«Allo sblocca Italia bisogna poi aggiungere il disegno di legge in materia urbanistica del ministro Lupi dove si evita furbescamente di compiere il bilancio della crisi edilizia provocata da venti anni di deregulation». Il Manifesto, 18 settembre 2014
I dati Osce affermano che la crisi economica italiana è la più grave tra i paesi del G7. Martedì scorso il presidente del consiglio ha ripetuto in Parlamento che servono mille giorni per vedere i risultati delle riforme annunciate. Ma nel campo della città e delle grandi opere Renzi ha già legiferato accettando il punto di vista della grande proprietà edilizia, delle imprese e dalla finanza speculativa. Tutte le riforme verranno in futuro, ma il cemento ha evidentemente la priorità su tutto e si perpetuano le politiche che hanno provocato la crisi che attraversiamo.
Molti articoli sono infatti indirizzati alla costruzione di strumenti finanziari come i project bond, alla defiscalizzazione del project financing, al potenziamento del braccio operativo della grande svendita del patrimonio immobiliare, e cioè Cassa depositi e prestiti. Una serie impressionante di commi scritti su misura dei tanti appetiti speculativi. Il decreto contiene, tra tanti, cinque errori catastrofici. Il primo di aver ulteriormente semplificato (art. 17) le modalità per eseguire i lavori edilizi. Storia vecchia. Nel 2009 quando approvò il Piano casa che si basava sulla stessa filosofia di abolizione di tutti i controlli, Berlusconi affermò che il provvedimento avrebbe fatto aumentare il Pil di 4 o 5 punti. Da allora è iniziata la crisi del settore. Non è dunque questione di semplificazioni: siamo dentro una crisi strutturale e continuare sulla stessa strada significa illudere il paese.
Seconda questione. Pur di permettere nuove speculazioni nel decreto (sempre art. 17) si permette a chi realizza un nuovo quartiere di realizzare le opere di urbanizzazione per “stralci”. Un pezzo di strada, forse. O mezzo marciapiede. Chi ha scritto quella vergogna dovrebbe vedere come operano le pubbliche amministrazioni nelle città europee: prima si completano le urbanizzazioni e poi si costruiscono le case. In Italia ci sono le periferie più oscene d’Europa ed ora si premiano i responsabili.
C’è poi la ulteriore semplificazione delle procedure di valorizzazione e di vendita degli immobili dello Stato (art. 26). In questo caso la novità è che i comuni possono individuare gli edifici pubblici da valorizzare di qualsiasi amministrazione statale. Il patrimonio di tutti gli italiani viene messo in mano alle lobby locali: a venderlo ci penserà CDP e la sua società immobiliare Sgr, emanazione della cultura di JP Morgan.
L’ultimo pilastro del decreto è, inutile dirlo, l’ulteriore cancellazione della tutela paesaggistica: la cementificazione del paese deve continuare ad ogni costo.
Allo sblocca Italia bisogna poi aggiungere il disegno di legge in materia urbanistica del ministro Lupi dove si evita furbescamente di compiere il bilancio della crisi edilizia provocata da venti anni di deregulation. Ma Nomisma ha stimato che esistono 700 mila alloggi nuovi invenduti: siamo in sovraproduzione e da questo elemento deriva la crisi. La proposta cerca invece di favorire la costruzione di nuovi quartieri. Non è un caso. Vezio De Lucia insiste sul nodo del 1963, quando l’inaudita campagna di stampa contro la riforma urbanistica di Fiorentino Sullo combattuta con lo slogan «vogliono togliere la casa a otto milioni di capifamiglia», impedì all’Italia di diventare un paese moderno. Quel blocco di potere continua a tenere in ostaggio l’Italia: costruire altri quartieri provocherebbe una ulteriore svalutazione delle case degli italiani. Sono Lupi, Renzi e la grande proprietà fondiaria che vogliono vendere davvero le case ai 18 milioni di capifamiglia.
I provvedimenti sulla città e sulle grandi opere sono l’unico caso in cui Renzi non ha fatto promesse ma ha sposato la cultura Berlusconiana, altro che cambiare verso. La maglia nera che l’Ocse ci ha assegnato deriva dall’anomalia storica italiana di non aver regolato i conti con la rendita immobiliare. È ora di cancellare questo ritardo, solo così potremo pensare di liberare risorse economiche oggi bloccate nella speculazione immobiliare. E, soprattutto, difendere dalla svendita il patrimonio immobiliare di tutti gli italiani.
«Tra i critici anche [perfino - ndr] Giuliano Amato, Giudice della Consulta. Il progetto realizza le promesse di B. quando era premier». Il Fatto Quotidiano, 17 settembre 2014
Il mito della velocità è spirito del tempo e diviene finalmente – dopo un parto durato mesi – pratica legislativa. Il decreto legge si chiama Sblocca Italia, ed è una potente proiezione di ciò che diverrà il nostro Paese. Persino Giuliano Amato, il dottor Sottile, la punta massima dell’eccellenza insieme politica e tecnocratica, sembra abbia dato una sbirciatina al turbopremier e in un biglietto riservato al capo dello Stato avrebbe poi vergato le sue prime considerazioni: ciò che non è riuscito a fare Berlusconi lo fa ora Renzi. Napolitano ha letto il biglietto ma ha firmato ugualmente. È incostituzionale? Se la veda il Parlamento.
In effetti la legge, organizzata nei dettagli da Maurizio Lupi, ministro delle Infrastrutture e gran rappresentante di interessi diffusi, è stata sottoposta al vaglio di legittimità della dottoressa Nicoletta Manzione, ex capo dei vigili urbani di Firenze oggi a presidio dell’ufficio legislativo di Palazzo Chigi. Il decreto trasforma le peggiori promesse in realtà.
Inizia col prendere di petto (articolo 1) la costruzione della linea ferroviaria ad alta capacità Napoli-Bari e indica nell’amministrazione delegato delle Fs il commissario all’opera. Costui ha poco tempo (due anni) per fare e avrà – ex lege – poca voglia di discutere. Sottoporrà il progetto definitivo, quindi già impacchettato bene, alle varie amministrazioni dello Stato e agli uffici chiamati alla tutela del paesaggio (che pure è un precetto costituzionale, articolo nove della Carta). Il commissario aspetterà (comma 4) che i burocrati annuiscano presto e bene. Se così non fosse o – peggio – non si presentasse al tavolo della concertazione o – peggio del peggio – si presentasse ma senza averne titolo, il commissario tirerà dritto e aprirà i cantieri. Non deve informare il ministero che manca il visto ma fa come se ci fosse.
Se l'odioso burocrate si presentasse e manifestasse dissenso e lo motivasse persino, il commissario si prenderebbe una pausa di riflessione. Riflettendo con sè medesimo valuterebbe se l’obiezione fosse fondata o incongrua, adeguata o tignosa, volenterosa del bene comune (quindi del cemento) o solo di quello dei pini marittimi. Dopo aver brevemente dibattuto (esame interna corporis) il commissario decide se andare avanti o fermarsi. Da solo. Sembra una barzelletta ma è il risultato del combinato disposto degli undici commi nei quali si concentra e si espande la figura di questo superpotente per far viaggiare in tempo i treni tra Napoli e Bari. È una norma per adesso riferita a due sole opere (quella citata e la tratta Palermo-Catania-Messina ), ma nel futuro diverrà il modello autocratico, la dimensione del fare a qualunque costo. Fare o fare silenzio.
Tutte le opere definite grandi, urgenti e indifferibili, avranno una catena di comando blindata e un progetto chiuso. Le amministrazioni locali e tutti gli altri uffici chiamati a decidere potranno annuire e basta. Ed infatti il progetto, che prima doveva essere presentato nella sua formulazione “preliminare”, adesso viene concesso in visione a chi deve giudicare sull’impatto ambientale dell’opera da costruire nella sua versione definitiva. Non ci può essere una obiezione assoluta (es: no a una tangenziale che tagli in due il Vesuvio), è consentita invece l’obiezione costruttiva. Un secondo esempio sarà utile: si localizza un ponte su un terreno massimamente franoso. Bisognerà riconsiderare i termini dell’evidenza e addolcirla, sminuzzarla, renderla supina alla ragion di Stato. Cercare dunque, se proprio non ce n’è altri, un terreno meno franoso sul quale costruire il ponte. E magari incrociare le dita.
Nell'ideologia renziana il mito della velocità è un cardine assoluto e l’uomo del fare farà a qualunque costo. Grandi facilitazioni anche a chi volesse installare antenne, tralicci e ogni altra specie di impianti radioelettrici.
Il penultimo comma dell’articolo 6 rende giustizia a Tim, Vodafone e a tutte le altre compagnie: possono poggiarle liberamente e ovunque, senza chiedere “autorizzazioni paesaggistiche” a condizione che non siano alte più di un metro e mezzo. Chiese, cattedrali, forse anche il Colosseo: ripetitori ovunque e dovunque e per tutte le tasche. E via libera anche (comma 7 dell’articolo 7) a tutti e servizi di collettamento delle acque, agli impianti di depurazione, alle varie bonifiche. L’autorizzazione s’intende concessa se il burocrate entro i trenta giorni non dà parere. Il silenzio-assenso funziona così.
Il turbopremier non ha previsto due casi di scuola: se il burocrate di turno, solo e disperato, fosse chiamato nello stesso periodo di tempo a redigere uno sproposito di pareri in quel medesimo territorio come potrebbe onorare la puntualità? Oppure, secondo caso, potrebbe colpevolmente distrarsi. Perché convinto a stare zitto (magari corrotto?) oppure restare inerte per la sua inguaribile fannullonaggine. In quel caso la sua condotta non verrà più sanzionata.
Prima del decreto l’autorità appaltante chiedeva la sostituzione del funzionario infingardo, a cui poteva seguire un provvedimento disciplinare. Da oggi il silenzio è come la tana libera tutti: meno si è meglio si appare.
Uguale uguale l’architettura legislativa per la costruzione degli inceneritori. Si possono localizzare anche dietro piazza della Signoria. Se l’ufficio non vede, cuore non duole. L’impatto ambientale che significa, nel caso per esempio di una fabbrica di pesticidi da autorizzare, anche impatto sulla salute di chi vive nelle vicinanze è rubricato come un fastidio e tenuto in conto con l’attenzione che si ha verso un ronzìo di mosche. Basta scacciarle con una mano o e il gioco è fatto. Renzi va veloce e, a quel che promette, il cemento pure.
«Il secondo comma dell'articolo 4 del decreto, pubblicato venerdì in Gazzetta Ufficiale, permette al progetto autostradale tra Lazio e Veneto di accedere ai benefici della "defiscalizzazione". Un contributo pubblico indiretto pari a quasi 2 miliardi di euro, su un totale di dieci, cui -secondo la legge in vigore fino all'altra settimana- l'opera non avrebbe avuto diritto». Altraeconomia.it, 15 settembre 2014
Lo “Sblocca Italia” libera la Orte-Mestre. Il gioco è tutto in un comma, il secondo dell'articolo 4, che modifica il “decreto del Fare” del 2013 aprendo le porte della “defiscalizzazione” per l'autostrada tra Lazio e Veneto, e garantendo così all'opera benefici per quasi 2 miliardi di euro.
Avevano ragione Maurizio Lupi e il ministero delle Infrastrutture, nelle settimana scorse, ad inserire l’autostrada Orte-Mestre tra le opere avviate grazie al decreto “Sblocca Italia”. Anche se il nome non figurava nell’elenco dello “Sblocca Cantieri”, c'era un comma nascosto capace di “riabilitare” il più grande progetto autostradale d’Italia, quasi 400 chilometri per oltre 10 miliardi di euro d’investimento.
