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, inteso come acque, aria, foreste, suolo, esseri viventi. Non a caso il Ministero si chiama per la “tutela” dell’ambiente; il braccio scientifico di tale ministero si chiama Istituto Superiore per la ”Protezione” e la Ricerca Ambientale (ISPRA). Infatti l’ambiente deve essere tutelato e protetto dalle attività umane e, in qualche caso, da eventi “naturali” come terremoti o eruzioni vulcaniche. Le alterazioni di origine umana derivano da interessi contrapposti, spesso o talvolta entrambi legittimi: chi produce merci utili e occupazione e chi protesta per i fumi che escono dai camini; chi costruisce una casa in montagna e chi protesta per il taglio dei boschi, eccetera.

La protezione dell’ambiente, da parte della pubblica amministrazione e da parte di associazioni o movimenti di ecologisti e ambientalisti, presuppone “la conoscenza” delle sue condizioni e delle sue modificazioni e questa può essere acquisita soltanto esaminando libri e documenti sparsi in numerosi posti, più o meno facilmente accessibili. Una associazione ecologica può contrastare l’inquinamento di un fiume soltanto se conosce tutti i suoi caratteri, la localizzazione e il tipo delle attività inquinanti, la natura delle scorie che finiscono nelle acque, i danni alla vita acquatica e alla salute delle persone che, a valle, traggono dal fiume l’acqua da bere. Si tratta, di conoscenze chimiche, fisiche, geologiche, biologiche, contenute in libri e relazioni spesso raccolti da enti e uffici pubblici, anche se raramente si sa dove si trovano.

E’ stata quindi molto opportuna l’iniziativa della dott. Anna Laura Saso, dell’ISPRA prima ricordato, di raccogliere a Roma, il 15 aprile scorso, presso la Biblioteca Nazionale, i responsabili delle principali agenzie e istituzioni invitandoli a “raccontare” il ricco patrimonio di libri e documenti relativi all’ambiente esistenti nelle loro biblioteche e in quale modo ogni cittadino vi può accedere. Tanto per cominciare, lo stesso ISPRA possiede nella sua biblioteca libri e relazioni proprio nello specifico tema ambientale, così come in ciascuna regione le varie agenzie locali per la protezione ambientale possiedono biblioteche con la documentazione relativa soprattutto al territorio in cui operano.

Chi fosse interessato allo difesa del suolo ha a disposizione una biblioteca e una cartografia del territorio che risale al 1867; subito dopo la nascita del Regno d’Italia è stato infatti creato il Comitato, poi Servizio Geologico d’Italia che ha studiato la geologia del nostro paese e che ha raggiunto un prestigio internazionale per le molte campagne di indagini geologiche svolte in tutto il mondo. Dall’esame delle carte geologiche, redatte nel corso di un secolo e mezzo, in parte consultabili in Internet, è (sarebbe) possibile capire dove “non” avrebbero dovuto sorgere quartieri residenziali, edifici, strade, stabilimenti industriali a causa della franosità del suolo e del pericolo di alluvioni. E, volendo, le amministrazioni pubbliche potrebbero sapere dove simili opere non dovrebbero essere autorizzate in futuro.

Nel 1927 fu creato Il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) che coordina le ricerche scientifiche italiane attraverso diecine di laboratori propri o presso le Università. Il CNR in novanta anni ha raccolto una vastissima biblioteca contenente libri e collezioni di riviste in tutti i campi scientifici, in gran parte direttamente legati all’ambiente. Nel 1934 fu creato l’Istituto Superiore di Sanità che possiede una enorme documentazione sulle fonti di inquinamento e sui loro effetti sulla salute degli Italiani; un’altra importante biblioteca ambientale si trova presso l’ENEA, l’agenzia nata nel 1952 per le ricerche nucleari e ora specializzata nelle nuove tecnologie energetiche e ambientali. Il convegno sulle biblioteche ambientali ha messo in evidenza che una parte, continuamente crescente, delle conoscenze sullo stato, sull’evoluzione e sulle alterazioni dell’ambiente, sparse in questi e altri enti pubblici, è disponibile in Internet e diventa quindi accessibile a coloro che riconoscono e vogliono contrastare le violenze alla natura e al territorio. E’ stata anche costituita una associazione di “amici” delle biblioteche ambientali.

Un altro aspetto importante riguarda il recupero delle biblioteche e degli archivi di privati, persone o anche associazioni o gruppi che sono stati attivi nelle lotte ambientali. Qualcosa è stato salvato, come l’archivio dell’urbanista Antonio Iannello da parte del Comune di Napoli, quello dello scrittore Antonio Cederna a Roma; rischia la dispersione la biblioteca di Fabrizio Giovenale, uno dei fondatori di Legambiente, in locali sotto sfratto alla periferia di Roma; la Biblioteca Motolese si trova a Taranto nel Quartiere Tamburi, a ridosso dei fumi dell’ILVA. Molte altre raccolte private di libri e documenti ambientali sono confinate in luoghi poco accessibili e moltissime sono andate perse. La Fondazione Luigi Micheletti di Brescia da venti anni va, letteralmente, “alla caccia”, di libri e archivi ambientali privati, a pericolo di dispersione, che raccoglie nella sua biblioteca-museo sulla storia contemporanea; un patrimonio che, in parte, aspetta di essere catalogato e inventariato e che rappresenta una fonte di studio e ricerca per comprendere molti eventi della storia dell’ambiente attraverso le testimonianze dei protagonisti. A causa della miopia delle istituzioni pubbliche alla Fondazione mancano soldi per le persone e per lo spazio di archiviazione, un peccato perché soltanto la conoscenza degli errori passati permetterebbe di prevedere, prevenire ed evitare errori e costi ambientali futuri. Come ha scritto Shakespeare, “il passato è prologo”.

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Una delle ragioni addotte dai sostenitori del no al prossimo referendum del 17 aprile è quella nobile della difesa dei posti di lavoro. Costoro danno a intendere che, in caso di vittoria del si, verrebbe aperta una pratica di licenziamenti di massa, destinata a gettare sul lastrico migliaia di famiglie. Ora, a parte i reali esiti referendari, mirati a porre un termine definito allo sfruttamento dei nostri mari, e non certo a mettere in atto le regole di libertà di licenziamento introdotte dal governo Renzi con il Jobs act...

Occorre entrare nel merito dell'obiezione, sia in termini specifici che generali. Già su questo giornale [il manifesto -ndr] il 10 aprile, Davide Bubbico - che non scrive per sentito dire, avendo dedicato al tema un ponderoso volume, L'economia del petrolio e il lavoro, Ediesse 2016) ha messo in evidenza come l'industria degli idrocarburi sia una tipica economia capital intensive, caratterizzata cioé da grandi investimenti in capitale fisso (macchinari e strutture ), ma con ridotte ricadute sull'occupazione. Dopo decenni di sfruttamento dei territori della Basilicata oggi si possono contare poche migliaia di occupati, comprese le figure dell'indotto. Naturalmente non si vogliono sottovalutare neppure questi esiti ridotti sull'economia della regione, che andrebbero tuttavia comparati con l'ampiezza dei territori occupati dall'ENI, con le risorse locali consumate, con il vasto impatto ambientale e con gli esiti sulla salute dei cittadini, che si potrà misurare solo nel lungo termine.
Ma quello che appare oggi intollerabile è il motivo della “difesa del posto del lavoro” qualunque sia l'attività produttiva che rende possibile l'occupazione. E questo è un punto su cui occorre soffermarsi. La disoccupazione di massa dei nostri anni, non è solo un dato strutturale del modello di accumulazione capitalistica dominante. E' ormai diventata una pratica di controllo sociale, che produce senso comune diffuso. Agli occhi di una massa crescente di uomini e donne disperati, chi investe in attività produttive appare come un benefattore. Lo sfruttamento del lavoro altrui e i profitti che ne conseguono scompaiono. Allo stesso modo, chi è già occupato non può lamentarsi dei ritmi di lavoro cui è sottoposto, dei turni, degli straordinari necessari per arrotondare, della sua penosa fatica quotidiana. Deve considerarsi fortunato, perché è al sicuro, mentre fuori dalla sua fabbrica o dal suo ufficio infuria la tempesta.

Ma la scarsità di lavoro, diventata una convenienza strategica per il capitale, non è solo una immensa fonte di nuova legittimazione del suo dominio, è anche l'origine di un progressivo arretramento della nostra civiltà. Siamo al punto che ormai esaltiamo senza nessun pudore i nostri successi industriali anche quando sono finalizzati alla guerra, a portare morte e distruzioni presso altri popoli. Finmeccannica firma un maxicontratto per la fornitura di 28 Eurofighter Typhoon al Kuwait, titolava trionfante Il Sole 24 ore il 4 aprile e ripetevano con pari giubilo gli altri grandi quotidiani nazionali. Ma l'inglese dei termini usati non può cambiare la natura criminale dei prodotti. Fighter significa combattente, e quell'euro che lo precede serve solo a camuffare e nobilitare il termine, quasi si trattasse di un computer di nuova generazione, mentre è invece un aereo, un areo Typhoon, cioé uragano, che genera una tempesta di morte. Plaudiamo a Finmeccanica che crea occupazione costruendo aerei da combattimento, destinati ad alimentare le guerre che infuriano in Medio Oriente?

Certo, lo sfruttamento del mare non è paragonabile all'industria degli armamenti. Sono due cose molto distanti tra loro. In un caso – ma solo quale esito indiretto o incidentale – si uccidono pesci e si distrugge l'habitat marino, e per lo meno si produce petrolio, nell'altro si producono armi per uccidere espressamente uomini e donne. Ma chi difende le ragioni del no a tutela dei posti di lavoro deve essere portato a riflettere su un altro aspetto. La convenienza a sfruttare le vecchie economie comporta un rallentamento degli investimenti nelle nuove. E questo è storicamente provato.Quando nel 1972, il Club di Roma pubblicò il Rapporto sui limiti dello sviluppo, circolato poi in piena crisi petrolifera, si aprì una vasta discussione sulla ricerca di energie alternative. Un dibattito destinato ben presto a esaurirsi quando si scopri che di petrolio ce n' era ancora tanto, nella pancia della Terra, insieme a veri e propri oceani di gas. E per i decenni successivi gli investimenti di ricerca, nel solare e nell'eolico, divennero diletti per hobbisti solitari.Quanti investimenti e ci ha fatto perdere lo sfuttamento degli idrocarburi? Quanto gas serra avremmo potuto risparmiare al nostro clima?

Ma c'è un'altra ragione ancora più importante da considerare. Già in passato nel nostro paese è stato commesso un grave errore di strategia industriale. Quando, tramite gli investimenti della Cassa per il Mezzogiorno, si occuparono tanti siti costieri del nostro Sud, da Brindisi fino a Priolo, venne adottata una politica non dissimile da quella dell'ENI in Basilicata. Grandi strutture industriali calate dall'alto, che non generarono nuove economie, non stimolarono una ulteriore crescita del territorio, perché estranee ad esso, alla sua storia, alle sue vocazioni, ai saperi delle genti che lo abitano. Anche allora territori di altissima qualità (mica i deserti dell'Arabia Saudita) furono letteralmente “svenduti” all'industria, in gran parte pubblica. Si trattava e si tratta di industrie che potremmo definire nature intensive, che consumano risorse naturali (immense quantità d'acqua) inquinando suoli, strati aerei, fondali marini. Ma almeno allora, nell'errore, quegli interventi erano interni a un progetto generale di sviluppo del nostro Mezzogiorno. Si pensava di generare posti di lavoro investendo in attività industriali che peraltro non si esaurivano nell'insediamento dei petrolchimici. Ma oggi? Dobbiamo continuare a difendere attività residuali? Dobbiamo conservare i pochi posti di lavoro gentilmente concessi dalla Total e da Shell, senza badare alla nostra industria turistica, alla vita dei nostri mari, al riscaldamento climatico che incombe, alimentato in misura così rilevante dal consumo di petrolio?

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. O più esattamente perché non lo state accompagnando a scuola secondo i criteri didattico-pedagogici prescritti dalla massima autorità locale in materia, che prevedono una modalità sola: Pierino deve rigorosamente scendere dal sedile della vostra auto davanti al cancello, non arrivarci a piedi. Così stabilisce una delibera della Bear Branch Elementary School di Magnolia, nell'area metropolitana di Houston, in vigore da quest'anno scolastico e recepita in quanto tale dall'ufficio dello sceriffo della Montgomery County, pronto a intervenire nella spietata repressione dei trasgressori.

Secondo le dichiarazioni di alcuni infuriati genitori residenti piuttosto vicino alla scuola, e che hanno ritirato i figli iscrivendoli ad altri istituti, la dirigente che ha scritto quella delibera «evidentemente è convinta che noi non si sia in grado di comprendere e decidere cosa è o meno sicuro per i ragazzi, e che spetta all'amministrazione scolastica stabilirlo». Tornano in mente le sequenze iniziali di First Blood, l'episodio che inaugura la fortunata serie di Rambo, in cui il reduce dalla guerra in Vietnam cammina sul ciglio della strada tallonato dallo sceriffo, che senza mai scendere dall'auto gli spiega che così lui è fuori posto, fuori contesto, in pratica fuori legge anche senza aver fatto nulla. Deve essere qualcosa di simile ad aver ispirato la delibera della dirigente scolastica, di cui ovviamente non possiamo conoscere gli orientamenti politici e culturali, mentre invece in fondo capiamo benissimo e chiaramente il contesto spaziale, sociale, comportamentale e di immaginario.

C'è il suburbio disperso senza centro, dove tutto ruota attorno a pochissimi luoghi di riferimento diversi dalle abitazioni private, in genere connessi in rete esclusivamente dalla grande viabilità stradale, spesso senza neppure il complemento di una viabilità minore storica a sezioni ridotte e con qualche orientamento residuo vagamente pedonale o ciclabile (cosa che avviene invece là dove l'espansione delle nuove residenze si appoggia a qualche nucleo pre-automobilistico di massa). Dentro quel sistema composto di baccelli a fondo cieco, è piuttosto raro e fortuito che esista qualche tipo di accessibilità pedonale diretta e sicura dalla residenza a un'attività diversa, commerciale o di servizio, perché tutta l'organizzazione urbanistica non prevede affatto che ce ne sia la necessità o l'opportunità. Sezione delle carreggiate, separazioni rigide di corsie, arretramenti degli edifici e distinzioni di livello, tutto converge nell'imporre l'uso di un'auto, o di qualche autobus navetta dove ce ne sono disponibili, per ogni spostamento diverso da quelli strettamente interni. Unico interfaccia pedoni-veicoli resta il parcheggio, in forma di piazzale, silo, corsia per la sosta temporanea davanti a un ingresso.

