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Che cosa c'è dietro lo scontro tra rabbia e repressione a Ferguson City; e, per chi sa leggere la città d'oggi, anche altrove. Millennio urbano, 20 agosto 2014

Dal sito Millennio urbano riprendiamo questo articolo (pubblicato originariamente da CBS News, 19 agosto 2014, col titolo: Hit by poverty, Ferguson reflects the new suburbs) scelto tradotto e commentato in calce da Fabrizio Bottini.

Il violento confronto fra polizia e cittadini a Ferguson, Missouri, evidenzia lo sconvolgimento demografico che interessa le fasce suburbane, dove oggi abita la maggioranza della popolazione povera del paese. Nelle 100 principali aree statistiche metropolitane si è assistito a un drastico impennarsi dei poveri nel suburbio, secondo le ricerche della Brookings Institution. La quantità di zone dove oltre il 20% degli abitanti vive al di sotto della soglia di povertà federale è più che raddoppiata dopo il 2000. Non solo cresce, questa povertà, ma si concentra in aree specifiche. Nel 2012, il 38% dei poveri suburbani stava in quartieri con oltre il 20% di povertà, secondo i calcoli della Brookings. Per quanto riguarda i poveri neri, è il 53% ad abitare zone con tassi di povertà oltre il 20%.

“All’inizio degli anni 2000 le cinque circoscrizioni censuarie in cui si articola la zona di Ferguson registravano tassi di povertà oscillanti fra il 4% e il 16%” commenta l’analista della Brookings Elizabeth Kneebone in un post recente. “Ma nel periodo 2008-2012 quasi tutta Ferguson supera la quota del 20% e iniziano ad emergere gli effetti negativi della povertà concentrata”. Effetti che comprendono scarse possibilità di trovarsi un lavoro o di avere assistenza sanitaria, scuole di bassissimo livello, elevati tassi di criminalità. “Rileviamo come i quartieri suburbani poveri siano più propensi al tracollo sociale di quanto non avvenga in equivalenti contesti urbani, specie per quanto riguarda la possibilità di migliorare” scriveva l’anno scorso in una relazione Alexandra Murphy del National Poverty Center all’Università del Michigan.

Ferguson è emblematica di questo impatto della povertà sul suburbio americano. Il tasso di disoccupazione è più che raddoppiato, da meno del 5% nel 2000 a più del 13% nel 2010-12. Secondo l’ufficio censimento nel 2012 un abitante su quattro era al di sotto della soglia di povertà federale (ovvero viveva con meno di 23.492 dollari in una famiglia di quattro persone), e il 44% era ben due volte sotto quella soglia. Il reddito pro capite di Ferguson di 21.000 dollari la colloca all’ottantottesimo posto fra le 140 circoscrizioni cittadine del Missouri, secondo i calcoli del sito BiggestUSCities.com, mentre il reddito medio familiare con 36.645 dollari è al centotreesimo.

“Per chi abita a Ferguson e ha un lavoro, il reddito reale è stato falcidiato di un terzo dall’inflazione” aggiunge Kneebone della Brookings. “Il numero delle famiglie che usano i buoni casa federali è salito più o meno da 300 nel 2000 a oltre 800 alla fine del decennio”. Oltre alla crescita della povertà, si aggiunge un cambio nella composizione razziale di parecchi suburbi Usa. Un cambio che non trova corrispettivo nelle classi dirigenti locali. Gli scontri di Ferguson avvengono dopo l’uccisione di Michael Brown, nero disarmato a cui ha sparato un poliziotto. E sia l’amministrazione cittadina che la polizia qui sono in stragrande maggioranza bianche, con una popolazione afroamericana al 67%.

Secondo una ricerca dell’American Communities Project alla American University, “Nel 2000 i suburbi erano al 67% bianchi e non ispanici, al 12% afroamericani, al 13% ispanici. Nel 2012, la popolazione bianca non ispanica era scesa al 59%, l’afroamericana cresciuta al 13% e la ispanica circa il 18%”. A livello nazionale i poveri mostrano bassi livelli di partecipazione al voto, e ciò si conferma a Ferguson. Gli abitanti sono 15.000 maggiorenni, ma per le ultime votazioni al sindaco lo scorso aprile si sono espressi solo in 1.350, confermando senza alcuna opposizione James Knowles III. Alle elezioni consiliari del 2013 i voti sono stati 1.500. Nel 2011 un consigliere si è insediato per un totale di 72 consensi.

Commento
Vedi anche Michela Barzi Nuove povertà suburbane, Millennio Urbano 22 dicembre 2013; e del resto il tema della povertà suburbana, sempre ufficialmente messo in secondo piano, è all’ordine del giorno da quasi un decennio come si deduce anche da questi primi studi della Brookings Institution datati 2006, Cfr. I sobborghi sempre più vecchi e poveri, Mall 20 agosto 2006

In una intervista al neo nominato Provveditore agli Studi milanese si aprono nuove prospettive per i quartieri, chiarendo forse il senso del "rammendo" evocato da Renzo Piano, che in sé non ha nulla a che vedere coi metri cubi. La Repubblica Milano, 23 giugno 2014, postilla

In passato ha insegnato educazione fisica e ha fatto l’allenatore di basket. Adesso Marco Bussetti è il nuovo provveditore di Milano. Tanti i problemi che dovrà affrontare nei prossimi mesi, dal tempo pieno agli organici. Ma uno dei suoi pallini è lo sport: «Un grande strumento educativo spesso maltrattato». Il suo modello è la Francia, con le palestre patrimonio di tutti e le associazioni sportive scolastiche. La sua scuola ideale è aperta alla città e qui Milano è capofila del progetto nazionale. «Un’ottima idea, devono rimanere aperte ai quartieri non solo durante l’anno ma anche in estate». La sua nomina è arrivata durante gli scritti della maturità: è Marco Bussetti il nuovo provveditore di Milano. Cinquantadue anni, una laurea in scienze motorie, un passato da insegnante di educazione fisica e da allenatore di basket. È già stato provveditore a Monza e ha lavorato per sei anni all’ufficio scolastico regionale prima del nuovo incarico che gli è stato affidato dal direttore generale, Francesco De Sanctis.

Bussetti, durante la sua carriera da insegnante, ma anche in quella amministrativa, si è occupato a lungo di sport nelle scuole, argomento spesso trascurato o considerato di secondo ordine. Che cosa ne pensa?
«Lo sport è uno strumento educativo fondamentale in tutti gli ordini di scuola. Ma è vero: è una disciplina spesso messa nell’angolo. Eppure le famiglie la percepiscono come esigenza: i genitori apprezzano tantissimo quegli istituti che riescono a garantire attività sportive in maniera continuativa».

Ha un ruolo marginale soprattutto dove studiano i più piccoli: ci sono classi delle elementari che fanno ginnastica in classe.
«Parliamo fra l’altro dell’età dell’oro dal punto di vista motorio: è lì che i bambini dovrebbero sviluppare determinate abilità. Eppure non ci sono esperti a guidarli, perché sono le maestre di italiano o matematica a fare ginnastica. Ma l’attività fisica a scuola è maltrattata anche alle medie come alle superiori».

Che cosa farebbe lei?
«Bisognerebbe dare vita alle associazioni sportive scolastiche con più discipline che i bambini possono provare al di fuori dall’orario di scuola. Realtà complementari al mondo dello sport già esistente. È un modello che c’è già in Francia e in tanti Paesi d’Europa, con veri campionati di più discipline. Ho lavorato a lungo a questo progetto, ci punterò ancora nella mia nuova veste, non solo per le scuole milanesi. Le palestre delle scuole possono essere un patrimonio enorme per i nostri studenti».

A proposito di strutture: Milano è capofila di un progetto nazionale sulle scuole aperte che vorrebbe aule, palestre, biblioteche aperte alla città e ai quartieri. Palazzo Marino punta molto su questo. Che ne pensa?
«Un’ottima idea che appoggio e condivido pienamente. Le scuole potrebbero avere una nuova vita non solo durante l’anno, a lezioni finite. Ma sarebbero luoghi da aprire anche nei mesi estivi per tantissime attività. Una buon processo in cui è fondamentale coinvolgere il più possibile chi le governa ».

Quali sono i primi problemi che dovrà affrontare da provveditore?
«Prima di tutto devo prendere contatto con tutto il personale dell’Ufficio scolastico provinciale. Ora è il momento di ascoltare, di capire, di conoscere al meglio la realtà milanese. È già iniziata la discussione su organici e graduatorie, una delle priorità per questo ufficio. Solo dopo potrò prendere contatto con il territorio, con i dirigenti, con le singole scuole».

Qualche mese fa i sindacati sono tornati a lanciare l’allarme sulle elementari: insufficiente il numero di insegnanti inviati dal Ministero per garantire il tempo pieno, a fronte di una popolazione scolastica in crescita.
«Purtroppo non dipende da noi ma è un tema che dovremo affrontare. Io nel tempo pieno continuo a crederci molto come modello educativo. Mi rendo conto che ci sia una forte sofferenza su questo fronte».

Gli studenti alle prese con la maturità hanno finito ieri gli scritti e si preparano agli orali. Vuole dare un consiglio ai ragazzi?
«Il voto è sempre relativo. Mai giudicare le persone, o farsi mettere in crisi, da un voto».

postilla

E così fa un altro piccolo passo avanti quello che potrebbe rivelarsi il vero strumento cardine per il famoso “rammendo delle periferie” tanto frainteso da chi dovrebbe occuparsene, ma evidentemente lo fa soltanto con una idea parziale. I tanti sfottò che hanno accompagnato di recente l'ormai famosa frase di Renzo Piano, a volte anche grottescamente paventando improbabili colate di cemento (ormai nominare la colata di cemento pare diventato un modo per apparire più intelligenti e informati), forse non tenevano conto degli aspetti diciamo così immateriali del processo, ovvero quelli organizzativi e che operano su tempi e responsabilità, anziché sui soli spazi fisici. Significativo, anche, che il sostegno arrivi da un ambito come quello dello sport, vivacissimo e per propria natura giovanile e di massa: ottimo motore di sviluppo, per usare una metafora da altri campi di interesse. Il prossimo passo dovrebbe essere quello di chiarire il ruolo dei soggetti coinvolti, a partire da quelli istituzionali, perché la sola buona volontà di un singolo provveditore non basta, e occorre per esempio capire cosa possa fare l'istituenda Città Metropolitana. Ma aspettiamo con fiducia questi sviluppi, a ben vedere assai simili, forzando la mano, a quelli del successo del car-sharing, qui si tratta di neighborhood-sharing, e magari usare termini anglofoni aiuta a promuovere le iniziative presso un certo pubblico (f.b.)

Ancora una volta riemerge in un quartiere "modernista" italiano la divaricazione fra intenzioni e realtà, ma con un approccio propositivo non passatista. Il manifesto, 30 luglio 2013, con duplice postilla (f.b.)

CATANIA - A fine giugno a Librino, quartiere della periferia di Catania, «le fiamme alimentate dal vento hanno raggiunto perfino i piani alti delle abitazioni del viale Moncada 11, distrutto le grondaie, bruciati i condizionatori esterni e anneriti i cavi dell'energia elettrica» Le aree verdi di Librino «a causa della mancata manutenzione, oltre a essere causa di annidamento di ratti, insetti e parassiti, diventano ricettacolo di rifiuti che l'inciviltà diffusa continua ad alimentare». Queste alcune righe di una lettera inviata da Sara Fagone, della Cgil di Librino, e Francesco Torre del Comitato Librinoattivo, il 2 luglio scorso, alle autorità preposte al verde pubblico e, per conoscenza, al sindaco neoeletto Enzo Bianco. Librino, come molti sanno, è la new town etnea di cui si parla - quando si parla - solo come rappresentazione tra le massime di degrado e abbandono urbano.

Leggo questa breve lettera - che ha la sobrietà e la continenza verbale di chi denuncia da anni inascoltato - e i ricordi vanno a cinque anni fa. Arrivai a Catania per un reportage che pubblicai su Rassegna Sindacale, settimanale della Cgil. Ci aveva invitati la Fillea, il sindacato degli edili della confederazione: «Venite - mi avevano detto - c'è una bella storia da raccontare di partecipazione e coinvolgimento civico, c'è un comitato di cittadini attivi che ha con grande generosità redatto una piattaforma partecipata per ridare forza e speranza a Librino e farla uscire dal degrado». È passato un lustro da allora e l'impegno infaticabile della gente, non certo per demerito imputabile a questi cittadini, ha prodotto pochi risultati, con un'amministrazione di centrodestra - guidata da Umberto Scapagnini, il medico che non è più tra noi e che evocava l'immortalità di Berlusconi - sorda e presa da altro. Adesso è arrivato Enzo Bianco, il cui primo mandato da sindaco per molti catanesi resta ancora una specie di età dell'oro, una primavera etnea che in tanti sperano di poter, questa volta, far arrivare fino a Librino. Un primo, importante, passo c'è stato: l'istituzione di una delega specifica per Librino che è andata all'assessore Saro D'Agata, che a metà luglio ha incontrato gli abitanti del quartiere insieme alle decine di istituzioni e associazioni che operano sul territorio.

Il sogno di Tange

Ma cos'è Librino? Qual è la sua identità? Difficile dirlo. Lo stereotipo - che però come tutti gli stereotipi una parte di verità la possiede sempre - la vuole espressione plastica del degrado che le grandi aree urbane, specialmente meridionali, sono in grado di produrre ed espellere dal proprio corpaccione. Dunque: intere zone in mano agli spacciatori, aree abbandonate, forte abbandono scolastico, diffusi fenomeni di devianza, pochi servizi e trasporti insufficienti. E fuochi poco fatui che incendiano le sterpaglie, come abbiamo visto.

Con tutte le differenze, la storia di Librino è simile a quella di Corviale a Roma e delle Vele a Napoli. Non borgate cresciute per gemmazione selvaggia e immediatamente purulenta, ma sogni di architetti visionari e coraggiosi che presto, però, si sono trasformati in incubo. L'urbanista, anche se non è un filosofo o un matematico, troppo spesso traccia linee, scrive numeri e poi se ne va. Librino la sognò, più di quaranta anni fa, il grande Kenzo Tange, l'architetto razionalista giapponese allievo ideale di Gropius e Le Corbusier, cui l'amministrazione di Catania affidò nel 1970 il compito di progettare Librino: la città nuova e futuribile alla periferia sud-ovest di Catania, la città satellite da 70 mila abitanti in tutto autonoma e autosufficiente che doveva risolvere la pressione demografica della città etnea. Quarant'anni dopo il sogno Librino, l'orgoglio razionalista di pensare spazi urbani all'avanguardia e in cui l'estetica delle costruzioni fosse giustificata dalla loro funzionalità, sembra svanito. Oggi a Librino, a parte l'infrastrutturazione primaria, manca ancora tutto: servizi, negozi, centri di aggregazione, spazi culturali.

Eppure quando Tange arrivò qui rimase profondamente colpito dalla bellezza dei luoghi. Così scrisse nella sua relazione di presentazione del progetto: «Quando visitai il luogo per la prima volta ammirai quel bel terreno collinoso e decisi di fare qualcosa per utilizzare la topografia, in modo da fondere l'ambiente umano con quello naturale. L'idea che sviluppammo era una completa struttura collettiva, consistente in un asse verde centrale, dal quale si diparte una rete verde che organizza tutto il complesso».

Quel paesaggio così ammirato dal maestro giapponese lo ricorda ancora assai bene Francesco Guzzetta, 68 anni, memoria storica del quartiere, che si sbraccia dal cortile della masseria Buonaiuto da cui si domina una bella porzione della "città nuova": «Lavoravo con mio padre che stava a mezzadria. Queste zone si chiamavano "terre forti", per la gradazione decisa del vino che usciva da quelle uve. C'erano solo viti, mezzadri e case basse. Il lavoro era molto faticoso e si guadagnava poco. Così dal '69 sono andato a lavorare nelle ferrovie. Tutti questi palazzoni prima non c'erano, sono arrivati solo dopo gli espropri delle terre effettuati per realizzare la nuova Librino».

Tange disegnò la sua nuova città organizzandola in dieci quartieri (ciascuno con centri a scala di vicinato, servizi e polo di quartiere) collegati tra loro da sentieri pedonali e continui per i pedoni (le "spine verdi") e un sistema veicolare ad anelli. Librino doveva essere una città immersa nel verde: parchi urbani, aree agricole, spine verdi. Di tutto ciò non resta che una labilissima traccia. Le spine verdi, per esempio, sono in totale abbandono, ricoperte di polvere e sterpaglie e non frequentate da nessuno, se non per i traffici più loschi. Visto dall'alto il sistema veicolare ad anelli rende ancora più esplicita la frammentazione di Librino, lo scollamento dei singoli quartieri, la mancanza di tessuti connettivi: i nuclei abitati sembrano tanti spruzzi di cemento estranei l'uno all'altro. L'effetto è amplificato anche dalle politiche abitative che si sono succedute negli anni: via via hanno costruito a Librino Iacp, cooperative, privati e il Comune di Catania. Per non parlare dell'abusivismo imperante. Il tutto senza uno schema o un disegno o almeno uno spicciolo di logica. Bei comprensori di cooperative - dove si svolge anche una ricca vita sociale - convivono vicino a palazzoni anonimi magari occupati da abusivi. Altrettanto eterogenea è la sua popolazione: vecchi agricoltori, impiegati, operai, sfollati da quartieri storici di Catania tipo San Berillo. Tra questi fallimenti urbanistici e il degrado sociale di certe zone del quartiere il collegamento c'è ed è provato. Secondo uno studio dell'Università di Catania, il tasso di devianza e microcriminalità aumenta quanto più è alto lo scarto tra la realizzazione dei palazzi e quella delle infrastrutture e dei servizi.

Il palazzo di cemento

Il segno della complessità di Librino è ben visibile dall'area del cosiddetto Palazzo di cemento. In questa piazzona si fronteggiano e si guardano il suddetto, enorme, ventre bucherellato (abitato da poche famiglie di abusivi disperati che vivono in stanzoni fatiscenti, umidi e in condizioni igieniche del tutto precarie) e una piccola costruzione piena di vetrate, quasi trasparente (un Palazzo di vetro?), dove in perfetta antitesi con il buio del colosso dirimpetto si vede tutto quello che accade all'interno. In questo edificio ha sede il centro della Caritas TalitàKum.

TalitàKum significa: «Fanciulla, io ti dico alzati». Il centro accoglie tra i 90 e 100 minori ogni giorno, fa recupero scolastico, organizza laboratori di pittura e creatività varia. Propone alternative a chi magari ha il padre in carcere, la madre assente o, più semplicemente, vive in un quartiere in cui gli spazi di socializzazione non esistono. Proprio in questa area mi colpì cinque anni fa l'incontro con Cettina (il nome è di fantasia). Stavamo riprendendo con una telecamera una festa organizzata dai valorosi di TalitàKuma quando incuriosita si avvicina questa bambina che comincia a raccontare: l'hanno appena bocciata in quinta elementare; la maestra, racconta, voleva promuoverla ma il padre le ha consigliato di non farlo, perché non «andava bene ed è stato giusto così». Cettina parla in dialetto stretto e ha anche qualche difetto di pronuncia; non è facile comprenderla. Incoraggiato dalla sua disponibilità le chiedo cosa vorrebbe fare da grande. Risponde: «Non capisco cosa vuol dire questa domanda». Insisto e allora risponde: «Niente, starò con mio marito». Vuoi figli? «Sì, ma solo uno, un maschietto». Poco dopo le persone del postomi raccontanoha perso da poco un fratellino di quattro mesi. Alla domanda «che cosa fa tuo padre», non risponde. Cettina parla già come una grande che riduce le sue ambizioni alla scala delle esperienze già vissute.

Cettina oggi è quasi adolescente. A Librino i ragazzi sono tanti: ci vive il 17 per cento della popolazione giovanile di Catania. Nonostante questo, per loro manca quasi tutto, a partire dalle scuole superiori, ma non solo: Villa Fazio, una vecchia preziosa masseria che era stata ristrutturata e adibita a luogo di ritrovo per i giovani, è stata completamente abbandonata dall'amministrazione. Il campo polisportivo è totalmente dissestato, cartacce ricoprono ovunque sterpi riarsi; dentro e fuori materassi e lacerti di indumenti a testimoniare un passato assai recente di bivacco per disperati. Sono tanti i giovani che sognano di cambiare il loro quartiere. Poi c'è la vicenda sconcertante di campo San Teodoro: i volontari del Centro Iqbal Masih (che dal 1995 lavorano con i bambini delle case popolari, per i quali spesso l'unica prospettiva è di allargare le fila della malavita) hanno nel 2006 messo su con questi ragazzi una bella squadra di rugby, che ha sfiorato anche la serie B. Si chiamano "I Briganti" e per tanto tempo si sono allenati per strada: davanti, il campo San Teodoro, spazi vuoti, abbandonati a se stessi e al degrado. Per questo ne hanno chiesto l'affidamento al Comune, ma non è mai arrivata alcuna risposta. Poi, nella fatidica data del 25 aprile (2012) il Campo San Teodoro viene "liberato": "Briganti" e volontari lo puliscono, estirpano le erbacce, livellano il terreno, ci organizzano feste e spettacoli. Subito dopo la beffa: il campo verrà assegnato ai Salesiani, ma si dice pure che al suo posto sorgerà il nuovo stadio di Catania.

Un futuro partecipato

«Questa è la politica che non vogliamo, Ma oggi mi sento più ottimista e ho voluto l'incontro con il nuovo assessore per consegnarle la nostra piattaforma per Librino - racconta Sara Fagone, infaticabile suscitarice di queste energie sociali - Non gliel'abbiamo data per discuterne, ma per cominciare a tracciare le modalità per mettere in atto le proposte contenute nel documento. Questo anche per affermare con più forza l'idea di una politica partecipata, e che ogni cambiamento o decisione debba essere condivisa con gli abitanti. All'incontro sono intervenute un sacco di persone e questo ci dà speranza perché le cose cambino».

Il tesoro non troppo nascosto di Librino è quello della sua gente. Il suo futuro sta in questo: nell'effervescenza con cui scuole, associazioni, sindacati e volontari organizzano occasioni di incontro e vita comune che convivono orgogliosamente con il degrado sperando però di sconfiggerlo.

La piattaforma per Librino è un documento interessante e complesso, elaborato da tanti in appassionate riunioni a tutte le ore rubate a impegni domestici e di lavoro. Presenta idee innovative per salvare ciò che del progetto di Kenzo Tange è salvabile, modificandolo laddove non è possibile. Le linee di intervento promosse riguardano interventi sul patrimonio edilizio e abitativo, la mobilità e le infrastrutture (studenti e lavoratori hanno enormi difficoltà a spostarsi verso Catania). E poi: i centri di aggregazione, i servizi pubblici, sociali e sanitari, la formazione e il lavoro, il commercio e l'artigianato (attività, queste, quasi inesistenti nel quartiere, nonostante il Piano di zona prevedesse proprio una specifica aerea artigianale) e l'ordine pubblico. Dall'assemblea pubblica con il nuovo assessore sono arrivate prime importanti disponibilità: «Abbiamo chiesto di separare i grandi progetti dalle piccole manutenzioni - conclude Fagone - Poi l'assessore ci ha garantito che aprirà una sede dell'assessorato direttamente nel quartiere, dove sarà lui stesso presente con una frequenza regolare. Ci siamo dati appuntamento per alcune visite guidate: le faremo conoscere meglio il quartiere, i suoi difetti e le potenzialità». Chissà, magari in uno di questi giri incontreranno anche Cettina.

Una città-satellite modello diventata un ghetto
Librino è un quartiere periferico a sud ovest della città di Catania, progettato intorno alla metà degli anni sessanta come città satellite modello. La progettazione venne affidata all'architetto giapponese Kenzo Tange, lo stesso che progetterà il Centro direzionale a Napoli. Attualmente conta circa 80 mila abitanti, contro i 60 mila inizialmente preventivati. La progettazione del quartiere fu prevista dal Piano Regolatore Generale di Luigi Piccinato, adottato nel 1964 e approvato nel 1969. La redazione del progetto fu affidata allo studio Tange nel 1970, e il progetto di quest'ultimo fu consegnato nel 1972 e reso esecutivo con un Piano di zona nel 1976. Esso prevedeva anche la realizzazione di alcune lingue di verde e un parco di 31 ettari. Librino, insomma, era stata pensata fin dall'inizio come una sorta di new town, collegata al centro da un asse viario. Ma i risultati furono altri.