La bocciatura dei magistrati contabili, che avevano bocciato il progetto preliminare della Orte-Mestre, lo stesso che era stato invece approvato dal CIPE nel novembre 2013, era dovuta al fatto che senza i benefici della “defiscalizzazione”, che il piano economico e finanziario allegato alla delibera quantificava in circa 1,8 miliardi di euro, quasi il 20 per cento dell’investimento complessivo, il progetto non stava in piedi. Se la Orte-Mestre non avesse potuto accedere allo sconto IVA, IRES e IRAP, un meccanismo introdotto nell'ordinamento da una norma di fine 2012 dalgoverno Monti, e poi ripreso nel “decreto del fare” dell’estate 2013, i viadotti dell’autostrada traballavano, la sostenibilità dell’investimento veniva meno.
Per questo, la Corte dei Conti aveva imposto lo stop, superato -adesso- con il decreto “Sblocca Italia”, da un governo che ha una chiara trazione autostradale. Le “novità” dello “Sblocca Italia” saranno al centro delle azioni promosse dalla Rete Stop Orte-Mestre, che ha convocato per il 20 e 21 settembre due giornate di mobilitazione in contemporanea su tutti i territori attraversati dalla nuova autostrada, da Venezia all’Umbria. Chiedono una cosa sola: lo stralcio, definitivo, dell'opera.
«Il comitato attacca Zappalorto: "La sua astensione al Comitatone? Decisione pilatesca"». La Nuova Venezia, 11 settembre 2014 (m.p.r.)
«Zappalorto al Comitatone ha preso una decisione pilatesca decidendo di non votare. Doveva invece chiedere al governo il rispetto della legge, dal momento che si è deciso di scavare un canale che non è previsto dal Piano regolatore portuale». Non bastassero i comunali, le società sportive e le associazioni, contro il commissario che governa Ca’ Farsetti arrivano adesso gli strali del Comitato «No Grandi Navi». Il portavoce Silvio Testa rincara la dose sulla famosa riunione di agosto in cui – con l’astensione del Comune rappresentato da Zappalorto – il governo ha autorizzato l’esame della Valutazione di Impatto ambientale per il progetto dello scavo del nuovo canale, proposto dall’Autorità portuale. «In realtà ha preso una decisione pilatesca», scrive il rappresentante del comitato, «perché se da un lato ha consentito che la riunione del Comitatone si tenesse, dall’altro ha impedito che la città si esprimesse, lasciando così che altri decidessero per noi».
Nell’alluvione di parole ognuno ci mette le sue. Qualcuno anche qualche ricordo virtuoso, da cui però oggi pochi propongono di riprendere la lezione, aggiornandone i termini. Ieri si chiamavano “New Deal” negli USA e “Piano del lavoro" in Italia. Oggi hanno un nome? La Repubblica, 7 settembre 2014
TRA le riforme “a ogni costo” che ora il premier annuncia per salvare l’Italia dalla crisi economica e sociale, ce n’è una che merita la priorità perché riguarda una questione di sopravvivenza: quella del territorio e dell’assetto idrogeologico. Piove sul Gargano alla fine di un’assurda estate meteorologica e va in emergenza la Puglia, la regione più “trendy” per il nostro malandato turismo, l’unica fra quelle meridionali a registrare il “tutto esaurito” in questa stagione delle vacanze. E insieme alle vittime, siamo costretti ancora una volta a contare anche i danni, materiali e d’immagine, che la violenza della natura e l’incuria degli uomini infliggono in solido a questa terra, alla sua popolazione e indirettamente a tutto il Paese.
Basta, però, con l’alluvione delle parole. Con le denunce, gli allarmi, le lamentazioni, le promesse. La rovina della Penisola è sotto gli occhi di tutti ormai da troppo tempo. Finora s’è fatto troppo poco per prevenire, contenere, contrastare questo disastro annunciato. Ne conosciamo fin troppo bene anche le cause: dal riscaldamento del pianeta provocato dall’inquinamento atmosferico e dall’effetto serra all’abbandono e al degrado dell’agricoltura; dalla manomissione continuata dei corsi d’acqua e delle coste alla cementificazione selvaggia e all’abusivismo. Ora bisogna finalmente intervenire. Dalle Alpi al Salento e alle Isole, lo Stivale è a rischio.
Occorrono senz’altro fondi, risorse economiche e finanziarie. Ma è necessario anche organizzare un “esercito del lavoro”, come auspicava già l’economista Ernesto Rossi nel suo saggio intitolato “Abolire la miseria”, composto magari da giovani incaricati di questo servizio pubblico a supporto della Protezione civile; ovvero un “Corpo giovanile per la difesa del territorio”, di cui parla una recente proposta di legge presentata dai deputati di Sel. Non a caso fu proprio questo – come ama ricordare Giorgio Nebbia, un docente universitario e ambientalista particolarmente legato alla Puglia – il primo obiettivo del presidente Roosevelt quando assunse nel 1933 la guida di un’America afflitta dalla disoccupazione dopo la Grande crisi del ‘29.
Per il Sud e per l’Italia intera, la difesa del suolo non è soltanto un impegno morale, soprattutto nei confronti delle nuove generazioni. Né esclusivamente una spesa, seppure necessaria e irrinunciabile. È un investimento sulla sicurezza, sul futuro, sulla vita collettiva, sul turismo e infine sull’occupazione. E sappiamo tutti che, anche in campo ambientale, prevenire è meglio e assai meno costoso che curare.
È da qui, dunque, che può iniziare la ripresa nazionale. Contro la rassegnazione che giustamente il presidente Renzi esorcizza. Contro i mali endemici del pessimismo e del disfattismo. L’Italia, distrutta dalla speculazione e dal degrado, va ricostruita a partire dalla sua Bellezza; dal suo patrimonio naturale; dal territorio e dal paesaggio.
Si vedano, su eddyburg, gli articoli di Giorgio Nebbia e di Eddyburg. E magari si leggano anche le proposte politiche della lista "L'altra Europa con Tsipras" e i numerosi articoli, anche su questo sito, di Luciano Gallino, Guido Viale, Piero Bevilacqua... Basta nel cerca, in alto a sinistra della piccola lente, digitare le parole new deal
Le parole bugiarde e i fatti veri. Con lo "sblocca Italia si «confonde colpevolmente l'eccessiva burocrazia e le gravi inadempienze con le autorizzazioni e i permessi che garantiscono una corretta gestione di patrimonio immobiliare, terreni agricoli, beni ambientali e archeologici».Huffington post, 1 settembre 2014
Uno dei miglior talenti di Renzi è quello di azzeccare slogan e parole d'ordine. Lo «Sblocca Italia», ad esempio, è una locuzione molto efficace, corredata da alcuni leitmotiv già noti e da un impianto di sinonimie superficiali e scorrette. Tra tutte mi concentrerò su un solo esempio - il governo del territorio e del patrimonio comune - ma potremmo farne altri.
La politica messa in atto confonde colpevolmente l'eccessiva burocrazia e le gravi inadempienze con le autorizzazioni e i permessi che garantiscono una corretta gestione di patrimonio immobiliare, terreni agricoli, beni ambientali e archeologici. Il rischio che ne consegue, sempre più grave e urgente, è che beni demaniali, patrimonio di tutti i cittadini, diventino risorse disponibili solo a colossi finanziari e investitori privati. Per farsi un'idea precisa, basta guardare le proposta di modifica delle procedure per la riqualificazione dei beni del Demanio, incluse le caserme in dismissione, presentate nello Sblocca Italia.
Per le concessioni si introduce una norma sperimentale che cambia radicalmente il modus operandi dell'Agenzia del Demanio: il bene non sarà più offerto in concessione dallo Stato tramite una gara. D'ora in poi sarà direttamente il privato che individuerà il bene, stilerà il progetto e farà una proposta alla presidenza del Consiglio dei ministri. Il campo d'applicazione di questa proposta, così come appare nella bozza dello Sblocca Italia, è molto vasta: sono esclusi solo beni e aree a inedificabilità assoluta.
Non saranno movimenti e comitati a poter presentare queste proposte, per chiedere in concessione e valorizzare le pratiche di autorecupero del territorio, ma solo società di gestione risparmio (Sgr) e imprese, anche con la partecipazione di Cassa Depositi e Prestiti.
Per la vendita e la valorizzazione, Agenzia del Demanio e Ministero della Difesa individueranno gli immobili, poi entro un mese il Demanio dovrà proporre al Comune una nuova destinazione urbanistica, la quale dovrà essere approvata entro i successivi 4 mesi. L'Ente comunale riceverà una quota dei ricavi derivanti dalla vendita in maniera inversamente proporzionale al tempo impiegato per l'iter di approvazione (con ricavi che oscillano tra il 35% e il 5%). L'iper velocità delle operazioni non aiuterà certo la partecipazione alla scelta da parte della cittadinanza, né favorirà la discussione pubblica sul futuro di un bene comune da riutilizzare.
La semplificazione sulle concessioni e sulla vendita del patrimonio pubblico in disuso, con le nuove procedure per cambio di destinazione d'uso e varianti urbanistiche, con l'apertura di una corsia preferenziale per i privati che hanno progetti senza oneri per lo Stato, è una misura che favorirà la privatizzazione selvaggia. Mentre non c'è traccia di misure a favore dell'affidamento del patrimonio immobiliare in disuso a reti di cittadini e comitati che se ne prenderebbero cura senza finalità di profitto.
La guerra alla burocrazia, a cui allude l'efficace slogan di Renzi nasconde l'obiettivo di far cassa presto, per pagare debiti inestinguibili e ingiusti, svendendo pezzi d'Italia attraverso una privatizzazione senza regole, che distrugge il territorio e ci impoverisce tutti.
È una politica che procede incontrastata da decenni di liberismo, nonostante il lavoro di movimenti e associazioni, spesso senza rappresentanza politica, che tentano promuovono pratiche di valorizzazione e difesa di beni comuni. Sarebbe stato più onesto chiamarlo lo Svendi-Italia....
Asili nido: NO, Difesa del suolo: NO,Trasporti pubblici locali: NO, Restauro e manutenzione dei beni culturali: NO, Salute: NO, Spazi e servizi pubblici per tutti: NO. Invece Grandi opere inutili SI, SI, SI, SI. Il Fatto Quotidiano, 26 agosto 2014
Nonostante queste controindicazioni, i lavori per il gigantesco elettrodotto di mille Megawatt di potenza sono in pieno svolgimento per collegare Villanova in provincia di Pescara con l’area montenegrina di Tivat-Kotor. Il cavo è lungo 415 chilometri, 390 passano sotto il mare, 15 nella terraferma italiana e 10 in Montenegro. Sul versante montenegrino i lavori sono in fase preparatoria, in Italia invece procedono spediti. Come se quel collegamento fosse ancora una priorità e un investimento vantaggioso e non indifferibile per gli italiani.
In realtà c'è chi ci guadagna con l'elettrodotto italo-balcanico: il gruppo Seci-Maccaferri di Bologna che con sorprendente tempismo è andato a costruire una decina di centrali idroelettriche proprio nei Balcani, in Serbia, a ridosso del Montenegro. L'intervento di Maccaferri è gigantesco: 800 milioni di euro per tre centrali idroelettriche lungo la Drina e altri 300 milioni per altre piccole centrali sull’Ibar. Il costo è per il 51 per cento a carico del gruppo bolognese e per il 49 per cento dalla società Eps (Elektroprivreda Srbije).
Quando anni fa apparvero sui giornali le notizie che davano conto dell'operazione Maccaferri, il significato di quell'investimento non fu capito. Il gruppo bolognese, invece, sapeva ciò che stava facendo, avendo probabilmente avuto fin da allora l'assicurazione da chi poteva darla che l'Italia avrebbe sicuramente comprato quell'elettricità prodotta così lontano dai confini nazionali. Il calcolo si è rivelato esatto. In forza di accordi internazionali con la Serbia, il cavo trasporterà in Italia l'elettricità serba di Maccaferri a 155 euro al Megawatt, più del doppio rispetto ai 63 euro del costo medio rilevato alla Borsa elettrica italiana nel 2013. Quelle intese portano le firme di due ministri di governi di centrodestra, entrambi assai vicini a Silvio Berlusconi: Claudio Scajola nel 2009 e Paolo Romani nel 2011. Dopo aver riposato nel cassetto di qualche ufficio, forse anche a causa dei numerosi cambi di governo, quei trattati vengono ripescati proprio nel momento in cui partono i lavori del cavo sottomarino e ora si trovano in Senato per la ratifica. La discussione riprende a settembre. Una volta approvate, quelle intese diventano operative e vincolanti. E il grande affare dell'elettricità balcanica inarrestabile.
