Tutto il mondo è malpaese. Ma anche all'estero primeggiano gli archistar italiani. «Tra l’altro questi grattacieli non rispondono al bisogno di alloggi popolari ma solo a speculazioni immobiliari che muterebbero per sempre l’aspetto della capitale». La Repubblica, 31 marzo 2014
Cosa fa venire in mente un grappolo di grattacieli? Una volta la risposta era obbligata: New York. Oggi potrebbe essere anche Shanghai, Hong Kong, Dubai. Ma domani rischia di diventare Londra. Già trasformata da decine di torri nella vecchia City, nella nuova cittadella della finanza a Canary Wharf e lungo il Tamigi, ora la capitale britannica sta per costruire altri 250 grattacieli. Fatti più in là, Manhattan, potrebbe dire alla metropoli sua rivale dall’altra parte dell’oceano. Sennonché un gruppo di scrittori, artisti e intellettuali accusa il sindaco Boris Johnson di volere stravolgere lo skyline e il carattere della metropoli, lanciando una petizione pubblica per provare a fermare il progetto.
I firmatari comprendono alcune delle voci più prestigiose e autorevoli della città, dal romanziere Alan Bennett allo scultore Anish Kapoor, dal filosofo Alain de Botton all’architetto Alison Brooks, da Charles Saumarez Smith, direttore della Royal Academy, a lord Baker, ex-ministro degli Interni conservatore, a due pesi massimi del partito laburista, il deputato nero David Lammy (che qualcuno ha ribattezzato l’Obama inglese) e l’ex-ministro della cultura Tessa Jowell, non a caso, questi ultimi, entrambi aspiranti a rimpiazzare Johnson come primo cittadino alle prossime elezioni. «È scioccante che si prepari un cambiamento così radicale dell’orizzonte di Londra praticamente senza dibattito, senza che la popolazione ne sia nemmeno consapevole », afferma la petizione, sostenuta da una settantina di personaggi di spicco. «Tra l’altro questi grattacieli non rispondono al bisogno di alloggi popolari ma solo a speculazioni immobiliari che muterebbero per sempre l’aspetto della capitale».
L’aspetto di Londra in verità è già molto mutato negli ultimi due decenni. Lo skyline odierno non è più dominato dalla cupola della cattedrale di Saint Paul, che nel ‘700 faceva declamare a un poeta: «Dentro, fuori, sopra, sotto, l’occhio si riempie di delizia». Nel ventunesimo secolo l’occhio del visitatore si riempie di torri come il Cheese-Grater (la Grattugia), il Walkie-Talkie (il Radiotelefono), il Gerkhin (il Cetriolo) e al di sopra di tutti lo Shard (la Scheggia) disegnato da Renzo Piano, la più alta d’Europa, solo per citare le più note, senza dimenticare le due gemelle di Canary Wharf in cui lavorano più di 50 mila persone. I progetti autorizzati dalla municipalità, tuttavia, promettono di aggiungere nel prossimo decennio all’orizzonte cittadino 200 grattacieli di oltre venti piani, 30 di quaranta piani e 20 di almeno cinquanta piani. L’identità di una metropoli di case basse, anche per questo meno claustrofobica di New York e altre città fitte di torri, ne risulterebbe fortemente alterata.
Il sindaco Johnson risponde dicendosi disposto ad avviare un dibattito «con gli altrettanto autorevoli esperti » da lui consultati prima di dare via libera ai progetti, e ribatte che i grattacieli porterebbero lavoro, dinamismo e vivacità alla Londra del terzo millennio. I suoi critici obiettano che la metropoli più grande d’Europa sta diventando vittima di una bolla immobiliare in cui i prezzi delle case salgono del 15 per cento l’anno. Un parco giochi per ricchi di ogni angolo della terra. A loro sono destinati i 250 nuovi grattacieli di Londra.
Nel nostro paese «Un capitale produttivo composto da più case ed uffici, ma meno macchinari e mezzi di trasporto, è apparso poco capace nel creare nuova ricchezza». Corriere Economia, 10 marzo 2014
Dopo oltre due anni, il segno più è nuovamente nelle statistiche dell’economia italiana. Uscito dalla recessione, il Paese torna, con fatica, a percorrere un sentiero di sviluppo. Messa da parte la contabilità della crisi, è, però, naturale chiedersi quanto tempo impiegheremo per recuperare il terreno perso. Dare una risposta a questa domanda non è semplice. Per provare ad immaginare, può essere utile ripercorrere brevemente quanto accaduto negli ultimi anni.
Viviamo una preoccupante caduta della propensione ad investire. Prima della crisi, il nostro Paese destinava alla realizzazione di nuovi investimenti oltre un quinto della ricchezza prodotta ogni anno. Nel 2013, siamo scesi al 17%, un calo di oltre 4 punti percentuali, che equivalgono a più di 60 miliardi di euro di ricchezza in meno destinati agli investimenti.
Non è, però, corretto attribuire alla crisi tutte le colpe. Il capitale investito nell’economia rappresentato dai macchinari e dai mezzi di trasporto utilizzati dalle imprese per produrre, ma anche dai capannoni, dagli uffici e dalle abitazioni, ha un valore stimato in circa 10.400 miliardi di euro. Nel corso degli anni ne è cambiata la composizione: si è ridotto il peso dei macchinari, mentre è cresciuto quello delle costruzioni, che sono arrivate a rappresentare quasi l’80% del totale. Un capitale produttivo composto da più case ed uffici, ma meno macchinari e mezzi di trasporto, è apparso poco capace nel creare nuova ricchezza.
Nel 2001, per produrre un euro di Pil erano necessari 5,1 euro di capitale investito. Già nel 2007, quando l’Italia ancora non conosceva la recessione, si era saliti a 5,6. La crisi ci ha portato a superare i 6,5 euro. In dodici anni, la capacità del nostro sistema produttivo di creare ricchezza è diminuita di quasi un terzo.
Appare, dunque, comprensibile immaginare per l’Italia tassi di crescita solo moderati, lontani da quelli che le altre economie hanno già raggiunto. Sia il Fondo monetario internazionale sia la Commissione europea prevedono un aumento del Pil reale dello 0,6% quest’anno, per poi accelerare, ma solo leggermente, nel prossimo. Alla fine del 2015, avremmo recuperato una piccola parte di quanto perso durante la crisi. Il nostro prodotto rimarrebbe, infatti, circa 7 punti percentuali al di sotto dei livelli raggiunti nel 2007. La strada da percorrere risulterebbe ancora lunga.
Per tornare a crescere in maniera sostenuta, è necessario riprendere ad investire nel capitale produttivo. Il sistema paese, però, non aiuta. L’inefficienza delle amministrazioni pubbliche, che si manifesta con i 1.200 giorni necessari per chiudere un procedimento in sede civile, o con le oltre 250 ore che ogni anno un imprenditore deve destinare all’adempimento degli obblighi fiscali, frena le imprese dal realizzare nuovi investimenti e limita l’afflusso di capitali dall’estero. Una visione d’insieme, ci dice, però, che il problema della perdita di capitale produttivo nella nostra economia ha un carattere più ampio, che va oltre la seppur importante inefficienza del sistema paese. Ma questa è un’altra storia, che dovrà, prima o poi, essere affrontata.
Ogni tanto accade qualcosa di buono. L'Unità, 25 febbraio 2014
Il vento politico può cambiare in senso favorevole alle riforme. Lo dimostra, per esempio, la vittoria nelle non facili elezioni sarde del Pd e del suo candidato Francesco Pigliaru, un economista, non un candidato “spettacolare”, già assessore della Giunta Soru. Lo sconfitto governatore in carica del centrodestra, Ugo Cappellacci, aveva in pratica rovesciato la strategia del centrosinistra che, fra non poche difficoltà, aveva varato con successo una pianificazione territoriale incisiva, prima col decreto salvacoste, poi coi piani paesaggistici coordinati da Edoardo Salzano, puntando a salvaguardare in modo attento un patrimonio naturalistico, ambientale, paesaggistico che è la ricchezza fondamentale della grande isola.
“Abbiamo costruito villaggi fantasma e reso fantasmi i nostri paesi”, commentò allora il governatore Renato Soru lanciando una sorta di “manifesto” programmatico per la sua isola fondato su una precedenza assoluta per la salvaguardia delle coste e per il restauro, recupero, riqualificazione dell’edilizia esistente. Gli fece eco un fine intellettuale, Giorgio Todde: “C’è qualcosa che lascia inebetiti nella vita sintetica del villaggio vacanze dove si mangia, si dorme, si balla, si nuota in piscine irreali, poi si mangia di nuovo, si dorme di nuovo in un ciclo rotondo e animale di cibo, deiezione e sonno”. Dal quale la Sardegna vera è esclusa, là, fuori dal recinto.
Purtroppo la giunta Cappellacci ha ripreso quel modello sbagliato, incoraggiato da Silvio Berlusconi la cui famiglia ha interessi cospicui su centinaia di ettari di quella che dovrebbe diventare la Costa Turchese. Coi sardi sempre fuori dai cancelli. Le zone ancora integre non sono poche, persino vicino a Cagliari, oppure nell’area di Bosa, e ancora nell’Iglesiente con la Costa Verde detta anche il Sahara d’Italia per l’ampiezza inusitata degli arenili e delle dune che li proteggono. Anche 3.000 ettari ininterrotti. Soltanto in Sardegna vi sono ancora migliaia di ettari di dune, altrove distrutte e cementificate.
Per questo i piani paesaggistici devono tornare al centro di un’azione congiunta Stato-Regione per risollevare l’economia sarda depressa dalla caduta degli ormai lontani sogni industriali, messa a terra dall’abusivismo all’origine del recente disastro ambientale. Bisogna puntare di più, con intelligente senso del reale, sull’economia agro-silvo-pastorale, sui suoi vini e formaggi oggi qualificati, sul manifatturiero, sul turismo naturalistico (potrà mai decollare il Parco Nazionale del Gennargentu?) oltre che su quello balneare. Offrendo però ai collegamenti marittimi col Continente quelle tariffe convenienti che la concorrenza fra più società doveva assicurare e che invece il solito “cartello” all’italiana ha negato, a danno delle attività sarde e dei sardi.
Vento favorevole alle riforme pure in Toscana dove la Giunta di Enrico Rossi ha portato con coraggio in Consiglio sia il piano paesaggistico redatto d’intesa con Ministero per i Beni Culturali sia la nuova legge urbanistica regionale. Esempio da imitare nelle regioni dove cemento e asfalto spesso hanno impazzato intaccando a fondo la risorsa millenaria del paesaggio tuttora basilare per una migliore difesa del suolo, per una vita sociale più serena, per un’economia più equilibrata e durevole, per un turismo qualificato. La Regione Toscana ha ascoltato la voce dei comitati di cittadini provocando, di fatto, il ritiro di un progetto di golf con club house e villette a schiera al Lago Aquato, presso Capalbio, in una Maremma intatta, delicatissima, ad alta vocazione agro-silvo-pastorale. Con vini lanciati anche sul mercato Usa dove ai produttori si chiedono le immagini dei bei paesaggi da cui vengono quelle bottiglie di pregio, e più son belli e più i vini valgono. Vogliamo capirlo finalmente?
Ancora una denuncia dei risultati di decenni di malgoverno del territorio. Peccato che si cerchino le soluzioni nei pannicelli caldi, e che nel proporre le risorse necessarie si dimentichino possibili cespiti come la riduzione delle spese militari e il prelievo dei plusvalori delle rendite finanziarie e immobiliari. l'Unità, 10 febbraio 2014
Diciamoci una molto scomoda verità: mai come in questi mesi inseguiamo i disastri senza avere a disposizione,come ormai da quattro anni, leve per gestire le emergenze e azionare quella politica di prevenzione che servirebbe da decenni al nostro Paese. Frane e alluvioni hanno messo in ginocchio centinaia di migliaia di italiani, migliaia di aziende, infrastrutture fondamentali, siti archeologici; bloccano linee ferroviarie verso la Francia, l’Austria, e in diverse Regioni dalla Porrettana alla Siena-Grosseto alle ferrovie calabresi. Gli eventi si aggiungono e si sovrappongono ai precedenti disastri con effetti drammatici: dal 1950 ad oggi abbiamo contato 5.459 vittime, 88 morti l’anno, e oltre 4.000 fenomeni idrogeologici devastanti, ma solo negli ultimi 12 anni hanno perso la vita 328 persone e dai 100 eventi l’anno registrati fino al 2006 siamo passati al picco di 351 del 2013 e ai 110 nei primi venti giorni del 2014.
Il danno economico per lo Stato è una voragine: dal dopoguerra ad oggi, stacchiamo ogni anno un assegno di circa 5 miliardi per riparare i danni e senza fare un passo avanti per prevenirli, anzi con incredibili salti indietro visto il consumo del suolo da record mondiale che ha reso i nostri territori talmente fragili che franano, crollano e si allagano con un ritmo impressionante e direttamente proporzionale al livello di dissesto. Il riscatto della politica doveva e poteva passare dalla Legge di Stabilità 2014, ma l’obiettivo è fallito miseramente fra troppe disattenzioni e la scure della Ragioneria di Stato e del Ministero delle Finanze, con il Parlamento che dal piano di 900 milioni l’anno proposto dal ministro Orlando, scesi a 500 proposti all’unanimità dalla Commissione Ambiente della Camera presieduta da Ermete Realacci, ha fatto crollare l’investimento più utile e urgente ad appena 30 milioni per l’anno in corso più altri 50 per il 2015 e altri 100 per il 2016.
Il nulla, di fronte al dissesto nell’81,9% dei 6.633 Comuni, dove vivono 5,8 milioni di italiani (il 9,6% della popolazione nazionale, con 1,2 milioni di edifici, decine di migliaia di industrie e un patrimonio storico e culturale inestimabile). È questo il momento di crederci e fare sul serio. Abbiamo il dovere morale prima che politico di far partire finalmente quel piano di difesa del suolo, ma nelle prossime settimane e mettendo la parola fine all’incuria cronica e al dominio della burocrazia che vede nemmeno il 4% degli interventi anti-dissesto finanziati negli ultimi 4 anni conclusi e 1675 interventi sul territorio italiano con 1.100 cantieri fermi. Mentre l’Italia cade a pezzi si aprono tavoli, concertazioni e spesso si aspettano firme, timbri e progettazioni.
Ci sono tutte le condizioni per crederci e stabilire un programma serio e coraggioso, in cima al patto di governo, per portare sicurezza a milioni di italiani guardando ai rischi futuri del global warming con scenari non più sottovalutabili, avviando uno sforzo gigantesco e quasi da New Deal. Ci sarebbe anche un motivo economico e di risparmio: un euro speso in prevenzione fa risparmiare fino a 100 euro in riparazione dei danni.