Postilla
sono passati quarant'anni da quando il complesso di case popolari Pruitt-Igoe di Saint Louis, progettato non molto tempo prima da Minoru Yamasaki (architetto razionalista della medesima generazione di Kenzo Tange) veniva demolito a colpi di dinamite, demolizione diventata leggendaria con le riprese del documentario Koyaanisqatsi e le musiche di Philip Glass. Ma nel nostro paese la discussione sul valore sociale del progetto di città razionalista si è sempre arenata su due estremi: da un lato gli architetti che difendono in assoluto il valore formale e culturale di quei manufatti, dall'altro il rifiuto popolare di stampo passatista, che lega (anche logicamente) quelle forme al degrado umano e sociale a cui spesso si accompagnano. Non esiste una terza via? Forse questo articolo, di fatto separando inconsapevolmente i due aspetti spazio/società, la indica. Ma c'è ancora molta strada da fare (f.b.)

Per comprendere un fatto è necessario comprendere il suocontesto. Del contesto fa parte la storia. Anche discutere i prodottidell’edilizia residenziale pubblica fuori del loro contesto storico è unerrore. E’ quello che sostenni qualche anno fa, proprio su queste pagine, in uneddytoriale al quale rinvio (in calce vi trovate il collegamento a una ricca catella di scritti sulle periferie, nell'archivio del vecchio eddyburg). Un secondoerrore è pensare che la città sia fatta solo dagli architetti: che sia solonelle sue forme, nella composizione spaziale. La città è urbs, civitas, polis:è disegno dello spazio, è cultura diffusa e costumi condivisi, è politica eamministrazione. Questo vale perLibrino, come per Corviale a Roma e lo Zen a Palermo. Non so quale sia stato ilruolo di Kenzo Tange (che secondo me è un pessimo urbanista) a Catania: quelloche so è che ci sono state fasi della nostra storia (quelli che definisco “glianni della speranza”) nella quale i migliori urbanisti hanno sperato che quellaitaliana fosse, o stesse diventando, unasocietà migliore migliore di quella che cominciava a diventare. Il nodo è sempre quello: per qualiresponsabilità il vento è girato, da noi e nel mondo, e al ventennio dellasperanza è succeduta la lunga fase della degradazione? Se si ragiona con un po’ d’attenzione su questa domanda si scopre che le responsabilità sono molto ampiamentedistribuite. (es)

Magari più che ai recinti che dividono le minoranze etniche o alla rete che separa immigrati e indigeni occorre guardare le differenze sociali, e ricordare che le “classi”esistono ancora . La Repubblica, 29 maggio 2013
Il poco socialdemocratico Nicolas Sarkozy aveva chiamato “feccia” i ribelli della banlieue parigina. Al di là delle definizioni, sono giovanissimi. La maggior parte delle persone fermate durante gli scontri è minorenne, non ha finito gli studi e non ha un lavoro, come un quinto dei ragazzi delle periferie più povere. Sempre in omaggio a un politicamente corretto che qui è stile di vita, si finge anche di ignorare la nazionalità di questi rivoltosi: la tradizione progressista impedisce alle autorità svedesi di fare classificazioni “etniche”. Ma sono tutti figli di quei profughi balcanici, afgani, iracheni, somali, siriani, che negli ultimi vent’anni hanno trovato rifugio qui e costituiscono ormai il 15% della popolazione svedese. Si sa, ma non si dice, e non lo si può neppure scrivere.

Nelle cronache di questi giorni non è permesso fare distinzioni etniche, ma è almeno consentito interrogarsi sul “fallimento dell’integrazione”.Lo stesso paradosso si ripete a proposito del sessantanovenne ucciso dalla polizia il 13 maggio a Husby, la periferia a nord della capitale, dove tutto è cominciato. Secondo la versione ufficiale, contestata da alcuni testimoni, l’uomo aveva brandito un machete contro gli agenti. Chi era la vittima che ha innescato le proteste? Un giornale locale ha osato scrivere che non era “autoctona”, ma di origini portoghesi. I media non hanno voluto riprendere la notizia e continuano a garantire l’anonimato dell’uomo, fino a conclusione dell’indagine della magistratura sul caso. Può apparire un atteggiamento miope, un’inutile ipocrisia. Eppure, in passato, è anche attraverso queste prudenze che si è costruito quel patto di convivenza civile, ora pericolosamente entrato in crisi. Come Londra 2011, e ancor prima Parigi 2005, anche la civile Stoccolma scopre di essere circondata da una cintura di disagio e frustrazione. La violenza degli scontri non è simile a quanto accaduto nelle altre due metropoli europee, questo è pur sempre un paese con appena nove milioni di abitanti. Le scale di grandezza sono diverse, così come il paesaggio urbano. Husby è un quartiere vivibile, di case basse e rosse costruito negli anni Settanta grazie al “milion program”, un visionario piano di edilizia popolare. Parchi curati, scuole, biblioteche e trasporti pubblici perfettamente funzionanti. Ma per le nuove generazioni conta lo scarto tra quel che la società promette e quel che non riesce a mantenere. Dall’alto della sua reputazione e delle aspettative che ne conseguono, la Svezia paga forse un prezzo ancora più alto nello sfogo di rabbia e delusione. Le opportunità professionali e di miglioramento delle condizioni di vita si distribuiscono in modo sempre più asimmetrico.
I giovani di Kista, altra periferia in rivolta, si sentono beffati due volte.Vivono nel quartiere considerato la Silicon Valley di Stoccolma, ma guardano i grattacieli delle società ultratecnologiche costruiti accanto ai palazzoni dove sono nati come un monumento alla loro esclusione: sanno che difficilmente otterranno un colloquio di lavoro in uno di questi gruppi. Oltre quelle vetrate, non c’è posto per loro. «Sarebbe potuto succedere in qualsiasi altro momento». Ghamari Hamid, istruttore di origine iraniana che lavora in una palestra di Kista, considera la sparatoria di Husby come un mero pretesto. «Non si può cercare una sola risposta. La disoccupazione è solo una delle tante cause. I ragazzi si sentono isolati, lasciati ai margini». Sul giornale progressista Aftonbladet l’editorialista Lena Mellin parla di fiasco politico. «Per troppo tempo — scrive — non è stato possibile neanche dire che in un quartiere in cui convivono 114 diverse nazionalità servono più risorse e servizi pubblici».
Le derive del “politicamente corretto” sono imputate alla lunga egemonia del partito socialdemocratico. Oggi, in una sorta di contrappasso, sono finite sotto accusa anche le politiche del governo conservatore, al potere dal 2006. Negli ultimi sette anni, il premier Reinfeldt ha tagliato le tasse e la spesa pubblica, che rimane comunque la più alta d’Europa dopo la Francia. Salari e contributo sociali più bassi, istruzione e sanità aperti ai privati. Un’iniezione di liberalismo nel caro, vecchio welfare, con l’obiettivo di rendere più competitiva l’economia nazionale. In parte ha funzionato, come ha sottolineato qualche mese fa l’Economist, plaudendo alla tigre scandinava. La Svezia è sfuggita alla recessione che altrove ha colpito l’Europa senza però sconfiggere la disoccupazione (8,7%) ma ha conosciuto il più rapido incremento delle disuguaglianze nelle società occidentali, dati dell’ultimo rapporto dell’Ocse. L’illusione che non sia successo niente è di breve respiro. Husby ha già cambiato l’agenda del parlamento, costretto a ridiscutere le politiche di integrazione, su richiesta di Jimmie Akesson, leader dei Democratici Svedesi. La Svezia è stato l’ultimo paese europeo a cedere all’ondata populista. Soltanto nel 2010, il partito xenofobo, che vuole chiudere le frontiere e rimandare a casa i clandestini, è riuscito a entrare nel parlamento con oltre il 5%. Gli ultimi sondaggi prevedono un raddoppio dei consensi in vista delle elezioni dell’anno prossimo.

È ancora presto per dire se la Svezia, dopo gli incidenti di questi giorni, sia pronta a stravolgere una tradizionedi tolleranza e accoglienza, cedendo alle sue pulsioni più oscure, così ben raccontate, e quindi esorcizzate, nei noir degli autori scandinavi. «Stoccolma non brucia e la discriminazione non è sempre legata al razzismo», commenta la scrittrice di origine curda Nima Sanandaji. Parte della popolazione, spiega, viene lasciata ai margini per cause economiche, legate all’educazione, al retroterra culturale. «Smettiamo di colpevolizzare la nostra società», chiede Sanandaji. È cresciuta nelle periferie degli immigrati e diventata intellettuale di successo, così come Zlatan Ibrahimovic è uscito dal ghetto di Rosengärd, fuori Malmö, per diventare un campione di calcio. Henning Mankell, lo scrittore del commissario Wallander, sostiene che la Svezia è abituata a interrogarsi e scrutare il suo cuore di tenebra, in una ricorrente perdita di innocenza, cominciata addirittura con l’omicidio di Olof Palme, quasi trent’anni fa. Finora, dopo ogni esame di coscienza, il paese è sempre riuscito a restare in bilico, camminando sul filo della sua innata capacità al compromesso. Ma anche lassù, nella fredda e civile Svezia, conservare l’equilibrio è difficile, sempre più difficile.

Si allarga a iniziative culturali urbane di medio periodo l'impulso dei movimenti politici dalle primavere arabe all'Europa e Usa, con risultati e spunti di grande interesse. Il manifesto, 13 aprile 2013, postilla (f.b.)

«Le strade sono per danzare»: con questo slogan si è aperto a San Paolo del Brasile la seconda edizione del Festival BaixoCentro, una manifestazione autopromossa e autofinanziata di occupazione civile delle strade e delle piazze dell'area centrale della città con oltre cinquecento eventi di musica e teatro, danze, installazioni e laboratori creativi che il movimento BaixoCentro - una rete di attivisti e di associazioni culturali indipendenti che operano nella zona del centro paulista - ha messo in scena per portare fuori di casa i paulistani e offrire loro un'esperienza di vita urbana meno cupa e meno opprimente di quanto sia nella quotidianità di tutti i giorni.

Chi conosce San Paolo sa infatti che il centro città non è il luogo dei bistrot e dei café frequentato da intellettuali e bourgeois-bohèmes come a Parigi o nelle capitali europee; al contrario i quartieri del centro, Santa Cecília, Vila Buarque, Campos Elísios, Barra Funda, Luz, sono tra i più malridotti e disgraziati della città, luoghi del degrado e dell'emarginazione, soffocati dal traffico e ipercontrollati da telecamere e guardia civil che dopo le nove di sera diventano territorio off limits . Eppure in questi barrios della «periferia in centro» pulsa l'anima della città: dietro la fatiscenza e le polveri dell'inquinamento si intravedono eleganti edifici in stile coloniale e modernista che lasciano trasparire una bellezza d'altri tempi; ci si imbatte nelle pareti e nei muri rivestiti dai graffiti dei pixações , gli artisti funamboli che nella notte si arrampicano sulle facciate dei palazzi abbandonati per disegnare le loro meravigliose opere d'arte; si attraversano piazze coloniali con enormi piante tropicali che seppur malandate danno l'idea di trovarsi in giardini botanici pubblici. In questa «periferia in centro» si trova quella stratificazione urbana che per quanto non sia antica e di profondità, è pur sempre una stratificazione di memorie e identità che meriterebbero di essere riscoperte e valorizzate.

Ma in una città relativamente giovane, cresciuta rapidamente e oltremisura, senza regole e senza cognizione della storia e dei tempi storici (qui tutto comincia a metà Cinquecento con l'arrivo dei gesuiti), il patrimonio è un concetto astratto e la riqualificazione non è intesa come riabilitazione urbana ma come rimozione e sostituzione di quanto è scassato, non però nel nobile senso benjaminiano di uno sprigionamento di energie distruttive per costruire un mondo migliore sulle ceneri del vecchio. Nella dura realtà paulista è il mercato a dettare le regole e non meraviglia che la speculazione edilizia abbia messo gli occhi sui quartieri della città delle crepe per far fruttare i suoi interessi: diversi palazzi storici sono stati buttati giù o scarnificati per realizzare torri di uffici e appartamenti duplex o triplex che non solo sono parecchio bruttini, ma sono anche inaccessibili alle tasche dell'abitante medio del centro di San Paolo che guadagna un terzo del costo di queste nuove case.

Ma per accorgersi di tutto ciò e tentare di rimediare agli inganni del mercato c'è molto da cambiare, prima di tutto la cultura dell'abitare e la percezione dei luoghi. È con queste intenzioni che gli attivisti del movimento BaixoCentro hanno lanciato la sfida «occupy»: per ribaltare il punto di vista e promuovere «una utopia possibile, fatta per le persone e dalle persone» in contrasto con una condizione urbana vissuta come destino immodificabile. Per una decina di giorni il festival e i tanti eventi che quotidianamente sono in cartellone (basta visitare il sito www.baixocentro.org per farsi un'idea) costituiscono motivo per uscire di casa e camminare per le strade e le piazze di Cracolândia, senza la paura e l'indifferenza che caratterizza la vita della megalopoli, scoprendo quanto è bello lo spazio pubblico.

Luogo prescelto per dare inizio a questa rivoluzione copernicana è il Minhocão, la sopraelevata Costa e Silva che i paulistani preferiscono chiamare con il nome del tarlo della foresta amazzonica invece che con quello di uno dei generali della dittatura, il quale costituisce il boulevard e l'asse principale del festival. Lungo 3 chilometri e mezzo e sollevato di 3 metri e mezzo rispetto alla quota della città, il Minhocão è il simbolo dell'autoritarismo e della crudeltà urbana: la sopraelevata fu concepita e costruita negli anni della dittatura militare dagli allora sindaci della città José Vicente Faria Lima e Paulo Maluf per dare una soluzione ai problemi di traffico e di circolazione che a San Paolo erano divenuti insostenibili già negli anni sessanta, senza però tenere in alcun conto il contesto delle case circostanti: è così che il Minhocão ha tagliato in due il quartiere di Santa Cecilia passando a soli 5 metri dalle finestre dei fabbricati posti ai due lati!

Come spesso accade però, il tempo ha modificato la percezione del Grande Verme e oggi il contestato mostro urbano è diventato un «oggetto amico», grazie anche al divieto di transito notturno e alla chiusura del fine settimana che hanno permesso agli abitanti di riappropriarsene. Ogni venerdì sera una volta chiuso al traffico automobilistico, il Minhocão comincia la sua seconda vita: escono allo scoperto gli artisti di strada, i pixações i venditori ambulanti di acqua gelata e cocco e per tutto il weekend il viadotto diventa una piazza e un balcone urbano accessibile e aperto a chiunque.

A partire dagli usi informali del mostro, il movimento BaixaCentro ha pensato insieme a dei collettivi di artisti e architetti di lanciare la proposta del Parco Minhocão, un parco urbano dei divertimenti di cui è stato presentato un «estratto» durante il festival: secchiate di colore gettate sull'asfalto, strati di erba artificiale, vecchi pneumatici dei camion adattati a sedute, teli appesi alle travi e piscine gonfiabili sono serviti ad allestire uno spazio comune dove per tutta la durata del festival è possibile recarsi per fare un picnic, nuotare, giocare a calcio, vedere un film, dondolare appesi alle travi in cemento o anche semplicemente per incontrarsi. Sulla falsa riga di quanto è già avvenuto a New York con la High Line e a Parigi con la Promenade Plantée dove vecchie strade ferrate e sopraelevate dismesse sono state trasformate in passeggiate, giardini, orti urbani e piste ciclabili invece di essere abbattute, il movimento BaixaCentro ha voluto lanciare un'opa a favore della riabilitazione del Minhocão per restituire alla cittadinanza un diritto alla città e mostrare che la rigenerazione urbana non è un'imposizione dall'alto, ma un processo condiviso fatto insieme alle persone e agli abitanti.

Nella testa dei suoi ideatori, il Parco Minhocão dovrebbe infatti essere un laboratorio delle idee e della creatività da costruirsi interamente con materiali e oggetti riciclati e in modo collettivo insieme ai cittadini e soprattutto insieme agli studenti e ai bambini delle scuole della zona per riprendersi, civilmente, un luogo e uno spazio che gli interessi economici e speculativi, ancora una volta in maniera autoritaria, vorrebbero destinare alla demolizione. Il Minhocão diventerebbe così, il primo caso di parco urbano a «chilometro zero», autocostruito e autogestito, riproducibile in altri contesti e in altre situazioni urbane senza diritti di copyright. Ecco perché la vera novità del progetto Parco Minhocão (per ora solo una proposta) è il suo manuale di istruzioni, un volumetto illustrato da rendere disponibile su internet per spiegare i criteri e i metodi di assemblaggio del parco e delle sue costruzioni (pensiline, gazebi, chioschi, pavimentazioni, giochi, panchine, aree di sosta, installazioni espositive) e consentire ad altri nel mondo di copiarlo e costruirlo.

Per fortuna, il festival non si limita alla stimolante proposta di un parco urbano auto da sé; la straordinaria partecipazione della gente agli eventi del festival dimostrano che il cambiamento è possibile e che una umanizzazione dell'urbanistica è un'utopia realizzabile. Basta mettere in atto le strategie e gli strumenti giusti.

Postilla

L'aspetto forse più importante e interessante di questa, e altre, iniziative che si fregiano del marchio Occupy, diventato una specie di franchising globalizzato del progressismo, è quello di affrontare la questione urbana come merita e pretende, ovvero nelle forme articolate e complesse che corrispondono al contesto in cui si calano i singoli progetti. Con un approccio che pare collocarsi molto lontano, e per fortuna, da altre in sé pur rispettabili idee (sempre evocate, ultimamente) come quelle del riuso tradizionale di spazi e strutture, come l'ubiqua High-Line, che ormai ha scavalcato la Settimana Enigmistica quanto a tentativi di imitazione, di solito campati per aria. Le quali iniziative finta fotocopia della High-Line, altro non sono se non l'esatta riproposta, sotto mentite spoglie, del medesimo approccio solo progettuale, per nulla organico e complesso, che ha creato gli antichi problemi di mobilità, scarsa abitabilità, ingiustizia ecc. che ora si vorrebbero risolvere con la società che dilaga nei quartieri prima segregati. Ecco: si badi a non segregarli di nuovo, magari con le migliori intenzioni. Teniamolo presente, che anche gli antichi segregatori erano quasi sempre animati da sentimenti identici (f.b.)

Nella rubrica lettere del Corriere della Sera Milano, 31 gennaio 2013, rispunta l'idea di Jane Jacobs degli “occhi sulla strada”, che però rinvia a una certa idea di città. Postilla (f.b.)

Gentile signora Bossi Fedrigotti, qualche tempo fa Silvia Vegetti Finzi, ennesima vittima di un furto a domicilio, scrisse un accorato articolo segnalando questa piaga del nostro tempo: i sempre più frequenti furti d'appartamento, che le anime buone rubricano come microcriminalità e che invece sono odiosi reati che scombussolano la vita. I carabinieri le consigliarono di mettere le sbarre alle finestre. Anch'io ho delle sbarre alle finestre, molto robuste, sembrano quelle del terzo raggio. Ma non hanno scoraggiato i ladri che, facendo leva con un cric, hanno scardinato muro e inferriata. Noi eravamo a goderci i campi di lavanda in fiore in Provenza e loro sono entrati in casa dal bagno, hanno arraffato una pochette con dei preziosi e poi sono scappati alle grida di un vicino che aveva udito rumori sospetti.

Siamo tutti assicurati, ma il danno economico c'è sempre. In più ti rimane quel senso di sporco, di profanazione, privati di oggetti cari, carichi di ricordi. Tempo fa facemmo un bel viaggio nel New England per assistere alla spettacolare Indian summer tra i boschi del Vermont tinti di rosso. Ebbene, in ogni villaggio che attraversavamo c'erano i cartelli che segnalavano «Neighbourhood Watch», controllo del vicinato. Io do un'occhiata alla tua casa, tu alla mia, entrambi a quella del vicino, un segno di grande civiltà. Ne scrissi a un giornalino dell'hinterland e ora in alcuni comuni è stata istituita la «Zona controllo del vicinato» con tanto di cartelli che la segnalano. Non è che questo provvedimento risolva il problema alla radice, i malfattori sono bravi, controllano i movimenti degli abitanti, ma ha già sventato un paio di furti. E scoraggia. Altro aspetto importante è che i cittadini si incontrano, verificano, si sentono parte di una comunità, il tessuto sociale si rafforza. A costo zero. Mi rendo conto che nella metropoli questi accorgimenti sono di difficile attuazione, ma vi sono zone che si prestano e l'amministrazione dovrebbe valutare con attenzione e incoraggiare l'introduzione di un simile provvedimento, almeno in zone di villette che a Milano sono numerose.
Luigi Rancati

Questa preziosa attenzione reciproca, un tempo abituale nei piccoli centri, si chiama controllo del territorio e non riguarda solo la sicurezza delle case, ma anche quella dei soggetti più deboli del quartiere come bambini e anziani, facili prede dei malintenzionati. Riorganizzarlo in alcune contrade della metropoli potrebbe, chissà, essere compito dei Consigli di zona. Comunque nel caso suo direi che il controllo abbia funzionato: le urla del vicino hanno, infatti, impedito che i ladri facessero razzia peggiore.
Isabella Bossi Fedrigotti

postilla
Quello che forse l'intelligente lettore del Corriere non sa, è che sul tema della sicurezza nel quartiere, da Robert Parks attraverso Clarence Perry sino a Jane Jacobs e ai suoi infiniti epigoni, si sviluppa l'idea stessa di quartiere urbano, evoluzione scientifica di quella solidarietà proprietaria di villaggio che rileva nell'ambiente suburbano-rurale del Vermont. Una migliore consapevolezza di questo particolare rapporto fra spazio e società, forse eviterebbe anche certe distorsioni securitarie del pensiero progressista, magari a soli fini elettorali (f.b.)

In un intervista a Pietro Barucci (finalmente) una implicita condanna, tardiva ma piuttosto chiara, delle condizioni degli architetti impegnati a collaborare alla costruzione di città per i cittadini, e non solo a proporre begli oggetti per promuovere e ingentilire la rendita fondiaria. La Repubblica, 9 gennaio 2013, postilla (f.b.)

Pietro Barucci, architetto, ha compiuto novant’anni in questi giorni. Da due decenni non lavora più. Avrebbe potuto continuare, ha una figura slanciata, energica, la memoria è fervida, intatta la lucidità, sicuro l’argomentare. Ma su di lui si abbatté una specie di interdetto. Il suo nome è legato ai più grandi interventi di edilizia popolare realizzati in Italia, a Roma: Laurentino 38, Tor Bella Monaca, Quartaccio, Torrevecchia. E il maleficio che avvolge quelle torri grigie innalzate in periferia prende alla gola anche Barucci. È lui, si sente dire, il responsabile di architetture criminogene, spaesanti, ossessive. Quelle che svettano a Roma, ma che sono sorelle delle Vele di Scampìa e dello Zen a Palermo. Si grida, citando Michel Foucault: dàgli alle “istituzioni totali”. Si invoca: abbattiamole, facciamo palazzine.

«Mi sono stufato di ribattere», dice Barucci seduto a un tavolo rotondo sul quale spicca la copertina nera di un suo libro appena uscito, Scritti di architettura 1987-2012 (Clean, 151 pagine, 15 euro), in quello che era uno studio e ora è il salotto di casa. Mobilio anni Sessanta. Di fronte, due finestroni inquadrano Villa Medici e i pini di Villa Borghese. Scontata la battuta: eccoli qui gli architetti che disegnano casermoni e a Roma vivono in via Margutta. Barucci, che nel libro ribatte, eccome, ai suoi critici, non si è mai iscritto a nessuna cordata, accademica o di partito. Assistente all’università di Adalberto Libera, alla morte di questi venne scalzato dal suo successore, Ludovico Quaroni, che gli preferì Manfredo Tafuri. Da allora iniziò una folgorante carriera professionale, non solo in Italia, culminata con i grandi complessi di case popolari. E conclusa di botto, con uno strascico di amarezze che ora sembrano ricomposte in riflessioni altrettanto amare, ma affabilmente diluite.

Quando ha chiuso lo studio?
«Nel 2003. Ma da un decennio non ricevevo nessun incarico».

