel, Lista e Listino Civico Zingaretti), approva la PL 75, che mantiene inalterati i capisaldi urbanistici del Piano Polverini.

Infatti, se si esclude l’abolizione della abnorme e ingiustificata premialità dispensata nei piani particolareggiati, e qualche modifica minore, si continuano a prevedere gli ampliamenti per edifici ancora da costruire, si consente il cambio di destinazione d’uso, trasformando ad esempio capannoni industriali in appartamenti o addirittura in centri commerciali, e soprattutto si continuano a estromettere i Comuni dalle decisioni che riguardano il governo del territorio.

La frase “in deroga alle previsioni degli strumenti urbanistici”, introdotta per 6 volte dal Piano Polverini, ricorre nelle stesse 6 occasioni nel Piano Zingaretti. E questo nonostante l’Intesa del 2009 prescrivesse chiaramente che le leggi regionali di applicazione del “Piano Casa” fossero scritte «in coerenza con i principi della legislazione urbanistica ed edilizia e della pianificazione comunale”.

Il Piano casa Polverini/Zingaretti è stato prorogato fino al gennaio 2017. Non sappiamo finora quanti interventi siano piovuti sulla città: con la sola eccezione di quelle zone di Roma che sono state escluse dal Piano Casa “in ragione di particolari qualità di carattere storico, artistico, urbanistico ed architettonico” in base a una Delibera approvata dall’Assemblea Capitolina nel gennaio 2012, nè il Comune nè i cittadini hanno potuto opporre alcuna obiezione di merito agli aumenti di cubatura e soprattutto cambi di destinazione d’uso decisi dai privati in possesso dei requisiti previsti.

Piano casa – Legge Polverini testo a fronte pl 75 approvata zingaretti

Lettera aperta ai governanti della Regione Emilia–Romagnaperché rinuncino ad approvare senza un’ampia discussione una legge sbagliata


Lettera aperta ai governanti della Regione Emilia–Romagna perché rinuncino ad approvare senza un’ampia discussione una legge sbagliata, che rischia di divenire un modello per le altre regioni italiane e per un’eventuale legge nazionale


Per molti urbanisti italiani l’esperienza dell’Emilia Romagna, anche prima dell’attuazione dell’ordinamento regionale, rappresentava un modello senza confronti nel nostro Paese. Ricordiamo la prestigiosa Consulta urbanistica regionale che contribuì in modo determinante alla formazione del decreto ministeriale sugli standard del 1968. In anni più recenti, in attuazione della cosiddetta legge Galasso, la regione Emilia Romagna (assessore Felicia Bottino) si è dotata di un esemplare piano paesistico che ha tutelato con rigore le risorse storiche e ambientali della regione. Senza dimenticare i comuni di Bologna – in particolare al tempo degli assessori Giuseppe Campos Venuti e Pierluigi Cervellati – di Modena, Reggio Emilia e di altre realtà locali che sono stati a lungo un riferimento obbligatorio della cultura urbanistica non solo italiana. Ma a partire dagli anni Ottanta del Novecento, a poco a poco, il primato dell’Emilia Romagna è andato in crisi, gli strumenti urbanistici dell’ultima generazione hanno ceduto alla filosofia della globalizzazione, del privatismo, della contrattazione. È stata anche cancellata la tutela integrale dei centri storici che da Bologna era stata esportata in tutto il mondo.
Ed eccoci all’ultimo progetto di legge regionale sulla tutela e l’uso del territorio che compie un irresponsabile salto di scala fino alla negazione della stessa disciplina urbanistica. Il progetto di legge, che nelle prossime settimane dovrebbe essere approvato dalla Giunta regionale, prevede una strumentazione urbanistica comunale articolata in: piano urbanistico generale (Pug) e accordi operativi. Il Pug dovrebbe stabilire “la disciplina di competenza comunale sull’uso e la trasformazione del territorio” (art. 29, c. 1, lettera a), ma la novità dirompente è che “il Pug “non può [corsivo nostro] stabilire la capacità edificatoria, anche potenziale, delle aree del territorio urbanizzato e di quelle di nuova urbanizzazione né dettagliare gli altri parametri urbanistici ed edilizi degli interventi ammissibili con la sola eccezione degli interventi attuabili per intervento diretto” (art. 32, c. 4 e art. 37, c.1).
Quindi, secondo il progetto di legge, è bene ripeterlo, alla “disciplina di competenza comunale sull’uso e la trasformazione del territorio” è addirittura inibito di “stabilire la capacità edificatoria, anche potenziale, delle aree del territorio urbanizzato e di quello urbanizzabile né dettagliare gli altri parametri urbanistici ed edilizi degli interventi ammissibili”. Com’è possibile? A chi spetta allora, se non al piano urbanistico comunale, di definire la capacità edificatoria e i parametri urbanistici? Spetta agli accordi operativi derivanti dalla negoziazione fra l’amministrazione comunale e gli operatori privati che hanno presentato al comune un’apposita proposta (art. 37, c. 3), da approvare in 60 giorni, tempo proibitivo per i comuni. E siffatti accordi “sostituiscono ogni piano urbanistico operativo e attuativo, comunque denominato” (art. 29, c. 1, lettera b). La conseguenza è un piano urbanistico comunale privo di contenuti dimensionali e localizzativi: non si sa quante saranno e dove saranno ubicate le nuove residenze, le attività produttive, le attrezzature e i servizi.

Altro contenuto inaccettabile della nuova legge urbanistica riguarda il contenimento del consumo del suolo. Ogni comune può prevedere un consumo di suolo pari al 3% del territorio urbanizzato. Quest’espansione è destinata a opere d’interesse pubblico e a insediamenti strategici “volti ad aumentare l’attrattività e la competitività del territorio” (art. 5, c. 2). Non sono consentite nuove edificazioni residenziali, a meno che non siano destinate ad attivare interventi di rigenerazione del territorio urbanizzato e per interventi di edilizia residenziale sociale (art. 5 c. 3). Non sono invece computati ai fini del calcolo del 3%: i suoli per opere d’interesse pubblico per le quali non sussistano ragionevoli alternative; gli ampliamenti di attività produttive; i nuovi insediamenti produttivi d’interesse strategico regionale; nonché gli interventi previsti dai piani urbanistici previgenti autorizzati entro tre anni dall’approvazione della nuova legge (art. 6, c. 5). Si mettono così al sicuro i cosiddetti diritti acquisiti, ed è stato calcolato che, alla fine, tenendo conto anche delle discutibili modalità di individuazione della superficie urbanizzata, il consumo di suolo consentito sarà di gran lunga superiore, fino al doppio o al triplo, del previsto 3% della superficie urbanizzata. Come nei piani urbanistici degli anni della grande espansione.

Trascuriamo altri contenuti del progetto di legge – in particolare quelli relativi al possibile ridimensionamento degli standard e alle complicazioni che il nuovo labilissimo assetto della strumentazione comunale determinerà nei riguardi della pianificazione sovraordinata – tornando agli accordi operativi che, secondo la proposta di legge possono essere elaborati e presentati esclusivamente dalla proprietà fondiaria. Al comune rimangono l’assurda verifica di conformità a una pianificazione superflua, priva di disposizioni cogenti, e la negoziazione con i privati in materia di dotazioni, infrastrutture e servizi. In assenza di proposte private il comune non può fare alcunché, meno che mai formare propri piani urbanistici.

Diventa leggendaria l’autonoma capacità d’intervento, il talento e l’inventiva dei comuni e degli enti locali dell’Emilia Romagna dei trascorsi decenni.

Ilaria Agostini
Paolo Baldeschi
Piergorgio Bellagamba
Donato Belloni
Rossana Benevelli
Paolo Berdini
Enrico Bettini
Ivan Blecic
Stefano Boato
Giuseppe Boatti
Paola Bonora
Ilaria Boniburini
Luisa Calimani
Pier Luigi Cervellati
Giancarlo Consonni
Alessandro Dal Piaz
Luigi De Falco
Vezio De Lucia

Marina Foschi
Maria Cristina Gibelli
Sergio Lironi
Giovanni Losavio

Alberto Magnaghi
Lodovico Meneghetti
Guido Montanari
Loredana Mozzilli
Domenico Patassini
Ezio Righi
Piergiorgio Rocchi
Sandro Roggio
Edoardo Salzano
Enzo Scandurra
Giancarlo Storto
Giulio Tamburini
Sauro Turroni
Graziella Tonon


12 dicembre 2016

Una puntuale ed ampia analisi critica del progetto di legge è contenuta nel documento della sezione emiliano-romagnola di Italia nostra, che trovate qui in eddyburg

Un documento di Italia nostra, sezione Emilia-Romagna, che rivela come la Regione che molti decenni fa era all'avanguardia nel buon governo del territorio sia oggi capace di avviare una devastante iniziativa, nella quale felicemente si congiungono le politiche territoriali degli anni di Craxi, Berlusconi, e soprattutto Renzi.


premessa
pubblichiamo l'ampio documento approvato il 26 novembre 2016 dalla Sezione Emilia-Romagna di Italia nostra: una puntuale critica di un testo inaccettabile da chi non sia intimamente legato agli interessi immobiliari, o non trovi comunque il suo tornaconto nell'ulteriore sfacelo delle città, dei territori e delle società che li abitano: la bozza di legge "Disciplina regionale sulla tutela e l'uso del territorio" (scaricabile qui)
Invitiamo i nostri lettori a soffermarsi in particolare sugli ultimi paragrafi, là dove si argomenta questa sintetica definizione della proposta emiliano-romagnola: la "semplificazione" introdotta dalla proposta consiste«semplicemente nell’abolizione della disciplina urbanistica, intesa come determinazione preventiva delle trasformazioni ammissibili sul territorio nel segno dell’interesse pubblico, fondata sull’accertamento sistematico della loro sostenibilità e sul preordinamento delle condizioni di fattibilità e dei requisiti, sia per nuovi insediamenti che per interventi di rigenerazione e qualificazione urbana Sulla proposta pubblicheremo ulteriori scritti.


LA BOZZA DI PROPOSTA
DI NUOVA LEGGE REGIONALE
PRIMECONSIDERAZIONI
L’assessore Donini conclude le sue presentazioni affermandola necessità di grande celerità nel procedimento di esame a approvazione dellanuova legge regionale 20/2000, per la quale esisterebbero in ambito nazionalevaste aspettative. Vorrebbe sottoporre la proposta alla giunta regionale entrol’anno, o nelle prime settimane del prossimo, comprimendo la presentazione inun paio di settimane, e attendo osservazioni e contributi entro novembre.

L’entità del provvedimento, che azzera il sistema didisciplina del territorio e con esso buona parte dei poteri e delle competenzedei comuni, esige un confronto ampio e approfondito, assolutamente nonriducibile a qualche settimana. É indispensabile quindi che la consultazionesia condotta ora, prima dell’approvazione da parte della giunta, dedicando tempoed energie adeguate e grande attenzione a quanto ne risulterà. Va poiconsiderato che oltre al merito del provvedimento, ,anche la sua stessa stesuramerita censure gravi, soffrendo di gravi contraddizioni e lacune, tali daesigere comunque sostanziali rielaborazioni.

L’assessore Donini inizia invece le sue presentazioni con l’immaginedella bussola con i punti cardinali della sua proposta: ambiente, semplificazione, sviluppo economico, legalità. Vediamo comesono interpretati questi riferimenti nei dispositivi della nuova legge.

1. Le disposizioni proposte in materia di ambiente

La politica per l’ambiente coincide interamente con il vantatotaglio del consumo di suolo, che in realtà è più che dubbio. Secondo i dati presentati dall’assessore, gli insediamentiurbani occupano nel territorio regionale 2.280 chilometri quadrati, e i pianiurbanistici consentono un’ulteriore espansione di 250. Limitando a un massimodel 3% la crescita del territorio urbanizzato l’espansione ulteriore sarebbe,secondo l’assessore, contenuta in 70 Kmq.

Questo obiettivo è perseguito nella legge con duedisposizioni:
- riservando il consumo di suolo a opere pubbliche o diinteresse pubblico, a insediamenti strategici per l’attrattività e la competitività del territorio, nonché alleedificazioni residenziali necessarie perattivare interventi di rigenerazione di parti significative del territoriourbanizzato a prevalente destinazione residenziale e per realizzare interventidi edilizia residenziale sociale (articolo 5, commi 2 e 3);
- limitando l’ulteriore consumo di suolo al tre per cento delterritorio urbanizzato esistente (articolo 6, comma1).

La prima di queste disposizioni non è limitativa comeappare. In primo luogo è contraddetta dall’articolo 6, comma 5 che inveceesclude le opere pubbliche o di interesse pubblico e gli insediamentistrategici dal computo del consumo di suolo. E per legittimare il consumo disuolo per nuovi insediamenti residenziali appare sufficiente associarvi unaquota di edilizia residenziale sociale anche modesta, finanziata con lavalorizzazione della restante parte. Visto che opere pubbliche o interessepubblico e insediamenti strategici non sono da computarvisi, il contingente diterritorio consumabile è quindi da intendersi essenzialmente destinato aresidenza e a insediamenti produttivi nonstrategici.

La seconda disposizione, che stabilisce il limite del 3% all’ulterioreconsumo di suolo, non è affatto in sé restrittivo: nel territorio provincialedi Modena i centri abitati perimetrati dall’ISTAT hanno un’estensionecomplessiva di oltre 23mila ettari. Il 3% corrisponde a 630 ettari (6,3 Kmq),sufficienti ad accogliere almeno 70mila abitanti, oppure circa 40mila addetti.La sola città di Modena potrebbe crescere più o meno altri 160 ettari, ovveroottomila abitazioni per ventimila abitanti.
A questo incremento del 3% è inoltre da aggiungersi unabuona parte delle espansioni urbanistiche già disposte dai piani vigenti, chel’assessore quantifica in 250 Kmq. Entro tre anni dall’approvazione della leggeregionale i proprietari possono stipulare con i comuni accordi operativi per la loro utilizzazione edificatoria, anchederogando alle norme della legge regionale che li subordinano al POC (pianooperativo comunale). A norma dell’articolo 6, comma 6 tali aree non sonocomputate nel limite del consumo di suolo: sono così tutelati i sedicenti diritti acquisiti, per i quali l’ANCE rivendica però almeno cinque anni di tempo per provvederne il salvataggio.

Mancano i dati per una valutazione quantitativa della quotadi questi 250 Kmq che risulterà sottratta al limite di consumo di suolo.Considerando tuttavia che una parte consistente è sicuramente già disciplinatada POC o PUA (piani urbanistici attuativi), e che è da attendersi una corsa amettere al sicuro quella che ancora non lo è, non sarebbe sorprendente che i 70Kmq di nuovi insediamenti fattibili nel limite del 3% se ne aggiungessero piùche altrettanti, fatti passare per dirittiacquisiti.

Nelle pieghe della proposta di legge si possono poi scoprirealtre disposizioni che concorrono ad estendere ulteriormente la quantità disuolo consumabile. Ad esempio:
- nella definizione del territoriourbanizzato su cui calcolare il contingente di suolo consumabile (il 3%) rientranoanche i parchi e servizi pubblici esistenti: quelli di nuova realizzazione nonconcorrono però al computo del consumo di suolo; la possibilità di soddisfaregli standard a distanza consentirebbedi delocalizzare le quote di verde di un nuovo insediamento, sottraendole alcomputo del consumo di suolo essere assegnate altrove, e tendenzialmentedestinare l’intero 3% alla sola edificazione e urbanizzazione primaria;
- sono classificati come territoriourbanizzato anche i pezzi di campagna sui quali vigono pianiparticolareggiati o sono convenzionate le opere di urbanizzazione;quindi non sono considerati consumo di suolo, ma anzi concorrono ad accrescerela base su cui è calcolato l’incremento ammissibile del 3%;
- le opere pubbliche, l’ampliamento di stabilimenti sucontiguo territorio agricolo, i nuovi insediamenti produttivi di interessestrategico regionale (come la Philip Morris di Crespellano), le infrastrutturenel territorio rurale (anche la Cispadana) non sono computate come consumo disuolo.
Tenendo conto di tutte le eccezioni e garbugli dellaproposta di legge, non sorprenderebbe affatto se l’effettivo consumo di suoloche ammette (in termini di terreno attualmente agricolo assegnato ad altrefunzioni) risultasse doppio o triplo del proclamato 3%.
In realtà una limitazione seria del consumo di suolo non puòvenire da quantificazioni di legge, apparentemente facili ma difficilissime datradurre in pratica, ma solo da una pianificazione territorialeconsapevole e capace.

Sempre in materia di ambiente la bozza di legge regionale proponeperò con l’articolo 9 anche un’innovazione altamente preoccupante (omessa dall’assessorenella sua presentazione) tesa a differenziare gli standard di verde e servizi da realizzare nel territorio urbanizzatorispetto a quanto richiesto per i nuovi insediamenti, allo scopo di promuoveregli interventi di riuso e rigenerazione urbana.

Gli standard della attuale legge regionale vengono mantenuti solo per le nuove urbanizzazioni, mentre nel territoriourbanizzato gli interventi diristrutturazione urbanistica e di addensamento e sostituzione urbana possonocomportare la cessione al Comune di aree per dotazioni territoriali anche al disotto della quantità minima prevista dal DM 1444/1968, e addirittura dimonetizzarla. Perquesti interventi è addirittura ammessa la derogabilità delle dotazioni diparcheggi, a fronte dell’impegnodell’operatore e dei suoi aventi causa a rispettare le limitazioni al possessoe all’uso di autovetture.

Considerando che in generale sono solo proprio gli interventi di ristrutturazione urbanistica edi sostituzione urbana su complessi edilizi dismessi, pubblici e privati, aconsentire la possibilità di adeguamenti delle dotazioni di verde e servizi afavore del contesto urbano, queste disposizioni favoriscono politiche urbaneopposte a quelle indispensabili a conseguire effettivi guadagni di qualità nelterritorio urbanizzato, in particolare quanto a dotazioni di verde,determinanti sotto il profilo ambientale.

2. Le disposizioni proposte in materia di semplificazione

La bozza di legge propone di porre in atto due ordini principalidi sedicenti semplificazioni:
- nei confronti della disciplina urbanistica, sopprimendo lasua funzione essenziale, ovvero la regolazione preventiva delle trasformazioniintensive della città;
- nei confronti del sistema di disciplina del territorio,soppiantandolo con un altro radicalmente diverso.
Sono poi proposte altre misure, fra cui un allargamentodell’impiego della SCIA a ulteriori tipi di intervento.
2.1 La semplificazione della disciplina del territorio
Questa semplificazioneconsiste semplicemente nell’abolizione della disciplina urbanistica, intesacome determinazione preventiva delle trasformazioni ammissibili sul territorionel segno dell’interesse pubblico, fondata sull’accertamento sistematico dellaloro sostenibilità e sul preordinamento delle condizioni di fattibilità e deirequisiti, sia per nuovi insediamenti che per interventi di rigenerazione equalificazione urbana.

Per le trasformazioni intensive nel territorio urbanizzato(che può includere grandi complessi dismessi, e aree inedificate anche ampie) l’articolo32 comma 4 vieta addirittura la possibilità stessa di disciplina urbanisticagenerale: il PUG non può stabilire lacapacità edificatoria, anche potenziale, delle aree del territorio urbanizzatoné dettagliare gli altri parametri urbanistici ed edilizi degli interventi ammissibili.É lasciata la possibilità di regolare gli interventi minori diffusi sulpatrimonio edilizio esistente.

Per le nuove urbanizzazioni la sola disciplina quantitativa appareconsistere nel limite del 3% alla loro estensione complessiva.

In luogo della disciplina urbanistica subentra una Strategia per la qualità urbana ed ecologicoambientale cui, sul riferimento di obiettivi molto generali, spettaindicare i criteri e le condizioni generaliche, specificando le politiche urbane e territoriali perseguite dal piano,costituiscono il quadro di riferimento per gli accordi operativi. E che insostanza sono circoscritti alla formulazione di obiettivi generali in ordine ai sistemi dei servizi pubblici edelle infrastrutture, e a nebulose istanze di riduzione della pressione del sistema insediativo sull’ambientenaturale, di adattamento aicambiamenti climatici e di miglioramentodella salubrità dell’ambiente urbano.

La Strategia può anchecomprendere indicazioni sull’assettospaziale di massima degli interventi e individuare i relativi fabbisogni specifici di servizi einfrastrutture, ma secondo l’articolo 33, comma 2, nel queste indicazioni di massima possono essere modificate in sede di accordooperativo senza che ciò costituisca variante al PUG.

In sostanza ogni determinazione quantitativa e qualitativasu nuovi insediamenti o rigenerazioni urbane è assegnata a valutazioni dasvolgersi caso per caso su proposte avanzate per esclusiva e arbitraria iniziativaprivata, in tempi ristretti e perentori. É preclusa la funzione essenzialedella disciplina urbanistica, cioè la valutazione sistematica preventiva dellasostenibilità e compatibilità delle trasformazioni del territorio,necessariamente da compiersi nell’ambito della pianificazione generale.

É da aggiungere che le valutazioni caso per caso sonoperaltro circoscritte dall’articolo 37 comma 6 alla solo verifica della loroconformità al PUG, comunque certa a priori, considerata la proibizione didisposizioni vincolanti in questo strumento.

In conclusione il comune risulta totalmente subordinatoall’iniziativa privata, e perde ogni potere negoziale nei confronti deiprivati, non avendo controllo sulla graduazione temporale degli interventi nésulla capacità insediativa da assegnare, né sulla loro conformazione.

Altre semplificazioni sonoproposte con la differenziazione e la derogabilità degli standard, già quiconsiderate al punto 1, e con la generale derogabilità nel territoriourbanizzato dei limiti di distanza, altezza, densità disposti dal DM 1444/1968e dalle discipline comunali delle libere visuali, anche in caso di demolizionee costruzione o ampliamento. Anche nel caso di interventi più radicali sarebbecosì interdetta la possibilità di miglioramenti della qualità abitativa efunzionale dell’edificato.

2.2 La semplificazionedel sistema di disciplina del territorio

Tutti i vigenti strumenti urbanistici vengono soppressi.P SC (piano strutturale comunale), RUE (regolamentourbanistico edilizio) e POC (piano operativo comunale) sono sostituiti dal PUG(piano urbanistico generale). Ai piani urbanistici attuativi subentra il solo accordo operativo,che tutti li sostituisce.

La differenziazione fra PSC e RUE aveva il compito primariodi discriminare le discipline da decidere attraverso l’interazione di unapluralità di soggetti portatori di interessi pubblici, da codificarsi stabilmentenel PSC, e quelle da rimettersi all’autonomia decisionale dei comuni definiteda RUE e POC.