Nessuna sorpresa, se questo modo di spostarsi, addirittura questo modo di concepire e vivere lo spazio, sia stato considerato dalla dirigente scolastica l'unico socialmente accettabile e garantito sicuro per raggiungere la sua scuola. Convinzione rafforzata dalla disponibilità dell'ufficio dello sceriffo di contea a reprimere i trasgressori di quello che, alla fin fine, altro non è che un codice della strada diventato regola di convivenza e organizzazione della vita quotidiana. Basta un'occhiata a volo d'uccello da Google Earth, alla Bear Branch Elementary School di Magnolia, a confermare quanto banale e routinaria possa essere sembrata alla preside signora Ray quella delibera sulla sicurezza dell'accesso alunni all'edificio. Pochissime – vista l'organizzazione a bassissima densità e a abitazioni unifamiliari - le case a distanza pedonale dal complesso, pare ovvio che tutto il traffico in entrata e uscita debba per forza passare dall'arteria principale su cui si affaccia l'ingresso al parcheggio (l'edificio vero e proprio è, da manuale, molto arretrato). I genitori che, vuoi per motivi molto pratici, vuoi per scelte specifiche di comportamento o ambientali, pretendevano di far camminare fin lì i figli, in fondo sono dei rompiscatole stravaganti, che mettono a rischio l'ordine costituito. Difficile, da questo punto di vista, dar torto alla signora Ray. A meno, naturalmente, di dar torto a mezzo secolo abbondante di norme, regole, culture, che hanno prodotto quell'universo claustrofobico. E che in tutto il mondo le amministrazioni locali spesso fanno di tutto per scimmiottare.

La notizia sul sito Fox 26 Houston

nel nostro Paese. Un conflitto per così dire fondativo ha contrapposto il lavoro alla natura... (continua la lettura)

nel nostro Paese. Un conflitto per così dire fondativo ha contrapposto il lavoro alla natura, l'umana operosità alle ragioni del mondo vivente, il movimento operaio agli equilibri degli habitat naturali. E per ragioni che hanno a che fare innanzi tutto con la dottrina. A partire da Marx. E' vero, egli dichiara, sin dal Primo libro del Capitale: «Il lavoro è prima di tutto un processo fra uomo e natura, un processo nel quale l'uomo, attraverso la propria attività procura, regola e controlla il suo scambio materiale con la natura». Scambio materiale o organico, il famoso Stoffwechsel. Un riconoscimento importante del ruolo della natura, nella produzione della ricchezza. Ma tale visione rimane confinata sullo sfondo, perché nel pensiero di Marx ha poi il sopravvento la teoria del valore-lavoro. È la scoperta di Adam Smith ( peraltro non del tutto sua) secondo cui il lavoro è la fonte di ogni valore:«l'originaria moneta d'acquisto con cui si pagano tutte le cose», come scrive nella Inquiry sulla ricchezza delle nazioni. A cui Marx aggiungerà il disvelamento rivoluzionario della creazione del plusvalore, l'origine dell'accumulazione della ricchezza in poche mani, fondata sullo sfruttamento operaio, e la riproduzione del capitalismo e della società divisa in classi.
Ma questa scoperta, che orienterà le lotte di tutti i movimenti di ispirazione marxista, e del movimento operaio in generale, dimenticherà le ragioni della natura. La centralità del lavoro e dei suoi interessi prevarranno su quelle del mondo vivente in cui questo pur si svolge.Non voglio ridurre il pensiero di Marx, capace ancora oggi di illuminarci, al marxismo. Questo è ovvio, le dottrine finiscono colo vivere di vita propria. Ma è importante osservare che tale curvatura così esclusivamente antropocentrica del marxismo diventerà ancora più rigida e dottrinaria nella sua trasmigrazione nella Russia preindustriale della Rivoluzione bolscevica. Esso diventerà, inevitabilmente una “teoria dello sviluppo industriale” dal punto di vista operaio. Non per niente Lenin poté definire il comunismo come « l potere sovietico più l'elettrificazione di tutto il paese.« Che cosa poteva importare del territorio, delle foreste, delle acque dei fiumi, dei grandi laghi della Russia di fronte alla necessità di costruire una nuova società attraverso l'espansione dell'industria? L'uomo nuovo sovietico era un lavoratore-titano che plasmava a sua immagine il mondo intorno a sé. Non ci dovremmo perciò stupire se in Unione Sovietica – come ha ricordato lo storico John MacNeil – nella seconda metà del '900 furono utilizzate piccole bombe atomiche per sventrare montagne ed aprire miniere. In Cina da decenni vanno costruendo il comunismo provocando catastrofi ambientali.

Neppure miglior fortuna ha avuto il mondo naturale nel pensiero rivoluzionario italiano.Nel nostro teorico più grande, Gramsci, non c'è posto per le sorti della natura. Anche in lui il processo storico è pensato secondo la curvatura dello sviluppo industriale, leva dell'umana emancipazione. In uno dei suoi Quaderni più anticipatori, Americanismo e fordismo, di fronte all'organizzazione tayloristica del lavoro Gramsci ha uno sguardo di sconcertante provvidenzialità teleologica. «La storia dell'industrialismo - scrive - è sempre stata ( e lo diventa oggi in una forma più accentuata e rigorosa) una continua lotta contro l'elemento “animalità” dell'uomo, un progresso ininterrotto, spesso doloroso e sanguinoso, di soggiogamento degli istinti ( naturali, cioé animaleschi e primitivi ) a sempre nuove, più complesse e rigide norme e abitudini di ordine, di esattezza, di precisione che rendano possibili le forme sempre più complesse di vita collettiva che sono la conseguenza necessaria dello sviluppo dell'industrialismo».

D'altra parte l'Italia, Penisola di antichissima antropizzazione non ha una tradizione culturale favorevole allo sviluppo di una narrazione naturistica dell'umana vicenda. Dominata da mille città, che hanno assoggettato per millenni i loro contadi, non poteva certo generare élites sensibili ai problemi degli equilibri degli habitat, se non per fini di sfruttamento economico. Come è accaduto con le bonifiche. L'avvento delle società industriali - la fase storica a partire dalla quale è legittimo e non anacronistico aspettarsi sensibilità ambientale - non produce in Italia le reazioni protoambientalistiche che si verificano ad es. negli USA. Qui nell' 800 sterminati lembi di wilderness, di natura incontaminata apparvero minacciati dallo sviluppo industriale. In Germania i piccoli villaggi circondati da boschi – modello prevalente degli insediamenti umani in quel paese– furono sconvolti in pochi decenni alla fine dell' 800, generando una vasta opposizione destinata a grande influenza sul pensiero politico ed ecologico tedesco. E non meno cura per il mondo naturale creò, per contrasto, la rivoluzione industriale nelle élites inglesi, a partire da quel secolo. Niente di tutto questo in Italia, che arriva tardi all'industrializzazione Uno sviluppo concentrato peraltro, nel Triangolo Milano-Torino-Genova, in gran parte manifatturiero e perciò di limitato impatto ambientale. Si comprende allora come sia potuto accadere che nel corso del '900 è sorto accanto al fragile gioiello di Venezia, il Petrolchimico di Porto Marghera; in uno dei siti più incantevoli del Belpaese , a Bagnoli, l'Italsider, e poi l'Ilva nei due mari di Taranto, i vari stabilimenti petrolchimici a Brindisi, Gela, Priolo, ecc. cioé in località marittime con habitat delicati e ad alta vocazione turistica. E non stupisce, peraltro, che in un paese afflitto da disoccupazione endemica, le posizioni ambientaliste siano state minoritarie nel PCI e nel sindacato.

Solo dopo Cernobyl, non solo il ceto politico, ma anche gli italiani scoprono la fragilità della natura in quanto minacciata dall'inquinamento. E solo negli ultimi decenni, l'ambientalismo è diventato di massa (con le lotte contro gli inceneritori, le discariche, le centrali a carbone, ecc) allorché le popolazioni hanno scoperto, tramite i danni prodotti dall'inquinamento alla salute, quella natura insuperabile che è in ognuno di noi. La natura è stata scoperta nel corpo vulnerabile degli uomini. E' stata la malattia a mandare gambe all'aria il vecchio storicismo antropocentirico. Grandi masse di cittadini hanno scoperto che la storia ha cambiato il suo corso e la crescita economica non genera di per sé benessere e progresso. Il nuovo ambientalismo italiano oggi parla un linguaggio che non è più “sviluppista”, scopre il valore storico dei territori, della natura antropizzata e trasformata in paesaggio e bellezza, e il ceto politico stenta a comprenderlo.

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Alcune settimane fa è morto a Gerusalemme, all’età di 98 anni, Harry Tabor, al cui instancabile lavoro, negli ultimi settanta anni, si devono i principali progressi nell’utilizzazione dell’energia solare. Tabor era nato a Londra nel 1917 e, dopo la laurea in ingegneria, nel 1947 fu impegnato nel lavoro di trasformazione delle navi mercantili, residuati bellici, in navi passeggeri per l’immigrazione clandestina degli Ebrei in Palestina (un episodio del genere è raccontato nel film Exodus del 1960, con Paul Newman). Conoscendo le sue capacità, Ben-Gurion, il primo ministro del nuovo stato di Israele, nato nel 1948, lo chiamò in Israele per creare e dirigere l’Istituto Nazionale di Fisica che, sul modello di quello britannico, affiancò il governo per le informazioni di carattere tecnico-scientifico. Scarsità di acqua e di energia erano i fattori limitanti dello sviluppo del nuovo stato e il Sole poteva contribuire a soddisfare queste due necessità.

La prima impresa di Tabor fu la progettazione di scaldacqua solari: una lamiera sulla quale sono saldate delle serpentine è coperta da una lastra di vetro e poggia su uno strato di materiale isolante che evita la dispersione del calore. L’acqua fredda entra dal basso e si scalda passando nelle serpentine del pannello esposto al Sole; l’acqua calda sale spontaneamente, senza bisogno di motori, in un serbatoio isolato da cui viene prelevata ed entra nella casa. Gli scaldacqua solari erano stati inventati molti decenni prima, ma Tabor ne aumentò l’efficienza usando lastre metalliche da lui studiate, rese “selettive” con uno speciale trattamento di cromatura che ne faceva aumentare la capacità di assorbire la radiazione solare rendendo minime le perdite di calore. Il successo commerciale degli scaldacqua solari, oggi diffusissimi in Israele, è stato possibile perché possono essere venduti soltanto se rispettavano certi standard di qualità, proposti proprio da Tabor, che ne assicurano la durata e l’efficacia. Lo scarso successo degli scaldacqua solari in Italia è stato in gran parte dovuto proprio alla mancanza di una standardizzazione e di controlli di qualità.

Il secondo passo del lavoro di Tabor fu dedicato alla progettazione di un motore, funzionante con un ciclo termico inventato dall’ingegnere scozzese William Rankine (1820-1870), basato sull’evaporazione e la condensazione di un fluido organico come la benzina, scaldato a temperatura abbastanza bassa, come quella ottenibile nei pannelli solari. Il primo motore solare, costruito in collaborazione con Lucien Bronicki, fu presentato alla Conferenza delle Nazioni Unite sulle nuove fonti di fonti di energia che si tenne a Roma nel 1961. La radiazione solare era raccolta da un ingegnoso pannello contenuto in un tubo trasparente di plastica gonfiabile. Bronicki creò in Israele una società Ormat per la costruzione di motori Rankine che sono venduti in tutto il mondo per lo sfruttamento di fonti di calore a bassa temperatura come quelle geotermiche o quelle che si creano negli “stagni solari”.
Gli stagni solari, inventati anch’essi da Tabor, consistono in vasche profonde pochi metri, contenenti acqua dolce, sul cui fondo viene creato un sottile strato di acqua ad alta concentrazione salina. La radiazione solare attraversa l’acqua superficiale e scalda l’acqua salina sul fondo; questa non si miscela con quella sovrastante e si comporta come un vero e proprio semplicissimo collettore di calore raggiungendo temperature di alcune diecine di gradi, sufficienti per azionare un motore e produrre elettricità. Gli “stagni solari” attrassero grande curiosità e attenzione; uno di questi fu costruito nella saline di Margherita di Savoia negli anni ottanta del Novecento, ma fu poi abbandonato dopo un paio di anni; gli stagni solari in Israele funzionano ancora oggi.

Il lavoro di Tabor nel campo solare fu sempre rivolto alla ricerca di soluzioni semplici per i bisogni di paesi emergenti, al servizio delle necessità umane. In questa direzione si possono ricordare i progetti di fornelli per la cottura di alimenti con il calore solare concentrato da piccoli semplici specchi fatti con pezzi di lamiera e i distillatori per trasformare, col calore solare, l’acqua di mare in acqua potabile. Semplici soluzioni furono progettate per il funzionamento di frigoriferi solari “da villaggio” e per la progettazione di case raffreddate e ventilate senza bisogno di macchine. Tabor propose perfezionamenti delle celle fotovoltaiche e studiò la teoria dei concentratori a specchi stazionari, che non hanno bisogno di essere continuamente orientati verso il Sole.

Ciascuna iniziativa stimolava imprese commerciali e creava occupazione. A un intervistatore che gli chiedeva quali cose “non avesse fatto”, Tabor rispose: “i soldi”. Viveva infatti in una modesta casa di Gerusalemme con la moglie Vivienne che aveva sposato nel 1947. Una risposta su cui riflettere in questo momento in cui sembra che il fine delle energie rinnovabili in Italia sia soltanto quello di “fare soldi” per i costruttori, i venditori e anche per gli acquirenti.

Nel suo impegno civile Tabor fu determinante per la istituzione del centro di ricerche solari presso l’Università Ben-Gurion di Bersheba nel deserto del Negev. Le principali pubblicazioni di Harry Tabor sono state raccolte in un libro pubblicato, in occasione del suo ottantesimo compleanno, dalla International Solar Energy Society di Friburgo, in Germania; ne raccomando la lettura soprattutto a chi cerca stimoli per le molte altre cose che il Sole può fare per il progresso umano.

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Il 23 marzo di ogni anno si celebra la giornata mondiale dell’acqua per ricordare l’importanza di questa sostanza, che è risorsa naturale, alimento, mezzo di produzione, e da cui tutto dipende. Non a caso è la ventunesima parola che figura nel primo libro della Bibbia, quello della creazione di tutte le cose. L’acqua occorre per togliere la sete a uomini e animali, per fare crescere le piante; per gli esseri umani, poi, l’acqua, visibile ed invisibile, è presente dovunque, è indispensabile per fini igienici, è necessaria per il funzionamento delle fabbriche e delle centrali elettriche e delle raffinerie di petrolio, eccetera.

La giornata dell’acqua è anche un’occasione per conoscere meglio il ciclo di una sostanza che non sta mai ferma: evapora dai mari, ricade al suolo sotto forma di neve e di pioggia, passa attraverso i campi, le città, le valli. Sulla superficie dell’Italia cadono ogni anno circa 250 miliardi di metri cubi di acqua; circa il 60 percento di questa evapora dalla superficie e dalla vegetazione e circa 120 miliardi di metri cubi di acqua ogni anno scorrono, instancabili, nei fossi, torrenti, fiumi e tornano al mare dopo aver raccolto sali e rocce del terreno e rifiuti, incontrati nel loro cammino. Ogni anno in Italia circa 20 miliardi di metri cubi di acqua sono prelevati dalle sorgenti, dal sottosuolo o dai fiumi per irrigare i campi, circa 5 per usi industriali e circa 10 per il rifornimento delle famiglie, ma di questi ultimi soltanto poco più di 5 miliardi di metri cubi all’anno arrivano nelle nostre abitazioni, venduti da circa 3000 aziende; una perdita altissima di acqua e troppi gestori che non riescono ad assicurare una distribuzione adeguata. Prima di arrivare nel nostro rubinetto l'acqua viene analizzata e subisce vari trattamenti, imposti da severe norme europee che prescrivono, a fini igienici, quali sostanze possono essere presenti nell'acqua potabile e quali sono rigorosamente vietate.