Chi è stato l’ultimo committente? «Il commissariato per la ricostruzione post terremoto a Napoli. Un impegno durato dodici anni, fino al 1994, in condizioni spaventose».

Perché spaventose? «Inizialmente il clima era eccellente. Vezio De Lucia, responsabile del commissariato, mi chiese di coordinare interventi di nuova costruzione e il recupero di edilizia storica. Il commissariato era un’oasi di pulizia. Quando, a metà degli anni Ottanta, il Comune perse la regìa delle operazioni, iniziarono a spadroneggiare imprese piovute dal Nord, concessionari che prendevano anticipi stratosferici e poi subappaltavano alla camorra. Sotto di me c’era gente che collezionava tangenti per parlamentari e ministri».

Il risultato? «Volevamo costruire il nuovo nel corpo vivo della città, nella periferia slabbrata di Barra. Il nuovo che riqualifica l’esistente. Purtroppo il nuovo fu mangiato dall’esistente».

Una questione che più volte si è riproposta. Lei fu oggetto di dure critiche. Le si addebitavano esagerate pretese razionaliste. «Il postmoderno ha toccato l’apice in quegli anni. Io sono stato additato come l’ultimo dei moderni, che da aggettivo qualificativo era diventato insulto diffamatorio. Ma, al fondo, una questione culturale si tramutò in una discriminazione professionale».

Chi la discriminò? «Gli attacchi più spietati giunsero da Controspazio, la rivista di Paolo Portoghesi. Era un gruppo di pressione, formato da giovani architetti che sventolavano vessilli postmoderni ed erano animati da spirito che oggi diremmo “rottamatorio”. Per me fu uno choc, con implicazioni familiari».

Familiari? «Nella redazione della rivista lavoravano mia figlia Clementina e mio genero, Giorgio Muratore. Per anni i nostri rapporti sono stati tesi. Quando ci incontravamo in luoghi pubblici, cercavamo di svicolare».

Lei era indicato come l’artefice di edifici e di quartieri che iniziavano a deperire il giorno stesso della loro inaugurazione. «Si riferisce al Laurentino 38, immagino. Detto in estrema sintesi, penso che fosse una proposta culturale, politica e professionale di una qualità e di un’importanza non adatta a Roma. E dunque una proposta destinata a fallire».

Da dove trasse ispirazione? «Francia, Inghilterra, Olanda, paesi scandinavi. Il modello erano le new town inglesi, il quartiere autosufficiente, come quello di Bakema e Van den Broek ad Amsterdam».

Nulla di comunista? «Sciocchezze. Immaginammo quattordici insulae, ognuna con sette edifici, di cui cinque in linea, una torre e un ponte che li teneva insieme e dove pensavamo di sistemare negozi, uffici pubblici, uffici privati, un centro sociale. Era lo spazio di incontro e di convivenza. Sotto correvano le macchine, tenute lontane dal percorso sovrastante, solo pedonale. Raccoglievamo l’eredità del movimento moderno, il nostro era un manifesto di idee».

Troppa ideologia e poca concretezza? «Le dimensioni non le abbiamo scelte noi. Il Comune ci chiedeva di sistemare 32 mila abitanti. E, a proposito di concretezza, bisogna ricordare che in quei primi anni Settanta l’emergenza abitativa era esplosiva».

È esplosiva anche ora. Come si risponde? «Non si risponde. Non esiste più edilizia pubblica. Almeno noi cercavamo di darlo un tetto a chi non ce l’aveva».

I problemi al Laurentino iniziarono fin da subito. «Il Comune doveva curare la gestione, ma gli allacci elettrici, le fogne, le strade furono realizzate due anni dopo la fine delle case. Al Laurentino sono state trasferite centinaia di famiglie che occupavano un hotel ricettacolo di delinquenza e di spacciatori. Se si creano le condizioni perché un quartiere degradi, non c’è buona architettura che possa salvarlo. A Roma come altrove».

Si è detto che progettaste un insediamento per un proletariato che non esisteva più, sognando forme comunitarie ormai in disuso. Cominciavano gli anni Ottanta... «È vero. In ognuno dei ponti era previsto un centro sociale, ma proprio in quegli anni fu soppresso il corpo degli assistenti sociali, che accompagnavano gli assegnatari negli alloggi. Oggi dimentichiamo che gli abitanti venivano da case abusive e da baracche. Avremmo dovuto leggere meglio le trasformazioni. Ma m’illudevo che potessimo allinearci all’Europa del Nord. Nelle new town c’era tecnologia, visione comunitaria, sociologia. Quello che io cercavo di realizzare qui».

Lei poi ha progettato parte di un altro quartiere considerato emblema della disperazione metropolitana, Tor Bella Monaca. Quelli sono anche gli anni di Corviale...
«Corviale è uno stupendo progetto di architettura non adatto a una città come Roma. Ma mi lasci ricordare che ho lavorato al Tiburtino sud, un altro quartiere popolare. Era il 1971. Alcune famiglie che ebbero assegnato l’alloggio e che poi si erano trasferite altrove, a distanza di decenni sono tornate nel quartiere, ma stavolta da acquirenti».

Nel 2006 tre ponti del Laurentino vennero abbattuti. Il degrado era insopportabile, disse l’amministrazione comunale. Che cosa ha provato? «Un senso di orrore. I ponti erano occupati, in mano a malavitosi. Ma scartare l’ipotesi del recupero e demolirli, sostituendoli con palazzetti costruiti sulla strada, è un atto di bestialità. Capisco l’impeto d’un residente, dopo decenni di abbandono. Ma un’autorità pubblica che vuole compiacere la protesta e farsi un po’ di propaganda compie una scelta incolta ».

Ora si vorrebbe abbattere parte di Tor Bella Monaca. «Una cretinata che non ha nessun senso. Non se ne farà nulla ».

È mai più tornato al Laurentino 38? «Una volta, alcuni anni fa. Da allora mai più. Fa parte del mio rifiuto nei confronti di un mondo che non capisco. Nel ’98 visitai il Museo Guggenheim a Bilbao realizzato da Frank Gehry. Mi son detto che non ero più in grado di fare l’architetto».

Postilla

Forse in queste riflessioni botta e risposta, quasi tutte ma non tutte interne alla logica della progettazione dell’architettura, emerge abbastanza chiaro il sostanziale vuoto politico, sociologico, culturale, in cui trovò spazio fra gli anni ’30 e la modernizzazione post bellica certa avanguardia italiana. Uno spazio occupato legittimamente per latitanza o debolezza di altri apporti e competenze, ma con un ruolo supplente a dir poco imperfetto. Non è un caso se continuamente anche la critica più attenta agli aspetti non formali contrappone il “paese dei barocchi” del Tiburtino alle spersonalizzate desolazioni metropolitane dei grandi contenitori sul modello Corviale: da un lato la ricerca imperfetta ma onesta di radici popolari nazionali, dall’altro uno sperimentalismo astratto di straordinaria lungimiranza, che però non si accompagnava a adeguate conoscenze interdisciplinari e politiche pubbliche, come pure suggerivano i programmi paralleli europei. È accaduto così che in un contesto del tutto diverso, e per fortuna su dimensioni infinitamente minori, i nostri progettoni razionalisti solo a parole hanno avuto il medesimo destino delle autoritarie politiche di urban renewal americane. Iniziativa pubblica da un lato dell’oceano, coordinamento e sostegno pubblico di interessi privati dall’altro, ma col medesimo risultato di far detestare alla società e all’immaginario collettivo l’idea di spazi moderni concepiti a tavolino dalle tribù perdute della stirpe di Le Corbusier, alimentando indirettamente l'esplosione dello sprawl suburbano. Una riflessione che ovviamente non riguarda solo gli architetti (f.b.)

´Cameron Sinclair è il fondatore di Architecture for Humanity, l’organizzazione nata per aiutare le popolazioni povere o colpite da calamità che è diventata un punto di riferimento in tutto il mondo. Il 23 settembre sarà in Italia per parlarne.

Che l’architettura possa essere utile per l’umanità non c’è dubbio. Basta pensare che tra tre anni 100 milioni di persone nel mondo abiteranno uno slum, che le città grandi e medie sono in crescita rapidissima e in preda a problemi ambientali, sociali, di gestione preoccupanti. L’architettura come la intendono le archistar sembra però piuttosto occuparsi di altro: come lasciare in monumenti ed edifici inutili un contributo indelebile al proprio fragile ego. Cameron Sinclair, il fondatore di Architecture for Humanity,per fortuna non la pensa così. Dice: «Le Corbusier aveva torto nell’affermare "Architettura o Rivoluzione", che l’architettura dovesse in qualche modo prevenire il pericolo di una rivoluzione. Oggi c’è bisogno invece di una rivoluzione architettonica».

Per questo Sinclair fonda, nel 1999 a ventiquattro anni, Architecture for Humanity, un’organizzazione con la missione di mettere l’architettura al servizio di comunità in crisi, catastrofi ambientali, povertà, emergenze. L’idea più geniale ce l’ha però nel costituire una rete mondiale di professionisti che si scambiano informazioni e progetti sulla sostenibilità, la partecipazione degli abitanti e un design con materiali locali: l’Open Architecture Network, che oggi ha quarantamila iscritti e opera in 14 paesi del mondo. Il criterio adottato è opposto al narcisismo delle archistar: la rete è open source, consente a tutti di accedere alle competenze professionali e alle soluzioni, alla conoscenza dei territori e al rapido scambio di informazioni. è quello che si chiama creative commons, l’idea rivoluzionaria che il copyright è cosa vecchia e che oggi ci vuole una comunità che si scambia i processi creativi, proteggendo solo una parte dei diritti dell’intelligenza.

Nel 2006 Sinclair è eletto uomo dell’anno da Ted, il sito del Mit di Boston dove vengono segnalate le innovazioni che avranno impatto sul mondo. Ulteriori conferme della genialità di Architecture for Humanity vengono dalla rivista Wired e dal Moma di New York che dedica buona parte della mostra Small Scale Big Change ai progetti raccolti dall’Open Architecture Network. Nel sito di Architecture for Humanity, accessibile a tutti, trovate alloggi per il dopo tsunami e community planning per la popolazione di Sendai; l’asilo costruito in Colombia o in Ghana con fango e paglia pressata; come il sacchetto dove fare i propri bisogni (che evita le conseguenze terribili delle fogne a cielo aperto e può essere utilizzato per gli orti urbani) per la popolazione di uno slum in Kenia.

L’aspetto architettonico non solo non viene trascurato, ma prende un senso legato a contesto, clima, situazione etnica e sociale. Mi viene da pensare ad un incontro di un anno fa con un illustre architetto italiano, Pierluigi Nicolin, direttore della rivista Lotus che commentava il mio libro Contro l’architettura dicendo che agli architetti non si può domandare di fare i boyscout. Gli rispondevo che non capivo come una cosa del genere si potesse chiedere ai medici, tant’è vero che qualcuno ha inventato Medici senza frontiere, e non agli architetti. Cameron Sinclair gli ha risposto per me.

Viaggio a Tor Bella Monaca per immaginare il futuro di un mondo dove il degrado si mescola ad archeologia e verde. I nuovi metri cubi nei terreni del conte Vaselli. La minaccia alla sorgente dell’Acqua Vergine.

Prima tappa, viaggio sotto la pioggia in torpedone verso Tor Bella Monaca. All’appello hanno risposto nove dipartimenti e facoltà di architettura di Roma, Milano, Torino, Pescara, Parma, Venezia, Camerino, Napoli, Reggio Calabria. Tema: la proposta del sindaco di Roma Gianni Alemanno di demolire l’edilizia popolare degli anni Ottanta – «buttiamo giù l’architettura comunista », traduce Massimiliano Lorenzotti, presidente dell’VIII municipio - e ricostruire in stile «Garbatella» con l’aiuto dell’architetto lussemburghese Leon Krier. Seconda tappa (martedì nell’aulamagnadella facoltà di architettura a Fontanella Borghese a Roma), seminari di studio, terza: le proposte, a gennaio 2011. Gli studiosi delle periferie hanno parecchie perplessità su un’operazione che, solo con i materiali di demolizione, «riempirebbe l’intero stadio Olimpico », spiega Marta Calzolaretti, professore di progettazione alla Ludovico Quaroni di Roma.

GRA e A24, un incubo di traffico sotto la pioggia. Fa da guida Daniel Modigliani che è stato direttore dell’ufficio delle periferie e poi del nuovo Prg. C’è Renato Nicolini, c’è una piccola troupe con Pierpaolo Andriani e Roberto Giannarelli per le riprese video: il complesso del Municipio (studio Passarelli) con il cinema e il teatro è un inno – da poetica anni Settanta - al cemento nudo. Niente panchine, niente piante, niente passaggi coperti per ripararsi dalla pioggia. Primo appunto: demolire o curare la vivibilità degli spazi pubblici?

Anni Settanta, epocale manifestazione per la casa al tempo dei baraccati dell’Acquedotto Felice. Anni Ottanta, sindaco Luigi Petroselli, detto l’Etrusco o anche il Comunista, è il tempo dell’ultimo grande programma di edilizia popolare e agevolata. Nascono Corviale, Laurentino 38 e Tor Bella Monaca.

Tor Bella viene su in meno di due anni, 1982-1983. Roba da far impallidire il progetto CASE a L’Aquila. Case popolari, insediamenti privati e cooperativi. Però non ci sono servizi. Racconta Modigliani: nel progetto Isveur i servizi c’erano ma sulle aree espropriate al conte Vaselli si prevedevano gli alloggi ma non le infrastrutture. Il contenzioso del conte con il comune di Roma dura tuttora. E l’edilizia prefabbricata è un disastro dal punto di vista energetico.

Viale dell’Archeologia, il famigerato R5 con le sue tre grandi corti (architetto Barucci). Alle spalle c’è il rudere rugginoso del mercato mai entrato in funzione per l’ortofrutta ma perfetto per lo spaccio di stupefacenti. Non si è mai riusciti ad abbatterlo. Però,R5 hauno spettacolare panora-ma verso i Castelli. È Agro romano vincolato, tenuta Vaselli, sarà oggetto delle nuove edificazioni di Alemanno. «Così il conte si prepara a guadagnarci due volte», chiosa Renato Nicolini. Là sotto c’è una villa romana ed emerge, trattato come una discarica, il lastricato preromano della via Gabina. Al confine fra Agro e abitato piccoli orti e baracche sorvegliate dal latrato dei pit bull. Ma non c’è solo abbandono, anche i campi sportivi e la piscina.

Il rischio accertato è un ulteriore consumo di suolo: dagli attuali 77,7 a 97,7 ettari, da 28mila abitanti previsti attuali a 44mila. Cifre che spiegano l’arcano del presunto costo zero per l’amministrazione comunale a fronte di un miliardo di spesa: il pagamento è in cubature che passano da duea tre milioni e mezzo. L’operazione ideologica copre una gigantesca speculazione immobiliare, mentre sul comune ricadranno i costi di urbanizzazione e sociali. E l’espansione andrà a lambire la sorgente dell’acqua Vergine che sgorga sotto la cresta vulcanica dell’insediamento. La prospettiva sono tre anni di un immenso cantiere senza contare tutto il tempo necessario ai progetti e alla ricerca dei finanziamenti e senza che si sia risposto ad una domanda fondamentale: perché dovrebbe migliorare la qualità della vita delle persone, come si contrasterebbe la microcriminalità che affligge alcune zone del quartiere?

C’è un problema di degrado edilizio e gli spazi pubblici sono lande desolate, gli spostamenti dentro al quartiere si devono fare in macchina, mancano ciclabili, marciapiedi, servizi agli anziani e ai bambini. Marta Calzolaretti: «È a questi problemi che si deve rispondere e a quello del risparmio energetico, mentre nuovi alloggi potrebbero sorgere dove è già urbanizzato». E, se si allarga lo sguardo, Tor Bella Monaca fa parte di una città di 90mila abitanti con Torre Angela e Torre Gaia, Capanna Murata e Rocca Fiorita che sconfinano verso i Castelli. Un mondo pieno di ricchezze naturali e archeologiche che la presenza della seconda università a Tor Vergata ha profondamente modificato, attirando studenti e albergatori per chi usufruisce del Policlinico. Il cantiere del metro C entra nelle case. Ce n’è abbastanza per chiedersi quali problemi risolvano le casette basse di Alemanno a parte l’indubbio guadagno di chi si vedrà modificare le proprietà agricole in edificabili.

«Eccoli, i bastardi, appena usciti dalla fortezza». Fariz dà un calcio alla lattina in terra mentre passa la volante. Alza il cappuccio, piove e soffia il solito vento micidiale di Clichy, un altipiano esposto alle intemperie, quasi fosse un´altra punizione divina. Fariz ha 14 anni, ripete il ginnasio con scarse probabilità di passare, l´anno prossimo è fuori. S´infila tra due Hlm, le grandi torri di case popolari. Un presente di spaccio e piccoli espedienti. «Sono in deal, in affari, e anche se i keufs, i poliziotti, mi mettono alla cage, in prigione, tanto sono minorenne. Un mio amico è già entrato e uscito cinque volte».

Racaille, feccia, cinque anni dopo. Ragazzini come Fariz avvampati di odio, uguali ad allora. «Se ci provocano, li sfondiamo» dice indicando il nuovo commissariato, avamposto della République in terra ostile. A Clichy-sous-Bois due abitanti su tre sono di origine straniera. Uno su tre è disoccupato, il 75% della popolazione è considerato indigente e vive di sussidi. Appena quindici chilometri da Parigi, un´ora e mezza di trasporti. Guardando la "fortezza" si capisce che la rivolta è solo in sonno. Da qualche giorno, centocinquanta poliziotti si sono stabiliti qui per presidiare la periferia che ha lanciato gli scontri del 2005 in tutto il paese: ventuno notti di assalti alle forze dell´ordine, diecimila auto incendiate, tremila fermati, finché è calato il coprifuoco. Da allora è tregua armata. E un lento ritorno alla normalità. Il commissario capo, Olivier Simon, manda via i giornalisti. «Non posso dire nulla». Una parola di troppo può diventare dinamite.

Anche Muhittin Altun è costretto al silenzio. Racaille, pure lui. Il 27 ottobre 2005 voleva sfuggire a un controllo della polizia. Insieme agli amici Zyed e Bouna si è nascosto in una centrale elettrica. Loro sono morti fulminati, lui è vivo per miracolo. Zyed e Bouna, 17 e 15 anni, sono diventati il simbolo della rivolta. Ancora oggi i loro nomi sono dentro ai rap, sui graffiti, negli slogan dei casseurs che manifestavano qualche giorno fa nei cortei contro le pensioni. Muhittin è caduto in grave depressione, è sotto psicofarmaci. Non sa se riuscirà ad andare alle commemorazioni di oggi. A Clichy, anche sopravvivere può diventare una colpa. «Cinque anni per avere giustizia sono un tempo interminabile» spiega Siaka Traoré, fratello maggiore di Bouna. Venerdì scorso i poliziotti coinvolti nell´incidente sono stati rinviati a giudizio per omissione di soccorso. Hanno visto entrare i ragazzini nella centrale ma non hanno dato l´allarme. Quel giorno, alle 18.52, il blackout a Clichy-sous-Bois ha annunciato la tragedia in corso. Gli avvocati chiederanno la diretta televisiva per il processo. Non è ancora detta l´ultima parola: la procura ha fatto ricorso sul rinvio a giudizio.

«La riconciliazione passa anche attraverso la verità sulla morte di Zyad e Bouna». Claude Dilain fino a quarant´anni ha fatto il pediatra poi, nel 1995, è diventato il sindaco socialista di Clichy-sous-Bois. All´epoca, le cose andavano già molto male. «L´odio», il film di Matthieu Kassovitz ambientato in una periferia-ghetto, è di quell´anno. Durante gli scontri, Dilain dormiva di giorno e vegliava di notte. «La rivolta può scoppiare di nuovo, in qualsiasi momento». Il 70% dei giovani non ha votato alle ultime elezioni, la criminalità organizzata è sempre più radicata nelle banlieues. «L´altro segnale preoccupante è il ripiego sull´identità religiosa e culturale». Giovani donne velate, famiglie poligame. «I figli o nipoti degli immigrati hanno preso atto del fallimento dell´integrazione nella società francese».

Arrivando in macchina da Parigi, l´orizzonte è puntellato da gru gialle e rosse. Clichy è diventata un enorme cantiere. Millecinquecento nuove case sono state costruite al posto di quelle vecchie e fatiscenti. I finanziamenti per il rinnovo urbano sono l´unica novità visibile del famoso "Piano Marshall" che Nicolas Sarkozy ha promesso. «Noi chiediamo educazione e lavoro. Il nostro futuro non è fatto solo di muri puliti». Samir Mihi, 33 anni, era amico di Zyad e Bouna e ha fondato l´associazione "Au delà des mots". Il tasso di disoccupazione tra i giovani supera il 40%, e non esiste un ufficio di collocamento. «Sul curriculum - racconta Samir - nessuno di noi scrive il vero indirizzo. Dal 2005 Clichy è sinonimo di racaille».

Quegli scontri sono una pesante eredità. «Ma almeno la Francia non ignora più la nostra situazione», commenta Claude Dilain. Il sindaco di Clichy guida l´associazione dei 120 comuni cosiddetti "sensibili". La banlieue è la vera frontiera. Ogni anno circa 200mila stranieri si stabiliscono in queste città satelliti. «Il patto sociale sul quale ci siamo costruiti negli ultimi due secoli è andato in frantumi. E nessuno ne vuole discutere davvero». È la storia di un tipo che cade da un palazzo di cinquanta metri, diceva il protagonista de «L´odio». Fino a qui tutto bene. Ma l´importante non è la caduta. È l´atterraggio

E’ durata poco la possibilità di parlare seriamente del recupero delle periferie romane (e di quelle italiane) aperte dalla proposta del sindaco Alemanno sulla demolizione del quartiere di Tor Bella Monaca. E’ infatti entrato in campo il teorema Berlusconi ed ha mandato tutto all’aria. Quando è in difficoltà, come noto, il primo ministro la “butta in caciara” come dicono a Roma, sparandole sempre più grosse, tipo che la crisi economica è finita, come afferma indisturbato da due anni.

Quando poi le difficoltà perdurano, tira fuori l’arma di distruzione di massa: è colpa dei comunisti. In un trasmissione radiofonica Alemanno-Berlusconi è nuovamente intervenuto sulla questione del recupero del quartiere romano affermando che Tor Bella Monaca è un quartiere sovietico! E che ci sia lo zampino del primo ministro è fuori di ogni dubbio. Alemanno appartiene alla cultura della destra sociale che conosce le difficoltà delle periferie e mai si sarebbe espresso in modo tanto improvvido. Sono tre –tra gli altri- i maggiori protagonisti della realizzazione del quartiere, Lucio Passarelli, Carlo Odorisio e Pietro Barucci.Tre persone di grande livello, dietro cui si nascondevano esponenti dei soviet nostrani. E chi l’avrebbe mai pensato, visto il loro profilo culturale?

L’affermato studio Passarelli ha ad esempio progettato e realizzato negli anno ’70 il bellissimo ampliamento dei Musei Vaticani. Paolo VI ha dunque chiamato un cosacco del Don a piazza San Pietro. Odorisio è stato uno stimatissimo imprenditore edilizio, una persona di grande equilibrio che ha contribuito alla costruzione di alcuni tra i migliori quartieri pubblici, nonostante –scopriamo- provenisse dalle lontane steppe. Pietro Barucci, infine, è uno dei più importanti architetti italiani che a Tor Bella Monaca ha progettato tra l’altro un bellissimo edificio. Alemanno-Berlusconi ha dunque preso un abbaglio comico! Ma è più interessante ragionare sui motivi reali dell’uscita. E’ che la cultura della destra liberista incarnata da Berlusconi non riesce ancora a fare i conti con la presenza dello Stato nella società. Al pari dei fondamentalisti raccolti intorno alla famiglia Bush, l’unico vero obiettivo che perseguono è quello di distruggere sistematicamente il ruolo e le prerogative pubbliche.

Tor Bella Monaca nasce negli anni ’80 per dare una casa vera alle centinaia di famiglie romane che ancora vivevano in baracche da terzo mondo. Solo l’intervento dello Stato può risolvere questi gravissimi problemi sociali. Chi vuole oggi demolire questo ruolo pubblico non è soltanto un mestatore, ma è anche fuori dal tempo. Da quando è emersa in tutta la sua rilevanza la crisi finanziaria mondiale è stato un susseguirsi di ricorsi agli aiuti di Stato, dalle banche al settore delle abitazioni. Lo stesso Marchionne, come ha documentato il Fatto Quotidiano di qualche giorno fa, non avrebbe conseguito i successi nel rilancio della Chrysler se non avesse potuto sfruttare consistenti aiuti delle autorità federali.

