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Ho letto l'Eddytoriale e sono contento che tu abbia scritto quelle righe, perché mi ci riconosco ed è importante che questo avvenga, anche sopratutto a distanze generazionali ampie.

Ma cosa è successo? E' successo un casino e adesso dobbiamo rimboccarci le maniche.

Non sarebbe il caso che si pensassero a forme nuove di espressione della rappresentanza? I partiti di massa sono stati smantellati, e sono diventati cartelli elettorali, come negli Usa. Non c'è da stupirsi che poi vinca chi ha il programma più superficiale e gretto. Non c'è più un'azione politica quotidiana sui territori, il risultato è questo: a far la destra è più brava la destra.

Non esiste più un comunità, nel senso che il senso di appartenenza sui luoghi di lavoro e in altri contesti è stato disintegrato. Non ci si sente più di condividere una condizione sociale e civile con gli altri. Le nostre sono città di individui soli anche se non solitari. Il recupero di questa identità avviene sul piano territoriale e l'ha capito la lega Nord che su un'identità finta ha costruito il suo successo.

La sinistra invece si è ritirata nei salotti a discutere di sistemi elettorali e bizantinismi vari, la sinistra non parla più la lingua delle classi subalterne.

Non c'è un orizzonte alternativo a quello grigio e plumbeo del neolibersimo. Non c'è. Il Pci aveva il mito dell'Urss (non è nostalgia, intendiamoci, anzi) che era potente, significava che era possibile organizzare la società in modo diverso.

Oggi c'è sconforto, questo è l'unico mondo possibile. Non c'è un disegno, un orizzonte, una meta comune. Non si può far politica senza questa meta, si è condannati a brancolare nel buio e a non essere credibili malgrado la buona volontà.

Occorre mettersi di impegno, studiare, capire, come dici tu, tanti hanno rinunciato a farlo tanto tempo fa, intenti a seguire le risate finte di Drive In.

Spero a presto

Si, occorre studiare. Ma studiare significa seguire due percorsi, nessuno dei quali può essere abbandonato. 1) Comprendere che cosa è oggi il sistema economico-sociale nel quale viviamo, quali sono i suoi meccanismi economi e quelli sociali, chi ne siano i beneficiari e chi le vittime; e comprendere se si può cambiarlo, e su quali punti far leva per farlo. 2) comprendere, giorno per giorno, com’è fatta l’Italia e come si muove, quali sono le articolazioni della società, i poteri che in essa agiscono e gli strumenti che adoperano, il consenso che i poteri ottengono dai diversi ceti, categorie, classi.

Questo intendo per studiare. Ovviamente non può ciascuno di noi fare tutto, perciò occorre un lavoro collettivo, nel quale ciascuno dia il suo apporto. E, ovviamente, occorre che ci sia lo spazio per studiare e comprendere, e diffondere le conoscenze: perciò devono rimanere aperti gli spazi della democrazia. Che è costata lacrime e sangue non solo ai “comunisti” che oggi tutti condannano, ma certamente a loro in misura molto ampia.

Mantenere aperti gli spazi della democrazia significa che bisogna occuparsi di politica già da oggi, e non aspettare il momento in cui avremo compreso come si può cambiare il mondo.Anche perchè, nel frattempo, dobbiamo cercare che distruggano il meno possibile di ciò che merita di essere usato con parsimonia. A proposito, a che ne sta l'imbecille Metro di Parma?

Abbiamo letto ieri un singolare comunicato d’agenzia, che riportava un singolare giudizio espresso da Silvio Berlusconi in visita elettorale ad Alghero. L’abbiamo spedito a chiedendogli informazioni sull’episodio di ingiustificato blocco dei lavori che la sinistra avrebbe compiuto. Ecco la risposta.

Caro eddyburg, quando ho visto la nota Agi di ieri ho pensato ad un errore. Secondo l’agenzia “Silvio Berlusconi, ad Alghero, parlando davanti agli imprenditori locali davanti al plastico dell'Hotel Carlos V i cui lavori di ampliamento sono bloccati”, ha detto che la cultura degli uomini di sinistra “rende invincibile l'ostilità per gli imprenditori. A quelli della sinistra – ha osservato con enfasi - l'edilizia privata sembra un atto di ruberia. Sono arrivato alla conclusione che sono antropologicamente diversi da noi”.

Nella nota dell’AGI manca però una informazione essenziale: i lavori di soprelevazione dell'albergo non sono stati bloccati per via dei complotti della sinistra ma per ordine della Procura della Repubblica di Sassari, la quale ha constatato che si tratta di lavori illegittimi, ha messo sotto sequestro il corpo di fabbrica abusivo e ha rinviato a giudizio l'imprenditore e altri presunti responsabili. Siamo abituati a queste sceneggiate e non varrebbe la pena di commentare. Ma tutte le volte che Berlusconi mischia le carte e cerca di fare passare per vittime gli evasori fiscali e gli abusivi si sente l'obbligo di precisare. Ecco allora un articolo de La Nuova Sardegna, del 13 novembre scorso, che documenta nel dettaglio i fatti che riguardano gli abusi edilizi del padrone del Carlos V patrocinato da Berlusconi. Il titolo delll’articolo, di Federico Spano, è: “Sono quattro i rinvii a giudizio per il raddoppio dell’hotel Carlos V”

“Quattro rinvii a giudizio per il raddoppio dell’hotel Carlos V di Alghero. Ieri mattina, il giudice per le indagini preliminari Antonello Spanu ha fissato l’udienza per i quattro indagati per i presunti abusi nell’ampliamento dell’albergo algherese, che sarà una delle sedi del vertice vertice italo-algerino di domani. Tommaso Domenico Giorico, amministratore unico della Giorico Hotels, proprietaria della struttura, il fratello Riccardo, amministratore dell’impresa Sofingi che stava eseguendo l’opera, e il direttore dei lavori, Antonio Delogu, difesi dagli avvocati Pasqualino Federici e Luigi Concas, devono rispondere dell’accusa di abuso edilizio, mentre Antonio Era, funzionario comunale con delega all’edilizia privata, rappresentato dall’avvocato Giuseppe Conti, è accusato di abuso d’ufficio. L’udienza preliminare è stata fissata per il prossimo 12 dicembre. L’inchiesta della procura, condotta dal sostituto Paolo Piras, era partita nel 2006 in seguito alla denuncia dei residenti nella zona dell’albergo, sul lungomare Valencia, che si lamentavano per la perdita del «diritto al panorama», in seguito alla sopraelevazione dell’albergo. Secondo la procura, per l’ampliamento dell’hotel non sarebbe stata condotta la necessaria verifica per gli spazi adibiti a verde pubblico e per la viabilità, oltre all’assenza di uno studio urbanistico approvato dal consiglio comunale. In attesa di verificare eventuali abusi, il sostituto procuratore Paolo Piras aveva chiesto al gip Elena Meloni il sequestro preventivo dell’ala in costruzione dell’hotel a quattro stelle, per evitare che, proseguendo l’ampliamento, i Giorico reiterassero la violazione urbanistica e aggravassero la situazione. La richiesta della procura era stata respinta dal gip, secondo il quale esisteva il permesso di edificare e non poteva essere disapplicato dal giudice. Di avviso opposto, pochi giorni dopo, il tribunale del riesame al quale si era rivolto il pm Paolo Piras. Il collegio, presieduto dal giudice Mariano Brianda, aveva dato ragione alla procura ordinando il sequestro del cantiere. Nell’estate 2006 erano stati posti i sigilli nella parte superiore della struttura, non ancora conclusa. La Procura ritiene che con il progetto di ampliamento del Carlos V, autorizzato da tutti gli uffici competenti, siano stati violati due articoli del piano regolatore della città catalana. Questo comporterebbe un vizio originario di illegittimità della concessione edilizia. Ravvisando l’abuso edilizio, la Procura aveva indagato il committente, il direttore e l’esecutore delle opere nonostante questi avessero formalmente le carte in regola. Ma, a parere della magistratura, inefficaci. Al centro della indagine del pm Piras ci sono soprattutto le altezze del complesso alberghiero, superiori a quelle più frequenti dell’isolato. L’obbligo di rispettare questo limite è contenuto nel Prg algherese, tuttavia a suo tempo questo non impedì all’Ufficio tecnico del Comune di approvare la concessione edilizia. Autorizzazione che esiste, ma che secondo la Procura sarebbe stata concessa in violazione degli strumenti urbanistici. Il consulente della Procura nell’inchiesta sul Carlos V è Alberto Boi, titolare a Cagliari dello studio tecnico «Centro regionale servizi urbanistici». È di Boi la relazione che alla fine della primavera del 2006 aveva convinto il sostituto procuratore Paolo Piras a chiedere al gip Elena Meloni il sequestro preventivo dell’ala in costruzione dell’hotel. Contro l’ordinanza di sequestro avevano presentato ricorso in Cassazione gli avvocati Agostinangelo Marras, Filippo

Filippo Bassu e Antonio Alberto Azzena. Secondo i suoi legali, la Giorico Hotel aveva rispettato il permesso di costruire. Gli avvocati erano entrati nel merito delle presunte altezze violate sostenendo che, nell’area presa in esame, erano stati confrontati edifici con destinazioni d’uso diverse”.

Cara redazione di eddyburg, ho seguito di recente con attenzione il dibattito che si sviluppa sul sito parallelamente alla campagna elettorale, e in particolare la tesi che sottende alcune posizioni sulla città e il territorio, secondo la quale esiste di fatto una convergenza di massima fra i programmi dei due schieramenti principali (PdL e PD) entrambi attestati in prevalenza su posizioni al tempo stesso economicamente liberiste e ambientalmente aggressive.

Credo possa contribuire a far chiarezza, tra l’altro, anche questa analisi proposta qualche tempo fa dal Sole 24 Ore, che allego, focalizzata sul problema della casa.

Cordiali saluti

La ringrazio molto. L’articolo mi sembra ancora utile e quindi lo inserisco, benché in genere cerchiamo di essere tempestivi e di fare della prima pagina un “giornale”

Caro Salzano, mi pare davvero utile ed opportuno che la discussione continui. Penso che un confronto critico aperto sia quello di cui più che mai c’è bisogno anche (in realtà sto pensando ‘soprattutto’) in campo urbanistico. A questo proposito, mi farebbe piacere accostassi queste poche righe alla nota di commento al mio libro che hai pubblicato su eddyburg. Non voglio certo entrare qui in una discussione di dettaglio (chi fosse interessato troverà sviluppi più ampi in un testo di prossima pubblicazione, a cura di De Luca, che anche tu richiami). Solo vorrei fare una precisazione e segnalare alcune cose.

Inizio dalla precisazione: resto convinto che ci siano differenze significative tra una posizione liberale classica (che cerco di riprendere e sviluppare) e le pratiche di governo che oggi alcuni definiscono neoliberali o neoliberiste, ad esempio le pratiche di governo di cui parla David Harvey nel libro Breve storia del neoliberismo, 2007. Lo stesso Harvey è costretto a fare acrobazie d’ogni tipo (come tanti altri del resto) per riuscire a criticare, in un colpo solo e sulla base di una presunta obiezione unitaria, la teoria liberale classica e la teoria neoliberista contemporanea, la teoria conservatrice e la teoria neoconservatrice, le pratiche illiberali più disparate dei governi più vari, etc. Sia chiaro: Harvey ha ovviamente diritto (e, magari, anche ragione) a criticare un insieme di posizioni e pratiche che trova indesiderabili, ma crea solo un’inutile confusione fingendo che stiano tutte sotto lo stesso ombrello. Il punto è che molte pratiche di governo presunte liberali (ad esempio, in Europa o negli Stati Uniti) sono in realtà totalmente illiberali per il loro spregio della rule of law (ossia, della ‘supremazia e certezza del diritto’), l’autoritarismo centralizzatore, l’esorbitante potere attribuito all’esecutivo, l’inclinazione protezionistica, l’idolatria della tradizione, l’opposizione alla sperimentazione di nuovi stili di vita. Continuo a pensare che una posizione quale quella difesa ne La città del liberalismo attivo, 2007 (e nel mio libro precedente: L’ordine sociale spontaneo, 2005) non solo non sia affine a queste pratiche di governo, ma possa utilmente contribuire a criticarle. Cercherò, in futuro, di rendere questo punto ancor più evidente. La confusione che continua a regnare in proposito (e che anche un autore del calibro di Harvey contribuisce purtroppo ad accrescere) mi pare renda la cosa indispensabile.

I punti su cui volevo richiamare l’attenzione, sempre assumendo una posizione liberale classica in senso stretto e radicale (e non quell’instabile miscuglio di neoliberismo e conservatorismo di cui confusamente discute Harvey), sono i seguenti.

In primo luogo, la tradizione liberale a cui mi rifaccio non si disinteressa dei deboli: anzi, ritiene che i deboli sarebbero protetti meglio proprio entro un quadro liberale. Le idee liberali di costituzione, checks and balances, diritti individuali, tolleranza, etc. hanno come obiettivo principale proprio difendere i più deboli della società. L’idea è che la più solida difesa dei deboli si ottiene garantendo le libertà negative individuali di tutti (ossia le libertà alla non-interferenza, da parte di chiunque, nella sfera personale di ognuno). Lungi dall’essere solo libertà ‘formali’, le libertà negative individuali sono infatti quanto di più sostanziale si possa immaginare in difesa proprio dei più deboli (“È solo la libertà al negativo, la rivendicazione di una sfera di non-impedimento, che sta dalla parte dei sottoposti e che non può ritorcersi contro di loro”: Sartori, Democrazia e definizioni, 1959, p. 209. “Il liberalismo è il principio di diritto secondo il quale il potere pubblico [...] deve limitarsi e fare in modo [...] che nello stato [...] possano vivere anche coloro che non pensano né sentono come i più forti o come la maggioranza. Il liberalismo – è necessario oggi ricordarlo – è la generosità suprema: è il diritto che la maggioranza concede alle minoranze ed è dunque il più nobile appello che sia mai risuonato nel mondo [...]” (Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, 2001, p. 105). Dunque, non solo il tema del potere dei forti (governanti compresi) nei confronti dei deboli non è assente dalla tradizione del pensiero liberale, ma è la sua vera ossessione: tutto l’armamentario istituzionale di derivazione liberale può essere riletto come un tentativo di garantire una sfera protetta per chiunque. (Oltre alla imprescindibile difesa delle libertà negative, in un’ottica liberale si possono prevedere anche trasferimenti di risorse in favore di chi di fatto si trova in una situazione di disagio materiale, preferendo però strumenti tipo ‘reddito minimo’ o ‘buoni per servizi’ perché si tratta di forme più efficienti e più facilmente garantibili tramite procedure impersonali. Tutto ciò evitando però di illuderci che si possano creare mondi in cui tutti abbiano accesso a tutto, ed evitando di rendere difficile proprio ai più deboli migliorare la loro posizione nel deleterio tentativo di creare tali mondi impossibili. A margine, ricordo che è ormai riconosciuto da tutti che i sistemi di welfare tradizionali hanno trasferito risorse enormi verso le classi medie e non certo verso gli strati più bassi della società. È anche per questa ragione che credo sia meglio tornare a concentrarci su un’idea di ‘povertà assoluta’ e abbandonare l’idea di ‘povertà relativa’: si vedano Moroni e Chiappero-Martinetti, "Spazi plurali di povertà assoluta. Elementi per una teoria normativa", in corso di pubblicazione su ‘Etica ed economia’, IX/2, 2007).