La storia del cavo Montenegro-Italia era cominciata in un'altra stagione politica: 2007, secondo governo Prodi, ministro dello Sviluppo Pier Luigi Bersani che nel dicembre di quell'anno volò in Montenegro a firmare un accordo per l'elettrodotto. Di cui allora forse c'era davvero bisogno. A Terna, la società pubblica per la trasmissione dell'elettricità che materialmente sta realizzando l'opera, spiegano che il cavo serve per “magliare” il Centro e soprattutto il Sud. Per evitare cioè che quelle zone d'Italia restino svantaggiate, meno sicure e rifornite di elettricità rispetto al resto del Paese. L'ok alla costruzione del cavo è stato dato dal ministero dello Sviluppo per tre anni di fila (2009, 2010 e 2011).
Anche l'Autorità per l'energia ha detto sì, anche se ora sono diventati assai titubanti. Fino al punto di chiedere al Consiglio di Stato perché mai l'Italia si debba svenare pagando perfino la parte di cavo che si trova in territorio montenegrino.
Una lezione di territorio e di storia: e sulla storia, sul suo legame col territorio, sull'insegnamento che ciò che ci sta intorno fornisce a chiunque di noi abbia ben aperti gli occhi della mente. Il Fatto quotidiano, 25 agosto 2014
In Maremma, per esempio, a pochi chilometri, nell'interno, da uno dei più famosi luoghi di mare toscani (Castiglion della Pescaia) sorge la minuscola Vetulonia. Nel 1840 – quando questo paesino si chiamava Colonna di Buriano – fu ritrovato a Cerveteri (non molto più a sud) un bassorilievo romano che rappresentava la città etrusca di Vetulonia.
Era stata una città famosa, quella: gli storici antichi dicevano che alcuni simboli del potere imperiale romano, li avevano inventati proprio i re etruschi di Vetulonia. Tra di essi il fascio littorio (simbolo della giustizia, ma destinato a un futuro terribile) e la sella curule, una specie di sgabello pieghevole che oggi si chiama faldistorio, anche se lo usa ancora quasi solo il papa.
E allora, dov'era finita Vetulonia, che gli etruschi chiamavano Vatl? Ebbene, il 27 maggio del 1880 Isidoro Falchi (un medico col pallino dell'archeologia) visitò Colonna, e capì che proprio quel paesino maremmano sperduto poteva essere stato una delle città più famose dell'antichità. I suoi scavi lo dimostrarono anche agli increduli: e nel 1887 «Umberto I re d'Italia rese a Colonna l'antico nome di Vetulonia», come ricorda ancora oggi una lapide.
Ma cosa colpì la fantasia di Falchi, in quel giorno decisivo del 1880, quando mise piede a Colonna per la prima volta? Certo furono le mura formate da enormi blocchi di pietre: tanto grandi che sembravano costruite dai ciclopi, mitici giganti dell'antichità. Un tratto di quelle mura è nel cuore del paese, sulla cima del colle più alto. Oggi si pensa che non fossero mura di difesa, ma che si trattasse del basamento di un tempio, che sorgeva proprio dove ora è la chiesa. Quel muro di pietre enormi fu probabilmente costruito proprio quando Alessandro Magno conquistava il mondo con le armi e Aristotele scriveva libri che l'avrebbero conquistato per sempre. E su quelle mura antichissime e ciclopiche oggi sorgono case normali, dove abitano persone normali. Questa è la meraviglia dell'Italia: che non è un museo, ma un corpo vivo che deve solo ritrovare la memoria di sé. E anche a questo può servire un lungo agosto piovoso.
«Il patron frenato da Marino e Zingaretti. Ma anche dalle risse tra costruttori e banche. E si scopre che sarà di Pallotta ma non della società quotata in borsa». Il Fatto Quotidiano, 13 agosto 2014
Solo una cosa è davvero chiara nella farsa intitolata “Il nuovo stadio della Roma”. Al presidente italoamericano della “Maggica”, James Pallotta, da due anni una corte dei miracoli di politici, palazzinari, agenti di calciatori, sensali, banchieri e impostori vari da un paio d’anni danno il tormento, indicandogli la strada maestra per fare soldi in Italia. Ma nessuno ha fatto vedere “Totò truffa ‘62”. Viene normalmente citato per l’archetipo di una tendenza nazionale, la scena di Totò e Nino Taranto che vendono la Fontana di Trevi a un italoamericano. Pallotta non sa che gli sceneggiatori Castellano e Pipolo scrissero un finale feroce per il suo predecessore Decio Cavallo, preso per matto e internato quando rivendica il suo buon diritto.
Ecco, Pallotta deve stare attento a non ripetere l’errore. Non dica che la sua idea di dotare la Roma di un nuovo ed efficiente stadio di proprietà l’ha discussa già due anni fa con l’allora sindaco di Roma, l’ex ministro Gianni Alemanno, che si dichiarò entusiasta. Non spieghi che la scelta dei terreni in località Tor di Valle, in un’ansa del Tevere a rischio inondazione, lungo il raccordo autostradale per l’aeroporto di Fiumicino già normalmente intasato - nei feriali dal traffico di chi corre a imbarcarsi e nei festivi da chi torna dal mare – è stata caldeggiata da Unicredit, seconda banca italiana. Glissi sullo scivoloso dettaglio che quei terreni sono di Luca Parnasi, il costruttore romano più odiato dal re dei costruttori romani, Franco Caltagirone, proprietario del Messaggero e di Leggo, le due corazzate dell’informazione capitolina.
E si metterà comunque nei guai se crederà alla leggenda renziana (e prima ancora berlusconiana), secondo cui chi viene dall’estero a investire in Italia viene messo in fuga da una burocrazia asfissiante e corrotta e dalle ubbie Nimby della potente (?) lobby ambientalista. Gli esponenti di Legambiente sono diventati potenti perché i giornali di Caltagirone dedicano loro interviste fluviali quali sul Messaggero si erano viste solo per il genero del padrone, Pierferdinando Casini. Caltagirone, come tutti i costruttori romani, aveva anche lui il terreno pronto per lo stadio, in zona Tor Vergata. Ma Parnasi è nel cuore di Unicredit. La bancona si trovò in pancia la Roma come eredità del crac di Franco Sensi, strafinanziato quando i cuori di banca e imprese romane battevano andreottianamente all’unisono. Anche i Parnasi furono riempiti di prestiti a pressione, e adesso il giovane rampollo Luca ha oltre 400 milioni di debiti (su 150 di fatturato). Una prima boccata d’ossigeno gliel’ha data la provincia di Roma ai tempi del presidente Enrico Gasbarra, impegnandosi a pagargli 260 milioni per un palazzo dove mettere gli uffici di un ente già morto.
E adesso tocca a Pallotta. Lo stadio deve farsi a Tor di Valle, dicono i maligni, per salvare i soldi di Unicredit. La legge sugli stadi prevede che il privato, dotando a sue spese la città di una nuova arena sportiva, ha diritto di risarcirsi costruendo un po’ di metri cubi. Nel caso della Roma, Parnasi ha già progettato un milione di metri cubi, che comprendono due alberghi e uffici per 15mila posti di lavoro. In un Paese dove gli uffici tendono a restare sfitti, l’unica spiegazione dell’affare è che Unicredit abbia convinto qualche altra banca di impiombarsi con Parnasi al posto suo. Tutto può essere.
Entro poche settimane il comune di Roma dovrà votare il parere definitivo che toccherà al sindaco Ignazio Marino comunicare a Pallotta. È chiaro che non tutto andrà liscio, e anche il Governatore del Lazio, Nicola Zingaretti, ha già fatto le sue obiezioni a un progetto zoppicante. Infatti ieri il giovane presidente del Pd romano, Tommaso Giuntella, ha detto che “stiamo facendo semplicemente una figura grottesca come città e come Paese. Questa vicenda, le lungaggini, i tira e molla, la poca chiarezza, le piccole e grandi arroganze, dimostrano perfettamente perché gli investitori stranieri fuggono dal nostro Paese”. E a stretto giro Augusto Panecaldo, coordinatore della maggioranza in Campidoglio (chissà se a Pallotta hanno spiegato cos’è il coordinatore di una maggioranza che è tale perché Marino ha vinto con premio di maggioranza l’elezione diretta del sindaco), ha replicato: “Nessuna figura grottesca. Semmai il contrario. Si sta cercando di rendere accettabile un progetto al quale, a condizioni date e in un altro Paese, si sarebbe dovuto semplicemente dire di no”. E perché non hanno detto di no?
Molte cose deve ancora imparare Pallotta dell’Italia. E una invece dovrebbe spiegarla lui agli italiani. Visto che lo stadio della Roma lo costruisce attraverso un’altra società alla quale la squadra di Totti dovrà pagare l’affitto vita natural durante, e che sarà Pallotta costruttore a trattare con Pallotta patron della Roma il canone, non è che gli azionisti di minoranza di una società che è quotata in Borsa dovrebbero un po’ preoccuparsi anche loro del destino del loro investimento in Italia?
«La bassa densità di popolazione cala a picco in più parti, e in assenza di presìdi sarà prossima allo zero in vaste aree. Eppure proprio questo carattere, l'estensione di tanta natura, si poteva volgere a vantaggio, bastava crederci in un moderno disegno di crescita agropastorale quando lì c'erano ancora energie». La Nuova Sardegna, 8 agosto 2014 (m.p.r.).
Se facessimo oggi una fotografia per sapere com'è distribuita la popolazione nell'isola, risalterebbe quella grande area centrale spopolata. Perché in questi giorni siamo quasi tutti – abitanti e turisti – concentrati ai bordi. E stanotte a Semestene, a Soddì o a Baradili – tra i piccoli comuni sempre più piccoli – si conteranno meno presenze di quelle registrate in un medio albergo vista mare.
Poco cambierà nelle altre stagioni: per Semestene – 160 abitanti, circa 650 alla fine dell'Ottocento – non ci sono speranze di lunga vita nonostante l'orgoglio civico esibito nel sito del Comune. Secondo la diagnosi del demografo stanno male almeno 70 paesi sardi, tutti in aree interne, la metà dei quali si svuoterà nell'arco di un trentennio (fonte RAS 2013). Elementare: se non ci nasce nessuno e qualcuno ogni tanto ci muore o se ne va, saranno le case vuote a documentare la magica secolare resistenza di quel centro, abitato da chissà quante generazioni.
Ormai più che un trend circoscritto a qualche caso disgraziato, è il ribaltamento dell'antico ordine che ancora nel secolo scorso sembrava congenito. Motivo di sconforto per Vittorio Amedeo II che fantasticava sulla Sardegna militarizzata prima di sapere dei suoi lidi sguarniti, dai quali si tenevano alla larga i 300mila abitanti.
La bassa densità di popolazione (67 ab/km²) cala a picco in più parti, e in assenza di presìdi sarà prossima allo zero in vaste aree. Eppure proprio questo carattere, l'estensione di tanta natura, si poteva volgere a vantaggio, bastava crederci in un moderno disegno di crescita agropastorale quando lì c'erano ancora energie. Ma sembrava tempo perso assistere contadini e pastori disarmati, meglio investire ingenti risorse nei programmi di poli industriali (Il Sole24ore ha stimato che per Ottana si sono spesi 6 miliardi di euro). Sembrava tanto facile, la palingenesi della chimica che ci avrebbe fatto dimenticare la grama vita nei campi.