La destra berlusconiana conferma dunque ancora una volta di essere un’eccezione nel panorama mondiale: fa fatica a metabolizzare concetti e ruoli che negli altri paesi sono invece scontati. Con l’aggravante di nascondere la reale portata dei problemi in campo. Tor Bella Monaca, come tantissimi altri interventi pubblici realizzati negli anni delle grandi riforme, è infatti circondata da informi quartieri speculativi e –nel centro sud- abusivi. Quei quartieri pubblici nacquero proprio per realizzare viabilità, scuole e verde che nelle lottizzazioni private non erano stati realizzati. Avevano insomma svolto un ruolo di supplenza nei confronti della speculazione edilizia. Oggi si punta il dito soltanto contro i quartieri pubblici per nascondere l’amara verità che il sacco edilizio d’Italia è stato compiuto dalla speculazione edilizia e dall’abusivismo. Della necessità e dell’urgenza di rendere più umani questi quartieri nessuno parla: è più facile prendersela con il pubblico.

Senza nascondere, ovviamente, che anche i quartieri pubblici presentano errori di realizzazione e necessità do interventi di riqualificazione, ma sempre a partire dall’oggettività e dal rispetto della condizioni di vita degli abitanti e dalle loro esigenze. Resta l’amara constatazione che non appena si aprono a fatica spazi di discussione sui problemi reali dell’Italia - e lo stato delle nostre periferie urbane è sicuramente uno di questi - il mondo politico tira fuori l’ideologie senza senso e senza storia al solo scopo di continuare il comodo balletto. E’ davvero ora di farla finita con il teatrino della politica.

La sortita ferragostana del sindaco di Roma in vacanza a Cortina (“Raderò al suolo Tor Bella Monaca e la ricostruirò”) ha raccolto l’applauso sonoro dell’architetto (divenuto, per qualche foglio, urbanista) Paolo Portoghesi aduso a correre in soccorso del vincitore e dell’Ordine degli ingegneri, oltre che del suo partito, il Pdl. Mentre hanno detto un chiaro “no, grazie” i residenti del quartiere, i parroci, urbanisti, economisti, specialisti (non mancano) della cosiddetta “edilizia di sostituzione” praticata anche in Italia (a Torino Mirafiori, per esempio, e anni fa nelle periferie napoletane come San Pietro a Patierno). 
Vediamo cosa caverà ora dal cilindro Alemanno. Forse un privato potente al quale regalare fior di cubature (in più) per demolire e ricostruire “Torbella” altrove? Il sospetto viene quando si osserva che il quartiere è stato edificato sulla tenuta dei conti Vaselli i quali reclamano tuttora maxi-indennizzi dal Campidoglio per gli espropri subiti. Tuttavia, secondo l’ex assessore all’Urbanistica, on. Roberto Morassut, il costo della gigantesca operazione – coinvolgerebbe 3 milioni di metri cubi e 180 ettari di suoli – sarebbe pari a circa 4 miliardi di euro. Una follia. Né si saprebbe dove mettere nel frattempo oltre 30.000 persone.


In realtà - come ha mostrato il Tg3 guidato dall’urbanista Paolo Berdini – Tor Bella Monaca ha bisogno di investimenti per eliminare una sporcizia intollerabile, per fare manutenzione edilizia, migliorare le scuole, dare vita alle piazze, ai luoghi di socializzazione, offrire un trasporto pubblico collegato al centro che non sia soltanto il bus sulla Casilina distante 3 Km, e così via. Senza dire che il “sindaco della sicurezza” ha assistito impassibile alla soppressione, grazie a Tremonti, del presidio di Ps al centro del grande quartiere romano. 


Se Gianni Alemanno avesse riproposto con forza questi problemi nel contesto di un piano di investimenti pubblici avrebbe compiuto un gesto avveduto. Ancora una volta invece siamo davanti ad una politica fatta di annunci poi puntualmente disattesi, in cui è maestro indiscusso Silvio Berlusconi. Si lancia uno slogan ad effetto, Confindustria e alcuni sindacati plaudono, talune corporazioni brindano. Poi, che succeda o no qualche cosa di concreto non ha molta importanza: l’illusionismo finanziario trionfa nel Paese che, del resto, si è tenuto per un ventennio Mussolini e chissà quanti anni ancora l’avrebbe lasciato a Palazzo Venezia se, imitando Francisco Franco, il duce avesse evitato l’errore mortale della guerra assieme ad Hitler.

Dopo quasi settant’anni siamo tornati lì, nei pressi del 25 luglio 1943? Certo, molti italiani sembrano aver scordato le conquiste concrete della democrazia, i diritti e i doveri, la prassi stessa, di una democrazia vera e partecipata.

Anche Milano ha la sua Tor Bella Monaca. È il Giambellino, quartiere di case Aler d’inizio secolo, d’immigrati vecchi e nuovi, di alloggi popolari e di degrado. Troppo degradato per sperare di cambiarlo. «Stiamo verificando se ci sono situazioni che possano richiedere interventi di questo tipo», dice Letizia Moratti, in visita a una casa confiscata alla mafia e assegnata a un’associazione non-profit, e rispondendo a una domanda dei cronisti sul tema di eventuali demolizioni dei quartieri più a rischio. Il sindaco non fa nomi, e anzi, subito dopo, ingrana la retromarcia: «Verificheremo, valuteremo, studieremo. Al momento comunque non c’è nessun progetto concreto». Sono però i suoi assessori a confermare che Palazzo Marino è intenzionato a seguire la via «romana » . L’assessore alla Casa, Gianni Verga, cita un precedente che può fare scuola: «Via Fetrinelli. Per togliere l’amianto dalla case bianche abbiamo trasferito un bel numero d’inquilini. Tra pochi mesi interverremo nelle torri di via Tofano, a Baggio. E poi nelle casette di via Barzoni al Corvetto».

Ma la vera sfida si chiama Giambellino-Lorenteggio. Verga conferma che si tratta di una soluzione ancora da studiare e da verificare, ma l’intenzione è quella: «Lì, al Giambellino, gli alloggi Aler sono troppo fatiscenti e degradati. Ristrutturare rischierebbe di essere uno sforzo inutile». L’idea allora è di demolire con chirurgica precisione. «Interventi mirati, non vogliamo mica distruggere un intero quartiere», assicura l’assessore. Si lavorerà di bisturi prima d’azionare le ruspe.

L’assessore all’Urbanistica, Carlo Masseroli, dice che «per ora il tema è solo quello di realizzare nuovi alloggi popolari in sostituzione di quelli più non più riqualificabili». «Via Cogne, via Civitavecchia, via Ovada: potremmo prevedere di riservare una quota delle case convenzionate in realizzazione proprio a chi dovrà traslocare dai vecchi quartieri Aler». D’accordo «in linea di principio» anche il vicesindaco Riccardo De Corato. Che mette però l’accento sulla necessità di trovare soluzioni condivise con i residenti sfrattati «causa degrado»: «La mappa dei quartieri a rischio è facile facile», suggerisce: «Stadera, Corvetto, San Siro. Solo per fare tre nomi di altrettante zone dove le case Aler sono ormai troppo vecchie».

Insorge intanto l’opposizione. Roberto Cornelli, segretario metropolitano del Pd, è durissimo: «Le periferie di Milano hanno bisogno di servizi e attenzione alla qualità della vita. Dopo 5 anni di governo è allarmante che il sindaco Moratti voglia abbattere interi quartieri e non precisi nemmeno di quali luoghi stia parlando».

La demolizione del quartiere, auspicata da Alemanno, quale sintomo di un male maggiore

Edoardo Salzano (audio), una delle voci più autorevoli dell'urbanistica italiana, afferma che «i problemi della città andrebbero seguiti nel tempo, con un'attenzione continua». La proposta del sindaco di Roma Gianni Alemanno di demolire il quartiere di Tor Bella Monaca e riqualificarlo, sarebbe solo un particolare caso di una pratica edilizia generalizzante. «Se il progetto fosse quello di rendere più vivibile le periferie romane, si farebbe come si fa negli altri paesi o si è fatto in altri tempi in Italia: coinvolgere i cittadini in una discussione sui problemi e sui modi per risolverli».

La diffusione della “cultura dell'abitare” è l'intento che da decenni muove Edoardo Salzano, urbanista d'esperienza e fondatore del sito eddyburg.it, punto di riferimento del settore. Non rientrerebbe in una politica vicina al cittadino la proposta lanciata dal sindaco di Roma Alemanno di demolire e ricostruire il disagiato quartiere di Tor Bella Monaca. «Bisogna capire se la città deve essere organizzata, perché gli uomini vivano meglio o semplicemente per far aumentare il PIL», sostiene Salzano.

Il buon senso civile. L'esempio di Berdini


L'urbanista sostiene che «il nodo della questione, di cui nessuno sulla stampa quotidiana ha parlato, è capire in che modo si considera la città. Se si demolisce per poi ricostruire, c'è chi specula e non ci si occupa seriamente dei problemi degli abitanti». In tal senso un esempio viene dall'ingegnere Paolo Berdini, in un articolo apparso ieri sul Manifesto: «Il merito di Berdini è di aver usato parole di buon senso, che quindi risultano strane. Parla concretamente, come si fa negli altri paesi dove le questioni urbane sono seguite per costruire e progettare sistematicamente la città».

Dare voce ai cittadini


Il problema, secondo Salzano, non è l'iniziativa di Alemanno in sé e per sé, quanto «il modo che hanno i politici italiani, a partire da quelli di Destra, di affrontare le questioni della città, spesso mero pretesto per fare delle “sparate”. La cosa non ha nessun senso: è semplicemente distruttiva». Occorrerebbe un coinvolgimento maggiore e partecipato della società civile, un «lavoro lunghissimo» che però darebbe «spazio, voci e servizi a quella pluralità di centri in cui i cittadini stanno ricominciando a fare politica. Sto parlando dei comitati, dei gruppi di cittadinanza attiva e delle associazioni presenti sul territorio».

(ami) 2010-08-26 08:55:26

Qui, cliccando sull'apposito simbolo, potete sentire l'intervusta in audio

Finalmente le periferie romane si fanno largo nell'immaginario cittadino. La proposta del sindaco Alemanno di demolire Tor Bella Monaca è poca cosa e strumentale. Ma permette, come ha più volte chiesto questo giornale, di porre finalmente al centro della discussione lo stato disastroso delle tante torbellamanaca che non hanno la forza di rompere il silenzio colpevole della politica.

La sfida è dunque aperta perché alle dichiarazioni del primo cittadino dovranno seguire necessariamente atti concreti e si aprirà una sfida che - nell'interesse della città - abbiamo il dovere di riempire di contenuti. Lo faremo partendo da una critica radicale dei presupposti culturali con cui il sindaco intende operare, quando parla della bontà del «modello Garbatella», e cioè della piccola borgata che all'inizio degli anni '20 del secolo scorso fu costruita dall'Istituto per le case popolari per dare alloggio agli operai della nascente zona industriale Ostiense.

Garbatella è un luogo bellissimo oggi, non quando fu costruita. All'epoca soffriva di isolamento e di mancanza di servizi pubblici che sarebbero venuti soltanto con le dure rivendicazioni degli abitanti. Un solo esempio. Nella metà degli anni '30, furono costruiti da un grande architetto come Innocenzo Sabbatini tre edifici collettivi per ospitare gli abitanti del centro storico devastato dalla follia del piccone demolitore mussoliniano. Ogni famiglia aveva una stanza, la cucina e i bagni erano in comune. Un modello la Garbatella? Ma quando mai! Lo è diventata perché tornata la libertà le famiglie hanno preteso che venisse trasformata la tipologia e venissero fatti alloggi con tutti i crismi. Chiesero poi altre scuole, giardini pubblici, servizi sociali e culturali.

È il tempo, la fatica sociale e gli investimenti pubblici che l'hanno resa bella.

Tor Bella Monaca non è degradata soltanto perchè piove dentro le case (problema verissimo, ma che si può risolvere con la manutenzione), ma perchè ha scuole con soffitti cadenti e pavimenti sconnessi. Ha parchi sporchi e disadorni che di notte diventano luoghi da malaffare. Non ha piazze. È piena di casi sociali gravi e non ha più un servizio sociale degno di questo nome per i tagli alla spesa pubblica. È piena di bambini handicappati che non hanno più l'ausilio a scuola per bontà della Gelmini. Altro che demolizione. L'unica ricetta è applicare veramente il modello Garbatella: intervenire con un paziente lavoro di costruzione della città pubblica. Investire risorse economiche.

Fare un infinito numero di piccole opere: migliorare lo stato delle scuole; creare spazi sportivi gestiti con competenza e disinteresse; creare una rete di percorsi pedonali e ciclabili protetti che permettano ai bambini di andare a scuola senza pericolo. Interrare strade pericolose. Creare servizi di trasporto moderni ed efficienti: per arrivare alla via Casilina (tre chilometri di distanza) si impiegano quaranta minuti di bus, quando passa. Insomma per cambiare le periferie occorre creare la città pubblica. La demolizione è una comoda scorcatoia che non risolve alcun problema: quattro anni fa fu sperimentata al Laurentino 38. Sono saltati tre ponti e il degrado è identico a prima.

Alemanno è costretto a percorre la scorciatoia della demolizione perchè altrimenti dovrebbe fare i conti con la cultura dominante il suo partito (ed anche del Pd, purtroppo)che ancora crede che la ricetta per risolvere i problemi urbani sia quello di affidarne le sorti ai «privati». È quanto sostiene il faro dell'urbanistica del Pdl, l'onorevole Maurizio Lupi, che da tempo ha presentato una proposta di riforma che equipara gli speculatori con le amministrazioni pubbliche. Il dibattito che si aprirà sulle periferie dovrà fare i conti con questa devastante cultura.

Vorremmo infine ricordare che la tanto osannata Garbatella è figlia del grande pensiero degli inizi del secolo scorso, incarnato meglio di chiunque altro da Luigi Luzzatti. In quel lontano periodo c'era la consapevolezza che le città erano organismi pubblici da governare con idee e lungimiranza. Oggi la politica bipartisan ha sostituito i Luzzatti con ogni sorta di guitti e speculatori. Il patrimonio immobiliare dell'Istituto case popolari di Roma è stato ad esempio affidato alla società Romeo. Non è così che si salverà Tor Bella Monaca.

la Repubblica

"Abbattere Tor Bella Monaca", a Roma è polemica

di Paolo G. Brera e Rory Cappelli

«Tor Bella Monaca? Va rasa al suolo e ricostruita». Il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, dice che sarà la sua «Rivoluzione d´Ottobre» (proprio così, quella bolscevica): «Dobbiamo demolire quegli obbrobri e ricostruire sul modello della Garbatella», trasformando la più degradata e violenta delle borgate romane nello splendido quartiere d´edilizia popolare realizzato nel Ventennio, un idillio di villette con giardini che oggi costano un occhio. Addio ai casermoni di cemento e ai laghi d´asfalto, addio a sporcizia e delinquenza, promette il sindaco in un intervento a "Cortina Incontra" travolgendo la sonnolenta politica estiva capitolina. «Un piano così gigantesco non lo ha mai realizzato nessuno al mondo: costerebbe uno sproposito e non eliminerebbe il degrado», taglia corto l´urbanista Paolo Berdini, ricordando che non è proprio uno scherzetto abbattere un quartiere con 35mila residenti che sopravvivono nelle case popolari: «Praticamente una città come Velletri, ma senza servizi sociali e senza manutenzioni».

«Una boutade estiva e un´inutile propaganda», la bolla il centrosinistra ricordando che, nonostante le promesse elettorali di abbattere e ricostruire Corviale - un serpentone di degrado assoluto con 1.200 appartamenti - «a metà del suo mandato il sindaco non ha demolito e ricostruito un solo metro cubo». «Prima che ci riesca, i romani abbatteranno lui alle elezioni», chiosa Massimiliano Valeriani (Pd). E a sentire gli abitanti di Tor Bella Monaca sembrerebbe proprio così: «Qui non ci manca niente, abbiamo anche l´orto. Tutta Roma ci invidia» si fermano a dire Veronica e Perla, mentre con la spesa rientrano a casa passando nei lunghi camminamenti del retro delle "torri": la prima indossa un ciondolo d´oro con la croce celtica, la seconda una maglietta con la faccia del duce stampata sopra. «Certo, poi ci sono molti problemi» dice Perla agitando la mano avanti e indietro come un rapper newyorkese. «Per esempio la sporcizia: venisse a pulire Alemanno, invece di pensare a buttare giù le nostre case».

Sull´idea di Alemanno sono intervenuti in tantissimi: «Se una decisione del genere dovesse essere presa per un mero fatto estetico» ragiona il critico e scrittore Alberto Asor Rosa «tre quarti della Roma post bellica dovrebbe essere abbattuti». C´è anche chi plaude trovando la «proposta coraggiosa e all´altezza delle problematiche della zona» come ha detto Michele Placido, l´attore che ha legato il proprio nome alla conduzione artistica del Teatro Tor Bella Monaca. Anche l´architetto Paolo Portoghesi ha "benedetto" l´idea del sindaco spiegando che si era «partiti dall´idea di un quartiere modello: è diventato un ghetto senza vitalità. Si capisce che dietro l´idea di Alemanno c´è la scelta di imboccare la strada per cambiare la città senza commettere gli errori del passato».

E Alemanno, intanto, rilancia: «Chi parla di una boutade estiva si sbaglia: a fine ottobre presenteremo un masterplan della zona e faremo un referendum con i residenti. Il costo? Puntiamo a edificare le aree circostanti con premi di cubature da dare ai costruttori, senza esborsi per il Comune». «I conti non tornano - replica Berdini - i residenti in eccesso dove pensa di trasferirli, in una città con diecimila famiglie in occupazione abusiva?».

Corriere della Sera

Cittadini ostaggio di periferie malate

di Giangiacomo Schiavi

Ci sono posti che diventano frontiere dell’invivibilità. Milano, quartiere Corvetto: vigili accerchiati e aggrediti da giovani teppisti. Roma, Tor Bella Monaca: porto franco di illegalità. Ma i casi aumentano ogni giorno anche ai margini di altre città, dove con il degrado cresce la paura dei cittadini onesti. E se abbattessimo le periferie?, ha proposto il sindaco di Roma, Alemanno, annunciando un progetto per tirar giù le torri ghetto di Tor Bella Monaca. Tra boutade estive ed emergenze vere, con la bagarre politica si riapre la questione sicurezza. Ma non basta dire «rottamiamo i ghetti invivibili» per uscire dall’emergenza che penalizza gli abitanti dei quartieri difficili, dove rimbomba periodicamente la parola «coprifuoco» e dove la presenza delle forze dell’ordine è considerata prioritaria per garantire la vivibilità. Tor Bella Monaca, a Roma, è un’enclave malata dove i problemi irrisolti si sono accumulati negli anni insieme alle risse, allo spaccio, alle aggressioni, alle occupazioni abusive e dove gli interventi di recupero sono risultati fallimentari per l’incapacità di portare nel quartiere servizi, cultura, assistenza sociale e creare quel mix abitativo in grado di rompere l’omertà collusa sulla quale prospera l’illegalità.

È così anche a Milano, nelle zone rosse dell’emergenza abitativa, dentro gli osceni tuguri del quartiere Stadera, nell’isola della droga di via Capuana a Quarto Oggiaro, o nelle vie perdute del Corvetto, dove gli appartamenti si occupano con il passaparola mentre l’anziana titolare va in ferie, e guai a chi sgarra o denuncia, perché si bruciano le auto come niente o compaiono subito scritte minacciose sulle porte.

È da questi spazi privati di una vera socialità, in qualche caso ridotti a squallidi dormitori dall’immigrazione clandestina, che bisogna partire per chiudere la ferita aperta delle nostre periferie. Abbattere è stata una parola tabù fino a pochi anni fa, ma in certi casi oggi la richiesta la fanno le stesse Aler: i costi per rimettere a nuovo i grattacieli coi muri sgangherati e cadenti sono più alti di una ricostruzione vera e propria. Tanto varrebbe buttar giù qualche muro, cancellando così anche la vergogna dell’urbanistica sbagliata degli anni Sessanta.

Ma queste operazioni, sicuramente vantaggiose per l’edilizia e per l’estetica, necessitano di qualcosa d’altro per restituire una dignità abitativa e un’anima ai quartieri, per dare a chi ci vive onestamente la sensazione di non essere figli di un dio minore: servono negozi, scuole, asili, centri culturali, più controlli e più vigili. La parola rottamare porta con sé l’idea negativa dell’inutilità: meglio sarebbe dire salvare. Per dare davvero una mano ai cittadini che, a Roma come a Milano, chiedono di essere ascoltati e aiutati.

Corriere della Sera

«Tor Bella Monaca sarà rasa al suolo»

di Paolo Foschi

ROMA — «È solo demagogia, è il solito annuncio che non avrà alcun seguito», urlano dal centrosinistra. «No, è un progetto vero e presto lo presenteremo», replicano dal Pdl. Dopo le polemiche per la tassa sui cortei, accende il dibattito politico anche la nuova proposta di Gianni Alemanno: radere al suolo e ricostruire il quartiere degradato di Tor Bella Monaca, periferia est della Capitale.

Il sindaco anche stavolta ha lanciato l’idea dal palco della manifestazione estiva Cortina Incontra. Lo ha fatto domenica sera in pillole, annunciando solo a grandi linee il piano. E ieri ha dettato un primo embrionale cronoprogramma: «Non è una boutade estiva, ci stiamo lavorando da mesi e a ottobre presenteremo il master plan agli abitanti. Non è una questione estetica ma funzionale, in quella case piove dentro. E noi non vogliamo cacciare i residenti, ma spostarli in appartamenti di qualità. Penso a una città-giardino sul modello della Garbatella». Nel piano del sindaco invece non c’è la demolizione del serpentone di «Corviale, quello è un discorso diverso».

Due architetti di calibro, e cioè Paolo Portoghesi e Massimiliano Fuksas hanno espresso già parere favorevole, anche se condizionato. «Non vale la logica della tabula rasa - ha detto Fuksas - ma bisogna lavorare con cesello e attenzione. Abbattere alcune zone, riqualificarne altre». E Portoghesi: «È una buona iniziativa, ma poi bisogna ricostruire con qualità». Resta l’incognita dei fondi: il bilancio del Campidoglio è in profondo rosso. E il centrosinistra affonda il coltello nella piaga: «Sono progetti velleitari, la giunta Alemanno non è riuscita a realizzare un solo metro cubo di nuovi alloggi popolari», ha sottolineato Roberto Morassut, assessore all’Urbanistica ai tempi di Walter Veltroni sindaco. E dal Pd ricordano che «appena eletto Alemanno voleva spostare la teca di Meier dell’Ara Pacis a Tor Bella Monaca, ora vuole radere al suolo il quartiere. Il prossimo anno che cosa proporrà?». Stefano Pedica, segretario regionale dell’Idv, rincara la dose: «Parole, parole, parole. Dove sono i 6 mila nuovi alloggi popolari promessi in campagna elettorale?». Fra i contrari c’è anche i l critico e scritto Asor Rosa, ex dirigente del Pci: «La proposta andrebbe commentata con una risata. Perché allora andrebbero abbattuti 3 quarti della Roma post bellica. Anziché abbattere Tor Bella Monaca, il comune investa sui servizi . . . » . Rosa Russo Iervolino, sindaco di Napoli, ha invece espresso parere favorevole.

Nel centrodestra, molti i sostenitori. «Idea realizzabile e concreta», ha sintetizzato Francesco Giro, sottosegretario ai Beni culturali. Secondo Vittorio Sgarbi, «Alemanno ha ragione, ma la sua proposta rischia di restare simbolica e senza conseguenze pratiche». Vena polemica invece nelle parole di Teodoro Buontempo, assessore regionale alla casa nella giunta Polverini: «Bene, a patto che non sia solo un proclama di Ferragosto».