In secondo luogo, il mercato non è una ‘divinità’ in un’ottica liberale quale la mia (se c’è una divinità, quella è il diritto). Il mercato è, semplicemente, la più efficace forma di organizzazione della vita economica che risulta compatibile con la garanzia di certi diritti individuali fondamentali e con la connessa idea della supremazia del diritto (come cornice impersonale e imparziale di convivenza). Di nuovo, non certo a esclusivo favore dei più ricchi. Per dirla con Mises, I fallimenti dello stato interventista, 1997, p. 365: “Un’economia di libero mercato non è un sistema raccomandabile dal punto di vista degli interessi egoistici degli imprenditori e dei capitalisti. L’interesse particolare di un gruppo o di singoli individui non ha bisogno dell’economia di mercato; è il benessere generale che ne ha necessità. Non è vero che i difensori dell’economia di mercato siano i difensori degli interessi egoistici dei ricchi. Gli interessi particolari degli imprenditori e dei capitalisti invocano l’interventismo, per proteggersi dalla competizione di individui più efficienti e maggiormente attivi. Il libero sviluppo dell’economia di mercato deve’essere tutelato non nell’interesse del ricco, ma nell’interesse di tutti i cittadini”. E ancora: “È largamente diffusa l’opinione che il liberalismo si distingua dagli altri indirizzi politici perché privilegia e difende gli interessi di una parte della società – dei possidenti, dei capitalisti, degli imprenditori – rispetto a quelli di altri ceti sociali. Ma si tratta di una supposizione del tutto infondata. Il liberalismo ha sempre guardato agli interessi generali, mai a quelli di un gruppo particolare qualsiasi [...]. Storicamente il liberalismo è stato il primo indirizzo politico attento al benessere di tutti e non a quello di particolari ceti sociali” (p. 33).

In terzo luogo, quando si parla di proprietà, credo sia utile distinguere tra ‘il diritto di detenere proprietà privata’ e ‘il diritto dell’individuo X di detenere la proprietà Y (ad esempio, il suolo Y)’. Il primo è un diritto basilare formale. Il secondo è un titolo giuridico sostantivo ad una cosa particolare (che sarà legittimo se sarà stato ottenuto nei modi previsti dalla legge: ad esempio acquistandolo liberamente da K, ottenendolo in eredità da Q, ricevendolo in regalo da H, etc.). È ovviamente il primo che i liberali (sottoscritto compreso) difendono come uno dei diritti individuali fondamentali: il fatto che tale diritto esista è infatti decisivo per chiunque, proprietario e non. La difesa di questo diritto non è perciò a favore dei proprietari effettivi di titoli a Y (o W), ma a favore di tutti. Con le parole di Hayek, Legge, legislazione e libertà, 1986, p. 151: “Gli attacchi… al sistema della proprietà privata sono riusciti a diffondere la credenza secondo cui l’ordine che in base a tale sistema… viene sostenuto è al servizio di interessi particolari. Ma la giustificazione del sistema della proprietà privata non si ritrova nella tutela degli interessi dei proprietari. Tale sistema serve sia gli interessi di coloro che momentaneamente posseggono una proprietà, sia quelli di coloro che momentaneamente non la posseggono, poiché lo sviluppo dell’intero ordine di azioni da cui dipendono le moderne forme di civiltà è stato reso possibile solo grazie all’istituzione della proprietà medesima”. Questo punto, effettivamente controintuitivo, è quello che da qualche secolo si continua a non cogliere; in buona parte dipende dal fatto che l’idea diffusa di proprietà è ancor’oggi retaggio di antiche forme di organizzazione sociale in cui i diritti individuali (a partire proprio da quello di proprietà!) non erano per nulla universali e il mercato non esisteva affatto in forma compiuta. Come osserva Heath, Citadel, Market and Altar, 1957, pp. 123-124, gli uomini godono normalmente dei vantaggi dell’esistenza dell’istituto della proprietà privata “anche se il loro concetto tradizionale ed emotivo della proprietà in generale – e della proprietà della terra in particolare – li spinge a vederla come un privilegio […] da cui l’umanità come tale è esclusa e nessuno che non sia il fortunato proprietario può goderne. È come se tutta la proprietà e la ricchezza fossero beni personali posseduti solo per essere consumati o distrutti a scopo di auto-gratificazione o per qualche sinistro progetto antisociale. Questo è il lascito persistente alla mentalità moderna del nostro passato remoto e totalitarista, quando non c’era una libera economia di mercato e ben pochi uomini liberi”. Ammetto di non aver approfondito la cosa nel libro come sarebbe probabilmente stato utile e mi ripropongo di tornarci (a proposito posso segnalarti un fatto curioso, ma, credo, interessante: tu mi accusi di aver dato peso eccessivo ed esclusivo alla proprietà nel mio libro, mentre Carlo Lottieri, in un intervento che finirà sempre nel volume curato da De Luca, mi rimprovera per essermi pressoché dimenticato di trattarne…).

In quarto luogo, mi sembra utile ribadire che il diritto di detenere proprietà privata (di beni), pur fondamentale in una prospettiva liberale, non è certo l’unico diritto basilare cui si riconosce importanza in tale prospettiva; i diritti alla libertà di espressione, coscienza, culto, associazione, etc. hanno anch’essi una chiara origine e matrice liberale (ed io li ritengo, ovviamente, della massima importanza: tanto che sto completando un altro libro ove al centro di tutto sta il diritto di associazione). Ragion per cui – e concludo questo punto – il liberalismo è anche il fondamento etico-giuridico necessario e imprescindibile della democrazia. (Per citare ancora Sartori, 1957, p. 28: “A forza di dire soltanto, per brevità, democrazia… quel che resta innominato viene dimenticato, o, comunque, viene posposto e subordinato: finisce che la democrazia – vocabolo espresso – sta sopra. E che il liberalismo – vocabolo sottinteso – sta sotto. Il che è esattamente il contrario della verità”. In modo analogo – e per citare un altro insospettabile – si esprime Bobbio, Il futuro della democrazia, 1984, p. 6: perché si dia democrazia è necessario che siano prima garantiti “i cosiddetti diritti di libertà, di opinione, di espressione della propria opinione, di riunione, di associazione, etc, i diritti sulla base dei quali è nato lo stato liberale ed è stata costruita la dottrina dello stato di diritto in senso forte, cioè dello stato che non solo esercita il potere sub lege, ma lo esercita entro i limiti derivati dal riconoscimento costituzionale dei diritti cosiddetti inviolabili dell’individuo… Dal che segue che lo stato liberale è il presupposto non solo storico ma giuridico dello stato democratico”).

In quinto luogo, non credo sia difficile ammettere che la pianificazione urbanistica tradizionale è stata spesso utilizzata per difendere proprio gli interessi immobiliari (non il ‘diritto generale a detenere proprietà privata’, ma ‘le proprietà specifiche di alcuni’). Certo, si può sostenere che questo è dipeso da politici e amministratori che sono colpevolmente venuti meno ai loro obblighi e da imprenditori dediti a pratiche fraudolente, ma penso sia lecito sollevare il dubbio che possano esserci stati dei problemi strutturali: la possibilità di differenziare le singole posizioni tramite zonizzazione di dettaglio, prevista e avvalorata dalla pianificazione urbanistica tradizionale, può ad esempio essere riconosciuta come responsabile principale del crearsi di pressioni e collusioni di vario genere. (Come scrive Nozick, Anarchia, stato e utopia, 1981, p. 288, “l’uso illegittimo di uno stato da parte d’interessi economici per scopi economici si basa su un preesistente potere illegittimo dello stato di arricchire alcune persone a spese di altre. Se si elimina quel potere illegittimo di dare vantaggi economici differenziali, si elimina o si riduce drasticamente il motivo per desiderare influenza politica”).

In sesto luogo, può darsi che i diritti previsti dalla tradizione liberale (anche nella forma aggiornata e integrata in cui la ripropongo) non siano sufficienti; questo è un punto d’attacco rilevante della tua critica (direi il più importante), solo vorrei sottolineare che estenderli non vuol dire riconoscere ‘diritti comuni’, vuol dire, semplicemente, riconoscere altri ‘diritti individuali’. Di fronte alla possibilità di allungare la lista dei diritti, è comunque sempre il caso di chiedersi se ne vale la pena (ossia, se nel farlo non stiamo per caso mettendo a rischio altri diritti cui maggiormente teniamo o dovremmo tenere) e se saremo in grado di ottemperare all’impegno (ogni volta che aggiungiamo ‘diritti positivi’ serviranno infatti risorse da impiegare in modo efficiente per garantirli effettivamente e non sarà sufficiente proclamarli). Hai comunque totalmente ragione ad invitare ad approfondimenti e discussioni su questo aspetto cruciale.

Un’ultima osservazione: ho visto che è apparso sul sito anche un lungo, interessante intervento critico di Camagni sul mio lavoro; pubblicherò una risposta estesa all’intervento di Camagni sulla rivista ‘Scienze Regionali’ (volta a mettere in luce, da un lato, come l’economia normativa mainstream si sia sviluppata in una prospettiva etica totalmente diversa da quella liberale classica – senza, apparentemente, accorgersene – e, dall’altro, come essa venga troppo spesso inopportunamente spacciata come un esercizio di puro ragionamento tecnico). Qui vorrei limitarmi ad osservare che, diversamente da quanto Camagni sostiene, non ho mai affermato che il liberalismo (in senso classico) sia incompatibile con la pianificazione: lo è se quest’ultima pretende di essere la forma di coordinazione principale delle attività private (come buona parte della tradizione urbanistica ha sempre richiesto); non lo è se diventa lo strumento di coordinazione esclusivamente di certe attività pubbliche (come io propongo). In termini generali, il punto centrale del mio libro non è un’idea idilliaca del mercato, ma una concezione realista delle istituzioni. A questo proposito, faccio mia questa osservazione di Caldwell, Hayek’s Challenge, 2004, p. 397, relativa alle ripetitive critiche rivolte alla prospettiva hayekiana e a quelle affini: “Hayek’s critics employ a strategy that is both familiar… and suspect. In economics, the strategy begins by assuming that Hayek was trying to prove that market always work efficiently… The critic then provides examples of cases in which markets fail to function properly. Hayek is, thus, supposedly refuted (and, in the process, revealed as an ideologue). This line of attack fails, however, because the initial premise is demonstrably false: Hayek never claimed optimality for markets… Hayek insights are more evident when one reads him as investigating alternative institutions rather than as constructing proofs of optimality. What are the alternative institutional forms that might be used in structuring society?”.

Grazie come sempre dello spazio, dell’attenzione e degli spunti critici su cui continuerò a riflettere, Stefano Moroni

Postilla

Caro Moroni, non ho tempo di formulare una replica più ampia alle tue note, e mi limito a un paio di battute. Mi sembra che le teorie che esponi non abbiano nessun riferimento concreto con la realtà nella quale viviamo. Il liberalismo attivo del quale discetti è molto molto più lontano da me, e dalla cocncretezza del mondo, di quanto non non lo siano i caciocavalli appesi con i quali Benedetto Croce illustrava alla sua cuoca le idee alloggiate nel platonico iperuranio. La tua riflessione teorica sul “liberalismo attivo”, dato il terreno delle azioni al quale vuole applicarsi, non mi sembra abbia molto senso se non si connette alla concretezza del mondo attuale, così come è stato formato anche da quel complesso di ideologie delle quali il liberalismo, con tutte le sue inflessioni e modulazioni (compresa quella minore di von Hayek) è stata parte egemonica. Ed è proprio su questo piano che la tua riflessione mi sembra fuorviante.

Ad esempio, dici:”la tradizione liberale a cui mi rifaccio non si disinteressa dei deboli: anzi, ritiene che i deboli sarebbero protetti meglio proprio entro un quadro liberale”. Ma il mondo che è stato foggiato e celebrato dalla “tradizione liberale” è un mondo del quale la povertà è un portato ineliminabile: ne è il necessario prodotto. Ha senso immaginarsi un “liberalismo attivo” caritatevole nei confronti della povertà, come del resto è stato il liberismo ottocentesco, se non ci si domanda quali sono i meccanismi del sistema economico-sociale che provocano, in tutto il mondo e perfino in Europa, la crescita della povertà?

E ha senso ragionare, in modo certamente raffinato e colto, sulla distinzione tra diritto basilare formale” e ” titolo giuridico sostantivo” in relazione alla proprietà, se si dimentica che in nessuna immaginabile situazione a tutti può ugualmente essere attribuito il “titolo giuridico sostantivo” della proprietà, cioè il concreto e “libero” possesso dei mezzi che garantiscano un adeguato livello di benessere e di felicità?

Ma io credo che la distanza massima tra noi è segnata dal diverso ruolo che attribuiamo ai “diritti comuni”. Per te sono semplicemente una espansione dei diritti individuali. Per me sono la garanzia che, tra i principi che regolano la vita dell’uomo e della società, esiste anche quello dell’eguaglianza, e che tra le prospettive assegnate alla nostra civiltà ci sia quella di non essere costituita da una massa di individui ma da una società.

Purtroppo le chances di bloccarre questa corsa pazza sono poche.

Soltanto una mobilitazione di massa può spaventare e scuotere le coscienze di alcuni consiglieri.

Questa mobilitazione deve essere un primo passo per organizzare qualcosa di più importante.

Il nostro comune ha deciso di adottare un PGT a crescita zero. Senza zone di espansione. Il senso della mobilitazione è anche quello di far crescere un'onda che dagli enti locali contraddica, nei fatti, le scelte scellerate di alcune pedine nelle mani di poteri molto forti.

Se tutti i comuni si schierassero contro, sarebbe ben difficile andare contro la volontà di chi, comunque, rappresenta i cittadini.

Però, purtroppo, l'ammazzaparchi è fortemente voluto da molti sindaci (anche del centrosinistra), che non vedono l'ora di sedersi al "banchetto".

Forse pensano di essere protagonisti, di questa tragicommedia: in realtà sono solo comparse, e di un vero e proprio dramma, che segnerà il nostro futuro.

Spero davvero di incontrarvi in moltissimi sabato 1 marzo.

Un caro saluto

Domenico Finiguerra

Le osservazioni di Luigi Bobbio sono condivisibili nel metodo, e suscitano altre considerazioni, sul “caso” Castelfalfi e soprattutto sul suo costituire la base di un ragionamento assai più ampio. Prima di rispondere direttamente nel merito, alla domanda che Bobbio mi pone riguardo alle possibilità di una correzione procedurale, provo a fare una sintesi delle questioni che emergono.

1- Castelfalfi come molti altri luoghi del Paese, splendidi e appetibili, interessa evidentemente una comunità assai estesa. Per questo ci sono nel nostro ordinamento regole translocali che secondo il Codice del paesaggio occorre anteporre a scelte introverse, mediante i Piani paesaggistici e forme di controllo che garantiscano la tutela del territorio nell'interesse della comunità nazionale.

Per questo ogni progetto di trasformazione “casereccio”, in sintonia con le aspettative della gente del posto, è fuori luogo in senso letterale. Castelfalfi è un borgo che dista qualche chilometro dal nucleo Montaione, comune di appartenenza. Potrebbe trovarsi anche amministrato dal Comune di Gambassi, dal quale dista poco più, o di Certaldo. Direi che la popolazione della Val d’Elsa lo sente suo, ma penso di non sbagliare di molto affermando che appartiene almeno alla Toscana.