Come è possibile? Intanto con una nuova definizione istituzionale delle competenze per sbloccare le opere ferme con competenze di cassa e dire finalmente basta alla fitta giungla burocratica di 3600 enti e soggetti e centri decisionali spesso sovrapposti e contrapposti che si occupano a vario titolo di dissesto idrogeologico, alle prese con 1300 norme leggi e regolamenti statali e regionali emanate dopo la legge quadro del 1989. È diventato un altro argine alla prevenzione. Si può agire con modalità diverse: costituendo un Fondo nazionale e dedicando allo scopo una robusta Struttura di Missione come quella esistente (ed efficiente) del Ministero delle Infrastrutture e Trasporti, e inserendo tutte le opere in Legge Obiettivo per snellire le procedure (anche di VIA), agevolando progettazioni e direzioni lavori anche attraverso i Provveditorati alle Opere Pubbliche; creando una Agenzia nazionale o utilizzando la stessa Protezione Civile che negli ultimi anni è stata largamente depotenziata. Sarebbe persino possibile gestire risorse fuori dal Patto di stabilità per la prevenzione. Anzi, i vincoli potevano già essere sforati ma il tema non è mai stato oggetto di negoziazione con l’Europa, disposta a darci una mano e frenata dal governo tecnico di Monti, come conferma l’ex ministro Clini.
L’Europa, infatti, dovrebbe permetterci di sforare in presenza di un progetto serio, con procedure attentamente vigilate dall’Europa per evitare nuove cricche e vergognosi scandali. Altre due leve da azionare subito sono poi quelle dei Fondi europei 2014-2020 per ritagliare una quota dei 57 miliardi co-finanziati e l’utilizzo del Fondo Revoche (di opere e interventi fermi e non realizzabili).
Si può anche discutere seriamente sul prelievo di una quota di scopo aggiuntiva dalle tariffe idriche visto che le aziende sono tutte di proprietà e controllate dai Comuni: basterebbero solo 2 euro in più a bolletta per garantire circa 1 miliardo l’anno. È l’ora di introdurre anche un’assicurazione obbligatoria per la copertura dei rischi, e rafforzare il divieto di ogni uso del suolo nelle zone classificate a rischio idrogeologico molto elevato. L’unica certezza è che non possiamo più né star fermi, né rinviare, né piangere lacrime di coccodrillo. Perché nessun Comune è oggi in grado di misurarsi da solo con eventi che un tempo avevano cadenza duecentennale e oggi sono disastri ordinari.
Una grande opera di manutenzione e tutela dell'ambiente e del territorio di iniziativa e gestione statale secondo il modello sperimentato tra le due guerre, per il rilancio dell'occupazione. L'ennesima voce autorevole che racconta invano ai decisori come si dovrebbe lavorare per uscire dalla crisi. Ma hanno le orecchie tappate, od occupate da tintinìi.. Il manifesto, 7 febbraio 2014
Come scritto da Luciano Gallino nel suo libro Il colpo di Stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa (Einaudi 2013), esistono quattro vie per creare occupazione: la prima quando sono realizzate grandi invenzioni come accaduto con l’avvento dell’automobile o con l’innovazione tecnologica; la seconda quando vi è un aumento di spesa pubblica per la realizzazione di grandi opere o la spesa in armamenti; la terza mediante la creazione diretta di posti di lavoro da parte dello Stato; la quarta attraverso politiche fiscali per incentivare le assunzioni o stimolare i consumi. Purtroppo la prima strada nel contesto odierno non è attuale; la quarta strada, quella delle politiche fiscali si è dimostrata sovrastimata, e, in ogni caso, non ha prodotto i benefici sperati; la seconda strada ha dimostrato di essere efficace, ma c’è da augurarsi che vengano sempre più ridotti gli investimenti nell’industria bellica.
La terza strada, quella che vede lo Stato come datore di lavoro di ultima istanza, ha base teoriche molto approfondite ed è in grado di creare occupazione in tempi rapidi, anche in una situazione di recessione.
La nostra proposta individua una soluzione alla disoccupazione indicando lo Stato come datore di lavoro di ultima istanza attraverso la creazione di un Programma nazionale sperimentale di interventi pubblici. L’obbiettivo che ci proponiamo e di creare almeno 1,5 milioni di posti di lavoro, sostenendo un occupazione produttiva e un lavoro dignitoso. Il Green New Deal dovrebbe essere realizzato da tutte le amministrazioni dello Stato e dagli enti locali per realizzare interventi nei settori della protezione del territorio, per prevenire e contrastare il dissesto idrogeologico; per bonificare e riqualificare tutte le aree del territorio nazionale; per recuperare, mettere in sicurezza e valorizzare edifici scolastici, ospedali, asili nido pubblici e il patrimonio immobiliare pubblico da destinare a prima casa e iniziative di cohusing e coworking; per incrementare l’efficienza energetica e ridurre i consumi per gli uffici pubblici; per recuperare e valorizzare il patrimonio storico, architettonico, museale archeologico italiano; per recuperare dall’inquinamento fiumi, aree paludose, spiagge e coste, con interventi che prevengano i disastri ambientali ricorrenti a cui anche in queste settimane sono state esposte vaste zone del paese.
Per realizzare questi interventi, il programma si prefigge l’obiettivo, nel triennio 2014–2016, di occupare 1,5 milioni di lavoratori tra le persone inoccupate, disoccupate o occupate in cerca di altra occupazione, qualora il loro reddito sia al di sotto di 8 mila euro. In tre anni ipotizziamo di destinare circa 29 miliardi di euro, recuperati prevalentemente attraverso il taglio per le spesa degli F35, una tassa sulle transazioni finanziarie e un utilizzo a nostro avviso più efficace delle poche risorse destinate al cuneo fiscale. Per creare più occupazione, i lavori creati dovrebbero essere a orario ridotto e le categorie svantaggiate dovrebbero avere una priorità di assunzione. Il governo italiano, poi dovrebbe, secondo i nostri propositi, chiedere che non vengano considerati aiuti di stato tutti gli interventi finalizzati a combattere la disoccupazione. Un piano straordinario per il lavoro, un Green New Deal per l’Italia che sia anche una proposta per un New Deal Europeo, per un’altra Europa capace di sostituire i vincoli di bilancio in costituzione con il contrasto alla disoccupazione e il diritto al lavoro per tutti i cittadini europei.
«Investire sulle foreste alpine per prevenire e contrastare il dissesto idrogeologico consente non solo di salvaguardare l’ambiente e l’ecosistema ma anche di ridurre i costi per la sicurezza del territorio». Corriere della Sera, 5 febbraio 2014
«L’abbandono delle aree collinari e montane è un fenomeno drammatico sia per la società che per l’equilibrio geologico del nostro Paese. Fino a vent’anni fa gli abitanti provvedevano alla manutenzione ordinaria del territorio, in alta collina e in montagna. C’erano le colture dei contadini i quali poi provvedevano a molte opere di manutenzione semplicemente perché amavano farlo, rientrava nella loro cultura. Aggiungiamoci il lavori dei consorzi di bonifica, e nel Mezzogiorno d’Italia la politica democristiana che portò a una forte forestazione. Tutto questo è finito, le aree collinari e montane si sono spopolate. Le aree non vengono più curate. Questa è la ragione di ciò che stiamo vedendo: l’aumento esponenziale dei disastri, appunto, in collina e montagna».
Giuseppe De Luca, segretario generale dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, studi alla London School of Economics, professore associato di Urbanistica alla Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze, sostiene che sia impossibile occuparsi di ciò che sta a valle (le città e i grandi insediamenti industriali), soprattutto quando si analizzano le ragioni tecniche delle alluvioni e delle inondazioni, «se non si governa ciò che sta alle spalle, ovvero le alture». Le cifre parlano chiaro. Secondo uno studio del Dps, Dipartimento per lo sviluppo e la coesione economica, molte zone considerate periferiche e ultra-periferiche (superiori ai 600 metri di altezza) dal 1971 si sono letteralmente spopolate.
Qualche dato tra i più evidenti. In Emilia-Romagna -52% della popolazione, nel Molise -46.9%, nel Veneto -33.3%, in Liguria -34,3%. E basta un pensiero ai terrazzamenti abbandonati in Liguria, caratteristica di quella regione, per capire il perché di frane e smottamenti. Il saldo finale della media italiana è -8.1% di popolazione nelle aree periferiche e -5.3% nelle aree ultra-periferiche. Un mutamento epocale non solo della società italiana, della sua economia diffusa, ma anche di un secolare approccio verso il territorio, soprattutto in un Paese in cui il territorio nazionale è per il 75% montano-collinare. Le conseguenze, in queste ore di nevicate e di intemperie, sono tangibili. Nelle aree collinari e montane tutto sembra diventato più difficile, anche garantire soccorsi. E soprattutto proseguire un’attività industriale, vista la quantità di continui smottamenti e frane.
Secondo i dati dell’Ispra, l’istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, la popolazione esposta a fenomeni franosi ammonta a 987.560 abitanti, tutti appunto nelle aree montano-collinari. Quasi un milione di italiani vive, insomma, nell’incubo quotidiano di un cedimento del territorio in cui ha organizzato la propria esistenza. Spiega il geologo Alessandro Trigila, responsabile del progetto Iffi (Inventario fenomeni franosi in Italia) dell’Ispra: «I fattori antropici hanno un ruolo sempre più determinante nell’aumento delle frane collinari e montane. E non c’è solo l’urbanizzazione, con le strade o gli scavi o la quantità di edifici. C’è da mettere nel conto la mancata manutenzione del territorio e delle opere di difesa del suolo. Un ottimo rimedio per le frane più superficiali è nelle opere di ingegneria naturalistica a basso impatto ambientale. Interventi realizzati con un sistema misto di piante, legno e pietra che consolidano il territorio in modo ben più vasto e diffuso delle opere in cemento».
Che fare nel futuro? Come restituire alle zone collinari e montane una loro vivibilità sottraendole al pericolo ambientale? La parola d’ordine è, come diceva Trigila dell’Ispra, tornare agli strumenti più naturali che si rivelano poi i più economici, oltre che i più rispettosi dell’ambiente. Afferma Marco Flavio Cirillo, sottosegretario al ministero dell’Ambiente: «Investire per esempio sulle foreste alpine per prevenire e contrastare il dissesto idrogeologico consente non solo di salvaguardare l’ambiente e l’ecosistema ma anche di ridurre i costi tra le 5 e le 20 volte, a seconda delle diverse situazioni, rispetto a quelli che si dovrebbero sostenere per realizzare opere con funzione protettiva. Sulle Alpi svizzere le foreste svolgono una funzione in termini di tutela della sicurezza del territorio comparabile a quella di infrastrutture il cui costo e manutenzione è stimato in 85 miliardi di euro». E dove trovare i soldi? Una proposta viene dall’Uncem, Unione Nazionale Comuni Comunità Enti Montani, presieduta da Enzo Borghi che afferma: «L’unico sistema percorribile è quello sperimentato già in Piemonte. Prevedere che una quota della tariffa pagata dai cittadini per il servizio idrico integrato (acquedotto, fognatura, depurazione) venga destinata a interventi per la prevenzione del dissesto idrogeologico affidati agli enti locali, che ben conoscono i territori, in accordo con le Regioni. E non da inutili nuove agenzie nazionali...». Sempre dall’Uncem, vero «sindacato della montagna», arriva un altro dato. In vent’anni in Italia i boschi sono aumentati del 25-30%. Ma si tratta di boschi spontanei e invasivi, frutto dell’abbandono delle aree, che compromettono zone coltivabili. Dice un documento Ucem: «Mancano piani forestali per una gestione dei boschi con tagli regolari ogni 25-30 anni, eliminando quelli invasivi e valorizzando la filiera bosco-legna-energia». Risultato operativo: l’Italia importa il 70% del legno che usa mentre i boschi montani aumentano, creano danni all’agricoltura e non tutelano il territorio. Inutile aggiungere altro.
Mentre l'economia finanzcapitalistica caccia il lavoro dalle fabbriche, la sopravvivenza della struttura fisica e di quella culturale della Penisola esprime una gigantesca domanda di forza lavoro. Ma di quanti decidono ci fa un pensierino e lo sviluppa in un'azione coerente. Il manifesto, 30 gennaio 2014
Dal 22 gennaio è visibile sul sito del ministro della Coesione Territoriale «La Strategia Nazionale per le Aree interne». La Strategia, lanciata dal ex ministro Fabrizio Barca più di un anno fa, oggi comincia a muovere i primi passi con un progetto pilota. A questo proposito su questo giornale ha scritto Piero Bevilacqua: «Si tratta di un progetto che, per visione e modo di procedere, si distacca nettamente dal modello di sviluppo economico tardo-novecentesco rappresentato dalla Tav… Sono due strade opposte e culturalmente inconciliabili».
Territori in movimento
A guardarle con maggiore attenzione, le aree interne non sono tutte uguali. In alcune l’emigrazione appare come un fenomeno fisiologico, di riequilibrio naturale, e a fronte di cittadini che se ne vanno, si moltiplicano le tracce di nuovi arrivi. Si tratta per lo più di giovani, con esperienza di lavoro e studio maturate altrove, impegnati nella costruzione delle condizioni materiali della loro vita, come nuovi coloni, in luoghi dove non esistono opportunità di lavoro. Queste aree interne sono fortunate se i cittadini sono in grado di organizzarsi, di promuovere una classe dirigente nuova, nel tentativo di contrastare i meccanismi che li condannano, e offrire una visione alternativa di futuro.
Rimangono comunque territori fragilissimi: per innescare un processo di desertificazione di un’intera area basta che il numero di bambini non sia più sufficiente ad aprire una prima elementare, che chiuda una scuola, che muoia la cartolibreria che viveva della scuola, e così via.
La Strategia prova a puntare su queste aree in movimento, in una logica di riequilibrio dei servizi e di promozione dello sviluppo e del lavoro. E prova a intervenire in maniera nuova, andando a raccogliere sui territori le dinamiche nate dalla collaborazione fra cittadini e amministrazioni, accompagnando quelle più promettenti, trasformando i conflitti in laboratori verso nuove modalità di relazione fra istituzioni e abitanti.