L’unificazione nel PUG sopprime la possibilità di netteattribuzioni dell’autonomia comunale, e riconduce ad un unico procedimento diapprovazione. Qualsiasi modificazione o aggiornamento del PUG è soggetto allavalutazione del comitato urbanistico di area vasta (la Provincia), aprescindere dalla sua importanza ed entità, anche quando si tratti dideterminazioni che oggi dovrebbero spettare ad autonome determinazioni deicomuni, se coerenti al PSC. Questo contraddice le esigenze di tempestività eagilità indispensabili per cogliere le opportunità e rispondere alle istanzeche nel corso del tempo emergono nel territorio urbanizzato e nel territoriorurale.

La sostituzione dei piani urbanistici attuativi con l’istituitodell’accordo operativo esautora icomuni dalla capacità di iniziativa per modellare e dirigere qualsiasitrasformazione urbanistica. Nella proposta di legge il diritto di iniziativa èinfatti attribuito in via esclusiva aiprivati proprietari, cui soli spetterebbe la funzione di elaborare e presentareprogetti urbanistici. Al comune rimane solo da verificarne la scontata conformitàa una pianificazione priva di disposizioni cogenti, e negoziare il concorso dei privati alle dotazioni, infrastrutture eservizi correlati all’intervento, nel termine perentorio di sessanta giorni.

Se i privati non avanzano proposte il comune non può avviarealcuna iniziativa, né formare propri piani urbanistici attuativi, nemmeno alloscopo di preservare dalla decadenza quinquennale i vincoli espropriativi;nemmeno può utilizzare i poteri disposti dalla legge urbanistica nazionale per coordinareo imporre l’attuazione di piani particolareggiati.

2.3 Considerazioniconclusive

Concludendo, la proposta semplificazione della disciplinadel territorio consiste sostanzialmente nella sua abolizione. Allapianificazione è addirittura vietato accertarepreventivamente la sostenibilità dei nuovi insediamenti e delleintensificazioni del tessuto urbano, e disporre di conseguenza una disciplinacogente.

Destinazioni residenziali, produttive, per terziario odistribuzione commerciale sul territorio, e il dimensionamento degliinsediamenti sono rimessi all’iniziativa propositiva dei privati, la cuiinerzia non può essere al caso supplita, nonostante le norme nazionali loconsentano: tutto è subordinato al raggiungimento di accordi con le proprietàprivate proponenti, in tempi e a condizioni proibitivi per i comuni. Lacasualità di questo processo preclude in particolare l’opportunità, anzi ildovere, di utilizzare i nuovi insediamenti che concluderanno la fase storicadell’urbanizzazione per condurre a buon compimento la forma delle città esoprattutto conferire qualità ai margini urbani e alla loro relazione con ilpaesaggio agrario.

Per quanto riguarda l’asserita semplificazione deglistrumenti urbanistici è facile prevedere effetti di segno contrario fortementepreoccupanti.

In primo luogo tutto il sistema di pianificazioneterritoriale, sia regionale che provinciale, fa riferimento all’ordinamento eai contenuti degli strumenti comunali disposti dalla legge regionale 20/2000:la loro abrogazione, e i sostanziali cambiamenti nei compiti e contenuti dellapianificazione comunale sconvolgono sia i riferimenti della pianificazionesovraordinata alle funzioni di PSC, RUE e POC, sia il concetto stesso diconformità dei PUG ai piani territoriali. Le medesime considerazioni valgonoper piani e discipline di settore, sia regionali che provinciali, conconseguenti inestricabili complicazioni e confusione.

L’integrazione nel complessivo sistema di governo delterritorio del modello e dei compiti della pianificazione urbanistica proposti esigerebbela sostanziale rielaborazione dei vigenti piani territoriali e discipline disettore appoggiate alla strumentazione urbanistica comunale.
In secondo luogo tutte le modificazioni alla disciplinaurbanistica comunale vengono ricondotte ai due procedimenti di formazione ovariazione del PUG, e di formazione degli accordioperativi (non è contemplato il caso di loro varianti).

Quindi anche le varianti minori al PUG, attualmentesostanzialmente rimesse all’autonoma competenza comunale, risultano soggette almedesimo procedimento Anche la sostituzione di tutti i piani urbanisticiattuativi con il solo istituto dell’accordooperativo, oltre a esautorare i comuni, pone preoccupanti interrogativi, adesempio sulle modalità di modificazione o di rinnovo dei pianiparticolareggiati in corso di attuazione o a scadenza.

3. Le disposizioni proposte in materia di sviluppo economico

Le disposizioni specifiche consistono essenzialmente nellaesenzione dalle limitazioni sul consumo di suolo di molta parte delle esigenzedi ampliamento e sviluppo di impianti produttivi e di nuovi insediamentiproduttivi strategici. Molto appareatteso tuttavia dalla soppressione di larga parte della disciplina urbanistica.
Vale la pena di ricordare che i vertici dello sviluppoeconomico in questa regione sono stati toccati tra gli anni ’70 e ’80 incontesto istituzionale e in un ordinamento che attribuivano massima importanzaalla disciplina del territorio e al pieno utilizzo dei poteri istituzionali deicomuni per governarne e anche attuarne le trasformazioni richieste dalleaccelerate dinamiche sociali ed economiche.

4. Le disposizioni proposte in materia di legalità

Consistono in obblighi di pubblicità e trasparenza suglieffetti economici prodotti dalla conclusione di accordi operativi, in terminidi valorizzazioni e di loro beneficiari.

«Nel fascicolo del fabbricato sono riportati dati e informazioni principali su progettazione, struttura e diverse componenti di un immobile. Chi ha provato a introdurlo non ha avuto fortuna, ma ora ci prova Milano. E forse è il momento che il governo proponga uno schema valido per tutto il paese». lavoce.info, 20 settembre 2016 (c.m.c.)

Cos’è il fascicolo del fabbricato

Con i crolli e i morti di Amatrice, e degli altri diciassette comuni, si è ripreso a discutere del fascicolo del fabbricato. Cerchiamo di capire cos’è e perché non è stato finora introdotto.

Il fascicolo del fabbricato è un documento nel quale sono riportati i dati e le informazioni principali relative alla progettazione, alla struttura, alle diverse componenti statiche, funzionali e impiantistiche di un immobile. Serve in sostanza a far conoscere meglio come è fatta una scuola, una palestra, una casa o un capannone.

Vi possono essere riportati i dati amministrativi, relativi per esempio al permesso di costruire, ma anche informazioni più strettamente tecniche. La sua lettura potrebbe consentire a chi acquista una casa, anche in un condominio, di sapere, per esempio se la struttura è in muratura portante o in cemento armato; l’esito delle prove di compressione della malta cementizia con la quale sono stati riempiti i pilastri e fatti i solai; il diametro dei tondini di ferro usati per armare quei pilastri; dove passano i tubi dell’acqua, del gas, del riscaldamento e i fili dell’elettricità; che materiali sono stati usati; qual è la trasmittenza termica dei vetri e il consumo di energia necessario per riscaldare e rinfrescare l’immobile.

Il libretto non garantisce, ovviamente, che le case non crollino se la terra traballa. È un po’ come il libretto di istruzione dell’automobile: averlo non evita di sbattere contro un muro, ma spiega di che manutenzione ha bisogno la macchina, dove mettere l’olio o l’acqua per il tergicristallo e come cambiare una ruota.

Il fascicolo del fabbricato può risultare utile non solo nelle emergenze, ma anche nell’ordinaria gestione dell’immobile e quando vi è necessità di opere di manutenzione e ristrutturazione oppure di riparare qualche guasto.

Le obiezioni

Senza alcuna fortuna, hanno provato a introdurlo alcune regioni. Le loro norme non sono mai entrate in vigore perché sono state annullate dal Tar oppure perché sono state abrogate delle stesse regioni per non affrontare un giudizio di legittimità costituzionale a seguito dell’impugnazione da parte del governo.

Da ultimo è successo, nel 2014, alla legge della Regione Puglia, contro la quale ricorse la presidenza del Consiglio dei ministri. Secondo il governo, la normativa regionale avrebbe aggravato il procedimento per il rilascio del certificato di agibilità per le nuove costruzioni, reso più complessi i procedimenti amministrativi in contrasto con l’esigenza di semplificazione.

Inoltre con il libretto si «impongono ai privati oneri non necessari e comunque sproporzionati ed eccessivamente gravosi (che comportano anche a carico dei proprietari di più modeste condizioni economiche la necessità di ricorrere a una pluralità di professionisti) – si pongono altresì in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione, sotto il profilo delle disparità di trattamento e del principio di ragionevolezza, e con l’articolo 42, secondo comma, Costituzione, in quanto impongono limiti alla proprietà privata, che non appaiono necessari ad assicurarne la funzione sociale».

Al di là delle argomentazioni giuridiche, le obiezioni mosse alle leggi regionali, anche dalle associazioni della proprietà immobiliare, riguardano la previsione della necessità del libretto per il patrimonio esistente e la facoltà attribuita ai comuni di renderlo obbligatorio, nei casi in cui ciò non fosse stato già previsto per legge.

La scelta di Milano

I proprietari degli immobili esistenti temono che, oltre a pagare ingegneri e architetti per la redazione del fascicolo, possano essere anche obbligati a realizzare gli interventi edilizi che dovessero risultare necessari dalla ricognizione fatta dai tecnici: non tutti hanno i soldi necessari.
Forse anche per fugare questi timori, il comune di Milano ha previsto l’obbligo del fascicolo solo per gli edifici di nuova costruzione e per quelli oggetto di sostituzione o ristrutturazione edilizia e ampliamento. Contro la norma è stato proposto ricorso al Tar da un’associazione della proprietà immobiliare.

Una sua conferma potrebbe fare da apripista ad altri sindaci, con il rischio di avere migliaia di modelli di fascicolo, salvo poi, tra qualche anno, caricarsi di una fatica di Sisifo per creare un modello unico, come sta succedendo ora per i regolamenti edilizi comunali. Per evitarlo sarebbe meglio che il governo, anche nell’ottica della semplificazione, proponesse uno schema unificato di libretto del fabbricato per le nuove costruzioni.

Un’ipotesi limitata come questa non dovrebbe dispiacere neanche alle imprese di costruzione. In mancanza di un’iniziativa governativa, le loro stesse associazioni di categoria potrebbero promuovere volontariamente l’introduzione del libretto, che diverrebbe un fattore di competitività, perché aiuta a rendere trasparente il livello qualitativo della costruzione.

Primato del Consiglio regionale della Campania nella gara per il più coerente distruttore del territorio nelle terre più fertili del mondo comandano i peggiori cementificatori. Poi si vuole affidare alle regioni la lotta al consumo di suolo...
Non conosce pause il processo di peggioramento del “piano casa” in Campania. Con la legge regionale n. 6 del 5 aprile 2016 “Prime misure per la razionalizzazione della spesa e il rilancio dell’economia campana – Legge collegata alla legge regionale di stabilità per l’anno 2016” il consiglio regionale ha approvato le proposte della giunta De Luca in un numero cospicue di materie, fra cui, appunto, quella disciplinata, per dir così, dal “piano casa”.

L'Amministrazione regionale in carica aveva già deciso, a cavallo dello scorso Capodanno, di prorogare quel regime derogatorio alla pianificazione urbanistica ordinaria nella forma fino ad allora determinata dalla serie di modifiche apportate nel tempo all'originario testo del 2009, e da ultime da quelle della giunta di centro-destra presieduta da Caldoro.

Ora la maggioranza “detta di centro-sinistra”, per dirla con Crozza, ha voluto lasciare nell'incessante sequenza una propria impronta, riuscendo nell'impresa di scavalcare la maggioranza precedente nella rincorsa a piegare il governo del territorio agli interessi speculativi.

Due, in particolare, sono le modifiche significative. La prima concerne le modifiche di destinazione nelle zone agricole. Con le Linee guida del paesaggio introdotte anni fa nel piano territoriale regionale, poi approvato con la legge regionale 13/2008, si era riusciti finalmente ad affermare la riserva fondamentale del territori agricoli alle attività coltivatrici e agli interventi edificatori con esse strettamente connessi, sicché per consentirli occorreva che la loro necessità venisse documentata da un piano di sviluppo aziendale asseverato da un agronomo iscritto allo specifico albo professionale.

Come conseguenza sia pure tardiva di tale importante conquista, era avvenuto che la maggioranza a sostegno di Caldoro nel 2014 avesse corretto un suo precedente emendamento al “piano casa” : nell'art. 6 bis introdotto nel 2011 nella LRC 19/2009, venivano infatti limitati «i mutamenti di destinazione d'uso di immobili» nelle zone agricole (per intenderci, da stalle o depositi ad abitazioni) a quelli connessi con l' «uso residenziale del nucleo familiare dell'imprenditore agricolo». Ora, nel 2016, il centro-sinistra sopprime tale limitazione consentendo i mutamenti di destinazione d'uso in deroga ai piani urbanistici per l' «uso residenziale del nucleo familiare del proprietario dell'immobile o a chi abbia titolo per richiederli» ai sensi del DPR 380/2001: si apre in tal modo un varco preoccupante per tornare a perpetuare l'aberrazione delle villette o dei condomini residenziali in campagna, che hanno distrutto in Campania vaste estensioni verdi trasformandole, e non solo nelle pianure conurbate, in tristissime periferie rur-urbane.

La seconda modifica rilevante concerne il “recupero” dei complessi produttivi dismessi. Con l'art. 7 bis il centro-destra nel 2014 aveva consentito, in deroga ai piani urbanistici, di demolire e ricostruire, con incrementi fino al 20 % della volumetria esistente, i complessi ex industriali in applicazione del decreto legge 70/2011, convertito in legge n. 106/2011. Tali interventi «sono autorizzabili anche con eventuale possibilità di delocalizzazione delle nuove strutture edilizie se tale forma di intervento sia prevista nella programmazione urbanistica locale, sia ritenuta utile ed opportuna dal comune, e vi sia la disponibilità dell’area alternativa rispetto a quella dove sussistono le volumetrie preesistenti oggetto dell’intervento». Ma, veniva precisato nel 2014, «sempre con destinazione ad attività produttive». Ora, il centro-sinistra consente invece qualunque destinazione, sopprimendo il vincolo produttivo.

Dato il carattere derogatorio della disposizione e la vaghezza delle formulazioni circa la previsione nella programmazione locale, il giudizio di utilità ed opportunità da parte del comune e la disponibilità di un'area alternativa, è evidente la portata eversiva della modifica ultima, che inevitabilmente si tradurrà in ulteriori aggressioni edilizie ai territori agricoli, in barba ad ogni sforzo per contenere il consumo di suolo.

Indovinate chi, a tanti mesi dal Capodanno, continua a brindare ?

Ci siamo abituati: le "buone intenzioni" delle leggi sono fumo per nascondere misfatti. Cosi in questa legge della Liguria analizzata e denunciata. C'è un modo per resistere: i comuni, se vogliono, possono ancora salvare quel po' di Liguria che sopravvive. Questa denuncia è anche un appello.

La legge regionale 49/2009, nota come “Piano casa”, modificata con L.R. del 22 dicembre 2015 n. 22 in vigore dal 7 gennaio 2016, già dal titolo [1] denota quello che è: un pasticcio di avanzi riscaldati e in parte già avariati. Nata nel 2009 da una intesa [2] ipocrita e incostituzionale, possedeva il solo merito di avere una scadenza. Dopo anni di proroghe e di modifiche, nonostante non abbia sortito il successo promesso e creato solo ulteriori brutture, si ripropone peggiorata e soprattutto perenne.

L'attuale Giunta regionale, seppure mossa da obiettivi condivisibili (Lavoro, riqualificazione del patrimonio edilizio, e tutela del territorio dal rischio idrogeologico) pare non riesca ad esprimere nulla di nuovo e quindi debba riciclare, peggiorandoli, i provvedimenti fallimentari della precedente amministrazione, con l' evidente conseguenza che raggiungerà senza dubbio l'opposto dei nobili scopi esplicitati.

Né casa, né lavoro, né territorio tutelato.

Sappiamo già da tempo che il così detto piano casa non significava dare una casa a chi non ce l'ha. Per rimarcare con maggior coerenza tale impostazione, in questa versione della legge è stata eliminata completamente anche quella piccola quota di edilizia da destinare alla realizzazione di edilizia sociale, compresa la sua eventuale monetizzazione a favore dei Comuni.

Il piano casa consente solo a chi ha già una casa, o più case, o meglio ancora ville, di ampliarle in deroga ai piani regolatori comunali. I poveri continueranno a non aver casa, ma in compenso i ricchi possono aumentare le loro cubature e le loro rendite alla faccia dei regolamenti faticosamente adottati nei vari comuni, pagati e rispettati dagli altri cittadini.

Un'altra novità, carica di apporto “educativo”, introduce la possibilità a chi ha costruito abusivamente e condonato di poter usufruire di ampie premialità volumetriche; si potranno traslocare cubature sulle nostre fragili colline agricole e non contenti si potrà costruire finalmente anche nei parchi.[3]

Qualcuno dei fautori dell'attuale Piano Casa ha mai pensato di fare una valutazione costi/benefici prima di rilanciare il gioco? Mi pare proprio di no. Sul Piano Casa però non sono mancati i pareri degli esperti (dai giuristi ai sociologi ed economisti) e anche degli imprenditori più attenti e lungimiranti, e tutti hanno espresso pareri negativi.

Il territorio ligure, è ormai ciclicamente sempre più spesso devastato da eventi meteorologici violenti e improvvisi, che generano quello che tristemente sappiamo. Ormai basta poco, uno scavo, una villettina innocente, una pertinenzina sopra una linea ferroviaria, una stradina che si arrampica , per rompere il delicato equilibrio di un versante, per sfregiare un paesaggio, per compromettere un parco e un ecosistema, per mettere ancora più a rischio di frane e alluvioni la popolazione del fondo valle.[4]

Aumentare il carico e la volumetria degli insediamenti

non si traduce in un aumento automatico della ricchezza e del benessere per la popolazione e, tanto meno, in aumento di occupazione.[5] Chi invece pagherà i danni prodotti all’ambiente e al territorio da questo Piano Casa? Basta con il gioco delle contrapposizioni ambiente - salute e lavoro, non è più utile a nessuno, nemmeno al ricco che crede di potersi salvare fra le mura della sua villa “che cuba sempre di più”contornata da pertinenze condonate che potranno anche cambiare destinazione d'uso.

Occorre davvero ricordare ancora una volta che il problema casa nel nostro Paese non è affatto dato da un deficit di volumi, ma piuttosto dalla sua scadente qualità, dall'assoluta indifferenza alle sue caratteristiche energivore, dall'inesistenza di una politica di alloggi a basso costo. Non sarebbe più conveniente provare ad orientare e incentivare il lavoro qualitativo delle imprese per avere territori più sicuri, città più giuste e paesaggi più belli?

Non ci vuole molto a capire che questa legge non potrà mai raggiungere gli obiettivi in essa enunciati. Ma la questione più grave, che può passare in un primo tempo inosservata è contenuta nel secondo comma dell'art. 1. [6]

Il piano casa non è più strumento di deroga “temporanea” alla programmazione urbanistica comunale, ma diviene permanente, fino a quando gli strumenti urbanistici comunali non lo recepiranno al proprio interno, copiando le previsioni indicate, con il principio secondo cui o si inserisce com’è oppure si applica lo stesso.

Un ragionamento che rende permanente una deroga, (un controsenso), e nega la potestà al Comune di programmare lo sviluppo edilizio del proprio territorio in maniera diversa da quello che prevede questo provvedimento. Trasforma uno strumento, straordinario e limitato nel tempo, finalizzato ad un incremento dell'attività edilizia, in un nuovo atto perenne, parziale, inidoneo, generico, che prevarica la più specifica e adeguata programmazione comunale; non solo una palese violazione della possibilità dei Comuni di pianificare sul proprio territorio, ma certamente l'imposizione di regole, che per la loro astrazione risultano indifferenti alla conoscenza territoriale e vanificano per sempre gli sforzi degli Enti, compresa la Regione stessa, di pervenire ad una attenta, consapevole, corretta e democratica pianificazione urbanistica.[7]

Perché la pianificazione urbanistica.

Il governo del territorio si attua, di regola, attraverso piani. La collettività locale deve cioè prefigurare le proprie esigenze di tutela, di uso e di trasformazione del territorio attraverso atti giuridici vincolanti con “disegni ordinati di condotte future composte di più elementi combinati ...”(Giannini) che considerino la totalità dell’ambito spaziale di competenza (Corte costituz. n. 378 del 2000, n. 379 del 1994, 327 del 1990).

Ciò è stabilito con chiarezza lapidaria dall’art. 4, l. n. 1150 del 1942: “la disciplina urbanistica si attua a mezzo dei piani regolatori territoriali, dei piani regolatori comunali (…)”. E tutte le leggi regionali – comprese quelle di nuova generazione (approvate dopo la legge costituz. n. 3 del 2001) – sino a oggi hanno confermato, nonostante numerose differenze, la centralità dei piani nel governo del territorio.

La pianificazione costituisce un essenziale strumento per la conoscenza (fisica, culturale, economica ecc.) del territorio e delle sue dinamiche complessive ed è quindi una garanzia di razionalità dell’azione amministrativa. Ma - cosa ancor più importante - essa, dopo la Costituzione, invera il principio democratico, in primo luogo, perché è imputata a organi che rappresentano le collettività interessate (consiglio regionale, provinciale e comunale); in secondo luogo, perché le procedure di adozione e approvazione garantiscono trasparenza delle decisioni e partecipazione dei cittadini all’assunzione; in terzo luogo, perché il piano è lo strumento che assicura una relazione fisiologica tra ciascuna collettività locale (complessivamente considerata) e il territorio sui essa è insediata. Questo principio inoltre consente di governare il pluralismo amministrativo, evitando che si giunga alla frammentazione del territorio. Attraverso le procedure di adozione e l’efficacia differenziata (e reciproca) dei vari livelli di pianificazione (regionale, provinciale e comunale), le esigenze delle diverse collettività si armonizzano, dando vita a un contesto regolativo coerente.

Perché la pianificazione urbanistica comunale

Il piano è quindi il primo principio per una corretta e democratica gestione del territorio; il secondo principio fondamentale riguarda il ruolo centrale del Comune. Se in base al nuovo titolo V, parte II della Costituzione, Comuni, Province e Regioni, in quanto enti autonomi, devono essere titolari di funzioni amministrative relative all’assetto del territorio, in base al principio di sussidiarietà (art. 118, comma 1, Cost.), ai Comuni devono essere assicurate tutte le funzioni di pianificazione e di vigilanza che non necessitino di esercizio sovracomunale. In altri termini, la legislazione regionale deve individuare gli interessi che vanno amministrati nei piani regionali e provinciali, in quanto essenziali per le rispettive comunità; tutti gli altri devono di regola essere attribuiti ai “Comuni, principali titolari dei poteri pianificatori in materia urbanistica nonché dei poteri gestionali” (Corte costituz., n. 196/04).