Fino quando la Sardegna ( esempio significativo di annose spoliazioni ) non si è dotata di un Piano paesaggistico degno di questo nome, c'era un sindaco di un comune costiero di un migliaio di abitanti che pensava di potere decidere il futuro delle “sue” coste, una quindicina di chilometri, con l’ approvazione dei suoi elettori (poco più di trecento).

2 - Si mena vanto per il procedimento utilizzato per Castelfalfi, per le carte in tavola a disposizione dei cittadini, per l'accesso agli atti ampiamente consentito (garantito per legge, però). Tutti fatti certamente apprezzabili, e l’esperimento è sicuramente utile pure a partire dagli errori. Ma credo che, data la dimensione dell'intervento e la necessità di variare il quadro delle previsioni sovraordinate, non ci fossero in realtà alternative alla strada intrapresa. Inverosimile e imprudente, converrà Bobbio, pensare di “nascondere le carte”, con una negoziazione dietro le quinte, ed ecco il fatto compiuto. Un modo di procedere a rischio di polemiche, anzi con la certezza di suscitarne molte, di polemiche, che come si è visto a Monticchiello non agevolano, anche se a sollevarle sono conventicole di intellettuali.

3- Continuo a pensare che sia scelto di allestire un processo con un pregiudizio ben saldo: la convenienza della proposta Tui, proteggendola e con essa il pregiudizio, trascurando ad esempio di comunicare tutti i dati numerici del progetto, omessi o camuffati nel fascicolo (con gli acquerelli- nostalgia, molto accattivanti quanto poco esplicativi).

Così una presentazione “neutra” rischia di trasformarsi in un'opera di persuasione sulla giustezza e convenienza di un brutto programma, già legittimamente sottoposto a trattamenti di cosmesi dal linguaggio accorto dei proponenti.

D'altra parte, nota Alberto Magnaghi, le platee sono in generale bendisposte ad accettare interventi anche vandalici di modernizzazione, quando declinati secondo modelli cari ai consumatori globali che plaudono ai villaggi Robinson, come agli ipermercati, che accolgono con compiacimento un po’ masochista la pubblicità ingannevole. Difficile che colgano sconvenienze neppur tanto occulte, nell’orizzonte di un paesaggio sciupato per sempre: se nessuno glie lo spiega. Più facilmente colgono al volo i vantaggi in termini di flussi turistici, “ perchè ci sarà pure chi arriverà fino a Montaione a prendere un caffè, a Ferragosto” .

4- C'è l’altro modello, alternativo, colpevolmente oscurato , che mostrerebbe gli svantaggi del progetto Tui. Nessuno si è fatto carico di indicarlo l' altro orizzonte, quello dello sviluppo durevole.

In continuità con quell’eredità splendida che la Toscana si ritrova, grazie alla cura dei luoghi, continuamente e esemplarmente praticata e teorizzata con sapienza (dagli affreschi di Ambrogio Lorenzetti fino alle lezioni di Edoardo Detti). Non lo ha fatto il Garante, il quale ha agito nella condizione data – si è detto –, lasciando così in campo la sola prospettiva indicata da Tui, “migliorabile” per sottrazione di volumi a richiesta del popolo sovrano. L'ho vista decine di volte messa in pratica questa tattica: si avanza una proposta esagerata e poi si dimezzano le misure. Come in ogni contrattazione, la quantità di cui alla resa potrebbe essere stata abilmente programmata. Si chiede cento per avere cinquanta ( ma cinquanta o trenta potrebbe essere molto).

5 - Ma ecco la domanda di Bobbio: si è in tempo a correggere il tiro ? Per quello che ne so il processo ha già sortito gli effetti del gradimento del progetto, appunto da parte della platea assai ristretta, e parzialmente informata, a cui è stato proposto. Ma si potrebbe provare e quantomeno servirebbe:

a) un’ammissione sull’ insufficienza del consenso registrato, accogliendo l’idea di non stare confinati nella discussione entro limiti amministrativi ( nel teatro S. Ammirato di Montatone);

b) ampliare subito la platea includendo altri soggetti eccentrici, sguardi meno ravvicinati, spostando la discussione su tavoli meno addomesticati, così da inquadrare il caso nella più generale necessità di tutelare tanti luoghi come Castelfalfi;

c) bilanciare la presentazione dell’impresa con una “relazione d’accusa” di pari rango, redatta con un po’ di scienza, che indichi le alternative e offra soprattutto le vere dimensioni dell’intervento e degli impatti;

d) l’assicurazione da parte delle autorità regionali che si sta in un quadro di compatibilità, perché il caso non costituisca l’ eccezione, il precedente su cui fare leva (e ogni fattoria della Toscana, grande o piccola, vanti il diritto di accrescere la dotazione di volume di cui dispone per finalità agricole).

Non è molto. Pare troppo?

Anzitutto esprimo il mio apprezzamento per il prezioso servizio svolto da eddyburg, che costituisce per me una fonte quotidiana d’informazione. Mi impegnerò tra l’altro a svolgere un ruolo attivo sulla recente proposta di vertenza per la difesa e valorizzazione dello spazio pubblico, irrinunciabile conquista della disciplina urbanistica e più in generale della democrazia, che è senza alcun dubbio minacciato da una pericolosa tendenza alla privatizzazione del territorio. Habermas, Baumann ed altri studiosi della modernità illustrano come la tendenza alla privatizzazione dello spazio pubblico riguardi ahimè non solo la gestione del territorio ma ogni campo d’azione sensibile per la democrazia come l’informazione, la cultura ecc..Credo che questa battaglia sia di portata epocale e per condurla con qualche speranza di successo si dovrà uscire dagli ambiti strettamente disciplinari e trovare alleati su diversi fronti. Nello specifico disciplinare l’impegno sarà quello di ripristinare un equilibrato rapporto tra investimento privato e investimento in opere pubbliche finanziate con gli oneri di urbanizzazione.

Ma vengo all’argomento che mi ha spinto ad intervenire: Castelfalfi. Ho letto con molto interesse non solo le posizioni illustrate nella cartella appositamente aperta da eddyburg ma anche l’esauriente documentazione inserita nel sito del Garante della comunicazione incaricato di istruire la” pratica partecipativa “. Mi sono occupato per molti anni di progettazione partecipata per il Comune di Roma. Negli ultimi dieci, in qualità di dirigente di un ufficio che si chiama “sviluppo locale ecosostenibile partecipato”, ho maturato esperienza sulle pratiche partecipative ed ho fatto parte del gruppo di lavoro che sotto la guida di Luigi Bobbio ha curato il testo A più voci edito dal Ministero della Funzione pubblica. Questa premessa è necessaria per spiegare (o giustificare?) un mio punto di vista che, malgrado io non svolga più le funzioni di cui sopra , non riesce a spogliarsi ancora del ruolo istituzionale già svolto.

Comprendo una preoccupazione di fondo che turba Salzano, Magnaghi, il WWF, Italia nostra, Legambiente ed altri intervenuti : Castelfalfi è un “tassello del meraviglioso mosaico del paesaggio italiano”( Salzano); un intervento che modifichi alcuni aspetti costitutivi delle colline toscane può rappresentare un pericoloso precedente per spregiudicati investitori pronti allo scempio dell’intero patrimonio paesaggistico della Toscana (vedi la storia di Montichiello). E, in modo più o meno velato, emerge la preoccupazione che il particolare impegno posto dalla Giunta Regionale sulla vicenda Castelfalfi con la predisposizione di un articolato piano di consultazione e l’istituzione di un Garante, che ricalcano le linee della legge regionale sulla partecipazione, approvata da pochi giorni, non derivino solo dalla risonanza anche internazionale suscitata dal caso ma siano un modo surrettizio per entrare nella cittadella delle tutele paesaggistiche usando la partecipazione come cavallo di Troia. Che la partecipazione sia una bandiera talvolta sventolata dal nemico non ho dubbi, che ci siano usi strumentali ne ho alcune prove, che a volte sia confusa ed affrettata ne sono testimone e artefice anche per le scarse risorse di cui disponevo, ma il tema di fondo è: vogliamo o no che si svolgano processi partecipativi? E se si, come si dovrebbero svolgere?

Salzano mostra sfiducia in un processo che consegna le decisioni alla sola comunità di Montaione. Denuncia la mancanza di rappresentanti di comunità più vaste e auspica una partecipazione allargata ai cittadini della Regione su su fino all’Europa per sottolineare la responsabilità collettiva di patrimoni materiali e morali di questa portata. Pone sicuramente un problema serio per la conduzione di processi partecipativi: qual è la comunità di riferimento? Non vi è dubbio che la comunità che decide è quella a cui la legge assegna questo compito,ovvero il Consiglio Comunale di Montaioni previo parere positivo di tutti gli organi sovraordinati e secondo le linee del Piano strutturale adottato e del PIT. La comunità che viene consultata ( sottolineo la differenza tra decisione e consultazione) può e deve essere più vasta in modo da avere il maggior numero di pareri, non escluso quello delle Nazioni Unite . Può sembrare una battuta paradossale, ma voglio ricordare l’utile servizio alla tutela svolto dall’Unesco con il riconoscimento di alcuni luoghi come Patrimonio dell’Umanità. Il processo avviato è di consultazione e può essere ancora esteso ad altri soggetti . Spetta alla sensibilità e all’intelligenza politica del Consiglio Comunale di Montaioni prendere una decisione, la migliore possibile dati i presupposti di base e l’avvenuta consultazione . La politica è l’arte del possibile. Ad ora non può essere altrimenti salvo programmare per il futuro un Piano strutturale intercomunale che indichi le linee di sviluppo di un’area vasta .

La comunità di Montaioni ha cultura e sensibilità sufficiente per comprendere il tesoro di cui dispone, il danno che arrecherebbe all’intera comunità regionale ed europea, e alle generazioni future, in caso di scelta sbagliata? Qui il discorso si fa più complesso e la posizione di Salzano, di Magnaghi ed altri è di sfiducia. Personalmente, ricordando uno slogan maoista, ho più fiducia nelle masse. Come ho potuto verificare in altre circostanze analoghe di confronto con le comunità locali, i numerosi interventi dei cittadini di Montaioni dimostrano sensibilità e conoscenza profonda in merito ai temi della tutela del paesaggio, delle risorse idriche, energetiche, produttive. Se il processo di partecipazione è ben condotto emerge, anche nelle comunità più piccole che con supponenza crediamo non sappiano vedere al di là del loro naso, sensibilità ambientale, difesa dei valori di conservazione laddove costituiscono un patrimonio inalienabile della comunità, consapevolezza delle conseguenze immediate e future delle scelte. Per i progettisti della TUI che dovranno ricalibrare il progetto e per il Consiglio comunale che dovrà decidere, le informazioni emerse dal dibattito pubblico sono molto preziose: se progetto si farà sarà sicuramente migliore di quello presentato. Magnaghi rivendica la scelta di essere “urbanista di parte” e di voler svolgere un ruolo pedagogico per far emergere dalla comunità i valori più autentici dell’autosostenibilità che la privatizzazione e il consumismo impediscono di cogliere. Il dibattito pubblico gli ha consentito di svolgere la sua funzione pedagogica e se quanto ha seminato non ha portato, a suo parere, un buon raccolto, a differenza delle altre situazioni virtuose che cita, ciò è dovuto anche alla elevata posta in gioco. Quando una comunità teme, in una situazione economica complessa e precaria come quella imposta dai processi di globalizzazione, di perdere un’ importante occasione per lo sviluppo rappresentata da un forte investimento privato, non è facile il compito del pedagogo. In uno splendido film di Lars Von Trier, “Dogville” , è rappresentata con rara efficacia la dinamica di una piccola comunità , nella quale il pedagogo è travolto dai fatti, incapace di mediare tra un evento esterno di forte impatto e i sentimenti e istinti più profondi della comunità.

Il punto cruciale della vicenda quindi è il rapporto tra tutela dei valori storici e culturali del territorio e sviluppo economico. E’ rarissimo il caso in cui tutela e sviluppo si sposino felicemente senza prima una serie di litigi. Anzi il più delle volte i litigi sono talmente forti che il matrimonio non si fa. Ma la situazione di Castelfalfi è simile a quella nella quale si trovano centinaia di comunità locali che devono misurarsi con l’intervento privato che da parecchio tempo ha assunto la forma del project financing o del programma complesso o del progetto urbano, in deroga a tutte le forme tradizionali di pianificazione, che per Salzano sono una vera jattura . Si può tornare indietro? Lo vedo molto difficile. D’altra parte le risorse economiche non vanno dove vogliamo noi ma dove trovano convenienza. E’ una legge inesorabile del capitalismo, che ci piaccia o no è il sistema dentro cui operiamo. Che l’economia trovi molto redditizi gli investimenti sulla rendita non ci sono dubbi; che la politica mostri un’ eccessiva subalternità all’economia non ci sono dubbi; che la politica, solo grazie ad esortazioni morali, riprenda il comando sull’economia è assai improbabile. Credo che, volenti o nolenti, è finita una fase dell’urbanistica e se ne sia aperta un’altra, irta di rischi, per la quale non sono stati ancora predisposti tutti gli strumenti di regolamentazione. L’interessante saggio di Camagni dal titolo “il finanziamento della città pubblica”(pubblicato da Eddyburg) mette in risalto la differenza tra il poco che è entrato nelle casse del Comune di Milano nel calcolo degli oneri versati da un investitore privato rispetto alla situazione di Monaco di Baviera dove l’Amministrazione può ottenere fino ai 2/3 dell’incremento di valore derivato dall’investimento. So di casi di Roma e di altre città in cui si è operato con analoga sciatteria o colpevole omissione a danno del pubblico interesse. Regolare queste operazioni con un onesto e responsabile expertise sarà un aspetto determinante per tutelare il bene comune nell’ambito dell’urbanistica contrattata.

Tra i tanti strumenti necessari per regolare la nuova fase c’è anche la partecipazione. Solo una forte partecipazione informata che obblighi il capitale privato ad una negoziazione ad armi pari, per quanto possibile, può riorientare la politica verso una minore subalternità al potere finanziario. Solo la diffusione di nuove forme di democrazia che Attali ,nel suo azzardato saggio futurologico “breve storia del futuro”, chiama “ iperdemocrazia” può contrastare la tendenza dominante che lui chiama “iperimpero del denaro”.

Per tornare a Castelfalfi ritengo, sulla base della mia esperienza, con i limiti di una conoscenza indiretta , che il processo sia stato fin qui ben condotto, che la figura di un Garante esterno,come stabilito dalla legge regionale, sia determinante, per quanto formale (nella partecipazione la forma conta), che i cittadini e le associazioni intervenute abbiano dimostrato una notevole competenza e maturità, che la TUI ha dimostrato una rara disponibilità a mettere tutte le carte sul tavolo, non escluso il piano finanziario ( vedi Camagni). Magari fossero tutti così gli investitori, di solito neanche si presentano nel dibattito pubblico certi come sono degli accordi stipulati nelle segrete stanze! Tuttavia penso che il processo di partecipazione non possa considerarsi concluso: dai resoconti escono fuori molte posizioni,ovviamente non concilianti tra loro, che per essere portate a sintesi hanno bisogno di molto lavoro progettuale. Tutte le posizioni dovrebbero essere riassunte in alcuni scenari di maggiore o minore impatto ambientale ove ci siano indicatori che misurano l’impatto ( aria, acqua, energia, occupazione, eredità storico- culturale, ecc.). E’ peraltro quanto suggerisce la direttiva europea per piani e programmi di rilevante impatto ambientale che si traduce nella strumentazione della VAS ( Valutazione Ambientale Strategica). Sarà la comunità, la più vasta, ad esprimere un orientamento motivato sulla predilezione di questo o quello scenario con la consapevolezza che tale orientamento costituisce non la decisione ma un fondamentale contributo alla decisione, che spetta unicamente agli organismi preposti, i quali si giocano la credibilità politica sulla serietà, intelligenza e lungimiranza della scelta.