Quale uso fa ciascuno di noi di questi cinquemila milioni di metri cubi di preziosa acqua potabile ? La beviamo, prima di tutto, in ragione di circa un metro cubo all’anno per persona, circa 60 milioni di metri cubi all’anno. Una accorta propaganda ha diffuso l'idea che l'acqua del rubinetto “non è buona" e che è meglio bere l’acqua in bottiglia, per la maggior gloria di quelli che la vendono, assicurandosi alti profitti. “Grazie” a questo incantamento gli italiani consumano ogni anno 12 milioni di metri cubi di acqua in bottiglia che costano alle famiglie circa tre miliardi di euro all’anno; così va questo mondo. L'acqua del rubinetto viene impiegata per cuocere la minestra o gli alimenti (ma conosco dei furbi che cuociono anche la pasta con acqua in bottiglia), e poi viene usata per lavare il corpo, magari solo per una sciacquatina delle mani, per pulire gli utensili di cucina, gli indumenti, per scaricare i rifiuti giù dal gabinetto, per annaffiare strade e terrazze o lavare le automobili. Acqua preziosa, ad elevato grado di purezza, che viene così buttata via, sprecata.

Adesso immaginiamo di fare un viaggio accompagnando i 5000 milioni di metri cubi di acqua usata dalle famiglie, giù dal lavandino o dagli scarichi dei gabinetti. Viaggio sgradevole ma utile perché ci porta a verificare lo stato della fognature - se ci sono - e a conoscere i depuratori. In Italia ce ne sono circa 10.000, ma soltanto la metà di questi depuratori pratica un trattamento appena soddisfacente e soltanto 2000 trattano le acque usate con un processo ”avanzato” che assicura una buona eliminazione delle principali impurità; anche questo mostra l’irrazionalità e la frammentazione di questo delicato sistema, essenziale per la difesa dell’ambiente e della salute. Alla fine del viaggio fra fogne e depuratori troviamo un fango maleodorante e dell'acqua usata che, in genere, viene gettata in qualche fiume o nel mare; eppure molte acque usate, se depurate in maniera efficace, potrebbero essere utilizzate in agricoltura.

La legge dice che tutte le acque, superficiali e sotterranee, sono pubbliche e costituiscono una risorsa da salvaguardare e utilizzare secondo criteri di solidarietà, anche tenendo conto delle aspettative e dei diritti delle generazioni future. Dopo parole così belle e nobili, la legge consente che delle acque “pubbliche” possano appropriarsi imprese nelle quali sono presenti ingenti capitali privati, che le vendono ai cittadini, secondo criteri di profitto finanziario, per cui l'acqua costa di meno dove è più abbondante e facile da ottenere e costa di più dove è scarsa: bella solidarietà! La legge dice che occorre risparmiare acqua, ma ben poco viene fatto per spiegare ai cittadini che l'acqua è scarsa in assoluto e lo diventerà anche dove oggi apparentemente è abbondante, a causa dei cambiamenti climatici che stanno alterando vistosamente la circolazione dell’acqua sia a livello planetario, sia a livello di singoli paesi.

Eppure i consumi di acqua potrebbero diminuire con una adeguata riprogettazione delle lavatrici, dei rubinetti, dei macchinari industriali, dei gabinetti, in modo da ottenere lo stesso effetto e servizio con meno acqua. Le scuole - è da lì che comincia l’informazione delle persone che saranno destinate a vivere in città assetate - sono la prima frontiera per far conoscere il problema, ma anche il fascino della circolazione e dell’uso dell’acqua, la più indispensabile fonte di benessere della vita individuale e urbana.

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La perdita

La figurazione e l’ironia di "la paura fa (quasi) 90" come a tombola. Anni però. Guardo o riguardo indietro nel tempo, guardo la consolidata cultura di eddyburg, guardo certe scarse note per il confronto, quella di Fabrizio Bottini reclamante «una seria interdisciplinarietà» nel commento critico al Vittorio Gregotti di Periferie: una rinascita senza ghetti (5 gennaio 2015), e il mio successivo Pensieri indisciplinati e no (9 gennaio 2015). Non possiamo più girare intorno al formaggio come fanno i topi e poi appena tentano un piccolo morso l’arco dentato li acchiappa e gli affonda le punte nella carne. Volevamo il dialogo fra le discipline, il superamento della cieca specializzazione (tipo eccessi della matematica a Oxford per selezionare la razza); volevamo onorare la vecchia battaglia di un Edgar Percy Snow affinché le due culture, l’umanistica e la scientifica, almeno si parlassero[i]; chiedevamo di riconoscere le conquiste a scuola (rare ma rivoluzionarie) nel campo della reciprocità (intra-bisogno) fra le cinque componenti della famiglia architetturale, di confermare e aumentare la capacità dell’urbanistica di introiettare l’essenziale delle scienze umane; soprattutto volevamo l’urbanistica e l’architettura, differenti ma non divergenti nella storia della città e dello spazio aperto, laboriose su cattedre e tavoli vicini, unite e compartecipanti nel fissare e perseguire gli obiettivi del progetto (del piano). Appunto, i topi intrappolati.

L’urbanistica e l’architettura sono entrambe, da una parte, nettamente staccate dalle nostre concezioni e dalle coerenti concrete prove, da un’altra «godono» quanto mai di una separatezza assoluta, un’intolleranza cruda quando gli capitasse di sfiorarsi. I campi recinti, d’altronde, non contemplano la vita. La loro divisione ha contribuito al fallimento della città e del fuori. Non interessa qui discutere la negazione di Franco La Cecla[ii] o l’ottimismo di Stefano Moroni[iii]. È la perdita dell’unità, il rifiuto del retaggio storico (una sola arte, come l’artifex dei latini) la causa dello stato attuale: l’urbanistica esiste come il cavaliere inesistente che esiste ma è un magatello; l’architettura ha surclassato la realtà come non-architettura, quella di autori che, attenti a nient’altro che a se stessi (e, horribile dictu, alla massima resa finanziaria per l’imprenditore) commettono clamorosi falli culturali e professionali pur di realizzare violente testimonianze del proprio protagonismo: cose e cosi sprezzanti i contesti storici e sociali, ostili alla città e alla comunità; forme per lo più astruse, talora contro-statiche in veste di grattacielo; contenuto? irrilevante. Ai cittadini col naso all’aria (non molti, la «classe media» potrebbe agire come l’io narrante in La vita agra di Luciano Bianciardi[iv]) basta meravigliarsi per l’imponenza vetrosa dai riflessi abbaglianti. Quando esistessero per il dato luogo, grazie a strana sopravvivenza della vecchia maniera, chiare definizioni e norme attuative, quei King Kong, succubi alla volontà del domatore padrone, le stritolerebbero, proprio come il gran scimmione stava per fare con la bella ragazza tenuta in una sola mano.

Forse l’ottica che adottiamo è deformata dalla taratura dell’obiettivo sul caso milanese? Come altre vicende in altri momenti[v], il «rito ambrosiano» (Vezio De Lucia), ossia la manipolazione delle regole, ha indicato al paese la melodia e l’armonia del corale che celebra lo sbaraglio dei difensori della legalità e dell’onesta verità storica della nostra cultura. Ne è il compendio assordante, altra volta descritto, la «Nuova Milano» di Garibaldi-Repubblica-Isola, terra straniera giacché è per intero proprietà qatarina: giustamente, vorremmo dire, dal momento che il paesaggio urbano sembra importato pari pari da quello del noto emirato[vi]: orrori, orrori disumani, un marchio mortale che distingue tutti gli emirati della penisola arabica.

La memoria

L’interno della Borsa di Amsterdam
Particolare di Amsterdam Zuid

Un metodo di progettazione in cui il tutto sia presente nelle parti e le parti nel tutto, un punto di vista univoco circa l’urbanistica e l’architettura: questo ci ha insegnato Hendrik Petrus Berlage, il maestro che tuttavia lega l’obiettivo di costruire la città nuova all’esistenza di un ideale di vita, di una larga cooperazione per obiettivi comuni; ma, infine, anche alla lotta politica contro la potenza del capitalismo. Ad ogni modo il piano per Amsterdam Zuid rappresenta in sé, a quella data, il miglior risultato rispetto alla coerenza dei principi: fedeltà alla storia della città (il demanio della terra, l’esproprio, l’isolato); affermazione e rilancio della socialità (la tradizione cooperativistica); piena applicazione della legge sulle abitazioni del 1901 (regolamentazione promotrice dell’edificazione per blocchi). Il progetto d’insieme fortemente unitario nella successione degli isolati, crea un più alto livello di unità attraverso i fabbricati ai margini e i giardini interni, luogo decisivo dove l’architettura mostra indubitabilmente, se così si può dire, la propria funzione urbanistica unita al riconoscimento dei valori cooperativistici, infatti il numero degli alloggi corrisponde a quello di una cooperativa di media dimensione. La realizzazione avverrà con gli architetti della Scuola di Amsterdam. I De Klerk, i Kramer, le Kropholler… Espressionismo, moderno romanticismo, alcune mirabolanti mostre delle risorse laterizie nell’esclusivo impiego del mattone… L’effetto è di una inflessibile coerenza dell’insieme e dei particolari, in armonia con lo spirito e l’arte del maestro. Conosciamo le critiche di Giedion (che sarà alfiere del razionalismo) al piano: le soluzioni proposte sono ancora legate a certa urbanistica ottocentesca. Ma a noi la «vecchia» Amsterdam Zuid basta ora: come preferiremmo, ora, una «Nuova Milano» tutta berutiana.

Bruno Taut, dopo una visita nel 1929, definì l’addizione meridionale un contributo eccezionale all’architettura moderna: «… è avvenuto il prodigio, la creazione di un’architettura collettiva, dove non è più la singola casa ad essere di particolare importanza, ma le lunghe schiere di case lungo le strade e ancor più l’aggregazione di molte strade in una unità complessa, anche quando in queste strade hanno lavorato architetti diversi».[vii]

La Hufeisensiedlug della Groβsiedlug Britz
Case a schiera con diversificazione della tinteggiatura

A questo punto sembra pura fortuna (invece è ricerca) poter introdurre la figura di Bruno Taut, da subito scelta insieme a quella di Berlage per far comprendere la superiorità del ricordo, tramite un suo alto apprezzamento dell’opera del maestro olandese. Pochi, forse nessun altro protagonista del Moderno può vantare, come Taut, una tanto ricca dotazione culturale fra idealità filosofica e politica, passione progettuale, capacità realizzativa. L’unità in Berlage fra architettura e urbanistica sovrintesa socialmente dalla cooperazione è naturale obbligazione in Taut. Ma esiste una più complessa relazione fra critica della città esistente e modelli deliberatamente utopici come in Die Stadtkrone e Alpine Architektur, o storico-idealistici come in Die Auflösung der Städte (Kropotkin evidente riferimento). Dobbiamo interpretarli quali potenti metafore della sua visione della società: ossia del rapporto fra società e città-territorio, dell’organizzazione degli spazi e dell’architettura. La definizione di Erdstadt per il progetto urbanistico e la precisazione con Die Erde eine gute Wohnung dicono quanta importanza Taut attribuisse alla terra, alla campagna: che all’interno della nuova città, le Siedlung, significherà anche grandi parchi, giardini, orti intanto che l’eine gute Wohnung realizza magnifiche soluzioni d’insieme urbano e di architettura di case per il popolo studiata a fondo secondo pochi tipi (fu Taut a ritenere che l’uomo trova un facile rapporto immediato con la sua abitazione fino al limite di tre piani. Superatolo comincia il momento dello straniamento che costringe a ricorrere a qualche accorgimento distraente).

Bruno Taut accettò doverosamente importanti compiti in cariche pubbliche per realizzare il suo programma, dimostrando come l’intero presupposto teorico e ideale fosse pronto a precipitare in una grande intrapresa di realtà. Da Stadbaurat a Magdeburgo lavorava da un lato per il progetto e la costruzione di alloggi popolari, dall’altro per il rinnovamento urbano attraverso la tinteggiatura policroma delle facciate attuata da artisti: «Magdeburgo colorata» si dice e si legge. A Berlino, invece, direttore dei programmi residenziali della GEHAG[viii] disegnò il piano di diverse Siedlung, talvolta con Martin Wagner, e progettò come altri noti colleghi (il fratello Max, Ludwing, Scheiderei, Häring, Poelzig…) l’architettura degli edifici. Così prima della crisi per l’avvento di Hitler decine di migliaia di alloggi furono assicurati alle classi lavoratrici. Fra i diversi e bei luoghi, il primato spetta alla Gossiedlung Britz, con la grande corte denominata Hufeisensiedlung (Hufeisen = Ferro di cavallo) altrimenti detta Lowise Reuter-Ring (Ring=Anello).

Note
[i] E. P. Snow,
Le due culture, orig. 1959 e 1963, Feltrinelli 1964, Marsilio 2005.
[ii] F. La Cecla, Contro l’urbanistica, Einaudi 2015.
[iii] S. Moroni, Libertà e innovazione nella città sostenibile, Carocci 2015.
[iv] Vedi in eddyburg l’ultimo capoverso di L. Meneghetti, Migrazioni passato e presente. Seconda parte, 10 gennaio 2016, e la relativa nota 7.
[v] Vedi in eddyburg-archivio in data 11 settembre 2006 (quasi dieci anni fa!) L. Meneghetti, Falsificazione dell’architettura e privazione dell’urbanistica, poi in L. M., L’opinione contraria, Libreria CLup, dicembre 2006, p.189-196.
[vi] Vedi in eddyburg L. Meneghetti, Dov’è la bellezza di Milano? 10 gennaio 2016.
[vii] Citazione in M. Casciato (a cura di), La Scuola di Amsterdam, Feltrinelli 1987, p. 23, da B. Taut, Die neue Baukunst in Europa und Amerika, Stutttgart 1929, p. 41.
[viii] Gemeinützige Heimstätten Aktien Geselschaft = Società anonima per residenze di pubblica utilità.

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Una primavera, quella di trent’anni fa, segnata da un gran numero di guai che, se non altro, servirono, se così si può dire, a migliorare le leggi e i controlli sulla salute e sull’ambiente. L’anno era cominciato con la pubblicazione dell’elenco delle industrie “a rischio” di incidenti; una direttiva della Comunità Europea aveva stabilito che tutti i paesi membri avrebbero dovuto fare un inventario delle industrie in cui avrebbero potuto verificarsi incidenti rilevanti, come quelli di Meda/Seveso in Lombardia, di Manfredonia in Puglia, di Bhopal in India.
Erano definite “a rischio” le fabbriche che al loro interno contenevano sostanze tossiche o esplosive in quantità superiori a certi limiti; un primo elenco delle industrie a rischio italiane fu redatto all’inizio di quel 1986 e, benché il governo lo avesse tenuto segreto, divenne presto pubblico e mostrò che l’Italia era piena di fabbriche pericolose di cui le popolazioni non sapevano niente. Cominciò allora una battaglia perché le autorità sanitarie e ambientali (era stato da poco istituito il primo ministero dell’ambiente) provvedessero a imporre procedure e controlli per una maggiore sicurezza e informazione dei lavoratori e degli abitanti del territorio circostante.
Nel marzo dello stesso anno fu scoperta una frode del vino che costò la vita a molte persone. Nel vino, come tutti sanno, è presente, in concentrazione fra 8 e 15 percento, alcol etilico che si forma dagli zuccheri dell’uva durante la fermentazione, quel delicato processo che assicura la qualità del vino il cui prezzo dipende, fra l’altro, proprio dalla quantità di alcol presente. Una delle frodi consisteva nel sottoporre a fermentazione uve scadenti aumentando artificialmente la gradazione alcolica o per aggiunta di zucchero al mosto o per aggiunta di alcol etilico.