In questa materia, come noto, l’autonomia comunale è stata ulteriormente rafforzata. Tanto è vero che, per opinione unanime, i compiti comunali di gestione del territorio sono oggi considerati come funzione fondamentale dei Comuni; funzione che, in quanto tale, è oggetto di legislazione esclusiva dello Stato e non può quindi essere oggetto di eccessiva compressione da parte della legislazione regionale (art. 117, 2 c., lett. p, Cost.).

In base a questo principio, quindi, è precluso alle leggi regionali di privare i piani urbanistici comunali di adeguati ed effettivi spazi di manovra, potendo, al più, prevedere la sottrazione di alcune competenze in considerazione di “concorrenti interessi generali, collegati ad una valutazione più ampia delle esigenze diffuse nel territorio” (Corte costituz. n. 378/00 cit.). Le leggi regionali sono tenute cioè a valutare “la maggiore efficienza della gestione a livello sovracomunale degli interessi coinvolti” (Corte costituz. n. 286 del 1997), e non possono in alcun caso rendere inoperanti i piani comunali che – essendo espressione di funzioni fondamentali – sono garantiti direttamente dalla legge statale, in funzione dell’autonomia comunale.

In sintesi, questo principio preclude alle norme regionali di consentire l’autorizzazione di trasformazioni (rilevanti come nella fattispecie) che non siano il frutto di una preventiva, adeguata e specifica ponderazione degli effetti sul territorio e sulla collettività insediata, attraverso un procedimento ispirato a rigidi criteri di pubblicità e imputato a organi che siano espressione diretta della collettività interessata.

Motivi di incostituzionalità

La legge 49/2009 come modificata dalla L.R. del 22 dicembre 2015 n. 22, presenta , quindi, indubbiamente diversi motivi di palese incostituzionalità. In primo luogo si pone in contrasto con l’art. 118 della Costituzione che definisce in linea generale l’attribuzione delle funzioni amministrative ai Comuni in attuazione del principio di sussidiarietà, successivamente con l’art. 117, comma 6 che attribuisce ai Comuni autonomia regolamentare delle funzioni a loro attribuite e con l’art. 117 comma 3 che mette il Governo del territorio tra le materie concorrenti tra Stato e Regioni e non in ultimo con l’art 117, comma 2, lettera S: nella parte in cui, avendo eliminato dalla legge 49/2009 la disposizione che ne escludeva l’applicabilità ai parchi, sembra volere una estensione della efficacia delle previsioni derogatorie anche all’interno degli stessi.

…ADOTTARE SUBITO UNA DELIBERAZIONE DI CONSIGLIO COMUNALE per.....
In attesa che questa legge venga (si spera) fermata per le palesi illegittimità che essa manifesta, i sindaci liguri, se non vogliono dimostrare indifferenza e accidia verso il loro territorio e far perdere al loro comune e ai loro cittadini la potestà di gestirlo divenendo sudditi dell'Amministrazione regionale, devono entro il 7 marzo adottare una delibera ai sensi dell’articolo 12 (Disposizioni transitorie) della L.R. n. 22/2015 per :

a) individuare le parti del proprio territorio nelle quali non trovano applicazione le disposizioni di cui agli articoli 3 e 3 bis della L.R. 49/2009 e successive modificazioni e integrazioni;

b) stabilire la superficie minima delle unità immobiliari derivanti dal frazionamento degli edifici oggetto di ampliamento o di mutamento di destinazione d’uso di cui agli articoli 3 e 3 bis della L.R. 49/2009 e successive modificazioni e integrazioni;

c) individuare le aree del proprio territorio nelle quali non è consentito il frazionamento degli edifici oggetto di ampliamento o di mutamento di destinazione d’uso di cui agli articoli 3 e 3 bis della L.R. 49/2009 e s.m.e i. stabilendo altresì che fino all’assunzione delle determinazioni comunali di cui sopra o fino alla scadenza del termine di sessanta giorni ivi previsto, non trovano applicazione gli articoli 3, 3 bis, 4 e 5 della L.R. 49/2009 come modificati o introdotti dalla L.R. 22/2015, ma continuano a trovare applicazione le previgenti disposizioni degli articoli 3, 4 e 5 della L.R. 49/2009.

Si ribadisce che “il potere dei Comuni di autodeterminarsi in ordine all’assetto e alla utilizzazione del proprio territorio non costituisce elargizione che le Regioni, attributarie di competenza in materia urbanistica, siano libere di compiere. Si tratta invece di un potere che ha il suo diretto fondamento nell’art. 128 della Costituzione, che garantisce, con previsione di principio, l’autonomia degli enti infraregionali, non solo nei confronti dello Stato, ma anche nei rapporti con le stesse Regioni, la cui competenza nelle diverse materie elencate nell’art. 117, e segnatamente nella materia urbanistica, non può mai essere esercitata in modo che ne risulti vanificata l’autonomia dei Comuni” (Corte Costituzionale - Sentenza n. 83/1997).

…..RENDERE IL PIÙ POSSIBILE INNOCUO QUESTO SCIAGURATO PREVARICANTE ed INIQUO “PIANO CASA”.

NOTE
[1] “Modifiche alla legge regionale 3 novembre 2009, n. 49 (Misure urgenti per il rilancio dell’attività edilizia e per la riqualificazione del patrimonio urbanistico – edilizio)”, pubblicata sul Bollettino Ufficiale della Regione Liguria, Parte I, Anno XLVI - N. 22 del 23.12.2015 (allegato il testo coordinato)
[2] Il 31 marzo 2009 si è giunti a un’Intesa in sede di Conferenza unificata; intesa ai sensi dell’art. 8, l. n. 131 del 2003, per “favorire l’armonizzazione delle rispettive legislazioni o il raggiungimento di posizioni unitarie o il conseguimento di obiettivi comuni”. Si è trattato quindi di un accordo politico. In base all’intesa, le Regioni si sono impegnate ad approvare nel termine di 90 giorni leggi che: a) consentano interventi fino al 20% della volumetria di edifici residenziali uni-bi familiari o comunque di volumetria non superiore ai 1000 metri cubi per un massimo di 200 metri cubi, al fine di migliorare anche la qualità architettonica e/o energetica; b) consentano, allo stesso fine, interventi straordinari di demolizione e ricostruzione con ampliamento per edifici a destinazione residenziale entro il limite del 35%; c) semplifichino e accelerino l'attuazione di detti interventi.
Le leggi regionali potevano però individuare ambiti in cui detti interventi fossero esclusi o limitati; tali interventi inoltre, salva diversa decisione, potevano avere validità temporalmente definita, comunque non superiore a 18 mesi. In caso di inerzia o ritardo il Governo e il presidente della Giunta regionale interessata “determinano le modalità procedurali idonee ad attuare compiutamente l'accordo, anche ai sensi dell'art. 8, comma 1, della legge n. 131/2003”.
Il Governo, dal suo canto, si era impegnato a emanare, entro 10 giorni, un decreto legge “i cui contenuti saranno concordati con le Regioni e il sistema delle autonomie” per “semplificare alcune procedure di competenza esclusiva dello Stato” e per “rendere più rapida ed efficace l'azione amministrativa di disciplina dell'attività edilizia”. Il decreto legge non è stato emanato, anche perché non si è trovato un accordo sul suo contenuto con le Regioni e con il sistema delle autonomie. Non di meno ad oggi le Regioni hanno legiferato sul punto, in maniera ovviamente disomogenea. Dal sito di www.eddyburg.it
[3]«Nella lettera inviata da FAI, Italia Nostra, WWF, LIPU e Legambiente ai Presidenti dei Parchi Nazionali e Regionali infatti si chiede con allarme e giusta urgenza che nelle loro aree protette non siano applicate le nuove norme del Piano Casa regionale, che consente anche lì interventi di ampliamento e di mutamento di destinazione d’uso di fabbricati non residenziali. I parchi sono infatti ciò che di più prezioso e tutelato abbiamo in merito ai beni paesaggistici. Se dovesse passare la concezione che perfino queste aree protette, già istituite, possano essere a rischio di interventi invasivi, questo non solo sarebbe in contraddizione con lo spirito e con gli obbiettivi della legge sul consumo di suolo che presto arriverà in Parlamento, ma costituirebbe un precedente pericoloso per tutto il paesaggio italiano».(ANSA).
[4]«Come Presidente dell’Osservatorio Nazionale per la Qualità del Paesaggio non posso che condividere l’allarme lanciato questa mattina da tutte le più rappresentative associazioni ambientaliste italiane sull’impatto che la nuova legge sul Piano Casa della giunta regionale della Liguria potrà avere sulla tutela delle aree protette di quella regione, il cui territorio ha già drammaticamente mostrato la propria fragilità». Così dichiara Ilaria Borletti, sottosegretario Ministero dei Beni Culturali e del Turismo con delega al Paesaggio. «La Liguria – conclude il sottosegretario Borletti — ha nel suo paesaggio una straordinaria ricchezza, che se valorizzata e prima di tutto tutelata può essere volano di turismo e sviluppo per il territorio».(ANSA).
[5]“E’ evidente il fallimento delle prospettive e del modello di sviluppo immaginato nel Piano casa – afferma il presidente di Legambiente Liguria - e non è con una semplificazione delle norme, che valuteremo non si tratti di una vera e propria deregulation cementizia, che si rilancerà l’edilizia. Occorre piuttosto un Piano di adattamento e mitigazione del dissesto idrogeologico per la sicurezza dei centri urbani, che coinvolga pubblico e privato per garantire un rilancio economico della nostra regione.(ANSA).
[6]art.1 comma 2. “Le disposizioni della presente legge operano in deroga alla disciplina dei piani urbanistici comunali vigenti e di quelli operanti in salvaguardia fino all’inserimento nel piano urbanistico comunale vigente o nel piano urbanistico comunale da adottare ed approvare ai sensi della legge regionale 4 settembre 1997, n. 36 (Legge urbanistica regionale) e successive modificazioni e integrazioni della specifica disciplina di agevolazione degli interventi di adeguamento e di rinnovo del patrimonio urbanistico-edilizio esistente con particolare riguardo agli immobili in condizioni di rischio idraulico ed idrogeologico o di incompatibilità paesaggistica e urbanistica in conformità alle regole e alle misure di premialità previste dalla presente legge e tenuto conto dei caratteri ambientali, paesaggistici ed urbanistici del proprio territorio.”
[7]«Il cosiddetto piano casa elaborato dalla Giunta regionale si configura come un vero e proprio superamento dell’ordinaria pianificazione urbanistica in Liguria. Una prospettiva che non può che suscitare preoccupazione». Lo afferma in una nota l’Istituto Nazionale di Urbanistica”.

QUI il pdf del testo della legge regionale 3 novembre 2009, N. 49 coordinato con la legge regionale 22 dicembre 2015, N. 22

L'articolo è stato inviato contemporaneamente a Informazione sostenibile on line

Il bilancio preventivo del presidente De Luca per i prossimi anni è l'occasione per un'analisi dei misfatti compiuti dalla legislazione urbanistica della Campania, di cui l'attuale, discusso Presidente si onora di essere il prosecutore. Lo strumento chiave: il trasversale "piano casa

"Con il comunicato stampa n. 1169 del 23 dicembre la regione Campania ha informato che, nella seduta del consiglio regionale del giorno precedente, «sono stati approvati a maggioranza i due documenti fondamentali e strategici dell’amministrazione regionale: il Documento di Programmazione Economico Finanziario (Defr), che per la prima volta ha dato una idea complessiva delle linee di governo della Giunta negli anni 2016 e seguenti, e la legge di Bilancio composta dalla legge di stabilità e dal Bilancio di previsione 2016-2018». Nell’elenco delle numerose Misure riorganizzative approvate figurano testualmente: «La proroga del Piano casa al 31.12.2017; La proroga della possibilità per i comuni di lavorare le pratiche dei vecchi condoni ancora in istruttoria relativi alle leggi dell’85 e ’94».

La giunta De Luca chiarisce così in modo lampante i propri orientamenti in materia di urbanistica, in continuità con le linee della precedente amministrazione di centro-destra.

Bisogna dire che il cosiddetto “piano casa” ha in Campania una genealogia del tutto trasversale: la sua prima formulazione regionale risale infatti agli ultimi mesi della giunta Bassolino, che macchiava così vistosamente l’apprezzabile lavoro compiuto con i precedenti provvedimenti per l’area a rischio del Vesuvio (2002), con la prima legge organica campana sulla pianificazione urbanistico-territoriale (2004), con la prima definizione (2004) del piano territoriale regionale (PTR) e con le linee guida del paesaggio, inserite nel PTR prima della sua definitiva approvazione (legge 13/2008).

La giunta Caldoro fra il 2010 e il 2015 ha coerentemente lavorato in direzione opposta. Certo, ha fornito qualche utile chiarimento circa l’articolazione del piano urbanistico comunale in componenti, strutturale ed operativa, riducendo le specifiche ambiguità in materia della legge 16/2004. Ma ha preteso di farlo con un semplice regolamento attuativo, il 5/2011, prestando così il fianco ad un contenzioso ora all’esame della Corte Costituzionale che rischia di invalidare anni di amministrazione dell’urbanistica nella regione. Per il resto ha costantemente tentato di smantellare le politiche per il territorio messe a punto dalla giunta precedente, a partire dal sistema integrato di mobilità e trasporti pubblici.

Per quel che concerne in particolare l’urbanistica e il paesaggio, l’amministrazione di centro-destra ha a più riprese mirato a cancellare o stravolgere specifiche disposizioni legislative precedenti inerenti al piano urbanistico-territoriale dell’area sorrentino-amalfitana o alla legge per la riduzione del rischio vesuviano o alle leggi per i condoni edilizi: il tentativo più cospicuo in tale direzione è stato condotto con un truffaldino disegno di legge per la pianificazione paesaggistica, la cui autentica finalità eversiva è stata fortunatamente contenuta dalla resistenza delle opposizioni, grazie anche ad una intensa mobilitazione culturale.

Sul “piano casa”, invece, la giunta Caldoro ha incontrato ostacoli assai minori. Sicché in Campania sono divenuti realizzabili, in deroga alla pianificazione vigente – e perfino negli ambiti disciplinati da piani specialistici con disposizioni diverse dalla assoluta inedificabilità –, interventi più che cospicui sotto il profilo dello sfruttamento delle parassitarie rendite urbano-immobiliari. A titolo esemplificativo, si possono citare esempi illuminanti.

Un edificio per uffici, o anche un albergo, con superficie utile lorda fino a 1.500 mq può essere diversamente destinato, in deroga al piano urbanistico, realizzando sole opere interne che non incidano su prospetti e sagoma e costituendo unità immobiliari non ulteriormente frazionabili: può quindi diventare un condominio residenziale con una trentina di mini-appartamenti.

Un albergo della dimensione di 10.000 mc che non abbia «goduto dei benefici contributivi», ubicato in aree urbanizzate diverse dal centro storico (ma anche in esso se costruito o ristrutturato negli ultimi 50 anni), può diventare, sempre in deroga al piano urbanistico, un condominio residenziale a patto che il 35% della volumetria sia destinato a edilizia residenziale sociale (cioè, in definitiva, riservato all’affitto): dando luogo, quindi, ad una quarantina di mini-alloggi “a mercato libero” e ad una ventina di alloggi vincolati all’affitto.

L’incremento di volume nella misura del 20% può essere realizzato a fini abitativi su edifici residenziali esistenti, ma perfino su edifici non ancora esistenti se realizzabili secondo le vigenti norme urbanistiche. E tale incremento si applica a immobili che appartengano ad una delle seguenti categorie: «a) edifici residenziali uni-bifamiliari; b) edifici di volumetria non superiore ai millecinquecento metri cubi; c) edifici residenziali composti da non più di tre piani fuori terra, oltre all’eventuale piano sottotetto». Dunque non c’è limite volumetrico per le categorie a) e c). E si può incrementare di un appartamento da 300 mc un capannone di 1.500 mc.

Deve poi considerarsi residenziale anche un edificio che abbia destinazione abitativa solo per il 55%. E si ammette il cambio di destinazione del residuo 45% se si tratta di pertinenze agricole di una casa rurale ubicata fuori delle zone agricole.

Quando invece si procede con interventi di demolizione e ricostruzione l’incremento volumetrico in deroga alla normativa urbanistica vigente sale al 35% ed è consentito incrementare anche il numero degli appartamenti «purché le eventuali unità immobiliari aggiuntive abbaino una superficie utile non inferiore a 45 mq».

Nelle zone agricole possono diventare spazi abitativi «del nucleo familiare del proprietario del fondo agricolo» (anche non coltivatore) le precedenti stalle, depositi, fienili e via dicendo e – sempre in deroga ai piani urbanistici – si possono realizzare «nuove costruzioni ad uso produttivo» (artigianale ? commerciale ?) nella misura di 0,03 mc/mq.

Gli edifici industriali dismessi da almeno tre anni possono essere – in deroga al piano urbanistico – integralmente sostituiti secondo due soluzioni: a parità di volume con mutamento di destinazione a residenze, uffici (non più del 10%), esercizi di vicinato o botteghe artigiane, purché riservando non meno del 30% per alloggi sociali; oppure, anche con un incremento di volume del 20%, con destinazioni produttive non meglio specificate (potrebbero essere di tipo terziario ? anche “direzionali” ?), perfino delocalizzando l’intera volumetria assentibile «se tale forma di intervento sia prevista nella programmazione urbanistica locale, sia ritenuta utile ed opportuna dal Comune, e vi sia la disponibilità dell’area alternativa rispetto a quella dove sussistono le volumetrie preesistenti oggetto dell’intervento».

Le esemplificazioni potrebbero continuare, ma è già sufficientemente chiaro che il “piano casa” in Campania fra il 2009 e il 2014 è diventato un carrello di attrezzi idoneo a far saltare qualunque coerenza di governo pianificato del territorio. Ed è l’efficacia di questo carrello che la giunta De Luca ha prorogato fino al 31 dicembre 2017.

Quanto al condono, la proroga riguarda solo le procedure amministrative comunali. Ma testimonia comunque l’attenzione della giunta regionale ai problemi degli abusivisti. Del resto, all’inizio della campagna elettorale il candidato De Luca si era premurato di sostenere che sarebbe stato impossibile abbattere tutta l’edilizia abusiva non condonabile. Il provvedimento del 22 dicembre possiede il sapore inequivoco di un segnale: in attesa di circostanze opportune ….

Chi possiamo ritenere abbia brindato con più entusiasmo al capodanno in Campania ?

In molte regioni per concorrere all’assegnazione di una casa popolare è necessaria un’anzianità di residenza. Non è un criterio efficace per riequilibrare il rapporto fra italiani ed extracomunitari assegnatari. Ma potrebbe essere usato come premio, rivedendo il sistema di punteggi e graduatorie». Lavoce.info, 21 luglio 2015 (m.p.r.)

Case popolari: se l’anzianità di residenza vale un premio

D’ora in avanti per concorrere all’assegnazione di una casa popolare in Emilia-Romagna sarà necessaria un’anzianità di residenza nella regione di almeno tre anni. È una condizione già introdotta (anche con un numero di anni maggiore) in altre regioni, nel tentativo di contenere lo squilibrio, a favore degli immigrati extracomunitari, nella concessione degli alloggi pubblici in affitto.

È probabile che gli italiani percepiscano come più immediata la concorrenza degli extracomunitari sul fronte della casa che non su quello del mercato del lavoro: molti immigrati svolgono attività non più gradite ai nostri concittadini, mentre sono pochi gli italiani che rifiuterebbero un aiuto per la soluzione del problema della casa, soprattutto se consistesse nell’assegnazione di un’abitazione popolare a canone molto basso. Per questo i politici da diversi anni si propongono di limitare l’accesso degli immigrati extracomunitari alle agevolazioni per la casa. Iniziò il governo Berlusconi (decreto legge 112/2008, primo piano casa) precludendo la possibilità di beneficiare del contributo per il pagamento dell’affitto, ex lege 431/1998, agli inquilini non residenti da almeno dieci anni in Italia o da almeno cinque nella stessa regione.
Le regioni impugnarono presso la Corte costituzionale la quasi totalità delle previsioni di quel piano, ma non quella concernente l’anzianità di residenza che, anzi, applicarono ai soli immigrati extracomunitari. Lo fecero con tempestività anche tre (Toscana, Umbria e Marche) delle quattro regioni “rosse” del Centro-Nord; la quarta, l’Emilia-Romagna, si è adeguata quest’anno, stabilendo che l’anzianità di residenza debba maturare senza interruzioni (una restrizione rispetto alla previsione della norma statale). Indipendentemente da come la si pensi sul piano politico, la misura è di pronta efficacia. La ragione è semplice: poiché il contributo è erogato sulla base del possesso dei soli criteri per accedervi, senza alcuna graduatoria di merito, gli inquilini privi dell’anzianità di residenza richiesta non possono richiederlo e ottenerlo.
Una condizione a efficacia ridotta

Non si può, invece, scommettere sull’efficacia, nel riequilibrare il rapporto extracomunitari/italiani nell’assegnazione delle case popolari, della condizione (che sembra valere per tutti gli immigrati) dei tre anni di residenza introdotta dalla Regione Emilia-Romagna. L’effetto immediato della nuova norma sarà la riduzione del numero di immigrati che potrà concorrere ai bandi. Poiché il numero di alloggi da assegnare è generalmente un piccolo sottomultiplo del fabbisogno, si ridurranno anche le liste di attesa, ma non la tensione abitativa.

La condizione di extracomunitario non ha alcuna influenza nella formazione delle graduatorie, le quali riflettono le situazioni materiali delle famiglie. Su di esse hanno, invece, un peso rilevante la condizione economica, la numerosità e le varie forme di disagio degli aspiranti inquilini. Le condizioni delle famiglie extracomunitarie, anche dopo qualche anno di permanenza in Italia, sono mediamente peggiori di quelle delle famiglie italiane. È questa la ragione per cui il vincolo dell’anzianità di residenza ridurrà il numero di immigrati che ricevono una casa in misura meno che proporzionale rispetto al calo del numero di quanti potranno concorre ai bandi.