È andata così. E cosa c'è di più tragico della scomparsa di un comune su cinque, in una regione con indici di disagio altissimi? Non è imminente come quando si annuncia la chiusura di una fabbrica. Quindi nessun corteo o scalate di campanili, e neppure l'onore di una task force che si invoca per ogni contrattempo.
Ci aspetteremmo un piano adatto all' emergenza: un terzo del territorio regionale è a rischio di tenuta e non basta dire che occorre “fare sistema” – l'auspicio molto evasivo in voga da un po' di anni. C'è, evviva, il progetto di Fabrizio Barca (presentato a Ales e a Teti) e vedremo se ce la farà ad atterrare prima che sia tardi.
Per tenere su il morale si sovrastimano suggestive previsioni (immigrati che prima o poi si compreranno le case vuote in Goceano o in Marmilla, flussi di vacanzieri a caccia di conferme dei pittoreschi racconti sulla “Sardegna vera”, o sedotti, in caso di disfatta, dallo spettacolo delle ghost town).
Vista dalle spiagge questa rarefazione è incomprensibile. Difficile spiegarsi il deserto che avanza da chi, immerso nella sfrenata densità di cose e persone, combatte per trovare posto a un ombrellone o un tavolo in pizzeria. In fondo la disgrazia sta pure in questo divorzio, nella doppia faccia dell'isola, come la spiegano i valori di mercato: due metri quadri di veranda nelle riviere vip costano quanto una casa a una quarantina di chilometri.
Un insostenibile squilibrio, la Sardegna che balla per due mesi divorando paesaggi, e la Sardegna che stenta a sopravvivere. E non potrà farcela da sé, senza un progetto speciale e molte risorse, (più di quelle previste nel Programma di sviluppo rurale finanziato dall'Europa). Serve una “grande opera” finalizzata a rinnovare le ragioni per abitarle quelle terre in crisi, moltiplicando il sostegno al lavoro di agricoltori e allevatori industriosi, potenziando i servizi, non eliminandoli. È il presupposto per mantenere e attrarre abitanti. Ci conviene e non ci sono scorciatoie.
Prime (buone) notizie dal fronte “caserme dismesse”: intenzioni da Milano, Torino, Roma. Se sono rose fioriranno. La Repubblica, 8 agosto 2014
Una città dei bambini, un museo della scienza, una foresteria universitaria là dove prima c’erano armi e soldati. I tre sindaci di Roma, Milano e Torino si sono messi subito al lavoro per trasformare in risorse per le loro città il milione di metri quadri di caserme dismesse ricevuto ieri dal ministro della Difesa Roberta Pinotti. Hanno dodici mesi di tempo per concludere i processi di conversione urbanistica, e non sono molti. Se non ci riusciranno, quegli immobili torneranno alla Difesa e al Demanio. Il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, vuole reinventare il futuro delle prime tre caserme dismesse con la creazione di aree verdi, servizi e case in housing sociale. Un grande parco è il progetto che riguarda l’area più vasta, la Piazza d’Armi di via Forze Armate: si tratta di 300mila metri quadrati abbandonati da anni - confinano con la caserma Santa Barbara, nella periferia Nord Ovest di Milano - dove un tempo le Forze Armate svolgeva le esercitazioni e dove oggi, invece, la vegetazione sta crescendo spontaneamente.
Almeno la metà del terreno potrebbe essere lasciata a verde. La caserma Mameli di viale Suzzani è un complesso di 100mila metri quadrati che il Comune vorrebbe utilizzare per interventi di edilizia convenzionata e case. Una parte delle strutture vincolate dalla Sovrintendenza potrebbe essere recuperata per servizi sociali o per iniziative culturali. E il sindaco Giuliano Pisapia lancia anche un’idea: realizzare in una di queste aree una Città dei Bambini.
A Torino piace al sindaco Piero Fassino l’idea di mettere gli studenti nelle ex camerate dei militari trasformando le caserme in residenze universitarie. È allo studio anche una quota di nuovi alloggi, oltre a servizi pubblici, come biblioteche di quartiere o nuove materne. Non manca al progetto la creazione di aree verdi, spazi culturali per mostre. Torino non s’accontenta delle quattro ex caserme ricevute ieri, e sta già trattando per ottenerne altre due, la “Aimone” e il complesso tra corso Lepanto, dove i torinesi sono andati per decenni a fare la visita di leva, e corso Unione Sovietica. Oltre alle destinazioni universitaria e residenziale, si sta studiando il trasferimento negli ex immobili militari di uffici comunali.
Il sogno di Ignazio Marino di «rigenerazione urbana» delle ex aree della Difesa è già iniziato con il progetto della Città della Scienza, che sorgerà nelle ex caserme di via Guido Reni. E proseguirà ora con l’acquisizione di altre sei strutture. «Per attuare i progetti - ha precisato l’assessore alla Trasformazione Urbana, Giovanni Caudo - coinvolgeremo i cittadini, come è ormai consuetudine di questa Amministrazione sulle grandi scelte che trasformano la Capitale». Secondo i primi progetti, nell’area del Forte Trionfale sarà trasferita la sede del Municipio XIV, attualmente in affitto. Nei locali del Forte Boccea potrebbe essere trasferito il mercato di via Urbano II. Nell’area della Caserma di Viale Angelico si pensa alla realizzazione di parcheggi.
A proposito di Refrontolo , dello "sblocca Italia di Renzi e del condono perpetuo di Caldoro: non tutti i coccodrilli piangono, alcuni azzannano con gli occhi asciutti. Huffington Post, 4 agosto 2014
Dopo i morti di Refrontolo - ennesima tragedia annunciata frutto molto più del territorio maltrattato che del maltempo -, il Presidente del Veneto Zaia ha evocato il Vajont e da Palazzo Chigi hanno garantito che "adesso si volta pagina".
Tutto già visto e già sentito. Già viste, ahinoi, centinaia di disgrazie simili a questa: frane e alluvioni (più di 1.500 secondo il "Natural Hazard Earth System Sciences") alimentate da un uso dissennato del suolo - cemento ovunque, come nel caso del Trevigiano disboscamenti scriteriati per fare posto a sempre nuovi vigneti - che hanno provocato migliaia di morti (più di 5 mila dal 1950).
E sentita, strasentita, ad ogni evento luttuoso, la promessa di ministri e presidenti di regione che "adesso si volta pagina".
Peccato che proprio qualche ora prima della "bomba d'acqua" di Refrontolo, un altro presidente di regione, Caldoro in Campania, abbia proposto una specie di condono edilizio mascherato per migliaia di case illegali costruite spesso in aree a rischio idrogeologico o vulcanico. E peccato che più o meno contemporaneamente il presidente del consiglio in persona e il ministro Lupi abbiano annunciato con tanto di "slides" una presunta svolta nelle politiche urbanistiche e nelle regole per l'edilizia che in realtà perpetua, anzi rischia di aggravare i mali cronici del nostro territorio.
Sulla sanatoria voluta da Caldoro c'è poco da dire: è una vergogna assoluta, bisogna solo sperare che finisca in nulla.
Ma inaccettabile è anche il proposito del governo di rendere molto più semplici, con lo "Sblocca-Italia", le procedure per chi vuole costruire: altro cemento dunque, un'altra spinta all'Italia del dissesto territoriale. Il tutto nasce da una premessa totalmente falsa: in Italia l'edilizia è ferma perché le regole sono troppo rigide. Affermazione quasi grottesca: per decenni l'edilizia delle nuove costruzioni, quella legale e quella illegale, ha imperversato allegramente, consumando suolo a ritmi doppi rispetto al resto d'Europa (in Italia, dati Istat, oltre il 7% del territorio è cementificato contro una media europea del 4,3%). Se oggi questa edilizia è in crisi, ciò non dipende da un eccesso di burocrazia ma da un fatto più semplice e banale: sono finiti gli italiani che hanno soldi per comprare nuove case, sono finiti perché c'è la crisi e perché di case da vendere se ne sono costruite troppe. Nel frattempo, mentre si costruivano case da vendere che a centinaia di migliaia sono tuttora invendute, non si affrontava il vero dramma sociale legato alla casa: che è l'assenza - anche questa un'anomalia rispetto all'Europa - di un'offerta numericamente adeguata di case in affitto a prezzi accessibili per qualche milione di famiglie a basso reddito.
Discorso in parte analogo si può fare per le grandi opere. Matteo Renzi, sempre presentando il programma "Sblocca-Italia", ha mostrato una cartina di nuove autostrade da realizzare che fa impallidire, quanto a tasso di demagogia e propaganda, l'elenco di grandi opere promesso a suo tempo - anche in quel caso con tanto di mappa colorata - da Berlusconi. Ma l'Italia non ha bisogno di una nuova cascata di autostrade, molte delle quali del tutto inutili (un caso per tutti: l'autostrada tirrenica da Civitavecchia a Livorno; molto più rapido e meno costoso allargare l'Aurelia). Ha bisogno di ferrovie, di manutenzione delle reti primarie (fogne, acquedotti, depuratori...), di trasporto pubblico urbano, di investimenti per rinaturalizzare le sponde cementificate di fiumi e torrenti; misure pressoché assenti dallo "Sblocca-Italia".
La quasi contemporaneità tra il cripto-condono di Caldoro, l'annuncio renziano dello "Sblocca-Italia" e la tragedia di Refrontolo ripropone insomma l'ormai abituale corto circuito tra la condizione di endemico dissesto territoriale che affligge l'Italia - problema drammatico anche sul piano squisitamente economico, perché i disastri continuati hanno un costo elevatissimo per famiglie e imprese - e le risposte che dà la politica. Risposte che troppo spesso sono parte del problema molto più che della soluzione. Renzi vuole rilanciare l'edilizia? Intenzione sacrosanta. Ma allora spinga sulla riqualificazione del patrimonio esistente, sulla manutenzione del territorio, sulla rigenerazione urbana, oppure l'edilizia rimarrà al palo (ripetiamo: se oggi è in crisi è perché nessuno compra più nuove case) e l'Italia finirà sempre più sott'acqua.
Alcune parole, un po' a caso, di un vocabolario da fare. Corriere della sera, 5 agosto 2014
Amnesia
«In Italia i disastri di natura idrogeologica sono secondi solo ai terremoti quanto a numero di vittime e costi sostenuti per riparare ai danni. Ma quanto e più dei terremoti questi disastri sono oggetto di una sorta di amnesia collettiva e diventano tema di dibattito anche politico solo quando irrompono nella cronaca quotidiana. Eppure per loro natura presupporrebbero un’attenta opera di prevenzione basata su un uso corretto del territorio» (Monica Ghirotti, «Grandi frane: disastri e processi del Novecento», da «L’Italia dei disastri» a cura di Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise).