I territori muti
Ci sono poi le aree interne all’apparenza disperate, territori muti, dove il drenaggio continuo di uomini e attività economiche produce smarrimento, subalternità, assenza di futuro. La prima cosa che colpisce, muovendosi in queste aree, non è la mancanza di servizi, ma l’incapacità da parte di chi le abita di esprimere bisogni e rivendicare diritti, anche i più elementari. Sono luoghi dove si impara la lezione amara che più la gente viene stritolata, meno reagisce.
Qui l’azione della Strategia ha un altro segno, e si muove in discontinuità rispetto a quello che è stato fatto negli ultimi vent’anni di «sviluppo locale». Punta a portare o a rafforzare i servizi pubblici, promuovendo la loro gestione associata fra i comuni e una riorganizzazione della spesa ordinaria dei ministeri, mettendo al centro interventi su scuola, sanità, infrastrutture, messa in sicurezza del territorio, creando concrete opportunità di lavoro: in pratica opera sulle precondizioni per invertire il processo di impoverimento umano e materiale.
Dalle aree interne a una nuova politica
Questa prima fase della Strategia necessita della messa a punto di nuovi strumenti di ascolto del territorio, con una approccio che si avvicina a quello del civil servantinglese, per cui gli uffici, piuttosto che essere ingranaggi di una catena gerarchica di politiche scelte dall’alto, si pongono al servizio del cittadino, inteso come committente.
Inoltre, la Strategia interroga profondamente anche la politica. Il tema dello sviluppo sociale ed economico delle aree interne è, infatti, intrecciato a quello della trasformazione delle strutture decisionali, economiche e sociali del paese. Il modello democratico rappresentativo tradizionale, fondato sul peso elettorale dei territori, contribuisce a marginalizzare, nei processi decisionali e nell’attenzione pubblica, le aree scarsamente popolate; è tempo, anche per lo Stato, di fare i conti con le nuove forme sempre più diffuse di attivismo delle istituzioni locali e dei cittadini, alle quali troppo spesso si risponde soltanto con la repressione.
Proprio per questi motivi siamo difronte a un’operazione non facile che già trova resistenze negli interessi dei rentiers locali, coloro che beneficiano delle condizioni di marginalità delle aree interne, e di strutture fortemente conservative all’interno della stessa Pubblica amministrazione. Per avere successo, la Strategia deve avere le fattezza di una politica allo stesso tempo industriale e di tutela, meno dirigista e meno localista; deve essere ragionevole, in grado di fare i conti con la scarsità di risorse, ma ambiziosa, puntando a invertire un trend secolare di spopolamento, riaprendo un dibattito pubblico in grado di contrastare l’immagine di residualità che ha guidato le politiche di sviluppo su questi territori.
In una serie di neologismi artigianali, l'intervista a Aldo Bonomi ripropone modelli di società/territorio suburbaneggianti e pure confusi. Il manifesto, 7 dicembre 2013, postilla (f.b.)
«Negli ultimi vent’anni il capitalismo liberista dei flussi ha scaricato sui territori la sua forza e ha cambiato antropologicamente, culturalmente, economicamente e socialmente i luoghi – afferma Aldo Bonomi, direttore del consorzio Aaster e autore, tra l'altro, de Il capitalismo Infinito (Einaudi), a cui abbiamo chiesto un commento al 47 ̊ rapporto Censis - Questo processo ha in parte desertificato i territori. Oggi bisogna chiedersi se l'antropologia del locale, espressione del capitalismo molecolare basato sui distretti industriali, sia ancora in grado di reggere un simile impatto. Ne discuto spesso con Giuseppe De Rita del Censis. Ho l'impressione che l'antropologia basata sul campanile, sulla comunità, sui capannoni, sulla famiglia messa al lavoro («la famiglia Spa» l'ha definita il Censis) non basti più. Dentro la crisi dobbiamo prendere atto che quella che De Rita chiama la «società di mezzo», cioè le rappresentanze d'impresa, del lavoro, i comuni e le province, le camere di commercio, è sottoposta ad un processo di delegittimazione.
Da parte di quali soggetti? I territori sono prigionieri di una forbice. Dall'alto è in atto una virulenta lotta di classe da parte della Commissione Europea, della Bce, dell'Fmi, la Troika che non ammette l'esistenza di una «società di mezzo», ma solo quella del governo centrale. Dal basso, nei territori, riappare il lavoro servile, la servitù della gleba nei meccanismi di subforniture. Pensiamo a quello che è accaduto nel distretto del tessile a Prato, ad esempio. In più bisogna aggiungere la difficoltà da parte dei sindacati o della politica di tenere tutto insieme nell’uni- ca forma di lavoro salariato e normato a vita.
Bisogna restaurare la vecchia «società di mezzo» oppure individuare nuovi intrecci sociali e produttivi? Quali segnali ha raccolto a questo proposito nelle sue inchieste?Innanzitutto che non esistono più le certezze sulle quali il nostro racconto della società italiana ha puntato per anni. Dentro questi processi di decomposizione credo però che esistano filamenti di novità, che restano sospesi nel «non ancora», ma che non vengono raccontati né colti dalle istituzioni o dalle forze sociali tradizionali.
Quali sono queste novità? Sono almeno tre. La prima è data dal radicarsi del processo migratorio. Non c'è solo lo schiavismo di Prato, ma c'è anche un segmento di soggetti, privi di cittadinanza, che fanno impresa, innovazione, cambiamento culturale. Lavorano nei servizi, nel commercio, nella logistica minuta. Poi esistono eccedenze di saperi sui territori dove giovani specializzati e formati cercano di sviluppare saperi terziari. Io li chiamo «smanettoni», sono le nuove forme del lavoro autonomo di seconda generazione che uniscono l'artigianato alla tecnologia (i makers), si associano nei coworking, puntano sull'auto-impresa, creano comunità di mutuo-aiuto, di cura e di relazione. È dal- l'intreccio tra queste soggettività che bisogna ripartire per disegnare un nuovo equilibrio nei territori.
Qual è la differenza tra questa composizione sociale e quella che diede vita ai distretti industriali?
Stiamo forse parlando di un'alleanza tra i perdenti del processo in corso?Certo. Sono i sommersi dal capitalismo liberista che ha distrutto tutto ciò che era in mezzo tra flussi e luoghi. Il vero problema oggi è produrre un conflitto e una resilienza che impongano limiti a questo capitalismo e lo cambi.
Questa coalizione sarà capace di praticare un simile conflitto?I lavoratori autonomi di prima generazione hanno dovuto creare un conflitto per sviluppa- re una forma di rappresentazione di sé. Prima di essere riconosciuta l'impresa molecolare c'era solo il lavoro salariato. Ci sono voluti vent'anni per riconoscere la Cig anche alle piccole imprese. Oggi questa è l'unica strada. Ci vuole il conflitto affinché una start up acceda al credito. Il conflitto è necessario perché ai precari e agli autonomi venga riconosciuto il Welfare. Se non sei garantito devi porti il problema su come garantirti una mutualità universale. Il Quinto Stato, nella sua eterogeneità, chiede proprio questo. Ci vorrà tempo per ottenerlo.
postilla
Cosa si può leggere, in questa ennesima rassegna di tutto e del contrario di tutto, a proposito di territorio, sviluppo locale e non, rapporti con globalizzazioni reali e vagamente evocate? Ad esempio, una generica confusione fra il modello socio-territoriale della famiglia impresa e quello della classe creativa metropolitana, sfrondata da certi schematismi alla Richard Florida prima maniera. Ovvero una generica confusione fra il tipo di sviluppo perseguito per anni e anni dalla Democrazia Cristiana d'antan, quello dell'interclassismo, senza fratture, e quello più onestamente conflittuale con cui invece si scontrano da sempre sia i protagonisti che gli studiosi impegnati a porsi davvero la questione, invece di inseguire metafore. Che servono a far pubblicità ai libri, oppure più sottilmente a confondere le acque, magari all'insaputa di chi le lancia a piene mani. Con almeno una precisazione: nel dibattito internazionale almeno si sanno distinguere chiaramente destra e sinistra, prospettiva suburbano-familista (dai Repubblicani Usa alla nostra Lega) e metropolitano-individualista (è quella di Richard Florida, da noi impera la confusione appunto). Per inseguirne una, con tutto ciò che si porta appresso, bisognerebbe almeno avere le idee chiare sulle alternative, e le ariose metafore pare aiutino poco in questo senso (f.b.)
Ancora sul pasticcio governativo di una riforma degli enti locali che sta sprecando l'ennesima occasione di far qualcosa di buono su un tema cruciale. Il manifesto, 3 dicembre 2013
Le città metropolitane furono previste dalla legge 142 del 1990 per dare un indispensabile governo unitario alle conurbazioni cresciute a ridosso delle grandi città, dando vita ad un continuum urbano che ha oltrepassato persino i confini delle province, rendendo inadeguati al governo di queste aree tanto il comune capoluogo che la stessa provincia. La legge del 1990 attribuì alle regioni il potere di delimitarne i confini, nel logico presupposto che non potessero coincidere con quelli provinciali, perché altrimenti non ci sarebbe bisogno di nessun nuovo ente metropolitano. Tuttavia, l'inerzia delle regioni (che non hanno interesse a far nascere enti che metterebbero in ombra esse stesse) e del governo (che, incomprensibilmente, non ha mai attivato i propri poteri sostitutivi per scavalcare l'inerzia regionale) ha di fatto bloccato la nascita delle città metropolitane.
È per queste ragioni che il governo ha creduto bene, con il decreto legge 95 del 2012, di abrogare la precedente normativa (poi trasfusa nel testo unico del 2000) e di introdurne una che si supponeva di immediata applicazione, ma che è stata annullata dalla Corte costituzionale.
Si è così giunti al paradosso: le città metropolitane che, secondo l'art. 114 della Costituzione, «costituiscono» la Repubblica, non hanno allo stato alcuna disciplina. Ma ancora più paradossale è la pseudo-soluzione a questo grande pasticcio contenuta nel disegno di legge Delrio - attualmente all'esame della Camera, che lo sta profondamente cambiando, perché la sua approvazione nel testo originario darebbe il colpo esiziale ad ogni prospettiva di buon governo delle città metropolitane.
Questo disegno di legge, nonostante le molte modifiche, prevede ancora: 1) che le città metropolitane coincidano con le province (vanificando così la ragione stessa della loro esistenza: tanto vale, a questo punto, tenersi le province); 2) che se un terzo dei comuni non aderiscano alla città metropolitana, vi sia un'assurda duplicazione di enti perché solo per questi comuni resterebbe in piedi la provincia; 3) che non vi sia elezione diretta degli organi da parte dei cittadini: gli statuti potranno anche prevedere l'elezione degli organi della città metropolitana da parte dei cittadini, ma a condizione che si disarticoli il comune capoluogo; 4) che il sindaco metropolitano sia dunque quello del capoluogo e che il «consiglio metropolitano» (l'organo di «indirizzo e controllo», ma con funzioni anche di gestione, in quanto il sindaco metropolitano potrà attribuire specifiche deleghe ai consiglieri) sia composto da soli professionisti della politica (cioè sindaci e consiglieri dei comuni eletti dai consiglieri dei comuni che compongono la città metropolitana). Questo anche perché sia il sindaco che i consiglieri della città metropolitana (ossia del più grande ente territoriale dopo la regione) dovrebbero svolgere il loro incarico (che comporta enormi responsabilità) a titolo gratuito.
Inoltre, in questo modo non solo si inibirebbe una delle poche cose buone della legge sui sindaci del 1993 - cioè la possibilità di scegliere personalità esterne instaurando un rapporto proficuo con le competenze della società civile - ma si creerebbe un ente che già sulla carta non potrà far valere l'interesse dell'area vasta (ossia della città metropolitana), in quanto ogni eletto nel consiglio (e quindi anche i delegati, ossia gli assessori) sarà naturalmente spinto a far prevalere gli interessi della piccola comunità di abitanti che lo ha eletto direttamente e in cui svolge le funzioni di consigliere.
La razionalizzazione del sistema degli enti locali è una delle priorità nazionali e l'istituzione delle città metropolitane è certamente uno strumento essenziale. Ma per fare ciò che serve (scrivere una buona legge) occorrerebbe che ciò che resta della classe dirigente di questo paese comprendesse che la politica deve tornare a occuparsi della soluzione dei problemi concreti dei cittadini, smettendola di confonderla con l'arte di confezionare prodotti (quali che siano) per venderseli mediaticamente, tenendo presente che chi ben comincia è «solo» alla metà dell'opera; figuriamoci quando si comincia male. Ma sarà possibile in questo paese, almeno una volta, cominciare presto e bene?
Riferimenti
Sull'argomento (città metropolitane, province, governo d'area vasta) su eddyburg c'è molto materiale. Vedi in particolare i documenti prodotti per il secondo Seminario di eddyburg, raccolti nella cartella Scuola di eddyburg, e l'eddytoriale n. 159 Lucertole e coccodrilli
Lo sanno, quelli che hanno vissuto ieri in Campania momenti di spavento, d’essere esposti al rischio. Non ci vogliono pensare, ma lo sanno. Sanno che è pericolosa la loro terra, da sempre colpita dai terremoti. Sanno che sono pericolose, troppo spesso, le loro case fragili. E non serve a niente affidarsi alla buona sorte. È da tempo, spiega Emanuela Guidoboni che con Gianluca Valensise ha scritto un saggio monumentale sui terremoti avvenuti in Italia dall’Unità a oggi, che viene registrata una intensificazione di attività sismica. Tutto normale, per i sismologi. È la storia del nostro Paese. Meno a rischio del Giappone, dell’Armenia, del Cile o di alcune aree della Turchia, ma comunque da sempre colpito da tremendi scossoni: 34 terremoti devastanti più 86 «minori» dal 1861 ad oggi, per un totale di circa 200 mila morti e 1.560 Comuni (uno su cinque) bastonati più o meno duramente.
Spiega il rapporto Ance/Cresme del 2012 sullo stato del territorio italiano che una delle aree più soggette ai fenomeni sismici è appunto l’Appennino a cavallo tra la Campania e il Molise. Dove già fu durissima la batosta inflitta dalla natura nel 1980, quando venne sconvolta l’Irpinia e le aree circostanti. Stando al dossier, le abitazioni considerate a rischio in Molise sarebbero 158.812, in Basilicata 264.108, in Abruzzo 421.953, in Calabria 1.206.600, in Campania 2.148.364, in Sicilia 2.479.957. Da incubo. Più le scuole, più gli ospedali…
Il consiglio nazionale dei geologi conferma: « Il rischio sismico maggiore riguarda le regioni della fascia appenninica e del Sud Italia. Al primo posto c’è la Campania, in cui 5,3 milioni di persone vivono nei 489 Comuni a rischio sismico elevato. Seguono la Sicilia, con 4,7 milioni di persone in 356 Comuni a rischio e la Calabria, dove tutti i Comuni sono coinvolti, per un totale di circa 2 milioni di persone».