Un premio all’anzianità

Anche la riduzione di quest’ultimo numero potrebbe non essere rilevante. In passato, ho svolto delle elaborazioni sulle circa 800 famiglie in lista d’attesa per l’assegnazione delle case popolari in un medio comune emiliano che attribuiva un punteggio all’anzianità di residenza. Gli extracomunitari erano il 40 per cento del totale dei nuclei in graduatoria, mentre quelli residenti nel comune da meno di tre anni erano il 9 per cento; quest’ultima percentuale non arrivava all’1,5 per cento considerando solo le prime trecento posizioni della graduatoria e raddoppiava se l’anzianità di residenza anziché a tre fosse stata portata a cinque anni. Restringendo ulteriormente l’analisi alle prime cento posizioni, che sono quelle che danno a chi le occupa le maggiori probabilità di ottenere una casa, per contare i casi in questioni sarebbero state più che sufficienti le dita di una mano.

Occorre, allora, prendere atto che quello dell’anzianità di residenza è un criterio del tutto sterile rispetto all’obiettivo per il quale è stato pensato? Questa conclusione drastica sarebbe sbagliata, poiché il criterio, anziché come condizione per aver diritto al beneficio, può essere usato in funzione premiale. Alcuni comuni lo fanno già. Per amplificarne gli effetti è, però, necessario attribuire all’anzianità di residenza un peso rilevante nel sistema dei punteggi per la formulazione delle graduatorie e farlo variare, tra un minimo e un massimo, in misura più che proporzionale con gli anni di permanenza nel comune. Si premierebbero il radicamento nel territorio e il contributo, anche fiscale, alla comunità, senza esporsi all’accusa di discriminazioni etniche. In Emilia-Romagna e anche nel resto del paese.

Un grande evento politico e culturale – di quelli che i nostri media normalmente ignorano per incompetenza e superficialità – rischia di passare inosservato ...>>>

Un grande evento politico e culturale – di quelli che i nostri media normalmente ignorano per incompetenza e superficialità – rischia di passare inosservato sotto le convulse vicende dello scontro politico dei nostri giorni. E' l’accordo sottoscritto dal Ministro per i Beni e le Attività culturali, Franceschini e dal Presidente della Regione Puglia, Vendola, che approva il Piano Paesaggistico Territoriale Regionale (PPTR.). Si tratta del primo piano paesaggistico elaborato in attuazione del Codice dei beni culturali e del paesaggio e della Convenzione europea del paesaggio, sottoscritta nel 2000, che raggiunge questo importante traguardo. In attesa che anche quello della Toscana, già ultimato, giunga in porto.

La Puglia dunque, una regione del nostro Sud, a livello programmatico, segna una svolta nella storia del rapporto tra la propria popolazione e il loro territorio con un progetto all'altezza di una grande pagina dell'elaborazione culturale europea dell'ultimo quindicennio. Alla costruzione del piano, hanno concorso - con il coordinamento di Alberto Magnaghi- amministratori, tecnici, imprenditori, associazioni culturali, ordini professionali, sindacati, singoli intellettuali. Il testo del Piano accenna, a questo proposito, alle «forti tensioni etiche di un ceto intellettuale cosmopolita» operante nelle città della Puglia, che hanno concorso a tale esito. Dunque, un grande laboratorio. attivo per diversi anni, i cui risultati meriterebbero una conferenza nazionale delle regioni italiane, per avviare una discussione generale, ma anche per innescare un movimento di imitazione e competizione tra i nostri amministratori, volto all'innalzamento degli orizzonti della politica territoriale nel nostro Paese.

Occorre dire, innanzi tutto, che il Piano rovescia la cultura territoriale che dal dopoguerra a oggi ha caratterizzato l'uso degli habitat della Puglia e dell'intero Mezzogiorno. Nel più nobile dei casi l'intervento pianificato ha visto nel territorio il neutro supporto per una industrializzazione importata dall' esterno, attraverso poli e nuclei di sviluppo, ma soprattutto la risorsa da consumare con fameliche e disordinate espansioni urbane. Un esito reso possibile dall'assenza di una cultura storica municipale, dalla pressione di forze economiche esterne, dai caratteri e dalle culture dell'imprenditoria locale ispirate a un «diffuso anarco-abusivismo privato», come si legge nel testo, accompagnato tuttavia anche da un «anarco-governo pubblico». Le istituzione pubbliche non sono state da meno nel rendere il territorio un contenitore vuoto da riempire con qualunque manufatto incarnasse un incremento economico.

Da quasi un decennio le cose sono cambiate in Puglia grazie al prezioso lavoro di Angela Barbanente, vicepresidente della Regione. Ma il Piano rovescia una lunga storia che va al di là del Mezzogiorno. Esso elabora orizzonti progettuali di grande ambizione, senza limitarsi alle aree monumentali e di pregio. Intanto mostrando come la pianificazione territoriale possa fare dell'eredità di bellezza e di lavoro - consegnataci nelle forme del paesaggio da numerose generazioni di contadini, architetti, urbanisti, imprenditori, artisti - non solo un percorso di nuove e sostenibili economie. Esso è certamente legislatore di divieti e di vincoli. Ad esempio, la costa è un bene comune di altissimo valore e non si costruisce più sulle dune e negli spazi agricoli. Le attività edificatorie si indirizzano verso l'interno al fine di rivitalizzare manufatti ed economie svuotate dall'esodo. In campagna si svolgono attività agricole, si fa ospitalità, ma non si deruralizza, né si impiantano capannoni industriali negli uliveti. «Regole certe e dure, ma proposte per creare un processo partecipativo vero, in grado di intercettare in modo coerente i mezzi tecnici, finanziari (ingenti!) e operativi di cui la Regione dispone, per nuove opportunità economiche».
Il piano è tutt'altro che una imbalsamazione dell'esistente. Esso si configura come un processo negoziale fra tutti gli attori in campo, senza centralismi soffocanti, chiama cittadini e imprese a partecipare attivamente realizzando economie compatibili, capaci di accrescere non solo i redditi individuali, ma anche i valori paesistici, il patrimonio comune. Esso si presenta come un vasto campo sperimentale di democrazia rappresentativa. Al suo interno sono previste istituzioni e strumenti di realizzazione, di cui non è possibile dar conto, come ad es. l’Osservatorio regionale per la qualità del paesaggio, l'Atlante del Patrimonio Ambientale, Territoriale e Paesaggistico, la Carta dei Beni Culturali, ecc. Un elemento di sicura originalità del Piano consiste nel fatto che le economie previste e incentivate si svolgono come agenti di potenziamento degli equilibri dell'habitat, di rigenerazione delle risorse, di tutela e restauro dell'esistente, di accrescimento dei valori paesaggistici, di estensione sociale del godimento della bellezza comune impressa nel patrimonio storico. Esso promuove filiere agroalimentari tipiche e di qualità, legate al territorio e ai paesaggi rurali storici, recuperando colture, culture e saperi locali ad essi connessi, «n forma non museale, ma funzionale ad un ripopolamento rurale in grado di promuovere qualità alimentare, ambientale, paesaggistica, urbana». L'accenno è alla produzione vitivinicola, olearia, alla frutticultura,ecc.
Al tempo stesso prevede il recupero delle produzioni artigiane (antica arte lapidea, della lavorazione del ferro, del legno); la riqualificazione degli immobili e delle aree compromesse o degradate, con la valorizzazione del reticolo policentrico di città d’arte piccole e medie che caratterizza i sistemi territoriali delle Puglie; l'incremento dell' autosufficienza energetica locale da fonti rinnovabili, grazie all'uso sostenibile delle energie presenti nel territorio (sole, vento, biomasse ecc); la ripresa dei sistemi tradizionali di conservazione e cura dell’acqua; lo sviluppo del turismo sostenibile come filiera integrata di ospitalità diffusa, culturale e ambientale; la promozione di progetti di cooperazione e scambio solidale “mediterranei”, che potenzi le peculiarità geografiche e storico-culturali della regione; l'incremento delle infrastrutture di mobilità, comunicazione e logistica di terra e di mare per la valorizzazione dei sistemi territoriali locali e la loro fruizione anche paesaggistica e turistica; il riconoscimento e la valorizzazione dell’immenso e pluristratificato patrimonio dei beni culturali; la tendenziale autoriproducibilità dei cicli dell’alimentazione (filiere corte fra produzione e consumo) dei rifiuti (rifiuti zero e riciclo della sostanza organica), dell’energia (produzione diffusa per autoconsumo) dell’acqua (equilibrio del bilancio idrico) e cosi via.
Sfidando la violenza omologante dei processi di globalizzazione, il PPTR ambisce a fondere in processi concorrenti e cooperanti le attività economiche, la salvaguardia dell'ambiente, la rigenerazione delle risorse, il restauro urbano, le culture locali, i monumenti urbani e rurali, la qualità conviviale del vivere insieme, la difesa della bellezza, la creazione di nuovo paseaggio. In una parola, il Piano non ambisce a promuovere sviluppo, come si dice da decenni, con un termine ormai sdrucito che testimonia l'esaurimento storico della cultura capitalistica dell'ultimo cinquantennio. Esso propone un percorso che porta a un nuovo assetto della nostra civiltà, progetta forme superiori di vita collettiva.
Il documento del Piano intanto mostra che cosa significa il termine paesaggio al di là delle retoriche correnti. Esso va «inteso non solo come veduta, “bello sguardo” ma indagato, decifrato si nella sua bellezza, ma soprattutto nelle regole della sua formazione storica, come specchio dell’anima dei luoghi e come teatro in cui va in scena l’autorappresentazione identitaria di una regione, “come parte essenziale dell’ambiente di vita delle popolazioni e fondamento della loro identità“ (art 5 della “Convenzione europea del paesaggio). In questa accezione esso è un giacimento straordinario di saperi e di culture urbane e rurali, a volte sopite, dormienti, soffocate da visioni individualistiche, economicistiche e contingenti dell’uso del territorio; ma che possono tornare a riempirsi di significati collettivi per il futuro. Il paesaggio è il ponte fra conservazione e innovazione, consente alla società locale di “ripensare se stessa”, di ancorare l’innovazione alla propria identità, alla propria cultura, ai propri valori simbolici, sviluppando “coscienza di luogo” per non perdersi inseguendo i miti omologanti della globalizzazione economica»,

Occorre, dunque, protendere uno sguardo lungo verso il futuro. Tutto il presente del capitalismo mostra una incontenibile tendenza: produrre sempre più merci con sempre meno valore. Avanza a scala mondiale una produzione standardizzata di beni sempre più vasta. Non è un caso che scompaiano i lavori e le professioni sostituibili con procedimenti automatizzati. Perciò il valore dei beni tende a rifugiarsi in ciò che non è standardizzabile, industrialmente riproducibile. Il nostro paesaggio, i nostri monumenti, la nostra storia, non sono replicabili, ma custodiscono una fonte inesauribile di valore. E non rappresentano delle nicchie, come amano dire riduttivamente gli sviluppisti: al contrario sono la nostra Arca, beni incontendibili dell'avvenire. Certo la Puglia, come qualsiasi altra realtà regionale e locale è un avamposto limitato. Nessuno può fermare la storia mondiale che avanza. Ma questa si può subirla, accettando gli interessi dominanti, soggiacendo alla sua furia omologatrice, o affrontarla da protagonisti, con progettualità, filtrandola e adattandola alla nostra storia originale, arricchendola dei nostri caratteri, contribuendo a valorizzare e a rafforzare, con una rete mondiale di alleati, gli elementi di emancipazione cosmopolita che essa pur sempre contiene.

L'articolo è stato contemporaneamente inviato al manifesto.

E' necessario «superare l’idea che il paesaggio e l’ambiente siano un settore. Con il PIT toscano il paesaggio e l’ambiente diventano elementi con i quali confrontarsi per la definizione di scelte di pianificazione territoriale, degli indirizzi strategici e per lo sviluppo socio economico». Il Corriere fiorentino, 8 ottobre

L’adozione del nuovo Piano di indirizzo territoriale regionale (PIT), chiamato Piano paesaggistico forse per sminuirlo, ha scatenato reazioni da parte di gruppi di interesse, associazioni, Enti locali, sindacati, professionisti più basate su un immaginario piuttosto che sugli effettivi contenuti del piano, tanto da ritenere che vi sia un interesse nel demolirlo, estraneo alla propria funzione. Basti pensare che il Piano si suddivide in due parti: Statuto del territorio e Strategia dello sviluppo delle quali solo la prima è stata modificata, mentre la seconda è rimasta invariata rispetto al PIT del 2007, con tutti i vari porti, approdi turistici, corridoi autostradali, aeroporti, (molti programmati negli anni 80 del secolo scorso), dei quali niente si è sentito dire dai vari critici. La più significativa di queste proteste è stata quella dei viticoltori, un vero e proprio regalo al Piano, in quanto accreditato del potere di condizionare scelte agronomiche che mai uno strumento a carattere territoriale si è sognato o è riuscito a fare. In effetti il Piano non dà nessuna prescrizione, si limita a dire che sarebbe opportuno contenere l’erosione dei suoli limitando le sistemazioni secondo la massima pendenza (il famoso ritto-chino che già il Testaferrata nel periodo della costruzione del bel paesaggio toscano sconsigliava). Avendo imparato a trasformare porcilaie in villette o a sbancare colline per realizzare cantine si sono probabilmente stupiti che qualcuno osasse mettere bocca sulla disposizione dei filari.

La più strana, per lo meno nei modi, è quella dell’ordine dei Geometri di Lucca, i quali si sono affidati ad una lettera-fiume aperta a Renzi in un avviso a pagamento pubblicato su Repubblica. Si capisce da alcune espressioni tipo paesaggi-fossili che ci si riferisce ad un presunto conservatorismo del Piano, ma la lamentela resta sul generico, giustificandosi dietro la scusa della complicazione (concetti difficili) e della mole del piano (3000 pagine). In realtà corposo nel Piano è il Quadro conoscitivo (è stato definito una Treccani), ma la parte effettiva di indirizzi, direttive e prescrizioni è piuttosto scarna e riassunta per schede d’ambito territoriale, per cui basta leggersi quella del proprio contesto territoriale per capirne i contenuti. Nel caso dei geometri di Lucca, la Provincia è stata divisa in tre ambiti per cui è sufficiente la lettura di 6 (sei) paginette, nelle quali viene concentrata la Disciplina d’uso che resta sempre ad un livello di indicazione territoriale (scala 1/50.000) e concettuale di stimolo alla progettazione più attuativa, con larghi margini di adattamento e interpretazione, come sempre quando si passa dalla visione territoriale a quella più minuta delle trasformazioni urbane ed edilizie. Meglio avrebbero fatto i geometri a riflettere sul ruolo che hanno avuto nel qualificare o peggiorare il paesaggio.

Merito del Piano è superare l’idea che il paesaggio e l’ambiente siano un settore, rientrino in valutazioni che interessano ad una porzione limitata della società. Con il piano in discussione il paesaggio e l’ambiente, vale a dire la natura e la storia, le regole profonde che hanno caratterizzato la costruzione delle nostre comunità, diventano elementi con i quali confrontarsi per la definizione di scelte di pianificazione territoriale, degli indirizzi strategici e per lo sviluppo socio economico. Ne dovrebbe conseguire che il territorio non è più tutto trasformabile, non è un’area bianca in attesa di valorizzazione economica tramite le previsioni e le trasformazioni urbanistiche. Diventa invece un palinsensto nel quale è scritto il codice genetico dell’intera comunità, da dove veniamo e dove vogliamo andare. La fine della mezzadria, del lavoro nei campi e l’inurbamento hanno prodotto una crisi culturale: non siamo più capaci, o fra poco non saremo più capaci, di gestire il territorio. Quello che prima era una cultura diffusa, il lavoro nei campi che garantiva il presidio paesaggistico, ora diventa un progetto da studiare, capire e governare. I problemi legati al tempo meteorologico bene evidenziano questi temi. Ogni volta gli eventi sono straordinari, per cui non si è potuto dimensionare o prevedere le contromisure adeguate. In realtà l’esperienza ci dice che non tutto il territorio è trasformabile e soprattutto non è trasformabile seguendo interessi o aspettative di breve respiro.

Finalmente, con il nuovo PIT e con il suo quadro conoscitivo, la Toscana non è più solo la collina delle immagini oleografiche, dei mulini bianchi, quella da vendere, ma è fatta anche di pianure, di coste, di monti che rappresentano storie e società locali varie, da guardare con una visione strategica aggiornata e più approfondita rispetto alle esperienze precedenti. È anche quella delle periferie urbane, di ambienti e paesaggi degradati, delle aree umide distrutte dagli interventi di trasformazione, con i quali è necessario confrontarsi e trovare gli strumenti per la loro rigenerazione. È questa una sfida decisiva sulla quale misurare la capacità di governo e invertire finalmente l’idea che si produca ricchezza solo con il consumo di suolo e di risorse ambientali. Dispiace quindi, ma speriamo che ci sia spazio nella fase di controdeduzione alle osservazioni, la timidezza con la quale vengono affrontati alcuni nodi delicati come il controllo delle trasformazioni d’uso, la riconversione delle aree produttive abbandonate, l’assetto delle coste con il tema dell’erosione, dei porti e degli approdi turistici che la provocano, la questione dei corridoio autostradale tirrenico.

Giovanni Maffei Cardellini, architetto urbanista. Ha progettato diversi piani regolatori e piani di centri storici, il Piano del Parco di Migliarino San Rossore con Pier Luigi Cervellati. Assessore all’urbanistica del Comune di Camaiore dal 1994 al 2002

Stimolata dall'articolo di Francesca Leder sull'urbanistica vicentina, Chiara Mazzoleni ci segnala questa suo scritto pubblicato sul sito Venetoius, Diritto e Giurispudenza in Veneto, il 9 giugno 2014, relativo ad una ricerca svolta in ambito dell'Università IUAV.

Un bilancio attento degli esiti dei nuovi piani comunali (dai Piani di assetto del territorio ai Piani degli interventi) nel Veneto – che verrà restituito in un volume di prossima pubblicazione – svolto da un gruppo di ricercatori e docenti (coordinato da chi scrive) del Dipartimento di progettazione e pianificazione in ambienti complessi dell’Università IUAV di Venezia, mette in evidenza come tra i nuovi strumenti urbanistici e i vari Piani Casa deliberati dalla regione ci sia una forte sintonia di intenti, relativamente al primato degli interessi proprietari e, più in generale, del mercato. Ancor più, larga parte dei dispositivi di pianificazione adottati a livello locale supera, in “espedienti”, degrado delle regole e comportamento opportunistico delle istituzioni, il contenuto dei Piani Casa.

Il quadro tracciato, a dieci anni dall’approvazione della legge di governo del territorio regionale (Lr n. 11/2004), non sembra affatto coincidere con quello rappresentato dalle dichiarazioni delle principali figure istituzionali – politiche e tecnico-amministrative – della regione. Queste affermano che il dispositivo “Piano Casa” dovrebbe servire a promuovere quel libero dispiegarsi dell’iniziativa privata, che i piani urbanistici ostacolano, con le loro previsioni decennali affidate a “mastodontici” strumenti. I quali, del resto, sono gli stessi che distinguono la nuova stagione urbanistica avviata con la legge regionale del 2004 e sono stati presentati, con grande propaganda, dai responsabili regionali come strumenti innovativi di governo del territorio finalizzati a garantirne “la tutela dell’integrità fisica e ambientale nonché dell’identità culturale e paesaggistica”. Dall’approvazione della legge si è assistito a una proliferazione di procedure, di atti, molti dei quali derogatori, e ai più svariati contenuti dei piani. Dobbiamo aggiungere che il 90% dei nuovi Piani di assetto del territorio (Pat) è stato redatto in regime di co-pianificazione con la struttura urbanistica della regione, i cui funzionari sono co-progettisti degli strumenti e, per questa funzione, hanno percepito uno specifico compenso aggiuntivo. Quindi, la responsabilità di questo stato dell’arte è essenzialmente dell’istituzione regionale e ne evidenzia il livello di incapacità e inefficienza raggiunto.

In assenza di una nuova legge quadro nazionale e di fronte alla frammentazione dei dispositivi regionali, l’unico quadro unitario è attualmente rappresentato dal Piano Casa di stampo “federalista”, promosso dal governo Berlusconi nel 2009, attuato in modo discrezionale da varie regioni e giunto alla terza edizione nel caso del Veneto.

Si tratta, nella sostanza, di un provvedimento straordinario, come i precedenti, “a sostegno del settore edilizio”, in deroga ai regolamenti e ai piani vigenti, che stabilisce misure “premiali” – dal bonus di cubatura, all’esonero dal pagamento degli oneri – per l’ampliamento degli edifici esistenti e per nuove costruzioni. Con il terzo Piano casa (Lr n. 32/2014), la regione Veneto ha introdotto una “innovazione” rispetto alle edizioni precedenti – già commentata da Gian Antonio Stella sul Corriere della Sera (sabato 25 gennaio 2014) – esautorando di fatto il ruolo dei governi locali nella gestione del territorio. Per rassicurare la sparuta schiera di sindaci che ha impugnato la legge regionale, il Vice Presidente della Regione con delega all’urbanistica, nonché ex-parlamentare di Forza Italia passato al Nuovo Centro Destra – Marino Zorzato – ha precisato che le disposizioni regionali non prevalgono su tutte le disposizioni, bensì solo su quelle che contrastano con i contenuti della legge! Come meglio commentare: oltre al danno, la beffa.

Il terzo Piano Casa intende l’aumento del volume del costruito quale modo più idoneo per contenere il consumo di suolo. Ciò non è una novità. Alcuni comuni del Veneto hanno da decenni praticato la “densificazione” del tessuto edilizio esistente, aumentando significativamente gli indici edificatori in modo indiscriminato e consentendo permute di volume tra lotti attigui. Nessuna valutazione è stata finora svolta sugli esiti perversi di queste trasformazioni del patrimonio edilizio esistente in termini di esternalità negative (tra le quali l’inadeguatezza delle reti infrastrutturali, il peggioramento della qualità urbana, il danneggiamento o il consumo di beni pubblici essenziali) e di conseguenti maggiori costi fatti gravare sulla collettività.

Diversi sono gli esempi che consentono di verificare cosa ha prodotto la densificazione, applicata in modo indiscriminato, e di denunciare lo stato di degrado istituzionale in materia di governo del territorio. Il più emblematico è quello di uno dei capoluoghi provinciali – il comune di Vicenza – che dispone sia di un Piano di assetto del territorio, redatto in co-pianificazione con la Regione, e di un più recente Piano degli interventi, lo strumento operativo, il solo di carattere conformativo, non soggetto a verifiche di istituzioni sovraordinate. Esaminando entrambi gli strumenti e soprattutto le modifiche introdotte nel Piano degli interventi dall’amministrazione comunale, si può a ragione sostenere che ci sia una sostanziale continuità, tra l’amministrazione di centro-destra precedente e quella attuale, nell’uso strumentale dei piani come dispositivi che meglio permettono di mobilitare l’interesse proprietario a fini elettoralistici. È evidente che si sia attuata una metamorfosi profonda dell’interesse generale, del tutto sostituito con l’interesse particolare o proprietario.