Nel passato era stata anche praticata la frode di aggiungere al vino alcol metilico sintetico, una sostanza simile all’alcol etilico, ma tossica, e il cui prezzo era inferiore a quello dell’alcol etilico; per evitare questa frode, sull’alcol metilico era applicata una imposta che ne faceva aumentare il prezzo. Per qualche motivo tale imposta era stata annullata nel 1984 e un produttore di vino pensò di approfittarne facendo aumentare fraudolentemente la gradazione alcolico del suo vino con l’aggiunta del velenoso alcol metilico. Alcuni consumatori morirono, altri divennero ciechi. La frode ebbe grande effetto sull’opinione pubblica che si rese conto delle sofisticazioni a cui era esposta e pretese nuove più severe leggi e più diffusi controlli merceologici.
Proprio negli stessi giorni fu scoperto un diffuso inquinamento delle acque sotterranee che finiva per interessare anche l’acqua potabile distribuita dagli acquedotti. In varie città dell’Italia settentrionale i laboratori di analisi rilevarono che l’acqua che arrivava nelle case era contaminata da rifiuti industriali tossici provenienti da fusti presenti nel sottosuolo; i fusti col tempo si erano corrosi e il contenuto si era disperso nel terreno fino a raggiungere le falde idriche sotterranee. L’opinione pubblica cominciò a chiedersi quante altre discariche abusive esistessero in Italia, quali pericoli ci fossero bevendo l’acqua che usciva dal rubinetto e ci si accorse che effettivamente era pratica abbastanza diffusa disfarsi dei rifiuti tossici e pericolosi seppellendoli nel terreno; era appena l’inizio della scoperta delle discariche abusive di rifiuti tossici di cui ancora adesso stiamo verificando la diffusione e la pericolosità.
Era anche un periodo in cui il diserbo del mais era praticato su larga scala con vari erbicidi fra cui l’atrazina e quello del riso con bentazone, molto efficaci ma tossici; queste sostanze, dopo essere state sparse nei campi, finivano nel sottosuolo e raggiungevano e inquinavano i pozzi da cui veniva prelevata l’acqua potabile.

In quel marzo 1986 una direttiva della Comunità Europea sulla qualità dell’acqua potabile aveva stabilito che la concentrazione degli erbicidi nell’acqua non avrebbe dovuto superare 0,1 microgrammi per litro; se la concentrazione fosse stata superiore, l’acqua non avrebbe potuto essere distribuita dagli acquedotti. Finalmente i laboratori addetti ai controlli ambientali in tutta Italia cominciarono ad analizzare nelle acque anche sostanze che fino allora erano state trascurate.
Ma il peggio stava per arrivare: mentre era vivace la contestazione dei programmi governativi di costruzione di centrali nucleari nel Mantovano, in Puglia, in Piemonte, nel Lazio, il 26 aprile 1986 in un reattore nucleare di uno sconosciuto paese dell’Ucraina (allora parte dell’Unione Sovietica), chiamato Chernobyl, si verificò un incidente che provocò un incendio e poi un’esplosione. Il reattore si scoperchiò e ne uscì una nube che disperse nell’atmosfera una grande quantità di elementi radioattivi, con una radioattività equivalente a quella di mezzo milione di chilogrammi di radio, che ricaddero nelle zone vicine e in parte, trascinati dal vento, raggiunsero la Germania e l’Italia settentrionale. Le autorità persero la testa: occorreva o no vietare l’uso di verdure, latticini e carne ottenuti in zone su cui erano ricadute le sostanze radioattive ? Ancora più disorientata l’opinione pubblica: come faceva una massaia a sapere che cosa poteva o non doveva comprare per non essere contaminata dai misteriosi atomi provenienti da migliaia di chilometri di distanza ?

Vale la pena ricordare gli eventi di quei lontani anni perché fecero aumentare la consapevolezza nei confronti dell’ambiente e della salute, due beni che possono essere difesi soltanto migliorando le strutture pubbliche di controllo ma soprattutto la conoscenza, da parte dei cittadini, di quello che succede intorno a loro.

Questo articolo è inviato contemporaneamente alla Gazzetta del Mezzogiorno

Qualche giorno fa si è ricordato su questo sito quanto sia importante, per governi e imprese, guardare al futuro e chiedersi quali conseguenze potrebbero avere le decisioni che prendiamo oggi. Tale importanza appare ancora più grande alla luce di uno degli eventi più disastrosi della storia, l’incidente alla centrale nucleare giapponese di Fukushima, avvenuto cinque anni fa. E’ stato scritto e sarà scritto molto, articoli, ricerche sperimentali, volumi, sopra le cause e lo svolgimento dell’evento; un terremoto di anomala intensità, in fondo al mare al largo della costa nord orientale del Giappone, ha provocato un’onda marina di molti metri di altezza che ha invaso la costa arrivando fino ai quattro reattori nucleari che azionavano una grande centrale elettrica; una interruzione dell’erogazione dell’elettricità ha impedito il flusso dell’acqua di raffreddamento delle barre contenenti l’uranio e il plutonio che, esposti ad un flusso di neutroni, stavano trasformandosi lentamente liberando grandissime quantità di calore. Il calore, a sua volta, generava il vapore che azionava le turbine e gli alternatori della centrale elettrica.

Nel momento in cui è cessato il raffreddamento delle barre di tre dei reattori (il quarto era inattivo), la temperatura di queste barre metalliche è aumentata in maniera incontrollata, la reazione fra metalli incandescenti e acqua ha provocato la formazione di idrogeno, un gas combustibile che si è incendiato in forma esplosiva; altre parti metalliche sono fuse e parte degli elementi radioattivi si sono sparse all’interno dei reattori continuando a liberare calore. Dei coraggiosi lavoratori, alcuni pagando con la vita il proprio impegno, sono riusciti a isolare la materia incandescente e a diminuire almeno la diffusione nell’ambiente delle sostanze radioattive; comunque è risultata contaminata e inabitabile una vasta superficie intorno ai ruderi della centrale nucleare, fino a poco prima orgoglio della tecnologia. In questi anni grandi quantità di acqua, prelevata dal mare, sono state restituita al mare inquinate con elementi radioattivi e si sono disperse nell’Oceano Pacifico; grandi quantità di acqua radioattiva sono ancora contenute in serbatoi; grandi quantità di rottami altamente radioattivi sono ancora all’interno dei reattori e continuano ad emanare radioattività e calore e continueranno ad emanare radioattività e calore per secoli e, in qualche caso, per millenni, in attesa di una qualche “sepoltura”.

L’incidente di Fukushima segnò l’inizio della fine delle centrali nucleari commerciali; furono cancellati in fretta e furia i progetti di costruzione di quattro centrali nucleari che il governo italiano aveva previsto qualche mese prima; furono fermate molte centrali nucleari in funzione nel mondo. I volonterosi sostenitori dell’energia nucleare continuano aa affermare che è un errore abbandonare questa fonte di energia che fornisce elettricità senza immettere gas serra nell’atmosfera; che appropriate innovazioni tecniche potranno ridurre i rischi di futuri incidenti simili a quelli che si sono già verificati a Three Mile Island negli Stati Uniti nel 1979, a Chernobyl in Ucraina nel 1996 e a Fukushima in Giappone nel 2011. A parte considerazioni ambientali, per restare soltanto alla questione dei soldi, pochi conti mostrano però che i perfezionamenti nelle centrali nucleari faranno aumentare il costo dell’elettricità a livelli insopportabili, e superiori a quelli dell’elettricità fornita perfino dalle centrali fotovoltaiche solari.

L’evento di Fukushima induce però a interrogarci sul problema più generale della fragilità della tecnologia e dei suoi affetti sulla vita umana. Gli esseri umani hanno bisogno di “cose” materiali, che sia cibo, o lavatrici, o scarpe o edifici; ciascuna di queste ”cose” (vogliamo chiamarle “merci” ?) deve essere progettata e fabbricata prima di arrivare a chi la dovrà usare. Il progetto deve prevedere, con uno sguardo al futuro, quanta materia occorre nella fabbricazione, e quali effetti la fabbricazione ha sui lavoratori e sull’ambiente, quali effetti l’uso avrà sugli acquirenti, e quali effetti lo smaltimento dopo l’uso avrà sull’ambiente. Attenzione al “futuro”, qualità delle ”cose”, benessere umano e ambiente sono i fattori che stanno alla base del “progetto”. C’entrano poi anche i soldi; quali processi costano meno soldi, quali possono produrre “cose” vendibili a più basso prezzo e quali assicurano maggiori profitti ai fabbricanti. Il lettore avrà notato che non ho usato la comune parola “consumatore” perché l’acquirente delle merci non le consuma, ma trasforma le molecole delle varie componenti in altre molecole e sostanze che finiscono, prima o, poi, nell’”ambiente” naturale, nell’aria, nelle acque, sul suolo.

Il fallimento dell’energia nucleare sta proprio nel fatto che le centrali nucleari sono state progettate senza tenere adeguatamente conto di ciò che avrebbe potuto avvenire non solo nei reattori, ma nei reattori collocati in quel particolare luogo; senza tenere conto che le sostanze radioattive che si formano sono una fonte di inquinamento durante il funzionamento e soprattutto dopo la fine della vita delle centrali. L’Italia sta per essere investita dal dibattito su dove sistemare le scorie radioattive, rimaste dopo i pur pochi anni di durata dell’avventura nucleare italiana ma sufficienti per costringere governi e cittadini a chiedersi come progettare dei cimiteri capaci di contenerle senza danni “per il futuro”, un futuro di secoli e millenni. Il grande pensatore Albert Schweitzer (1875-1965), premio Nobel, per la Pace 1952, scrisse una volta che la sopravvivenza umana dipende dalla capacità di “prevedere e prevenire”: queste parole dovrebbero essere tenute presenti ogni volta che governi e imprese fanno baldanzosamente scelte tecnologiche che avranno effetti sulla vita e sull’ambiente. E tutte ne avranno.

Si veda anche, di Giorgio Nebbia, L'uomo ha perso la capacità di prevedere

Occorrerà conservare in una cineteca speciale, in un archivio dell'orrore, i filmati che i nostri telegiornali fanno entrare tutti i giorni nelle nostre case: le immagini delle barriere ...(continua la lettura)

Occorrerà conservare in una una cineteca speciale, in un archivio dell'orrore, i filmati che i nostri telegiornali fanno entrare tutti i giorni nelle nostre case: le immagini delle barriere e dei fili spinati, i fotogrammi di una guerra inimmaginabile fino a poco tempo fa e forse unica nella nostra storia. Quella che varie polizie delle vecchie frontiere d'Europa combattono contro donne, bambini, anziani, giovani, scampati alle guerre innescate dall'Occidente nelle periferie del mondo. Occorrerà conservare questi documenti di ottusa e primitiva malvagità alle generazioni che verranno perché - se i Paesi del Vecchio Continente non saranno definitivamente inghiottiti dalla barbarie - possano osservare, in tempi meno oscuri dei nostri, di che cosa sono stati capaci i loro padri e nonni.

Ma forse occorre uscire dall' immagine indefinita che assegna a popolazioni indistinte il marchio di una così ottusa e ostinata ferocia.La notte in cui tutte le vacche sono nere non ha mai fatto comprendere niente a nessuno. Se guardiamo ad alcuni paesi dell'Europa occidentale, come la Francia, l'indistinto di una umanità genericamente ostile e senza misericordia si scioglie. Il grande paese che ha fondato la modernità della politica, innalzando il vessillo della libertà, dell'uguaglianza, della fraternità, il paese governato dai socialisti del presidente Hollande, muove oggi a Calais una sua abietta guerra contro una massa di disperati, a cui toglie perfino le misere baracche e le tende in cui era da mesi accampata. Com'è possibile, come si sia arrivati fin qui? Questa domanda non ci pone solo davanti a un generico arretramento di civiltà che oggi colpisce indistintamente “l'Europa”. Essa ci squaderna un fenomeno politico di prima grandezza che già la vicenda greca dello scorso anno ci aveva illustrato con desolante chiarezza. I vecchi partiti socialisti e socialdemocratici europei, quello tedesco come quello britannico, sono stati intimamente ripuliti di ogni contenuto ideale e di valore. Le loro dirigenze hanno gettato via come vecchio tutto l'antico bagaglio di solidarietà che ha segnato la loro storia e sono diventati moderni, come vuole il capitalismo attuale e la sua razionalità neoliberista. E' una perdita gigantesca alla quale addebitare non poco dell' arretramento del processo di unificazione dell'Europa.

Ma non ci si può fermare alla recriminazione e allo sdegno. Occorre capire con freddezza e lucidità che cosa è accaduto e accade, tentare delle contromisure. Che cosa vuol dire per i partiti politici diventare moderni, come vuole il linguaggio pubblicitario corrente ? Moderni vuol dire essere competitivi nel mercato politico, attenti al mutare degli umori della “gente”, vale a dire i cittadini ormai interamente assimilati agli elettori quali meri consumatori di messaggi. Moderni significa cercare di vincere, contro gli avversari competitori, il campionato pluriennale delle elezioni politiche e amministrative. Per questa via una democrazia interpretata come passiva adesione agli umori del momento, diventa una sua perversione perniciosa. E' una novità storica rilevantissima. Un tempo i socialisti francesi – come gli altri partiti popolari- avrebbero combattuto a muso duro contro le posizioni xenofobe dei loro avversari, non solo senza cedimenti di fatto alle loro pretese, ma mettendo in atto quella pedagogia di massa che i grandi partiti popolari e di sinistra hanno esercitato per oltre un secolo. I partiti non ancora trasformati in ristretti club dominati dal ceto politico, avrebbero combattuto contro le destre xenofobe rassicurando le popolazioni, disinnescando i meccanismi della paura, mostrando perfino l'utilità economica di un ingresso rilevante di popolazione giovane nei loro vasti territori. La Francia è uno dei paesi a più bassa densità demografica d'Europa. Ma i partiti non sono più portatori e divulgatori di conoscenze dei reali fenomeni sociali e quindi non sono più guide, ispiratori di orientamento, elaboratori di orizzonti più avanzati di civiltà. Essi corrono dietro agli imprenditori della paura, cercano di non farsi battere nella competizione messa in atto dai partiti della destra, cedendo alla loro visione generale non solo perché non hanno più alcuna visione, ma perché è mutato il fine del loro stesso agire.Questo fine – ciò è ormai chiaro sino all'ovvietà – è la loro affermazione, il loro successo e la loro sopravvivenza e riproduzione di ceto.