È una storia, purtroppo, vissuta sulla propria pelle da milioni di persone. Con conseguenze pesantissime non solo in termini di vite umane. Basti leggere un rapporto della Protezione Civile del 2010: «I terremoti che hanno colpito la Penisola hanno causato danni economici consistenti, valutati per gli ultimi quaranta anni in circa 135 miliardi di euro (a prezzi 2005), che sono stati impiegati per il ripristino e la ricostruzione post-evento. A ciò si devono aggiungere le conseguenze non traducibili in valore economico sul patrimonio storico, artistico, monumentale (…) Attualizzando tale valore si ottiene un valore orientativo complessivo dei danni causati da eventi sismici in Italia pari a circa 147 miliardi e, di conseguenza, un valore medio annuo pari a 3.672 milioni di euro/anno».
Una cifra spropositata. Che ad ogni nuovo terremoto, e Dio sa quanti ne abbiamo avuti (negli ultimi decenni, anzi, la loro frequenza è stata perfino più bassa rispetto ai primi trenta o quarant’anni del secolo scorso) ci spinge a ripetere la solita domanda: non avremmo risparmiato tante vite umane e tanti disastri se ci fossimo preoccupati di più della prevenzione, del rispetto delle regole antisismiche nell’edilizia, della buona manutenzione quotidiana? Tanto più che le conseguenze più tragiche non sono dovute solo alla forza distruttiva di questa o quella «botta» sismica.
Come ricordava l’anno scorso in un articolo il sismologo Max Wyss, Direttore della World Agency for Planetary Monitoring and Earthquake Risk Reduction, «sono i crolli degli edifici e non i terremoti a uccidere». Una forzatura? Non troppo. Per capirci: lo stesso identico terremoto della stessa identica potenza può essere vissuto con un brivido in cima al grattacielo di 55 piani Shinjuku Mitsui Building che a Tokyo nel 2009 oscillò senza danni fino a un metro e 80 centimetri sotto la spinta di un sisma del 9° grado della scala Richter e può creare migliaia e migliaia di morti in una città sgarrupata e costruita alla meno peggio senza alcun criterio di sicurezza.
Ed è questo a spaventare, quando c’è una scossa forte, gli abitanti di quella bruttissima megalopoli che copre i dintorni di Napoli fino a Caserta. Sanno di vivere in una immensa periferia di condomini tirati su troppo spesso con materiale di scarto nella scellerata convinzione che «se deve capitare, capita» e che comunque «ci penserà San Gennaro». Sanno che gran parte del patrimonio edilizio è vecchio. E quando ha meno di mezzo secolo è spesso ancora più fragile, con quel cemento armato di seconda categoria fornito troppo spesso da imprese legate alla camorra, degli edifici più antichi. Per non dire dell’«area rossa» vesuviana: al primo censimento del 1861 la popolazione era di 107.255 persone, quasi tutte concentrate sulla costa. Al censimento del 2001, erano 530.849. Oggi sarebbero oltre 580 mila.
Certo, ci vogliono una montagna di quattrini e un sacco di anni per risanare una realtà a rischio come quella, che vede in lontananza un Vesuvio insolitamente quieto da oltre mezzo secolo. E certo non è facile cominciare oggi, in questi tempi di crisi. Ma occorre ben partire, con quest’opera di risanamento. Così come è indispensabile che domani, passato (speriamo) lo spavento, certi politici non ricomincino a cavalcare le peggiori (e suicide) richieste degli abusivi. Ricordiamo ancora un manifesto affisso tre anni fa ad Ischia: «Vota abusivo!». Ecco, spaventi come quelli di ieri dovrebbero servire a capire che occorre davvero voltare pagina.
Il fatto è che tra il dire e il fare ci sono in mezzo gli affari: se vogliamo essere più precisi, un’idea perversa nascosta dietro l’etichetta della parola dell’innocente parola “sviluppo” Un'idea che sul territorio genera cemento e asfalto. L’Unità, 24 novembre 2013
Nulla di nuovo sotto la pioggia, nemmeno quella che lunedì notte ha trasformato metà Sardegna in un lago di morte. Nulla di nuovo perché, come troppo spesso capita, tutti sapevano, qualcuno ha detto, nessuno ha fatto. Tutti sapevano e tutti sanno che in Italia il territorio è un malato senza cure, dunque fragile. Ed è per questo, non altro, che le frane e le alluvioni sono la regola, non l’eccezione, che negli ultimi sessant’anni ha provo cato 5500 vittime. Tutti sapevano e tutti sanno che i cambiamenti climatici non sono più la folle idea di qualche «ambientalista in sandali infradito» (definizione di Gian Antonio Stella) ma una teoria accettata da tutta o quasi la comunità scientifica internazionale.
È vero, non sappiamo e non possiamo sapere con certezza quanta di quella pioggia torrenziale fosse dovuta alla normale bizzarria della natura e quanta alla coperta di gas che stiamo tessendo nell’atmosfera anno dopo anno e che continueremo a tessere dopo il fallimento della Conferenza Onu ieri a Varsavia. Ma una cosa è certa: quei fenomeni così potenti e così estremi non potranno che aumentare, non certo diminuire. E allora perché continuiamo a far finta di nulla, a costruire e condonare, a ricoprire la terra con uno strato di asfalto e cemento? Il 7% del Paese è avvolto da questa impermeabile coltre ma è un dato fuorviante: nelle aree metropolitane quelle dove si vive, si lavora, si dorme abbiamo coperto il 50% del terreno.
La verità è che stiamo progettando e realizzando un Paese sempre più inadeguato a ricevere le grandi quantità di pioggia (bombe d’acqua, cicloni extratropicali, chiamateli come volete) che d’ora in avanti saranno sempre più frequenti. Dal 1956 gli italiani sono aumentati del 24% come popolazione ma il consumo del suolo è cresciuto sette volte di più, arrivando al 156%: ogni cinque mesi viene cementificata una superficie pari al comune di Napoli. Dove finisce l’acqua che cade sulle nostre città? Rimbalza nel cielo? O si infila nei sottopassaggi, nei tunnel, nei seminterrati come quello in cui vivevano i Passoni, morti affogati come i turisti del Titanic?
Nel 2013 in Italia si muore di pioggia: questa è la drammatica realtà di un Paese che parla (o ha parlato) di grandi opere ma dimentica le più elementari regole di manutenzione e prevenzione. Come il divieto di costruire nelle zone a rischio, la cancellazione della parola condono, la restituzione dello spazio naturale ai fiumi che devono essere lasciati liberi di esondare in tutta sicurezza e in zone non abitate o non pericolose.
C’è un punto, nella vicenda sarda, che inquieta in modo particolare: l’ostinazione a non fare i conti con la realtà. Per quanto violento, il «ciclone» di lunedì scorso (400 millimetri, la pioggia di sei mesi in una notte) non è stato un episodio senza precedenti. Sempre in Sardegna nell’ottobre del ’51 caddero sull’Ogliastra 1400 millimetri in quattro giorni: ci furono cinque morti e due paesi, Gairo e Osini, abbandonati. Nel dicembre 2004, sempre sull’Ogliastra, vennero giù 517 millimetri in 24 ore. Cinque anni fa nel Campidano, a Cagliari, 372 millimetri in poche ore.
Guardo sconcertato la terra di mio padre, la Gallura devastata dall’acqua e i cognomi familiari travolti dalla tragedia. Ma se dopo l’ora del dolore arrivasse anche quella del perché, le domande andrebbero poste ad ogni livello. Il discorso è quello che abbiamo fatto in pochi tante volte, così tante da farci zittire, rei di dire sempre le stesse cose.
Con autentico sprezzo del ridicolo, il governatore della Sardegna Ugo Cappellacci è intervenuto pochi giorni fa dicendo che la tragedia della sua Regione non cambierà il nuovo «piano paesaggistico» che cancella quello del centrosinistra del 2006 e prevede meno vincoli per nuovi progetti e nuove costruzioni, compresi 25 campi da golf accompagnati da tre milioni cubi di ristoranti, case e alberghi: «Dovrò pur dare a un golfista una club house e un posto dove mangiare bene». Nell’Italia dove si parla di alzare la benzina piuttosto che far pagare l’Imu ai ricchi succede anche questo. Tutti sapevano e tutti sanno: ma allora perché dopo ogni «disastro annunciato» ripetiamo e ascoltiamo le stesse frasi e gli stessi commenti, come il lunedì mattina al bar dopo le parti.
Certo, mettere in sicurezza il territorio costa, perché si parla di 40 miliardi, euro più euro meno. Una cifra «bella e impossibile» ma sempre più bassa dei 61,5 miliardi di danni collezionati dal 1944 al 2012 fra frane e alluvioni che salgono a 232 miliardi se contiamo gli effetti dei terremoti. Cosa costa di meno: stare fermi e guardare o decidere e fare?
L’unica vera grande opera di cui abbiamo bisogno è la messa in sicurezza del territorio. Così come una buona prassi politica sarebbe definire «virtuosi», non i Comuni che rispettano i conti di bilancio, ma quelli che salvano le vite dei loro abitanti applicando le norme di sicurezza e aggiornando i piani di emergenza, come invece non è avvenuto in molte aree della Sardegna e non avviene in molti Comuni d’Italia.
John Maynard Keynes diceva che per rimettere in moto l’economia in tempo di crisi bisognerebbe far circolare denaro anche a costo di creare lavori inutili ma regolarmente pagati: piuttosto che tenere la gente a casa senza stipendio e senza consumi, diceva, era meglio impiegarla a scavare delle buche al mattino per riempirle la sera. E se al posto delle buche mettessimo in sicurezza il Paese?
«Dalla Sardegna disastrata dall’abusivismo alle cubature edilizie “in aree non contigue” ai nuovi stadi da agevolare. Lotito propose il nuovo stadio della Lazio in zona alluvionale. Gli americani dell’A.S. Roma lo progettano sull’ex ippodromo di Tor di Valle che all’apertura si allagò…» L'Unità, 21 novembre 2013
Nuovi regali ai cementificatori. Le società dello sport-spettacolo costruiscano nuovi stadi finanziandoli con l'ulteriore cementificazione del territorio: si correggono la legge di stabilità snellendo le procedure e regalando ai costruttori il permesso di edificare, insieme agli stadi, nuovi edifici di ogni ordine e grado. Il Fatto Quotidiano, 21 nov. 2013
Quali sono gli interventi infrastrutturali più urgenti oggi in Italia? Lavorare sul dissesto idrogeologico? Ferrovie? Nuove strade? Macché. A stare all’ultima iniziativa legislativa del governo, la risposta è: nuovi stadi e impianti sportivi in generale. È quanto si evince da una bozza di emendamento del governo al disdegno di legge di Stabilità circolata ieri pomeriggio in Senato (al momento di andare in stampa non è ancora stato formalizzato), che non solo rifinanzia il cosiddetto fondo salva-stadi per 45 milioni di euro, ma concede a questo tipo di progetto canali di approvazione preferenziali e rapidissimi. A questo punto non ci si sorprenderà nel sapere che l’emendamento contiene anche il relativo regalo ai costruttori sotto forma di permessi di edificare, insieme agli stadi, nuovi edifici di ogni ordine e grado.
Il testo, infatti, prevede non solo la costruzione o la ristrutturazione di “uno o più impianti sportivi”, ma pure di “insediamenti edilizi o interventi urbanistici, entrambi di qualunque ambito o destinazione, anche non contigui agli impianti sportivi”. Vale a dire palazzi, ristoranti, negozi pure a chilometri di distanza dal sito interessato. E il criterio con cui si autorizza una cosa del genere? Semplice: “Il raggiungimento del complessivo equilibrio economico-finanziario”. In parole povere, con la massiccia cementificazione del territorio si paga lo stadio.
Non si tratta, peraltro, di un problema circoscritto: è noto il caso della As Roma – che vuole costruire il “nuovo Olimpico” sull’ex Ippodromo di Tor di Valle – ma molte altre società sono interessate a questo lucroso affare tanto in Serie A che tra i cadetti (ben 11 squadre di B hanno già aderito a un progetto sul tema della loro Lega). Solo che il punto debole di questo tipo di progetto, solitamente, è più la complessa procedura autorizzativa che non la compatibilità economica. No problem, ci pensa il governo Letta inventandone una che ricorda le ricostruzioni post-terremoto. Funziona così: la società X presenta uno studio di fattibilità al comune interessato, il quale ha 90 giorni di tempo per dichiararne “l’interesse pubblico”. Se va bene, X può presentare il progetto vero e proprio e la Giunta comunale ha 120 giorni per il via libera: se poi la faccenda comporta “varianti urbanistiche o valutazioni di impatto ambientale” serve il sì definitivo della regione entro 60 giorni. Va bene, si dirà, ma se qualche Soprintendenza si mette di mezzo? Niente paura: se qualche ufficio preposto “alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico, della salute o della pubblica incolumità” dà parere contrario, arriva nientemeno che Palazzo Chigi, il quale adotta o fa adottare entro 90 giorni massimo “i provvedimenti necessari”.
Non si pensi, però, che l’esecutivo Letta pensa solo ai costruttori: non si dimentica nemmeno delle banche. Stamattina è il gran giorno in cui il Consiglio dei ministri si occuperà della rivalutazione delle quote di Bankitalia: ora valgono simbolicamente 156 mila euro e sono in gran parte in mano a banche private (da Unicredit e Intesa in giù), il governo vuole portare la cifra a circa sette miliardi guadagnando così la relativa tassazione da plusvalenza, vale a dire poco meno di un miliardo e mezzo di euro una tantum. E gli istituti di credito che ci guadagnano? Un cospicuo rafforzamento delle loro traballanti basi patrimoniali. L’operazione andrà vistata da Bruxelles, ma presenta comunque più di un problema: intanto perché una legge imporrebbe allo Stato di ricomprarsi le quote (e così, quando lo farà, dovrà pagare di più) e poi perché su quelle quote si paga una sorta di dividendo, oggi molto basso ma destinato ad aumentare con la rivalutazione.