Corriere della Sera

Spaccio e pestaggi Il quartiere milanese dei ragazzi gangster

di Gianni Santucci

MILANO — «Se qua si mettesse una targa per ogni balordata, ormai non ci sarebbe più spazio sui muri», sorride a mezza bocca un anziano, si gira da una parte e dell’altra, poi indica e mormora: «In quest’angolo hanno massacrato una brava persona, un uomo che s’era solo lamentato per un motorino sul marciapiede». Quell’uomo aveva 52 anni, s’è fatto un mese in rianimazione e, quattro anni dopo, porta ancora addosso i danni di quel pestaggio. L’ultima targa della memoria nera del Corvetto starebbe venti metri più giù, al centro del quartiere, dove sabato sera un maghrebino s’è ritrovato con la faccia spappolata dai calci per aver oltrepassato la linea che segna spazi, regole e comportamenti dello spaccio. Si gira l’angolo e nell’altra strada, dopo la rissa dell’altra sera, un vigile è stato circondato e assalito da una ventina di persone del quartiere, che hanno «liberato» un arrestato. Ieri gli agenti sono tornati in cinquanta, in borghese, e hanno arrestato due di quelli che hanno partecipato alla rivolta. Erano rimasti nelle loro strade, all’estrema periferia Sudest di Milano. Qui dove i ragazzi che vogliono fare i gangster urlano «Corvetto comanda» (l’hanno fatto anche sabato, mentre «salvavano» il loro compagno dalle manette).

È tutto in una manciata di strade e nemmeno un chilometro quadrato d’asfalto, il Corvetto. Con una memoria criminale stratificata da decenni. Uno dei pochi posti della città dove si reagisce ai controlli e alle forze dell’ordine. Uno dei ragazzi arrestati ieri ha 25 anni, precedenti per rissa, spaccio, rapina; era agli arresti domiciliari ma sabato sera è uscito comunque a picchiare il vigile; ieri pomeriggio gli investigatori l’hanno trovato ancora in strada. Quando li ha visti s’è messo a scappare; quando l’hanno preso l’ha fissati e è rimasto muto (è in carcere anche per l’evasione). L’altro arrestato è ancora più giovane, 22 anni. Un minorenne è stato identificato e denunciato. C’era bisogno di dare una risposta immediata all’aggressione e ora il sindaco, Letizia Moratti, dice: «A Milano non ci sono zone franche».

Sembrano una sequenza di freddi dettagli di cronaca, le storie del Corvetto, ma dicono qualcosa in più: raccontano che negli ultimi quattro anni, in questo quartiere, è cresciuta una generazione di ragazzini che ha avuto il suo «battesimo del fuoco» assaltando nel 2006 il comando di zona della polizia locale. E che poi, mese dopo mese, ha picchiato, spacciato, sparato. Il Corvetto è chiuso in una ventina di strade che in pomeriggio d’agosto si percorrono a piedi in un paio d’ore e restituiscono la memoria di una violenza quotidiana: il disabile massacrato con la sua stampella in piazza Gabriele Rosa perché s’era lamentato dopo che avevano investito il suo cane; una pistola e un fucile a pompa scaricati contro un addetto alla sicurezza di una discoteca che aveva rifiutato l’ingresso nel privé (in via Fabio Massimo); gli otto motorini bruciati all’inizio di corso Lodi l’anno scorso come sfregio ai rivali di spaccio, i maghrebini di piazza Ferrara, che è a 500 metri di distanza. È anche il quartiere del «coprifuoco», dove dall’inizio di agosto un’ordinanza del Comune ha ridotto gli orari d’apertura di bar, kebab, centri massaggi: «Non risolverà tutto — spiega il vice sindaco, Riccardo De Corato — ma il nuovo provvedimento porta più presenza e attenzione su alcuni punti critici della zona. Le istituzioni devono lavorare insieme e oggi dobbiamo ringraziare la Procura che ha dedicato un magistrato alle pratiche per sequestrare le case affittate in nero a decine di immigrati clandestini». Come succede in un intero palazzo di via Bessarione, dove si dorme a turni, di giorno e di notte.

La storia criminale del Corvetto è ormai un palinsesto di livelli sovrapposti e rappresenta in qualche modo l’evoluzione della malavita al Nord. Questo quartiere, dagli anni Settanta, è stato un feudo dei clan della mafia siciliana. All’epoca, in via Romilli, per coprire i traffici di droga aveva aperto un negozio di tessuti Gaetano Fidanzati, che a Milano è stato arrestato lo scorso dicembre (era considerato l’ultimo grande vecchio di Cosa Nostra in libertà). Proprio intorno al Corvetto, poco prima dell’arresto, erano arrivati a cercarlo con una serie di blitz i carabinieri di Palermo. I vecchi clan hanno però abbandonato da anni il controllo del territorio, e la violenza di oggi sembra più sporca e più gratuita.

La notte scorsa le pattuglie dei vigili sono tornate in strada per i controlli, c’era anche il comandante della polizia locale, Tullio Mastrangelo: «Stiamo lavorando — dice — per arrivare a identificare l’intero gruppo della rivolta». I controlli stradali servono più che altrove, al Corvetto, perché il quartiere è una delle centrali di smistamento di auto e moto rubate in tutta Milano (gli italiani lavorano con i clan zingari). Nel 2006 fu proprio il sequestro di alcuni motorini a scatenare la banda del Corvetto in un pomeriggio di guerriglia. Con la violenza dicevano : « Qui c o mandi a mo noi». Alcuni di quei ragazzi allora erano minorenni, altri non furono processati perché c’era l’indulto. In questi quattro anni stanno finendo in carcere uno dopo l’altro.

La Stampa

Demolire Tor Bella Monaca

di Flavia Amabile

Forse era una provocazione ferragostana,o forse no, e l’idea di Gianni Alemanno è davvero destinata a cambiare un pezzo di Roma. «Tor Bella Monaca va demolita, rasa al suolo». L’aveva definita «una cisti urbana» e spiegato che «è necessario demolire e ricostruire ampie aree della città, recuperando anche terreno urbano». La platea ascoltava, piuttosto stupita. In molti avevano pensato ad un’esagerazione, alla voglia di catturare un titolo sui giornali.

In realtà ieri Alemanno ha confermato ogni parola e aggiunto anche qualche dettaglio annunciando un master plan e un referendum: «Sbaglia chi pensa che sia una boutade estiva: a fine ottobre presenteremo un master plan della zona e faremo un confronto diretto con i residenti, anche con un referendum, perchè vogliamo attuare una urbanistica partecipata e non calata dall’alto».

Se urbanistica partecipata deve essere, allora l’idea è già morta perché gli abitanti di Tor Bella Monaca non hanno mostrato molto entusiasmo all’idea di veder distrutte le loro case. «Invece di pensare a queste cavolate spenda i soldi per costruire dei centri a buon mercato per le famiglie che non se lo possono permettere, in modo che i ragazzi possano andare tranquillamente a fare attività sportiva e toglierli così dalla strada». E, un altro: «È tutta una speculazione per poter lavorare, prendere appalti, subappalti, sub subappalti, e i poveri disgraziati vivono sempre come vivono». Oppure: «Quando è venuto qui a prendere voti non doveva radere al suolo Tor Bella Monaca!»

Alemanno vorrebbe abbattere le torri e alcuni dei lunghi palazzi orizzontali del quartiere, e poi ricostruire non con i grattacieli ma sulla falsa riga della città giardino, modello Garbatella. «I grattacieli servono - spiega - per realizzare servizi e non residenze. Lo schema edilizio verticale è fallito. Penso per Tor Bella Monaca a case come quelle della Garbatella», cioè basse e con ampi spazi verdi.

Questione di estetica, certo, ma non solo, tiene a precisare Alemanno. «Nelle case di Tor Bella Monica ci piove dentro, la qualità di vità dei cittadini è pessima perchè spesso si tratta di prefabbricati spinti, e tra una lastra e l’altra ci sono crepe ed infiltrazioni. Forse Asor Rosa questo aspetto non lo conosce».

È stato anche affrontato il versante economico: «Puntiamo ad edificare le aree circostanti con premi di cubature da dare ai costruttori, quindi senza esborsi per l’amministrazione comunale». Diversa per il sindaco la situazione dell’altro quartiere periferico di Corviale. «Non c’è un problema funzionale, non piove dentro le case. C’è un problema di organizzazione bisogna abolire il condominio unico e crearne diversi, puntare sui servizi. Su questo sono d’accordo con Asor Rosa, non si può abbattere soltanto per un pregiudizio estetico».

Si parlava di un progetto urbanistico, di una proposta tecnica ma il mondo politico ha risposto secondo blocchi compatti e contrapposti come se già fosse in corso una pre-campagna elettorale. Il via libera govenativo arriva con Francesco Giro, Pdl, sottosegretario del ministero ai Beni Culturali.

Ma le voci a favore sono davvero tante, da Buontempo a Gramazio. E Massimiliano Lorenzotti, tessera del Pdl in tasca e presidente dell’VIII municipio, quello di Tor Bella Monaca, in totale disaccordo con i suoi amministrati, si augura che sia «un sogno che si possa realizzare» perché «Tor Bella Monaca è diventato un ghetto, un quartiere insicuro con sacche di microcriminalità, tanto che le persone per bene non riescono a viverci, non c’è più vita sociale. La manutenzione è poi difficilissima, perchè gli edifici sono vecchi e mal costruiti».

Ironia e condanna da parte dell’opposizione.«Con quali soldi fare una nuova Tor Bella Monaca?» Se lo chiede il senatore del Pd Roberto Di Giovan Paolo, segretario della Commissione affari europei e dirigente del Pd di Roma. Oppure Luigi Nieri, ex assessore alle periferie del Comune che ricorda il fascino degli sventramenti fascisti anche sulla maggioranza attuale.

ed ecco che cosa ne pensano alcuni architetti

Fra gli entusiasti innanzitutto Paolo Portoghesi che a Roma ha costruito la Moschea. «Un’ottima idea, auspicabile - commenta - Perchè Tor Bella Monaca è uno dei grandi fallimenti dell’urbanistica romana degli anni ’70/’80. Ormai è un ghetto senza vivibilità. e consuma energia in modo terribile perchè realizzato con modelli di prefabbricazione sbagliata. Costa meno abbatterlo e ricostruirlo che riqualificarlo».

Vittorio Sgarbi non è un architetto ma come esperto d’arte ha voluto dire la sua e chiesto un quartiere che sia «una seconda Eur».

Nessun architetto sosterrebbe che Tor Bella Monaca sia un capolavoro ma abbatterlo ad alcuni sembra un po’ troppo. E, senza rifiutare del tutto l’idea, propongono alternative.

Renato Nicolini, ad esempio, che quel quartiere l’ha trovato appena costruito quando è entrato nella giunta Petroselli. «Si deve seguire l’esempio francese e tedesco, costruendo sopra quello che esiste. La demolizione è impraticabile, il pubblico non ha soldi per pagarla». Per Nicolini, si può intervenire «con una finezza maggiore. Si recupera, si riqualifica, si costruisce, si trasforma. Quindi, si densifica creando spazi per la vita culturale e sociale. Ma sto parlando di un progetto da portare avanti con i privati, non con enti pubblici».

Anche Massimiliano Fuksas non è del tutto contrario. «Il quartiere di Tor Bella Monaca può essere in parte integrato, in parte abbattuto. C’è spazio per costruire nuove architetture con qualità ambientali e sociali, oltre che culturali. Fare tabula rasa è possibile, ma solo in alcune condizioni estreme. Negli altri casi, come ho verificato ad esempio durante un intervento a Marsiglia, in un grande quartiere sociale si può in alcuni casi diminuire la densità, in altri aumentarla, intervenire sull’esistente e anche abbattere gli edifici che non hanno nè qualità sociale nè qualità architettonica».

Andrea Bonessa, milanese, e idee molto diverse da quelle di Alemanno, dà ragione al sindaco di Roma. «Ma si deve avere coraggio fino in fondo e ricostruire senza più seguire la logica dei quartieri-dormitorio altrimenti è del tutto inutili abbattere».

Postilla

Non è una battuta estemporanea. Con la sortita di Alemanno si è aperta una questione seria. Ne vogliamo sottolineare due elementi.

1) La proposta di Alemanno riassume tutti i connotati della politica della destra neoliberista , a proposito di residenza, di città e di società. Si distruggono le immagini di una politica volta (dal Tiburtino III al Corviale) a realizzare il diritto alla casa e alla città. Si svuota la più avanzata pratica di intervento nell'edilizia residenziale, quella avviata con la legge 167/1962 che oggi i paesi dell'Europa evoluta stanno imitando. Si demolisce patrimonio pubblico per cedere le aree alla proprietà privata, che dovrà "subire" per qualche anno qualche prezzo convenzionato per poi entrare trionfalmente in possesso di una inaspettata rendita fondiaria. Si affronta in modo meramente represssivo una questione sociale, che solo l'incuria dei governanti di ieri e di oggi ha provocato e lasciato incancrenire. Si propaganda il modello edilizio più favorevole sia al consumo di suolo che al trionfo dell'individualismo sociale. Si sprecano risorse che per anni si sono negate alla manutenzione ordinaria e, quando occorre, straordinaria. Si favorisce un pugno di imprese edilizia che da decenni hanno abbandonato ogni spirito imprenditivo per tuffarsi a capofitto nella speculazione edilizia.

2) Le risposte, possibiliste o addirittura favorevoli, di alcuni autorevoli esponenti della cultura architettonica e urbanistica rivelano a loro volta il profondo degrado nel quale, nel nostro paese, quella cultura è precipitata negli ultimi anni. L'egemonia della destra neoliberista sull'intellettualità italiana, su cui ragionava Fausto Curi sul manifesto di qualche giorno fa, sta ricevendo altre conferme. Ma su questo bisognerà tornare, riprendendo questioni che già altre volte erano emerse a proposito di periferie e "casermoni", e degli "errori" che certamente negli anni 60 e 70 sono stati compiuti, ma che sono ben diversi da quelli che permeano il senso comune (e l'ideologia di destra).

E' vero che le statistiche sulla criminalità dicono che il fenomeno è in buona sostanza stabile. Ma sottovalutare la soglia di allarme sociale a cui siamo giunti sarebbe per la sinistra un errore devastante. E' infatti innegabile che la percezione di vivere in città e territori sempre meno sicuri ci coinvolge tutti e davvero non ce la possiamo cavare con un'alzata di spalle. La questione è seria e va affrontata con rigore, prima che le paure fomentate dalla destra riescano a scalfire un altro pezzo del sistema della convivenza civile. Ma con altrettanta chiarezza credo che vadano affrontate anche le cause strutturali del fenomeno. Senza questa analisi si rischia la deriva autoritaria: tutto, anche i writers o i lavavetri, diventa ordine pubblico. Se guardiamo invece allo stato delle nostre città, potremmo cogliere quelle contraddizioni che derivano dai modelli economici imposti dalla globalizzazione.

Sono due le principali caratteristiche della vita urbana. La prima è che si stanno espandendo in maniera impressionante. Siamo a ritmi simili a quelli degli anni '60 quando c'era il boom economico e una impetuosa crescita demografica. Oggi siamo a economia stagnante e popolazione ferma ai circa 60 milioni di residenti. E non si venga a dire che le città crescono per quei 3 milioni di immigrati che vivono in Italia! Crescono perché gli investitori finanziari internazionali operano ormai senza ogni regola. Si stanno realizzando centinaia di immensi centri commerciali in ogni città e nelle campagne. Si stanno costruendo dovunque giganteschi alberghi a beneficio dei pochi tour operators che guidano il miliardario mercato turistico globale. Si sta realizzando, infine, un'immensa villettopoli, visto che i prezzi delle abitazioni urbane sono inaccessibili.

L'altra caratteristica della fase di vita urbana è che di fronte a questa espansione urbana si vanno spegnendo uno a uno i luoghi pubblici che formavano i nodi della rete di relazioni sociali. A parte le poche di maggiore grandezza, tutte le stazioni ferroviarie sono senza presidio. Non c'è più personale perché la spesa pubblica è stata falcidiata. I capolinea del trasporto pubblico locale hanno subito lo stesso destino. E che dire della piccola rete commerciale delle periferie urbane che ha rappresentato uno dei rari elementi di socialità nelle nostre tristi periferie? Cancellate dall'apertura dei megastore di cui parlavamo prima.

Insomma le città crescono a dismisura mentre i presidi pubblici vengono chiusi uno dopo l'altro. Ecco il motivo strutturale dell'insicurezza. Il neoliberismo sta cancellando le città come le avevamo ereditate da una secolare tradizione, e cioè luoghi di relazioni economiche e sociali. Oggi tutto è ridotto al solo fattore economico.

Il dramma è che la parte maggioritaria della sinistra è ancora ubriacata dai miti del liberismo e non riesce più ad articolare nessun ragionamento. Non sarebbe difficile sbattere in faccia alla tracotanza securitaria di Alemanno che è proprio la loro concezione liberista ad aver costretto le pubbliche amministrazioni a chiudere servizi e luoghi pubblici. A rendere insomma più povere e insicure le nostre città. Qualche settimana fa sono morte cinque persone nella desolata periferia romana. Investite da un'automobile perché non c'era neppure un marciapiede. Tre delle vittime erano bambini che stavano andando a scuola. Il luogo della tragedia è lontano duecento metri da un gigantesco centro commerciale: si accendono le vetrine del consumo e si spengono città intere.

Allora, insieme alle doverose risposte in termini di prevenzione della criminalità diffusa, apriamo la stagione di un ripensamento della nostra condizione urbana. Ricominciamo a vedere il deserto che c'è nelle periferie. E' da lì che sono volati via milioni di consensi.

Una vampata di violenza, per alcuni giorni, ha investito la banlieue parigina. In modo più delimitato, rispetto a due anni fa, quando si era rapidamente propagata intorno a Parigi e in altre città francesi. Per molte settimane. Questa volta, invece, si è concentrata a Villiers-le-Bel. A Nord della capitale. Contagiando solo la vicina Saint-Denis, teatro di battaglia nel 2005. Inoltre, gli incidenti sembrano essere finiti abbastanza in fretta. Tuttavia, due notti di violenze hanno provocato, tra le forze di polizia, oltre 120 feriti, alcuni gravi. Ovvero: più o meno quanti in tre settimane di scontri due anni fa. Secondo il governo francese, si tratta di delinquenza giovanile organizzata, che ha “sfruttato” un episodio tragico (la morte di due ragazzi in moto, in seguito allo scontro con un’auto della polizia) per scatenare la guerriglia.

Insomma: racaille. Teppaglia, feccia… La definizione usata da Sarkozy, all’epoca degli scontri di due anni fa. Quand’era ministro degli Interni. Tuttavia, se si trattasse “solo” di delinquenza comune, un sistema di polizia efficiente, come quello francese, un Presidente determinato, come Sarkozy, avrebbero contrastato il ripetersi di esplosioni violente, in tempi tanto ravvicinati, negli stessi luoghi. A Villiers-le-Ville, Saint Denis e nella banlieue parigina. Dove comportamenti violenti si ripetono con disarmante e straordinaria regolarità. Se ciò non è avvenuto, probabilmente, è perché questa violenza non nasce nel vuoto. Rischiando la banalizzazione sociologica di alcune letture sociologiche (o sedicenti tali) degli anni Settanta: questa violenza è “anche” figlia del contesto in cui esplode. Banlieues degradate, ad alta concentrazione etnica. Strade e piazze difficili da attraversare, per chi non vive nella zona. (E anche per chi ci vive).Tassi di disoccupazione giovanile elevati. Relazioni intergenerazionali difficili. Genitori che non riescono più a esercitare l’antica autorità sui figli. Un’architettura che denuncia “estraneità”. Dello Stato, delle istituzioni. Questi quartieri, queste città periferiche “producono” tipi sociali violenti e marginali. Un Paese, come la Francia, ostile alla sola idea di “comunitarismo”, intesa come modello di integrazione fondato sulla comune appartenenza religiosa, nazionale, etnica, oggi affronta una situazione peggiore. Alla periferia delle città e nelle città periferiche, emerge, infatti, un “comunitarismo” senza “comunità”. Favorito da “aggregati etnici” (non previsti) che hanno perduto i legami (e le capacità di controllo) di una comunità.

Se pensiamo a noi, è forte la tentazione di chiamarsi fuori. Non siamo la Francia. L’Italia è una terra di città piccole e medie. Con rare eccezioni. Un “Paese di compaesani”, come l’ha definito il sociologo Paolo Segatti. Che ancora non si è rassegnato al flusso, massiccio, degli “stranieri”. E vorrebbe lasciarli fuori. Alle porte della città. Come a Cittadella e in altri comuni veneti, dove, per scoraggiare il flusso dei poveracci, i sindaci hanno emesso un’ordinanza che vincola la concessione agli stranieri della residenza ad alcuni requisiti. Fra cui un reddito minimo intorno ai 500 euro mensili. (Se applicato ai residenti, produrrebbe l’espulsione di numerosi pensionati).

L’Italia non è la Francia. Ma si sta avviando lungo un cammino altrettanto rischioso. Perché si sta trasformando, in modo inconsapevole, in una periferia infinita. Che produce sradicamento, indebolisce il controllo sociale, non contrasta la diffusione di comportamenti violenti.

Nelle nostre metropoli, d’altronde, emergono, da tempo, lacerazioni visibili. A Milano. La “rivolta” del quartiere cinese. Il moltiplicarsi di episodi di ordinaria violenza, nelle periferie, che hanno indotto la sindaca Moratti a promuovere una marcia popolare, per rivendicare maggiore attenzione dal governo. (Come se, durante gli anni precedenti, quando essa stessa sedeva al governo, il problema non esistesse).

A Roma. Dove alcuni eventi drammatici (ultimo: la tragica aggressione di una donna, a opera di un rom) hanno fatto esplodere il malessere delle zone suburbane. Ulteriormente degradate a causa del flusso costante di nuovi immigrati dall’est europeo. Ammassati in baracche provvisorie.

A Napoli. Dove la lunga scia di violenza è, riduttivamente, ricondotta alla “camorra”. Mentre riassume i percorsi di “normale devianza”, che attraversano alcuni quartieri marginali. Come Scampia: raccontata, con rara efficacia, da Roberto Saviano insieme ad altri autori, in un libro antecedente al fortunatissimo “Gomorra” (“Napoli comincia a Scampia”, L’Ancora del Mediterraneo, 2005).

Ma segnali di decomposizione si avvertono anche – soprattutto - nell’Italia minore. Nella provincia “dove si vive bene”. Non è un caso che la “crescita della criminalità” sia avvertita soprattutto nelle regioni del Centro (62%; media nazionale 51%: indagine Demos per UniPolis, novembre 2007) e nei comuni medio-piccoli (56%). Indipendentemente dall’effettivo andamento del fenomeno (che le statistiche considerano in calo). Il fatto è che molti, troppi borghi, molte, troppe piccole città si stanno svuotando. Ridotte a grandi supermarket. Parchi giochi. Musei. Oppure, come abbiamo osservato qualche settimana fa, in “cittadelle universitarie”. Abitate da - anzi, affittate a - studenti. Mentre gli abitanti si sono trasferiti all’esterno. Creando periferie ricche. Ma pur sempre periferie. Aggregati senza centro. Con scarse relazioni. Cariche di edifici affollati. Oppure costellate da villette pregevoli e cascinali ristrutturati. Una umanità che perde l’abitudine alle relazioni; e il “controllo” sul territorio. Il Nord “padano” e “pedemontano”, da parte sua, questa strada l’ha già intrapresa da tempo. E’ divenuto una metropoli inconsapevole. Che incorpora una miriade di piccoli comuni. Perduti in un viluppo di strade, punteggiato di rotonde impossibili da attraversare a piedi; mentre chi passa in bici corre un rischio mortale. Anche perché, in Italia, il tasso di automobili è il più alto d’Europa: quasi 6 ogni 10 abitanti. La provincia tranquilla e quieta del Nord. Una galassia puntiforme. Una specie di Los Angeles involontaria. Dove maturano piccoli omicidi, inattesi e feroci. Dove la “comunità” ha perso ogni controllo sulla società e sulle persone. Perché si è decomposta. Né possono surrogarla pallide caricature, come le “ronde” padane. Riescono solamente ad accrescerne la nostalgia.

Difficile riconoscere il paesaggio intorno a noi. E’ cambiato troppo in troppo poco tempo. Edificato, impersonale e desocializzato. Dove, per rispondere al malessere che si respira, le persone si chiudono dentro casa. E gli amministratori erigono nuove mura, visibili e invisibili, intorno alle città. Ma anche dentro alle città.