Per favorire discrezionalmente gli interessi particolari e aggirare il controllo del consumo di suolo, diversi sono gli “espedienti” utilizzati. Tra questi i più significativi sono i seguenti. In primo luogo la delimitazione disinvolta, nel Piano di assetto del territorio, delle aree di urbanizzazione “consolidata”, comprendente, oltre alle zone residenziali previste dal piano regolatore non ancora attuate, anche ampie aree agricole inedificate che possono così essere interessate da trasformazione edilizia in assenza di piani di lottizzazione. Quindi, la previsione – nel Piano degli interventi – di nuovi volumi edificabili, in gran parte aggiuntivi alle previsioni del Pat, per 470 nuove costruzioni “a volumetria definita” di 600 mc su lotti “virtuali” di 400 mq. Di dubbia legittimità in relazione all’effettivo consumo di suolo, queste nuove cubature sono disseminate nelle aree agricole di frangia e del tessuto disperso nonché in aree previste a standard e in zone di fragilità idraulica. Complessivamente si tratta di una volumetria aggiuntiva di 270.000 mc, che aumenta la dispersione insediativa, corrode in larga parte il territorio agricolo e occulta il consumo di suolo reale.

In sintesi: nessun Piano Casa riuscirebbe a “scardinare il vecchio modo di fare urbanistica” – come auspica il dirigente dell’urbanistica regionale, dimenticando che questo è il modo introdotto dalla legge urbanistica del 2004 – più di quanto dimostra di saperlo fare la “nuova stagione urbanistica” nel Veneto. In questo contesto, i governi locali che vogliono reagire a questa incultura urbanistica e si prefiggono di attuare un governo responsabile del territorio incontrano sempre maggiori difficoltà e sono spesso costretti a ricorrere presso i massimi organi di tutela giuridico-amministrativa per difendersi dai provvedimenti dell’istituzione sovraordinata.

Chiara Mazzoleni è docente di Urbanistica presso l'Università Iuav di Venezia

«La domanda è: cosa c’entra questo Piano casa con l’interesse pubblico? Come si può coniugare una pianificazione attenta ai bisogni della città e dei cittadini e rispettosa dell’ambiente con una legge che permette “in automatico” ai privati di moltiplicare cubature bypassando completamente il parere dei Comuni e i piani regolatori?». Carteinregola, 23 luglio 2014

Alla Regione Lazio riprende al rallentatore l’iter delle modifiche al “Piano Casa Polverini”, che in realtà riguardano solo il minimo indispensabile per non perdere la faccia. Faccia comunque ampiamente persa, se si considera che, quando era all’opposizione, il centrosinistra PD/SEL aveva eretto barricate contro la legge “moltiplicacubature” che oggi, con un piccolo lifting, rimane praticamente tale e quale. Ma i motivi di indignazione di chi ha votato per l’attuale governo regionale aspettandosi un cambio di rotta anche sul Piano Casa sono parecchi…


In un paese normale, quello che stiamo per raccontare sarebbe da tempo sui giornali, e noi potremmo limitarci a pubblicare i link degli articoli. Invece nessun quotidiano se n’ è finora occupato nè – possiamo scommetterci – se ne occuperà, e il nostro grido d’allarme raggiungerà, se va bene, quel migliaio di “soliti ambientalisti” che fanno sempre meno testo, mentre il nostro territorio continua a subire scempi irreversibili.

Questo l’antefatto. IL cosiddetto “Piano Casa” nelle intenzioni iniziali doveva servire a rilanciare l’edilizia offrendo la possibilità ai proprietari di casette uni o bifamiliari di “allargarsi” di qualche metrocubo. E così avviene in tutta Italia, ma in Lazio, quando arriva la Polverini, la legge regionale subisce una “mutazione genetica”, che consente, da un lato, di moltiplicare le cubature di qualunque edificio, compresi quelli non ancora esistenti, dall’altro, di modificare destinazioni d’uso di capannoni industriali ed uffici trasformandoli in appartamenti e persino in centri commerciali, senza più sottostare ad alcuna pianificazione pubblica (1). Le possibilità introdotte sono talmente eccessive che ben due ministri – Galan e Ornaghi – impugnano il “Piano casa Polverini” davanti alla Corte Costituzionale. Anche l’opposizione insorge, formando un fronte di lotta che va da Sinistra Ecologia e Libertà ai Radicali Italiani allo stesso Partito Democratico, cosicchè quando Zingaretti diventa il nuovo Presidente del Lazio, tutti si aspettano che ponga velocemente fine al “vulnus”.

Invece, non solo a un anno e mezzo dall’insediamento del nuovo Consiglio è ancora vigente il Piano Casa Polverini, ma, grazie alla delibera di Giunta approvata a settembre, il governo regionale ha convinto il ministro Bray – erede del ricorso – a chiedere, il 5 novembre scorso, il rinvio dell’udienza davanti alla Consulta. E in questi 9 mesi a nessuno è più venuto in mente di rimettere la questione nel calendario della Corte, nonostante il fatto che, se la legge fosse stata dichiarata incostituzionale, la retroattività della sentenza garantisse la cancellazione di molti efferati interventi in corso, compresi quelli che possono aggirare i vincoli delle aree protette.

Ma le cose sono andate anche peggio: infatti la proposta di legge 76 – quella costruita per “sanare” i rischi incostituzionalità, che avrebbe dovuto avere una corsia preferenziale, si affaccia solo ora al voto del Consiglio, mentre l’altra proposta, la 75, che contiene invece le misure edilizie - il “Piano casa Zingaretti” che ricalca in buona parte quello Polverini - non è stata ancora neanche calendarizzata.

Se poi a tutto ciò si aggiunge che una legge deve restare vigente almeno per un anno dalla sua approvazione e che la scadenza naturale del “Piano casa Polverini” è il 31 dicembre 2014, appare chiaro che le intenzioni di Zingaretti e del suo assessore Civita (e di buona parte del Consiglio, maggioranza e opposizione) sono quelle di prorogare il Piano Casa di un altro bel po’. Il centro destra, dal canto suo, ha già proposto in commissione di rinnovarlo fino al 2018.

Ma che la legge regionale sia prorogata di poco o di tanto, la domanda è: cosa c’entra questo Piano casa con l’interesse pubblico? Come si può coniugare una pianificazione attenta ai bisogni della città e dei cittadini e rispettosa dell’ambiente con una legge che permette “in automatico” ai privati di moltiplicare cubature bypassando completamente il parere dei Comuni e i piani regolatori ? Se il problema era quello di introdurre incentivi per l’housing sociale (la solita striminzita foglia di fico) si potevano trovare molte altre strade da percorrere sotto il controllo di un soggetto pubblico.

Per capire a cosa rischiamo di andare incontro: in questi giorni è esploso il dibattito sul nuovo stadio della Roma, e sullo “studio di fattibilità” del proponente privato che, per garantire “l’equilibrio economico”, chiede di costruire anche due torri di uffici che con lo Stadio non c’entrano niente. Si dice: ma i commi della legge di stabilità sugli stadi (2) se non altro impediscono la speculazione, vietando l’edificazione di residenziale. Forse sarà vero nel resto d’Italia, ma in Lazio il costruttore potrà, grazie al Piano casa Polverini-Zingaretti, chiedere il cambio di destinazione d’uso e trasformando gli uffici in case ancora prima della posa del primo mattone…

Che differenza c’è tra un’amministrazione di centro destra e una di centro sinistra? Se si dovesse giudicare da questa vicenda, praticamente nessuna…

Post scriptum: nei giorni scorsi l’Assemblea Capitolina ha approvato una delibera che concede ad alcuni privati che intendono avvalersi del Piano Casa ma che non hanno abbastanza superfici per gli obbligatori standard urbanistici (verde, servizi, parcheggi) di considerare come standard urbanistici aree appartenenti alla collettività (3). UNA SOLA DOMANDA: DOV’E’ L’INTERESSE PUBBLICO?

(1) La sintesi risponde alla realtà, ma per approfondimenti vedere Piano casa – cronologia materiali
(2) Scarica i commi della legge sugli stadi Legge 27 dicembre 2013 (commi stadi)
(3) vedi nostro post “Accade in Aula” del 9 luglio 2014

Riferimenti
Per approfondire sul sito di Carteinregola il confronto tra le proposte di legge regionale Marrazzo, Polverini, Giunta Zingaretti e numerosi altri documenti
In eddyburg gli articoli raccolti nella cartella Temi e problemi del vecchio archivio

Come ottenere il consenso dei Comuni e lasciare laRegione libera di trasformare a piacimento il territorio? Ce lo spiega.. .>>>


Come ottenere ilconsenso dei Comuni e lasciare la Regione libera di trasformare apiacimento il territorio? Ce lo spiega la "Proposta di adeguamento dellalegge urbanistica della Liguria" (febbraio 2014), che, con alcune limitatema significative integrazioni alla LR n. 36 del 1997, se approvata, raggiungel' obiettivo.

Vediamo come. Agliartt. 11 e 16 bis viene introdotta una innovazione cruciale: la Regione inambiti o aree o per interventi definiti dal Piano Territoriale Regionale (PTR)può promuovere, adottare e approvare progetti urbanistici o edilizi regionaliimmediatamente prevalenti sulle previsioni degli strumenti di pianificazioneterritoriale di livello metropolitano, provinciale e comunale. I progetti sonodi esclusiva competenza della Giunta, mentre il Consiglio non ha voce incapitolo, né tanto meno gli enti locali e i cittadini di cui non si prevedealcuna forma di partecipazione. La Giunta potrà così decidere in esclusiva su inceneritori,impianti di smaltimenti di rifiuti, centrali di produzione energetica, bretellestradali, ma anche porti, ospedali, carceri: insomma, tutto quello che nonrientra direttamente nelle grandi opere della legge obiettivo.

E i Comuni?Devono subire (ammesso che sia vero) i progetti della Giunta, ma allo stessotempo riacquistano una pressoché totale autonomia nella pianificazione localecon due semplici mosse. La prima: mentre nella legge vigente le prescrizioni delPTR dovevano essere recepite da Province e Comuni, pena l'esercizio di poterisostitutivi, questa fondamentale clausola è scomparsa nella Proposta. Non èchiaro, perciò, cosa avverrà qualora i Comuni non adeguino disciplina oprevisioni del Piano urbanistico comunale (PUC) entro il termine fissato.Qualcosa di simile si è verificato Toscana, dove la Regione può opporsi solodebolmente a un piano comunale in contrasto con il Piano di indirizzoterritoriale ed è impotente se questo viola la legge di governo del territorio:ciò che ha motivato una rabbiosa resistenza dei Comuni alla nuova leggeurbanistica approvata dalla Giunta regionale, che detta loro regole più stringenti.

Altrettantoimportante è la seconda mossa: né Regione né Provincia, né Città metropolitanaeserciteranno più alcuna forma di controllo sul Piano urbanistico operativo(PUO), lo strumento conformativo degli usi del suolo in cui si coagulano gliinteressi privati e le pressioni speculative. Se ora la Provincia può annullareun PUO non conforme alle prescrizioni regionali o provinciali, in futuro leistituzioni sovraordinate si troveranno inermi rispetto a un Piano operativoche ignori le disposizioni del PTR, del Piano provinciale e dello stesso Pianocomunale. L'esperienza toscana - analoga per le condizioni di permissività aiComuni - ha visto Piani strutturali pieni di buone intenzioni e Piani operativi(in Toscana, "Regolamenti urbanistici") che ne raddoppiavano dimensionamentie carichi urbanistici o introducevano varianti contestuali quando nonsurrettizie, senza che la Regione potesse (ammesso che volesse) esercitarealcun intervento di opposizione.

Le strategiedella precedente amministrazione regionale toscana e di quella attuale dellaLiguria si sostanziano in un patto politico in cui alla Regione spettano leiniziative e gli accordi con i poteri forti (con lo Stato, con le banche, conla grande imprenditoria), mentre ai Comuni spetta di gestire e trovare il consensodi un "battaglione edilizio" che, nonostante tutto, vede nellacementificazione del territorio l'unica via di arricchimento. Il fatto che laLiguria crolli sotto il peso delle grandi opere, delle attrezzature impattantie inutili (per la collettività) e per un'imprenditoria di retroguardia cheintende occupare ogni residuo suolo disponibile, evidentemente non turba gliamministratori regionali.

La nuova leggedella Toscana - già commentata su eddyburg - e la nuova legge della Liguria, sonoperciò due maniere radicalmente differenti di intendere il governo delterritorio, la partecipazione dei cittadini, la necessità di contenere ilconsumo di suolo. Due modelli opposti per la nuova legge urbanistica statale.Affidata questa al premier Renzi e al ministro Lupi, vi sono pochi dubbi suiquale modello prevarrà.

Nel disegno di riforma della legge regionale toscana le modifiche all’impianto procedurale sono integrate con una più estesa revisione dell’orientamento culturale, fondate sulla fertile distinzione tra "risorsa" e "patrimonio", cioè tra valora di scambio e valor d'uso. EyesReg, Vol.3, N.4 – Luglio 2013

Il recente articolo di Ferdinando Semboloni, pubblicato sul numero 3 (Vol.3, Maggio 2013) di EyesReg, affronta in maniera molto opportuna uno dei temi destinati ad incidere fortemente sulla pianificazione della Regione Toscana con prevedibili conseguenze anche sul dibattito nazionale: la riforma della Legge Regionale 1/2005 sul Governo del Territorio, recentemente proposta dall’Assessore Anna Marson. Un disegno di legge che, pur essendo ancora in una fase di definizione e modifica, ha visto fin da subito il netto contrapporsi tra Regione e Associazione dei Comuni, in particolar modo sui temi del controllo sugli strumenti operativi comunali e sulla reintroduzione di un sistema istituzionale-amministrativo accusato di essere eccessivamente piramidale (Semboloni, 2013).

Le preoccupazioni dei Comuni, seppur legittime, rischiano però di sviare l’attenzione dei media e degli amministratori stessi dai contenuti di natura culturale e tecnica introdotti e modificati dalla proposta di legge, ponendo al contrario maggiore attenzione sugli aspetti organizzativi e procedurali. Ferma restando l’impostazione originaria della legge oggi vigente, è possibile infatti leggere all’interno del nuovo articolato alcuni aspetti innovativi di ordine generale volti ad adeguare e risolvere problematiche gestionali e concettuali emerse negli otto anni di efficacia della 1/2005.

Già nei primi articoli del disegno di legge, quelli dedicati alla definizione degli obiettivi e delle finalità, è possibile ravvisare alcune modifiche lessicali interessanti per capire la nuova visione strategica e culturale che si pone alla base dell’azione normativa.
La promozione dello “sviluppo sostenibile delle attività pubbliche e private che incidono sul territorio”, enunciata al primo comma dell’art. 1 e definita appunto quale oggetto e finalità delle successive disposizioni, diventa nella nuova stesura “la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio territoriale inteso come bene comune”; un cambiamento – rilevato da Semboloni – solo apparentemente formale, che tuttavia manifesta una profonda revisione dei modelli socio-economici dai quali la legge trae ispirazione.

Il modello dello sviluppo sostenibile – di un processo cioè che, tenendo conto delle capacità di auto-riproduzione dei sistemi di risorse alle quali attinge, è per definizione orientato ad una progressiva dinamica di crescita – è sostituito e mutuato dalla possibilità che il sistema economico-territoriale permanga in una condizione di equilibrio nel quale le azioni umane divengono tese non tanto ed esclusivamente allo sviluppo quanto alla conservazione e alla manutenzione dei territori.
Il nuovo testo normativo sembra assumere la sempre più diffusa perplessità che possa esistere un modello di sviluppo permanente, ancorché sostenibile, e condividere la tesi che un modello di una crescita infinita in un mondo finito sia contrario alle generali leggi della natura. (Georgescu-Roegen, 1994).

Ne deriva una concezione essenzialmente meno dinamica dell’interazione tra azioni umane e ambiente e sicuramente meno antropocentrica. L’obiettivo della pianificazione è quello della salvaguardia e della valorizzazione agenti, continua il nuovo testo, “in funzione di uno sviluppo locale sostenibile e durevole” che tuttavia diventa una possibilità subordinata e non più un obiettivo.
E’ riscontrabile in questa impostazione la sempre maggiore influenza esercitata in ambito economico-sociale, complice forse anche il particolare momento che l’Europa sta attraversando, dalle teorie della decrescita, riproposte e articolate negli ultimi anni da molti autori fra i quali il più noto è Serge Latouche, sostenitore della necessità di nuovo modello sociale post-sviluppo basato appunto sull’assenza di crescita e di sovra consumo (Latouche, 2008).

Una lettura confermata da un’altra proposta di modifica che riguarda sempre il Titolo I della legge: la modifica dell’art. 3 e la sostituzione del termine “risorse essenziali del territorio” in “patrimonio territoriale”. Anche in questo caso il termine risorsa, che induce a una visione del territorio e dell’ambiente in chiave produttiva, come materia prima, è sostituito da un termine, quello di patrimonio, che rimanda ad una stratificazione di lungo periodo non necessariamente finalizzata allo sviluppo e alla trasformazione.

Una distinzione, quella tra risorsa e patrimonio, più volte sostenuta e approfondita anche da Alberto Magnaghi (2000), fautore di una visione nella quale è “utile distinguere il patrimonio (che … è di lunga durata e in essa si costruisce e si accumula) dal suo uso come risorsa (che è contingente e relativa al ruolo che una specifica civiltà gli attribuisce)”. Una visione nella quale, per usare i termini di Semboloni, l’invarianza è preminente rispetto al cambiamento (Semboloni 2013)
Si delinea quindi, seppur nei limiti di un testo normativo ancora fluido e mutevole, un parziale cambio del paradigma culturale che informa la legge e le conseguenti politiche di governo del territorio. Una modifica degli obiettivi alla luce di una visione post-sviluppo destinata giocoforza a prendere corpo nel dibattito urbanistico.

Un’altra linea di azione del processo di revisione è quelle tesa a precisare e definire alcuni strumenti normativi che rendano conseguenti e coerenti le parti statutarie degli strumenti urbanistici con quelle di natura più marcatamente operativa. E’ indubbio d’altronde come alcuni importanti temi della pianificazione abbiano assunto in questi anni una natura puramente dichiarativa, quasi con valenza di manifesto, per poi avere un’influenza minima nella pratica pianificatoria corrente.
Una volontà, quella di legare in modo più efficace gli elementi generali con quelli operativi, che è leggibile nelle modifiche riguardanti lo statuto del territorio, definito come cardine dell’identità dei luoghi e criterio di individuazione dei percorsi di democrazia partecipata dall’art. 5 del testo vigente e che viene rafforzato nella nuova stesura sottolineandone la valenza di “quadro di riferimento conformativo per le previsioni di trasformazione” da redigere attraverso la partecipazione delle comunità interessate.

La specificazione della natura “conformativa” e partecipata assegna così allo statuto del territorio una valenza che va ben oltre l’esposizione di auspici, indirizzi e generiche strategie andando ad interessare direttamente la disciplina d’uso dei suoli. Anche il tema del consumo di suolo agricolo è approfondito e spostato dalla generale enunciazione, finora limitata alla definizione della priorità del recupero e della riutilizzazione rispetto alla nuova edificazione (comma 4 dell’art.3 del testo vigente), alla precisa, e per certi aspetti radicale, individuazione degli ambiti suscettibili ad essere interessati da nuovi impegni di suolo. Nella proposta di legge, non unica ad avere una tale impostazione, (De Lucia 2013; AA.VV Eddyburg 2007) le previsioni di nuova edificazione potranno interessare solo le aree già urbanizzate e prive di caratteri di ruralità, operando così un sostanziale congelamento dei margini urbani esistenti. Le deroghe previste per gli insediamenti commerciali, produttivi e per le opere infrastrutturali vengono subordinate ad una verifica di sostenibilità nei confronti di una, forse poco precisata, area vasta.

Nell’ambito di una nuova articolazione normativa, rilevando alcune carenze emerse nell’attuazione della legge, è introdotta la proposta che forse più di tutte ha destato le opposizioni dei Comuni, ovvero la competenza della Regione ad esprimersi circa la conformità degli strumenti urbanistici, di qualsiasi livello, alla Legge regionale. Un passo indietro secondo i Comuni che leggono questa nuova impostazione come una negazione del principio di sussidiarietà tra i diversi livelli amministrativi introdotto nel 2001 con la riforma del titolo V della Costituzione, così da prefigurare, secondo l’ANCI, un sostanziale ritorno al sistema normativo del “command and control” . Finora infatti Regione Toscana e Province limitavano il loro ruolo alla verifica di conformità rispetto ai relativi strumenti della pianificazione sovracomunale senza esprimere pareri in merito alla conformità generale nei confronti della legge, e senza esercitare forme di controllo sui contenuti della pianificazione.

Vero è che una tale impostazione ha spesso escluso la verifica dell’attuazione delle politiche strategiche regionali e portato ad una generale disomogeneità di linguaggi e strumenti tra i Comuni toscani. Su questo tema, peraltro, la Regione ha già mostrato una forte attenzione: è in questi giorni al vaglio delle Commissioni del Consiglio un ulteriore disegno di legge, che prevede la modifica dell’articolo 144 della 1/2005 e assegna al legislatore regionale il compito di definire, attraverso uno specifico regolamento, parametri urbanistici e definizioni che siano comuni, omogenei ed uniformi per tutto il territorio regionale.

Nuove procedure interessano anche gli istituti della partecipazione, inseguendo anche in questo caso la necessità di superare procedure formali che poco o nulla incidono sul processo decisionale. L’intenzione appare quella di spostare e garantire l’effettivo coinvolgimento delle comunità nella fase di progetto del piano, in una fase cioè in cui le scelte sono davvero suscettibili di essere modificate e integrate con eventuali soluzioni alternative. A questo scopo è introdotta l’obbligatorietà dell’avvio del procedimento anche per la fase di redazione e di approvazione del piano e il rafforzamento del Garante della Comunicazione come Garante del Partecipazione.