Come può dunque, una sinistra che non vuole arrendersi a questa disfatta storica, porre in atto forme di resistenza, allestire contromisure? Immenso problema, come sappiamo.Ma qualche strada da percorrere è già stata esplorata e occorrerebbe percorrerla con più determinazione. Oggi appare velleitario e ingenuo richiamare i vecchi partiti ai grandi valori del loro passato. La morale non si insuffla con le esortazioni e con le prediche. Ma dove vien meno la sostanza morale, il diritto è capace, se non di surrogarla, di porre qualche argine. E quel che il diritto può fare è impedire (o limitare fortemente) che la militanza politica diventi una carriera. Non potremo mai, almeno in un prevedibile futuro, imporre a chi opera sulla scena politica di rappresentare e promuovere esclusivamente l'interesse generale, se non faremo in modo che egli sia, per legge, impossibilitato a costruire sulla politica le proprie personali fortune. Occorre limitare drasticamente la durata delle cariche pubbliche, separare queste ultime da quelle di partito, sottoporre a trasparente monitoraggio il bilancio dei rappresentanti e quello della formazione politica a cui appartengono. E cosi via. Non c'è altro modo, per sottrarre il ceto politico alla tentazione di cedere alla vie più facili per ottenere consenso e quindi di inseguire i populismi. E costituisce una strada importante per sottrarlo alle sirene del potere economico e finanziario. Occorre spezzare alla radice questo legame, che alla fine condanna la politica all'impotenza. Chi fa politica deve rispondere alle domande dei cittadini e ridiventare cittadino dopo pochi anni di impegno pubblico.

In Italia la sinistra ha compiuto su tale terreno uno sforzo di elaborazione importante negli ultimi mesi, grazie all'iniziativa di Luigi Ferrajoli e della Fondazione Basso. Occorrerebbe che queste elaborazioni trovassero una più ampia circolazione e visibilità, perché diventino un patrimonio comune, un marchio di innovazione reale del nostro schieramento.

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L’Università delle Nazioni Unite di Tokyo e altre associazioni scientifiche hanno deciso di proclamare il primo marzo, “Giornata mondiale del futuro”. Tutte le persone e le società umane si sono sempre interrogate sul “futuro”: che cosa succederà “domani”, “fra un anno”; gli agricoltori si chiedono se pioverà, i negozianti si chiedono se venderanno le loro merci; ogni persona si chiede se sarà ricca, o felice e quanto a lungo vivrà. La saggezza popolare suggerisce che “il futuro è nelle mani di Dio”, però qualche tentativo di previsioni va fatto non tanto su quello che succederà quanto piuttosto su quello che potrebbe avvenire in futuro, sui futuri possibili e sulle relative conseguenze positive o negative. A partire dall’Ottocento ogni notizia di qualche nuova invenzione o scoperta scientifica ha stimolato gli scrittori a immaginare quali effetti avrebbero potuto avere “in futuro”, previsioni più meno fondate o affidate alla fantasia ad alimentare la fortunata corrente delle opere di “fantascienza”.

Una delle più importanti correnti di studi sul futuro ha riguardato la crescita della popolazione di un paese, un problema che interessa le compagnie di assicurazione e che ha dato vita alla “matematica attuariale”, disciplina che ha avuto famosi docenti anche nell’Università di Bari. Si è poi visto che le stesse “leggi” che descrivono l’andamento delle popolazioni umane sono in grado di descrivere la nascita, crescita, declino e scomparsa delle popolazioni di tutti gli animali e ne è nata, negli anni trenta del Novecento, una fiorente corrente di “ecologia matematica”, che avrebbe fornito gli strumenti di previsione per i successivi “studi sul futuro”.

A poco a poco alcuni governi hanno cominciato a organizzare degli uffici per decidere le proprie politiche economiche sulla base di previsioni: di quante case o patate o trattori o automobili avrà bisogno il paese ? Il primo esempio fu offerto dal governo bolscevico che, appena insediato in Russia, organizzò l’ufficio dei piani quinquennali, il Gosplan, il grande centro di studi sul futuro che ispirò simili iniziative negli Stati Uniti e anche ricerche in Italia: Giorgio Mortara, dell’Università Bocconi di Milano, pubblicò, dal 1921 al 1937, quindici volumi, uno all’anno, di “Prospettive economiche”. Solo con qualche forma di previsione è possibile rendersi conto in tempo dei mutamenti in atto, in modo da correggere le previsioni successive.

Ma una vera attenzione “scientifica” per immaginare il futuro, anzi i futuri possibili, è cominciata dagli anni cinquanta del secolo scorso con la scoperta dell’energia atomica, la tensione fra paesi capitalisti e comunisti, la diffusione delle bombe nucleari, la rapidissima espansione della produzione industriale e dei consumi. In questo periodo il francese Bertrand de Jouvenel (1903-1987), uomo politico ed economista, ha creato un centro di ricerche sul futuro chiamato, appunto, “Futuribles”, futuri possibili, che ha stimolato studiosi di molti paese al punto che gli “studi sul futuro” hanno trovato accoglienza anche in alcune università.

Negli anni settanta il famoso libro I limiti alla crescita del Club di Roma, è stato il più discusso esercizio di analisi del futuro; il libro conteneva delle previsioni, basate su analisi statistiche e matematiche, di quello che avrebbe potuto succedere se fosse continuata la “crescita” della popolazione mondiale, della produzione industriale e dei conseguenti inquinamenti e impoverimento delle risorse naturali, al ritmo che aveva caratterizzato i decenni precedenti. Il libro prevedeva un peggioramento delle condizioni di vita di un pianeta sovraffollato e suggeriva di ripensare l’ideologia “della crescita”. Quasi contemporaneamente fu costituita la Federazione Mondiale per gli Studi sul Futuro, presieduta per molti anni dalla più importante scienziata italiana in questo campo, Eleonora Masini, che organizzò la prima conferenza mondiale sul Futuro a Frascati nel 1973 (i preziosi atti sono ormai purtroppo introvabili), e ha insegnato per molti anni “Previsioni sociali” all’Università Gregoriana di Roma.

La distensione internazionale, il miglioramento delle condizioni di vita e degli affari, hanno poi fatto accantonare per anni l’interesse per gli studi sul futuro che sta risorgendo un po’ adesso anche perché i cambiamenti climatici hanno spinto a chiedersi che cosa “può succedere” se continuerà il lento progressivo aumento della temperatura terrestre. Qualcosa sembra muoversi anche in Italia dove è stato creato da qualche anno a Napoli un “Istituto Italiano per il Futuro”.

A ben pensare ogni governo, ogni impresa dovrebbero cercare di capire le tendenze future dei fenomeni da cui dipendono le loro decisioni; un lavoro difficile perché “esplodono” continuamente nuovi fenomeni imprevisti. Mezzo secolo fa si prevedeva una rapida crescita della popolazione mondiale; oggi stiamo assistendo, in molti paesi, ad una diminuzione delle nascite, ad un aumento degli anziani, alla necessità di “importare” lavoratori stranieri. Quaranta anni fa il governo italiano aveva previsto di costruire sessanta centrali nucleari e adesso non ce ne è neanche una. Le compagnie petrolifere continuano a estrarre petrolio i cui consumi sono rallentati. Venti anni fa la transizione dal comunismo ad un capitalismo di stato ha trasformato la Cina in un gigante che invade col suo acciaio e i suoi pannelli solari tutto il mondo e costringe alla chiusura le fabbriche europee. Perché non sono stati capiti in tempo i segni di tali mutamenti ?

A mio modesto parere gli “studi sul futuro” dovrebbero diventare disciplina di insegnamento e oggetto di ricerca in tutte le università; ne trarrebbero vantaggio governi e imprese, nell’insieme tutta la società e anche l’ambiente naturale.

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Qualche giorno fa un gruppo di miserabili baracche (ghetto, lo chiamavano) abusive occupate da molti anni da lavoratori stagionali a Rignano Garganico (vicino a Foggia), è stato distrutto dal fuoco con tutte le poche miserabili cose degli occupanti. Per loro sembra che la Regine Puglia avesse in programma una qualche diversa sistemazione che comunque è arrivata tardi. Quello di Rignano è solo uno delle centinaia di rifugi precari per lavoratori che si spostano da un luogo all’altro per la raccolta di prodotti agricoli, con miserabili paghe, esposti al ricatto dei “caporali”. Non ci sono dati statistici sul numero di lavoratori extracomunitari, ma anche comunitari, che vengono o vivono nel nostro paese, alcuni regolari, altri clandestini, e sulle loro abitazioni, talvolta rifugi precari, talvolta case sovraffollate, affittate a prezzi esosi. Gli italiani hanno bisogno di questi lavoratori ma li detestano se addirittura non li odiano, e manca una politica che renda meno disumana la situazione di questo nostro “prossimo”.

Si tratta di persone che abbandonano i loro paesi e le loro famiglie a causa dell’impoverimento delle loro terre, talvolta per colpa dei mutamenti climatici, che fuggono dalla miseria, talvolta dai conflitti o dalle persecuzioni etniche, o dalla mancanza di lavoro per la chiusura di fabbriche o miniere. Poveri che premono ai confini dei paesi nei quali sperano di avere occupazione e che li respingono e costringono a vivere in ghetti, appunto come quello di Rignano. Storie di miseri che hanno segnato tutto il Novecento e questo secolo e che sono sommerse, non hanno voce.

Una qualche mobilitazione di intellettuali in loro difesa si ebbe ottanta anni fa negli Stati Uniti, durante la grande crisi iniziata nel 1929. Negli anni venti del Novecento si era verificata una grande tragedia ecologica; le terre, una volta fertili, degli stati centrali, Oklahoma, Arkansas, Texas, del grande paese, erano state sottoposte a eccessivo sfruttamento; tempeste di vento asportavano la poca terra fertile ancora rimasta, i piccoli agricoltori non potevano più pagare i debiti e le banche si appropriavano della loro terre per destinarle a colture intensive. Milioni di famiglie furono gettate nella miseria e costrette ad emigrare ad ovest verso la fertile California, dove speravano di trovare lavoro. Qui i grandi proprietari terrieri si servivano di “caporali”, proprio come da noi oggi, per reclutare operai disposti a lavorare alle paghe più basse, senza sicurezza, in ricoveri di fortuna.

Nel 1933 gli americani elessero alla presidenza degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt (1882-1945), un anziano signore colpito in giovane età dalla poliomielite, ridotto a muoversi in carrozzella, ma determinato a far uscire il suo paese dalla crisi con un nuovo patto sociale, il “New Deal”. Per affrontare il problema dei migranti Roosevelt, poche settimane dopo l’insediamento, nominò Rexford Tugwell (1891-1979), professore di economia alla Columbia University, una eccezionale figura di difensore dei diritti civili, a capo della “Rural Resettlement Administration”, l’agenzia federale col compito di creare dei villaggi di accoglienza dei lavoratori immigrati in California e di aiutarli a ottenere lavoro sfuggendo al ricatto dei proprietari terrieri e dei loro sgherri.
Una testimonianza di questa impresa è stata data da John Steinbeck (1902-1968), giornalista del San Francisco News, che aveva lavorato come contadino insieme ai migranti e ne conosceva quindi dolori e difficoltà. Il suo giornale pubblicò nel 1936 una serie di articoli di denuncia col titolo: Gli zingari dei campi (Harvest Gypsies), che furono poi trasformati nel romanzo Furore (1939) da cui fu tratto l’omonimo film del 1940 con la regia di John Ford e l’interpretazione di Henry Fonda.

E’ la storia della famiglia Joad costretta ad abbandonare la piccola fattoria dell’Oklahoma e ad affrontare, su uno scalcinato furgoncino, carico delle poche masserizie, la lunga strada verso ovest; dopo varie peripezie e dopo aver attraversato l’ostile deserto dell’Arizona, all’arrivo in California gli Joad si scontrano con la dura realtà: i “caporali”, le basse paghe, l’ostilità degli abitanti e della polizia, passando da un ghetto all’altro alla ricerca di un ricovero. Finalmente la famiglia raggiunge uno dei campi della Resettlement Administration dove sembra trovino un momento di quiete, acqua corrente, gabinetti e delle docce con acqua calda. I proprietari terrieri mandano dei provocatori per creare disordini nella speranza di far intervenire la polizia per cercare di smantellare quel campo che faceva sfuggire gli immigrati allo sfruttamento. La Rural Resettlement Admninistration fu da molti considerata una iniziativa “comunista” che Roosevelt però difese con coraggio

Le disavventure della famiglia Joad sono fin toppo simili a quelle che abbiamo sotto gli occhi, facendo finta di non vedere. Poveretti che cercano rifugio in Europa, lavoratori clandestini che affollano le nostre campagne, specialmente nel Mezzogiorno, esposti a ricatti e costretti in rifugi che sono adatti più a bestie che ad esseri umani, in una società incapace di indignarsi benché sia grazie a loro che possiamo avere cibo abbondante sulle nostre tavole. La lotta al caporalato e alla precarietà del lavoro dovrebbe essere la bandiera di qualsiasi governo civile e non è questione di soldi ma di visione sociale della politica. Partirà in Italia, in Puglia, un “New Deal” come quello rooseveltiano con iniziative saldamente ispirate alla soluzione di concreti problemi, insieme, di occupazione e umani e ambientali?

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Riferimenti
Sull'argomento l'autore ha già scritto su eddyburg Dalla Puglia nasce (di nuovo) il New Deal italiano?. Vedi anche l'articolo di eddyburg che integra i ricordi evocati da Giorgio Nebbia con quello di un grande pugliese, Giuseppe Di Vittorio.

La rinuncia da parte della società irlandese Petroceltic... (continua la lettura)

La rinuncia da parte della società irlandese Petroceltic alla concessione ottenuta dal governo italiano per prospezioni petrolifere al largo delle Tremiti e la rinuncia del miliardario neozelandese Michael Harte, manager di Barclays Bank, all’acquisto dell’isola di Budelli nell’arcipelago della Maddalena per farne “un museo all’aperto”, sono state accolte come due buone notizie da chi cerca di opporsi alla privatizzazione e alla devastazione ambientale del nostro mare.

Ma sono le isole veramente salve? Qualche dubbio sorge, se pensiamo che in entrambi i casi i progetti di sfruttamento sono stati accantonati per una unilaterale decisione degli investitori, che non giudicano più abbastanza attraente l’affare, e non per un atto di resipiscenza delle autorità italiane. Queste ultime, anzi, si sono dichiarate dispiaciute e accoglierebbero con favore un ripensamento dei privati.

Sembra che la Petrolceltic, che avrebbe dovuto pagare 1925 euro all’anno (pressappoco l’IMU di una seconda casa al mare) come “canone demaniale” per utilizzare “a scopo di ricerca”, cioè per “esplorare” con la devastante tecnica dell’air-gun una porzione di mare di 373 chilometri quadrati (vale a dire al costo di 5,16 euro per chilometro quadrato), si sia ritirata a causa della sua disastrosa situazione finanziaria. La ministra Federica Guidi ha espresso “rispetto per il passo indietro che risponde ad esigenze industriali strategiche della società”. Comunque, la Petroceltic non ci abbandona del tutto, perché manterrà gli altri titoli minerari che ha nell’Adriatico e in Valpadana, in un’ottica di “ottimizzazione strategica dell’intero portafoglio italiano”.