Incapaci di “riconoscere” i problemi, ma anche i propri meriti. Preferendo negarli, per opportunismo. Pensiamo, ad esempio, alle città del Nordest. Le aree che, come dimostrano le statistiche della Caritas e del Cnel, garantiscono livelli di integrazione degli immigrati fra i più elevati in Italia. Ebbene, preferiscono negarlo. Si presentano per quel che “non” sono: inospitali. E rifiutano, anzitutto, di proporsi come un “buon modello” di accoglienza. Fondato sul lavoro, sull’offerta di servizi, espressa dalle associazioni del mondo economico e dal volontariato. Meglio immaginare il Nord Est come il Far West degli sceriffi. Pronti a spingere la racaille fuori dalle mura della “cittadella” assediata.

E vero, non siamo la Francia, dove le banlieues critiche si concentrano intorno ad alcune metropoli. Nell’Italia del nostro tempo, invece, la periferia dilaga ovunque. Come una metastasi. Alimentata da logiche immobiliari e immobiliariste; da mille paure. Che la politica si limita a inseguire e ad assecondare. La nostra banlieue infinita non ha un aspetto cupo. Piuttosto: “grigio”. Un reticolo di quartieri residenziali. Cresciuti, in modo disordinato, intorno a un “centro storico”, bello e inabitato. La nostra periferia infinita. Non trasmette identità. Non promuove relazioni. Non comunica regole. Non plasma uno spirito “estetico”, tanto meno “etico”. Al più: un individuo “mimetico”. E insicuro.

«QUARTIERI-GHETTO», «quartieri sensibili» o altri «quartieri d’esilio» sono, da una ventina d’anni, oggetto di articoli allarmistici o sensazionalistici (1). Ma è solo questa la cosa su cui dobbiamo riflettere e preoccuparci? Perché queste categorie territoriali, che emergono in Francia dagli anni 1985-95, non sono un semplice «riflesso», per quanto deformato, della realtà sociale; non si tratta soltanto di esagerazione o di menzogne. È in gioco anche e soprattutto una nuova maniera di guardare alla povertà urbana e di riflettere su di essa che, paradossalmente, insistendo sulla gravità del «problema», ha come caratteristica principale quella di occultare l’origine della dominazione sociale, economica o razzista.

Come si è arrivati a questo punto?

Per capirlo, conviene distogliere lo sguardo – almeno per un momento – da quegli eterni oggetti d’indagine, i «quartieri sensibili» e i loro abitanti, per interessarsi al modo in cui il «problema delle periferie» è stato definito negli anni 1985-1995. È a quell’epoca infatti che una nuova politica pubblica è stata messa in atto in 500 quartieri di edilizia popolare. Questa focalizzazione ha avuto un doppio effetto. I dispositivi della cosiddetta politica «della città» hanno permesso di rinnovare numerose zone della parte vecchia della città ( cité), offrendo un sostegno messo in campo a livello locale da professionisti dello sviluppo sociale. Nello stesso tempo, i finanziamenti supplementari ottenuti e spesi non hanno mai preso la forma di una ridistribuzione sociale e spaziale delle ricchezze, suscettibile di arginare il fossato delle disuguaglianze economiche.

Malgrado i numerosi appelli al «piano Marshall per le periferie», i finanziamenti sono stati limitati. D’altra parte, dei tagli severi erano nello stesso tempo stati inflitti alle politiche sociali in materia di educazione o di sanità, in quegli stessi quartieri popolari.

Inoltre, la focalizzazione sui «quartieri sensibili» non riguarda che determinati aspetti. La diagnosi sulla quale si è appoggiata la politica della città non si è limitata al fabbricato; la riabilitazione dei vecchi quartieri degradati è stata condotta sulla base di una nuova parola d’ordine: la partecipazione degli abitanti. Per iniziativa degli attori locali, si sono allora sviluppate riunioni di concertazione sulla riabilitazione delle cité, picnic collettivi e consigli di quartiere in cui questi abitanti dovrebbero porre le loro domande perché vengano più ascoltate.

Simili procedure sono necessarie.

Ma, mentre si insisteva su questo, passavano in secondo piano realtà economiche, come la disoccupazione, che gli abitanti di quei quartieri, per buona parte operai e/o immigrati, subiscono in pieno. I «quartieri» hanno attirato l’attenzione dei poteri pubblici, ma al prezzo di un altro riposizionamento delle «difficoltà». Le griglie territoriali, che sono state massicciamente utilizzate per ripensare la povertà, hanno giocato un ruolo paradossale, funzionando come eufemismi per designare gli abitanti non più in riferimento allo status sociale, ma in funzione della loro «origine» nazionale, culturale o «etnica ». Questa etnicizzazione della questione sociale (che affonda le radici molto indietro nella politica della città) ha avuto l’effetto di presentare le cosiddette origini «etniche» come problemi – cioè come minacce – per la società, e non come problemi per le persone vittime di razzismo.

«Cittadinanza», «partecipazione degli abitanti», «progetti», «valorizzazione della «prossimità« e del «locale », «trasversalità» e «concertazione» tra «partner»: è difficile interrogarsi su queste parole d’ordine tanto sono diventate familiari. L’indagine è tanto più difficile in quanto quel vocabolario ci sembra ormai umanista e progressista, in un contesto politico in cui la retorica dell’insicurezza, della «feccia» e delle «zone senza diritto» è prevalente.

Eppure, la partecipazione degli abitanti, quando è diventata la panacea per curare il «male delle periferie», è stata definita in maniera singolarmente restrittiva: occultamento delle condizioni di vita materiali in favore del «dialogo » e della «comunicazione»; psicologizzazione e dunque depoliticizzazione dei problemi sociali, alimentate da una rappresentazione del quartiere come spazio neutro e pacificatore; valorizzazione della buona volontà individuale così come delle soluzioni modeste e puntuali, svalorizzazione concomitante della conflittualità e delle rivendicazioni troppo «politiche».

Una serie di libri e di manuali destinati ai nuovi professionisti dello sviluppo sociale spiegano per esempio come trasformare le «rivendicazioni in proposte », le «domande di assistenza in progetto di sviluppo» e, soprattutto, secondo la formula consacrata dall’uso, come insegnare agli abitanti a «pescare il pesce » piuttosto che riceverlo. Si vede così in che modo la politica della città ha partecipato alla ridefinizione delle politiche sociali come interventi individualizzanti e «responsabilizzanti», intimando agli abitanti di «prendere in mano» le trasformazioni necessarie.

Inoltre, la svolta repressiva che ha luogo a partire del 1997 ha un rapporto con la maniera in cui è stato definito il problema dei quartieri dal 1985 al ’95. Poggia sulle stesse categorie territoriali e apparirà tanto più legittima in quanto, già da dieci anni, la povertà viene presentata come una questione innanzitutto psicologica e locale, e che gli individui che la subiscono sono invitati a riformare se stessi piuttosto che puntare il dito sui meccanismi strutturali che li condizionano.

La storia di questa depoliticizzazione presenta tuttavia degli aspetti sorprendenti. Affonda infatti le sue radici in un forte movimento di protesta. Durante gli anni ‘60, urbanisti, lavoratori sociali, militanti e ricercatori hanno denunciato l’approccio autoritario e tecnocratico dello stato pianificatore per promuovere, in nome del «quadro di vita», un’azione definita «globale» di riabilitazione delle cité, che coinvolgesse le collettività locali, e funzionasse sulla base di una maggiore concertazione con gli abitanti. Un movimento particolarmente importante si è sviluppato, in Francia come in altri paesi europei o americani, contro l’urbanismo delle torri, delle barre e delle autostrade, e contro le operazioni brutali di rinnovamento nel centro città. I principi fondanti delle politiche della casa dal dopo guerra (la pianificazione urbana e l’affermazione dello stato, rappresentante e promotore dell’interesse generale) subiscono negli anni ’70 una carica supplementare, anche se l’ispirazione ideologica è tutt’altra, con l’avanzata dei dogmi neoliberisti.

La crisi profonda che ne segue apre allora la strada ad altri modi di fare e di pensare i problemi urbani. La politica della città è il risultato di questi movimenti riformatori, ma le sue manifestazioni concrete si comprendono solo in rapporto al contesto in cui essa s’è istituzionalizzata. Negli anni ’80, la sinistra al potere si decise a compiere la svolta detta «del rigore».

Provenienti, per la maggior parte, dall’ambiente dell’associazionismo e del parapubblico, ma anche da tutto il movimento critico e contestatore del dopo- maggio ’68, i promotori dello sviluppo sociale dei quartieri occupano posizioni marginali nell’amministrazione. La politica della città, per la quale cercheranno di consolidare le esperienze condotte nei quartieri a insediamento sociale, offre loro una riclassificazione professionale e un luogo di riconversione militante (2).

Ma questo è possibile solo a prezzo dell’adesione al reinquadramento di bilancio e alla ridefinizione delle politiche sociali, concepite ormai non più come politiche di ridistribuzione ma come la messa in campo locale e minimale di una rete di sicurezza per i meno favoriti.

Il termine «quartiere», prima «di habitat sociale», poi «in difficoltà» e infine «sensibile», si carica di connotazioni negative: si descrivono questi territori come zone che hanno più bisogno dell’intervento di terapeuti che dello sviluppo di un’azione autonoma. In modo che la dimensione di protesta, molto presente nell’appello alla mobilitazione degli abitanti, si eclissa per far posto a un’azione pubblica razionalizzata, con produzioni statistiche e sviluppo di un nuovo settore professionale: lo sviluppo sociale urbano.

Non soltanto gli attori della politica della città si sottomettono a questo nuovo quadro politico, ma alcuni di loro, desiderosi di riformare lo stato e non soltanto i quartieri disagiati, adotteranno in egual musura la tematica della «modernizzazione dei servizi pubblici» che, nelle versioni liberali dominanti, si riduce spesso a un semplice arretramento (3). Si vedono così degli ex militanti (provenienti dal movimento maoista, per esempio) mostrare una diffidenza crescente verso gli abitanti accusati di compiacersi dell’assistenzialismo, e soprattutto verso lo stato in quanto tale, sospettato di incoraggiare questo assistenzialismo e di non generare che disfunzioni e rigidità.

Oltre le traiettorie dei promotori di un’azione sui «quartieri» e le scelte della sinistra governativa, gli intellettuali hanno giocato un ruolo-chiave. Nelle università come nei ministeri, la questione delle periferie genera una vasta produzione letteraria, che non si limita a un’analisi dei problemi sociali ed economici. Diversi intellettuali hanno maturato l’idea che quei territori segnino o incarnino l’avvento di una nuova questione sociale.

Ora, questa griglia interpretativa, ripresa dai media e utilizzata dagli attori della politica della città, postula che i problemi sociali mettano ormai in gioco degli «esclusi» e degli «inclusi» e siano unicamente legate alla città. Un certo numero di lavori, strettamente connessi al concetto di esclusione, sono perciò venuti a legittimare l’arretramento delle questioni legate al lavoro. Queste ultime apparterrebbero a un periodo che si vorrebbe passato, e bisognerebbe adesso rivolgersi verso le periferie, territori percepiti come «tagliati fuori» o «relegati», e venire in aiuto a delle popolazioni descritte come «dimenticate» e non più «sfruttate» o «dominate» (4).

Ultimo elemento-chiave: l’atteggiamento dei municipi, in primo luogo quelli gestiti dalla sinistra, in cui si trova la maggior parte dei quartieri d’habitat sociale. Dalla fine degli anni ’80, questi municipi hanno adottato la tematica dell’«esclusione» nei «quartieri » e ne hanno ratificato la dimensione spoliticizzante. La politica della città ha conferito credito e, soprattutto è apparsa all’inizo degli anni ’90 come portatrice di soluzioni nuove per inquadrare la gioventù degli strati popolari (evitando così le «rivolte»). Ben più a lungo, la «democrazia locale» ha suscitato la speranza di colmare il fossato che si è aperto tra la classe politica e i cittadini, segnatamente quelli delle classi popolari (5).

La «spazializzazione dei problemi sociali» (6) ha per effetto quello di rendere invisibile tutto quello che la situazione dei quartieri più poveri deve a quel che succede negli altri universi, come i «bei quartieri», meno mediatizzati ma altrettanto chiusi, o ancora il mondo del lavoro in cui si disfa e si ricompone la «condizione operaia» (7).

Ma bisogna insistere sulle battaglie simboliche dagli effetti decisivi che si giocano nei ministeri, gli uffici degli esperti, i media... e anche presso gli intellettuali, e il cui esito da diversi decenni porta a far dimenticare l’impatto delle politiche macroeconomiche, la rimessa in causa della funzione ridistritutrice e protettrice dello stato sociale, o ancora l’ampiezza e l’impunità delle sue discriminazioni.

(1) Loïc Wacquant, Parias urbains. Ghetto. Banlieues. Etat, La Découverte, Parigi, 2006.

(2) Cfr. Reconversions militantes, Presses universitaires de Limoges, 2006.

(3) Yasmine Siblot, Faire valoir ses droits au quotidien. Les services publics dans les quartiers populaires, Presses de Sciences Po, Parigi, 2006.

(4) François Dubet e Didier Lapeyronnie, Les Quartiers d’exil, Seuil, Parigi, 1992.

(5) Michel Koebel, Le Pouvoir local ou la démocratie improbable, Editions du Croquant, Bellecombe-en-Bauges, 2006.

(6) Sylvie Tissot et Franck Poupeau, «La spatialisation des problèmes sociaux », Actes de larecherche en sciences sociales, n. 159, Parigi, settembre 2005, p. 5-9.

(7) Michel Pinçon e Monique Pinçon-Charlot, Grandes Fortunes. Dynasties familiales etformes de richesse en France, Payot, Parigi, 2006 ; Stéphane Beaud e Michel Pialoux, Retour sur la condition ouvrière. Enquêteaux usines Peugeot de Sochaux, Fayard, Parigi, 2005.

(Traduzione di E.G.)

Nota: Sylvie Tissot è ricercatrice in scienze sociali all’università Marc Bloch di Strasburgo, autrice di L’Etatet les Quartiers. Genèse d’une catégorie del’action publique, Seuil, Parigi, 2007; un percorso del tutto divergente da quello descritto è quello antagonista che conduce ad esempio ai centri sociali autogestiti italiani in quanto Conflitti emergenti dal territorio così come descritto in questo saggio deli anni '70 (f.b.)

(* ) vedi in fondo

Incontriamo J.Donzelot a Roma, in occasione di un suo viaggio italiano che lo ha portato all’Università di Roma Tre per una conferenza sul futuro delle politiche pubbliche contro la marginalità urbana, ed a Bari per un convegno nazionale della Cgil sulle periferie urbane del nostro Mezzogiorno. Riconosciuto come uno dei maggiori studiosi di questione sociale ed urbana, Donzelot ha recentemente pubblicato un saggio nel quale ritorna sulle rivolte del novembre 2005 - Quando la città si disfa (2006) – proponendo un modello di analisi delle trasformazioni urbane al tempo della mondializzazione ed una decostruzione critica chiara e netta di 25 anni di intervento pubblico nelle realtà di banlieue. Un impegno a cavallo fra storia, sociologia ed analisi delle politiche pubbliche che dura da trent’anni, dal suo primo testo - La polizia delle famiglie (1977) – con una postfazione di Gilles Deleuze, ai più recenti Lo Stato animatore. Saggio sulla Politique de la Ville con Philppe Estebe (1994) e Fare società: le politiche urbane in Francia e negli Stati Uniti (2004).

AC In Francia, le sommosse del novembre 2005 nelle banlieues di tutto il paese sono state interpretate sia secondo una lettura più o meno tradizionale che ne riconduceva le ragioni alla perennità della questione sociale, sia come il risultato di una più specifica questione urbana. Possiamo dire che la nuova questione urbana mascheri in qualche modo la resistenza della vecchia questione sociale?

JD Direi che si tratta di entrambi i fenomeni: siamo di fronte sia ad una questione sociale sia ad una questione più specificamente urbana. Occorre essere ciechi per non riconoscere la profonda disuguaglianza che condiziona l’accesso agli studi, all’occupazione e soprattutto ad un lavoro che sia coerente con gli studi compiuti nel caso di una persona che risiede nei cosiddetti quartieri di relegazione. Nelle nostre banlieues si concentra la metà dell’edilizia sociale disponibile in tutto il paese, in situazione che richiamano sia la forma dell’enclave sia quella di un eccessivo decentramento. La discriminazione colpisce con nettezza: a parità di requisiti, le possibilità di essere assunto per un giovane di banlieue rispetto ad un giovane bianco autoctono e proveniente da un quartiere benestante é di 1 a 2. E’innegabile che il colore della pelle di un ragazzo beur disturbi molti datori di lavoro, preoccupati di avere una relazione corretta con la propria clientela. Allo stesso tempo, occorre essere stupidi per non vedere a qual punto e con quale rapidità la città si sia frammentata, seguendo in questo una tendenza della popolazione a puntare tutto sulle affinità elettive più che sulla convivenza con il diverso. Sembra proprio che le classi medie e superiori – colte, competenti, protagoniste dei circuiti della decisione – non vogliano più lavorare con i membri del mondo operaio, in tutte le sue complesse articolazioni, e soprattutto non vogliano convivere con loro nello spazio urbano. Le classi popolari le si accetta a distanza, quella distanza che in fondo permette la delocalizzazione a tutti i livelli: i lavoratori diventano meno costosi, non fanno sciopero, soprattutto non vivono vicino a te e non turbano la scolarizzazione dei tuoi figli. Si ama molto restare fra i proprio simili, quando se ne ha la possibilità. Viceversa, alcuni sociologi come Marco Oberti (autore insieme a Huges Lagrange di una recente ricerca sulle rivolte del novembre 2005, La rivolta delle Periferie, Bruno Mondadori, 2005) sostengono che le classi medie, soprattutto quelle che lavorano nella funzione pubblica, non sarebbero ostili alla mixité sociale. Purtroppo, occorre notare come questi sociologi visitino solo quei comuni dove gli eletti di sinistra compiono sforzi particolari in questo senso; ed anche che sono proprio questi i comuni dove più alta è la frequenza delle scuole private….Si tratta di una logica della separazione molto insidiosa. Nel caso di quelle banlieue coinvolte dalle rivolte del novembre 2005, il suo impatto si vede nello sviluppo di una logica da ghetto caratterizzata da una cultura del sospetto che coinvolge gli abitanti stessi, sempre sospettati di tradire l’altro e di ricorrere a mezzi illegali per la propria sopravvivenza…..Esattamente come in una prigione, dove si ha solidarietà esclusivamente in forma di ostilità contro il mondo esterno, nel sentimento condiviso del sentirsi tutti – egualmente – delle vittime. Allora, in questo caso, si brucia tutto: macchine, negozi, scuole….

AC L’impressione é che in questi quartieri si sperimenti il fallimento di un certo tipo di modernità nella sua forma urbana. La banlieue francese, dominata dai moduli compositivi tipici del movimento moderno, nasceva come potente meccanismo di coesione sociale, di modernizzazione del sociale per mezzo dell’urbano, per usare una tua definizione.

Si, siamo di fronte all’esaurimento – in forma molto acuta - di quell’esperienza. L’idea di modernizzare la società per mezzo dell’urbano rimanda all’ultimo dopoguerra. La Francia era ancora un paese a forte dominante rurale. La città evocava l’affollamento, la mancanza di comodità ed igiene. Per attirare i lavoratori agricoli nelle città al fine di sostenere il processo di industrializzazione fordista dei cosiddetti trenta gloriosi (definizione corrente in Francia per richiamare i trent’anni di ininterrotta crescita economica fra il secondo dopoguerra e la metà degli ani settanta, ndr), l’amministrazione statale decise la messa in opera di un grande progetto di urbanizzazione il cui principio fondamentale era quello di costruire dei quartieri che fossero delle anti-città; dei quartieri che in altre parole non comportassero i rischi delle città, liberi dal problema dell’affollamento e dal rischio della violenza urbana; spazi che permettessero alla classe operaia di vivere una vita familiare corretta in una condizione di igiene e di comfort, senza che i bambini giocassero in strada (come succedeva normalmente nei centri storici…….) o che i capofamiglia spendessero il proprio tempo nei bistros (infatti, niente bistros in banlieue….). Più complessivamente, quella fase della modernizzazione si presenta come un mezzo di integrazione e quindi di miglior utilizzo della classe operaia nella fase di sviluppo fordista di quegli anni. La casa serve al lavoro, questa è la filosofia. Si tratta di un sistema che all’inizio ha funzionato, l’abbandono delle campagne avveniva contestualmente alla trasformazione terziaria dei centri urbani: i francesi avevano di fatto accettato quella nuova forma dell’urbano….

AC Con gli anni settanta, assieme all’’esaurimento di quel ciclo di sviluppo produttivo assistiamo anche alla fine di questa peculiare forma francese di urbanesimo fordista. Lo spazio urbano, nonostante la tanto decantata exception francaise ed il relativo modello sociale, è stato preso in seguito da intensissimi processi di modernizzazione senza modernità in cui sono proprio i quartieri svantaggiati a costituirsi come elementi di verifica locale e localizzata dei processi di globalizzazione.

In un quadro sociale profondamente mutato, gli effetti della promiscuità sociale sono apparsi progressivamente intollerabili agli occhi di quei settori di classe media che risedevano in banlieue. Inizia cosi’ la fase dello sviluppo peri-urbano e del mito della casa individuale nel verde. Tutto questo mentre si dava vita al meccanismo di relegazione, con l’assegnazione degli appartamenti improvvisamente resisi liberi a nuclei familiari d’origine immigrata, prevalentemente provenienti dal Maghreb, che potevano godere delle opportunità anche economiche dei dispositivi di raggruppamento familiare. Questo, in realtà, ha permesso di salvare la vivibilità dei quartieri di banlieue più invivibili, ma al prezzo di un confinamento delle componenti più deboli della popolazione in luoghi svantaggiati e lontani – in senso sia spaziale sia sociale – dal mercato del lavoro. Si tratta di una situazione che rimanda a quel processo più ampio di riorganizzazione dello spazio tipico delle società avanzate che ho definito come città a tre velocità. Assistiamo alla coesistenza di tre fenomeni: il costituirsi di questi spazi di relegazione dove si ha una sorta di stagnazione degli abitanti in luoghi non connessi ai grandi flussi, dove popolazioni di origine immigrata non si sentono appartenere né al proprio paese d’origine né alla società nella quale essi vivono; l’emergere degli spazi di peri-urbanizzazione, quelli dominati da agglomerazioni di case individuali sempre più lontane dall’urbanizzazione storica, dove vivono le classi medie per meglio proteggersi dalla racaille di banlieue (espressione peggiorativa utilizzata dal Ministro Sarkozy durante le sommosse del novembre 2005, ndr) ma anche perché i valori immobiliari nei centri urbani sono saliti troppo perfino per una famiglia di classe media; infine, gli spazi della gentrification: spesso vecchi quartieri popolari di grandi città che acquisiscono valore contestualmente al crescere della presenza di esponenti delle professioni legate alla nuova economia dei servizi, con la loro cultura transnazionale e la loro ricerca di servizi – specie ricreativi e culturali – di prestigio. A Parigi, assistiamo al fenomeno sempre crescente dell’evacuazione delle classi medie costrette a trasferirsi in mondi periferici sempre più lontani, lasciando la città a chi la merita: quelli che sono, per l’appunto, collegati con le altre grandi città del mondo…..

AC Torniamo alla realtà della relegazione. In Francia siamo di fronte al paradosso di un forte volontarismo dell’azione pubblica a fronte a risultati sempre più deludenti. Più di vent’anni di politique de la ville non sono riusciti ad intaccare il meccanismo della relegazione. Si tratta molto spesso di un discorso pubblico dai contorni neo-coloniali nel quale la banlieue ed i suoi abitanti diventano l’eccezione da ricondurre alla norma, un vulnus del patto repubblicano o la sede di una concreta minaccia comunitarista….