Interessante è infine il ritorno ad alcuni temi della pianificazione intercomunale con l’introduzione della possibilità di redigere un unico Piano Strutturale che interessi più amministrazioni. La pianificazione di area vasta è un tema che, più volte naufragato a livello nazionale, continua ad essere cruciale per la pianificazione strutturale dei comuni toscani, troppo spesso stretti in confini amministrativi che poco rispecchiano le peculiarità dei territori, e che per questo meriterebbe un ben più articolato ed organico momento di riflessione e approfondimento.
Nel disegno di riforma della legge regionale toscana modifiche all’impianto procedurale sembrano quindi convivere, integrate, con una più estesa revisione dell’orientamento culturale. Difficile è oggi stabilire in quale misura questi aggiustamenti normativi possano dare concreta risposta ai complessi problemi emersi negli anni di efficacia della Legge 1/2005; certo rimane indubbia l’opportunità di riaccendere un dibattito e una discussione su tematiche territoriali che vadano oltre la contrapposizione partigiana tra i diversi livelli istituzionali.

Riferimenti bibliografici
AA.VV. Proposta di legge urbanistica, Eddyburg 20/02/2007,
ANCI Toscana, (2013), P.d.L. di modifica della L.R. 1/2005, Sintesi dei contenuti, ANCI Toscana, Working Paper.
ANCI Toscana, (2013), P.d.L. di modifica della L.R. 1/2005, I temi principali, ANCI Toscana, Working Paper.
De Lucia V. (2013), Una proposta di legge per la salvaguardia del territorio non urbanizzato, Eddyburg 03/06/2013
Georgescu Rougen N. (1994), La Décroissance. Entropie, écologie, économie, a cura di Jacques Grinevald e Ivo Rens, Parigi, Sang de la terre.
Latouche S. (2008), Breve trattato sulla decrescita serena, Torino: Bollati Boringhieri.
Magnaghi A. (2000), Il progetto locale, Torino: Bollati Boringhieri.
Marson A. (2006), Dalla città metropolitana alla (bio) regione urbana, in Marson A. (a cura di) Il progetto di territorio nella città metropolitana, Firenze: Alinea.
Semboloni F. (2013), "Le leggi urbanistiche regionali e il governo delle dinamiche territoriali", Eyesreg vol.3 n.3 maggio 2013
Semboloni F., (2013), "La Regione contro tutti. L’assessore riscrive la legge urbanistica regionale", Toscana Oggi, 3/4/2013

1. Si deve preliminarmente sgombrare il campo da un equivoco: l’espressione “piano casa” indica due politiche diverse. La prima è un programma nazionale (o meglio, una serie di programmi) per l’offerta di abitazioni a favore di una serie di categorie deboli, attraverso “la costruzione di nuove abitazioni e la realizzazione di misure di recupero del patrimonio abitativo esistente” (art. 11, d.l. n. 112/08, conv. l. 133/08 e d.p.c.m. 16 luglio 2009). Una vicenda molto istruttiva, che esula però dalla nostra narrazione.

La seconda – quella di cui ci occupiamo – è una strategia di deregolazione, che si è sovrapposta (in termini logici e cronologici) al programma di edilizia residenziale di cui al d.l. n. 112/08 cit.. Una breve illustrazione della sua genesi ne evidenzia l’incompatibilità con il vigente assetto costituzionale.

Del “ piano casa” si è discusso nella Conferenza unificata del 25 marzo 2009 a proposito dell’ampliamento di abitazioni monofamiliari e bifamiliari. Il Governo aveva predisposto una bozza di decreto legge. Ma presidenti di Regione e sindaci – premesso che il tema dell’ampliamento delle abitazioni è molto importante e avvertito dall’opinione pubblica – hanno manifestato perplessità e preoccupazione per l’emanazione di un decreto legge in questa materia, che è di legislazione concorrente, e hanno chiesto un approfondimento congiunto dell’argomento. Si è così deciso di istituire un tavolo tecnico-politico.

Il 31 marzo (o il 1 aprile: la data non è chiara) si è giunti a un’intesa in sede di Conferenza unificata; intesa ai sensi dell’art. 8, l. n. 131 del 2003, per “ favorire l’armonizzazione delle rispettive legislazioni o il raggiungimento di posizioni unitarie o il conseguimento di obiettivi comuni”. Si è trattato quindi di un accordo politico.

In base all’intesa, le Regioni si sono impegnate ad approvare nel termine di 90 giorni leggi che: a) consentano interventi fino al 20% della volumetria di edifici residenziali uni-bi familiari o comunque di volumetria non superiore ai 1000 metri cubi per un massimo di 200 metri cubi, al fine di migliorare anche la qualità architettonica e/o energetica; b) consentano, allo stesso fine, interventi straordinari di demolizione e ricostruzione con ampliamento per edifici a destinazione residenziale entro il limite del 35%; c) semplifichino e accelerino l'attuazione di detti interventi.

Le leggi regionali possono però individuare ambiti in cui detti interventi sono esclusi o limitati; gli interventi inoltre, salva diversa decisione, possono avere validità temporalmente definita, comunque non superiore a 18 mesi. In caso di inerzia o ritardo il Governo e il presidente della giunta regionale interessata “determinano le modalità procedurali idonee ad attuare compiutamente l'accordo, anche ai sensi dell'art. 8, comma 1, della legge n. 131/2003”.

Il Governo, dal suo canto, si è impegnato a emanare, entro 10 giorni, un decreto legge “ i cui contenuti saranno concordati con le Regioni e il sistema delle autonomie” per “ semplificare alcune procedure di competenza esclusiva dello Stato” e per “ rendere più rapida ed efficace l'azione amministrativa di disciplina dell'attività edilizia”. Il decreto legge non è stato emanato, anche perché non si è trovato un accordo sul suo contenuto con le Regioni e con il sistema delle autonomie.

Non di meno ad oggi dodici Regioni hanno legiferato sul punto, in maniera, appunto, disomogenea.

2. L’incostituzionalità di questa politica, risiede nella mancata individuazione con legge dello Stato di principi fondamentali in questo ambito.

Gli interventi in esame – che coinvolgono l’edilizia e l’urbanistica – rientrano nella materia “ governo del territorio” (es. Corte cost. n. 303/03, § 11.1); materia che spetta, in base all’art. 117, 3 c., alla legislazione regionale, salva la determinazione dei principi fondamentali del settore riservata alla legislazione statale. E’ altresì pacifico che la pianificazione urbanistica costituisce un principio fondamentale della materia.

Ebbene, con l’intesa del 31 marzo, il principio della pianificazione è stato (temporaneamente?) sostituito con il suo opposto, con quello cioè della generalizzata depianificazione: viene consentito un aumento di volumetria a prescindere dal riferimento al piano urbanistico, prendendo a parametro la sola volumetria (legittimamente) esistente in un dato momento.

La cosa è inaccettabile da diversi punti di vista. Per rimanere agli aspetti costituzionali, si deve osservare che il principio della depianificazione, in quanto nuovo principio della materia, avrebbe dovuto essere introdotto da una norma statale di rango legislativo.

Però con furbizia (e incoscienza), si è ritenuto di poter aggirare l’ostacolo rappresentato dalla legge dello Stato, in sua vece stipulando un’intesa in sede di Conferenza unificata: l’intesa tra il Governo, i presidenti delle Regioni e alcuni (2) rappresentanti dei Comuni e delle Province ha sostituito una legge del Parlamento, eludendo nel contempo il controllo del Presidente della Repubblica. Insomma, un accordo politico tra il Governo e gli esecutivi regionali, con l’avallo di rappresentanze di giunte comunali e provinciali, ha tenuto luogo di una legge.

Le possibili spiegazioni di questo modo di procedere sono due. Sciatteria, superficialità e insensibilità istituzionale. Oppure la contrapposizione concettuale tra legalità costituzionale (finta e chiusa) e “legittimitàdi una volontà realmente esistente” (dimostrata dall’ampio consenso al “piano casa” nel sistema del governo locale e tra gli elettori) e fondata sull’emergenza economica; ma questo modo di ragionare (e di governare) richiama alla mente tetri scenari e ideologie degli anni ’30. Probabilmente entrambi i motivi hanno animato i diversi protagonisti della vicenda.

E’ vero che il Governo avrebbe voluto emanare un decreto legge (forse per accaparrarsi i meriti dell’operazione) e che questa idea ha incontrato la ferma opposizione della Conferenza unificata. Ma in base all’intesa del 31 marzo, il decreto avrebbe dovuto contenere non un principio fondamentale della materia (quello della depianificazione provvisoria), ma strumenti di semplificazione di procedimenti di competenza esclusiva dello Stato. Il ricorso al decreto legge, inoltre, sarebbe stato illegittimo per carenza evidente dei requisiti del “caso straordinario di necessità e d'urgenza” (cfr. Corte cost. 171/07); e certamente non avrebbe surrogato questa carenza la retorica dell’emergenza economica in generale, e quella del settore edilizio, in particolare. Infine, in base all’intesa, al di fuori di ogni previsione costituzionale, il contenuto del decreto legge avrebbe dovuto essere concordato con le Regioni e il sistema delle autonomie.

3. La legge dello Stato contenente i principi fondamentali ha la funzione – oltre che di garanzia derivante dalla procedura parlamentare – di individuare elementi di uniformità che si impongano alla normativa regionale (cfr. es. Corte cost., 196/04, §20, per la quale tra i principi fondamentali della materia governo del territorio rientra “la determinazione delle volumetrie massime condonabili”). In questo ambito, la differenziazione è ammessa, entro i limiti rappresentati, appunto, dai principi fondamentali a tutela di valori unitari.

Nel nostro caso, invece, si sta realizzando una Babele urbanistica. Ma al di là delle differenze di carattere sostanziale tra le norme regionali (es. circa i limiti volumetrici), va segnalato un ulteriore profilo di incostituzionalità. Vi accenno rapidamente.

La pianificazione urbanistica è principio della materia del governo del territorio, ma, per opinione unanime, è anche funzione fondamentale dei Comuni, che, in quanto tale, è oggetto di legislazione esclusiva dello Stato (art. 117, 2 c., lett. p). Anche qui le funzioni fondamentali svolgono un ruolo uniformante nella configurazione dei Comuni sul territorio nazionale. Questa circostanza è ricca di conseguenze sulle quali non ci si può soffermare.

Un dato è certo: l’effettività della funzione pianificatoria è stata sospesa da questa manovra. L’intesa del 31 marzo costituisce dunque una palese violazione dell’autonomia comunale, ossia del rapporto tra la collettività e il suo territorio. Detto per inciso: alla Conferenza unificata del 31 marzo era presente solo il sindaco di Roma (e il rappresentante dell’ANCI), mentre erano assenti gli altri tredici sindaci che ne fanno parte (cfr. il verbale della Conferenza unificata n. 7/2009).

In ogni caso, in mancanza dei principi fondamentali, il ruolo delle amministrazioni comunali in relazione all’attuazione del “piano casa” è rimesso alla scelta delle singole Regioni che, senza alcun limite, possono calibrarne (o eliminarne) i compiti. Ciò – nell’attuale contesto – è però inammissibile.

4. Quanto detto dimostra che il sistema delle Conferenze (Stato-Regioni e Conferenza unificata) concretizza forme consociative ancora più opache e allarmanti di quelle che l’Italia ha conosciuto negli anni passati. Questa vicenda rappresenta un esempio concreto del mutamento in atto della forma di governo, nel senso della emarginazione del Parlamento a favore del sistema delle Conferenze; ciò produce una rilevante alterazione delle dinamiche democratiche stabilite dalla Costituzione.

Da più parti si sottolinea la necessità che il patrimonio edilizio italiano sia rinnovato e reso compatibile con il sistema ecologico; si sollecitano azioni pubbliche in tal senso. Ma è prioritario che tali politiche siano conformi alla Costituzione: il principio di legalità deve coprire sia la fase normativa sia quella amministrativa; deve cioè pervadere le norme di legge, gli atti di pianificazione, i provvedimenti abilitativi, le attività di vigilanza e di repressione. E' invece tristemente noto che nella gestione del territorio il principio di legalità stenta ad affermarsi, specie (ma non solo) nel Centro-Sud. E' quindi indispensabile il rilancio della cultura della legalità territoriale. Infatti, solo questa cultura potrà portare un vero e duraturo sviluppo economico.

E’ poi necessario che le politiche territoriali siano concepite e gestite con serietà e rigore, in modo da essere affidabili per i cittadini e per gli operatori. Nel nostro caso tutto ciò non è avvenuto, per responsabilità che si possono equamente distribuire tra il Governo e il sistema delle Conferenze (e dei soggetti che di esse fanno parte, anche se assenti).

In ogni caso, l’operazione “piano casaè un gigante con i piedi di argilla. Non è affatto improbabile che un singolo (perché animato da spirito civico o, più prosaicamente, perché leso nei suoi diritti) o un’associazione avvii un giudizio avverso una dichiarazione di inizio attività relativa a un ampliamento di volumetria: innanzi al giudice potrà far valere l’inconsistenza dell’impianto giuridico sotteso al “piano casa”, anche attraverso il rinvio alla Corte costituzionale della legge regionale pertinente.

Il sistema istituzionale – con intensità e toni diversi – ha eccitato l’opinione pubblica (e alcuni settori economici) sul tema degli ampliamenti delle volumetrie, ingenerando aspettative di varia natura. Se l’iniziativa avrà successo (se si apriranno molti cantieri), l’eventuale (e a mio parere, non improbabile) crollo dell’edificio non potrà che produrre confusione, insicurezze e contenziosi.

Si dimostrerà in tal modo che il “ piano casa” è, in realtà, un’impostura. Il tutto – come spesso accade – a spese del territorio.

L’autore è professore straordinario di diritto amministrativo nell’Università degli Studi di Salerno. Lo scritto riproduce – con lievi modificazioni – l’intervento al convegno “Fermare il Piano Casa, subito la vera grande opera: manutenzione del territorio, rottamazione edilizia e rilancio di un’edilizia sostenibile” organizzato a Milano il 10 ottobre 2009 dai parlamentari radicali e da Radicali italiani.

RELAZIONE

Il presente disegno di legge si inserisce nell’ambito della disciplina del governo del territorio di cui al terzo comma dell’articolo 117 della Costituzione.

Esso è finalizzato a consentire un adeguato rilancio dell’attività edilizia, nel rispetto dell’ambiente e del tessuto urbanistico esistente, e una sostituzione rapida del patrimonio edilizio fatiscente, obsoleto e non rispondente alla nuova situazione tecnologica ed energetica, con contestuale massima protezione dei beni storici, culturali e paesaggistici.

Il territorio regionale, infatti, è caratterizzato da una accentuata diffusione di abitazioni che risultano essere non idonee a garantire quelle caratteristiche strutturali e di sicurezza che oggi le normative richiedono; a ciò si aggiunge la recente crisi del sistema economico-finanziario che ha posto in luce la difficoltà di perseguire l’investimento-casa.

Sussiste quindi una reale necessità di promuovere una serie di misure per il sostegno del settore edilizio attraverso interventi finalizzati al miglioramento della qualità abitativa nonché a preservare, mantenere, ricostituire e rivitalizzare il patrimonio edilizio esistente e favorire l’utilizzo delle fonti di energia rinnovabile.

Il disegno di legge in oggetto persegue tali finalità attraverso i seguenti strumenti:

- possibilità di ampliamento degli edifici residenziali o assimilati nei limiti del 20 per cento del volume esistente; ampliamento nei limiti del 20 per cento della superficie coperta esistente di tutti gli altri edifici;

- possibilità per gli edifici realizzati anteriormente al 1989, che non siano adeguati rispetto gli attuali standard qualitativi, architettonici, energetici, tecnologici e di sicurezza e che non siano sottoposti a vincolo di conservazione, di chiederne l’abbattimento e la successiva ricostruzione con un aumento della cubatura, se residenziali, ovvero della superficie coperta, se destinati ad uso diverso, fino al 30 per cento oppure fino al 35 per cento ove si utilizzino tecniche di bioedilizia e di energie rinnovabili;

- rigoroso rispetto dei vincoli ambientali e paesaggistici e divieto assoluto di qualsiasi ampliamento per gli immobili abusivi;

- agevolazioni fiscali da parte dei Comuni per la realizzazione delle opere sopraindicate;

- interventi a favore delle installazioni di impianti fotovoltaici.

TESTO DELL’ARTICOLATO



Art. 1 - Finalità

1. La Regione Veneto promuove misure per il sostegno del settore edilizio attraverso interventi finalizzati al miglioramento della qualità abitativa, per preservare, mantenere, ricostituire e rivitalizzare il patrimonio edilizio esistente nonché per favorire l’utilizzo della fonti di energia rinnovabile.

2. Le disposizioni di cui alla presente legge si applicano anche agli edifici soggetti a specifiche forme di tutela a condizione che gli interventi possano essere autorizzati ai sensi della normativa statale, regionale o dagli strumenti urbanistici e territoriali.

Art. 2 – Interventi edilizi

1. Per le finalità di cui all'articolo 1, in deroga alle previsioni dei regolamenti comunali e degli strumenti urbanistici e territoriali comunali provinciali e regionali, è consentito l'ampliamento degli edifici esistenti nei limiti del 20 per cento del volume se destinati ad uso residenziale e del 20 per cento della superficie coperta se adibiti ad uso diverso.

2. L’ampliamento di cui al comma 1 deve essere realizzato in contiguità rispetto al fabbricato esistente; ove ciò risulti materialmente o giuridicamente impossibile potrà essere autorizzata la costruzione di un corpo edilizio separato, di carattere accessorio e pertinenziale.

3. In caso di edifici composti da più unità immobiliari l'ampliamento potrà essere realizzato anche separatamente per ciascuna di esse, compatibilmente con le leggi che disciplinano il condominio negli edifici, fermo restando il limite complessivo stabilito al comma 1.

4. Gli interventi di cui al presente articolo sono alternativi e non cumulabili con quelli previsti dalla legge regionale 23 aprile 2004, n. 11.

Art. 3 - Interventi per favorire il rinnovamento del patrimonio edilizio esistente

1. La Regione promuove la sostituzione e il rinnovamento del patrimonio edilizio esistente mediante la demolizione e ricostruzione degli edifici realizzati anteriormente al 1989 che necessitano di essere adeguati agli attuali standard qualitativi, architettonici, energetici, tecnologici e di sicurezza.

2. Per incentivare gli interventi di cui al comma 1, in deroga alle previsioni dei regolamenti comunali e degli strumenti urbanistici e territoriali comunali provinciali e regionali, sono consentiti interventi di demolizione e integrale ricostruzione, anche su area diversa, purché a ciò destinata dagli strumenti urbanistici e territoriali, che prevedano aumenti fino al 30 per cento del volume esistente per gli edifici residenziali e fino al 30 per cento della superficie coperta per quelli adibiti ad uso diverso.

3. La percentuale di cui al comma 2 può essere elevata fino al 35 per cento in caso di utilizzo delle tecniche costruttive della bioedilizia o che prevedano l’utilizzo delle fonti di energia rinnovabile.

4. Nel caso di ricostruzione dell’edificio su area diversa ai sensi del comma 2, l'area originariamente occupata dal fabbricato demolito dovrà essere gravata da un vincolo di inedificabilità.

5. Gli interventi di cui al presente articolo sono alternativi e non cumulabili con quelli previsti dalla legge regionale 23 aprile 2004, n. 11.

Art. 4 - Interventi per favorire l’installazione di impianti fotovoltaici

1. Non concorrono a formare cubatura le pensiline e le tettoie realizzate su abitazioni esistenti alla data di entrata in vigore della presente legge finalizzate all’installazione di impianti fotovoltaici, così come definiti dalla normativa statale, di tipo integrato o parzialmente integrato, con potenza non superiore a 6 kWp.

2. Le pensiline e le tettoie di cui al comma 1 sono realizzabili anche in zona agricola e sono sottoposte a DIA.

3. La Giunta regionale, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, stabilisce le caratteristiche tipologiche e dimensionali delle pensiline e tettoie di cui al comma 1.

Art. 5 - Oneri

1. Per gli interventi di cui all’articolo 2, il contributo di costruzione, ove dovuto, è commisurato al solo ampliamento ridotto del 20 per cento. La riduzione è pari al 60 per cento nell’ipotesi di edificio o unità immobiliari destinati a prima abitazione del proprietario o dell’avente titolo.

2. Il contributo di costruzione dovuto per gli interventi di cui all'articolo 3 è determinato in ragione dell'80 per cento per la parte eseguita in ampliamento e del 20 per cento per la parte ricostruita ed è comunque ulteriormente ridotto del 50 per cento in caso di edificio od unità destinati a prima abitazione del proprietario o dell’avente titolo.

3. I comuni possono stabilire ulteriori riduzioni del contributo di costruzione od incentivi di carattere economico in caso di utilizzo delle tecniche costruttive della bioedilizia o che prevedano il ricorso alle energie rinnovabili.

Art. 6 – Elenchi

1. I comuni, a fini conoscitivi, provvedono ad istituire ed aggiornare l'elenco degli ampliamenti autorizzati ai sensi degli articoli 2 e 3.

Art. 7 – Ambito di applicazione

1. Fermo restando quanto previsto all’articolo 4, gli interventi di cui alla presente legge sono subordinati al titolo edilizio previsto dal decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380.

2. L'istanza intesa ad ottenere il titolo abilitativo per gli interventi di cui all’articolo 2 non può riguardare fabbricati ultimati dopo il 31 dicembre 2008.

3. Le istanze relative agli interventi di cui agli articoli 2 e 3 devono essere presentate entro 24 mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge.

4. I comuni, entro il termine perentorio di sessanta giorni dall'entrata in vigore della presente legge, possono escludere l'applicabilità delle norme di cui agli articoli 2 e 3 in relazione a specifici immobili o zone del proprio territorio, sulla base di specifiche valutazioni o ragioni di carattere urbanistico, edilizio, paesaggistico, ambientale, come pure stabilire limiti differenziati in ordine alle possibilità di ampliamento accordate da detti articoli, in relazione alle caratteristiche proprie delle singole zone e del diverso loro grado di saturazione edilizia.

5. Gli interventi di cui alla presente legge sono subordinati all'esistenza delle opere di urbanizzazione primaria ovvero al loro adeguamento in ragione del maggiore carico urbanistico connesso al previsto aumento di volume o di superficie degli edifici esistenti.

6. Non può essere riconosciuto alcun aumento di volume o di superficie ai fabbricati, anche parzialmente, abusivi soggetti all'obbligo della demolizione, così come agli edifici che sorgono su aree demaniali o vincolate ad uso pubblico o dichiarate inedificabili per legge, sentenza o provvedimento amministrativo.

7. La presente legge non può essere applicata agli edifici aventi destinazione commerciale al fine di derogare alle disposizioni regionali in materia di programmazione, insediamento ed apertura di grandi strutture di vendita, centri commerciali e parchi commerciali.