Sempre oggi, infine, pare che Letta riuscirà ad abolire la seconda rata dell’Imu per il 2013, anche se – a stare alle solite bozze – con coperture assai ballerine. Il costo dell’operazione sarebbe 2,4 miliardi: il Tesoro, però, vorrebbe far pagare la tassa almeno su terreni e fabbricati agricoli portando il conto totale a due miliardi. Problema: i ministri politici hanno detto di no. L’unica misura certa, al momento, è l’aumento degli anticipi Ires e Irap per banche e assicurazioni fino alla strabiliante percentuale del 120 per cento (un miliardo e mezzo di ultragettito), ma nel mirino c’è pure il cosiddetto risparmio gestito, cioè quello che i clienti affidano alle società finanziarie: si pensa a maggiori anticipi per quasi mezzo miliardo di euro. C’è un dubbio, però: Bruxelles accetterà coperture esclusivamente contabili?
Dalle pagine economiche di un grande quotidiano italiano, la notizia ufficiale dello sprawl Doc all'americana nel nostro paese passa per tutt'altro. Corriere della Sera, 14 novembre 2013, postilla (f.b.)
ROMA — Basiglio, il comune che ingloba anche l’area residenziale di Milano 3, si conferma come il comune d’Italia con gli abitanti più ricchi. I 4.159 contribuenti del comune lombardo hanno dichiarato nel 2011 un’Irpef media di 53.589 euro. Quasi diecimila euro in più rispetto a Galliate Lombardo, provincia di Varese, che con 44.814 di Irpef media è al secondo posto nella lista dei comuni con gli abitanti più ricchi. Nell’elenco, tra le prime dieci posizioni, ben sette sono appannaggio di comuni della Regione Lombardia, mentre gli altri tre comuni della “Top Ten” sono tutti nella cintura torinese. Dopo Basiglio e Galliate viene Campione d’Italia (Como), con un’Irpef media di 42.772 euro a testa, al quarto posto Cusago (Milano) e Carate Urio (Como) al quinto posto. Il sesto è appannaggio di Pino Torinese, il settimo di Torre d’Isola (Pavia), poi c’è Fiano, sempre in provincia di Torino, al nono posto Segrate (Milano) e al decimo Pecetto Torinese.
Tra le grandi città capoluogo il reddito Irpef più elevato si registra a Milano, che occupa la dodicesima posizione assoluta, con una media di 36.253 euro, seguita da Bergamo (al 32° posto con 32.274 euro), Monza, Roma (al 55° posto con un’Irpef media di 30.544 euro), poi Pavia, Padova, Treviso, Siena, Bologna, Varese, Parma, Cagliari, che è la prima città del centro sud e precede Lecco e Firenze. Tra le città capoluogo il reddito medio più basso si è registrato nel 2011 a Barletta (19.644 euro), dietro a Isernia, Ragusa e Fermo.
I dati del ministero delle Finanze confermano dunque il divario di ricchezza tra Nord e Sud, ma soltanto per le grandi città. Nella classifica dei singoli comuni sono infatti molto numerosi quelli del Nord che figurano nelle ultime posizioni. In assoluto il valore Irpef medio più basso si registra a Valsolda, provincia di Como, con appena 11.988 euro a testa. Ma succede, spiega il sindaco Giuseppe Farina, perché «il 90% dei valsoldesi lavora in Svizzera per cui percepisce il reddito lì e non dichiara nulla in Italia». Precedono Valsolda i comuni di Platì (Reggio Calabria), Gurro (Vibo), Val Rezzo (Como), Mazzarrone (Catania), Cavargna (altro comune del comasco), Elva e Castelmagno, in provincia di Cuneo, Cairano (Avellino) e Schiavi di Abruzzo (Chieti). Il comune d’Italia con il maggior numero di dichiarazioni Irpef è Roma (quasi un milione e mezzo), mentre all’altro capo della classifica c’è Moncenisio. Sembra incredibile, ma è così: in quel comune ci sono appena 13 contribuenti Irpef. Tutto sommato benestanti, con una media di 25.753 a testa.
Il cliente ha sempre ragione, e gli utenti privilegiati delle nostre città, ovvero i cittadini stessi, le bocciano senza appello anche in un confronto europeo. Peccato che siano ancora pochi quelle che si attivano per migliorarla. Salvo poche eccezioni "antagoniste", prevale lo sterile mugugno. Il Sole 24 Ore, 21 ottobre 2013
Lavoro che non c'è, trasporti urbani a livelli dell'Europa dell'Est, strade sporche e palazzi decadenti, efficienza amministrativa inesistente da Roma in giù, aria inquinata. Gli italiani sanno forse piangersi addosso meglio di altri, ma il ritratto delle nostre città - tracciato dai loro stessi abitanti nella ricerca sulla percezione della qualità della vita condotta dalla Commissione europea - restituisce l'immagine di un Paese decadente, nel migliore dei casi quasi immobile, quando non in regressione. Condannato a un ruolo sempre più marginale.
Più di 41mila interviste realizzate alla fine del 2012 in 79 città dei 28 Stati membri, più Norvegia, Svizzera, Turchia e Islanda. Quella che, nelle risposte dei cittadini, ottiene il miglior piazzamento tra le sei italiane è Verona, al diciottesimo posto appena dietro Vienna e davanti a Piatra Neamt nella Moldavia rumena. Per trovare un'altra italiana, Bologna, bisogna scendere di oltre trenta posizioni. Poi c'è Torino (64ma) e più in giù Roma (72ma davanti a Istanbul, la ceca Ostrava, Marsiglia e l'ungherese Miskolc), Palermo (77ma) e Napoli (78ma). Peggio fa solo Atene. Se 95 veronesi su 100 sono soddisfatti della qualità della vita nella propria città, a Napoli la percentuale scende al 65 per cento.
Che l'Italia, e in particolare alcune aree e alcune città, si siano mosse a passo di gambero è evidente dai risultati dell'indagine, che si basa esclusivamente sulla percezione degli abitanti. A Roma, per inciso penultima tra le capitali, rispetto al 2006 il peggioramento è stato di 12 punti percentuali. Ancora peggio è andata a Palermo, dove in sei anni le persone soddisfatte della propria città sono diminuite del 15%, il calo peggiore in assoluto insieme a Miskolc. Eppure ci sono città come Istanbul, Londra o La Valletta - in qualche modo confrontabili con Roma e Palermo - che nello stesso periodo sono riuscite a migliorare se non altro la percezione del grado di soddisfazione.
Per trovare la cima della classifica bisogna risalire di una ventina di paralleli, partendo da Palermo per arrivare ad Aalborg, 100mila abitanti a cinque ore di treno da Copenhagen, che da città manifatturiera si sta trasformando in centro a forte vocazione culturale e scientifica grazie alla giovane università.
Un tour nelle prime posizioni nell'elenco delle 79 città europee ci porta da Aalborg a Rostock, da Amburgo a Zurigo, da Oslo a Copenhagen . E poi Groninga in Olanda, Oulu in Finlandia, Reykjavik, Stoccolma… lontano dal fascino del Vesuvio davanti al golfo di Napoli, dalle calde spiagge di Mondello e dal tepore autunnale della Città eterna. Ma solo di clima e di un bel panorama non si vive, come sanno bene le decine di migliaia di giovani che hanno ricominciato a fare rotta verso nord. E non è solo una questione di coordinate geografiche. Malaga, per esempio, guarda dall'alto (e da lontano) tutte le italiane: solo quattro abitanti su cento non sono soddisfatti della qualità della vita nella città andalusa. La sensazione, da sottoporre a verifica, è che non sia più solo una questione di Mezzogiorno. Il timore è che anche al Centro-Nord ci sia il rischio di scivolare verso il sottosviluppo.
Chi ha presentato la ricerca a Bruxelles durante le giornate aperte della Dg Affari regionali e politica urbana, ha cercato di "giustificare" i pessimi risultati delle città italiane con il sentimento generalizzato di rassegnata insoddisfazione che l'intero Paese sta vivendo ormai da qualche tempo. Ma non può consolare che, nelle domande di verifica che indagano più in generale sul livello di soddisfazione per la propria vita, si risalga qualche posizione. Il "recupero" più significativo è quello di Roma, che tuttavia si ferma intorno al 60esimo posto. Al contrario, Verona precipita a metà classifica e a questo non è estraneo il fatto che su uno dei nodi cruciali per la qualità della vita nelle aree urbane, il trasporto pubblico, il 45% dei veronesi sia insoddisfatto: tra i dieci risultati peggiori. Ma non è tutto: ultime in assoluto sono Roma (63% di insoddisfatti), Napoli (75%) e Palermo (78%). Dati, questi, che accomunano le città italiane a quelle dell'Est Europa, sottolinea la Commissione non senza aver prima notato che tra le prime 15 ci siano quattro città francesi e cinque tedesche.
La questione-lavoro emerge quasi con prepotenza dai risultati della ricerca e ancora una volta Palermo e Napoli hanno il primato: solo un cittadino su cento ritiene che a Palermo sia facile trovare lavoro (2% a Napoli). Ma va male anche a Torino dove la percentuale sale al 7%, dieci volte di meno rispetto a Oslo, che sembra il luogo migliore per trovare lavoro. Va un po' meglio a Roma (12%) e a Bologna e Verona (21%), ma ben lontano dalle prime posizioni. Il dramma, però, non è tanto la fotografia del 2012, quanto il fatto che rispetto al 2009 nulla sembra essere cambiato.
È cambiata invece, e in peggio, l'opinione sulla scuola e sulle strutture educative in generale soprattutto a Roma e Palermo, dove ormai la percentuale di coloro che apprezzano il livello di offerta è sotto il 45%, la metà delle prime della classe. Pessima è anche l'opinione sulle condizioni dell'ambiente urbano: Palermo, Roma e Napoli sono tra le ultime cinque, con Atene e Candia (Creta). Tra le poche note positive, il balzo della soddisfazione dei napoletani per la presenza di strutture e servizi culturali rispetto al 2009: 16 punti guadagnati, la performance migliore in assoluto, ma che non è bastata a far risalire Napoli sopra il 70° posto. Anche su questo fronte, c'è tanta strada da fare.
«La messa in sicurezza del territorio è la sola Grande opera assolutamente indispensabile al Paese» ma si continua a ignorarla, salvo generiche dichiarazioni. Corriere della Sera, 20 ottobre 2013
Ma è questo il modo di rendere omaggio alle vittime di quella strage provocata dall’insipienza, dalla sciatteria, dalla superficialità con cui fu trattata la natura? Non ci sono soldi per difendere oggi il fragile suolo nazionale, dice la legge di stabilità. Punto. Discussione chiusa. E la cosa pare non avere scandalizzato nessuno.
Eppure, come ricorda Ermete Realacci chiedendo al governo e alla maggioranza un radicale ripensamento perché «la messa in sicurezza del territorio è la sola Grande opera assolutamente indispensabile al Paese», la commissione Ambiente della Camera aveva votato all’unanimità (all’unanimità!) una risoluzione bipartisan, sottoscritta da tutti i gruppi politici, che chiedeva di fare finalmente molto, ma molto di più. A partire da uno stanziamento «pari ad almeno 500 milioni annui». Ne arriveranno 16 volte di meno.
Un azzardo. Perché i numeri ricordati nella risoluzione non dovrebbero far dormire di notte. In Italia, vi si legge, «le aree a elevata criticità idrogeologica (rischio frana e/o alluvione) rappresentano circa il 10 per cento della superficie del territorio nazionale (29.500 chilometri quadrati) e riguardano l’81,9 per cento dei comuni (6.633); in esse vivono 5,8 milioni di persone (9,6 per cento della popolazione nazionale), per un totale di 2,4 milioni di famiglie; in tali aree si trovano oltre 1,2 milioni di edifici e più di 2/3 delle zone esposte a rischio interessa centri urbani, infrastrutture e aree produttive».
Non bastasse, «la pericolosità degli eventi naturali è senza dubbio amplificata dall’elevata vulnerabilità del patrimonio edilizio italiano: oltre il 60 per cento degli edifici — circa 7 milioni — è stato costruito prima dell’entrata in vigore della normativa antisismica per le costruzioni e, di questi, oltre 2,5 milioni risultano in pessimo o mediocre stato di conservazione e, quindi, più esposti ai rischi idrogeologici».
Di più, «il progetto Iffi (Inventario dei fenomeni franosi in Italia), realizzato dall’Ispra e dalle Regioni e Province autonome, ha censito ad oggi oltre 486 mila fenomeni franosi, il 68 per cento delle frane europee si verifica in Italia. Inoltre, il ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare, sulla base dei dati dell’Ispra, ha valutato che il costo complessivo dei danni provocati dagli eventi franosi e alluvionali dal 1951 al 2009, rivalutato in base agli indici Istat al 2009, risulta superiore a 52 miliardi di euro, quindi circa un miliardo di euro all’anno e, complessivamente, più di quanto servirebbe per realizzare l’insieme delle opere di mitigazione del rischio idrogeologico sull’intero territorio nazionale, individuate nei piani stralcio per l’assetto idrogeologico e quantificate in 40 miliardi di euro».
Ancora: «La gravità del problema appare altresì evidente, se si pensa che, a partire dall’inizio del secolo scorso, gli eventi di dissesto idrogeologico gravi in Italia sono stati oltre 4.000 e hanno provocato ingenti danni a persone, case e infrastrutture, ma, soprattutto, hanno provocato circa 12.600 morti, mentre il numero dei dispersi, dei feriti e degli sfollati supera i 700 mila».
E le cose, anche se la memoria collettiva pare avere già dimenticato i disastri e i lutti più recenti che hanno colpito al Nord e al Sud, da Vicenza a Giampilieri, da Soverato a Genova, vanno peggiorando: «Gli effetti conseguenti ai cambiamenti climatici in atto sono ormai tali che gli eventi estremi in Italia hanno subito un aumento esponenziale, passando da uno circa ogni 15 anni, prima degli anni 90, a 4-5 l’anno».
Ad essere a rischio sono anche moltissimi edifici pubblici. Spiega il rapporto Ance-Cresme sullo «Stato del territorio italiano nel 2012» che nelle aree ad elevata criticità idrogeologica (poi ci sono quelle esposte ai pericoli sismici) «rientrano complessivamente circa 6.800 edifici, di cui 6.251 scolastici e 547 ospedalieri». Particolarmente vulnerabile appare la situazione delle scuole in Campania dove a rischio di smottamenti, frane e alluvioni sono addirittura 1.017: un sesto di quelle italiane.
E siamo al tema: è meglio spendere più soldi «dopo», piangendo morti e dispersi, o è meglio spenderne di meno «prima» puntando sulla prevenzione? La risposta è ovvia. O almeno così la pensano, a parole, tutti coloro che hanno firmato in questi mesi mozioni sul tema. Dal forzista Renato Brunetta al democratico Roberto Speranza, dal montiano Salvatore Matarrese al vendoliano Alessandro Zan, dalla leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni al grillino Samuele Segoni… Insomma tutti, ma proprio tutti.