In tre articoli, alcune facce dell’incuria che provoca disastri. Il territorio è una realtà complessa, e solo un sistema complesso di regole (la sua pianificazione ) può garantire la sopravvivenza delle specie che lo abitano. La Nuova Venezia, 5 agosto 2014
Prosecco e colline.Guerra sulle regole
Nessuno tocchi il prosecco. Da queste parti, circondati dalla Grande Bellezza delle colline dove nasce il vino più trendy del momento, sono ammessi i pesticidi ma vietato l’uso improprio nel nome prosecco. Eppure è proprio grazie al nome del prosecco che la tragedia del Molinetto della Croda ha sfondato il muro dei grandi media nazionali. «Dite pure ai vostri colleghi - si è infervora il governatore Luca Zaia – che magari scrivono nei grandi giornaloni italiani, che prima di attaccare l’economia d’eccellenza del nostro territorio, quella appunto del prosecco, vengano a conoscere la realtà». E accompagna personalmente le grandi testate giornalistiche a «gustare» il paesaggio. Luca Zaia fa parte del tessuto connettivo di questo territorio: vi è nato e cresciuto, lo vive e ne respira l’essenza, lo chiamano per nome. A questi piccoli paesi ha restituito orgoglio e dignità. Chi tocca il prosecco, dunque, tocca Luca Zaia. Non è solo questione di cuore: quand’era ministro delle Politiche Agricole, nel 2009, ha regalato a questo territorio la più grande opportunità post industriale, quella della denominazione protetta del prosecco. Docg nella zona «storica» di Conegliano e Valdobbiadene (e Asolo) e Doc in nove province venete e friulane. Così è stato arginato il timore del prosecco cinese e delimitato la zona di produzione, facendo diventare il prosecco il primo concorrente dello Champagne e il primo distretto vitinicolo nazionale con oltre 300 milioni di bottiglie. Logico che una tragedia di queste proporzioni - ed ogni accostamento sull’uso del territorio e sulla monocoltura del prosecco - lo metta di cattivo umore. Adesso questa parte del Veneto è tra le più ricche d’Italia. E un ettaro di terreno agricolo vitabile vale il doppio di un terreno industriale. Insomma, Zaia ha fatto ricchi i contadini del prosecco, che lo adorano. Le isolate voci che si distinguono non hanno molta fortuna. Perché se è vero che aver ragione nel momento sbagliato non porta lontano, la storia dell’umanità – dal Vajont in poi - è lastricata di uomini e donne dalla parte del torto che hanno trovato ragione postuma.
A Feltre sta nascendo un gruppo di acquisto solidale di terreni per scongiurare la «prosecchizzazione» del territorio. Il numero due dei geologi italiani, Paolo Spagna, non si tira indietro: «Le colline dell’Alta Marca trevigiana, geologicamente giovani e poco resistenti, sono rese ancor più fragili dall’azione intensiva dell’uomo». E Tiziano Tempesta, docente di estimo all’Università di Padova, avverte: «Vedo cose, nelle colline del prosecco, che gridano vendetta. Attenti, perché stiamo andando nella direzione opposta a quella giusta: la monocoltura del prosecco può far molto male non solo all’assetto del territorio ma anche al territorio stesso». «Ma questa fama planetaria è un bene o piuttosto un rischio?», si chiede nel suo eremo di Santo Stefano di Valdobbiadene Miro Graziotin. «Non rappresenta forse anche un problema? Perché alla crescita impetuosa non è seguita un’altrettanta crescita sulle regole, sulle strategie e sul futuro di questo prezioso regalo della natura».
L'ingegner Napol
«La colpa? L’incuria dei boschi»
«La colpa non è dei vigneti, ma della mancata opera di manutenzione dei boschi. E prima di tutto di un evento eccezionale, perché una precipitazione piovosa come quella di sabato scorso non capitava da almeno 60-70 anni». Gian Pietro Napol – ingegnere civile di Vittorio Veneto, 61 anni, sposato, con due figli, titolare dello studio omonimo a Vittorio, e oggi presidente del Foiv, federazione degli ingegneri dell’Ordine del Veneto, dopo esserne stato vicepresidente per 8 anni – non mette sotto accusa i filari di Prosecco, ma gestione e manutenzione complessiva del territorio, dalla cura dei boschi a quella dei corsi d’acqua. «Un tempo d’inverno i contadini tenevano curati i boschi e soprattutto il sottobosco, raccoglievano il fogliame per approntare le lettiere delle mucche nelle stalle, tagliavano le piante morte, o in assetto precario, e facevano una costante manutenzione di scoline, fossi e corsi d'acqua», rileva Napol , «ma oggi tutto questo non avviene più, in quanto ritenuto economicamente non conveniente».
Il geologo Barazzuol
«Basta sbancamenti e più rispetto»
Doveva esserci anche lui, alla festa sotto il tendone al Molinetto della Croda. Ma un impegno improvviso lo ha indotto a rinunciare: ha vissuto ore d’ansia per gli amici, sabato. Si sono salvati. Ci è tornato subito dopo, poi domenica mattina, e ancora lunedì, come geologo incaricato dal Comune di Refrontolo di monitorare l’area della tragedia, compiere sopralluoghi e rilievi utili capire le ragioni del disastro. Diego Barazzuol (in foto), 55 anni, geologo di Farra di Soligo, non si dà pace. Destino e professione gli hanno preparato un copione pazzesco, sabato. «È incredibile, ho lo studio a due passi dal Lierza, sono nato qui, credo di conoscerlo metro per metro. In qualche estate è secco, e di solito non supera i 35-40 centimetri. Ma sabato è stata una cosa mai vista...» Lei è un tecnico. Proviamo a spiegare cos’ è accaduto? «Una pioggia incredibile, in un’ora e mezza è caduta l’acqua di un mese. Altro che secce reverse, come dicevano i nostri vecchi. L’ondata che ha spazzato via tutto era alta 4-5 metri, su un fronte di 18: ha fatto il salto di 20 metri, poi ha viaggiato a 15 chilometri all’ora. Sono 300 metri cubi al secondo di acqua e fango. Immane». Ma c’è stato l’effetto diga, sopra il molinetto? «Era un’ipotesi plausibile per spiegare una simile cascata d’acqua, ma ci siamo dovuti ricredere. Acqua e solo acqua, con l’effetto Venturi dovuto al restringimento del fronte sopra il molinetto, che ha alzato a dismisura il livello». Allora è responsabile la pioggia? I suoi colleghi accusano l’espansione delle coltivazioni del Prosecco, che indeboliscono le colline «Bisogna fare chiarezza. La pioggia è stata eccezionale, ma tutto è stato aggravato dal fatto che la terra era già pregna e satura dopo le piogge di venerdì. Non ha ricevuto nulla. L’acqua è tutta scivolata giù, in 15-20 minuti si è creata l’enorme massa poi precipitata dal molinetto. Le frane ci sono, ma anche in zone di bosco. E se è vero che le radici della vite sono deboli, nel giro di pochi anni crescono anch’esse». Prosecco innocente, dunque? «Non si può affrontare la questione nemmeno in questi termini. Il Prosecco si può piantare, ma non ovunque, perché le colline sono fragili da sempre. Non certo sui piani inclinati, dove le marne sottili, di natura argillosa, non contribuiscono alla stabilità. E non si può piantare prosecco con sbancamenti selvaggi». Ma ci sono regole? «Qualcuna sì, e ora si fanno strada principi di precauzione e norme più attente. In zone di forte pendenza, meglio rendere trattorabile un filare ogni 3 o 4, e calibrare i terrazzamenti. In ogni caso, mai raddrizzare dorsali: rispettiamo le curve delle colline, impluvi e dorsali». Tra boschi rasati e filari che spuntano ovunque, si è parlato di assalto alle colline da parte degli imprenditori del vino. «Sono un tecnico, queste definizioni non mi appartengono. Il prosecco è anche un prodotto che oggi “tira” e traina l’agroalimentare. Cinquant’anni fa c’erano più vigneti, poi c’è stato un abbandono, adesso è boom. Su queste colline non si deve esagerare». Paolo Spagna, presidente veneto dei geologi, parla di pericoli per chi vive sulle colline. E chiede monitoraggi della Pedemontana e un piano di protezione civile. «È doveroso, proprio per la fragilità di queste colline, che vanno rispettate, non sbancate. E le autorità devono assicurare risorse e fondi» Come geologi chiedete l’istituzione del geologo di zona, una sorta di superesperto che valuti ogni intervento sul territorio. «Sarebbe la soluzione per impedire scelte sbagliate in zone delicate, e risparmiare tanti soldi di interventi dopo i disastri. Ma gli vanno garantiti mezzi e poteri»
Tra gli esercizi intellettuali più difficili quello di non cadere nella disperazione quando si scopre (ahimè così spesso) che la memoria degli italiani è morta, o è seppellita dagli “affari”. Sono decenni che si sa perché i disastri accadono, e si fa il contrario di ciò che serve per evitarli. La Repubblica, 4 agosto 2014
Bomba d’acqua” fuori stagione? Forse, anche se l’annessione dell’Italia ai Tropici sembra ormai un fatto compiuto. Ma mentre tutti si stracciano le vesti, non nascondiamoci dietro un dito.
Frane, fiumi in piena, disastri naturali ritmano la cronaca di questi anni. Ogni volta, proclami e promesse, in attesa del prossimo lutto. «Una devastazione che mai ci saremmo aspettati» dichiara il presidente del Veneto Zaia, dimentico di smottamenti ed esondazioni nella stessa zona di Refrontolo, lo scorso febbraio.
«Ora si volta pagina, investiamo in opere di difesa» proclama il sito del Governo, con una velina-fotocopia di quelle di altri governi. Per citarne uno, Corrado Clini (allora ministro dell’Ambiente), che dopo una frana in Liguria (settembre 2012) dichiarò pensosamente: «Servirebbe un piano contro il dissesto idrogeologico». Gran prova d’intuito, da parte di chi era stato direttore generale dello stesso Ministero per dieci anni.
Ma in Italia ogni disastro è opera del fato avverso o di congiunture astrali. Mai che si parli di responsabilità o di punire i colpevoli: che sarebbe la prima mossa per voltar pagina davvero, e non a parole. E a che cosa è mai servito il monito del Capo dello Stato, quando dopo un’altra alluvione con quattro morti (settembre 2011) dichiarò che «bisogna affrontare il grande problema nazionale della tutela e della messa in sicurezza del territorio, passando dall’emergenza alla prevenzione»?
Con un territorio allo sfascio dal Cervino a Pantelleria, anziché analizzarne le fragilità e concepire piani d’insieme aspettiamo che i riflettori si accendano su piccole porzioni di territorio, per metterci una pezza: oggi Treviso, ieri Sibari affogata nel fango o Giampilieri coi suoi 38 morti. Come se tutto il resto fosse al sicuro.
L’Italia ha il territorio più fragile d’Europa (mezzo milione di frane), il più esposto al danno idrogeologico, che colpisce periodicamente le persone, l’economia, il paesaggio. Eventi che dovrebbero imporre la redazione di mappe del rischio e la ricerca di soluzioni. Invece, gli investimenti per la messa in sicurezza del territorio sono diminuiti del 50%, e i lavori per un’aggiornata carta geologica sono stati affossati. Usiamo ancora quella al 100.000, voluta da Quintino Sella nel 1862 più per le risorse minerarie che per lo stato dei suoli.
La nuova carta al 50.000 prevedeva 652 fogli, ma solo 255 sono stati realizzati (il 40 % del territorio), dopo di che, per i tagli lineari alla Tremonti o la spending review che ne è l’impudico sinonimo, il progetto si è arenato. E se del 60% del territorio non c’è carta geologica, come intende il Governo «chiudere la stagione che ha visto l’Italia inseguire le emergenze»? Secondo il rapporto Ance-Cresme (ottobre 2012), il 6,6% del territorio è in frana, il 10% a elevato rischio idrogeologico, il 44% a elevato rischio sismico.
I costi della mancata manutenzione sono stati valutati in 3,5 miliardi di euro l’anno (senza contare i morti): negli anni 1985-2011 si sono registrati oltre 15.000 eventi di dissesto, di cui 120 gravi, con 970 morti. Nonostante questi segnali di allarme, scrive il rapporto, cresce senza sosta «l’abbandono della manutenzione e presidio territoriale che assicuravano l’equilibrio del territorio».
Continua invece il consumo di suolo: secondo dati Ispra, otto metri quadrati al secondo, per ciascun secondo degli ultimi cinque anni (e il Lombardo-Veneto è al primo posto). Dati che trascinano l’Italia fuori dall’Europa, dove il consumo medio del suolo è del 2,8%, a fronte di un devastante 6,9% per il nostro Paese. Pretestuose “grandi opere” pubbliche si aggiungono “piani-casa” e condoni edilizi, con l’assunto che basta “mettere in moto i cantieri” e l’economia è salva: la stessa litania menzognera che ci viene ripetuta da Craxi in qua.