Infine per quanto riguarda lo spazio pubblico aderisco alla vertenza con la convinzione che sicuramente la prima cosa da fare sia una battaglia politica per abolire la norma della Finanziaria che obbliga i Comuni a cercare i soldi per le spese correnti nella svendita del territorio (anche se con l’aria che tira non si sa chi saranno gli interlocutori). Ma la principale strada da percorrere sarà il monitoraggio ed il sostegno alle migliaia di vertenze che piccole e grandi comunità locali, anche quelle che si suppongono limitate culturalmente, hanno aperto con le Autorità locali per la difesa e la valorizzazione di spazi pubblici degradati o minacciati di scomparire per l’assalto del capitale privato al territorio. Come in tutte le vertenze è auspicabile che si possano tutte concludere con un accordo, nel quale si ottenga il massimo, dati i rapporti di forza esistenti.

La Partecipazione è destinata a diventare, nei prossimi tempi, forse la questione centrale della vita stessa dei Comitati, e anche delle politiche regionali secondo il Presidente Martini, (le due cose sono strettamente legate), rischiando peraltro di diventare un termine equivoco e generico, tirato da tutte le parti, peggio della sostenibilità. Tenendo presente questa situazione, colgo l’occasione di due recenti avvenimenti, per dare un contributo alla discussione su questa questione per noi vitale.

Sul dibattito pubblico di Castelfalfi.

Non avendo potuto partecipare direttamente al dibattito che si svolgeva nei fine settimana (poiché ero impegnato in altra azione partecipativa, di “progetto partecipato” che si svolgeva anch’essa nei fine settimana), ho inviato all’ultimo momento una nota che proponeva la costruzione partecipata di un’alternativa a livello del comune, che benché giudicata fuori tema è stata ugualmente inserita nelle documentazione allegata, e mi è stato gentilmente trasmesso il testo della documento finale, per una sua valutazione. Mi riferisco pertanto a tale testo per le considerazioni che intendo svolgere.

Al di là delle modalità di svolgimento del dibattito, a cui non ho potuto partecipare, il punto critico che a mio avviso mette in discussione l’intera operazione è il passaggio dalla fase del dibattito vero e proprio, e conseguente raccolta e sintesi degli interventi (assai esauriente) a quella delle “Considerazione conclusive”. Qui si verifica l’errore epistemologico e democratico dal punto di vista partecipativo, perché le conclusioni le tira il garante, e non vengono prodotte partecipativamente.

In proposito occorre chiarire subito un possibile equivoco. Produrre le conclusioni in maniera partecipata non vuol dire “concludere con un voto, o con la manifestazione assembleare da imporre all’amministrazione” vuol dire anzi fornire all’amministrazione una valutazione condivisa, ovvero un’interpretazione non di un singolo ma di una comunità. Chi ha pratica di partecipazione attiva sa infatti che questo è il momento più ricco e stimolante, che può sortire un’unica valutazione condivisa, ma che può fornire legittimamente anche una o più “interpretazioni”, che potranno contribuire a prendere decisioni meditate da parte dell’Amministrazione.

Nel caso in questione risulta poi evidente che, se si confrontano le cronache delle 40 pagine di riunioni con le conclusioni finali, l’ottimistica conclusione che “il progetto TUI sia un’opportunità di riqualificazione territoriale che la comunità locale, nel suo insieme, apprezza e intende proseguire…” appare come una forzatura, e come una “interpretazione”, certo legittima ma, assai personale, che avrebbe tutt’altra validità se fosse emersa da una procedura partecipativa delle conclusioni stesse ma che invece appare del tutto di parte, espressa da un garante quantomeno “frettoloso”.

Infatti le numerose “obiezioni” sollevate nel dibattito avrebbero potuto avere legittimamente anche esiti del tutto diversi da quelli espressi dal garante. Infatti, stando alla cronaca stessa delle riunioni, tra i molti esiti possibili si sarebbero potute avere conclusioni che:

- avrebbero potuto porre questioni pregiudiziali, ovvero condizioni “sine qua non”, ed il loro cumulo avrebbe potuto portare anche ad una valutazione negativa, o quantomeno sospensiva, dell’intero progetto.

- avrebbero potuto esprimere una posizione di forte dubbio, tale da invocare il principio “di precauzione” mettendo in discussione proprio “la misura in cui si può”. Forse non è assolutamente certo che si possa. ed allora “non s’ ha da fare” ( nel dubbio astieniti, dicevano i Padri della Chiesa)

- Forse, e questo sarebbe stato il caso più interessante, dalle “obiezioni”, che in realtà non erano solo di negazione ma anche di proposizione e alternativa, si sarebbero potuti estrapolare numerosi temi programmatici e propositivi che avrebbero potuto portare a costruire delle alternative e delle opzioni diverse per il territorio.Questo importante spunto partecipativo è stato del tutto trascurato perché fuori dalle logiche di una partecipazione fortemente monodirezionale, rivolta esclusivamente alla ricerca del consenso o del contenimento del dissenso, e per così dire “bloccata” su rigide regole e su pregiudizi precostituiti.

In questo modo infatti si assiste ad un grave condizionamento nel quale tutte le obiezioni, assai ricche e articolate, sono state ridotte a “raccomandazioni”, filtrate dall’interpretazione del garante, delle quali il Comune potrà tenere conto o meno, se lo riterrà opportuno, e sostanzialmente senza alcuna garanzia di trasparenza. Esse sono state per così dire devitalizzate, perdendo sia tutta la loro capacità di segnalazione del pericolo, e perdendo altresì tutta la ricchezza della loro propositività a volte esplicita a volte nascosta ma comunque presente (risorse idriche, potenzialità agricola, valore architettonico, occupazione,turismo,…).

Questa impostazione edulcorata ha inoltre evitato una critica, che pure era apparsa, e cioè quella del danno che l’intervento, proprio in termini economici e di valore dei luoghi, certamente rischia di produrre sul territorio e nei confronti del paesaggio, danneggiando pesantemente tutti gli altri operatori economici, mentre la TUI può appropriarsi tranquillamente del valore paesistico, contemporaneamente impoverendo così pesantemente tutta la comunità e l’economia generale. Altro che creazione di vantaggi economici alla comunità di Montaione, interventi simili distruggono la ricchezza comune di un luogo e di una popolazione.

Per tutte queste ragioni, sarebbe stato opportuno che allora si andasse a fare il confronto su tutto il territorio comunale delle conseguenze che il progetto TUI può provocare agli altri operatori e a tutta la comunità, e predisporre viceversa un progetto alternativo , a scala comunale, di sviluppo equo e sostenibile. Ciò avrebbe consentito di andare quindi ad un confronto serrato tra i due progetti , un confronto effettuato con la partecipazione della popolazione.

Vi sarebbe potuta essere anche un’ulteriore occasione di sviluppo della partecipazione. Il secondo progetto si sarebbe anche potuto redigere esso stesso in maniera partecipata, proprio a partire dalle obiezioni stesse, ovvero dalle proposte emerse agli incontri (forse sarebbe ancora possibile?……). In tal modo si sarebbe potuto dare alla partecipazione tutto il suo valore, uscendo dal vicolo cieco della partecipazione regolamentata e limitata, per favorire lo sviluppo di una partecipazione legata alla propositività , verso forme di relazione tra “Amministrazionecomunale e Popolazione” più mature e più attive e praticate in modo non occasionale . Ma questo è anche un altro discorso, che affronteremo in altra occasione.

Qui si può concludere con la vicenda Castelfalfi dicendo che essa mostra tutti i limiti di un’idea di partecipazione molto angusta e controproducente, che penalizza gli apporti propositivi della popolazione, che viene schiacciata sulla ricerca di consenso o al massimo di raccolta di consigli e di raccomandazioni, (che spesso lasciano il tempo che trovano), un tipo di partecipazione defatigante e che alla lunga mortifica la popolazione.

Ciò si può evitare solo se si sviluppano ulteriori passaggi, che non possono essere ridotti al semplice monitoraggio delle azioni del privato e della Amministrazione. Tale monitoraggio, pur necessario, in realtà dovrebbe già essere obbligatorio. Ma ancor più dovrebbe essere obbligatoria la costruzione di alternative, urbanistiche e programmatiche, che qualunque valutazione strategica( o integrata che sia), dovrebbe comunque prevedere, senza delle quali la partecipazione è un bluff, anche quella, pur limitata, relativa alla discussione pubblica.

La Legge Regionale

La questione della Legge regionale sulla partecipazione è una questione, per molti di noi, molto contraddittoria e molto “sofferta”, e ciò per due ordini di considerazioni, una nei confronti della legge in quanto tale ed una nei confronti dell’uso che potrà esserne fatto (anche a partire dal caso Castelfalfi).

A molti di noi, fino dal suo apparire , l’idea che la Partecipazione dovesse essere fatta per legge, ci è sembrata una contraddizione in termini, e quest’ombra ci sembra che non sia stata fugata neppure dalla legge appena approvata. In ogni caso la legge toscana può essere letta come composta di due parti, quella sui principi, e quella sulle modalità di attuazione. Sono due parti molto diverse, anche se ovviamente tra loro intrecciate ( e non sempre in senso positivo).

La parte dei principi generali. E’ la parte più interessante, spesso potremmo dire “ispirata”, piena di valori e di indicazioni di alta qualità, e nella quale di massima, io ed altri, ci riconosciamo. Ma dobbiamo anche subito rilevarne un limite, quello per cui si ritiene che se la partecipazione diviene un articolato di legge, essa automaticamente , di per sé, già “esiste”. E ciò è palesemente un’illusione intellettuale. Una legge non è un manifesto culturale, ed anche i “manifesti” hanno ormai una grossa limitazione, una limitazione che si ritrova anche in questa legge, e cioè quella di fare riferimento e di fare parte di un pensiero “illuminista” che si risolve in se stesso .

Ora, invece, chi ha qualche esperienza di partecipazione sa bene che la partecipazione è un modo nuovo di pensare e un modo di essere profondamente diverso, lontano dall’illuminismo, e dal determinismo, è un modo - potremmo dire - ecologico (della natura e della mente), un modo in progress, un modo evolutivo, di ricerca/azione, di azione e riflessione, che matura e si evolve nel divenire del pensiero, della consapevolezza, della trasformazione condivisa. Ecco questo è proprio quello che non si ritrova nella legge, la quale è di fatto una struttura statica, concepita per stadi, tutta rivolta a dare norme e definizioni, e comunque tutta organizzata nei confronti di tre sole modalità partecipative,

-.quella nei confronti di progetti e di proposte già elaborate, semplicemente da valutare;

- quella della consultazione partecipativa nei confronti della presa delle decisioni da parte degli enti;

- quella della formazione di strumenti di legge che vengono resi obbligatori.

Inevitabilmente, una limitazione di campo così forte e così circoscritta non può che portare, nell’aspetto attuativo, come vedremo, a prescrizioni estremamente rigide. In effetti la legge non dice niente degli aspetti più vitali e più aperti della partecipazione, che in sintesi possono essere così indicati:

A)Le iniziative di partecipazione che nascono dal basso, “bottom up”, che vivono indipendentemente dal loro riconoscimento entro canoni precostituiti, estremamente vitali e significative,

B) La partecipazione legata alla dimensione della proposta e del progetto, la partecipazione creativa, che è la forma più entusiasmante della partecipazione stessa,

C) La partecipazione legata al “fare”, il fare partecipativo, le dinamiche dell’agire partecipato sul territorio e nella città.

E’ chiaro che queste forme della partecipazione difficilmente possono essere inserite in una legge, ma a questo punto non è chiaro se il non averle inserite sia in bene , perché così sono ancora “libere” di esprimersi e di evolvere progressivamente, o se viceversa il non trovarle elencate nella legge, vuol dire che sono misconosciute ed escluse dall’idea di partecipazione in quanto tale.

Ci potrebbe essere obbiettato che la legge non è statica e che sia nella sua formazione che nei suoi esiti sono previsti dei momenti di verifica e di sviluppo. In realtà è proprio la sua formazione che ci lascia perplessi con i suoi stadi precostituiti, ed in particolare con alcuni episodi estremamente discutibili quali l’episodio della assurda kermesse pseudo partecipativa di Carrara. Così come ci sembra “consolatorio”mettere un limite di verifica della legge a ben di quattro anni di distanza, senza monitoraggi frequenti e intermedi, una verifica che ci sembra obbiettivamente eccessivamente lontana e puramente formale.

Se la parte di legge riferita ai principi ci lascia molte perplessità, la parte riferita alle modalità di attuazione ci trova decisamente contrari. Molti sono gli aspetti che fanno di questa legge una vera e propria legge di censura, di controllo e di irreggimentazione della partecipazione. Segnaliamo gli aspetti più macroscopici.

- la figura del garante, che “giudica e manda secondo che avvinghia” e che è una sorta di plenipotenziario e di giudice della partecipazione . una figura la cui istituzione basterebbe da sola a negare ogni aspetto di trasparenza e addirittura di democrazia per tutta l’operazione legislativa adottata.

- i tempi straordinariamente stretti per ogni azione di verifica, entro i quali è quasi impossibile acquisire dati ed esprimere valutazioni circostanziate ( tanto che si ha il sospetto che si dovranno valutare proposte delle quali le decisioni sono già state prese e che non possono essere “intralciate” o rallentate). I tempi così stretti inoltre escludono in partenza la possibilità di crescita e di sviluppo di ogni forma di partecipazione di tipo evolutivo e di elaborazione di proposte di arricchimento delle tematiche in esame

- gli standard quantitativi e procedurali estremamente gravosi (p. es. numeri esosi delle soglie di raccolta firme) per le richieste di partecipazione indipendenti,

- la routine di procedure obbligatorie per legge sulla partecipazione territoriale che equipareranno la partecipazione agli standard urbanistici, banalizzando e sclerotizzando la partecipazione stessa a pratica burocratica precostituita, ovvero improvvisata, imitata, resa sterile e svuotata di significato.

L’uso che potrebbe essere fatto della legge

Le modalità di attuazione previste dalla legge, oltre ad essere già estremamente gravi di per sé, si prestano ovviamente ad una deriva repressiva e di normalizzazione nei confronti del fenomeno dei Comitati, che viceversa rappresenta una ricchezza della società civile della nostra e di altre regioni, una ricchezza straordinaria, sempre più evidente in questi ultimi tempi nei quali i nodi dell’amministrazione tradizionale della società e del territorio vengono al pettine. La possibilità è che invece una legge sulle regole della partecipazione si trasformi in una regola per estirpare la partecipazione attiva, dal basso, la partecipazione spontanea aggregata, quella capace di esiti creativi.Ebbene questa possibilità è stata annunciata ed è estremamente alta e incombente.