Non ci sono difficoltà finanziarie, invece, all’origine del ritiro di Harte che, nel 2013, si era aggiudicato Budelli per 2 milioni e novecentomila euro (160 ettari e 12 chilometri di costa) ad un’asta, dove la sua era stata l’unica offerta. Allora il governo Monti aveva rinunciato al diritto di prelazione e poi l’Ente Parco della Maddalena aveva tentato di subentrare al privato. Ne sono seguite una serie di vertenze legali, al termine delle quali il Consiglio di Stato ha riconosciuto il diritto di Harte all’acquisizione della proprietà. Subito dopo la sentenza a lui favorevole, però, il miliardario ha rinunciato a perfezionare l’acquisto, non ravvisando “le condizioni per redigere il piano di conservazione e ricerca ambientale da lui auspicato”. L’attuazione del suo piano, in particolare, sarebbe ostacolata dal fatto che l’isola è una riserva “integrale”, mentre l’investitore chiede/pretende che il vincolo venga ridotto a quello di tutela “parziale”.

Con toni molto concilianti, il sindaco della Maddalena ha detto di voler tenere le «porte aperte a progetti di riqualificazione, valorizzazione e conservazione, perché il privato non va fatto scappare per principio, ma accompagnato all’interno delle norme» e di augurarsi che Harte “ritorni” per discutere “nuovi” progetti ambientali. Il progetto, ora sospeso, prevedeva la realizzazione di un ingresso, un’area di accesso, una rete di sentieri e camminamenti e un approdo per i barconi che portano i turisti al “museo”. Inoltre, prevedeva nuove costruzioni per ospitare un “centro di ricerca scientifica”, gestito da una apposita fondazione a partnership pubblico e privato, secondo un “modello di business” che, dice Harte, all’estero sta dando “grossi risultati”.

Nella non improbabile eventualità che il ricatto dell’investitore funzioni, può essere utile documentarsi sul modello di business a cui Harte si ispira.

Ocean Cay, nell’arcipelago delle Bahamas, a meno di 60 miglia da Miami, è uno dei molti esempi di isole non solo interamente cedute a privati, ma le cui successive trasformazioni sono tutte state decise da imprese straniere, che ne hanno incorporato i profitti lasciando alle popolazioni locali royalties ridicole e rilevanti esternalità negative.

Si tratta di un’isola artificiale, costruita negli anni ’70 e data in concessione all’americana Dillingham corporation come base per l’estrazione e lo stoccaggio di aragonite, un tipo di sabbia abbondante nelle acque delle Bahamas e particolarmente adatto “al mercato della Florida”. Nel 2000 la concessione è passata alla AES, un’altra società americana che intendeva installarvi un terminal per il trasporto di gas liquido e un rigassificatore. Infine, nel dicembre 2015, i diritti sull’isola, 38 ettari di superficie e 3 chilometri e mezzo di spiaggia, sono stati ceduti per 100 anni alla MSC Mediterranean Shipping Company che vi realizzerà un progetto per offrire ai suoi crocieristi “l’esperienza esclusiva di una riserva marina”.

Il programma di “riassetto naturalistico” di quella che si chiamerà Riserva Marina Ocean Cay MSC prevede la piantagione di 80 specie di piante indigene e la costruzione di un villaggio “architettonicamente fedele alle tradizioni bahamiane”, con bar e ristoranti che servono specialità locali, molti negozi, una struttura per matrimoni e ricevimenti, un’arena di 2000 posti per eventi musicali e spettacoli. Sarà creata una rete di sentieri per muoversi in bicicletta, mentre una teleferica consentirà di attraversare l’isola in “maniera emozionante”. Per i clienti delle crociere premium (per le quali si paga di più) sarà riservata una zona speciale, con cabine massaggio, bungalow privati e una beauty farm.

Nel ribadire la forte vocazione ambientalista della compagnia (la stessa le cui grandi navi infestano la laguna di Venezia) i rappresentanti della MSC hanno dichiarato di voler lavorare in contatto con il governo e le associazioni locali nel “rispetto della cultura e della tradizione delle Bahamas”. Il governo è d’accordo e molto soddisfatto, perché stima che la MSC porterà ogni anno almeno 500 mila turisti aggiuntivi alle Bahamas e che la Riserva creerà 600 posti di lavoro nella fase di costruzione e 250, che saranno addestrati dalla stessa MSC, quando le attività turistiche saranno a regime.

La costruzione di un molo esclusivo, al quale le navi rimarranno attraccate durante l’intera sosta, oltre che rispondere a una necessità funzionale intende sottolineare che l’isola è “un’estensione della crociera”, “un’integrazione dell’esperienza a bordo con un’esperienza autenticamente naturale a terra”.

Di fronte a questi “grossi risultati” si possono solo rileggere i versi di Derek Walcott, che nella poesia “Le acacie”, così esprime la sua angoscia di fronte alla valorizzazione dell’isola dei Caraibi dove è nato:

“guardavo gli ettari condannati dove costruiranno l’ennesimo hotel elitario con la gente comune sbarrata fuori. I nuovi artefici della nostra storia si arricchiscono senza rimorso e sono, in effetti, i profeti di una politica che farà dell’isola un centro commerciale, con i frangenti che sorridono come camerieri e tassisti, in queste nuove piantagioni sul mare; una schiavitù senza catene, senza sangue sparso- solo recinti metallici e cartelli, la nuova degradazione.

Addis Abbeba. Almeno 140 morti, centinaia di feriti e ... (continua)

Almeno 140 morti, centinaia di feriti e un numero imprecisato di arresti. E’ questo il bilancio di alcuni mesi di proteste popolari contro il piano regolatore di Addis Abeba e della brutale repressione messa in atto dal governo etiope. Le cifre del massacro sono riportate da molti organi di stampa internazionale che hanno seguito gli scontri tra polizia e manifestanti, ma non hanno suscitato l’interesse dei mezzi di informazione italiani. Peccato, perché dal perverso intreccio tra pianificazione del suolo, discriminazione sociale, affari e corruzione politica che connota la vicenda dell’Addis Abeba Integral Regional Development Plan avremmo molto da imparare.

L’Etiopia, uno dei paesi più poveri del mondo, è uno stato federale, suddiviso in nove regioni delimitate secondo criteri etnici e linguistici. La capitale Addis Abeba è anche la capitale di Oromia, il territorio storicamente abitato dagli Oromo, il gruppo etnico più numeroso (40% della popolazione) e in gran parte dedito all’agricoltura. Negli ultimi anni la città è cresciuta enormemente, ma allo stesso tempo si è verificata una costante diminuzione/espulsione degli abitanti Oromo.

Come molte città africane per le quali gli investitori internazionali hanno grandi visioni e appetiti, Addis Abeba è oggetto di esercizi di pianificazione da parte della Banca Mondiale e di consulenti europei (Agenzia di urbanistica per lo sviluppo dell’agglomerazione di Lione) che hanno aiutato il governo etiope a predisporre un piano per far diventare “la capitale diplomatica dell’Africa” una metropoli “resiliente e competitiva a scala globale”. Tra gli obiettivi dichiarati ci sono, ovviamente, quelli di migliorare le condizioni di vita, garantire l’accesso ai servizi essenziali, connettere gli abitanti con le opportunità di sviluppo. Per raggiungerli, oltre ad una massiccia espansione edilizia e alla costruzione di infrastrutture di trasporto, da attuare con investimenti pubblici, il piano prevede un allargamento dei confini amministrativi della città, in conseguenza del quale il suo territorio si estenderebbe per 1 milione e centomila ettari, cioè venti volte la superficie attuale.

Ed è soprattutto questa decisione che ha scatenato la protesta, dapprima degli studenti universitari e poi di gruppi sempre più numerosi di Oromo, che hanno capito come l’ampliamento di Addis Abeba e la incorporazione nel suo territorio di città e distretti che ora fanno parte di Oromia non sia una scelta tecnica, fondata sulla ragionevole esigenza di una pianificazione territoriale a scala metropolitana, ma una scelta politica contro di loro e contro la Costituzione, che esplicitamente riconosce e tutela i diretti dei vari gruppi etnici, dalla libertà di insediamento all’uso della lingua nelle scuole. Per comprendere i verosimili effetti del piano regolatore, infatti, bisogna tener conto di alcuni elementi:

- dal 1975 la terra è stata nazionalizzata ed è di proprietà dello stato,

- da 22 anni sono al governo esponenti dell’etnia Tigrina che, malgrado sia minoritaria dal punto di vista numerico (4 milioni su 94 milioni di abitanti), alle ultime elezioni ha conquistato il 100% dei seggi in Parlamento, ed ha quindi un fortissimo potere politico e militare,

- l’espulsione e la cacciata dei contadini e l’appropriazione delle terre da loro coltivate da parte delle élites al potere o il loro trasferimento ad investitori stranieri è una pratica sempre più diffusa e ampiamente documentata da organizzazioni internazionali.

Già in passato, i tentativi degli Oromo di opporsi alla cacciata dai loro insediamenti e al ricollocamento forzato sono stati domati con violenza. Lo stesso è avvenuto quando una serie di incendi, si dice attizzati dallo stesso governo, hanno distrutto ampie porzioni di foresta, che sono poi state usate per installarvi attività inquinanti, discariche e impianti per la produzione di fertilizzanti. Ma quella ora in corso non è più solo una protesta per l’ennesimo episodio di land grabbing.

Anche grazie alla risonanza internazionale che la vicenda ha avuto- manifestazioni si sono svolte nel centro di Londra e di Washington- è diventata una lotta di resistenza contro la marginalizzazione economica, sociale, culturale e politica degli Oromo. E che si tratti di una vera e propria guerra lo conferma il fatto che solo in seguito ad una nota dell’ambasciata degli Stati Uniti, che ha invitato le autorità a sospendere l’attuazione del piano regolatore finché non sia stato raggiunto un accordo tra le parti, gli scontri sono temporaneamente cessati. Anche l’Unione Europea ha auspicato “un dialogo costruttivo”. Il governo etiope, quindi, si è dichiarato dispiaciuto perché ci sono state delle incomprensioni e si è impegnato a lavorare per “allargare il consenso” sul piano. In attesa delle prossime battaglie, gli Oromo seppelliscono i loro morti.

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Le lunghe settimane di caldo di questo inverno hanno riportato all’attenzione dei cittadini e dei governanti, nazionali e locali, il problema dell’inquinamento dell’aria delle città. In questi ultimi anni molte città si sono dotate di centraline in grado di misurare la concentrazione di alcune delle sostanze presenti nell’atmosfera e possono controllare se tali concentrazioni superano i limiti al di là dei quali gli inquinanti possono essere dannosi alla salute degli abitanti. Si è così visto che in un numero crescente di città, grandi e piccole, la concentrazione delle PM10, le “particelle” con diametro inferiore a 10 millesimi di millimetro, supera per molte settimane il limite massimo giornaliero di 50 microgrammi per metro cubo di aria. Le principali fonti di PM10 sono state riconosciute nella combustione dei carburanti nei mezzi di trasporto e negli impianti di riscaldamento degli edifici: come rimedio è stato necessario imporre un qualche limite (sia pure molto modesto) alla circolazione di auto e camion in alcune ore e in alcuni giorni, e alla temperatura degli edifici.

Sono le leggi dell’ecologia a spiegare che dei limiti esistono nel funzionamento degli ecosistemi e anche la città è un ecosistema, sia pure artificiale, un organismo, con un suo metabolismo, che “vive” in uno spazio limitato. Nella città entrano materiali ed energia: acqua, alimenti (verdura, carne, cereali, cibo in scatola, eccetera), carta, materie plastiche, carburanti, materiali da costruzione; una parte di tali materiali resta "immobilizzata" entro la città: mobili, libri, i mattoni e il cemento negli edifici: la maggior parte dei materiali e dell'energia in entrata viene però rapidamente "consumata", cioè rielaborata --- per questo parlavo di “metabolismo urbano” --- e perciò trasformata in varie sostanze di rifiuto: quelle gassose come anidride carbonica, ossido di carbonio, polveri, anidride solforosa e altre, finiscono nell'atmosfera; i rifiuti organici e inorganici finiscono nelle fogne e vengono "esportati" fuori dalla città; i rifiuti solidi sono portati agli inceneritori e alle discariche, generalmente esterni alla città. Le scorie delle attività urbane --- a differenza di quelle che si formano negli ecosistemi naturali --- sono per lo più costituite da sostanze estranee ai cicli naturali e peggiorano la qualità dell'aria, delle acque, del suolo in cui vanno a finire.

In quanto ecosistema la città ha una sua popolazione, di esseri umani e di mezzi di trasporto, che cambia nelle varie ore del giorno; la mattina la città comincia a gonfiarsi di vita e di attività umane che aumentano col passare delle ore mentre la sua atmosfera si riempie di gas nocivi e le fogne di liquami, fino alla sera quando la città si sgonfia e raggiunge uno stato di quiete, per poche ore, per ricominciare la mattina dopo. La popolazione e le attività e le funzioni vitali di una città variano nei differenti mesi dell'anno. A causa del suo spazio limitato la città ha una “capacità ricettiva” di presenze umane, di traffico, di attività e di rifiuti; se questi superano certi valori la città non sa più dove mettere automobili, case e rifiuti e si verificano malattie e caos.

Per restare al caso dell’inquinamento dell’aria, se la quantità delle sostanze inquinanti che escono dai tubi di scappamento delle auto e dai camini degli impianti di riscaldamento supera quella che la massa di aria è in grado di disperdere o diluire, in particolari condizioni climatiche, la loro concentrazione diventa così alta da arrecare danno agli abitanti, proprio come sta avvenendo adesso per le PM10 in molte città dove circolano “troppi” autoveicoli rispetto a quelli che la città può sopportare. La quantità e il tipo di agenti inquinanti, a loro volta, dipendono dalla qualità delle materie usate. Ad esempio i diversi tipi di carburanti per autoveicoli --- benzina o diesel --- bruciando immettono nell'atmosfera composti molto diversi; le massime emissioni di agenti inquinanti per ciascun autoveicolo sono fissate dalle norme EURO, anche se la scoperta di recenti frodi ha mostrato che le quantità di inquinanti effettivamente immessi nell’aria da alcuni carburanti e autoveicoli può essere superiore a quanto dichiarato dai fabbricanti.

La vera soluzione delle crisi urbane, di inquinamento e di congestione del traffico, va cercata in un rilancio della cultura urbanistica, nella progettazione delle città tenendo conto dei bisogni di spazio, di mobilità e di salute dei cittadini e non del profitto dei proprietari dei suoli. I centri storici delle nostre città non sono in grado di sopportare il carico di traffico e inquinamento a cui sono sottoposti perché occupano lo stesso spazio di quando sono nati nel Medioevo o nell’Ottocento. Una moderna pianificazione urbana deve prevedere una diversa distribuzione nel territorio di abitazioni, uffici, scuole, centri commerciali, parcheggi e la riprogettazione dei trasporti pubblici. Certi servizi possono essere svolti lontano dai centri urbani, così come certi lavori possono essere svolti in uffici decentrati nelle zone abitative di periferia. Un alleggerimento dell’inquinamento dell’aria dovuto al traffico sarebbe realizzabile incentivando più lavoratori o studenti che fanno lo stesso percorso ad usare lo stesso mezzo di trasporto non solo per risparmiare qualche soldo, ma come contributo alla difesa della salute del prossimo. Insomma l’inquinamento urbano si sconfigge più con la capacità degli amministratori di conoscere, prevedere e prevenire il funzionamento delle loro città che con l’attesa di piogge che puliscano l’aria dalle polveri.