8. È fatto salvo quanto stabilito dal decreto legislativo 22 gennaio 2004 n. 42 per gli immobili aventi valore culturale o paesaggistico.

Art. 8 – Dichiarazione d’urgenza

1. La presente legge è dichiarata urgente ai sensi dell'articolo 44 dello Statuto ed entra in vigore il giorno successivo alla data della sua pubblicazione nel Bollettino Ufficiale della Regione del Veneto.

Molte ombre nella recente legge regionale n. 12 del Friuli Venezia Giulia, che ha modificato – in parte - la precedente (e anch’essa recente) legge n. 5 del 2007 in materia di urbanistica, edilizia e paesaggio.

La proposta iniziale è stata presentata dai capigruppo della maggioranza di centro-destra (PDL, LN, UDC e gruppo misto), la stessa che ne ha imposto l’approvazione in gran fretta. Contrarie le opposizioni di sinistra e centro-sinistra, più che altro in nome della difesa della precedente legge 5, fortemente voluta dalla maggioranza che reggeva la Regione fino alle elezioni dell’aprile 2008 e assai criticabile per molti aspetti. Ad esempio per le procedure inutilmente complesse introdotte nella pratica urbanistica comunale, così come per i contenuti al tempo stesso ridondanti, pericolosi (l’enfasi ossessiva su alcune grandi infrastrutture) e inefficaci (dal punto di vista della tutela del paesaggio) del Piano territoriale regionale, che dalla legge deriva.

Cambiata la Giunta regionale, si sarebbe trattato di mettere mano alla legge 5 e al PTR, semplificandoli laddove necessario, ma soprattutto correggendoli per renderli efficaci nell’affrontare le vere emergenze: l’abnorme consumo di suolo per l’espansione delle aree urbanizzate (mentre la popolazione è numericamente stabile da decenni) e il conseguente degrado del paesaggio.

Nulla di tutto ciò si rinviene nella nuova legge, il cui principale intento è invece quello di permettere “il pieno svolgimento della funzione pianificatoria territoriale dei Comuni”, che si sostiene essere impedito dalle norme della legge 5, laddove queste subordinano la possibilità di formare nuovi piani regolatori - o varianti degli stessi – al recepimento da parte dei Comuni delle indicazioni del Piano Territoriale Regionale (PTR). Il quale, adottato nell’ottobre 2007, non è stato però approvato e quindi non è entrato in vigore.

In realtà, anche la legge 5 (o meglio il suo regolamento di attuazione) permetteva, in attesa dell’adeguamento al PTR, l’adozione di varianti “non sostanziali” ai piani regolatori, con incrementi fino al 10 per cento per le zone urbanizzate (residenziali, industriali, commerciali, ecc.).

La nuova legge aumenta fino al 20 per cento questa “flessibilità” per quasi tutti i Comuni, salvo quelli con popolazione superiore a 15.000 abitanti (vale a dire Trieste, Udine, Pordenone, Gorizia e Monfalcone), per i quali rimane il limite del 10 per cento. Che comunque non è poco … Non solo: una norma transitoria della legge 5 ammetteva la possibilità, per i Comuni, che avessero adottato delibere di direttive prima dell’entrata in vigore della nuova legge, di formare e approvare le varianti ai propri strumenti urbanistici secondo le procedure della vecchia legge 52/1991 (e praticamente tutti i Comuni lo avevano fatto…).

Evidentemente, però, a qualcuno non bastava ancora ed ecco quindi la nuova legge 12/2008, motivata ufficialmente con la necessità di “far uscire dalla paralisi la pianificazione locale dei Comuni” ed “evitare danni al sistema economico e produttivo”.

La legge esclude riduzioni di superficie per le zone forestali e di tutela ambientale, ma non per quelle agricole, quando è noto che sono soprattutto queste ultime a soccombere – da decenni – sotto l’assalto del cemento e dell’asfalto. Non per nulla, le statistiche dell’Agenzia protezione ambiente e territorio – APAT oggi ribattezzata ISPRA – sebbene compilate con metodologie sommarie, che sottostimano l’entità del fenomeno, indicano proprio nel Friuli Venezia Giulia una delle Regioni italiane con la maggior percentuale di territorio agricolo sacrificato all’urbanizzazione, superata soltanto da Veneto e Lombardia.

Basti dire che solo tra il 1990 e il 2000 l’incremento nell’estensione delle aree urbanizzate a scapito di quelle agricole è stato pari ad oltre 3.426 ettari, cioè il 55 % di quello registrato in Veneto e il 66 % di quello della Lombardia, benché il territorio del Friuli Venezia Giulia sia pari soltanto al 43 % di quello veneto e al 33 % di quello lombardo. Nello stesso arco di tempo, peraltro, l’estensione delle aree boschive e semi-naturali in Veneto e Lombardia è aumentata (sia pure di poco), mentre in Friuli Venezia Giulia è diminuita di 257 ettari.

Va detto poi che i comuni con meno di 15.000 abitanti rappresentano la quasi totalità del territorio regionale, in particolare di quello agricolo e naturale (si pensi alle zone montane, a quelle lagunari, alle aree fluviali, ecc.). Allentare le redini nei loro confronti, non rappresenta certo un buon servizio reso alla corretta e razionale gestione del territorio. Chiunque si sia anche superficialmente accostato al problema, sa infatti che sono proprio i Comuni il principale “motore” delle cementificazioni e della distruzione del paesaggio. Basta fare un giro per la regione e avere occhi per vedere, per accorgersi degli scempi compiuti (e che si continuano a compiere), con le villettizzazioni nelle aree costiere, la proliferazione di aree commerciali nelle periferie e in aperta campagna, la “saldatura” edificatoria tra un centro abitato e l’altro lungo gli assi viari, ecc. Soprattutto, con la progressiva scomparsa del paesaggio agrario, seppellito e stravolto da miriadi di capannoni artigianal-industrial-commerciali, con l’inevitabile corredo delle infrastrutture connesse (strade di ogni genere e dimensione, piazzali di parcheggio, linee elettriche, tralicci di antenne per telefonia, ecc.).

Anche in Friuli Venezia Giulia, quindi, avanza a grandi passi il modello della “città diffusa”, che ha già devastato il vicino Veneto e in varia misura l’intera pianura padana, producendo degrado estetico – quando non totale distruzione - dei luoghi, scomparsa delle condizioni minime di sopravvivenza degli ecosistemi naturali, insostenibile congestione da traffico, e quindi anche gravi inefficienze sul piano prettamente economico. Tutto ciò non dipende soltanto dalla pressione politico-economica che il comparto dell’edilizia (e della speculazione immobiliare) esercita su amministrazioni comunali spesso prive anche di un minimo spessore culturale per opporvisi. Deriva com’è noto anche dalla dipendenza, in moltissimi casi determinante, dei bilanci comunali dalle entrate dell’ICI e da quelle degli oneri di urbanizzazione. Il che ovviamente incentiva i Comuni ad urbanizzare quanto più possibile, per finanziare la “macchina” comunale ed i servizi erogati ai cittadini. L’abolizione dell’ICI sulla prima casa non ha certo intaccato questo perverso legame tra finanze comunali e cementificazione del territorio (i Comuni favoriranno, anzi, ancor di più le urbanizzazioni a fini commerciali e produttivi, la proliferazione dei capannoni, ecc.), mentre un ulteriore contributo al disastro viene dalla norma demenziale, in base alla quale il 75 per cento degli introiti derivanti dagli oneri di urbanizzazione - anziché essere destinati alla realizzazione di fognature, aree verdi, ecc. - possono essere dirottati alla copertura delle spese correnti dei Comuni.

Una riforma davvero federalista dovrebbe affrontare prioritariamente questo genere di problemi, individuando forme di tassazione locale, che garantiscano il funzionamento dei Comuni, senza incentivare la distruzione del territorio. Non è questa, purtroppo, la priorità dei “federalisti” nostrani i quali, se lo fossero davvero, dovrebbero sapere meglio di tutti che il territorio ed il paesaggio sono – anche – il deposito di valori identitari fondamentali per una comunità. Proprio sulla difesa dell’identità, del resto, molti federalisti di casa nostra hanno costruito le loro fortune politiche: peccato che si tratti esclusivamente di una difesa contro le “contaminazioni” e l’”insicurezza” prodotte dal contatto con culture diverse (immigrati, altri italiani, ecc.). Nessuna attenzione pare vi sia, invece, per le aggressioni che l’identità di una comunità subisce dal proprio interno, per esempio appunto con il degrado progressivo dei luoghi, motivato magari da interessi economici di pochi che fanno leva sul menefreghismo e sull’ignoranza di molti. In un recente incontro con un assessore regionale del Friuli Venezia Giulia (non quello competente in materia di urbanistica, ma comunque un federalista “doc”), il WWF si è sentito dire che “una comunità dev’essere padrona di fare quello che vuole del proprio territorio. Se decide di trasformarlo in una grande discarica, è giusto che lo possa fare”. Ogni commento pare superfluo.

Pericolose sono anche altre norme della legge 5, come quella che esclude il controllo della Regione sui piani regolatori di tutti i Comuni montani e di quelli con popolazione inferiore a 2.500 abitanti, i quali rappresentano la maggioranza del territorio regionale, proprio nelle aree di maggior pregio naturalistico e paesaggistico.

Ancora: viene rinviata sine die la stesura della “relazione sullo stato del territorio” da parte dei Comuni (strumento viceversa utilissimo per la conoscenza dello stato della pianificazione, introdotto dalla legge 5/2007), mentre perdura un sostanziale lassismo in materia di delega ai Comuni delle autorizzazioni paesaggistiche. E non si può certo dire che la maggioranza dei Comuni abbia ben operato in questo campo, visti gli ampi poteri già ottenuti con la legge 52 del 1991

Tra i pochi aspetti positivi della legge 12/2008, il recupero della facoltà (eliminata dalla legge 5/2007) di imporre norme di salvaguardia anche contestualmente all’emanazione delle direttive per la formazione dei piani regolatori e delle varianti. Uno strumento importante nelle mani di Comuni che vogliano davvero proteggere il proprio territorio dallo strapotere della speculazione edilizia. Sempre che lo vogliano utilizzare davvero. Positivo poi il ritorno alla competenza dei Consigli comunali (la legge 5/2007 l’attribuiva alle Giunte) nell’approvazione dei piani particolareggiati.

Rimane però il “buco nero” della pianificazione d’area vasta, che è sinonimo soprattutto di piano paesaggistico (inesistente in Friuli Venezia Giulia). Sospeso nel limbo il PTR adottato nel 2007, ci si deve accontentare delle dichiarazioni di alcuni politici, secondo cui una nuova stesura del piano sarà pronta “entro due anni”, mentre ad un non definito futuro è rinviata anche una riforma organica dell’intera materia urbanistica. E’ verosimile che si intenda - in realtà – aspettare la nuova legge quadro annunciata a livello nazionale: si tratta ovviamente della riedizione della famigerata “legge Lupi”!

Maggiori informazioni e documenti sull’argomento nel sito del WWF Friuli Venezia Giulia: www.wwf.it/friuliveneziagiulia

Tuteliamo l’ambiente,

lo sviluppo non è un blob

di Sandro Roggio

Sono abituato a leggere tra i sottintesi del confronto sui temi urbanistici, eppure questa volta ho difficoltà; e immagino quanto possano sembrare indecifrabili ai più le notizie sul dibattito che si svolge in Consiglio sulla legge urbanistica, tra attese e rinvii. Ci sarà modo di entrare nel merito quando si conoscerà la versione finale della legge. Dico che mi aspettavo meno indecisioni, sui punti di maggiore contrasto un messaggio più netto. Gli argomenti dei detrattori delle politiche di tutela - quelli che hanno detto tutto il male del Ppr in occasione del recente referendum - sembravano contraddetti una volta per tutte dai drammatici e innaturali disastri di Capoterra. E pure dall’insuccesso clamoroso del referendum.

Mi sfuggono le incertezze riguardo al vincolo della fascia di 300 metri dal mare che è già acquisito non solo in sarde leggi, ma pure nella consapevolezza dei sardi. Ammetto che mi aspettavo un simbolico avanzamento nella tutela di questo delicato pezzo di terra e sabbia che il Ppr protegge in modo esteso. E non una proposta di riduzione del vincolo. Perché ricordo che negli anni Settanta il vincolo costiero era di 150 mt e negli anni Ottanta di 300 mt - quando la coscienza sul valore dei beni comuni era un po’ meno solida e forse la politica più disposta a rischiare.

Credo pure che le campagne debbano essere conservate per la loro funzione e che le spinte a consentire usi non connessi all’agricoltura debbano essere contrastate, perché così è nelle regioni civili d’Europa. Capisco che nello sfondo di queste indecisioni resiste l’equivoco: quello secondo cui la tutela frena lo sviluppo e sviluppo sta per crescita dei cantieri edili aperti.

Eppure lo sviluppo non è quel blob che si può vedere grazie a Google Earth. Sviluppo non è ammettere che chi vuole possa usare la terra senza restituire nulla: sottraendo bellezza ai paesaggi, togliendo fertilità ai suoli, sopprimendo i segni di antiche frequentazioni.

Lo hanno capito i sardi che così non va, che la tutela - senza scappatoie - serve oggi e sarà utile nei prossimi anni. E siccome vorrei una buona legge, spero che la gran parte dei consiglieri siano convinti di questo.

Semplificate le procedure dei Puc

Dubbi sul vincolo dei 500 metri

di Alfredo Franchini

CAGLIARI. I lavori del Consiglio sulla nuova legge urbanistica erano stati avviati a rilento perché in molti avrebbero voluto un rinvio delle norme in commissione. La legge era arrivata in Consiglio subito dopo il referendum sulla cosiddetta legge salvacoste, promosso da Mauro Pili assieme ad altri esponenti del Centrodestra. La consultazione del 5 ottobre, però, non riuscì a superare il quorum e questo diede sicuramente una motivazione in più al Consiglio chiamato a mettere mano alla legge urbanistica. L’assemblea regionale, prima dello stop di giovedì scorso, aveva approvato quasi tutto l’impianto della legge. Ora da martedì è atteso lo sprint finale. La maggioranza da subito aveva cercato l’intesa sul vincolo dei 500 metri dal mare. E su questo c’era stata la prima spaccatura nella maggioranza di centrosinistra. Discutendo gli emendamenti all’articolo 10 della Legge Urbanistica l’aula, con una maggioranza risicata aveva dato il via libera al recepimento dei «livelli di tutela e vincolo di inedificabilità totale dei territori costieri» previsti dal Codice Urbani nella fascia costiera di 300 metri dalla battigia, con esclusione delle zone urbanizzate. Ma restava in piedi un emendamento all’articolo 28, presentato da Sinistra autonomista, che inaspriva i vincoli di tutela per i territori costieri in una fascia di 500 metri dal mare nell’ambito del Piano Paesaggistico regionale, che è norma sovraordinata ai Puc, senza escludere le aree urbanizzate (città come Cagliari o Olbia). Un emendamento che è stato giudicato «tecnicamente accoglibile». Tra gli articoli approvati quello che disciplina la pianificazione sovracomunale. Una norma che può riguardare gruppi di almeno quattro comuni o di enti locali con una popolazione complessiva di almeno 5000 abitanti i quali avranno la possibilità di adottare strumenti per il governo del territorio che assicurano priorità nel godimento di finanziamenti regionali per la costruzione di opere pubbliche.

Di grande rilevanza anche la disciplina dei Puc. È stato stabilito, infatti, che il Piano urbanstico comunale deve contenere un’analisi dello sviluppo demografico individuando il fabbisogno abitativo e i servizi necessari in ottica decennale e deve classificare il territorio in base agli obiettivi sociali e ambientali per poi individuare le aree da riqualificare, quelle da destinare all’apertura di strutture commerciali e le attività produttive da delocalizzare anche attraverso compensazione o riconoscimento di diritti edificatori. Via libera anche al principio della compensazione per lo scambio di diritti edificatori in caso di aree sottoposte a vincolo sia applicabile pure in ambito sovra comunale. La norma riguarda il ruolo di coordinamento attribuito alle Province.

Postilla

La legge ora in discussione è indubbiamente “depeggiorata” rispetto a quella che, a su tempo, che è stata criticata su questo sito. Tuttavia è tutt’altro che soddisfacente per più d’un aspetto, e anche rischiosa. Non prevede una vera e propria pianificazione regionale degli interventi diversi da quelli di tutela del paesaggio. Si preoccupa troppo degli “snellimenti”, tanto che introduce forme pericolose di silenzio-assenso. E’ poco garantista in materia di perequazione e compensazioni urbanistiche. Affida troppo della tutela al Piano paesaggistico regionale, che è una garanzia molto più debole di quella di una legge. In questa chiave va letta anche la minacciata riduzione della fascia di rispetto della costa. Certamente il vincolo apposto dal Piano paesaggistico è più articolato e scientificamente corretto di quello, meramente geometrico, disposto dalla legislazione nazionale e regionale. Ma una maggioranza più “sviluppista” di quella di Soru potrebbe modificare un piano con molta meno fatica di quanta ne impiegherebbe per modificare una legge.

Avevamo anticipato che avremmo dedicato un post a spiegare cosa è un Programma Integrato di Intervento e quali sono i suoi scopi.

Per far questo ci siamo rivolti ad un soggetto particolarmente qualificato, un funzionario pubblico di alto rango, che da molti anni opera nell'urbanistica.

Il nostro interlocutore lavora presso la Regione. Quando gli abbiamo spiegato le ragioni della nostra intervista ha accettato di collaborare, ma solo dopo aver avuto assicurazione del fatto che non avremmo pubblicato il suo nome.

Ciò che segue è l'esatta trascrizione dell'intervista, abilmente stenografata da una mia collaboratrice, Ivana, che ringrazio a nome di tutta la squadra di Salviamopiazzatorre.

Le domande le ho poste io, Paolo.

D. Grazie per avere accettato l'incontro. Ci dice cosa sono i programmi integrati di intervento (PII) e a cosa servono?

R. Cercherò di essere il più chiaro possibile, voi non vi rivolgete ad un pubblico specializzato, giusto?

P. Esatto.

R. Essenzialmente sono strumenti urbanistici, un po' particolari, ma comunque volti a decidere cosa fare in una determinata porzione del territorio di un comune: quali funzioni insediare, in che tipo di strutture, quali opere (strade, piazze, impianti) sono necessarie, quali servizi devono accompagnare la realizzazione delle opere.

D. Si usano spesso?

R. Molto, sì, molto spesso. Sono diventati il mezzo principale per pianificare il territorio, piani regolatori a parte.

D. Piani di Governo del Territorio?

R. Siete preparati vedo. I Piani di Governo del Territorio sono gli strumenti di pianificazione urbanistica generale più recenti. Pochi comuni li hanno già approvati, tutti gli altri dovranno farlo entro l'anno prossimo, ma per ora si devono avvalere dei vecchi prg, ed i programmi integrati vengono utilizzati per apportare varianti ai prg.

D. Quindi i PII vengono utilizzati per apportare varianti urbanistiche.

R. Certo, nella maggior pare dei casi i PII sono varianti ai piani generali, e poi i comuni li utilizzano per "portare a casa" più denaro e più opere.

D. Legalmente?

R. Sì. I PII sono strumenti che prevedono la possibilità, per il comune, di pretendere quelli che sono stati definiti "standard qualitativi" ovvero maggiori oneri a carico degli operatori, in termini di opere o aree cedute, o denaro che viene versato nelle casse del comune.

D. Chi approva un PII?

R. Il comune. Solo in pochi casi, ovvero sia per quei PII che rientrino nella definizione di strumento di interesse regionale, per esempio se c'è di mezzo un centro commerciale o infrastrutture di interesse regionale o statale, allora interviene la Regione attraverso una procedura detta accordo di programma. Altrimenti è il comune a promuovere il programma, ad adottarlo ed infine ad approvarlo.

D. Senza che nessun altro interferisca?

R. Per i PII in variante è obbligatorio chiedere il parere della provincia.

D. Quindi un comune non può approvare un PII se la provincia dice di no.

R. In teoria è così..

D. Ma?

R. Ma i casi in cui una provincia è davvero in grado di incidere su un PII si contano sulle dita di una mano. In realtà le province devono fare sì i piani territoriali di coordinamento, ma la verità è che sono piani quasi totalmente privi di efficacia.

D. Ah! E perché?

R. (esita un po', ndr) La legge regionale non lascia molto spazio alle province, la politica della Regione, in tema di territorio, è di lasciar fare ai comuni quasi tutto quello che vogliono.

D. Per quale ragione?

R. Il peso politico dei comuni è nettamente superiore a quello delle province.

D. E il territorio ne fa le spese.

R. Diciamo che, tecnicamente, la scelta della Regione non è giustificata appieno.

D. Torniamo ai PII. Lei ritiene vengano utilizzati bene?

R. A volte sì, a volte no. Spesso lo spirito originario della legge sui PII, che in Lombardia esistono dal 1999, viene tradito. I PII erano stati pensati per superare le rigidità dei prg, ma anche per innalzare la qualità delle trasformazioni del territorio operate in variante ai prg.

D. E invece?

R. Invece, troppo spesso si sono tramutati in banali piani di lottizzazione, oltretutto utilizzati per "fare le varianti" laddove una variante ordinaria non si sarebbe potuta fare attraverso altri strumenti urbanistici.

D. Chi controlla se un PII risponde alla legge?

R. Nessuno.

D. Prego?

R. Nessuno, i controlli di legittimità sono stati abrogati da anni, in tutta Italia, la norma era nazionale, una delle leggi Bassanini.

D. Quindi uno strumento così delicato, se non è d'interesse regionale e quindi se non ci siete di mezzo voi, il comune se lo approva senza che nessuno dica nulla neppure in caso di violazioni di legge?

R. In teoria è possibile, le province non possono valutare la legittimità degli atti adottati dai comuni. Certo per i sindaci la responsabilità sarebbe gravissima, anche penale.

D. Mi scusi, ma non crede che sarebbe necessario controllare di più l'utilizzo di strumenti come questi?

R. Vede, oggi l'autonomia dei comuni è fortissima, la Costituzione è cambiata, di fatto sono loro i primi artefici del loro destino. Lo Stato non ha pressoché più competenze in materia urbanistica, le regioni dettano la disciplina e quindi è la politica di ciascuna regione a decidere sino a che punto si vuole essere incisivi rispetto all'autonomia dei comuni. La Lombardia ha scelto la strada di una sussidiarietà molto spinta, può piacere o no ma è così.