Che fare in questa situazione? Probabilmente - nel passaggio dalla Giunta al Consiglio- si potrebbe tentare di eliminare gli aspetti più platealmente “repressivi”. Si potrebbe ridurre ad un anno il periodo di verifica della legge .

Se la legge dovesse comunque diventare vigente, potremmo accettare di partecipare -nonostante tutto- alle fasi di attuazione della legge stessa, senza pregiudizi, ma anche non tacendo se non vi saranno le garanzie elementari, e potremmo partecipare a condizione che le fasi di prima applicazione vengano “partecipativamente e liberamente” monitorate e valutate.

Ma più che altro potremmo impegnarci proponendo ed invocando non una legge di regolazione della partecipazione bensì una legge di promozione della partecipazione, a cominciare dalla incentivazione e dalla diffusione delle condizioni per la partecipazione spontanea, quella promossa dai cittadini stessi. Si dovrebbe quindi attivare una legge che promuovesse la partecipazione e sostenesse le sperimentazioni nel corpo della società e sul territorio, dalle quali poi dovrebbero essere estrapolati progressivamente i criteri di comportamento e i nuovi valori condivisi. Questa riteniamo che dovrebbe essere la strada da intraprendere, riconvertendo – se fossimo ancora in tempo- la legge regionale, opportunamente e radicalmente modificata, verso un diverso esito, sperimentale, praticabile e condiviso.

Caro Eddy, mi sono letto il tuo Eddytoriale di questi giorni e penso di usarlo per chiarire un po' le idee a gli amici e compagni della sparuta sinistra-arcobaleno che si accingono, dalle mie parti, ad esprimersi sui Piani Strutturali e delle Associazioni Intercomunali. Grazie per la chiarezza di esposizione e l'impegno con cui fornisci strumenti di confronto a chi di noi ha voglia e possibilità di usarli. Purtroppo è un confronto duro perché sono venute meno, non solo fra gli amministratori comunali, ma soprattutto fra i progettisti (che adesso non si chiamano più così), le basi etiche dell'arte.

Mente scendono le prime "falive" di neve, sto qui a leggere un "documento di Piano Strutturale" e una "Valutazione ambientale strategica" infarciti di luoghi comuni sullo sviluppo e di "diritti edificatori negoziabili".

E c'è stato un tempo in cui, con qualche pezzo di retino su un lucido mettevamo a disposizione, a valori agricoli, la terra per le case di tutti? Perdonami la scivolata sentimentale, buon anno a te e a tutti i collaboratori di Eddyburg,

La politica è sempre stata nutrita anche dei sentimenti. Grazie Toni, tanti auguri anche a te, e alla Sinistra Reno.

Egregio Professore, sono una cittadina di Chivasso.

Le scrivo in merito alla vicenda parco Mauriziano. Sono molto amareggiata. L'amarezza è la conseguenza di una vicenda triste che ha come protagonista una giunta miope che non si avvede di quale disastro ambientale sta producendo ostinandosi ad asfaltare un parco di una tale bellezza, ma anche l'unico polmone verde di una città che in questi ultimi anni è stata progressivamente cementificata da giunte sempre più “dinamiche”. É questo l'aggettivo che va di moda per definire le p.a. che si danno da fare, (non si sa bene a favore di chi), pare che ormai cementificare sia un pregio.

Chivasso è una cittadina triste, che non ha più aiuole, che non ha più spazi verdi, dove è diventato impossibile prendere un cane per il semplice fatto che non ci sono più posti dove portarli, a meno di non essere giovani il più possibile, in ottima salute, avere l'automobile e anche e soprattutto molto tempo libero a disposizione e decidere di farsi un bel po’ di chilometri per cercare fuori mano i pochi posti verdi ancora a disposizione in attesa che la prossima giunta decida di costruire anche lì una casa scout per scout fantomatici.

Le opere pubbliche che sono state costruite sono " assurde", vengono fatte strade che non servono, migliorie a stazioni ferroviarie che tra un po’ non avranno più treni...

foto di f. bottini - 29 dicembre 2007

In mezzo a queste forme di speculazione vera e propria, tali che solo Alice nel paese delle meraviglie potrebbe non capirlo, c'è una bella casa scout nel parco . Una casa per la quale non si è richiesto il consenso della gente, per la quale erano stati proposti altri posti, ma che guarda caso, si è voluta fare proprio lì. Tra breve sorgerà anche la strada, dopo verrà il supermercato e il parco sparirà. Oggi sono andata al parco. C'era la solita gente che correva in mezzo alle gru, qualcuno con i cani un po’ disorientato, perchè là dove verrà costruita la casa scout c'è sempre stata una bellissima area cani, l'unica, voluta da una giunta diversa, meno " dinamica", per fortuna e faticosamente ottenuta dai cittadini. Se nel parco del Mauriziano non ci sarà più il parco, perderemo l'unico posto ancora bello di questa città, dove si possono fare passeggiate, andare a correre, portare i bambini e vedere un albero “dal vivo”.

Le chiedo un consiglio sul da farsi, e se esistono secondo Lei strade che possiamo tentare.

Nel ringraziarLa Le auguro buon anno, Antonella Bocconello.

Sul nostro sito, proprio in questi giorni si sta sviluppando un dibattito sul senso della parola “partecipazione” ovvero di come il consenso dei cittadini “proprietari” di un territorio possa determinarne l’uso, le trasformazioni, la tutela. Pur non conoscendo nei particolari il caso di Chivasso e del parco Mauriziano, sembra emergere dalle varie descrizioni il caso di uno spazio aperto molto valutato: dai cittadini come polmone verde, per il tempo libero e la sosta; da alcuni interessi come oggetto di scambio, il cui “valore” non sta certo nella naturalità, quanto nell’uso privatistico, e relativa progressiva trasformazione in un’altra zona urbana, identica o magari peggiore di quelle che la circondano. Il tutto nel quadro delle grandi trasformazioni spaziali della pianura piemontese, in questi anni accelerate a dismisura da varie “grandi opere”, il cui impatto è diffuso, ma particolarmente visibile nel nodo metropolitano di Torino, a cui Chivasso in senso lato fa riferimento.

Ciò premesso, le azioni possibili per contrastare questo modo di procedere dell’amministrazione, o quanto meno di interloquire con i suoi piani per il territorio (visto che un’amministrazione comunale opera a questa dimensione) cercando un punto di equilibrio più avanzato, credo siano del tipo già intrapreso dal Comitato, di cui abbiamo pubblicato una lettera con documentazione allegata: ricorsi, informazione, coinvolgimento di entità e responsabilità diverse (gruppi politici, autorità regionali, provinciali ecc.). L’altro versante, complementare, è quello del coinvolgimento dei cittadini: se l’amministrazione fa queste scelte, è perché presume di avere qualche tipo di consenso; se i cittadini dimostrano che questo consenso non esiste, o è minoritario dato che la cittadinanza in generale apprezza un'altra destinazione del parco, può e deve cercare soluzioni diverse.

Quali possano essere specificamente queste soluzioni, sta naturalmente ai cittadini e ai loro rappresentanti stabilire e concordare. Come spazio informativo, eddyburg può farsi carico di informare nel modo più diffuso e accessibile sul merito della questione. Lo abbiamo fatto anche in altri casi, talvolta con risultati lusinghieri, sempre producendo maggior consapevolezza. Possiamo riprovarci. Ad esempio allegando di seguito documentazione che completa quella già fatta pervenire a cura del Comitato, e già spedita a un rappresentante del consiglio regionale

Buon 2008 (f.b.)

Caro Eddy, ti scrivo all'indomani della definitiva approvazione della Finanziaria, che contiene la previsione per il prossimo triennio dell'uso distorto e criminogeno degli oneri urbanizzativi per sostenere spese correnti dei comuni, come denunciato con forza da Emiliani.

E’ forse opportuno ricordare brevemente come ci si è arrivati. Nel redigere il Testo unico sull'edilizia n. 380/2001 l'allora Ministro Bassanini (centrosinistra) omette di riportarvi l'art. 12 della legge 10/77 (Bucalossi) che obbliga i comuni a versare gli oneri urbanizzativi in un conto vincolato a tale scopo (svista o volontà perversa, vai a sapere). Nel 2004 l'Associazione nazionale delle Tesorerie comunali rivolge un quesito al Ministro delle Finanze Tremonti (centrodestra) che prontamente risponde che se nel TU la norma non c'è, vuol dire che non è più vigente (conclusione di comodo e apertamente illegittima, poiché un TU non può nè introdurre né abrogare alcuna norma). Da quel momento i Comuni si danno alla pazza gioia saccheggiando oneri e territorio. Il Governo Prodi (centrosinistra) conferma l'andazzo per i prossimi tre anni.

Per conto mio, avendo ben presente la gravità delle conseguenze denunciate da Emiliani, avevo proposto ad alcuni parlamentari della Sinistra critica (verdi, rifondazione, PdCI) un emendamento che ripristinava il testo dell'art. 16 della 10/77 introducendo anche qualche miglioramento (separazione tra oneri e monetizzazione di aree pubbliche non cedute nei piani attuativi da usarsi solo per acquisizione di nuove aree, separazione del contributo commisurato al costo di costruzione da destinarsi alla sostenibilità ambientale, ecc.). So per certo che qualcuno l'ha anche presentato, ma l'esito è stato quello che abbiamo visto.

E' per questo che credo indispensabile un'azione concreta di una coalizione di volonterosi che non voglia arrendersi al risultato contenuto in Finanziaria o limitarsi a sollevare un ennesimo inutile mugugno.

Diamoci da fare. Perchè non organizziamo un ricorso al TAR (si tratta di valutare se in una o più sedi e da parte di chi), che metta i nostri governanti di fronte alla perdurante e trasversale illegittimità dei propri comportamenti? L'ultimo atto della Finanziaria riapre i termini per poterlo fare, ma i tempi sono ristretti (60 giorni) e occorre capacità tecnico/giuridica e qualche risorsa finanziaria. Ma credo che l'obiettivo valga la pena di organizzare lo sforzo di mettere in atto quella che mi pare una legittima difesa di chi è interessato a salvaguardare il bene comune territorio.Qualche idea e qualche avvocato amministrativista disposto a seguirci ce l'avrei. Fammi sapere che ne pensi.

Caro Sergio, sono senz'altro d'accordo con te. La questione è molto grave, e merita di essere ripresa in termini di denuncia e in termini di proposta. Siamo disponibili a far nostra e ad appoggiare qualunque ragionevole iniziativa che proporrai. Tieni conto che le risorse di cui eddyburg può disporre sono estremamente esigue: il credito acquisito, e il tempo di pochissime persone. Se pensiamo ad iniziative che richiedano quote di lavoro organizzativo bisogna perciò che troviamo insieme volontari disposti a essere istruiti e guidati.

Gentile Professore, oggi Giangiacomo Schiavi ha risposto sul Corriere ad una mia lettera, a proposito di una banale ristrutturazione, nella solita Milano, di un palazzo di uffici di sette piani... che ne farà un grattacielo di venticinque.

Nella risposta mi ha indirizzato a Lodo Meneghetti, nome , mi scuso come medico totalmente ignorante di architettura, a me finora sconosciuto. Ma così mi ha aperto un mondo interessantissimo come il Vostro sito.

Crede potrei contattare Meneghetti? quanto scriveva già mesi fa sul vostro sito era la profezia di quanto sta accadendo. (ho trovato anche un suo numero di telefono su pagine bianche.it) in ogni caso Gli passi i miei complimenti (togliendone prima una buona parte per sè) : credevo avessimo problemi noi della sanità, ma ora che sbircio il vostro mondo...

Scusi il disturbo e ... grazie di esistere

La ringrazio molto, e sono sicuro che anche Lodo Meneghetti (cui invio la sua lettera) sarà contento del suo apprezzamento. Sono certo che le scriverà direttamente.

Per i nostri lettori, inserisco qui la sua lettera e la risposta di Giangiacomo Schiavi

Cari amici, vi auguro buon natale. Ma soprattutto vorrei contribuire ad allietare ulteriormente la vostra giornata con una piccola informazione.

Credo che pochi di voi conoscano la vicenda del Parco Mauriziano di Chivasso. Come sapete, non lo cito quasi mai nelle mie mail. Per pudore evito di parlarne. Ma oggi, vi prometto solo per oggi, faccio uno strappo alla regola. Colgo dunque l’occasione di una giornata di relativo riposo per darvi una piccola notizia.

Il Parco Mauriziano rientra, nel piano regolatore chivassese, nelle Aree per spazi pubblici a parco per il gioco e lo sport “V”. In queste aree, secondo le Norme tecniche di attuazione del piano, è possibile costruire sul 25% della superficie, ed è possibile asfaltare il 60%. Forse stenterete a crederci, ma è così: il 60% dell’area del parco potrebbe venire asfaltata e un quarto, appunto il 25%, potrebbe essere edificata, e senza limiti di altezza (vedi la costruenda casa degli scout) . L’importante è che il verde vero e proprio non scenda al di sotto del 40%. Insomma, in base al piano regolatore vigente il verde del Parco Mauriziano potrebbe ridursi a meno della metà (appunto il 40%) senza che il comune, se comprendo bene, abbia bisogno di fare una variazione di piano.

Potete verificare leggendo sul sito del Comune di Chivasso, le NTA (Norme tecniche di attuazione) del Piano regolatore. Andate all’art. 55, e leggete il comma 10.2: «Il rapporto di copertura (R.C.) sarà uguale al 25% dell'area del lotto, mentre la superficie minima a verde permeabile in nessun caso potrà essere inferiore al 40% dell'area del lotto vincolato a verde». [ Notate la finezza: un lotto "vincolato a verde" che si più asfaltare per il 60%]

foto di f. bottini

Vi riporto il commento di una urbanista, non chivassese, a cui ho sottoposto la questione: «Quello che a me sembra davvero pura follia è il comma che recita [10.2] Il rapporto di copertura (R.C.) sarà uguale al 25% dell'area del lotto, mentre la superficie minima a verde permeabile in nessun caso potrà essere inferiore al 40% dell'area del lotto vincolato a verde. Il 25% dell'area del lotto interessato significa che si può coprire un quarto della superficie del parco. Un quarto è una vera follia. Ed altrettanto lo è mantenere solo il 40% di superficie permeabile. Vuol dire che un'area a parco potrebbe essere asfaltata per il 60% della sua superficie di cui il 25% coperta da un edificio. Se per ipotesi il parco misura 50.000 mq. , 30.000 mq possono essere resi impermeabili e 12.500 mq possono essere edificati! Manca poi del tutto la definizione delle altezze massime, per cui l'edificio non ha limiti di altezza!»

Fin dall’inizio coloro che si opponevano alla costruzione della casa degli scout dentro il Parco sottolineavano che ciò avrebbe creato un pericoloso precedente, e che la casa scout avrebbe potuto essere solo il primo di altri edifici. Evidentemente non si sbagliavamo di molto, anzi non si sbagliavamo per nulla.