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«Vedo tanta fame d’Italia» ha dichiarato Matteo Renzi per magnificare i risultati del suo operato e le sue intenzioni per il futuro. E in effetti, non si può negare che molto abbia fatto e si accinga a fare per dar da mangiare agli affamati, che non sono, però, i poveri di cui parlano i gufi che vedono “tanta fame IN Italia”, ma gli investitori ed i gruppi finanziari dei quali si preoccupa di intercettare gli appetiti.

Fame d’Italia

Mentre la lista di fabbriche e di marchi ceduti all’estero continua ad allungarsi, sul fronte immobiliare non ha freni la gigantesca espropriazione ai danni degli italiani, affidata alla Cassa depositi e prestiti e ai vari organismi creati affinché operino come intermediari e facilitatori delle svendite di Stato. Le lussuose brochures pubblicitarie, con le quali promuovono le loro offerte, vengono riprodotte, e sempre favorevolmente commentate, dai principali mezzi di comunicazione.

Tra questi, particolarmente attento è il Sole 24 Ore, che dedica al settore “edilizia e territorio” articoli informati e in totale sintonia con le politiche urbane e territoriali del governo. Per limitarsi a pochi recenti esempi, nel pezzo Il resort nella centrale, dedicato alla riqualificazione delle centrali dell’Enel, si legge che quella di Porto Tolle potrà diventare uno «splendido resort di lusso con un ristorante sulla ciminiera alta 250 metri, più alta dei grattacieli di Milano, dalla quale nelle giornate terse si distingue di là dell’Adriatico il profilo dell’Istria» (10 dicembre 2015). «La città rinasce sui binari dismessi» annuncia con entusiasmo che nelle città italiane c’è «un tesoro nascosto di 6,6 milioni di metri quadri di aree o strutture ferroviarie dismesse pronte alla riqualificazione urbana» (16 dicembre 2015). Il Poligrafico dello Stato diventa un albergo cinese parla del radioso futuro del «bellissimo e gigantesco palazzo in posizione strategica per soggiornare, visitare, fare business nella capitale» (25 novembre 2015). Ma, più che singolarmente, è nel loro insieme che le analisi e le proposte del Sole sono interessanti, perché compongono un quadro unitario che difficilmente si trova nelle riviste d’architettura e d’urbanistica italiane che, spesso, tendono ad appassionarsi di fasulle polemiche estetiche e dei capricci delle archistar. Il quotidiano di Confindustria, invece, si concentra sul rapporto tra uso del suolo e denaro, nei suoi molteplici intrecci e nelle sue molteplici manifestazioni.

Un contributo che bene sintetizza il paradigma interpretativo adottato dal giornale e il modello operativo auspicato per aiutare «il comparto immobiliare ancora alle prese con una crisi lunga e grave, in un contesto in cui la carenza di risorse pubbliche si aggiunge alla paralisi amministrativa e all’ostinazione del popolo dei NO» è Territorio nuova ricchezza d’Italia di Francesco Prisco (5 ottobre 2015). Se il titolo può sembrare una banale ripetizione dell’abusato slogan “cultura petrolio della nazione”, in realtà l’autore ha la giusta consapevolezza che favorire un significativo salto di scala rispetto alla tradizionale speculazione immobiliare sia uno degli obiettivi perseguiti dal governo. Scrive, infatti, che non solo ora la grande sfida è «passare dal modello di valorizzazione dei singoli edifici alla valorizzazione di interi quartieri», ma tale sfida potrà essere vinta grazie allo Sblocca Italia.

Il giornalista non è l’unico a individuare “la chiave di volta per riqualificare interi quartieri” nel combinato disposto dell’articolo 24 («i comuni possono definire i criteri e le condizioni per la realizzazione di interventi su progetti presentati da cittadini singoli e associati, purché individuati in relazione al territorio da valorizzare») e dell’articolo 26 («per contribuire alla stabilità finanziaria nazionale e promuovere iniziative di rivalutazione del patrimonio volte allo sviluppo economico e sociale … si riconosce all’accordo di programma che si occupa del recupero di immobili pubblici non utilizzati il valore di variante urbanistica»).

In un altro articolo dello stesso 5 ottobre, simili considerazioni sono espresse da Alfredo Romeo, potente avvocato e immobiliarista napoletano, presidente dell’omonimo gruppo di “facility management” (gestione integrata dei servizi di complessi edilizi o di vere e proprie parti della città) che tra i suoi molti successi può vantare l’appalto per riscuotere i tributi per i comuni. Nell’intervista, pubblicata con l’eloquente titolo Patrimonio da valorizzare. I beni pubblici vadano a chi ha progetti migliori e offre nuovi servizi, Romeo, condannato, nel 2013, a due anni per corruzione e poi prosciolto in Cassazione, si dichiara convinto che «di fronte al campo d’azione sterminato dei quartieri e delle periferie degradate che non riescono ad esprimere il potenziale valore immobiliare …. tocca a noi operatori fornire proposte».

Il Manifesto di Romeo

Nel 2015 Romeo ha fondato ORP Osservatorio risorsa patrimonio Italia e stilato un Manifesto per diffondere «un nuovo pensiero sulla rigenerazione urbana e sulla gestione dei territori di particolare interesse per i decisori pubblici” che “circola nel mondo del real estate e delle amministrazioni pubbliche e sta raccogliendo adesioni e contributi accademici».

Il Sole 24 Ore
ha accolto con favore il progetto (Nasce l’osservatorio risorsa patrimonio Italia per rilanciare gli investimenti nelle città, 29 luglio 2015) e, per divulgarlo, ha organizzato un seminario, “Gestire le città. La risorsa territorio per un new deal italiano”, i cui lavori sono stati moderati dal suo direttore, Roberto Napoletano (La chance della gestione delle città, 27 novembre 2015).

Sul concetto che sia arrivato il momento per «un new deal del real estate», ribadito da Romeo nel suo intervento introduttivo, e sulla vision a cui si ispira il manifesto - «se il comune non riesce a gestire facciamo in modo di coinvolgere il privato» - si sono dichiarati d’accordo tutti i relatori, che rappresentavano i principali attori in grado di influenzare, se non di dettare, le politiche urbane in Italia (Assoimmobiliare, Cresme, Nomisma, Anci, CNR, commissione ambiente e territorio della Camera) nonché il sindaco di Firenze, Dario Nardella e Roberto Reggi, direttore generale dell'Agenzia del Demanio. Quest’ultimo ha spiegato come l’agenzia miri a «promuovere progetti di sviluppo immobiliari, supportando gli enti locali in termini know-how per la realizzazione concreta di tali iniziative grazie al coinvolgimento di investitori». Tra gli oratori figurava anche Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, con una relazione intitolata “Rispetto delle regole o regole da cambiare? Il diritto come motore o freno dell'economia” (Cantone: rilancio appalti solo con regole chiare, 28 novembre 2015).

Unanime è stato il plauso dei partecipanti a proposito degli strumenti individuati da Romeo per dare concretezza alla mission di “valorizzare pezzi di città”: “recuperare risorse, ad esempio, tributi, all’interno di un’area, e usarle all’interno dell’area stessa o creare vantaggi fiscali dove scattano accordi tra cittadini e investitori privati per progetti di riqualificazione … trattare il cambio d’uso non come una concessione burocratica, ma come provvedimento coerente e funzionale allo sviluppo del territorio … far si che la tutela del patrimonio storico e architettonico non significhi interdizione della fruizione”.

Il modello Insula

Al seminario è stata distribuita una pubblicazione delle Edizioni del Sole, Patrimonio Italia. La risorsa, nella quale si illustrano «modelli e prassi per riqualificare e valorizzare città e territori con una moderna partnership pubblico-privato» e si indicano come esempi di best practice l’Expo di Milano e Insula di Napoli. (Valorizzare i territori: i modelli da replicare, 27 novembre 2015).

Anche Insula è una creatura di Romeo, una tappa importante nei suoi complessi e controversi rapporti con il comune di Napoli dal quale aveva ottenuto, nel 1998, la gestione del patrimonio immobiliare, inclusa la manutenzione e la riscossione degli affitti. Nel 2012, alla scadenza del contratto, e non avendo il comune i soldi per pagare i “debiti” con l’imprenditore, Romeo si offrì di riqualificare, in cambio della gestione, il borgo dell’antica dogana, un’area fronte mare accanto al terminal crociere, nella quale sorge il grande albergo che possiede Romeo. Già allora la sua ricetta per riqualificare «un quartiere centrale che versa in condizioni di obsolescenza e per questo non può giovarsi delle sue enormi opportunità turistiche insite nella sua prossimità al centro città» era che le tasse pagate dai residenti di un’area venissero spese per i servizi all’interno della stessa. Il sindaco de Magistris è stato sul punto di accettare l’accordo, ma ha dovuto rinunciare per l’ostilità di gran parte dei cittadini alla privatizzazione, di fatto, di un pezzo di città.

Ora Romeo, oltre a rivendicare il merito di aver anticipato il “baratto fiscale” reso possibile dall’articolo 24 dello Sblocca Italia, ripropone l’intenzione di «intervenire su insule urbane delimitate, con caratteri omogenei o con una identificazione naturale nella percezione dei cittadini ed utenti, usando le entrate fiscali all’interno delle singole aree». Il valore attuale di Insula sarebbe di 390 milioni, ed il suo potenziale 580 milioni. Secondo Romeo, il beneficio economico della riqualificazione non deriverebbe solo dall’aumento del valore patrimoniale, ma da quello delle entrate fiscali che renderebbero l’area “autosufficiente” e in grado di migliorare i servizi dentro i propri confini. E’ una posizione che sembra destinata a vincere, perché ritagliare isole appetibili per gli investitori è la strategia urbana su cui puntano il governo e gli imprenditori che lo fiancheggiano (o viceversa). Anche il Sole approva «il modello insula: dove il quartiere è un condominio» (5 ottobre 2015).

Riferimenti
Sulla vicenda napoletana si vedano il commento di Antonio di Gennaro, la postilla di Edoardo Salzano, gli articoli di Marco Demarco, Luigi De Falco, Antonio Tricomi e la lettera al direttore di Alfredo Romeo, raggiungibili QUI. Si veda inoltre Giunta De Magistris. Quel patto col diavolo che fa discutere Napoli di Andrea Fabozzi con le interviste al Sindaco Luigi De Magistris e a Vezio De Lucia. Numerosi altri articoli nell'archivio di eddyburg

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La seconda ondata di riforma del Mibact ha sinora ottenuto l'insospettato risultato di mettere d’accordo fautori e critici su di un aspetto determinante: considerati nel loro insieme, il precedente decreto del luglio scorso e l’attuale, configurano non un semplice adeguamento a precedenti provvedimenti legislativi di altro soggetto (spending review, riforma della PA, legge di stabilità), ma un vero e proprio stravolgimento del Ministero creato da Giovanni Spadolini nel suo assetto generale e del sistema della tutela in Italia. È chiaro a tutti, dunque, che siamo di fronte ad un'operazione strutturale, che, per quanto attuata con strumenti legislativi e amministrativi impropri, poco coerenti nel loro insieme, e a forte rischio di anticostituzionalità, persegue obiettivi non di semplice aggiustamento - ammodernamento di un sistema, ma di un suo radicale ridimensionamento-mutazione.

In estrema sintesi, questi obiettivi possono essere riassunti come: la definitiva cesura fra tutela e valorizzazione, a tutto vantaggio di quest'ultima in termini di risorse di ogni livello; la gerarchizzazione del sistema, finalizzata ad un più facile controllo politico del processo decisionale; la compressione dei residui meccanismi di controllo e monitoraggio sul territorio, tale da comprometterne radicalmente l'efficacia nel contrasto allo sfruttamento speculativo del paesaggio.
In questa direzione vanno dunque interpretati, sia la nuova ondata di supermusei, cui si affiancano ora anche alcune preziosissime aree archeologiche, sia la soppressione delle stesse Soprintendenze Archeologiche che seguono la sorte di quelle storico artistiche. Si ritorna così alle Soprintendenze miste, di sabauda memoria, in cui un solo dirigente dovrà occuparsi dell'intero patrimonio culturale e paesaggistico dell'area assegnata (pari almeno al territorio di due o più province).

Lo immmaginereste mai? La giustificazione politica - per questa seconda tranche della riforma - è la "semplificazione", la parola d'ordine che scandisce almeno da vent'anni lo smontaggio sistematico dell'apparato statale e la distruzione delle sue capacità di riequilibrio sociale e di regolazione democratica. Le nuove Soprintendenze "olistiche" dovrebbero in sostanza meglio sostenere la pressione del silenzio - assenso e dell'incardinamento all'interno delle prefetture: misure entrambe partorite dallo stesso Governo che ora si inventa questi contrappesi.

Viene ripresa, a sostegno dell'unificazione, la tesi tanto cara a politici, stampa ed amministratori locali, secondo la quale gli organi di tutela sarebbero spesso in contrasto l'uno con l'altro, portatori, insomma di istanze diverse e per questo causa di ritardi incompatibili con le superiori ragioni dello sviluppo territoriale. Che si tratti di competenze diverse e che la stessa area-monumento, addirittura oggetto possa avere esigenze diverse a seconda di queste competenze, non è frutto del relativismo soggettivistico di singoli Soprintendenti o funzionari, ma semplice dato di fatto oggettivo. Altrettanto semplice - e rapidissima - la soluzione: laddove esistano dei contrasti di fronte a richieste di trasformazioni territoriali di ogni tipo, deve prevalere l'istanza di tutela più ampia e quindi il parere conformato al principio di massima precauzione.

Con questa riforma, invece, a decidere su queste richieste - qualunque sia il monumento /area interessata - sarà un unico Soprintendente di competenze fatalmente non adeguate alla complessità dei casi e, nella totalità delle situazioni territoriali attuali, privo di idonei strumenti, in termini di personale, archivi, laboratori, risorse economiche. E, per sovrannumero, a sua volta dipendente da un'autorità superiore - il Prefetto - del tutto ignaro dei contenuti tecnico scientifici e dei meccanismi che governano l'esercizio della tutela.

Il risultato finale sarà - inesorabilmente - quello di un appiattimento verso il basso del livello della tutela, con una inevitabile evoluzione della figura del Soprintendente Unico in quella di un mediatore fra le diverse esigenze e pressioni politiche del territorio di competenza. E ogni "mediazione" fatta sulla pelle del territorio è una mediazione al ribasso. Ed è anticostituzionale, come ci ha spiegato attraverso innumerevoli sentenze la Corte Costituzionale, ribadendo come il paesaggio costituisca un "valore primario e assoluto", la cui tutela "precede e comunque costituisce un limite agli altri interessi pubblici" (sentenza n. 367/2007).