Ma questa dissennata cementificazione uccide i suoli agricoli, colpisce al cuore l’agricoltura di qualità, copre i suoli di una coltre di cemento, con perdita irreversibile delle funzioni ecologiche di sistema che aggrava gli effetti di frane e alluvioni. Eppure, secondo l’Associazione Nazionale Costruttori, un piano nazionale per la messa in sicurezza del territorio richiederebbe un investimento annuo di 1,2 miliardi per vent’anni, che assorbirebbe manodopera bilanciando il decremento delle nuove fabbricazioni.
Con un curioso lapsus, Erasmo D’Angelis, che a Palazzo Chigi guida #italiasicura, struttura contro il dissesto idrogeologico, ha dichiarato all’Ansa che il Governo intende procedere allo «sblocca dissesto ». Si spera che intendesse “bloccare il dissesto”, perché a sbloccarlo ci pensano le bombe d’acqua. Ma il decreto “Sblocca Italia” prevede «permessi edilizi più facili e grandi opere accelerate», senza distinguere (lo ha notato Asor Rosa sul manifesto ) «fra le opere in ritardo per motivi burocratici e quelle nei confronti delle quali si è manifestata la consapevole opposizione dei cittadini in nome di una vivibilità che fa tutt’uno con il rispetto del territorio e dell’ambiente, anzi facendo intenzionalmente d’ogni erba un fascio».
Se sarà così, il lapsus di D’Angelis si rivelerà tragicamente profetico. Per non dire che le “leggi ad alta velocità” servono spesso (come per il Mose) a indirizzare fondi pubblici sul profitto privato dei soliti noti: lo hanno mostrato benissimo Francesco Giavazzi e Giorgio Barbieri nel loro impeccabile Corruzione a norma di legge. La lobby delle grandi opere che affonda l’Italia ( Rizzoli).
«Il maggior rischio degli investimenti in infrastrutture è la vanità», intitolava il Financial Times del 5 gennaio 2014. Ma nell’Italia delle frane e delle bombe d’acqua la vanità dovrebbe essere bandita
La corruzione e il criminoso legame tra politica e affari sono condannati da tutti, e giustamente. Ma pochi hanno imparato che il MoSE è un progetto che non salva Venezia ma la distrugge, e lo scrivono sui giornali. La Repubblica, 5 giugno 2014
«Con il Mose è saltato uno dei principi che hanno governato per secoli la laguna di Venezia. E che la Serenissima repubblica ha costantemente rispettato. Quel principio è iscritto nel nome di un canale, il canaledella Scomenzera». Scomenzera vuol dire cominciare, spiega Edoardo Salzano, urbanista, a lungo preside della facoltà di Pianificazione dello Iuav (Istituto universitario architettura di Venezia), poi anche assessore della città lagunare: «Un lavoro si cominciava, si vedevano gli effetti e solo se questi convincevano si continuava, se no si cambiava direzione. Nella legge speciale per Venezia, che tanti anni fa ha dato il via al Mose, si richiedono criteri analoghi: la sperimentalità, la flessibilità e la reversibilità. E quei criteri il Mose li ha tutti e tre disattesi ».
La sordità della Banca europea per gli investimenti alle denunce sulle Grandi Opere ha contribuito a far maturare lo scandalo oggi esploso nel Veneto (e non solo). Altraeconomia.it, 4 giugno 2014
Ma in questi giorni gli scandali di corruzione continuano ad emergere grazie all’azione costante della magistratura, cosicché è lecito chiedersi quale diga serva per porre fine a questo cancro sistemico della nostra società. Di sicuro non le dighe mobili del Mose, il faraonico e discutibile progetto che dovrebbe salvare Venezia dallo sprofondare nella laguna. Un’opera che dopo un decennio di studi e lavori ha prodotto solo 4 delle 78 paratie mobili previste. Eppure soldi ne sono annegati tanti nel Mose, inclusi fondi europei, concessi a dismisura: va bene che tutti nel mondo amano Venezia, inclusi commissari europei e finanziatori pubblici, ma quanto emerge in queste ore mostra che la leggerezza nel concedere fondi non aleggia solo nelle stanze dei palazzi italiani.
Oltre all’avviso di garanzia all’ex ministro per le infrastrutture Altero Matteoli (e agli arresti che il 4 giugno hanno portato al fermo del sindaco di Venezia Giorgio Orsoni e dell’assessore veneto alle Infrastrutture Renato Chisso, oltre alla richiesta a procedere nei confronti dell’ex ministro Giancarlo Galan, ndr) ritorna sotto le luci della ribalta dei pm il Consorzio Venezia Nuova, un perno del cosiddetto “sistema Veneto” che ha dominato la cementificazione del Nord-Est negli ultimi anni. Fatture gonfiate ad arte per componenti del Mose acquisiti dalla Croazia e fondi neri ricreati nella civilissima Austria, che però protegge ancora con signorilità il segreto bancario.
Uno scandalo mittel-europeo quindi, che ha goduto anche di finanziamenti pubblici ingenti della Banca europea per gli investimenti (Bei), l’istituto di credito dell’Ue (leggi "La banca di parte", l'approfondimento di Altreconomia). Il Mose è stato finanziato con un totale di un miliardo e mezzo di euro dall’Europa in più tranche. La prima di 400 milioni è stata sborsata al Consorzio Venezia Nuova – incaricato di costruire l’opera – nell’aprile 2011; altri 500 milioni sono stati sbloccati nel febbraio 2013.
A questo punto si spera che i rimanenti 600 milioni di euro non arrivino con le indagini ancora in corso. Ma c’è poco da meravigliarsi anche con i burocrati di Bruxelles, che sulla corruzione predicano bene e razzolano male. Questo il caso del “vicino” scandalo del Passante di Mestre (leggi su Altreconomia "Il passante fa l'autostop") anch’esso finanziato dalla Bei con 350 milioni di euro sborsati in un’unica trance nel 2013. La banca europea ha deciso di erogare il finanziamento pubblico a favore della società CAV (50% Anas e 50% Regione Veneto) ad aprile, dopo che la richiesta era rimasta nei cassetti dei banchieri di Bruxelles dal lontano 2011. Per farlo sono passati attraverso l’intermediazione di Cassa depositi e prestiti, ad indagini già aperte e pubbliche da parte della procura di Venezia, nonché dopo un monito della Corte dei Conti sul rischio di infiltrazioni mafiose già del marzo 2011.
Alcune delle società che hanno costruito il Passante, tra cui la Mantovani spA, sono finite nel mirino dei magistrati veneziani. Il suo amministratore delegato, Piergiorgio Baita, ha patteggiato la pena lo scorso dicembre, mentre secondo Il Gazzettino la società avrebbe versato all’Agenzia delle Entrate “circa 6 milioni di euro per “sanare” la maxi evasione fiscale realizzata attraverso l’emissione di fatture false”.
A questo punto anche l’Europa dovrebbe avere capito che non si scherza a finanziare con leggerezza grandi infrastrutture di questa portata. E invece no: uno dei primi schemi di “project bond” europei per l’Italia è in via di definizione e sarà messo in piedi nelle prossime settimane proprio per il rifinanziamento del debito di CAV. Una mossa da 700 milioni di euro, con cui questo debito, frutto di un aumento esponenziale dei costi in corso d’opera segnalato dalla stessa Corte dei Conti –proprio la Mantovani era la principale azienda coinvolta nella costruzione del Passante - dovrebbe essere rivenduto a ignari risparmiatori attraverso fondi pensione e fondi di investimento, principali acquirenti (sperati) dei bond.
In tutto questo l’organo anti-corruzione europeo –noto con l’acronimo OLAF e per altro guidato da un italiano – lo scorso marzo ha rigettato la richiesta di aprire un’indagine sulle responsabilità europee nell’affaire Passante di Mestre a fronte di un esposto di varie organizzazioni della società civile. Insomma possiamo scegliere se far affondare Venezia o affogare noi nella corruzione finanziata con i soldi pubblici europei.
L'iniziativa "sblocca Italia", coronamento della politica renzusconiana del territorio, è un successo del gruppo di potere "Nimby forum". Il manifesto, 4 giugno 2014
Per un primo ministro sarebbe stato più corretto sotto il profilo istituzionale aprire un confronto con tutte le istituzioni che hanno competenze sul territorio e non solo con i comuni. In questo modo — e per di più in un momento di grave crisi economica — si addita all’opinione pubblica il capro espiatorio: le soprintendenze ai beni ambientali e archeologici, ree di applicare la Costituzione, e la magistratura amministrativa. Si rischia così di disarticolare ulteriormente la struttura dello stato messa a dura prova da vent’anni di tagli e umiliazioni. Nessuna novità. Quando era sindaco, Renzi aveva tuonato contro il soprintendente che si era opposto all’affitto di Ponte Vecchio per una festa della Ferrari: un bene straordinario, patrimonio di tutta la popolazione italiana, utilizzato a fini privati. La festa si era svolta nonostante il parere contrario del soprintendente.
Ma vediamo nel merito le opere che dovrebbero sbloccare l’Italia. Da dieci anni esiste una potentissima lobby che piange quotidianamente sulle sventure dell’Italia bloccata dai veti e ha fatto della guerra al Nimby il proprio motivo di vita. Corriere della Sera, Repubblica e il Sole24ore hanno colto al volo le dichiarazioni di Renzi ed hanno subito rilanciato le statistiche del "Nimby forum". Afferma l’ultimo rapporto che delle 354 opere ferme (in media una ogni 27 comuni, una cifra ridicola) il 63% riguardano contestazioni sul comparto elettrico (centrali di produzione, impianti a biomasse e parchi eolici); il 28% il settore dei rifiuti e solo il 7,6% il settore delle infrastrutture.
Il "Nimby Forum" è sostenuto dai colossi Enel, Edison e Terna che hanno interessi giganteschi nello sbloccare le opere, e da altri attori come il Consorzio Venezia Nuova (quello del Mose) che di recente ha dato elevatissima prova di rispetto della legalità finendo in massa in galera. Questa lobby ha in mente dunque di riempire l’Italia di impianti a biomasse e termovalorizzatori. Mentre l’Europa privilegia la formazione dei giovani e finanzia nuovi lavori basati su tecnologie avanzate, nella riqualificazione e messa in sicurezza dell’ambiente e delle città, noi marciamo spediti con la testa rivolta al passato. Da venti anni saccheggiamo il territorio e l’ambiente ed è lo stesso "Nimby Forum" ad ammetterlo affermando che «i numerosi no alle rinnovabili colpiscono… anche e soprattutto i piccoli impianti i quali si sono moltiplicati anche in virtù del percorso autorizzativo semplificato» e la soluzione proposta è quella di allentare ulteriormente la legalità. Anche qui nessuna meraviglia: l’ultimo rapporto "Nimby Forum" 2012 era stato presentato anche da Corrado Clini che di legalità si intendeva magistralmente, almeno stando alle accuse che lo hanno colpito.
Matteo Renzi con il suo provvedimento tenta di completare lo scellerato disegno del ventennio liberista: non attacca più (per ora almeno) la Magistratura — anche perché tra prescrizioni brevi e cancellazione del reato di falso in bilancio ha ben pochi strumenti per perseguire il malaffare — ma un altro fondamentale potere dello stato, quello delle soprintendenze cancellandone ogni ruolo in totale spregio della Costituzione.
"Rigenerare". Una delle tante parole alla moda che può assumere significati diversi, anche antitetici. E' utile cominciare a guardare che cosa può esserci dietro. La Repubblica, 27 maggio 2014
La parola chiave è rigenerazione. E il luogo dal quale si srotola il racconto di una nuova frontiera per architettura e urbanistica - non occupare altro suolo libero, intervenire sul già costruito restituendo vita a pezzi di città non solo dal punto di vista fisico, ma sociale - è Corviale. Simbolo per molti di sconcerto e quasi di orrore metropolitano, per altrettanti, invece, manufatto fra i pochi significativi del secondo Novecento, il grande edificio lungo un chilometro della periferia ovest di Roma, concepito a metà anni Settanta e che ora ospita 4.500 persone (ne erano previste 8 mila), sta per conoscere una nuova esistenza.