Il Piano regolatore chivassese è opera delle due amministrazioni comunali che si sono succedute dal 1997 al 2005, entrambe guidate dal senatore Fluttero. Il progetto preliminare di piano è stato approvato dal Consiglio comunale nel 2001 ed è stato definitivamente approvato dalla Regione nel 2004. Che cosa è accaduto durante questi anni? Si direbbe un perfetto, o quasi, meccanismo a orologeria. Nello stesso 2004 il Comune ha acquistato il Parco dall’Ordine Mauriziano, che vendeva le sue proprietà per coprire l’enorme buco nel bilancio. L’ha comprato a prezzo di saldi, e poi ha provveduto a metterlo politicamente a frutto. Appena comprato il parco, infatti, sempre nel 2004 l’Amministrazione comunale delibera la costruzione della casa scout, regalando di fatto parte di un’area verde pagata con soldi pubblici ad una associazione privata. Due anni prima, nel 2002, era stata stipulata la convenzione tra Comune e Ferrovie (RFI), dove è stabilito che la famosa «strada del Parco Mauriziano» verrà costruita a spese delle Ferrovie (dello stato). Un affare per l’Amministrazione comunale, che in un colpo solo scarica il costo della strada sulle Ferrovie (ma sempre di denaro pubblico si tratta) e favorisce almeno altri tre soggetti privati. Quella bella strada asfaltata infatti andrà a vantaggio: 1) dei proprietari del grande capannone semi abbandonato ai confini del parco, un grande capannone in una posizione ormai quasi centrale, pronto ad essere «valorizzato» (un supermercato?), ma finora penalizzato dal fatto di avere solo un piccolo accesso in terra battuta: 2) i costruttori del complesso edilizio detto “PEC Mauriziano”, anch’esso ai bordi del parco, i cui lavori possono iniziare in qualsiasi momento, ma che è anch’esso ancora privo di una strada di accesso; 3) i proprietari del grande prato tra via Settimo e la rotonda all’ingresso di Chivasso: un’area che il piano regolatore destina curiosamene a zona artigianale, cioè capannoni, dico curiosamente perché a Chivasso ci sono già due grandi aree industriali sottoutilizzate: anche quel prato sarà valorizzato dalla costruzione di una strada che lo attraverserà collegandolo da una parte con la rotonda in uscita da Chivasso, e dall’altra con il centro città (via Berruti). Quale sarà la prossima "opera" dell'amminstrazione dentro il Parco Mauriziano?

Buon natale e felice anno nuovo!

Nota: a meglio illustrare il caso di Chivasso, comune della fascia esterna della conurbazione torinese interessato da trasformazioni territoriali legate più o meno direttamente alle "grandi opere", si allegano di seguito alcuni documenti prodotti nell'ambito dell'attività del Comitato Parco Mauriziano. Altri particolari disponibili sul blog www.centrotelli.blogspot.com (f.b.)

Dopo la pubblicazione dell’articolo di eddyburg.it dedicato al caso di Piazzatorre in Val Brembana, allego il file dell'informatore comunale (novembre 2007) che riporta il punto di vista dell'amministrazione sulla nota vicenda.

Un’amministrazione alla quale, come si capisce anche dalla qualità e dettaglio informativo di quanto pubblicato, nonostante tutto va riconosciuta la buona fede e la dedizione al paese.

Fulminanti gli accenni ai vincoli idrogeologici e alla situazione climatica (niente neve nel 2006-2007 e conseguente chiusura degli impianti). Che sperino nello “stellone”?

La situazione appare, ad essere sinceri, deprimente.

M.C.

Gentile lettore, come tentavo di chiarire già nell’articolo, quello di sfruttare il territorio come unica risorsa a disposizione, e di farlo nel modo più immediatamente traducibile in moneta sonante ovvero con la trasformazione edilizia e irreversibile di una risorsa unica, è un metodo al quale quasi sempre le amministrazioni locali, specie quelle piccole e relativamente “deboli” (come pare nel caso di Piazzatorre) pare siano forzate come per una scelta quasi inevitabile.

Posto che, nello specifico, il percorso convenzione per gli impianti-trasformazione d’uso e fisica di alcune aree, appare la prospettiva più probabile. Invece di sperare anche noi nello “stellone” (che alla vicina San Pellegrino ha poco giovato, cooptata in blocco all’impero del mogul dei centri commerciali Percassi), credo che la cosa più auspicabile sia di ampliare il dibattito e cercare di coinvolgere forze locali e non in una prospettiva di respiro più ampio.

Innanzitutto per verificare se approccio generale alla montagna e nuove trasformazioni possano correggere la rotta in termini di impatto ambientale, e di privatizzazione dei percorsi e accessi agli spazi aperti. In secondo luogo, verificando se e in che misura gli elementi di “forza e debolezza” individuati dall’analisi SWOT del Piano di Sviluppo della Comunità Montana (che per molti versi confermano le critiche espresse dall’articolo di eddyburg) possano rappresentare una base per iniziative volte a evitare che, una volta esaurito il respiro corto del ciclo di sviluppo basato sull’edilizia, si ripetano identici e identicamente inutili scempi simili.

(f.b.)

come sappiamo sulla vicenda della base Dal Molin è calata una cappa di silenzio mediatico: sui giornali e le televisioni nazionali non si fa cenno alla situazione di Vicenza almeno dall'ultima grande manifestazione di febbraio. Sui giornali locali, certo, se n'è continuato a parlare, ma la mancanza di una vera discussione di fondo e il fatto che da Roma si sfiori l'argomento di tanto in tanto solo per ripetere che “la questione è chiusa” e per rassicurare l'amica Condy Rice (D'Alema l'altro ieri è stato ringraziato dalla segretario di Stato Usa: “per aver preso le decisioni che doveva prendere”, testuali parole), sembrano aver ridotto la cosa a una disputa di respiro locale. E così da mesi si parla con il commissario Costa, del “come costruire” la base. Mentre del “come decidere” se costruirla o meno non si accenna nemmeno per sbaglio.

Ma intanto da un piccolo paese limitrofo a Vicenza, Quinto Vicentino, è arrivata la prima, vera vittoria del fronte del No: è stato il consiglio comunale del paese, nella seduta del 28 novembre, a dare il primo Stop istituzionale a un progetto di ampliamento degli Usa. Il tema era stato sollevato eddyburg da Irene Rui e Guido Zentile ( Vicenza, sprawl d'importazione): si trattava, come ben spiegato nel loro articolo, di un villaggio di villette unifamiliari, devastante in termini ambientali, costruito in un'area agricola di pregio, e che per la sua grandezza avrebbe richiesto una deroga al piano regolatore, addirittura convertendo l'area, ora ad utilizzo agricolo, in “zona di pubblico interesse” (su cui, per inciso, gli americani non avrebbero neppure pagato l'Ici). L'escamotage era anche stato preso in considerazione dal sindaco di Quinto, ma alla fine il consiglio, all'unanimità, ha preso atto che i problemi creati dall'insediamento sarebbero stati ben maggiori dei supposti vantaggi. Ecco le motivazioni del No al progetto della ditta Pizzarotti di Parma: “le criticità sulle reti viarie dovute ai carichi veicolari generati dai nuovi insediamenti su strade già oggi ritenute inadeguate”; “la limitata disponibilità di Superficie Agraria Utilizzabile (S.A.U.) che attualmente risulta essere di circa 147.000 mq di superficie territoriale, comunque insufficienti a soddisfare completamente la richiesta di 220.000 mq di superficie territoriale, per cui il futuro insediamento residenziale saturerebbe da solo tutta la capacità edificatoria comunale derivante dal P.A.T., escludendo in pratica ogni ulteriore futura possibilità edificatoria per altre necessità residenziali della cittadinanza”. Dunque, motivazioni in primo luogo urbanistiche e ben poco astratte, forse poco politiche secondo gli schemi correnti, ma che d'altra parte confermare il fatto che gli insediamenti Usa sono sì “questioni urbanistiche”, ma nel senso più nobile del termine: riguardano l'uso del territorio in cui vive una comunità, e a questa comunità spetta in primo luogo di pronunciarsi per dire sì, no, e se sì come. Esattamente quanto non si sta facendo, da quasi due anni, a Vicenza, dove il consiglio comunale non ha ancora approvato nessun provvedimento urbanistico che autorizzi la costruzione di una base ben più grande e impattante del “piccolo” villaggio di Quinto.

Quando le denunce cui eddyburg dà risonanza evidano qualche danno al territorio (e alle generazioni presenti e future) ne siamo lieti. Naturalmente lo siamo anora di più quando congtribuiamo a migliorare, e non solo a "depeggiorare". Purtroppo viviamo in una fase in cui gli interessi più ostili al buongoverno del territorio hanno una frza che in altre fasi della nostra storia non anno avuto. Speriamo che i temopi cambino di uovo, questa volta in meglio. Molto dipende anche da noi.

Sono stato sindaco di questa perla unica al mondo dal febbraio 1971 al giugno 1985. Durante questi lunghi anni credo di aver salvato la mia città dall’assalto del cemento, che ha attecchito nel resto dell’intera Costiera Amalfitana. Di tanto mi hanno in tanti dato atto.

Sempre durante questi anni ho collaborato, quale sindaco, con il prof. Pane, col prof. Dal Piaz, col dott. Delgado, con i quattro rappresentanti dei comuni dell’area sorrentino-amalfitana e delle province di Napoli e Salerno, nella redazione di quello che è alla fine diventato il “P.U.T. dell’Area Sorrentino - Amalfitana, approvato con la legge 35/87 della Regione Campania.

A causa di una malattia che mi ha ultimamente colpito e di cui ancora sono vittima, non ho seguito, negli ultimi due mesi il Suo sito.

Ritonatoci, ora, su, ho avuto modo di leggere l’articolo comparso sul Corriere del Mezzogiorno, ed. Napoli, 4 settembre 2007.

Inutile fare i soliti complimenti; voglio solo integrare le notizie che ivi sono esposte.

In particolare, ad un certo punto il Presidente di Italia nostra Donatone dice: “Giace da ottobre 2006 presso la procura della Repubblica salernitana un esposto-denuncia della presidenza nazionale di Italia Nostra contro l'ormai avviata costruzione dell'«Auditorium» di Ravello ... Sollecitiamo pertanto il procuratore della Repubblica di Salerno, Apicella, a dare impulso e concludere senza remore le indagini prima che l'opera venga illegittimamente realizzata” .

Ebbene, voglio informarLa che, siccome quella denuncia conteneva qualche affermazione errata, nonché delle manchevolezze, ho ritenuto di dare completezza di informazioni alla Procura di Salerno. Così, anch’io, il giorno 15 dicembre 2006, ho presentato, personalmente e pro manibus, un esposto/denuncia che qui Le allego in copia. Ovviamente non Le invio i numerosi allegati, anche perché, di essi, un buon numero sono già in Suo possesso.

Grazie, a nome di tantissimi Ravellesi per quanto sta facendo per la salvaguardia della nostra identità

Lei giustamente, sottolinea – come del resto Donatone - la necessità di difendere la legalità a proposito della difesa di un bene comune, come è la bellezza del paesaggio amalfitano: una bellezza già guastata da numerosi obbrobri, cui è inutile aggiungerne altri. Mi fa riflettere su come il termine “legalità” abbia assunto significati diversi: oggi viene usato sia nel senso che gli diamo noi, sia come copertura di volontà sopraffattrici che si appellano alla legalità per reprimere, e possibilmente cancellare ogni “diversità” rispetto ai valori, agfli interessi e alle idee dominanti. Nella babele delle lingue penso che sia sempre utile qualificare le parole che si adoperano: anche questa è una costante premura di eddyburg, che colgo l’occasione della sua lettera per ribadire.

Beh, che dire…che il Suo sito mi sia parso molto interessante lo si è capito da subito..mi sono subito iscritta alle newsletter, e stamane e’ arrivata la prima.

Mi presento..( è il minimo per ringraziarla della Sua attenzione) Sono e sono responsabile di un neonato progetto…un’Associazione ONLUS chiamata “Ci vuole un albero”. ( www.civuoleunalbero.it). L’obiettivo ambizioso dell’Associazione non è identificabile esclusivamente con il semplice gesto di piantare alberi, bensì quello di portare “cultura”..quella cultura ambientale così effimera per i piu’. Sono consapevole del compito difficile ma per indole non mi fermo davanti a ostacoli o difficoltà.

Tutta questa filippica porta ad una richiesta.. la possibilità di annoverare il Suo sito nel sito dell’Associazione, fra i link preferiti e l’autorizzazione a pubblicare, facendo ovviamente riferimento alla fonte, eventuali articoli di interesse comune.

Mi prendo anche l’ardire di dimostrarle come ci stiamo muovendo allegandole la locandina di un convegno che si terrà il 30 p.v. Non mi dilungo oltre per non rubarle altro tempo.

La ringrazio infinitamente dell’attenzione e Le auguro buon lavoro

Siamo molto grati della sua lettera, e naturalmente siamo lieti che ci inserisca tra i vostri “preferiti” e i link segnalati. Per quanto riguarda l’inserimento nel vostro sito di documenti tratti da eddyburg la nostra politica è di diffondere, senza restrizioni, tutto ciò che ci sembra utile o bello. Se va in fondo alle pagine del sito trova la frase sensibile “copyright e responsabilità” nella quale è scritto, tra l’altro, che “chiunque può usare o riprodurre le informazioni e i materiali originali contenuti nelle pagine di questo sito. Tale uso sarà tuttavia condizionato, ove si tratti di materiali propri di eddyburg , alla citazione dell’autore così come compare nel sito e alla indicazione della fonte originaria in modo visibile e con la seguente dicitura: ‘tratto dal sito web eddyburg.it’. Per i materiali derivanti da altre fonti si suggerisce di rivolgersi ai relativi autori o editori”.

Eddyburg non si occupa prevalentemente di alberi e boschi, ma delle condizioni che rendono possibile adibire il suolo alle diverse utilizzazioni necessarie alla vita dei cittadini, e non alla speculazione fondiaria ed edilizia: quindi quelle condizioni che rendono possibile far crescere alberi e boschi e prati (e altre utilità comuni) laddove la costruzione di nuovi edifici e nuove infrastrutture non p strettamente necessaria.

Queste condizioni si chiamano corretta e democratica pianificazione territoriale e urbanistica, e hanno molto a che fare con ciò che accade nella politica e nella societa. Purtroppo i modi in cui quelle condizioni (e in particolare la pianificazione) si realizzano sono un po’ complessi, e sono resi addirittura complicati da chi preferisce che i cittadini non s’impiccino. Personalmente ho scritto un libretto (“Ma dove vivi?”, Corte del Fòntego, Venezia 2007, 14,90 €), che si propone proprio di “spiegare l’urbanistica al popolo”; lo potete ordinare direttamente all’editrice, inviando una e-mail al seguente indirizzo:
cortedelfontego@libero.it oppure telefonando al 041 5232533; chiedete lo sconto per studenti.

Maria Cristina Gibelli

”Davvero non è urgente la nuova legge urbanistica?

6 settembre 2007

Carissimi, devo dirvi che sono rimasta perplessa leggendo il titolo della intervista a Vezio sulla legge urbanistica. Ma davvero non è urgente? E lo sfascio dalla Campania in giù? E il vero incubo lombardo? Oggi l'assessore all'urbanistica del Comune di Milano alla festa dell'Unità ha raccontato la sua "visione del futuro": risolvere i problemi dello sprawl e del pendolarismo costruendo case per 750.000 nuovi abitanti! Insomma, come aggiungere Bologna a Milano (ovviamente cementificando tutto il Sud Milano e dando al fuoco un po' di campi nomadi). Per favore, ditemi che si è trattato di una svista editoriale!