Il volontarismo francese in materia di trattamento del problema dei quartieri di relegazione é il frutto di una serie di fallimenti gravi. Esso non esprime l’idea di affrontare meglio il problema ma di farlo semplicemente svanire attraverso la dispersione della popolazione che fa problema. Più si trattano i luoghi con un determinismo urbanistico feroce e senza tener in alcun conto le persone, più si manifesta il desiderio di liberarsi di queste popolazione piuttosto che di aiutarle. La politique de la ville (definizione corrente del complesso sistema di politiche urbane volte al superamento del problema della relegazione urbana in Francia, ndr) è diventata un meccanismo che premia le amministrazioni locali che accettano di demolire la più grande quantità possibile di immobili in cui vivono le minoranze etniche. Questi immobili sono numerosi, almeno quanto gli eletti locali che desiderano farli sparire. Dunque, si tratta di un meccanismo che funziona! L’agenzia nazionale di rinnovo urbano finanzia i progetti in base al numero di demolizioni previste. Non si tratta quindi di una forma di partenariato ma di un meccanismo di ricompensa ed incitamento in stile anglosassone, con in più un autoritarismo alla francese.

AC Nelle tue ricerche tenti di individuare un’alternativa che dia spazio ad un protagonismo delle popolazioni. Non è casuale che il dibattito francese sia dominato dal fantasma del legame sociale: la politique de la ville ha lungamente fatto riferimento – in modo volontaria e normativo – alla necessaria ricerca di un legame sociale che sembra ormai farsi sempre più raro e sempre meno spontaneo. Di fronte al fallimento clamoroso di quanto fatto fino ad ora, tu parli della possibilità concreta di rifare la città, di ricostruire legame urbano…

JD Si, il mio ultimo volume – Quand la ville se défait – è proprio dedicato a questa possibilità. Rifare la città e re-imparare a fare società significa prima di tutto riequilibrare il rapporto fra luoghi e flussi, limitando il tempo di permanenza in questi ultimi, per esempio. Più in generale, attraverso una combinazione di interventi a sostegno della mobilità delle persone e dell’elevazione di quella che io chiamo la capacità di potere del soggetto sul luogo in cui vive, possiamo forse ritrovare lo spirito della città, vale a dire ciò che fa la sua forza originale : la facoltà di slegarsi e legarsi liberamente in uno spazio che offra a ciascuno una dimensione intima e privata che sia però aperta all’esterno ed al movimento, alla possibilità di farsi vedere ed ascoltare. In breve, il contrario dell’essere assegnati a residenza, trasferiti, trattati, manipolati. Per quanto riguarda la realtà dei quartieri di relegazione, è evidente come la tentazione del trattamento fisico – anche attraverso grandi programmi di demolizione – sia molto forte per la classe politica. E’ la strada più spettacolare, la più mediatica, che se non condotta con la partecipazione degli abitanti si traduce in rivolte come negli Usa negli anni 60 ed in Francia, visto che grazie a ricerche recenti sappiamo che i disordini del novembre 2005 hanno avuto luogo specialmente nelle banlieues coinvolte in programmi di demolizione. Sono rivolte che muovono dal sentimento di persone che si sentono ridotte a cose, che si possono spostare senza che abbiano alcun diritto di parola ed espressione. Viceversa, le operazione di riqualificazione hanno senso solo se sono l’occasione del processo inverso : quello di un’elevazione della capacità di potere delle popolazioni nei loro quartieri, nelle loro città e soprattutto nelle loro vite.

Nota: (*) l'autore dell'intervista Alessandro Coppola ha inviato a Eddyburg con richiesta di pubblicazione la presente versione, diversa da quella de il manifesto (f.b.)

MILANO - Dal fondo fuligginoso dell´accampamento bruciato nel pomeriggio di San Silvestro, una donna con la gonna lunga sino alle scarpe da ginnastica sfondate, continua a raccattare cavi elettrici e tubi. Lo fa da ore. Li ha sistemati su una coperta e chiama un uomo imbronciato, insieme la sollevano a fatica. «Saranno trenta chili di rame, per quattro euro al chilo, fanno 120 euro. Meglio dell´alluminio, 80 centesimi al chilo. L´incendio a qualcuno sta rendendo dei soldi», scherzano in perfetto italiano due giovani cognati, uno kossovaro e l´altro rumeno.

L´ultimo incendio ha raso al suolo un intero angolo della «plasticopoli» abusiva di via Barzaghi, dietro il cimitero Maggiore. Le fiamme, stando ai testimoni, «sono spuntate dalla roulotte di un ubriaco, con quattro figli. Quel deficiente è scappato senza avvisare e così la mia roulotte, che avevo pagato 800 euro, e ci avevo messo le lampade rotonde delle discoteche, s´è incenerita. Avevo comprato un maialino per festeggiare la fine dell´anno, s´è carbonizzato anche lui», dice un giovane con una camicia stirata. «La colpa - aggiunge un suo amico - è tutta dei barboni che sono arrivati qua e non sono capaci di accendere regolarmente le bombole del gas, non sapevano nemmeno che cos´erano».

Li chiamiamo ancora campi-nomadi, ma è sbagliato. I vecchi zingari, «il sasso scagliato da dio attraverso il mondo», come si definivano, c´entrano zero con queste masse di diseredati piovute dall´Europa dell´Est. Il popolo delle plasticopoli, delle roulotte senza ruote, delle catapecchie di compensato e alluminio, di linoleum e lenzuola di carta è formato, più semplicemente, da poveri. Poveri di soldi, ma anche di cultura, di educazione, di senso pratico. Non gli mancano figli, umorismo e rassegnazione: «No, non abbiamo avuto freddo, ci siamo stretti con gli amici e i parenti che non hanno perso la casa, poi ognuno ha rubato le scarpe migliori ed è uscito».

Intere folle proletarie di stranieri si sono arenate in questi ultimi anni ai margini di Milano, autocostruendo tetti dovunque. Sotto tangenziali, tra i campi abbandonati dai contadini, accanto alle ferrovie, sotto i tralicci dell´alta tensione, vicino agli sfasciacarrozze. Il censimento è in costante evoluzione. Sempre nella zona Barzaghi-Triboniano, esistono altri quattro campi abusivi, simili a quello bruciato come un pozzo di petrolio. Poi, altri campi crescono nelle aree dell´ingegner Salvatore Ligresti a sud di Milano: ci sono i bosniaci nelle cascine di Vaiano Valle, e spuntano i romeni di via Ripamonti e via San Dionigi. E romeni (sempre loro, i più numerosi) si sono piazzati, senza il minimo titolo per starci, in viale Cassala, in via Stephenson, in via Boffalora, in via santa Rita da Cascia. E non è finita qui, ma è anche inutile continuare a elencare questa sorta di pulviscolo d´uomini che s´è posato dovunque «mancano» case e fabbriche. Dove cresce la protesta della gente, come sta accadendo a Opera, per dire no a prefabbricati e ricoveri per stranieri.

Spesso le suore ne sanno più dei poliziotti, perché portano tra le baracche vestiti, quaderni e anche pediatri volontari. «Anche i capifamiglia hanno paura, tra loro arriva "gente cattiva", che pretende, pretende, e chi può aiutarli?». Le stime comunali parlavano di cinquemila senzatetto, ma sono numeri da correggere e portare decisamente più in alto. Ogni certezza su dati così variabili sarebbe assurda. Chi può fugge dalle plasticopoli: «Non fotografarmi, altrimenti le mie vecchie fidanzate italiane dicono: "Ma dove vive?". Invece io ho casa in via Novara, qui mi sono rimasti gli amici», spiega uno che si definisce «ex jugoslavia».

Gli zingari odiavano la prostituzione, ma oggi molte vite (e molte famiglie) sono un mercato. Più d´un rumeno dei campi ha imparato dagli albanesi che una donna, messa sul marciapiede, può rendere più d´uno stipendio regolare. Di queste miserie la città si accorge quando se ne accorge la cronaca nera. Ma tutti i giorni sono sotto gli occhi di bimbi, che non raramente imparano a guardare gli estranei come se fossero nemici.

Nota: contemporaneamente, da Parigi lo International Herald Tribune (articolo tradotto su Mall) racconta un campo di solidarietà e l'azione politica su temi paralleli (f.b.)

[l'intervento della Senatrice Rodham Clinton alla Brookings non aveva titolo, quello proposto qui è semplicemente deduttivo; traduzione per Eddyburg Mall di Fabrizio Bottini]

Buon giorno, sono particolarmente lieta di essere di nuovo qui alla Brookings, per avere ancora una volta l’occasione di partecipare allo sviluppo del lavoro di quello che è un tesoro, nazionale e internazionale.

E voglio davvero ringraziare Bruce Katz. Bruce ha sviluppato l’idea che sta alle spalle di questa nostra riunione, ma più ancora, il lavoro di analisi e ricerca che è stato fatto a sostegno delle molte conclusioni e raccomandazioni, organizzando qui alla Brookings il Metropolitan Policy Program con queste poderose capacità. Quindi grazie, Bruce. Poco tempo fa ero presente alla cerimonia di giuramento del nuovo presidente del municipio di Brooklyn, e stava parlando di secessione in modo da poter diventare un sobborgo autonomo dall’altra amministrazione, quella di Manhattan.

Voglio anche congratularmi con Robert Puentes e David Warren per il loro impegno.

Ascolterete tra pochi muniti, da alcuni straordinari rappresentanti da tutti il paese, da persone che sono state davvero in prima linea, cosa vuol dire la sfida dei “primi sobborghi”. Si tratta di Margaret Keliher di Dallas, Dan Onorato della Allegheny County, Ron Sims dalla King County, e Chris Zimmerman dalla Arlington County. Certo dal mio punto di vista, il relatore che mi fa più piacere sia presente perché abbiamo lavorato molto insieme su questi temi, è Tom Suozzi, County Executive dalla contea di Nassau. Tom è stato una vera avanguardia nel primo movimento della smart growth del suburbi, e credo dalla Nassau County ci sia anche qui Howard Weitzman, il nostro Comptroller. Si, ciao Howard. Insieme loro e i loro gruppi hanno tentato di far emergere alcuni problemi negati o ignorati per un lungo periodo di tempo, hanno iniziato a concentrarsi and sulle ragioni per cui tanti di noi amano i sobborghi, ci sono cresciuti, siamo sotto pressione perché li amiamo troppo. Li stiamo stipando e soffocando, e c’è bisogno di una strategia di cui questo convegno fa parte per cominciare a riconoscere cosa accadrà andando avanti.

Sono cresciuta in un sobborgo. Nata a Chicago, e rapidamente trasferita nel suburbio quando mio padre, veterano della seconda guerra mondiale, più o meno seguì la sua generazione verso i sobborghi. Quindi sono cresciuta in mezzo a tutte quelle meravigliose caratteristiche che lì andavamo a cercare, e che davamo per scontate, come ottime scuole, favolose occasioni per il tempo libero, facilità di spostarsi a piedi o in bicicletta da un posto all’altro. Avevamo un diritto di passaggio per la Eugene Field Elementary School, e quando si arrivava all’età giusta bisognava sostenere una prova e vedere se si era giudicati in grado di guidare la bicicletta fino alla scuola. Era una bella cosa.

Dove vivo adesso, in un sobborgo un po’ più esterno, non un “primo”, diciamo che potremmo definirlo di seconda generazione, c’è una grande discussione in corso a Chappaqua perché molti pensano sia troppo pericoloso per i loro figli andare a scuola in bici. Quindi il suburbio, dove la gente abita, come ci si adatta a stili di vita in trasformazione, non potrebbe essere argomento più tempestivo.

Cominciando a parlare delle sfide che ci attendono, è importante capire cosa ci ha portato sino a questo punto. Il boom post-bellico di 60 anni fa si definiva attorno a tre cose, investimenti nell’istruzione, un’attenzione alla middle-class, un impegno condiviso a tutti i livelli di governo per lo sviluppo e la crescita economica. Alla base di tutto c’era il patto secondo cui se si lavorava sodo, si rispettavano alcune regole, singoli e famiglie potevano prosperare, si poteva diventare proprietari della casa, si poteva avere un piccolo pezzo d’America, non importa quanto grande, nel proprio cortile. E la legge per i reduci [ GI Bill], l’esplosione nella costruzione di scuole, colleges e università che aprivano le loro porte a un numero sempre crescente di americani, tutto questo faceva esplodere la società delle occasioni, e si creava un potenziale di benessere senza confronti e senza precedenti. La middle-class fioriva e i sobborghi trionfavano.

Fra il 1950 e il 2000, quelli che ora chiamiamo “primi suburbi”, sono cresciuti a velocità doppia rispetto al resto del paese. La Nassau County a New York, per esempio, ha quasi raddoppiato la popolazione. Quello che è cominciato in posti come Levittown a Long Island si è trasformato in una tendenza nazionale che si è intrecciata con la stessa idea e promessa di benessere americana.

Avvenne tutto nel nulla? Beh, no, naturalmente no. Ci fu bisogno di leadership, e ci fu molto a spingere verso un complessivo ethos del suburbio, cosa ci si aspettava da chi ci cresceva dentro. Ricordo di quando andò in orbita lo Sputnik, e che pochi giorni dopo l’insegnante di quinta ci disse che dovevamo fare più matematica e scienze perché il Presidente Eisenhower voleva così, e ci pareva perfettamente ovvio che i Presidente fosse da qualche parte a Washington nella Casa Bianca a pensare ai ragazzi della Field School di Park Ridge, Illinois, che avrebbero fatto a studiare più matematica e scienze. C’era questa sensazione di non stare fuori dalle città, ma di contribuire a rifare l’America.

Il sistema autostradale interstate era chiaramente pensato per collegare tutti questi luoghi e aprire nuove aree all’edificazione di molti altri suburbi. Avevamo leaders che investivano davvero incredibilmente in direzione della middle-class e capivano l’importanza di un ceto medio forte, di dare alle famiglie gli strumenti di cui avevano bisogno per riuscire, e così il suburbio diventò sinonimo dell’ American dream.

Oggi siamo qui perché, come accade spesso nella vita, bisogna fare il punto. Cinquant’anni dopo, mi muovo un po’ più lentamente, impiego un po’ più tempo ad alzarmi la mattina. Come dice un mio amico, tutte le mattine ci sono buone notizie e cattive notizie. Quella cattiva è che hai dolori dappertutto. Quella buona è che ti stai alzando. Quindi penso che per i suburbi, la cattiva notizia sia che hanno dei problemi, quella buona che abbiamo molte strutture e persone intelligenti, impegnate, che capiscono come ci sia bisogno di un cambiamento.

I primi sobborghi in termini di reddito medio familiare rimangono al di sopra della media nazionale. Le contee di Nassau e Westchester Counties a New York hanno entrate superiori di oltre il 50%. I livelli di istruzione in media restano superiori a quelli nazionali. Le percentuali di studenti che concludono con un titolo, ad esempio, sia per le superiori che per il college. I primi suburbi hanno livelli inferiori di povertà e disoccupazione e tendono ad avere concentrazione maggiore di lavoratori qualificati. Quindi hanno attirato ricchezza, crescita, investimenti, in un ciclo autopropulsivo di mobilità sociale.

Centri un tempo etichettati come quartieri dormitorio ora si sono trasformati nel proprio motore economico. Quasi l’80% delle persone che abitano a Long Island, in gran parte insediamento suburbano di primo tipo, lavora lì. Non sono pendolari verso la città, come lo erano i loro genitori. Quindi i sobborghi più vecchi d’America rimangono vitali, ma le modalità di sviluppo sono cambiate, la demografia è cambiata, e la prosperità economica futura non è per niente assicurata.

Il primo suburbio ora è molto più eterogeneo di quanto non fosse prima. Io andavo in una scuola superiore enorme, quasi 5.000 studenti, tutti bianchi. C’era diversificazione etnica, ma eravamo tutti bianchi. Le contee di Nassau e Westchester lottano contro gli alti costi della vita. Sempre più persone cresciute lì, i cui genitori sono pure cresciuti lì, trovano difficile permettersi di restare nella propria comunità e far crescere i figli. Il prezzo di una casa media a Long Island, dove sta la contea di Nassau, la più grossa delle due, l’altra è Suffolk, è di quasi 400.000 dollari. Ed è il prezzo medio, più del doppio della media nazionale. Il 71% degli abitanti di Long Island in un recente sondaggio dice di temere che i prezzi delle case possano obbligare un membro della famiglia ad andarsene.

Altre zone del mio stato come le contee di Erie, Monroe e Onondaga, stanno lottando contro il declino della propria base produttiva, che offriva lavori ben pagati e previdenza a migliaia e migliaia di abitanti dello stato di New York. Molti suburbi della fascia interna, quelli più vicini alle città, affrontano la competizione crescente dei cosiddetti esurbi, dove l’edificazione è meno costosa del rinnovo urbano ei terreni sono più prontamente disponibili. Rispetto a questa galassia di problemi il problema è che per quanto siano importanti, il modo migliore per affrontarli è quello di guardare alle sfide comuni. Ad una prima occhiata potrebbe sembrare che la Nassau County di New York non abbia gran che in comune con la Dallas County in Texas o la King County nello stato di Washington, ma sotto la superficie credo che troveremmo che abbiamo molto in comune, e dovremmo lavorare per un’agenda in comune, una voce comune con cui presentarci alla scena politica americana.

Questo rapporto presentato oggi rivela una infrastruttura di trasporti invecchiata, costruita per i pendolari. Con l’economia locale sempre meno dipendente dalle città centrali, questo è diventato un problema per molti suburbi. Ciò implica maggiore diversificazione. Fra il 1980 e il 2000, la quota di minoranze razziali e etniche che risiede nei primi sobborghi è più che raddoppiata. Questa aree ospitano anche sempre più immigrati, immigrati regolari e altri senza documenti. I primi sobborghi ora hanno anche più residenti nati all’estero di quanto avvenga nelle città.

La demografia sta anche cambiando dal punto di vista degli anziani. Il numero di abitanti anziani è aumentato nei sobborghi di quasi il doppio di quanto avvenuto nel paese nella seconda metà del XX secolo. E i seniors, naturalmente, hanno una propria serie di sfide, come in molte zone trasporti pubblici inadeguati e il costo crescente dell’abitazione.

Spesso le rosee medie statistiche nascondono sacche invisibili di degrado, disoccupazione, bassi livelli di istruzione. Aumenta la concentrazione della povertà, nei primi suburbi, ed essi sono anche diventati il luogo di disparità razziali che si ampliano, sia nel campo dell’istruzione che in quello del reddito.

Credo che dovremmo rinnovare il patto sociale fondamentale. Possiamo guardare al nostro passato per alcune lezioni, ma saranno necessarie nuove azioni e nuove idee, e un onesto riconoscimento delle particolari sfide che abbiamo di fronte. È importante iniziare a lavorare, ed è per questo che il convegno e il rapporto sono tanto tempestivi. Oltre 50 milioni di americani, il 20%, vivono in un primo suburbio, come nel mio stato di New York quasi 5 milioni ovvero una percentuale superiore, quasi un quarto della popolazione. Così come possiamo dare il sostegno di cui hanno bisogno a persone come quelle che ascolteremo oggi, come daremo una risposta di servizio alle particolari domande dei primi suburbi?

Voglio parlare di quale dovrebbe essere il ruolo federale. Visto che identifichiamo le comunità suburbane come archetipi della prosperità nazionale, suburbia nel suo insieme non ha attirato molta attenzione da parte federale, e penso che sino a tempi relativamente recenti andasse bene così. C’erano altri problemi, che meritavano davvero priorità. Quindi le risorse per lo sviluppo e gli investimenti, le idee per il suburbio, sono state messe in secondo piano, o addirittura su nessun piano.

Un esempio. Il Federal Emergency Food and Shelter Program. Un programma che ha funzionato con successo e necessario per molti anni a Long Island, specificamente nella Suffolk County. La Suffolk è un suburbio più recente, ma Long Island è di prima generazione. La Suffolk County storicamente aveva diritto ad accedere al programma sin dall’inizio, per finanziare mense locali e rifugi, o altre attività di tipo non-profit a servizio di famiglie in periodi difficili.

In anni più recenti, il governo federale ha deciso che la Suffolk non aveva i requisiti, anche se il bisogno in realtà era aumentato. Perchè? Disoccupazione, povertà, e problema dei senza casa erano cresciuti, ma le medie nazionali erano cresciute più in fretta. E mentre alcune parti della Suffolk County avrebbero avuto i requisiti per i finanziamenti diretti, erano aggregate a zone più agiate. C’era East Hampton e c’era un altro posto, e le persone guardavano a quelle cifre in media e dicevano no, certamente non c’è bisogno di continuare ad aiutare la Suffolk County.

Abbiamo lavorato insieme all’amministrazione della Suffolk County insieme a Steve Levy e al suo gruppo, per progettare una nuova formula e spingere per le modifiche, e ci siamo riusciti, ma c’erano un governo locale molto capace e un concreto e crescente bisogno che è stato presentato molto bene ed efficacemente.

La soluzione, comunque, non si trova in nuove formule, ma in un nuovo impegno generale a livello federale. In primo luogo, dobbiamo fare di più per sostenere collaborazione e cooperazione, aiutare a definite una quantità maggiore di obiettivi condivisi. Dobbiamo promuovere buone pratiche. Quello che funziona nella Allegheny County può essere qualcosa che possiamo sperimentare anche nella Westchester County, ma dobbiamo avere una migliore condivisione di pratiche ed esperienze.

Dobbiamo appoggiare la smart growth. Earl Blumenauer è deputato alla camera eletto a Portland, Oregon, è stato molto impegnato sulla smart growth e ha sostenuto molte delle idee che si sono affermate in strategie locali. E dobbiamo fornire incentivi al cambiamento.

La Brookings ha collaborato a mettere in contatto il mio ufficio con molte comunità locali che stanno intraprendendo azioni decise per rafforzare i propri territori suburbani. La Montgomery County, Maryland, dove gli amministratori locali stanno lavorando in modo aggressivo sul tema della casa economica. La casa popolare è stata un tabù in moti dei primi suburbi. La gente non ha l’idea che ci sia bisogno di case popolari. Ma quando gli agenti di polizia o i vigili del fuoco, insegnanti e infermieri, gli anziani, non possono più permettersi di abitare nelle nostre comunità, si tratta di un problema che non possiamo più ignorare, a nostro rischio. Stiamo perdendo la forza lavoro che di fatto mantiene i suburbi in funzione, che offre i servizi che chi ci vive si aspetta di trovare.

C’è Arlington, Virginia, un insediamento coordinato attorno a nodi di trasporto pubblico, e qui voglio ringraziare il vicepresidente della contea Chris Zimmerman per il suo lavoro di collaborazione col mio ufficio. La Allegheny County in Pennsylvania ha proposto alcune possibilità di recupero urbanistico creative su zone degradate, so che il loro County Executive è qui e voglio ringraziare anche lui.

Un’altra grossa questione con cui dobbiamo misurarci, anche se politicamente rischiosa, è la frammentazione amministrativa. In alcune delle nostre contee a New York, abbiamo centinaia di giurisdizioni. Non sono sicura, Tom, ma credo che la cifra esatta delle giurisdizioni separate a Long Island sia 902, la grande maggioranza delle quali dotata di autonomia fiscale, e credo sia una cosa paragonabile ad altre situazioni. Ciò conduce alla frammentazione, alla ridondanza, alla concorrenza anziché alla cooperazione. Fondamentalmente spinge le persone ad agire con risultati a somma zero anziché lavorare insieme, progettare il modo per ingrandire la torta anziché stare attaccati alle fettine in cui è frammentata. Il First Suburbs Consortium fuori da Cleveland, Ohio, può servire da esempio. Le municipalità hanno unito le forze per sviluppare collettivamente soluzioni, raccogliere dati e pianificare a scala regionale.

Nel febbraio dello scorso anno ho organizzato un convegno a Long Island e abbiamo radunato esponenti locali come il County Executive Suozzi, rappresentanti delle attività non-profit, del mondo degli affari, consiglieri eletti, per discutere l’evoluzione dei primi suburbi. Abbiamo parlato di trasporti, sviluppo economico, case popolari, sprawl, tutela degli spazi aperti, rivitalizzazione dei centri urbani. Una delle grandi occasioni che non è stata ancora sfruttata sino in fondo come dovrebbe, è la rivitalizzazione dei nuclei urbani centrali dei primi suburbi. Le strutture già ci sono, le reti di trasporto vicine, i marciapiedi ci sono, i negozi non sono lontani, e invece di spostarsi sempre più lontano occupando zone verdi e aree agricole, tentiamo di incoraggiare le persone a guardare a quello che già abbiamo nei centri dei nostri primi suburbi. White Plains a New York nella Westchester County ha rivitalizzato il suo centro, e si tratta in gran parte di una vicenda positiva, con tante nuove case in costruzione, ma purtroppo si tratta di case piuttosto costose. Sempre più persone comperano appartamenti costosi in condomini di lusso nei grossi complessi che si stanno realizzando, e dunque dobbiamo equilibrare ciò assicurandoci che chi vive e lavora a White Plains, e non solo chi è attratto da quel tipo di vita, abbia un posto dove abitare.