E se si rigenera Corviale vuol dire che la sfida è alta e rischiosa e rimbalza nelle periferie di altre città, dove, secondo le stime, almeno i nove decimi del costruito sono successivi al dopoguerra. Un costruito affetto da malattie profonde.
Renzo Piano ha invitato al “rammendo”, una metafora che rimanda alla riparazione e non all’aggiunta di nuovo tessuto. E in questo programma ha coinvolto giovani professionisti. Alla imminente Biennale architettura (dove viene esposto il progetto Corviale), il titolo del padiglione italiano curato da Cino Zucchi è “Innesti”, cent’anni di edifici realizzati in ambienti già storici (ma qui si sconfina in un campo assai controverso, quello del moderno nell’antico). A Scampìa, periferia napoletana, Vittorio Gregotti costruisce da anni, stop and go permettendo, una sede della facoltà di medicina dove un tempo svettava una delle Vele poi demolita, altra architettura con lo sbrigativo bollino di infamia. A Roma l’assessore Giovanni Caudo – assessore alla Rigenerazione urbana – ha impostato un piano per realizzare, in un’area di caserme dismesse di fronte al Maxxi, un museo della scienza, abitazioni a canone concordato e spazi pubblici, lasciando una parte all’edilizia privata.
Rigenerare è connesso con l’abbandono dell’idea di un’espansione illimitata. La legge urbanistica toscana, promossa dall’assessore Anna Marson, prevede che le aree urbanizzate vengano perimetrate e che si costruisca solo al loro interno, lasciando integro il territorio libero. Un’invalicabile linea rossa intorno ai centri urbani è stata immaginata dall’urbanista Vezio De Lucia nel Piano della provincia di Caserta, la Gomorra massacrata da un’edilizia selvaggia.
Gli esempi italiani potrebbero continuare. Molte università sono impegnate nella ricerca. Si guarda all’Olanda, alla Germania, alla Svezia. Ma intanto Gregotti, che di questi temi ha scritto in Architettura e postmetropoli (Einaudi), mette sull’avviso: «Rigenerare significa ricreare un tessuto urbano, non pensare a un oggetto isolato.
Occorre legare l’intervento all’ambiente che lo contiene, creare una mescolanza fra abitazioni, servizi e altre funzioni che soddisfino i bisogni di quel contesto». Architettura e urbanistica insieme. Un cambio di paradigma: non più oggetti che splendano in solitudine, ma ricuciture nelle slabbrature di una città cresciuta senza regole, che ha invaso terreni agricoli, diradandosi e sprecando suoli pregiati. Esiste però buona rigenerazione e cattiva rigenerazione, non basta dire “stop al consumo di suolo”: è l’avvertenza di Edoardo Salzano, urbanista, animatore del sito eddyburg. it. «Una cosa è proporsi di migliorare le condizioni fisiche di parti della città e la vita delle persone», spiega Salzano, «altro è preoccuparsi di moltiplicare il volume d’affari e i valori immobiliari. La prima strada è rigenerazione, la seconda no». Rigenerazione non solo dell’involucro fisico, ma della qualità del vivere.
I progetti di Corviale li illustra Daniel Modigliani, architetto, commissario dell’Ater, l’azienda regionale per l’edilizia pubblica proprietaria dell’edificio: «Il primo problema è densificare Corviale. Molto spazio è sprecato. E anche le abitazioni sono troppo grandi per famiglie ridotte a una coppia o anche solo a una persona. Al quarto piano, che l’architetto Mario Fiorentino aveva destinato ai servizi e alle aree collettive, poi occupato da abusivi e ora degradato, Guendalina Salimei ha previsto un centinaio di alloggi». Per Massimiliano Fuksas, Corviale andrebbe abbattuto. Per altri, spezzettato in una trentina di convenzionali palazzine. «Lo decideremo con il concorso», replica Modigliani. «Io insisto per conservarne l’unitarietà. Abbiamo un progetto per aprire il pian terreno e installarvi servizi e altre attività e per consentire il passaggio dalla strada agli orti che sono alle spalle dell’edificio, così da alimentare le relazioni con il quartiere. Sul tetto sono previsti verde e impianti per la raccolta dell’acqua e il risparmio energetico ». A Corviale il verde è tanto e anche i servizi, compresa una delle migliori biblioteche comunali. Al progetto si è arrivati dopo consultazioni fra le istituzioni, il ministero per i Beni culturali, l’università e, soprattutto, i comitati di cittadini. La nuova frontiera della rigenerazione in realtà viene rincorsa da una trentina d’anni. Da quando, in Europa e in Italia, si rendono disponibili aree in zone periferiche o semicentrali occupate da industrie e altri impianti.
Resta esemplare la storia delle caserme francesi di Tubinga, in Germania: 64 ettari, liberati dai militari dopo la riunificazione, hanno accolto case ad affitto convenzionato per 6 mila abitanti, costruite da cooperative degli stessi futuri residenti, aziende per 2 mila occupati, verde, scuole, servizi comunitari come il car sharing, biciclette a disposizione di tutti. E se si allarga lo sguardo ecco le esperienze, ormai storiche, dell’America Latina, da Curitiba (Brasile) del sindaco-urbanista Jaime Lerner a Medellín in Colombia. Qui, nella capitale del narcotraffico, si è avviata una rigenerazione che – racconta Mario Tancredi, architetto italiano che insegna in Colombia – «ha fronteggiato la segregazione sociale con una rete di trasporto pubblico e una linea di cabinovie che a ogni stazione realizzava uno spazio di convivenza e che si arrampicava su un’altura raggiungendo alcune biblioteche, cinque progettate nel giro di poco tempo, e poi un parco urbano. Tutto questo accompagnato da piazze, strade, scuole, fognature e dalla ristrutturazione di tante abitazioni sorte in maniera incontrollata e in luoghi pericolosi. Gli effetti? Omicidi crollati di decine di punti percentuali e crescita del commercio del 300 per cento».
Se invece di progetti a questa scala si punta a incrementare la rendita – insiste Salzano – la rigenerazione non c’è più: centri commerciali, residenze a prezzi di mercato, speculazione. Occasioni sprecate. Come a Vicenza, dove a poche centinaia di metri dalla Rotonda di Andrea Palladio, nella zona di Borgo Berga, al posto dello storico stabilimento Cotorossi sta sorgendo un quartiere di forme spropositate, realizzato da una società che fa capo a Enrico Maltauro, in carcere per le tangenti Expo 2015, che grava sui due fiumi, il Retrone e il Bacchiglione, esondati due anni fa. «Per queste iniziative è indispensabile la regìa pubblica, senza sottomissioni al volere dei privati», spiega Salzano. «La città non è fatta solo di abitazioni, ma di spazi per stare insieme. La prima cosa che si insegnava a chi studiava urbanistica era di calcolare i fabbisogni. Adesso si calcola la valorizzazione delle aree».
No della a commissione VIA al previsto nuovo canale per le Grandi navi rischierebbe di innescare processi erosivi in Laguna grazie al dragaggio di oltre 8 milioni di metri cubi di fanghi. Molti dubbi anche sul canale Vittorio Emanuele II proposto dal sindaco. La Nuova Venezia, 10 maggio, 2014 (m.p.r.)
Il progetto del nuovo canale Contorta "bocciato" dalla commissione Via del ministero per l'Ambiente. Un parere che non lascia spazio a interpretazioni, di segno nettamente negativo sulla proposta presentata dall'Autorità portuale. Per i «significativi impatti ambientali sull'intero ecosistema lagunare», ma anche per i «tempi troppo lunghi di realizzazione, almeno quattro anni». Una bocciatura che riapre gli scenari e alimenta le polemiche. E si tinge di giallo. Perché il documento, approvato all'unanimità dalla commissione tecnica per l'impatto ambientale Via e Vas, porta la data del 27 settembre scorso e non è mai stato reso pubblico. «Un silenzio inspiegabile», accusa il senatore veneziano del Pd Fenice Casson. Che ieri ha inviato una interrogazione urgente al presidente del Consiglio Matteo Renzi e ai ministri dell'Ambiente, delle Infrastrutture e dei beni culturali. Casson chiede «se il governo non ritenga di garantire la massima trasparenza e la massima pubblicità, anche al fine di evitare che sulle questioni connesse ai suindicati lavori pubblici possano verificarsi interventi iIleciti o peggio ancora criminali, come peraltro per recenti vicende concernenti lavori pubblici nella laguna di Venezia è già successo».
Parole che fanno sobbalzare Paolo Costa, ex sindaco e presidente dell'Autorità portuale. «Ma di che parla? Mi domando quale trasparenza sia stata garantita dal ministero dell'Ambiente, che ha esaminato un progetto a insaputa del proponente. Noi non abbiamo presentato niente». Eppure nella prima pagina del parere allegato all'interrogazione (il numero 1346 del 27 settembre 2013) si parla del progetto proposto dall'Autorità portuale per individuare «vie di navigazioni alternative a quelle vietate dal decreto Clini Passera». Il progetto preliminare depositato all'Ambiente riguarda «l'adeguamento della via acquea di accesso alla Stazione marittima e la riqualificazione delle aree limitrofe al canale Contorta-San'Angelo».
La commissione, presieduta dall'ingegnere Guido Monteforte Specchi e composta da 22 architetti, ingegneri ed esperti di varie materie, ha espresso dunque parere contrario sullo scavo del nuovo canale, 5 chilometri di via d'acqua che dovrebbero essere portati da un metro e mezzo a dieci metri e mezzo di profondità. La commissione richiama il rischio di innescare processi erosivi per il dragaggio di oltre 8 milioni di metri cubi di fanghi. Ma la commissione esprime molti dubbi anche sul canale Vittorio Emanuele II proposto dal sindaco per far arrivare le navi in Marittima. Per la commistione di traffico con le navi merci - anche se il sabato e la domenica gli arrivi sarebbero quasi nulli - e per la difficoltà di far compiere la "curva" alle grandi navi. Accoglie le osservazioni della Capitaneria, che ha scartato il Vittorio Emanuele e propone di lasciare tutto come sta e nel frattempo di studiare la possibilità di far passare le navi dietro la Giudecca. Scenario sempre più confuso, in attesa del vertice tecnico convocato per lunedì a Palazzo Chigi dal premier Renzi. Riunione in cui si dovrà scegliere la soluzione migliore tra quelle depositate. Intanto spunta il parere contrario della commissione Via alle proposte di utilizzare nuovi canali in laguna.
Un appello sottoscritto anche da eddyburg perchè la ricostruzione poster remoto in Emilia, rispetti i centri storici e si adegui al principio del "com'era, dov'era", così come è successo dopo la guerra e dopo il terremoto del Friuli. Corriere on-line, 2 maggio 2014 (m.p.g.)
Ad un anno dallo straordinario 5 maggio 2013 all'Aquila, domenica la comunità del patrimonio culturale tornerà a riunirsi: questa a volta a Mirandola, nel cratere del terremoto che due anni fa sconvolsel'Emilia. Perché proprio lì? Perché è urgente ripetere proprio lì il messaggio che scaturì dalla giornata aquilana: e cioè che il vero valore in gioco non è il restauro di alcuni oggetti, ma la sopravvivenza del rapporto tra la comunità e i suoi monumenti. Gli storici dell'arte non studiano solo delle 'cose', ma il rapporto tra l'uomo e queste cose, nel tempo. In Italia non sarà forse mai possibile evitare che i terremoti uccidano e distruggano i monumenti:ma invece possiamo far sì che essi non cancellino il legame vitale tra una comunità e il suo territorio: fatto di paesaggio e patrimonio artistico.