D. Detto molto brutalmente, lo sapete che ci sono comuni che con i PII ci giocano in modo un po' disinvolto, vero?

R. E' una delle voci che girano.

D. Lasciamo stare. Prima di chiederle l'intervista le ho accennato al caso concreto che ci sta a cuore, senza fornirle dati più precisi, glieli sottopongo ora (gli passo una copia del documento di sintesi del PII ed altri documenti in mio possesso). Li legga al volo e mi dica il suo pensiero. (sfoglia rapidamente la documentazione, per un paio di minuti, soffermandosi sui dati principali)

R. Eh, un bel programmino!

P. Si, eh?

D. Cosa la colpisce?

R. Se quel che si dice qui risponde al vero, con un solo PII realizzano abitazioni sufficienti a raddoppiare la popolazione, certo, è tutto relativo, in un paese di cinquanta anime basta costruire quattro case e la popolazione rischia di aumentare del trenta per cento, qui poi si dice che ci sono seconde case per oltre settemila persone, una bella botta. Certo non mi sembra un programma ispirato alla lungimiranza, però, che vuole che li dica, in sé l'operazione non sembra illecita.

D. Inopportuna?

R. Non saprei.

D. Urbanisticamente inopportuna?

R. Questo è possibile, forse probabile. Urbanisticamente inutile direi.

D. Cioè?

R. Inutile, inadeguata rispetto agli obiettivi del comune. Operazioni di questo genere non sono una novità. Alla fine, ovvero trascorsi tot anni dall'attuazione tutti scoprono che chi ci guadagna davvero sono gli operatori, ai comuni restano le briciole, a volte neppure quelle perché gli tocca mettere i soldi per rimediare ai danni o alle manchevolezze degli operatori privati.

D. Ma i PII non sono strumenti negoziali? Non prevedono una convenzione?

R. Certo, ovvio. Ma lei crede che un comune di questa dimensione (Piazzatorre, ndr) abbia la forza e la capacità di negoziare con gente che negozia tutti i santi giorni da anni, con decine di amministrazioni diverse, anche ben più strutturate e organizzate di questa? E poi chi pensa che scriva le convezioni?

D. I privati?

R. E certo! I Comuni se va bene le modificano un po'. Se no si limitano a firmarle.

D. Un'altra domanda. La valutazione ambientale, può avere un ruolo per limitare i danni?

R. Se ben fatta sì, tuttavia tenga conto che nella maggior parte dei casi la si affronta semplicemente come procedura, non come disciplina scientifica. Una volta redatti documenti come questo (il documento di sintesi, ndr) ci si toglie il pensiero affermando che non ci sono problemi per l'ambiente, ma il più delle volte è vero il contrario.

D. Insomma, sperare in una pianificazione urbanistica più accorta è utopico.

R. (allarga le braccia)

P. Grazie dottore, arrivederci.

R. Arrivederci.

MORALE: i disastri sono dietro l'angolo, ma stavolta, i loro padri, anche se sono più d'uno (la politica ha leggi diverse da quelle della biologia), non sono ignoti.

Nota: il blog da cui è tratta questa intervista si trova a http://salviamopiazzatorre.blogspot.com ; sul caso del piccolo comune letteralmente devastato dalle seconde case vedi anche Piazzatorre Fantozziland (f.b.)

Continua e si espande sempre di più in Regione Lombardia, l’azione (politico-culturale) di sistematico smantellamento di ogni legge che contenga, assuma o proponga qualsiasi forma, concetto, metodo o strumento di effettiva e reale pianificazione e programmazione urbanistica e territoriale.

Dopo la vera e propria “controriforma” attuata nel 2005 con l’emanazione della nuova Legge per il governo del territorio n. 12 (ma il “legislatore”, evidentemente non ancora soddisfatto della sua opera, ne sta proponendo una terza modifica, decisamente peggiorativa) si arriva ora alla proposta di abrogazione e rifacimento completo della legge n. 86 “Piano generale delle aree protette. Norme per l’istituzione e la gestione delle riserve, dei parchi e dei monumenti naturali nonché delle aree di particolare rilevanza naturale e ambientale” nata nel lontano 1983.

Si tratta di una delle più importanti e fondamentali leggi regionali che, oltre al suo corretto impianto metodologico e di piano ha consentito di produrre in tutti questi anni una vasta e significativa serie di risultati concreti in materia di formazione e di istituzione di parchi regionali e aree protette tali da rappresentare ben il 26% dell’intera superficie territoriale regionale.

Perché rifare la legge 86/1983 ?

Perché? Quali sono i motivi e le ragioni di fondo? Quali le necessità? Quale l’urgenza? Quali le insufficienze e i limiti della 86/1983 tali da richiederne una abrogazione e una riformulazione?

Sono questi i principali interrogativi ai quali la Regione dovrebbe saper rispondere prima di presentare un progetto di abrogazione e rifacimento di una delle più importanti e storiche - e positivamente praticate e attuate - leggi regionali.

Purtroppo non è così. La relazione che accompagna il disegno di legge non risponde pienamente e con la necessaria chiarezza a queste necessarie domande preliminari alle quali non risponde neppure una lettura attenta del testo del ddl.

Le ragioni richiamate dalla relazione (adeguamento a leggi nazionali e a direttive CEE) avrebbero potuto essere recepite benissimo anche attraverso una integrazione del testo vigente. (Cosa già avvenuta, a suo tempo, per quanto riguarda la legge nazionale 394/1991 “Legge quadro sulle aree protette”).

É vero che la relazione cita anche diversi lavori e studi, effettuati in anni recenti, in merito alla questione delle aree protette e della loro valorizzazione, svolti da Regione, IREF, IReR, e workout vari, dai quali avrebbero potuto emergere idee e proposte per una modifica o un rifacimento della legge vigente, ma è anche vero che da tutto questo materiale, semplicemente “citato”, la relazione non sa fare emergere nulla di preciso e di propositivo, capace di definire e motivare “esplicitamente” un pensiero ed un giudizio in merito alle eventuali modifiche, più o meno radicali, da apportare alla legge vigente ma, soprattutto, riconosciuto ufficialmente, condiviso e fatto “proprio” dalla Giunta proponente.

Tutti gli altri obiettivi richiamati dal testo della relazione non fanno che ricalcare i soliti obiettivi generici della Regione Lombardia attuale (innovazione, nuovi strumenti negoziali, sussidiarietà, sviluppo economico, semplificazione delle procedure di pianificazione, ecc., ecc,.) buoni per tutti gli usi e per tutte le leggi). Obiettivi che contengono in parte anche qualche elemento capace di creare qualche preoccupazione, come, ad esempio, dove si auspica “la transizione da un regime di tutela e conservazione” (che sarebbe quello, detto falsamente, della 86/83) “ad un regime che confermi sempre più la volontà di considerare le aree protette quali fattori essenziali di promozione e sviluppo del territorio lombardo”. Sapendo bene cosa normalmente si intende per “sviluppo”!!

Assolutamente condivisibile l’obiettivo di creare una “rete ecologica” a migliore integrazione delle aree protette, (questa è una vera, e importante, novità) anche se, come si dirà più avanti, sussistono perplessità riguardo le modalità proposte dal ddl per la loro definizione. Anche se, occorre ricordare, l’obiettivo di introdurre una rete ecologica di connessione delle aree protette, non comporta di per sé, assolutamente, la necessità di adottare una nuova legge sulle aree protette.

Che fine fa il piano generale delle aree protette avviato dalla 86/83?

La legge 86/83, è bene ricordare, aveva un duplice obiettivo : quello di costituire la prima legge generale regionale organica sulle aree protette, ma anche quello di definire un piano generale della aree protette per la Regione Lombardia. ( Finalità principale, richiamata in tutta evidenza sin dall’inizio dallo stesso titolo della legge) Questa era, infatti, la funzione del noto Allegato 1 che accompagnava la legge e che definiva, anche mediante una planimetria allegata, un vero e proprio piano strategico regionale. Allegato con valore di piano-programma che, come noto, ha costituito il quadro di riferimento costante che ha guidato, a partire dal 1983, tutta l’azione regionale di promozione e istituzione dei parchi e delle aree protette. Piano strategico di conseguenza che, in tutti gli anni della vigenza della 86/83 ha saputo operare e produrre, nonostante le numerose manipolazioni e modifiche subite negli anni dalla legge, quegli importanti e positivi risultati ed effetti dei quali la Regione spesso, a ragione, si vanta.

Ora con la abrogazione della legge ogni riferimento a questo piano, e a questa fase storica di pianificazione e di risultati conseguiti, esistenti ed operanti, scompare del tutto o si dissolve in una fitta nebbia. Mentre dal nuovo testo proposto si potrebbe intendere che si voglia iniziare una nuova stagione di pianificazione, come se in Regione Lombardia si partisse da un anno zero e come se non si fosse mai avviato un programma e un processo concreto di piano.

É del tutto evidente che la Regione non può far finta, soprattutto in materia di parchi e di aree protette, che si parta da un anno zero, sia per quanto riguarda la pianificazione delle aree che l’istituzione e l’esistenza operante dei parchi e dei loro enti gestori. (E’ questo un vizio molto diffuso in Lombardia, dove spesso, specialmente per ogni legge che si occupi di territorio, si finge sempre di partire da un anno zero, dimenticando tutto delle azioni, dei fatti, delle esperienze e dei processi che l’hanno preceduta).

Si può supporre che il legislatore,ipotizzando l’introduzione di un nuovo piano regionale (PRAP) pensi di poter dare per sottinteso, senza doverne dare alcuna motivazione, l’abbandono del piano generale della 86/83. Ma ciò non sembra né corretto né accettabile, soprattutto perché si tratta di affrontare e normare il passaggio da un regime di piano – che ha dato risultati concreti e operanti - ad un altro regime di piano sia pur differito.( Si noti che il termine e il concetto di piano viene eliminato –per furore del tutto ideologico - dallo stesso titolo della nuova legge, della quale non si riesce a capire se voglia avere, o non voglia avere, significato anche di legge di piano e non solo per la istituzione e la gestione).

Con l’abrogazione della 83/1986 ci si viene a trovare di fronte a una transizione e a un passaggio complesso di non poco conto dei quali, sia la legge proposta che anche la relazione avrebbero dovuto affrontare almeno sotto il profilo normativo o, quanto meno, fornendo una spiegazione dell’organizzazione e della complessità del passaggio. La nuova legge dovrebbe spiegare con grande chiarezza la portata pratica e operativa di questa transizione - che potrebbe, tra l’altro, anche protrarsi per lungo tempo – rispondendo alle domande di fondo : cosa succede alle aree protette già istituite? Verranno recepite dal PRAP? I piani dei parchi esistenti sono congelati sino alla approvazione del PRAP? Come li dovrà rispettare e recepire il PRAP? Con quali criteri e modalità? Si considera ancora valida la strategia delineata dal piano generale delineato dalla 86/1983? Anche se modificato dalla Legge regionale n. 4 del 14 febbraio 1994? Questa strategia deve essere rispettata o continuata dal PRAP?

È evidentemente insufficiente cavarsela semplicemente, come fa il ddl, affermando che gli enti gestori esistenti dovranno adeguarsi alla nuova legge e ai risultati del PRAP.

Si consideri inoltre che a complicare ulteriormente il quadro futuro delle aree protette il ddl, all’art. 35, prevede di poter emanare, con delibera di Giunta, un piano di riordino degli enti gestori delle aree protette esistenti, “accorpandole per singoli gruppi omogenei in altrettanti enti gestori”.

Ambiguità relativa alla natura e alla finalità della legge proposta

La concezione e la formulazione di questo testo apre e solleva non pochi dubbi circa la natura e la finalità propria della legge e sulla sua collocazione nel quadro delle funzioni regionali e della loro organizzazione delle competenze interne, in particolare per quanto riguarda funzioni e competenze della pianificazione territoriale. Mentre per la 86/83 non poteva sussistere alcun dubbio sulla sua finalità principale perché era, come appariva chiaramente dal suo titolo, “Piano generale delle aree protette.Norme per l’istituzione e la gestione delle riserve, dei parchi e dei monumenti naturali nonché delle di particolare rilevanza naturale e ambientale” e costituiva pertanto una legge che rappresentava anche un vero e proprio piano, della nuova legge proposta non si può dire altrettanto. Essa infatti, già dal titolo, non accenna ad alcuna funzione di piano, ma afferma di essere una legge di “ Norme per l’istituzione e la gestione delle aree protette e la tutela della biodiversità regionale”. La pianificazione viene rimandata, differita al futuro PRAP che però viene definito (art.3) come “atto fondamentale di indirizzo per la gestione e la pianificazione tecnico-finanziaria” nonché “atto di orientamento della pianificazione e gestione degli enti gestori delle aree protette”.

Cosa significa tutto questo? Che il PRAP è solo un atto di orientamento per altri futuri piani a venire, in tempi successivi? Che non ci sarà più un vero e proprio piano generale delle aree protette con valore di piano territoriale?

É lecito allora dire che questa legge rappresenta un rifacimento o un aggiornamento della 86/83? O non si sta invece andando in ben altra direzione?

Il Piano regionale delle aree protette (PRAP) (art. 3)

I dubbi di fondo qui sopra sollevati, si ripropongono e si approfondiscono ulteriormente anche ad una lettura approfondita dell’art. 3 del ddl.

Data la natura indefinita di questo PRAP è innanzitutto difficile capire quale rapporto e relazione “territoriale” possa avere con il il Piano Territoriale Regionale (PTR). A questo proposito il comma 8 dell’art. 3 afferma che il PRAP è elaborato in coerenza con gli obiettivi individuati nel Piano Territoriale Regionale” ma afferma anche, contemporaneamente, che “il PRAP è recepito nel PTR”. Come la si mette? Il PRAP precede o segue al PTR? E se il PTR recedesse il PRAP come potrebbe recepirlo?

Forse sarebbe bene che la Regione Lombardia incominciasse a pensare alla assurdità di tenere divise e separate la pianificazione delle aree protette dalla pianificazione territoriale!

Riconfermato che dalla definizione dei contenuti del PRAP non è facile capire quale sia l’efficacia e la portata “territoriale” di questo piano (è un piano di indirizzi e obiettivi o ha anche valore di piano territoriale?) conviene segnalare anche altri due punti: perché mai il PRAP dovrebbe occuparsi di censire le risorse energetiche ? (comma 3, sub d) ? e perché mai il Piano dovrebbe essere aggiornato annualmente?

Preoccupante è poi anche l’intrusione della Giunta definita dal comma 7.

Non si perde l’occasione per dare un altro schiaffo alla pianificazione provinciale e sminuirne la portata , affermando che le Province partecipano alla formazione del PRAP mediante un semplice “rapporto” da inviare alla Giunta regionale (comma 5) e non mediante l’unico e corretto metodo pianificatorio – peraltro già contenuto nell’impianto della l.r. 12/2005 - che sarebbe quello di una partecipazione diretta e paritetica tramite un confronto a partire dai contenuti e dalle proposte contenuti nei PTCP (Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale) elaborato da ogni Provincia.

Il Documento strategico e il Piano territoriale di Coordinamento del Parco regionale (art. 7)

La soluzione avanzata per la pianificazione dei parchi regionali appare abbastanza chiara ma anche complicata dalla sua non necessaria articolazione in due documenti : il documento strategico e il PTC (piano territoriale in senso vero e proprio). Questa divisione – o raddoppio – appare del tutto ingiustificato sia metodologicamente, che proceduralmente. Si pensi alla faticosa e lunga procedura che si verrebbe a introdurre secondo quanto proposto dall’art.7 : il documento strategico, elaborato distintamente e anticipatamente rispetto al PTC (come si possono separare le strategie dal piano?), dovrebbe essere coerente con un altro documento strategico ovvero il PRAP, ed essere sottoposto a un parere obbligatorio da parte dell Giunta prima di poter essere adottato dall’ente gestore!

La Rete ecologica regionale (RER) (art. 27)

É assolutamente condivisibile, come già detto, l’obiettivo di creare una “rete ecologica” a migliore integrazione ecologico-territoriale delle aree protette. Questo costituirebbe un vero e sostanziale passo in avanti relativamente ai contenuti e alla metodologia della pianificazione territoriale-ambientale del quale si sente la necessità, soprattutto in una Regione configurata territorialmente come la Lombardia.

Si ritiene però che da un punto di vista della pianificazione territoriale sarebbe più corretto affidare il compito di individuare e definire questa rete al Piano Territoriale Regionale, in quanto strumento proprio e specifico per una visione completa e una organizzazione complessiva del territorio regionale, anziché affidarla, come propone l’art. 27, ad un generico (ed astratto) elaborato cartografico.

Anche la pianificazione provinciale (PTCP) partecipa, se non esplicitamente, di fatto, alla definizione di questa rete ecologica e, per tanto dovrebbe e potrebbe partecipare direttamente alla individuazione di questa rete.

I parchi locali di interesse sovracomunale ( PLIS)

Perché il ddl si dimentica di definire o ridefinire nuovamente il PLIS (divenuto nel frattempo il più importante e diffuso strumento per la pianificazione dei parchi sovracomunali ed anche la tipologia di area protetta più caldeggiata e sostenuta dalla stessa Regione) alla luce dei nuovi criteri della legge, limitandosi semplicemente a richiamarne i generici contenuti e la generica definizione all’art. 2, sub e)?

Sembrerebbe del tutto insufficiente rinviare un tema così importante e delicato alle deliberazioni della Giunta Regionale del 1992, 1999 e 2001. Deliberazioni tra l’altro emanate a legge 86/1983 vigente. Ma anche la stessa definizione del PLIS si trova nella abrogata 86/1983.

Preoccupante quanto affermato dall’art. 35 del ddl, dove si afferma che “nelle more di approvazione del PRAP, le linee guida per il riconoscimento dei PLIS sono approvate dalla Giunta regionale. Norma che apre un conflitto diretto con le Province.Va ricordato infatti che la pianificazione provinciale “può inoltre individuare gli ambiti territoriali in cui risulti opportuna l’istituzione di parchi locali di interesse sovracomunale” ( l.r. 12/2005 , art. 15, comma 6).

La trasformazione degli Enti gestori (art. 36)

Il tema al quale la proposta dà più importanza e che viene presentato come quello più innovativo è quello della trasformazione obbligatoria degli attuali enti di gestione nella nuova forma di “enti di diritto pubblico”.Sembra che la Giunta veda nella attuale forma di gestione dei parchi (consortile) la principale causa delle difficoltà, delle disfunzioni e degli scarsi risultati sin qui raggiunti.

Questa proposta, certamente di non facile e rapida realizzazione ma che, molto probabilmente potrebbe essere anche opportuna, andrebbe però spiegata e giustificata in modo ben più ampio di quanto non faccia la relazione.

La nuova figura del Direttore

Il ddl propone la creazione di una nuova figura di Direttore del Parco (figura non ignota e ampiamente già praticata dai Parchi esistenti) con la dichiarata intenzione (si veda la relazione) di ammodernare e rendere più funzionale, con la creazione di una figura che dovrebbe essere anche “manageriale” e non solo tecnica, il funzionamento degli enti gestori dei Parchi. Tant’è vero che a questa nuova figura viene anche attribuita la possibilità di svolgere direttamente le funzioni del consiglio di amministrazione, sostituendosi ad esso.(Opzione che non piacerà, molto probabilmente, ai politici)

L’idea potrebbe essere anche buona se si potessero dare risposte sensate e accettabili a tutti i seguenti interrogativi.

Dato che il mercato non offre facilmente figure professionali ( se non nel caso di rare figure di lunga e provata esperienza) capaci di svolgere questo compito tecnico-amministrativo, sarà possibile selezionarli attraverso un concorso ed una selezione regionale e il loro inserimento in un apposito albo regionale? (Finiranno tutti, come è facile prevedere, per appartenere a Comunione e Liberazione??).

Cosa significa che “saranno designati” dalla Giunta al momento della formazione degli enti gestori e che la Giunta ne definisce “ i requisiti per l’iscrizione”? Cosa potranno decidere autonomamente gli enti gestori? E’ questa la sussidiarietà?

Che fine fa il Parco Agricolo Sud Milano?

É questo forse il maggior aspetto misterioso dell’orientamento del disegno della Giunta al quale, né la relazione né il ddl, consentono di rispondere.

Una sola cosa è chiara: il Parco Agricolo sud Milano dovrà ridefinirsi come ente gestore, al pari di altri Parchi regionali, secondo le disposizioni di cui alla Sezione I del Capo I del Titolo II della legge(art. 36). Per tutto il resto mistero.

Si rifletta anche sul fatto che dalla “tipologia” dei parchi regionali (art.2) è anche scomparsa la tipologia del Parco agricolo. Non è questo un problema insuperabile: il Parco potrebbe essere ricollocato accettabilmente tra i “parchi regionali” ( in modo invece non accettabile tra i parchi locali di interesse sovracomunale) purché se ne rispettino la complessità e la specificità metropolitana e la caratteristica irrinunciabile di parco agricolo.

Ma allora, altro mistero, perché la legge non abroga la l.r. 24 del 1990? Lo farà a suo tempo? E nel frattempo cosa accade?

Conclusioni

Dalle numerose lacune e incongruenze rilevate e denunciate, dagli innumerevoli interrogativi cui la legge non sa rispondere, appare del tutto evidente che ci si trova di fronte ad un progetto di legge da respingere risolutamente e non emendabile.

Anche il processo di pianificazione delineato – ammesso che si parli realmente di pianificazione e non di altro – appare molto più complicato e molto più faticoso di quello sperimentato sino ad oggi.

Tutto il teso è finalizzato, più che ad affrontare e migliorare i temi della individuazione, della protezione e della pianificazione delle aree protette, a individuare e definire spazi, momenti e procedure nei quali la Regione, tramite la sua Giunta, possa intervenire direttamente, e anche pesantemente, in momenti chiave nella gestione dei parchi e delle aree protette. Traspare quasi ad ogni articolo un’ansia, una volontà di “mettere le mani” sui parchi e sulle aree protette. Una sospetta e preoccupante azione di “invadenza” e di ritaglio di spazi di intervento riservati alla Giunta non necessaria e non richiesta, che contraddice ogni corretto rapporto tra Regione ed autonomie locali e rende ridicola ogni retorica dichiarazione di rispetto del principio della sussidiarietà.



P.S. Dal livello e dal clima politico-culturale che emerge e si evidenzia dalla analisi di questo progetto di legge nato dalla Giunta della Regione Lombardia, è facile anche capire da quale “mefitica palude” sia emerso il “mostro” del famoso art. 13 bis “ Disposizioni di raccordo tra PGT e PTC di parchi regionali” – soprannominato subito legge ammazza parchi - presentato per integrare la legge 12/2005.

Milano, 13 gennaio 2008

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