Dobbiamo assicurarci che il governo federale affianchi alla retorica anche le risorse. Dobbiamo cercare i modi di reinventare i primi suburbi, e credo che le norme SCORE citate da Bruce siano uno sforzo da parte mia e del deputato King per mantenere aperto il dibattito. Chiaramente, i primi sobborghi non hanno i requisiti per accedere a programmi come il Renewal of Communities, che è stata l’ultima iniziativa nell’amministrazione di mio marito, se non proprio l’ultima, uno degli ultimi provvedimenti che ha firmato, e l’abbiamo usato a New York per intervenire in zone interne a Buffalo, Rochester, Niagara Falls e Schenectady, posti che hanno subito enormi pressioni economiche, e si tratta di un buon strumento per zone che necessitano di un intervento davvero radicale.

Ma non abbiamo niente di paragonabile in termini di assistenza preventiva per i primi sobborghi, ed essi hanno bisogno di aiuto prima che il degrado si sviluppi dalle zone che già ne stanno soffrendo. Attraverso parecchi dei nostri suburbi costosi a New York mentre vado a vedere o incontrare persone, e spesso si vedono interi isolati di case abbandonate, negozi con le vetrine inchiodate, scuole senza bambini, poi si arriva in posti che sembrano le scene delle serie televisive. Sono magnifici, e ovviamente ricchi. Si tratta di posti che esistono l’uno di fianco all’altro, ma potrebbero stare su pianeti diversi, e il cominciare a riconoscere alcuni dei bisogni che stanno letteralmente davanti alla nostra porta nei primi sobborghi, è una grande necessità politica.

Ho parlato della cosiddetta legge SCORE [ acronimo per Suburban Core Opportunity, Restoration, and Enhancement, n.d.T.] insieme a persone come Bruce Katz e Robert Fuentes e altri qui alla Brookings, e riconosco davvero la loro disponibilità a lavorare su questi temi perché vorrei segnare un punto fermo e continuare a far avanzare il dibattito, e sia Peter King da parte Repubblicana che Carolyn McCarthy, la mia collega Democratica da Long Island, stanno portando questa legge alla Camera dei deputati. Lo SCORE Act offre aiuti economici e incentivi fiscali alla rivitalizzazione dei quartieri nelle zone suburbane, a creare occasioni di lavoro, a realizzare case popolari, a sviluppare le imprese. La componente chiave della legge è la richiesta di un fondo da 250 milioni di dollari amministrato dallo Housing and Urban Development per concedere prestiti rivolti ai vecchi suburbi e finanziare progetti smart growth come quelli che ho citato, e di cui sentirete ancora tra pochi minuti.

La cosa nuova in questa proposta è che chiede la collaborazione a livello locale. Il progetto di legge chiede che tutti i soggetti coinvolti raggiungano preventivamente un consenso sul modo migliore di sviluppare l’economia locale. Richiede assemblee pubbliche e uno specifico piano che proponga strategie di tipo smart growth come aumentare la gamma di scelta per le case economiche, la tutela degli spazi aperti, delle zone agricole e di sensibilità ambientale, promuovere la creazione di nuove aree pubbliche condivise, edifici o intere zone mixed-use, incrementare e promuovere i trasporti pubblici compreso il miglioramento dell’accessibilità alle stazioni e fermate dell’autobus, creazione di insediamenti commerciali e a funzioni miste attorno ai nodi di trasporto, disponibilità per pedoni e ciclisti di più strade e percorsi. Alcuni di voi lo sanno, Earl Blumenauer lo sa, la sua immagine per la campagna è una grossa bicicletta di plastica, e tutti i suoi sostenitori portano orgogliosamente quel distintivo sul bavero perché sta a simboleggiare quello che propone. E vorrei toccare un tema collegato alla salute. Vorremmo che le persone dei primi suburbi, esattamente come lo vogliamo per chi sta in campagna o in città, iniziassero ad uscire, a cominciare di nuovo a muoversi, se non lo facciamo le prospettive per diabete, obesità crescente e tutte le malattie correlate e causate da queste condizioni, sono terribili da immaginare, quindi c’è anche un aspetto sanitario in quello che stiamo tentando di fare qui oggi.

Una quota delle entrate generate dalla crescita economica saranno inserite in un fondo di reinvestimento destinato allo sviluppo futuro, a riprodurre un ciclo entro il quale le persone possono accedere al prestito. Lo SCORE Act è quello che dovrebbero essere i programmi federali per lo sviluppo economico, investimenti iniziali e una traccia che fornisce alle comunità impulso e potere per aiutare sé stesse. L’amministrazione federale non deve e non può dettare priorità per ciascun caso, ma può essere di orientamento, di incentivo, e questo immaginiamo che diventi.

Abbiamo imparato molto da quanto accaduto negli anni ’60 e ’70 quando ci fu un’esplosione dei programmi di rinnovo urbano, e non vogliamo tornare a quel tipo di piani imposti alle persone. Vogliamo che siano le persone stesse ad elaborare ciò che vogliono per il proprio futuro. Collaboro da parecchi anni con una comunità di Long Island che ha avuto parecchie tensioni economiche, e abbiamo aspettato, aspettato fin che si è attraversato tutto il ciclo, a New Castle, New York, e questo è un perfetto esempio del tipo di collaborazione che speriamo lo SCORE Act portarà avanti.

Nel 2002, abitanti, imprese e proprietari immobiliari, organizzazioni civiche, esponenti sindacali, sacerdoti, anziani, proprietari della propria abitazione e chi vive in affitto, funzionari pubblici, giovani, tutti si sono messi insieme a costruire un piano per rivitalizzare New Castle. Cercavano aiuto e gli è stato detto tornate con un piano. Non chiedete semplicemente aiuto. Diteci cosa volete fare e assicuratevi che la gente abbia capito. L’idea era di ricostruire le vie principali di New Castle, creare una zona centrale a funzioni miste che fosse attraente per nuovi investimento commerciali e terziari, e siamo riusciti ad ottenere alcuni sostegni federali per attuare concretamente il piano, ma è il loro piano, e si sono tenute assemblee arroventate su cosa dovesse essere, poi lentamente si è arrivati a una conclusione. Mi conforta questo tipo di esempi, ed è quello che speriamo le persone verranno incentivate a fare sia da questo convegno, stimolando più collaborazione, che con lo SCORE Act come modello.

Dunque c’è molto lavoro da fare, ma ho buone speranze, sono ottimista. Le persone amano abitare dove vivono. Ci sono dei motivi per cui i suburbi hanno avuto una crescita esplosiva, e sappiamo che gli esurbi stanno seguendo in qualche modo le stesse orme. Fra 50 anni avranno di fronte i medesimi problemi. Quindi una parte del problema è andare oltre l’ostacolo, tirar fuori idee che possiamo cominciare ad attuare nel paese, creare buone pratiche, assicurarsi che i caratteri della vita suburbana così come molti di noi li ricordano, o certamente capiscono, che rappresentavano l’ American Dream, siano rinvigoriti, ricreati dove necessario, confermati là dove sono cominciati.

Quindi aspetto di lavorare con voi su questi problemi, perché mi sono davvero cari e vicini. Voglio vedere molte delle idee che proponete qui iniziare a dare dei frutti a livello locale, statale e federale, e mi impegno a sostenervi con continuità.

E concluderei dicendo che quando pensiamo ai suburbi, a quella specie di mitologia del suburbio, c’era un motivo per cui attraevano tanto gli americani, e lì si è costruita la mappa della seconda metà del XX secolo con la crescita e lo sviluppo della cosiddetta Baby Boom Generation. Le persone della mia generazione invecchiano, i suburbi dove abitano ora ne dovranno ospitare sempre di più. Possiamo farlo in un modo sensibile, pratico, oppure reattivo, ma dobbiamo fare qualcosa, perché ci sono troppi di noi che saranno dispersi altrove nelle comunità di riposo.

La gente vorrà stare nelle proprie comunità. Vorranno, anche, restare nelle proprie case. E non dobbiamo pensare solo alle strutture fisiche, ma anche a quelle sociali. Come possiamo fornire servizi a persone che amano il luogo dove vivono e vogliono restarci finché sono fisicamente e mentalmente in grado di farlo? Come sviluppiamo l’idea di quella che si chiama NORC, Naturally Occurring Retirement Community? Come possiamo farlo evitando di mettere un cartello che dice indesiderati alle giovani famiglie con figli? Come possono i sobborghi continuare a fornire un’istruzione di alta qualità mentre invecchiano e una quota crescente della popolazione – come io e Bill – non ha più figli che frequentano le scuole pubbliche?

Queste sono tutte questioni che dobbiamo sviluppare perché le abbiamo di fronte, e potremmo ignorarle a nostro rischio. Ma sono ottimista, e lo sono in modo particolare perché credo che il lavoro fatto qui alla Brookings abbia il potenziale di far aprire gli occhi a molti, a mettere le persone insieme a collaborare e cooperare sino a qualche soluzione caratteristicamente americana, al caratteristicamente americano modo di vivere. Con questo, vi saluto e spero di continuare a lavorare con voi. Molte grazie.

Nota: come i lettori avranno certamente intuito, l'occasione del convegno da cui è tratto questo discorso introduttivo è la presentazione di uno studio della Brookings Institution: One-Fifth of the Nation: A Comprehensive Guide to America's First Suburbs, di Robert Puentes e David Warren, allegato di seguito. La sintesi giornalistica del rapporto proposta dal New York Times èdisponibile qui su eddyburg_Mall; allegato scaricabile anche il disegno di legge SCORE (f.b.)

here English version

D: Le banliues parigine, con i loro sommovimenti e le loro proteste, hanno evidenziato un aspetto specifico della crisi contemporanea della città. Qual è, secondo te, la lezione di carattere generale che si può ricavare da questi eventi così clamorosi?

R: Secondo me, l’esperienza francese è in larga misura diversa da quella italiana. Il caso francese dimostra che non sempre è sufficiente il “buon governo urbanistico” per avere risultati socialmente positivi. In generale, la periferia francese è figlia di una impostazione urbanisticamente all’avanguardia, che ha rappresentato un modello. Si pensi alle villes nouvelles. Si sarebbe potuto pensare che, da quell’impostazione, doveva derivare una buona ed alta qualità di insediamento e di vita. Invece, non è stato così, anzi! Il decentramento nelle periferie di attività commerciali e produttive di buona qualità, “l’effetto-città”, pur accuratamente progettato, una formidabile rete di trasporti su ferro: tutto ciò non ha salvato l’esperienza francese dalle vicende alle quali facevi riferimento. Probabilmente perché in Francia sono state dominanti ragioni che derivano dalla natura dell’immigrazione, in larga misura composta dalla seconda o terza generazione di immigrati dal Nord Africa. Un vasto strato sociale che non è mai stato veramente accolto dal resto della popolazione e dalla cultura francese.

D: Quindi si tratta un problema specifico di cultura della convivenza…

R: Penso di sì. In altre parole, in riferimento alla situazione francese, non credo che debba mettersi in discussione il tema delle periferie in senso strettamente e “tecnicamente” urbanistico. Ma si debba riflettere sul fatto che non è nata una vera cultura della convivenza. Bisogna insomma evitare di fare confusione tra queste ragioni sociali molto serie, molto profonde, con la crisi della città come modello spaziale. Né credo che si possano fare confronti con la situazione italiana. Da noi, per certi versi, c’è di peggio, vi sono fenomeni di degrado inauditi. Si pensi alla malavita concentrata nel quartiere Scampia, a Napoli, allo scandalo della estesa solidarietà manifestata nei confronti degli esponenti della delinquenza.

D: Hai anticipato la seconda questione che ti vorrei porre, con un riferimento specifico alla previsione che qualcuno aveva fatto, per cui sarebbero deflagrate anche le nostre periferie. E’ sempre difficile fare previsioni, ma è prevedibile una qualche precipitazione della crisi delle nostre periferie e delle nostre città?

R: Io non credo. Fenomeni di insofferenza per il degrado ci sono e ci sono stati, e non si può certamente escludere che, in qualche luogo, possano esplodere in forma violenta. Per esempio, intorno a questioni relative alle discariche o ai trasporti. Ma non mi pare possibile una reazione contemporanea e omogenea delle periferie italiane intorno a temi di natura sociale. Questo per ragioni riconducibili alle grandissime differenze tra le città, e soprattutto tra le periferie delle città, del nostro Paese. Prendiamo il caso di Roma. La periferia di Roma è in larghissima misura abitata da cittadini che non possono accedere al mercato degli alloggi nelle aree centrali, e sono costretti a vivere in luoghi sempre di più lontani. Ma è una periferia dai connotati molto diversi da quelli francesi, e anche dalle periferie disperate di altre città italiane come Scampia a Napoli o lo Zen a Palermo. La grande periferia di Roma è sterminata, informe, ma non esplosiva. Si tratta comunque di una realtà sociale non animata dal “rancore sociale”, “di classe”, si sarebbe detto una volta, presente in Francia.

D: In generale, sul tema della trasformazione della struttura e della configurazione della città - e quindi anche della crisi del modello di città – ormai è un luogo comune rilevare che non esiste più la città compatta, che c’è la “città di città”, l’”arcipelago” di città, un accentuato policentrismo delle dimensioni della città. Come è possibile andare a un’accezione positiva, a una pratica positiva, a una sperimentazione positiva di questo policentrismo che ormai è un dato di fatto nella città contemporanea?

R: Io di positivo ci vedo molto poco negli attuali processi di trasformazione delle città. Mi pare anche improprio parlare di policentrismo, almeno in riferimento alla situazione italiana. Come stavo dicendo prima a proposito della città di Roma, siamo di fronte a un’espansione sterminata, fatta prevalentemente di lottizzazioni abitative, alle quali si aggiungono attività commerciali e, più recentemente, attrezzature di divertimento e alcuni servizi. Gli abitanti della periferia continuano ad andare ogni giorno verso il centro della città, dove si concentrano le attività di lavoro. E’ questo il connotato patologico della situazione, certamente non solo italiana. Non è vero che è finita la dialettica centro-periferia. Il centro continua ad attrarre in forma anomala e patologica chi vive nelle periferie. Altro che policentrismo. Siamo di fronte al mancato decentramento dei fattori di qualità urbana. Qui è mancata l’azione di governo. Non mancano spregiudicati teorici, sociologi e urbanisti che vedono in tutto ciò elementi positivi. Io non li vedo.

D: È possibile, in una situazione come questa, rilanciare un’azione e una cultura di governo delle trasformazioni della città?

R: È una banalità se dico che la “questione urbana” è, più che mai, una questione politica. Cioè, non è un problema settoriale. Vi è stata, in Italia, una stagione irripetibile in questo senso: quella del primo centrosinistra. Quando si è provato seriamente ad affrontare il tema della condizione urbana. Si respirava un clima particolare, a livello nazionale e nelle città. Tu mi parli da Firenze. Pensa che cosa hanno significato a Firenze l’amministrazione di Giorgio La Pira e l’urbanistica di Edoardo Detti. C’era attenzione e interesse autentici per la città, sentita come un banco di prova decisivo per la politica in generale. Dopo di allora certamente ci sono stati episodi di buon governo, ma sono mancati un’attenzione, un’elaborazione, una filosofia, un interesse complessivi.

Adesso siamo all’avvio di una fase di svolta governativa, e spero che un dibattito e un’iniziativa su questi temi possano ripartire. Ricordo che proprio durante la presidenza Prodi nell’Unione Europea sono state messe a punto raccomandazioni comunitarie che riguardano la necessità di porre un freno allo sprawl urbano. Non nascondo, però, che ho tante perplessità. La teorizzazione e la pratica di un’urbanistica priva di regole e di vincoli sono molto radicate. Per fortuna si è chiusa l’esperienza del governo Berlusconi senza l’approvazione di quella micidiale proposta nota come legge Lupi (con molti sostegni anche nel centrosinistra), che sanciva in via definitiva la privatizzazione dell’urbanistica. L’opposizione a questa proposta è stata limitata a pochissimi settori del centrosinistra. L’argomento è stato ignorato dalla grande stampa e nei dibattiti pubblici. Abbiamo dovuto faticare veramente tanto per riuscire alla fine a farlo accantonare. Auguriamoci comunque che adesso il vento cambi.

D: Finiamo con due questioni di carattere generale. Siamo, per quello che riguarda la questione città – come tante volte viene sottolineato – a uno snodo storico, perchè in questi anni, per la prima volta nella storia umana, la popolazione urbana tende a pareggiare o addirittura a superare la popolazione rurale. Simbolicamente e culturalmente cosa rappresenta, secondo te, questo passaggio? Che tipo di universo sembra delinearsi nella vita e nelle relazioni umane?

R: Osservato dal nostro punto di vista europeo, questo passaggio storico rappresenta comunque, secondo me, un tendenziale miglioramento. Non condivido le analisi e le rappresentazioni apocalittiche che in merito vengono proposte. Sono analisi implicitamente nostalgiche e regressive dal punto di vista culturale ed antropologico. Non penso che questa forte spinta all’urbanizzazione debba necessariamente essere un fattore così terribile, come spesso si dice. Credo che continui a essere vero che “l’aria della città rende liberi”. Si va a vivere in città per migliorare le proprie condizioni, per avere nuove opportunità. La campagna è spesso sinonimo di immobilità e di passiva accettazione di condizioni disumane. Naturalmente, so bene che le megalopoli asiatiche hanno ben poco a che fare con la nostra storia e la nostra cultura europea della città. C’è la “città illegale”, ci sono sacche spaventose di povertà e devastanti sperequazioni. Perché la condizione urbana diventi accettabile, si devono fare sforzi smisurati e deve essere accelerata la messa a punto di strumenti e di misure di carattere organizzativo, finanziario e sociale (si pensi alla condizione sanitaria negli agglomerati del “terzo mondo”) per combattere la miseria e l’emarginazione. Con tutto questo, il “fattore città” in espansione ed in crescita non riesco davvero a vederlo come fatalmente negativo.

D: Il tema della città è questione veramente di portata enorme dal punto di vista culturale ed è al centro di un grande dibattito, oggi, tra sociologi, antropologi e urbanisti. C’è chi dice che nell’età delle megalopoli, nell’età in cui le città sembrano non avere più un centro, in cui la città tende a non avere più una dimensione definita, la cultura della città così come si è storicamente formata, sia arrivata al capolinea. Tu concordi con quest’analisi così drastica ?

R: Non so se si possano dare definizioni a senso unico, valide su scala planetaria. Secondo me non è possibile. In Europa è innegabile il peso positivo dei fattori urbani tradizionali. E penso che sarà sempre così. In questa parte del mondo, secondo me, nonostante le trasformazioni in corso, non vale l’ipotesi catastrofica e definitiva che dichiara conclusa l’”epoca delle città”. In certe regioni dell’Asia o del Sudamerica, dove, tra l’altro, il peso delle città è stato diverso rispetto all’Europa, si vivono sicuramente problematiche diverse.

Si è tornati a parlare di periferie anche in Italia. Dopo i recenti accadimenti nelle banlieues francesi, teatri di violente rivolte contro lo Stato assente e mossi dalla preoccupazione generalizzata per il futuro di questi luoghi del conflitto, il dibattito su quanto sta avvenendo o su quanto può accadere nelle periferie italiane ha trovato diverse occasioni di confronto. La notizia buona è che si torna a parlare di problemi reali della città e si esce fuori dal dibattito sterile su strumenti e modelli. La città torna ad essere il luogo di interesse per la cultura urbanistica, almeno di quella non ancora anestetizzata dal pensiero dominante. L’altra buona notizia è che in questi incontri si possono misurare e confrontare politiche e iniziative portate avanti negli altri paesi europei. Il confronto è spesso poco lusinghiero perché misura la distanza dagli altri e rende evidente le conseguenze di anni di dibattito autocentrato. E’ così ad esempio sul tema del recupero dei quartieri e sul tema della casa come diritto: della casa sociale.

Su questi temi si è soffermato nel corso di un recente incontro svoltosi a Venezia[1] Oriol Nello[2], segretario per la Pianificazione Territoriale della Catalunya. In particolare Nello ha aperto una finestra sullo scenario politico della Catalogna caratterizzato dalla recente approvazione della nuova legge urbanistica (legge 1/2005 del 26 luglio)[3], che all’articolo 154[4] prevede che almeno il 25% della nuova edificazione privata (residenze) deve essere destinato ad affitto moderato e, nel caso in cui il privato non dovesse adempiere a tale obbligo, lo Stato ha la facoltà di espropriare l’equivalente cubatura ad un prezzo più basso di quello di mercato.

Il riferimento a questo articolo, si inseriva nel racconto di un altro recente provvedimento della Regione della Catalogna che riguarda in modo specifico le periferie. Si tratta del “Programma dei quartieri e aree urbane d’attenzione speciale” (legge 2/2004 del 4 giugno) con il quale il governo socialista ed il Parlamento della Catalogna, cercano di rispondere alla "tendenza alla segregazione spaziale dei gruppi sociali determinata dal sistema di urbanizzazione capitalista". Gli ambiti di intervento di questo programma sono stati presentati da Oriol Nello in tutta la loro problematicità: aree in cui alle carenze urbanistiche – problemi di urbanizzazione, di attrezzature, di accessibilità – si accompagnano problematiche sociali – invecchiamento, spopolamento, basso livello di educazione e di occupazione – criticità dunque, che rendono necessaria un’azione integrata nelle dimensioni fisica, economica e sociale. L’obiettivo principale è la riqualificazione dei quartieri per interrompere il processo di degrado che investe tali aree urbane e per migliorare le condizioni di vita dei loro abitanti.

Il governo regionale ed i comuni in cui ricadono i quartieri e le aree degradate, finanziano, per la maggior parte delle risorse messe in atto, la riqualificazione prevista dai programmi di intervento che sono redatti e promossi dai comuni; la legge costituisce un fondo di finanziamento del Programma (di cui almeno il 50% proveniente dal soggetto pubblico) concepito come lo strumento finanziario destinato alla riqualificazione e alla promozione specifica di questi quartieri. Fino ad oggi sono stati finanziati programmi in 60 quartieri per un totale di 800.000.000 Euro ripartiti in interventi che vanno dalla riqualificazione degli spazi pubblici e la dotazione di spazi verdi, alla riqualificazione degli elementi comuni degli edifici, all’inserimento di tecnologie dell’informazione negli edifici, all’accessibilità e, ancora, all’eliminazione delle barriere architettoniche.

La pressione del processo di finanziarizzazione degli immobili e le trasformazioni urbane che possono comportare l’allontanamento dei residenti pongono, in definitiva, un tema più generale che ha a che fare con il diritto alla città, citato da Oriol Nello con un riferimento a Henry Le Febvre[5]. E’ questo il vero tema prima ancora delle periferie perché oggi il diritto alla città è negato proprio nelle aree centrali, come nei processi di recupero. In America per rendere chiaro questo aspetto, parafrasando il termine “urban renewal”, si è coniato il termine “black removal”.

Tornare a parlare di periferie è allora l’occasione per dire che le città devono essere una risorsa importante per la crescita sociale ed economica del nostro paese e che devono tornare ad essere oggetto di attenzione da parte della politica. La vita materiale di molti cittadini dipende dalle città, dalla loro efficienza e dalla loro capacità di costruire senso di sicurezza sociale e di progresso. Come dimostra il caso della Catalogna molti paesi europei sono impegnati su questa strada. Si può e si devono riportare, anche in Italia, le città al centro dell’agenda politica e farne un punto essenziale del programma del nuovo governo del paese.

[1]“Periferie come banlieus?", Dipartimentodi pianificazione dell'Università IUAV di Venezia, 30-31 marzo 2006

[2] Secretario para la Planificación Territorial, Departament de Política Territorial i Obres Públiques, Generalitat de Catalunya

[3] I contenuti della legge sono stati oggetto dell’articolo di Maria Lluisa Marsal in questo sito

[4] Acquisizione con esproprio di riserve di suolo per il patrimonio pubblico

[5]Lefebvre, Henri. (1974) Il diritto alla città. Padova. Marsilio

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