E se in Emilia è stata veloce ed efficiente la ricostruzione dei capannoni e delle case, la gran parte dei duemila edifici storici colpiti dal terremoto sta ancora aspettando di essere restaurata. Un'ondata di demolizioni affrettate e poi un precoce oblìo rischiano di far passare l'idea che in fondo si vive bene anche senza quei punti di riferimenti identitari e culturali che sono i luoghi storici monumentali: campanili, chiese, palazzi.Dopo due anni, siamo alla vigilia dell'approvazione dei primi progetti per il restauro di questi monumenti, e c'è la fondata preoccupazione che venga messo in pratica lo slogan che dominava il Salone del Restauro di Ferrara dell'anno scorso, che era Dov'era, ma NON com'era. Secondo una discutibile e macabra retorica, il terremoto avrebbe datoun' 'occasione' per svecchiare il tessuto dei centri storici emiliani: e dunque via libera alle speculazioni, alle modifiche, gli abbattimenti, alla pittoresca 'ruderizzazione' dei monumenti. Si fosse fatta questa scelta dopo la Seconda Guerra Mondiale, oggi non avremmo il Ponte a Santa Trinita a Firenze, il Tempio Malatestiano a Rimini,l'Archiginnasio a Bologna e moltissimo altro.
Invece, ed è una gran buona notizia, esiste un popolo che andrà a Mirandola a dire che i cittadini rivogliono tornare a vedere i connotati storici della loro terra. Perché senza quel contesto, il testo della nostra vita individuale e sociale ha meno senso. E non è una pretesa intellettualistica di un élite, come dimostra bene una storia di Mirandola.Uno degli episodi più luminosi del post-sisma è stata la creazione, all'interno del Palazzo Ducale di Sassuolo, di un Centro di raccolta e cantiere di primo intervento sulle opere mobili danneggiate: un centro organizzato in modo esemplare, coordinato da Stefano Casciu, soprintendente di Modena . Perché le soprintendenze - proprio quelle spesso vilipese, e che l'attuale governo ha appena annunciato di voler accorpare - quando sono messe in grado di farlo, funzionano molto bene.
Ma accanto al lavoro delle soprintendenze, c'è stata anche una mobilitazione dal basso: di quei cittadini che hanno a cuore il loro patrimonio. A Mirandola una delle chiese più colpite è stata quella del Gesù, ancora non messa in sicurezza (e la cosa sta diventando scandalosa) e dunque ancora colma di macerie e di opere e arredi sacri più o meno distrutti, certo costantemente in pericolo. Qui il 30 luglio del 2012 i Vigili del fuoco hanno coraggiosamente recuperato tre monumentali cornici lignee barocche (veri e rarissimi capolavori nel loro genere): ed esse sono state immediatamente 'adottate' dall'associazione la Nostra Mirandola, che dal 2001 teneva aperta la chiesa, prendendosene cura. L'indomita e generosa presidente dell'associazione, la signora Nicoletta Vecchi Arbizzi, ha trovato loro un provvisorio, ma sicurissimo e gratuito, domicilio nel capannone di un generoso concittadino industriale: e se ne è presa cura, non senza suscitare qualche comprensibile gelosia negli organi di tutela.
Un capannone che ospita tre opere barocche: ecco un simbolo potente. Che significa che non c'è alcuna opposizione tra l'Emilia operosa e imprenditoriale e l'Emilia dei monumenti da salvare: sono due facce essenziali della stessa comunità. Il miglior modo per spiegare che salvare il patrimonio culturale vuol dire salvare il futuro, non ilpassato. Ecco, dopodomani in tanti saremo a Mirandola per dire che la signora Nicoletta e la sua associazione non sono soli: siamo in tanti a chiedere che quella essenziale faccia dell'Emilia, cioè dell'Italia, rinasca in fretta. E rinasca com'era e dov'era, per consentirci di continuare a crescere insieme.Per il programma, le informazioni logistiche e i materiali sulla manifestazione di domenica, il sito dedicato: http://mirandola4maggio.wordpress.com/
Gli eventi sportivi internazionali sono, abbastanza prevedibilmente, anche un'occasione per scoprire luoghi e società: ma quanti stereotipi culturali in certa informazione! La Gazzetta dello Sport, 26 aprile 2014 (f.b.)
La spettacolare vista dai piedi del Cristo Redentore che sovrasta il monte Corcovado, le rinomate spiagge di Copacabana e Ipanema, l'incantevole Pão de Açucar e il mitico stadio Maracanã. Alzi la mano chi non ha mai sentito parlare almeno una volta di questi gioielli che identificano Rio de Janeiro, unanimemente considerata "la cartolina" del Brasile. Se poi si aggiunge anche il fascino dei Mondiali, con la finale nel leggendario tempio del jogo bonito , è facile immaginare come una visita alla "Cidade Maravilhosa" tra giugno e luglio si rivelerà indimenticabile.
Impossibile elencare tutte le meraviglie che fanno di Rio la principale meta turistica dell'intero emisfero sud. Sbirciando dall'oblò dell'aereo in fase di atterraggio, colpisce subito la visione di una metropoli da oltre 6 milioni di abitanti, incastonata tra colline e promontori che affacciano sulla spettacolare baia di Guanabara, puntellata da oltre un centinaio di isolette. Per non parlare dei tanti quartieri caratteristici, dal fascino bohémien di Santa Teresa al brulicare notturno di Lapa, dove si respira il vero folklore carioca nei caratteristici "botecos" che offrono "cerveja" gelata al ritmo di samba. Ma Rio è soprattutto luogo di scioccanti contrasti, dove i quartieri più esclusivi come Leblon e Barra da Tijuca, sorgono accanto a sterminate favelas, in cui regnano miseria, violenza e degrado. La diseguaglianza sociale resta il tratto distintivo di una città in cui ricchezza e povertà camminano a braccetto. Il governo ha avviato una massiccia operazione di bonifica in decine di favelas attraverso il presidio costante della polizia, ma è sconsigliato addentrarvisi...
Se ne accorgeranno anche quelli che penseranno solo alla vita notturna della sfavillante zona sud, o le spiagge (anche d'inverno, con temperature di 25°) popolate da chioschi, in cui gustare gamberi alla piastra e acqua di cocco, e da campi di futvolley. Ai turisti più fortunati, poi, potrà anche capitare di cimentarsi in una partitella con qualche idolo del passato. Romario e l'ex romanista Renato Portaluppi, ad esempio, sono tra i frequentatori dei campetti sulla spiaggia di Ipanema.
Tempio rinnovato Ma la meta principale dovrà essere il leggendario Maracanã, teatro di sette sfide mondiali tra il 16 giugno e il 13 luglio, giorno della finale. Il tempio del calco brasiliano, casa di leggende come Zico e Garrincha, ha cambiato volto dopo gli oltre 400 milioni di euro spesi per adeguarlo ai rigorosi parametri Fifa, che impediranno di battere il record registrato nella gara decisiva del mondiale 1950 con 200 mila persone ad assistere alla disfatta verdeoro contro l'Uruguay. Il mitico impianto, che gli Azzurri hanno vissuto durante la Confederations 2013, entrerà nella storia con l'Azteca di Città del Messico: gli unici stadi teatro di due atti conclusivi dei Mondiali.
È primavera, e la natura si risveglia. Mentre l’agricoltura si dedica alla semina di stagione, alcuni cittadini prendono consapevolezza che l’ambiente è importante per la qualità della nostra vita. Altri cittadini e imprese, invece, non ritengono fondamentale mantenere un equilibrio nell’utilizzo delle risorse che la natura ci offre. Per questo torna la proposta di autorizzare l’utilizzo di sementi geneticamente modificate (Ogm). Sostengono che queste sementi produrranno di più, saranno più resistenti a malattie e parassiti, qualcuno addirittura che saranno meno dannose per l’alimentazione umana. False motivazioni scientifiche, per coprire il vero scopo di tutto questo: il profitto, o il facile guadagno. Ma noi, cittadini e agricoltori, non solo i biologici, possiamo “fare” di fronte all’autorizzazione alle semine Ogm in Europa e Italia. Per cominciare, firmando la petizione promossa da Greenpeace, Avaaz eFriends of the Earth per chiedere una moratoria (per info: www.liberidaogm.org o www.greenpeace.org/italy). Oppure acquistando solo prodotti biologici che non utilizzano queste sementi geneticamente modificate; ma anche prendendo ad esempio e aiutando tante piccole realtà che lavorano per sottrarre territorio agricolo a un “futuro Ogm”.
A Genova, in Val di Vesima, un gruppo di giovanissimi contadini ha occupato la valle e aperto con il proprietario, un barone, un confronto per il definitivo insediamento, coltivando ortaggi, tenendo animali al pascolo, trasformando le farine in pane, creando un mercatino e collaborando con l’emporio etico Met di Sestri Ponente per distribuire le cassette di ortaggi biologici ai genovesi. A Matera, Vito Castoro e un’associazione che raccoglie varie realtà locali coltivano diversi ettari, gestiscono una filiera del pane e portano in vari mercatini la loro esperienza -dimostrazione che al Sud non solo si coltiva bio, ma si consuma bio, perché solo la relazione diretta fra le due cose spiega il vero ruolo culturale e imprenditoriale di quest’esperienza.
A Massenzatica (Fe), e a Nonantola (Mo) esistono due “partecipanze”, ovvero imprese comunitarie con diversi profili giuridici, formate da contadini che hanno a disposizione terreni da coltivare che richiedono un supporto progettuale. A Nonantola dispongono di circa 800 ettari, in parte coltivati e in parte a bosco, con la possibilità di creare spazi sociali e didattici. Senza supporti pubblici, la partecipazione della cittadinanza a queste iniziative è indispensabile per dare sostenibilità economica e dignità gestionale ai progetti, e permette di sottrarre ulteriore spazio alle pratiche di agricoltura industriale con Ogm, alla cementificazione e all’urbanizzazione. In Piemonte, a Pezzolo Valle Uzzone (Cn), grazie anche alla collaborazione con Iris, i contadini hanno trasformato il territorio, passando in 7 anni da un’agricoltura convenzionale, ormai “finita”, a quella biologica certificata e di qualità. Hanno recuperato antiche coltivazioni, ristrutturato il mulino e il centro di stoccaggio ormai in disuso, creato un mercato basato sulle relazioni e non sulle borse e i prezzi, che sa riconoscere il valore del lavoro e del prodotto. E presto trasformeranno i cereali. Abbiamo così creato 5 posti di lavoro, riuscendo a far tornare la comunità protagonista del proprio territorio.
«Il problema dei problemi però, non è stato ancora risolto. L’azienda infatti, non possiede le risorse per attuare gli investimenti previsti dal piano ambientale ed è in cerca di eventuali finanziatori (da individuarsi anche nello Stato, attraverso un intervento della Cassa Depositi e Prestiti)». Il manifesto 17 aprile 2014 (m.p.r.)
Il sub commissario dell’Ilva, Edo Ronchi, ha invece evidenziato come l’intervento della Commissione sia a suo dire addebitabile unicamente alla mancata approvazione del piano ambientale, all’interno del quale sono previsti tutti gli interventi da effettuare sugli impianti dell’area a caldo del siderurgico. Il piano ambientale, secondo la legge approvata lo scorso 4 agosto, rimodulava e posticipava infatti la tempistica prevista per la scadenza degli interventi. In realtà il piano è stato approvato ai primi di marzo dal Consiglio dei ministri ed è tutt’ora al vaglio della Corte dei Conti. Il problema dei problemi però, non è stato ancora risolto. L’azienda infatti, non possiede le risorse per attuare gli investimenti previsti dal piano ambientale ed è in cerca di eventuali finanziatori (da individuarsi anche nello Stato, attraverso un intervento della Cassa Depositi e Prestiti).