Commentando le sagge parole del presidente del Worldwatch Institute l'autore sostiene che sarebbe bello, se esistesse un “ambientalismo maturo capace di distinguere, capace di criticare caso per caso. Non sa che c’è già. La Repubblica, 22 settembre 2013, con postilla
L’interrogativo può risultare senz’altro intrigante, sia per gli ambientalisti sia per i loro interlocutori: “È ancora possibile la sostenibilità?”. Con questo titolo, il Rapporto 2013 del Worldwatch Institute sullo stato del mondo — presentato venerdì a Padova — ripropone in termini provocatori una questione fondamentale che riguarda la nostra esistenza sulla Terra. Possiamo, cioè, imparare a vivere in una prosperità equa e condivisa con gli altri esseri umani, entro i limiti fisici e biologici del nostro pianeta? Si tratta, evidentemente, di una domanda che interpella tutti.
“Quella in cui viviamo — scrive nel capitolo introduttivo Robert Engelman, presidente del Worldwatch Institute, coniando un efficace neologismo — è l’epoca della “sosteniblablablà”, una profusione cacofonica di usi del termine “sostenibile” per definire qualcosa di migliore dal punto di vista ambientale o semplicemente alla moda”. In origine, l’aggettivo — diventato poi il vessillo dell’ambientalismo moderno — significava propriamente “capace di continuare a esistere senza interruzione o diminuzione”. Ma ormai viene sottoposto spesso a una banalizzazione mediatica che in genere si associa a una strategia di greenwashing — letteralmente “lavaggio verde” — adottata da molte aziende a fini commerciali e di marketing, realizzando di fatto un inganno o addirittura una truffa.
Dalla riduzione delle emissioni di gas serra che inquinano l’atmosfera e provocano il riscaldamento climatico del pianeta alla raccolta differenziata dei rifiuti, dalla diminuzione del consumo di carne all’acquisto di automobili a basso consumo, molti pensano che la sostenibilità si possa esaurire in una serie di comportamenti virtuosi individuali. E non c’è dubbio che tutto ciò contribuisce al rispetto e alla difesa dell’ambiente, a condizione ovviamente che non si riduca a gesti occasionali o isolati. Per gli ambientalisti, tuttavia, l’uso “smodato” di questa parola che imperversa sui media minaccia di occultare la vera questione: vale a dire “se la civiltà possa continuare in questa direzione senza compromettere il benessere futuro”.
Non è, dunque, soltanto una questione mediatica. Bensì di sostanza, di trasformazione culturale ed economica. Bisogna correggere perciò il modello di sviluppo e intervenire sui cinque grandi fattori che causano la disgregazione dei sistemi naturali: 1) il degrado del clima; 2) i processi di estinzione delle specie; 3) la perdita della diversità degli ecosistemi; 4) l’inquinamento crescente; 5) l’aumento della popolazione e dei livelli di consumo.
È il nostro modello di sviluppo, insomma, che deve cambiare per adeguarsi a questi valori, tanto più di fronte al rapido sviluppo dei Paesi cosiddetti emergenti. Altrimenti, a cominciare dalla salute, ne va della stessa sopravvivenza della Terra e del genere umano. E gli studiosi fissano al 2050 la scadenza entro la quale si verificheranno situazioni molto gravi di sofferenza.
Sarebbe sbagliato, tuttavia, disconoscere il fatto che anche la “sosteniblablablà” rappresenta comunque un successo dell’ambientalismo sul piano della comunicazione di massa e quindi della coscienza collettiva. Finora ha prodotto forse più benefici di un certo allarmismo o catastrofismo di maniera. Ben venga, allora, quell’ambientalismo “maturo” capace di valutare anche le Grandi Opere “una per una”, come ha dichiarato coraggiosamente nei giorni scorsi al Manifesto il sindaco di Genova, Marco Doria, eletto come indipendente nelle liste di Sel.
In tempi non sospetti, su questo giornale, chi scrive ha già usato più volte provocatoriamente l’espressione “ambientalismo sostenibile” per invocare un atteggiamento più concreto e costruttivo. A volte, è proprio il radicalismo verde, al limite del fanatismo ideologico o del fondamentalismo, che rischia di suscitare una reazione contraria di rifiuto, di avversione o di ostilità. Così, senza volerlo e senza saperlo, si finisce per favorire i veri nemici dell’ambiente. E se anche questa alla fine fosse “sosteniblablablà”?
L’autore non si è probabilmente accorto che « quell’ambientalismo “maturo” capace di valutare anche le Grandi Opere “una per una”» è nato e agisce da decenni. Non conosco una sola Grande Opera denunciata dai comitati, reti e associazioni per la quale non ci siano state puntuali analisi e proposte alternative, in generale ignorate da chi aveva il potere di decidere: dalla Torino-Lione al MoSE, dal Ponte sullo stretto alla Mestre-Orte, ai diversib tronchi della TAV alla Gosseto Civitavecchia e via infrastrutturando. Se gli manca qualche riferimento possiamo fornirglielo volentieri.
Non sono necessaria Grandi Opere per danneggiare la crosta del pianeta che abitiamo: bastano i Grandi Eventi (tanto, le Opere seguiranno). Il Fatto quotidiano online, 3 settembre 2013
Piccolo è bello di Ernst Friedrich Schumacher, considerato uno dei testi più influenti dello scorso secolo, e comunque sicuramente uno dei testi cardine dell’ambientalismo, anticipatore, in particolare, dell’economia a livello locale ed anche, massì, della decrescita.
Ovvio che, appunto nell’ottica del piccolo è bello, dovrebbero essere bandite le grandi manifestazioni, per lo meno come sono oggi concepite. Ho pensato questo leggendo il terribile post pubblicato da questo quotidiano in merito al disastro ambientale causato dalle Olimpiadi invernali che si svolgeranno in Russia nel 2014.
Partiamo da un presupposto. Le Olimpiadi, se proprio si vogliono fare, estive o invernali che siano, dovrebbero essere un momento di comunione tra le persone, ma non solo, anche tra le persone e l’ambiente. A costo di essere tacciato per ingenuo, esse dovrebbero essere una occasione per relazionare le persone, e non già per far fare affari ai costruttori. In questa ottica, innanzitutto, chi l’ha detto che olimpiadi si debbano tenere sempre in una località diversa ogni quattro anni? Se si devono semplicemente vedere delle persone correre, saltare, lanciare, nuotare, sciare, queste benedette olimpiadi facciamole svolgere sempre nelle stesse località che le hanno ospitate in passato e che di conseguenza sono attrezzate per ospitarle di nuovo. Questo dice il buon senso.
Ma ammettiamo che si voglia far girare il mondo agli atleti e si vogliano alternare località di diversi continenti. Almeno, in tal caso, in un’ottica di fratellanza tra uomini e madre terra, perché non si coglie l’occasione per non solo non distruggere suolo vergine ma per recuperare terreni da bonificare, aree degradate, e così via? Perché non si coglie l’occasione per fare qualcosa che migliori anziché deteriori l’ambiente?
Lo so, me lo dico da solo, sono un povero ingenuo e la mia sembra quasi una provocazione. Ho vissuto in prima persona l’organizzazione delle olimpiadi invernali di Torino 2006. Allora formulammo come associazioni proprio proposte simili a quelle di cui sopra. Nessuno ci dette ascolto. Allora scendemmo nell’analisi delle singole opere e dicemmo: “Ma i trampolini per il salto con gli sci ci sono già ad Albertville, in Savoia: usate quelli”. No, ne costruirono di nuovi sventrando una montagna a Pragelato ed adesso sono una cattedrale nel deserto. “La pista di bob si può fare amovibile, esiste la tecnologia: finiti i giochi si smonta ed amen”. No, la vollero fare permanente a Cesana Torinese: ora ditemi, chi la usa? Si dice che grazie alle olimpiadi invernali Torino si è rifatta il lifting, che adesso è vivibile, che c’è la movida, che è meta turistica. Questa è una faccia della medaglia. Il pazzesco debito pubblico ammontante a 3 – 3,5 miliardi di euro che ha accumulato è l’altra, ben più triste. Non sono state solo le olimpiadi a causarlo, ma esse hanno fatto la loro bella parte.
Così come Milano si sta indebitando per ospitare l’Expo 2015, e lo dice il segretario della CGIA di Mestre, Giuseppe Bortolussi. Qui non c’è neanche la foglia di fico della comunanza tra gli atleti ed il favore ai costruttori appare in tutta la sua platealità. Eppure ben ricordo quando Milano si aggiudicò questa disastrosa manifestazione il giubilo dei nostri politici, Napolitano ovviamente su tutti. Leggiamo cosa disse all’epoca (marzo 2008) evitando di commentare: “Il brillante risultato odierno premia lo sforzo comune e la vincente strategia di cooperazione fra tutte le istituzioni interessate, confermando come l’eccellenza del sistema Italia sia pienamente riconosciuta ed apprezzata a livello internazionale. Al Governo, alla Regione Lombardia, alla Provincia, al Comune di Milano, a tutte le forze politiche e sociali che si sono adoperate con tenacia ed encomiabile dedizione per il conseguimento di questo importante traguardo va il vivo apprezzamento e ringraziamento del capo dello Stato che ha costantemente seguito e sostenuto l’impegno comune. L’Esposizione universale di Milano del 2015 è per l’Italia intera motivo di orgoglio. Tale prestigioso appuntamento impegnerà ancor di più il nostro Paese nella ricerca di soluzioni innovative e condivise per migliorare la qualità della vita dei cittadini e fare fronte alle grandi sfide che attendono il pianeta”.
Ho iniziato il post citando un libro. Lo chiudo con un’altra citazione per chi volesse approfondire le pesanti eredità dei grandi eventi: Davide Carlucci e Giuseppe Caruso, Magna Magna, Ponte alle Grazie Editore.
Il decreto"Fare", letto dal quotidiano della Confindustria, aiuta a disfare quel che resta delle regole che volevano difendere il territorio e i suoi abitanti. Sotto l’egida delle "larghe intese" con il PD riescono a fare ciò che al PDL non era riuscito. Il Sole 24 ore, “Edilizia e Territorio”, 8 agosto 2013
Viene altresì prevista, in favore degli ordinamenti locali, la possibilità di introdurre deroghe ai limiti (fino ad oggi inderogabili) di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, previsti dal decreto ministeriale 2 aprile 1968 n. 1444.
Le novità procedurali
Il provvedimento cesella e precisa alcune modifiche apportate al TUE ad opera della recente legge 134/2012, al fine di semplificare gli incombenti procedurali sia in materia di edilizia libera (rimozione della dichiarazione preliminare dall'asseverazione del tecnico abilitato allegata alla comunicazione di inizio lavori per gli interventi di manutenzione straordinaria e per le modifiche interne di immobili produttivi), che di rilascio del permesso di costruire (soppressione del comma 10 e riformulazione dei commi 8 e 9 dell'art. 20 per gli immobili sottoposti a vincoli ambientali, paesaggistici o culturali: ora in caso di diniego dell'atto di assenso, eventualmente acquisito in conferenza di servizi, decorso il termine per l'adozione del provvedimento finale, la domanda di rilascio del permesso di costruire si intende respinta e il responsabile del procedimento trasmette al richiedente il provvedimento di diniego dell'atto di assenso entro cinque giorni dalla data in cui è acquisito agli atti).
Importante novità è senza dubbio l'inserimento dell'art. 23-bis che disciplina ex novo le modalità di richiedere autorizzazioni preliminari alla presentazione della SCIA. Dopo la novella l'interessato potrà richiedere allo Sportello unico di provvedere all'acquisizione di tutti gli atti di assenso, comunque denominati, necessari per l'intervento edilizio, o presentare istanza di acquisizione dei medesimi contestualmente alla SCIA: lo Sportello unico dovrà comunicare tempestivamente l'avvenuta acquisizione degli atti di assenso entro 60 giorni, in difetto si dovrà procedere attraverso la Conferenza di servizi di cui al comma 5-bis dell'art. 20 TUE.
In materia di agibilità, la novella sancisce che la certificazione potrà essere richiesta anche per singole porzioni della costruzione o unità immobiliari, purché funzionalmente autonome, qualora siano state realizzate e collaudate le opere di urbanizzazione primaria relative all'intero intervento edilizio e siano state completate e collaudate le parti strutturali connesse, nonché collaudati e certificati gli impianti relativi alle parti comuni.
Infine, in caso di interventi manutentivi eseguiti in economia dai proprietari degli immobili senza ricorso a imprese, non sussiste più l'obbligo di richiedere il DURC agli Enti competenti.
Le deroghe urbanistiche
In sede di conversione è stato inserito un ulteriore articolo al TUE (il 2-bis) recante la possibilità per le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano di prevedere, con proprie leggi e regolamenti, deroghe in materia di limiti di distanza tra fabbricati previste dal dm 1444/68.
Viene fatta salva, ovviamente, la competenza legislativa statale in materia di ordinamento civile con riferimento al diritto di proprietà e alle connesse norme del codice civile e alle disposizioni integrative, ma ora a livello locale si potranno dettare disposizioni in deroga relativamente agli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell'ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici (purchè funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali).
In materia di urbanistica commerciale e produttiva, vengono precisate altresì le vigenti disposizioni in materia di promozione e tutela della concorrenza (legge 214/2011 di conversione del dl Salva Italia), introducendo la facoltà per gli ordinamenti locali di prevedere al riguardo, senza discriminazioni tra gli operatori, anche aree interdette agli esercizi commerciali, ovvero limitazioni ad aree dove possano insediarsi attività produttive e commerciali.
Le ristrutturazioni con diversità di sagoma
Gli interventi di ristrutturazione edilizia con demolizione e ricostruzione (che prima della novella doveva appunto intendersi come ricostruzione "fedele"), vengono a perdere un requisito sino ad oggi fondante per distinguerli dalle nuove costruzioni, cioè il rispetto non solo dei volumi preesistenti, ma della sagoma.
Ne consegue che le ristrutturazioni, anche se eseguite con integrale demolizione e ricostruzione, non saranno più legate al mantenimento della sagoma preesistente (che in precedenza poteva essere derogata solo in caso di innovazioni necessarie per l'adeguamento alla normativa antisismica). Inoltre saranno riconducibili nell'ambito delle ristrutturazioni tutti gli interventi volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza.
Rimane invece fermo l'obbligo del mantenimento della sagoma preesistente con riferimento agli immobili sottoposti a vincoli di cui al D.lgs. 42/2004, non solo per gli interventi di demolizione e ricostruzione, ma anche per quelli di ripristino di edifici crollati o demoliti, che potranno definirsi "ristrutturazione edilizia" soltanto ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente.