Vezio De Lucia

”Non illudiamoci. Intanto abbiamo sconfitto il peggio”

7 settembre 2007

Cristina, potrei cavarmela dicendo che il titolo di green report forza poche e frettolose parole alla fine della mia intervista. Colgo invece l’occasione per tentare di chiarire alcune questioni importanti intorno alla nuova legge. In primo luogo, il risultato che non esagero a definire eccezionale sta ne fatto che siamo riusciti (molto del merito è di eddyburg, e tu sei stata una protagonista) a bloccare, credo definitivamente, l’orribile controriforma Lupi, che tutti davano per approvata, anche autorevolissimi esponenti del centro sinistra. La sicurezza di questo risultato è confermata dalla proposta Ds (a firma Raffaella Mariani) che non è più assolutamente apparentabile alla proposta Lupi e tiene conto di alcune nostre posizioni. Ed è questo che fa infuriare il presidente dell’Inu. Ti pare poco? In secondo luogo, non penso che si possa condividere l’atteggiamento di chi è convinto che con una nuova e buona legge urbanistica nazionale sia risolutiva per il governo del territorio nazionale. Non alimentiamo illusioni. L’obbligo di formare i piani regolatori esiste in Italia da 65 anni, eppure centinaia di comuni del Lazio e della Campania ne sono ancora sprovvisti, Gli standard urbanistici sono un obbligo da quasi 40 anni, ma dal Lazio in giù sono spesso un miraggio. L’abusivismo è un reato, ma in gran parte d’Italia l’attività edilizia e urbanistica è nelle mani della malavita organizzata. Aggiungo che in Toscana, da 12 anni, la legge regionale detta norme precise per il contenimento delle espansioni che invece, come sai, continuano a svilupparsi indisturbate. Il problema, allora, non è la legge nazionale, comunque importantissima, ma la cultura politica e amministrativa che in materia è in crisi, drammaticamente in crisi. Concludo proponendo a Salzano di aprire una discussione su questi argomenti.

Maria Cristina Gibelli

”Condivido e rispondo”

7 settembre 2007

Caro Vezio, ho letto la tua tempestiva risposta alla mia un po’ enfatica mail notturna. Come sempre, condivido tutto quello che scrivi e, in particolare, che una buona legge nazionale non sarà certamente l’occasione per una palingenesi nelle politiche e nelle pratiche urbanistiche ed edilizie locali. Ma anche da qui bisogna cominciare. Nessun paese “moderno” può permettersi di non avere una legge di principi aggiornata rispetto alle problematiche e alle sfide emergenti. Il problema che segnalavo alla attenzione tua e di Eddy riguardava principalmente il messaggio veicolato dal titolo, probabilmente redazionale di Green Report, alla tua intervista. Per me, come so per certo anche per te, la legge non solo “serve”, ma è anche “urgente”, perché, se non sarà approvata in questa legislatura, rischiamo: di dimostrare che la sinistra non credeva alla necessità di questa riforma, mancando un’occasione che non esito a definire “storica”, ma anche di dover ricominciare tutto daccapo e di nuovo da soli, senza le convergenze attuali che, come ben sappiamo, non danno nessuna garanzia di coerenza e durata nel tempo perché sono fortemente condizionate dalle alternanze del ciclo politico.

La discussione rimane aperta. È giusto non farsi illusioni sulle capacità taumaturgiche della legge, e perciò lavorare molto sulle coscienze, nella battaglia culturale, per l’allargamento della partecipazione al dibattito e della condivisione di principi giusti. Ma pronti a cogliere ogni occasione per avere strumenti nuovi. Una new entry in Parlamento, l’interessante proposta di legge presentata da Edo Ronchi e altri, molto vicina alla proposta degli Amici di Eddyburg, alimenta la speranza di un risultato entro questa legislatura.

Spett.le Redazione di eddyburg.it. In data 01.07.2007 sul sito www.eddyburg.it., è apparso un articolo dell’architetto Paolo Baldeschi dal titolo “Un villaggio turistico sul Montalbano”.

Vorrei rispondere a tale articolo partendo innanzitutto dal confutare alcuni dati numerici.

Il progetto in questione, detto anche delle Rocchine, non prevede la realizzazione di un villaggio di 55 mila metri cubi, bensi della metà (circa 24.000 mc.). Del 50% vanno ridotte anche le previsioni di ricettività giornaliera ( non 800 come indicato nell’articolo bensi’ intorno a 400 ). Sempre in tema di dati tecnici vorrei aggiungere che l’altezza max degli edifici è di 5,40 metri per le residenze e di m.7,00 per l’edificio polifunzionale (non si tratta dunque di grattacieli, ma di strutture assolutamente compatibili con l’ambiente circostante).

Al di là dei numeri intendo qui esporre, a beneficio anche dei lettori, alcune considerazioni sull’argomento.

Le Rocchine non sono quell’ecomostro che si vuole far apparire, ma un progetto di sviluppo turistico sostenibile che punta a superare i limiti del cosiddetto turismo “mordi e fuggi” e a dare vitalità all’intero tessuto economico. Un progetto che non è sorto all’improvviso , come si tende ad ironizzare nell’articolo suddetto, ma che trova autorevolezza e trasparenza nelle linee d’indirizzo fissate dal piano strutturale e puntuale definizione nel Regolamento urbanistico. Occorre, io credo, da parte di tutti e, a maggior ragione, da parte di chi è titolare di competenzein materia urbanistica ed ambientale, avere più rispetto per gli strumenti urbanistici adottati in quanto, è bene sottolinearlo a beneficio di chi legge, dietro l’approvazione di tali strumenti ci sono mesi e mesi di lavoro, d’ incontri con la gente, di discussioni in commissione e poi in consiglio comunale. Non si possono liquidare pertanto queste lunghe fasi del processo di partecipazione democratica come nulla fosse, senza il doveroso rispetto per il soggetto (Il Comune ) che le ha promosse e i tanti attori in esso via via coinvolti (Regione e Provincia comprese).

Quel che sorprende in negativo non è tanto una posizione diversa sulla fattibilità del progetto, quanto l’insieme di semplificazioni che vengono scomodate sull’argomento, capaci perfino di confutare verità elementari quali quelle rappresentate dai ‘numeri’ .

Continueremo, com’è giusto che sia, come Comune di Serravalle Pistoiese , gli approfondimenti nelle sedi istituzionali e con i cittadini attorno alla questione delle Rocchine, alla luce del piano particolareggiato appena presentato dai progettisti, ma rigettando pregiudiziali di principio ed attivando, invece, una partecipazione nel merito di un progetto che, nei nostri propositi, dovrà tendere a garantire sviluppo e modernità senza alterare storia, tradizioni e ambiente.

Serravalle Pistoiese,lì. 07.08.2007

Alla replica di Paolo Baldeschi premettiamo solo un’osservazione. Ci sembra che la legittimità sia, nel governo del territorio e altrove, una “pregiudiziale di principio” che non si debba mai rigettare, tanto meno da parte un’amministrazione comunale e del suo capo (e.s.)

Il Sindaco di Serravalle Pistoiese, Renzo Mochi, contesta il mio commento sul villaggio turistico previsto nel Montalbano accusandomi di falsificare le cifre. Ho riportato la ricettività da un articolo apparso su Repubblica e non smentito, ma poco importa. Quello che importa è che i 55.000 metri cubi sono previsti nel Regolamento Urbanistico del Comune di Serravalle consultabile on line. Se nel frattempo il Comune ha cambiato idea tanto meglio.Nel mio commento non ho espresso giudizi sul villaggio anche se personalmete ritengo che si tratti di una scelta sbagliata prima di tutto da un punto di vista economico e che il Montabano dovrebbe puntare sul cosiddetto "albergo diffuso" piuttosto che sui villaggi autosufficienti. Nel mio articolo mettevo in risalto che il percorso seguito dal Comune, a mio parere e a parere dei giuristi da me interpellati, nonché di un illustre consulente della Regione Toscana è del tutto illegittimo. Il villaggio doveva essere dimensionato nella UTOE prevista dal Piano Strutturale. Viceversa il Piano Strutturale contiene solo alcune generiche indicazioni e i mc e tutto il resto appaiono soltanto nel Regolamento Urbanistico. Su questo punto attendo una precisa risposta da parte del Sindaco e dai funzionari della Provincia e della Regione interpellati. Rimango dell'opinione che se tutti i Comuni toscani seguissero l'esempio di Serravalle potremmo considerare la LR 1/2005 carta straccia! (Paolo Baldeschi)

Faccio una riflessione a margine di un'iniziativa sul "decoro urbano" promossa dai politici di un municipio di Roma per cancellare alcune scritte xenofobe e razziste che imbrattano i muri della periferia.

In un manifesto firmato Fiamma Tricolore, con cui si sono tappezzati interi quartieri, ho letto con stupore queste affermazioni:

"Contro il lavoro precario,

contro la speculazione edilizia,

contro gli sfratti e il caro affitti".

L'estrema destra a Roma si allarga pericolosamente non già per i soliti slogan razzistici, ma perché sta occupando gli spazi vuoti lasciati dalla sinistra. La sinistra è altrove, indaffarata a governare un'economia locale dal PIL galoppante, sospinto dall'edilizia (del lavoro nero e delle morti bianche), dal settore dei servizi (sostanzialmente call center) e dai grandi eventi (del lavoro stagional-precario). Un'economia che, per la gioia di Veltroni e dei suoi, cresce sostanzialmente grazie ai campi di cotone del terzo millennio.

E' una sinistra ottusamente intenta a progettare, senza giustificazioni demografiche, la costruzione di 35 milioni di metri cubi residenziali, lasciando irrisolta l'emergenza abitativa più grave d'Europa.

Ciò che ne consegue è una città sempre più divisa tra centro divenuto "vetrina" e periferia resa "latrina" dagli avvoltoi del cemento, con i loro scempi ai danni del territorio e della mobilità dei cittadini.

Sul decoro urbano basterebbe poi citare le endemiche agenzie immobiliari, attrici protagoniste di un'economia parassitaria, che insozzano ogni angolo della periferia con migliaia di cartelli pubblicitari abusivi, rimasti tuttora senza sanzione nonostante le denunce di cittadini alle autorità locali (un'ottima pubblicità al municipio in questione l'ha fatta nel maggio 2007 la trasmissione Anno Zero di Michele Santoro). Un ragazzo senza punti di riferimento culturali, costretto a vivere in luoghi brutti, insalubri, invivibili, senza poter fruire di spazi pubblici all'aperto e al coperto, sistematicamente occupati dalla speculazione; vedendo in giro lo stress, l'aggressività, la divisione, l'individualismo e non la distensione, la socialità, la comunità; vedendo vincere mediamente i Mc Donald's sui teatri per 4 a 1 (punteggio parziale, e per non parlare dei mega centri commerciali), il ragazzo in questione dicevo, come può non sentire il richiamo di coloro che in questo momento sembrano offrirgli un'identità, una possibilità di ribellione alle macroscopiche ingiustizie, un riparo contro l'esterno, una legittimazione alla sua aggressività indotta da questo habitat?

Potrebbe altrimenti trovare credibilità nei politici, assessori e consiglieri, i quali una tantum, per lavarsi la coscienza, interrompono le loro pratiche clientelari, di benevolenza verso gli incettatori di spazi sottratti agli usi sociali e collettivi? Il mio timore è che portando costoro, i rappresentanti di questa politica, a cancellare pubblicamente le scritte fasciste, non si provochi nei soggetti interessati l'istigazione al fascismo.

La periferia criminogena genera criminali. E gli squadristi arruolatori dell'estrema destra, nella colpevole indifferenza di tutti i partiti della sinistra seduti al governo, sanno come attirarli a sé.

Caro Salzano, ho visto che su eddyburg.it viene riportata una mia intervista ad un giornale appioppandomi nientedimeno che il ruolo di teorico di una certa nuova destra. La cosa un po’ mi sorprende perché il libro che ho scritto e a cui l’intervista fa riferimento ( La città del liberalismo attivo, 2007) aveva tra l’altro l’intenzione di criticare una certa destra e il modo in cui quest’ultima intende il ruolo del diritto e dello stato. Può darsi che nel libro non sia riuscito sino in fondo nell’intento, ma continuo a pensare che appiattire le posizioni liberali (che cerco di sostenere) su quelle di certa destra fa solo il gioco di quest’ultima: e non mi pare un’ottima mossa. In sintesi: esiste una tradizione liberale (classica, continentale) che non coincide con le posizioni di certa destra (e, nemmeno, con quelle di certa sinistra), tradizione che va ovviamente discussa e criticata severamente, ma senza ridurla a ciò che non è e non può essere. Per fare un esempio (centrale anche per l’ambito urbanistico): l’ideale, fondamentale ed imprescindibile per la tradizione liberale, del ‘rule of law’ è per nulla accolto da certa destra e continuamente violato nelle sue pratiche di governo. Sia chiaro: alcune sovrapposizioni qua e là ci sono tra tutte le posizioni in gioco, ma ci sono anche chiari e profondi elementi di divergenza che portano ad idee molto diverse sul ruolo dei soggetti pubblici e privati. Per finire: dubito che molti di coloro che oggi si definiscono neo-liberali (o vengono classificati come neo-liberali) siano liberali nel senso in cui io intenderei il termine.

P.S. Non so se vorrai riportare queste mie brevi righe sul tuo sito e se sarebbe possibile aprire una discussione in proposito (io la troverei interessante; anzi, indispensabile proprio per le questioni urbanistiche); in ogni modo, conoscendoti da tempo, non ho dubbi che prenderai sul serio il problema e mi criticherai come testardo e inguaribile liberale piuttosto che come improbabile paladino di posizioni che per la gran parte non condivido.

Quando scriverò sul tuo libro ne tratterò certamente con un’ampiezza maggiore di quella che ho dedicato alla tua intervista, e a quella di questa breve risposta alla tua lettera. Nell’intervista rilasciata al giornale della famiglia Berlusconi non ho letto critiche a “una certa destra”: ma sono certo che la cialtrona destra italiana che campeggia attorno a Berlusconi e di cui lui è la migliore espressione non incontra i tuoi gusti, sebbene accetti di illustrarne le pagine.

Quando parlo di neoliberismo parlo di qualche altra cosa, che è nota all’analisi politica internazionale di questi anni e che non ha più niente da fare con quella “tradizione liberale (classica, continentale)” cui accenni. Vi si riferisce ad esempio, tanto per rimanere in eddyburg , il libro di David Harvey, Neoliberalism , recensito su queste pagine da Boniburini, e il breve capitolo di Giorgio Ruffolo che abbiamo riportato di recente. Qualcosa di cui l’attuale destra italiana è politicamente al servizio, ma che è ben più grande e più pericolosa. Un sistema di potere “che respinge nettamente l'interferenza dello Stato nel Mercato e riporta in auge un idolo che sembrava distrutto: la fede inconcussa nella sua capacità di autoregolazione” (Ruffolo). Un “progetto di lotta di classe” che “sembra lotta di classe e agisce come lotta di classe”, e il cui “liberalismo” ““significa piena libertà per coloro che non hanno bisogno di vedere accrescere i propri redditi, il proprio tempo libero e la propria sicurezza, e una vera e propria carenza di libertà per la gente che invano potrebbe cercare di fare uso dei propri diritti democratici per trovare protezione dal potere di quanti detengono le proprietà” (Harvey).