La riforma dell'istituto, immediatamente esecutiva negli ordinamenti regionali a statuto ordinario, spiega comunque i suoi effetti anche nelle Regioni autonome con specifica competenza legislativa primaria in materia, dato che la modifica dell'art. 10, comma 1, lett. c) del DPR 380/2001 incide direttamente sulle valutazioni in ordine all'assenza di titolo e conseguentemente assoggettamento alle sanzioni penali previste dall'art. 44 del TUE medesimo.
Le misure transitorie
La novella, pur sopprimendo la possibilità di intervenire in regime di ristrutturazione edilizia con modifiche alla sagoma anche con demolizione e ricostruzione, conserva la norma transitoria che impedisce di eseguire in SCIA interventi di demolizione e ricostruzione ovvero varianti a permessi di costruire comportanti modifiche della sagoma, all'interno delle zone omogenee Adi cui al dm 1444/68 in assenza di specifica deliberazione comunale. I Comuni dovranno, entro il 30 giugno 2014, individuare con propria deliberazione le aree nelle quali non è applicabile tale fattispecie di SCIA; mentre, all'infuori dei Centri storici, gli interventi sopra indicati cui è applicabile la SCIA non potranno in ogni caso avere inizio prima che siano decorsi trenta giorni dalla data di presentazione della segnalazione.
In sede di conversione è stato altresì aggiunta la previsione dell'intervento sostitutivo della Regione in caso di inerzia del Comune, e in caso di assenza di intervento sostitutivo regionale, la deliberazione di è adottata da un Commissario nominato dal Ministro delle infrastrutture e dei trasporti.
Nell'ottica della semplificazione, risultano ex lege (salva diversa disciplina regionale) prorogati di due anni (su espressa richiesta del soggetto interessato), tutti i termini di inizio e di ultimazione dei lavori, come indicati nei titoli abilitativi rilasciati o comunque formatisi antecedentemente all'entrata in vigore del dl 69/2013. In sede di conversione è stato però precisato che la proroga opererà solo nei casi in cui i termini non risultino già scaduti al momento della comunicazione dell'interessato e che i relativi titoli abilitativi non siano in contrasto con gli strumenti urbanistici (approvati o anche solo adottati).
Rassegna superficiale e turistica di discutibili e discusse colonizzazioni del nostro territorio. Corriere della Sera, 15 agosto 2013, postilla (f.b.)
Il caso più recente, che ha attirato l'ammirata attenzione dell'inserto «Travel on sunday» del quotidiano The Independent dell'11 agosto, è quello di Castelfalfi, frazione di Montaione in provincia di Firenze. Uno spettacolare borgo medioevale citato già nel 754 in un atto di donazione, abitato fino agli anni Sessanta quando fu abbandonato sull'onda del boom economico, e al centro di 1.100 ettari di terra: un castello, un piccolo paese, 36 casali, boschi che ospitano daini e mufloni. Nel 2007 il tutto venne acquistato dalla Tui, Touristik Union International, gigante tedesco del settore turistico con sede ad Hannover. Una previsione di spesa di 250 milioni di euro, di cui 140 già stanziati, 18 casali già ristrutturati, 40 appartamenti in consegna. Una campagna pubblicitaria che ha attirato nuovi residenti da mezzo mondo: australiani, un sudafricano, belgi, austriaci, tedeschi, inglesi, canadesi, svizzeri. Tre giorni fa è comparso il primo cliente russo. «A Tuscan transformation», ha titolato entusiasta The Independent raccontando i restauri filologici (solo pietre e materiali locali e originari), la cura del verde. E la nascita di un luogo insieme italiano e cosmopolita. La bellezza è assoluta, lo sa bene Roberto Benigni che girò qui il suo «Pinocchio» quando Castelfalfi era deserto.
Sono tanti i casi di borghi e piccoli centri «salvati», o comunque avviati a nuova vita, da stranieri che investono e decidono di vivere circondati dal nostro Paesaggio, lo stesso che fece la fortuna del Grand Tour dalla seconda metà del Seicento in poi. Nel 1974 gli svizzeri di Hapimag (sempre turismo) comprarono il borgo medioevale di Tonda, anche questo nel comune di Montaione: appartamenti per 400 abitanti, la chiesa trasformata in sala riunioni. Denaro sudafricano ha finanziato il recupero del magnifico borgo di Fighine, vicino Siena: solo residenti anglofoni, il sito www.fighine.it non prevede traduzione in italiano. L'imponente borgo-castello di Casole, che risale al X secolo e fu per anni proprietà di Luchino Visconti, è stato acquistato da Timber Resort che ha restaurato il castello e le trenta fattorie. Ora tutto è in mano ai turisti ma anche a nuovi residenti stabili in larga parte americani (un solo italiano, forse protetto dal Wwf). Il Borgo di Santa Giuliana a Umbertide è stato ripristinato da investitori tedeschi. E in tedesco si parla spesso per i vicoli: quasi tutti i neo-sangiulianesi sono austriaci, tedeschi, svizzeri. Poi ci sono gli insediamenti storicizzati.
Come il «Villaggio olandese» di Bettona, in provincia di Perugia: una signora olandese comprò negli anni 70 circa sessanta ettari di bosco realizzando una serie di lotti edificabili. Da allora centinaia di sudditi del nuovo Re Guglielmo hanno cambiato l'economia e le abitudini della cittadina. Stessa situazione alla località La Cima a Tuoro sul Trasimeno: dagli anni 70 la cittadella delle ville è abitata solo da olandesi, belgi, francesi danesi. Dice Carolina Dorothea Seijffert, olandese, dal 2001 titolare dell'agenzia «Le case di Dorrie», con un portafoglio di 160 bellezze architettoniche in vendita sparse nel centro Italia: «Il fascino dell'Italia resiste, nonostante la crisi. Il sogno italiano è saldo nell'immaginario di mezzo mondo. Ora i tedeschi stanno tornando, gli inglesi tendono di più a vendere dopo lunghe permanenze, bene le trattative con i belgi e gli olandesi che risentono complessivamente meno della crisi».
Secondo Scenari Immobiliari, nel 2012 sono state 4.600 le famiglie straniere che hanno acquistato un immobile in Italia con una crescita del 53% rispetto al 2005. Ricchezza vera: dal 2005 la spesa media è passata da 245 mila euro a 455 mila. Lo sanno, per esempio a Cianciana, centro collinare agricolo in provincia di Agrigento, autentico caso studiato sulla stampa internazionale. Ormai il 10% dei residenti è straniero. Un fenomeno basato esclusivamente sul passaparola. Anche l'attore Ray Winstone ha comprato casa ma nelle stradine si incontrano fotografi, modelle, musicisti: inglesi, canadesi, svedesi, statunitensi, austriaci. Spiega Carmelo Panepinto, presidente della pro loco e marito di Giuseppina Montalbano, titolare dell'agenzia My House: «Sono attirati tutti dai ritmi del posto, dalla bellezza, dalla tranquillità e dalla mancanza di criminalità. E anche dai prezzi. Con 20-30 mila euro e altri 10 mila di ristrutturazione si può comprare una bella casa dell'800 col prospetto in tufo e il solaio a volta».
Altro caso studiato è quello di Irsina, in provincia di Matera, uno dei paesi più antichi della Basilicata: nel centro storico hanno comprato casa cinquanta famiglie inglesi, americane, tedesche. E infine, il classico dei classici, Airole, paesino arroccato in Val Roja a pochi chilometri da Ventimiglia e dal confine francese. È uno dei paesi con la più alta densità di stranieri in Italia: il 31.4%, soprattutto tedeschi, olandesi, francesi, statunitensi, inglesi, svizzeri. Il segreto? La posizione baricentrica (vicini al mare, anche alla Costa Azzurra, e alle piste di sci di Limone Piemonte). La tranquillità. La civiltà dei rapporti. La capacità di accantonare particolarismi. Diciamo così: una piccola Unione europea ben riuscita, amalgamata e non litigiosa.
postilla
Ecco un caso in cui anch'io adotterei la famosa dizione “città dell'uomo” che spesso sfotto in modo sbrigativo e piuttosto maleducato (lo ammetto, ma è per esasperazione) quando utilizzata da altri di solito a vanvera. Nel senso che esiste una città dell'uomo intesa come casa della società, e una città delle pietre che di quella casa è solo il contenitore. I nostri borghi “recuperati a nuova vita” come dice l'articolo, potrebbero benissimo essere il contenitore di una vita che in realtà si svolge altrove, senza alcun rapporto organico col territorio che a sua volta li contiene. Perché non siano semplicemente la versione di destra della cosiddetta paesologia, scatole di nostalgia da cartolina da rivendere sul mercato globale, forse servirebbe un'idea più chiara di che farne, della risorsa borghi tradizionali, ovvero in che contesto si inseriscono le funzioni turistiche, come si sviluppano, come si integrano ambientalmente, socialmente, economicamente. Altrimenti queste gated communities rischieranno di diventare una versione civile ma per nulla amichevole delle basi militari dei sedicenti liberatori, che nel caso specifico ci hanno liberato dai ruderi, portandosi però a casa gratis tutto il resto (f.b.)
Ci vorrebbe almeno un redivivo Kevin Lynch, per contrastare questa cancellazione di fatto della geografia dai nostri cervelli, oltre che dai programmi scolastici. La Repubblica, 11 agosto 2013 (f.b.)
Ventisei virgola tre chilometri, ovvero trenta minuti. Che nelle «attuali condizioni del traffico», secondo le geometriche previsioni dell’algoritmo, diventano trentasei. Da A a B in ventitré mosse. Partenza dal centro di Roma, destinazione una no man’s land dalle parti di Ponte Galeria, nota per un contestato centro per immigrati e anonimi capannoni industriali come quello che cerco. Mi avvertono che la segnaletica scarseggia. E i passanti sono una rarità in certi tratti dove l’asfalto è conquista recente. Ma né l’una né l’altra circostanza mi spaventano, pur avendo il senso dell’orientamento di un pipistrello sordo. Perché il dio delle mappe mi assiste e mi suggerisce benevolo dagli auricolari. Strada dopo strada, bivio su bivio, inesorabilmente. La città sottotitolata si dipana sotto le ruote della mia Vespa. Per una volta guidatore onnisciente taglio il traguardo in mezz’ora netta. Senza l’aiutino, a forza di domande, errori e ripartenze, ci avrei messo un bel po’ di più.
Dopo l’iniziale euforia, però, la domanda è: ho guadagnato almeno quindici minuti di vita o invece perso un altro pezzo di umanità? Brevissima premessa tecnologica. Il Global Position System (Gps) era notizia negli anni ’90, quando ne venne autorizzato l’uso civile. Sul fronte mappe, nel 2005 esordisce Google Maps, ma alla sua versione per cellulare spunta la voce solo a dicembre scorso. Chiunque ha uno smartphone, senza dover spendere per costose app, si ritrova in tasca un sistema satellitare sofisticato. Anche chi va in motorino ora ne può provare l’ebbrezza. Le mappe di Apple danno da mesi indicazioni vocali. E a giugno Waze, che dagli utenti riceve informazioni sul traffico, viene comprato da Google per oltre un miliardo di dollari. Quella dei servizi di localizzazione è ormai una partita economica gigantesca. E finalmente ci si interroga anche sulle sue implicazioni cognitive.
Perché muoversi sotto dettatura della macchina cambia in maniera radicale il rapporto con lo spazio che si attraversa. La psicologa tedesca Julia Frankenstein ha dato l’allarme in un editoriale sulNew York Times: «Più facciamo affidamento sulle tecnologie per trovare la strada, meno costruiamo quelle mappe cognitive che prima ci guidavano nello spazio». Il cervello è come unmuscolo, se non lo usi si rattrappisce. Eleanor Maguire, neuroscienziata all’University College di Londra, ha dimostrato che i tassisti britannici hanno particolarmente sviluppata la materia grigia dell’ippocampo, che immagazzina i ricordi spaziali. Se delegheranno in massa il tragitto al Tom Tom potrebbero perdere quell’attributo, come l’homo sapiens ha perso i peli o i denti aguzzi. Evolutivamente parlando, non ne avrebbero più bisogno.
Finché dura la batteria, il viaggio col navigatore inserito è altamente deresponsabilizzante. Lo dice benissimo Ari Schulman sulla rivista tecnoculturale The New Atlantis: «L’utente del Gps prima controlla sull’apparecchio per scoprire dov’è e solo in un secondo momento guarda davanti a sé per capire a cosa assomigli quel dove». È un paradosso che cominciamo a conoscere in tanti. Denunciato, tra gli altri, nel libroThe Natural Navigatordi Tristan Gooley che sostiene l’importanza di tornare in contatto con la segnaletica offerta dalla natura per muoversi nel mondo. E che il tecnoscettico di Stanford Evgeny Morozov ha rilanciato con veemenza: «C’è una differenza fondamentale tra trovare una direzione e desumerla da un ambiente». Il navigatore è insuperabile nel massimizzare il primo risultato e totalmente inetto riguardo al secondo. Perché, aggiunge Schulman, «il viaggio si eclissa, i luoghi diventano puri spazi attraversati. La consapevolezza della location e la realtà aumentata, uniti alla navigazione satellitare, ci conducono al traguardo con il minimo sforzo e con la minore attenzione possibile ai luoghi noiosi che incrociamo. Possiamo arrivare dove stiamo andando, e vedere ciò che vogliamo vedere, senza neppure dover guardare».
Una frase memorabile di George Orwell, che di scenari distopici se ne intendeva, avverte: «Vedere ciò che sta di fronte al proprio naso richiede uno sforzo costante». È vero sempre, da sempre. Se per di più sai che una specie di drone virtuale veglia su di te, sussurrandoti nelle orecchie (nel traffico il volume delle indicazioni è decisamente troppo basso: lo fanno per evitare incidenti, suppongo), guidi più con l’udito che con la vista. Scott Adams, il geniale creatore della striscia Dilbert, parla di exobrain, cervello esterno, per definire gli apparecchi elettronici a cui affidiamo sempre più funzioni di memoria o di aiuto alla scelta («Tecnicamente siamo già dei cyborg»). C’è da capire se dare in outsourcing alle macchine pezzi sempre più ingenti delle azioni che definiscono la nostra identità sia un progresso o un regresso.
Oppure un apparente vantaggio (come l’originaria delocalizzazione in Cina) che poi si rivela un boomerang (sui salari nazionali). Non c’è risposta semplice. Quando lascio casa e la voce sintetica recita, una per una, anche strade minori percorse migliaia di volte però ignorandone il nome, il beneficio mi sembra evidente. Stessa cosa mentre sfreccio senza esitazioni lungo strade mai viste, con cartelli mancanti o inintelligibili, e calcolo con buon anticipo come comportarmi sulla rotatoria (la voce, pedissequa, dice «prendere la 1a uscita» invece di «prima»). Non ho fatto cilecca una volta. Però tanto tempo fa, quando mi fermavo a chiedere ogni cinquecento metri, conobbi anche una ragazza gentile che si offrì di accompagnarmi per un pezzo. L’algoritmo lo detesta, ma nella vita il fattore serendipity continua ad avere un suo perché.
Dalla crisi finanziaria di Detroit la riflessione del premio Nobel si sviluppa verso un'altra constatazione: lo sprawl ammazza la società, oltre che l'ambiente. La Repubblica, 1 agosto 2013, postilla (f.b.)
Detroit è un simbolo del vecchio concetto di declino economico. L’abbandono non ha colpito solo il centro della città; in tutta la sua area metropolitana, tra il 2000 e il 2010 la popolazione ha subito un calo più drastico di quello registrato in altre grandi città. Per converso, Atlanta può essere citata ad esempio di sviluppo impetuoso. In quello stesso periodo, il numero dei suoi abitanti è aumentato di oltre un milione: un incremento paragonabile a quelli di Dallas e Houston, senza la spinta aggiuntiva del petrolio.
Ma al di là di questo netto contrasto, c’è un fattore che accomuna una Detroit in bancarotta a un’Atlanta in piena crescita. Sembra che anche qui, nonostante il boom, il “sogno americano” sia ormai svanito. Chi nasce in una famiglia povera difficilmente riesce a migliorare la propria condizione. Di fatto, l’ascensore sociale – o in altri termini, la possibilità di raggiungere uno status socioeconomico più elevato rispetto alle proprie origini – ad Atlanta sembra funzionare anche peggio che a Detroit, dove il livello di mobilità sociale è comunque basso.
Uno studio recente promosso dall’Equality of Opportunity Project (EOP) e diretto da un gruppo di economisti delle università di Harvard e Berkeley si basa su una serie di confronti tra i tassi di mobilità sociale di diversi Paesi. Ne risulta che l’America di oggi, che pure continua a considerarsi come la terra delle opportunità per tutti, ha un sistema classista ereditario persino più rigido di altre nazioni avanzate. Gli autori del progetto hanno peraltro riscontrato notevoli differenze, in materia di mobilità sociale, anche all’interno degli Stati Uniti. Ad esempio a San Francisco, chi è nato in una famiglia appartenente al 20% inferiore (in termini di reddito) della scala sociale, ha l’11% di probabilità di elevarsi fino al “top fifth”, cioè al 20% con i livelli di reddito più alti; mentre ad Atlanta questa prospettiva è limitata al 4% di chi nasce povero.
Gli studiosi hanno poi cercato di individuare i fattori collegati ai tassi più o meno elevati di mobilità sociale, giungendo a risultati in parte sorprendenti. Contrariamente alle aspettative, il fattore razziale sembra giocare un ruolo relativamente modesto. È invece emersa una correlazione significativa tra il grado di sperequazione sociale esistente e le probabilità di miglioramento In altri termini, quanto più debole è il ceto medio, tanto minori sono le probabilità di ascesa sociale. Questo risultato trova riscontro anche a livello internazionale: nelle società relativamente egualitarie come quella svedese, la mobilità sociale è molto più elevata che nell’America di oggi, con i suoi stridenti contrasti tra poveri e super-ricchi. È inoltre emerso un altro dato significativo: la correlazione tra la segregazione abitativa – cioè la condizione delle fasce sociali relegate in quartieri molto distanti delle città estese a macchia d’olio – e le probabilità di riscatto da una condizione di indigenza.
Ad Atlanta, la distanza fisica tra i quartieri bene e quelli abitati dalle fasce più povere è enorme. Sembra dunque che esista un rapporto inversamente proporzionale tra la dispersione urbana e il grado di mobilità sociale: un argomento in più per chi promuove le strategie urbane di “smart growth” (crescita intelligente) con centri urbani compatti e facilmente accessibili ai mezzi di trasporto collettivi. Quest’osservazione andrebbe tenuta in considerazione anche nel più ampio contesto di una nazione che sta deviando dalla propria rotta, e continua a parlare di pari opportunità mentre si rivela incapace di offrirle a chi più ne ha bisogno.
Copyright The New York Times Traduzione di Elisabetta Horvat
postilla
Vera fortuna, che una personalità assai ascoltata come Paul Krugman si sia accorta di almeno una parte delle ricerche sul rapporto fra socioeconomia e sprawl. Dai primissimi tempi della suburbanizzazione galoppante si intuiva qualcosa di malsano, nel frammentare la società in piccole tessere familiari, in molecole di consumatori isolate dentro la villetta autosufficiente, e unite solo dalla fabbrica, dall'ufficio, dal momento del rito collettivo al centro commerciale o allo stadio, anch'essi isolati e dispersi. Oggi, già inequivocabilmente nelle ricerche della Brookings Institution, ad esempio sugli effetti occupazionali dei primissimi investimenti dell'amministrazione Obama anticrisi, i dati confermano l'encefalogramma piatto della dispersione insediativa, anche oltre quello delle sue casalinghe disperate o dei loro compagni travet. Insomma, al contrario di quanto pensa il giovane rampante Edward Glaeser, che magari aspira pure lui al massimo riconoscimento dell'accademia delle scienze svedese, il trionfo della città non è tale se si tratta solo di trasformare territorio e mungere quattrini. Si tratta anche di farlo in modo sostenibile: dal punto di vista ambientale, sociale, e di conseguenza economico. Cambiando l'ordine dei fattori in questo caso il risultato cambia, eccome se cambia (f.b.)
Mariastella Gelmini nipotina prediletta caricaturale di certe distorsioni della nostra cultura, e un'istruzione sganciata dalla realtà territorialesociale, ed economica. La Repubblica, 1 agosto 2013 (f.b.)
DALLE mie parti, per indicare qualcuno su cui non è possibile fare affidamento, sulla cui opinione è meglio non contare, si dice che “non sa da che parte è girato”, ed espressioni simili ci sono in altre lingue, come lo spagnolo “no saben donde están parados”. Pare che il buon senso popolare opponga un'inappellabile diffidenza verso chi non si sa orientare nello spazio. Non conosce i posti in cui si trova, non riconosce i riferimenti di base quando li vede. Si è appena chiuso il quarto anno scolastico dopo il cosiddetto “Riordino Gelmini” e il prossimo anno sarà quello in cui si diplomeranno i primi ignoranti autorizzati in fatto di geografia. È una cosa a cui penso spesso nei miei tanti viaggi. Penso a quanto oggi è possibile sapere e conoscere, di un territorio, anche senza spostarsi. Però... Internet certamente è una risorsa preziosa, la globalizzazione ci ha consentito l'accesso a una mole di informazioni che a volte persino intimidisce.
Ma avere l'accesso alle informazioni non significa, di per sé, acquisire competenze. Per quelle ci vuole un processo più lungo e possibilmente ben guidato, che si chiama, genericamente, scuola. E invece molti studenti, e purtroppo ormai anche tanti adulti, quando si parla di geografia dicono cose tipo: «Perché studiare geografia? Quello che hai bisogno di sapere te lo può dire un navigatore satellitare». Uno degli effetti indesiderati di un'acritica tendenza alla sempre maggiore velocità è una certa qual cialtronaggine del pensiero, che porta a considerare appaiabili concetti e idee che nei fatti sono ben distinti. Occorre ormai un certo sforzo intellettuale per ricordarsi costantemente che c'è differenza tra parlare (o scrivere) e comunicare, tra presenziare e partecipare, tra spostarsi e viaggiare. Forse è proprio a causa della forzata sinonimia tra questi ultimi due termini che l'allora ministro per l'Istruzione, Maria Stella Gelmini, decise, nel 2008,di varare il cosiddetto “riordino” che, a partire dal 2009, fece sostanzialmente sparire l'insegnamento della geografia dalle scuole superiori.
Detto così forse è fuorviante e potrebbe sembrare che il provvedimento non sia stato guidato da precisi criteri. Invece si sono fatti dei distinguo, e vale la pena sottolinearli. Licei: l’insegnamento della geografia non esiste più in forma autonoma; è accorpato con “storia” (3 ore settimanali), ed è affidato a non specialisti. Istituti tecnici commerciali: la materia, che prima si studiava solo nel triennio, ora si studia solo nel biennio. Quindi un anno in meno. Nel triennio si fa poi “Relazioni internazionali” e “Geopolitica”, a cura degli insegnanti di diritto e di Economia aziendale. Istituti tecnici e professionali: non si fa più geografia nel biennio (che ora però è parte dell'obbligo scolastico). Istituti nautici, professionali per il turismo e alberghieri: udite udite, l'insegnamento della geografia è stato semplicemente eliminato.
È da quest'ultima informazione che parte lo sbigottimento: siamo un paese che regge una buona parte della sua economia sulle produzioni agroalimentari di qualità, le quali sono legate a specifici territori, e sia per questa peculiarità sia per lo straordinario patrimonio artistico siamo anche un paese che basa sul turismo un'altra bella fetta di Pil, e noi cosa facciamo? Perché lavoriamo per far sì che le prossime generazioni di operatori turistici e alberghieri non solo non colgano le peculiarità culturali di chi arriva, ma non sappiamo nemmeno presentare quelle dei territori in cui lavorano? E come se non bastasse, sforneremo anche liceali ignoranti in geografia, i quali andranno all'università e poi faranno carriera e poi alcuni di loro diventeranno ministri, magari dell'Agricoltura, o dei Beni culturali.
E a proposito di ministeri: più o meno nello stesso momento in cui la Gelmini varava il riordino, nasceva, ad opera del ministero dell'Agricoltura, la Rete rurale nazionale, un coordinamento di attori istituzionali e della società civile che porta avanti la riflessione sullo sviluppo rurale partendo dal principio sacrosanto che non esiste una ricetta unica, ma ce ne sono tante quanti sono i territori, con le loro caratteristiche fisiche e culturali. Era, ed è, una buona idea; peccato che a minarla alla base stessa del suo senso sia proprio l'opera di un ministro del medesimo governo.
Chi si occupa di agricoltura e di ruralità sa, infatti, che i territori si raccontano attraverso i prodotti, ma quei racconti bisogna saperli ascoltare, bisogna conoscere la lingua che i prodotti parlano. È una lingua fatta di climi, composizioni del suolo, storie economiche e sociali, guerre, religioni. Il successo dei mercati contadini, così come quello di eventi come il Salone del Gusto o Cheese sta nel fatto che l'assaggio di un prodotto, la conversazione con il suo artefice sono le chiavi per aprire porte di territori da esplorare. Ma come si potrà in futuro raccontare le peculiarità dei pascoli lucani, se chi ascolta farà fatica a ricordare dove si trova la Basilicata? La nuova ministra per l'educazione vorrà porre rimedio a quel “riordino”? Si torni a studiare la geografia nelle scuole, e si affidi questo insegnamento a docenti preparati. Perché di gente che “non sa da che parte è girata” ne abbiamo intorno a sufficienza.
Dopo la tragedia autostradale :«appena spento il dolore e la commozione si continuerà come sempre a foraggiare le centinaia di nuove grandi opere inutili che hanno asciugato le casse dello Stato e sono il principale fattore della crisi che attraversiamo».Il manifesto, 30 luglio 2013
Durerà poco la commozione che ha investito l'Italia per la immane tragedia dell'autostrada. E dureranno poco le pagine dei grandi quotidiani di informazioni hanno dedicato al lutto. Il tempo della cerimonia delle esequie e non si parlerà più - se non casualmente - e dello stato disastroso dell'Italia di mezzo. Del resto, non si parla dello stato criminale in cui sono lasciate le strade dell'Italia appenninica che non garantiscono ormai neppure i minimi livelli di sicurezza. Come non sentiamo mai parlare dei tanti giovani che sono vittime dell'incuria di uno Stato cieco che non c'è più. Dobbiamo dunque prepararci: l'incidente di domenica notte per la sua tragica dimensione non poteva essere taciuto. Ma appena spento il dolore e la commozione si continuerà come sempre a foraggiare le centinaia di nuove grandi opere inutili che hanno asciugato le casse dello Stato e sono il principale fattore della crisi che attraversiamo. E dello stato dell'Italia di mezzo, delle sue necessità urgente, della sua morfologia tormentata e della debolezza della rete urbana non si parlerà più. Il tracciato autostradale in cui è avvenuta la tragedia fa comprendere il ritardo incolmabile che vive quella parte d'Italia. Percorsi pensati e realizzati troppi anni fa per un traffico diverso. Tracciati da riprogettare, da mettere in sicurezza, da migliorare. Cantieri continui da un ventennio, salti di carreggiata, pezze a colori per un'opera che deve soltanto essere ripensata con lungimiranza.
Tocchiamo così il motivo profondo del silenzio che avvolgerà anche la tragedia del pullman delle vacanze. Il sistema dell'informazione è, come noto, controllato dai gruppi che prosperano sulle grandi commesse pubbliche e non hanno alcun interesse ad interrompere il sistema di cui sono beneficiari. Il recente caso dell'inchiesta sul Mose di Venezia è molto istruttiva al riguardo. E' emersa in questi giorni il solito verminaio: promesse non mantenute, distruzioni ambientali, risultati dubbi, corruzione sistematica. Ma un velo pietoso ha coperto l'ennesimo scandalo: non si deve disturbare il manovratore.
Manovratore che infatti scoppia di salute. Ieri la Camera dei Deputati ha approvato, imponendo la fiducia per stroncare ogni dibattito, il cosiddetto decreto del fare. Lì dentro ci sono tre miliardi per opere inutili come l'autostrada tirrenica. Del resto, cosa vuole un territorio debole come l'Italia di mezzo di fronte alla gigantesca macchina economica del turismo e del mattone balneari? Quella parte importante dell'Italia che pure produce ricchezza e presenta un patrimonio di uomini e cultura imponente è stata già sacrificata dalle scelte degli anni '80, quando si decise di potenziare il «sistema infrastrutturale forte» tra Napoli e Torino. Quel sistema infrastrutturale oggi funziona, ma ha squilibrato ancor di più un paese già squilibrato. E anche in un momento di grave crisi come l'attuale si vuole continuare con le solite fallimentari ricette. E il silenzio dell'abbandono tornerà lungo la dorsale dell'Appennino.