È del tutto omogenea a quel liberismo (neoliberalism ) la tesi che sostieni nella tua intervista, che certamente esprime il tuo recente pensiero con la fedeltà di una interpretazione autentica. Quando per esempio affermi che per la città bisogna stabilire “poche regole, le più astratte e generali possibile, che stabiliscano soprattutto che cosa non si deve fare, affinchè non siano lesi i diritti di alcuno” mentre il resto deve essere “lasciato alla libera iniziativa dei cittadini e alla benefica, provvidenziale azione del mercato”. E aggiungi: “Non il mercato falsato che conosciamo, ma realmente concorrenziale”: come se la proprietà immobiliare nelle città e nei territori potesse configurare un mercato siffatto!

Del resto, da ogni passo della tua intervista emerge che il tuo mondo è popolato esclusivamente da proprietari immobiliari desiderosi di accrescere la propria ricchezza personale, e la tua città è abitata unicamente da individui chiusi nel bozzolo del loro interesse economico. Questo mondo e questa città sono l’antitesi radicale di quelli che a me interessano, e che la buona urbanistica e la buona politica hanno tentato, e tentano ancora, di costruire. Spesso riuscendovi, come non sembri riuscire a vedere. Ma sono certo che ne riparleremo.

Ho letto con piacere l’intervento di De Lucia “ Un primo appunto per la nuova sinistra”. Vorrei fare un breve commento.

De Lucia dice che “ Si sta costruendo un numero spropositato di nuove abitazioni, mentre gli abitanti di Roma continuano a diminuire”. Ora, in un precedente intervento su questo argomento da me sollecitato il 15 novembre scorso (ponevo la questione dell’aumento di abitanti certificati a Roma dall’ISTAT), Berdini rispondeva che effettivamente esistono fonti di nuova domanda abitativa (residenti italiani, stranieri, turismo). Veltroni, sui giornali di ieri, parlava di emergenza abitativa legata all’arrivo, negli ultimi anni, di 150 mila nuovi residenti. Non mi sembra che questo dato sia stato contestato.

Il punto che voglio mettere in evidenza è che questo fatto, secondo me, aggrava ancora più il quadro della situazione così bene illustrata da De Lucia. La città, infatti, dovrebbe essere governata nella sua crescita. Quest’ultima, in generale, è la normalità del fenomeno urbano, non l’eccezione. Il consumo del suolo deve essere minimizzato sempre, non solo nel caso ­ che da quanto diceva Berdini negli interventi che ho ricordato sembra non essere quello di Roma - in cui le esigenze abitative si riducono. Qual è il pericolo di non riconoscere questa situazione di crescita della domanda? E’ di ricadere nel tipico errore italiano: si riconosce in ritardo l’emergenza e si risponde senza andare troppo per il sottile. E, in questa situazione, gli speculatori hanno campo libero per realizzare i loro piani. Il pericolo è di far perdere forza gli argomenti proposti da De Lucia a favore della lotta contro la rendita e la speculazione fondiaria, che è da combattere sempre, a prescindere dall’espansione o contrazione della domanda. La sinistra - io vorrei dire il centro sinistra - ha, quindi, un compito ineludibile e anche più gravoso: governare la crescita urbana, con tutte le particolarità che essa assume oggi (non è più quella degli anni ’50 e ’60) e le difficoltà che questo comporta. D’altra parte, il primo centro sinistra, e qui mi trovo d’accordo con De Lucia, si pose il problema di una Italia che cresceva, ponendo in atto azioni riformatrici che ebbero, pur con i limiti noti, effetti positivi. Vi ringrazio, come al solito, per gli spunti di riflessione che offrite.

Caro Declich, nessuno di noi ha mai sostenuto che a Roma non servono più case, e non solo per l’assenza scandalosa di edilizia pubblica. La questione del fabbisogno abitativo è complicatissima e certamente la riduzione del numero dei residenti non giustifica lo sviluppo zero della produzione edilizia: perciò hai ragione nel rilevare che nel mio intervento me la sono cavata troppo sbrigativamente facendo riferimento agli abitanti che diminuiscono. In effetti, basta considerare che anche se diminuiscono gli abitanti aumenta ovunque, e spesso vertiginosamente, il numero delle famiglie, a causa della contrazione del numero dei componenti. In alcune parti d’Italia la famiglia media è formata da meno di due unità. Detto questo, è fuori discussione che a Roma si verifichi un enorme spreco edilizio e una dissipazione inaudita dello spazio rurale e aperto, ed è stato più volte dimostrato. Per una più approfondita analisi dei dati, impossibile in questa sede, possiamo organizzare, se vuoi, anche con esperti, un incontro ad hoc. Hai ovviamente ragione quando sostieni che comunque la lotta alla rendita e alla speculazione fondiaria va condotta sempre, prescindere dall’espansione o contrazione della domanda (v.d.l.)

Cari amici di Eddyburg, vi invio un piccolo esempio di "dibattito"(?) sulle questioni del controllo della rendita fondiaria maturato nel corso della recente campagna elettorale in un piccolo comune del grande nord.

Una lista civica nata da un raggruppamento di cittadini stanchi dei bizantinismi di bassa cucina politica azzarda una proposta per mettere finalmente sotto controllo il consumo di territorio facendo leva su quello che ne rappresenta l'anello debole: la valorizzazione urbanistica delle aree nei piani decisi dal pubblico e il conseguente beneficio ai "rentier" privati di tutte le taglie (dal piccolo appezzamento alla grande proprietà fondiaria, fatte salve le rispettive proporzioni).

Si scatena un fuoco incrociato in particolare da parte di una lista, anch'essa civica, sostenuta da partiti allergici a qualsiasi controllo sul mercato immobiliare che accusa la proposta di "esproprio proletario"(non male eh!).

Il partito egemone (Lega Nord) non si espone e rimane nel vago.

Il responso conclusivo lo forniscono le urne: la Lega Nord rivince nonostante un forte ridimensionamento (dal 48% al 36%) pagando anche il commissariamento della sua precedente amministrazione causato da faide interne; la lista civica che ha proposto "l'esproprio proletario", costituitasi solo cinque mesi prima, è giunta seconda con il 23% dei consensi; la lista civica che non ama le ingerenze nel mercato immobiliare è giunta terza con il 22% dei voti. Ad altre liste minori il resto.

Come valutare questa esperienza?

Senza dubbio positivo il risultato ottenuto dal gruppo di cittadini che decidono generosamente di uscire dalla palude di una politica senza idee e senza slanci e di occupare uno spazio pubblico ormai lasciato alla deriva.

Vi allego tre documenti significativi della campagna elettorale di quel comune: il documento del gruppo di cittadini, parte di una più articolata proposta programmatica, il volantino della lista che ne ha avversato le proposte ed una replica.

Più ampie notizie sono rinvenibili sul sito della lista "Cittadini per Sumirago": www.cittadinipersumirago.org

Con l'augurio che da piccoli episodi come questo possa nascere la speranza che qualcosa di più profondo si possa muovere nel paese (quello grande) vi saluto cordialmente.

Naturalmente condividiamo la speranza. L’importante è che episodi come questo si moltiplichino. Ciò che conta è che cresca la consapevolezza che il territorio un bene comune, e che da questa consapevolezza nascano conoscenza e azione: conoscenza degli strumenti disponibili, azione per il loro impiego corretto. Prima o poi dovrà nascere una forza politica, e una generazione di amministratori, capaci di costruire nel concreto una politica del territorio alternativa rispetto a qella neoliberistica, che si sta impadronendo oggi negli spazi della nostra vita.

Cari Amici di Eddyburg, vorrei proporre un commento all’articolo scritto da Burgio sul Manifesto e ripubblicato da voi il 1° giugno. E’ una analisi del problema del decisionismo che ritengo non rigorosa, inconcludente e conservatrice.

E’ non rigorosa perché non è vero che i partiti di massa sono stati distrutti dalla stagione di riforme degli anni ’90. Infatti, lo sanno tutti quelli che facevano politica di base all’epoca, che i partiti di massa erano “morti” già da tempo. L’unico che resisteva era il PCI, ma era in profonda crisi organizzativa, di consensi, di militanza e di motivazione. Dire, poi, che l’attuale crisi politico-parlamentare discenda dalle riforme degli anni ’90 e non dalla attuale legge elettorale è una interpretazione così estrema da apparire una forzatura, almeno alla luce delle argomentazioni offerte.

E’ un’analisi inconcludente. Va bene criticare Prodi, ma l’articolo che pone tutte queste questioni manca di indicare qual è l’alternativa praticabile e realistica al presente stato di cose: riandare subito a votare, probabilmente con questa legge elettorale (proporzionale senza preferenze…). Si può pensare quel che si vuole di Prodi, ma Burgio avrebbe dovuto trarre dalla sua critica tutte le conclusioni.

Un ultimo punto, più interessante forse per le tematiche normalmente trattate da Eddyburg, è quello dei costi della politica. Qui mi sembra che Burgio sia anche conservatore. La politica è distrutta anche dal circolo vizioso scatenato dai suoi costi senza controllo, questo è fuori di dubbio. Eviterei, però, le critiche qualunquiste, ricordando che il primo a vincere le elezioni con questi argomenti è stato proprio l’”imprenditore” Berlusconi.

La politica ha bisogno di personale che vi si dedichi e che alla luce di considerazioni ovvie - va pagato. Il problema, è che il personale politico anche i portaborse, perché anche quelli servono - deve essere pagato il giusto e non devono essere permessi i parassitismi. Sono d’accordo, quindi, che un ceto politico finanziato come lo è adesso è inefficace e inaffidabile e finisce per causare il rigetto da parte dell’elettorato. Vorrei dire, però, che Burgio non deve dimenticare che la gente comune si arrabbia non solo per i politici strapagati e inefficienti, ma per tutta l’economia che viene attivata grazie alla politica e che, anch’essa, dà luogo a tanti sprechi. Se ci si arrabbia per i danni prodotti, per esempio al territorio, da politici incapaci, pensiamo anche che le inefficienze sono il prodotto di macchine amministrative che in molti casi non valgono il loro costo: cattiva amministrazione; dirigenti che non controllano; impiegati che non si aggiornano; malasanità e cattiva amministrazione; ecc. Il sottobosco della politica, cioè, non si limita ai vertici degli apparati, ma influisce su tutta la macchina amministrativa. I politici hanno molta responsabilità in tutto questo, se non altro perché continuano a permetterlo. Il punto, però, è che non sono i soli responsabili ed è qui che ci vorrebbe un bel po’ di innovazione.

Insomma, diamo a Cesare quel che è di Cesare. Quindi, critichiamo il neoliberismo laddove va criticato, cioè quando attribuisce al mercato virtù e funzioni che evidentemente non ha e non può avere (alla redazione di eddyburg è caro il tema del governo del territorio, che non può essere lasciato ai privati). Il funzionamento delle istituzioni penso che non sia così semplicemente - come sostiene Burgio - una questione di neo liberismo. Ci sono visioni diverse che possono essere condivise sia a destra che a sinistra, sia da liberali che da non liberali. La legge sui sindaci ha funzionato bene, ma l’Italia non è una città, quindi chi pensa che “il sindaco d’Italia” sia la soluzione, secondo me, sbaglia di grosso. D’altra parte, io non sono un neo-liberista, ma penso che un sistema uninominale sia migliore del sistema proporzionale, specie se legato a partiti che fanno le primarie: i politici finirebbero per essere più legati al loro territorio e alle loro responsabilità, e la loro appartenenza ai partiti sarebbe non garanzia di un successo elettorale immeritato, ma una delle carte che potrebbero giocare nel conquistare il favore dell’elettorato. La discussione sarebbe lunga e non ho titoli e spazio per proporla qui. Ma evitiamo di inventare nemici inesistenti (cioè fare polemica contro il neoliberismo a sproposito), e dire con troppa facilità che si stava meglio prima…

Le opinioni sulle ragioni per cui i partiti di massa sono stati distrutti sono certamente molteplici. Non me la sentirei di dire che quella di Burgio sia meno rigorosa di un’altra. Quella crisi è stato il risultato di un processo lungo, nel quale si sono variamente intrecciate le insufficienze delle varie parti che si dividevano il proscenio nei 60 anni che sono dietro le nostre spalle. Difficile non condividere il giudizio di Burgio sulle “riforme” degli anni 90 e sul ruolo che dirigenti del calibro di D’Alema svolsero allora: fu allora che cominciò l’ubriacatura per le parole d’ordine del neoliberismo (modernizzazione, governabilità e governance, mercato). Si avviò l’uscita dal welfare state, non dai sui difetti, se ne iniziò la distruzione non l’aggiornamento. Si promosse quella mutazione del personale politico che trasformò i militanti in clienti e i professionisti della politica da funzionari di un’dea e un programma in stipendiati a carico del pubblico erario.

Condivido con Declich la considerazione che chi fa politica deve essere pagato: lo stipendio agli eletti è stato gigantesco passo avanti rispetto a quando la politica era riservata a chi aveva redditi professionali o rendite. Ma penso che sia un gravissimo difetto della nostra democrazia il fatto che i politici siano diventati una classe: un gruppo sociale caratterizzato dal particolare ruolo che ha assunto nel ciclo della produzione sociale; il reddito che riceve non corrisponde né alla quantità e qualità della forzalavoro impiegata, e neppure al risultato conseguito, ma semplicemente alla rendita derivante da una posizione di dominio. E penso che il fatto che i membri di questa classe vivano esclusivamente del reddito che proviene loro dalla politica sia la ragione principale (o almeno, una ragione importante) della mancanza di ricambio dei decisori e di corruzione delle istituzioni.

Non credo che un analista abbia gli stessi doveri del politico o dell’amministratore. Al secondo, il cui compito è governare, spetta certamente indicare sempre le alternative possibili alle situazioni criticate. Ma se, per comprendere una situazione o un processo in atto, bisognasse aspettare di avere un’alternativa praticabile, quelli di noi che non hanno gli strumenti o il tempo o la competenza per studiare determinati aspetti della realtà rimarrebbero nell’ignoranza più assoluta di ciò che accade attorno a loro. Io sono grato a chi mi aiuta a comprendere, anche se non mi da’ la ricetta per uscire dalla crisi di cui mi illumina la consistenza e i risvolti.

Infine, credo che sul termine neoliberismo dobbiamo intenderci. Quello che oggi viene definito così non è una versione moderna del liberalismo: è il nuovo sistema di potere che, a partire dalla fine degli anni 70, ha iniziato a impadronirsi del mondo. Come molti studiosi fuori dall’Italia hanno compreso e stanno studiando da tempo, e come ha raccontato in modo molto efficacemente divulgativo Giorgio Ruffolo, nel suo gustoso libretto Lo specchio del diavolo (Einaudi 2006). Ruffolo definisce il neoliberismo “la controffensiva capitalistica”. Inserirò presto in eddyburg questo capitoletto del suo libro, ma rinvio i lettori che abbiano tempo e voglia alla più ampia analisi di David Harvey, Neoliberalism , recentemente tradotta in italiano e recensita su eddyburg . Oltre che agli autori citati da Burgio. (es)

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