Lungi dal porre un argine al silenzio-assenso e alla subordinazione delle Soprintendenze alle Prefetture - i nuovi Uffici Territoriali Unici - questa seconda fase delle riforma rischia di condannare alla definitiva paralisi strutture che da mesi - dall'entrata in vigore del DPCM 171/2014 - si dibattono in difficoltà gestionali drammatiche: senza alcuna chiarezza quanto ad organici, suddivisione di competenze e di risorse. L'entrata in vigore della prima fase della riforma, infatti, è avvenuta nel segno dell'improvvisazione e della mancanza di regole chiare e univoche ed ha mostrato, da subito, gravi carenze d'impianto. Invece di procedere ad una revisione - correzione di rotta, con questo nuovo decreto, si accelera verso l'entropia.

L'archeologia, in particolare, è, in questa seconda fase, il settore maggiormente interessato dai cambiamenti: non solo per la soppressione delle Soprintendenze archeologiche, ma per lo smembramento della più importante (e ricca) Soprintendenza Archeologica italiana, quella di Roma, ridotta ad uno spezzatino (progetto che meriterà un'analisi specifica). Non è tutto: a dir poco inquietante è la notizia, riportata da più fonti, secondo la quale nella nuova versione del Codice sugli appalti che si sta mettendo a punto, sarebbero eliminati gli articoli relativi all'archeologia preventiva, il ridotto apparato normativo che a tutt'oggi regola oltre 6000 cantieri di scavo all'anno. Già ultimi, fra i paesi europei, per quanto riguarda la legislazione di questo settore cruciale, unici ad averne limitato la validità alle sole opere pubbliche, arrivati, con 24 anni di ritardo, ad una ratifica della Convenzione di Malta di pura facciata, ci ritroveremmo, in questo caso, in una situazione di totale deregulation.

D'altro canto, anticipando, nell'agosto 2014, il famoso SbloccaItalia, il premier l'aveva annunciato col seguente slogan: "Mai più cantieri fermi per ritrovamenti archeologici" (La Repubblica, 15 agosto 2014). Quest'accanimento verso l'ultimo, seppur debole, ostacolo alle mani libere sul territorio, sarebbe dunque di diretta ispirazione renziana, come vociferano i rumors di Palazzo.

Se davvero il Ministro Franceschini ha “subito” questa riforma ha ora l'occasione -l'ultima – di dimostrare quanto davvero abbia a cuore la tutela del patrimonio e la difesa delle prerogative del suo Ministero. Blocchi quest'ultimo decreto, se non altro in nome della necessità di un confronto allargato con chi, negli ultimi decenni, ha retto sul campo - con pochi mezzi e ancor meno riconoscimenti - le sorti del nostro patrimonio culturale.
E magari - in quest'operazione di ascolto - sia affiancato da un Consiglio Superiore dei Beni Culturali, conscio del proprio ruolo.

In alternativa, ai membri del Consiglio, non rimarrebbe che una sola via d'uscita. E non sarebbe nemmeno difficile trovare modelli di riferimento, che, ad ogni buon conto, richiamiamo come ausilio alla memoria:
"Onorevole Signor Ministro,
[...] Le mie dimissioni sono dovute, in effetti, al disgusto per il modo come il Consiglio Superiore, che nel linguaggio burocratico è tuttavia designato come "Alto Consesso", viene fatto funzionare, con discredito per questo organo; e alla volontà di non condividere più oltre, anche in parte minima, la responsabilità che l'Amministrazione delle Antichità e Belle Arti è costretta ad assumersi, e si assume, nella progressiva distruzione delle caratteristiche della civiltà artistica italiana. [...] Ma anche con l'attuale legislazione si potrebbe ottenere una salvaguardia molto più efficace, ove da parte della Direzione Generale e del Gabinetto vi fosse la effettiva e costante volontà di opporsi agli attentati che da tante parti vengono portati alle caratteristiche delle nostre città e del paesaggio italiano.


[...] Conosco perciò le pressioni che da parte di tutte le autorità della classe dirigente italiana (gruppi finanziari, autorità ecclesiastiche, prefetti, sindaci e parlamentari) vengono esercitate sui locali uffici e sul Ministero, sempre in un solo senso: perché, cioè, si deroghi alle leggi predisposte per la tutela artistica, storica e panoramica; so che i funzionari regionali delle nostre Soprintendenze conducono con tenacia e coscienza una lotta impari contro le pressioni e che la Direzione Generale potrebbe trovare il più valido appoggio nel Consiglio Superiore. Ma [...] il Consiglio Superiore è oggi tenuto [...] quale strumento per avallare e coprire decisioni già prese, spesso provocate da pressioni che possono dirsi politiche solo nel senso deteriore del termine, cioè del tutto particolaristico e clientelistico. L'esperienza , sempre più aggravata negli ultimi dieci anni, ha mostrato che nessuna seria garanzia è data ai componenti del Consiglio Superiore di trovare nell'autorità ministeriale la massima tutelatrice e interprete della legge nell'interesse comune.


[...] si pone il Consiglio Superiore dinanzi a decisioni già prese e a impegni già assunti nello stesso momento nel quale al Consiglio viene richiesto di pronunziarsi in merito. I casi del villaggio CEP di Sorgane e del cosiddetto Parco della CIA Appia sono, di tale prassi, solo gli esempi più clamorosi; [...]
Ma tutti coloro che hanno sensibilità storica e artistica e senso della decenza e che si preoccupano anche dell'importanza che nel nostro Paese assume l'elemento turistico, sanno, in Italia e ormai purtroppo anche fuori d'Italia, che l'Italia si sta distruggendo giorno per giorno, e che tale distruzione solo in casi isolatissimi è inevitabile conseguenza dei mutamenti tecnici, economici, e strutturali della civiltà moderna: nella maggior parte dei casi è conseguenza del prevalere degli interessi della speculazione privata e della grossolanità culturale della attuale classe dirigente italiana.

I due anni di appartenenza al Consiglio, mi hanno convinto della assoluta inefficacia della mia appartenenza a tale organismo e quindi ne traggo le logiche e oneste conseguenze."

Queste righe di inalterata attualità, quasi alla lettera, risalgono al 28 maggio 1960. Ed era un archeologo.
Ma soprattutto, era Ranuccio Bianchi Bandinelli.

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150 anni fa il naturalista tedesco Ernst Haeckel (1834-1919) “inventò” il nome “ecologia” (dalle parole greche ecos, casa, comunità, ambiente e logos, descrizione) per indicare lo studio e la conoscenza dei rapporti fra gli esseri viventi e l’ambiente circostante. Ad ispirarlo era stata l’avventura umana e scientifica dell’inglese Charles Darwin (1809-1882); appassionato di biologia fin da ragazzo, dopo gli studi universitari, Darwin ebbe la fortuna di essere assunto, nel 1831, a ventidue anni, come assistente scientifico del capitano della nave Beagle che il ministero della marina britannico aveva incaricato di un viaggio lungo le coste dell’America meridionale e nelle isole del Pacifico, per conoscere risorse naturali vegetali, animali e minerali, e luoghi importanti per i futuri commerci del paese. In tale lungo viaggio, terminato nel 1836, Darwin ebbe modo di osservare i caratteri di specie vegetali e animali, molte fino allora sconosciute, e come i loro caratteri fossero influenzati dall’ambiente, dal clima e dalle risorse fisiche e biologiche disponibili.

Il nome ecologia ebbe fortuna fra i biologi ma restò poco diffuso nel grande pubblico. Nei decenni successivi furono approfonditi gli studi su numerosi ecosistemi, ma l’ecologia ebbe una “età dell’oro” (come l’ha chiamata l’ecologo italiano Franco Scudo (1935-1998)) negli anni venti e trenta del Novecento, dall’incontro fra biologi e matematici. Una multinazionale di scienziati, l’americano Alfred Lotka (1880-1949), l’italiano Vito Volterra (1860-1940), il sovietico Giorgi Gause (1910-1986), il russo-francese Vladimir Kostitzin (1883-1963), descrisse le “leggi” che regolano i rapporti fra diverse specie e popolazioni e il cibo e lo spazio disponibile.

Secondo l’adagio popolare che i pesci grandi mangiano i pesci piccoli, effettivamente nel mare i pesci di alcune specie (predatori) si nutrono di quelli di altre specie (prede); quando le prede sono abbondanti aumentano anche i predatori, ma se i predatori mangiano troppe prede, il numero delle prede diminuisce e diminuiscono anche i predatori che trovano meno cibo, con cicli di oscillazioni delle rispettive popolazioni. In altri casi gli organismi di due specie “collaborano” in “simbiosi” scambiandosi cibo e sostanze utili; oppure convivono facendosi concorrenza (proprio come le imprese in un mercato “economico”) per nutrirsi dello stesso cibo limitato; oppure una specie, quella dei parassiti, si nutre a spese di un’altra che ne soffre.

L’ecologia spiega anche perché una popolazione che vive in uno spazio e con cibo limitati, cresce fino a un certo ”limite” e poi decresce; e descrive i flussi di materia e di energia con cui i vegetali sono capaci di nutrirsi da soli (autotrofi) usando i gas dell’atmosfera e l’energia solare; come gli animali (eterotrofi) vivono soltanto nutrendosi di vegetali o anche di altri animali, e come, infine, le spoglie di vegetali e animali vengono rielaborate da organismi decompositori che liberano sostanze utili ad altra vita, tutti protagonisti dell’affascinante e terribile dramma della vita. In quello stesso periodo, nel 1924, fu creata anche la prima (rimasta unica fino al 1970) cattedra italiana di ecologia nell’Università di Perugia.

Dopo la fine della seconda guerra mondiale l’ecologia aiutò a interpretare nuovi fenomeni: ci si chiese se la popolazione umana avrebbe potuto continuare a crescere rapidamente in un pianeta di dimensioni limitate; i rifiuti dei crescenti consumi umani stavano intossicando la natura; nuovi prodotti, come i pesticidi e le scorie nucleari, mettevano in pericolo la vita sull’intera Terra.

La generazione del “Sessantotto” scoprì nell’ecologia la bandiera di una contestazione della società dei consumi e del relativo inquinamento, della congestione delle megalopoli, dei nuovi veleni. L’apice dell’attenzione per l’ecologia si ebbe nel 1970 e la nuova parola significò aspirazione a “cose buone”, pulite. I venditori non persero tempo ad appiccicare il nome “ecologia”, ai detersivi, alla benzina, ai tessuti. Diecine di cattedre universitarie cambiarono nome e presero il nome di “ecologia”. L’ecologia entrò in Parlamento e ci fu perfino un breve “Ministero dell’ecologia”, ben presto soppresso; solo dopo vari anni sarebbe stato istituito un ministero ma questa volta “dell’ambiente”. Una rivista critica Ecologia sopravvisse solo due anni. Ben presto il potere economico riconobbe che questa gran passione per l’ecologia li costringeva a cambiare i cicli produttivi, a depurare i rifiuti, e a guadagnare di meno e la nuova parola fu bollata come ”sovversiva”. L’attenzione per l’ecologia declinò presto e nuovi aggettivi più accattivanti comparvero come “verde”, “sostenibile” e, più recentemente “biologico”, da associare al nome di prodotti commerciali che un venditore vuole dimostrare “buoni”.

E la povera ecologia che fine ha fatto, in questi anni in cui proprio le conoscenze ecologiche sarebbero in grado di suggerire azioni per contrastare l’erosione del suolo e i danni degli inquinamenti, per il corretto smaltimento dei rifiuti, nell’interesse del principale animale della Terra, l’”uomo” ? Ci voleva Papa Francesco per ricordare l’importanza dell’ecologia, come “ecologia umana”, nella sua enciclica Laudato si’. Io spero che gli ecologi, quelli veri, ritrovino la passione di far conoscere ad alta voce il contenuto e gli avvertimenti della loro disciplina la cui conoscenza, soltanto, offre le ricette per rallentare i guasti ambientali, a cominciare dagli inarrestabili mutamenti climatici. Dalla cultura ecologica trarrebbero stimolo e beneficio i legislatori, i governanti e anche gli economisti dal momento che i soldi si muovono soltanto accompagnando il flusso, ecologico, appunto, di materie prime, di merci e di rifiuti, attraverso l’ambente naturale abitato dall’uomo.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno

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Seconda parte [1]

Angela Dorothea Merkel è intelligente (cioè capisce) molto più degli altri leader europei. Alcuni di loro non lo sono per connaturata inibizione poiché sono fascisti e nazisti quasi di­chiarati (Kaczynski e Andrzej Duda, Orban…); altri sembrano come indica la seconda scelta di un qualsiasi dizionario dei sinonimi e dei contrari, idioti – stupidi; altri ancora, chiamiamoli intermedi, si muovono solo secondo gli umori classisti prevalenti; altri infine, piccoli per piccolezza di patria, devono vivere nell’ombra di uno grosso, adeguandosi.

Per Angela Merkel, incurante di contestazioni e persino di proprie contraddizioni, la Germania ha di nuovo bisogno di immigrati in massa, come nel passato. Solo con l’immissione di popolazione giovane, dice, essa potrà riequilibrare lo stato demografico e, udite udite, il si­stema pensionistico. Infatti, il diagramma piramidale della popolazione per età presenta una base molto ridotta e un vertice allargato: pochi giovani e giovani-adulti, tanti anziani. Tassi di natalità minimi (8 per mille, idem l’Italia) e tassi di mortalità superiori (11 per mille, 10 l’Italia), movimenti migratori a parte, minacciano la stessa riproduzione. Tutto questo nonostante la crescita lungo cinque-sei decenni della presenza di stranieri provenienti da diverse nazioni, tuttavia propensi, evidentemente, ad assimilare rapidamente comporta­menti di vita famigliare o personale. Ma si devono risolvere due enormi problemi: assicu­rarlo davvero quel lavoro, del quale il paese sembra avere urgente necessità, ai nuovi cit­tadini; garantir loro un’abitazione dignitosa insieme a un coerente modo di vita. Solo così si potrà ricostituire un processo relazionale costruttivo e stabile fra rapporti di produzione e riproduzione.

Vogliamo dire, indipendentemente dalla questione tedesca, che la vecchia e durevole lo­gica capitalistica e mercatistica volta a restringere o a espandere la forza lavoro secondo gli investimenti e i disinvestimenti nel gioco fra sviluppo e crisi, può essere battuta da una realizzata condizione sociale e politica incentrata su due atti: riduzione per tutti del tempo di lavoro, magari prendendo spunto dalla provocazione di Paul Lafargue (i francesi hanno provato…) e radicale modificazione del rapporto fra consumo di beni d’uso e di beni di scambio in favore dei primi, compresi quelli immateriali. In altre parole: parallelamente alla diminuzione del tempo penoso (lo è per la stragrande maggioranza), aumento del tempo vissuto con felicità attraverso la cultura, per la crescita di sé razionale e sentimentale.

La Germania è il più popoloso paese dell’Unione, ottantuno milioni di abitanti. Gli stranieri sono più del 10 % (di questi il 20 % vi è nato) ma se si aggiungono gli immigrati pervenuti man mano alla cittadinanza tedesca la percentuale quasi raddoppia, 19%. La tumultuosa ricostruzione sostenuta dall’enorme ammontare degli aiuti americani anche in funzione dell’alleanza antisovietica e la gigantesca espansione industriale degli anni Cinquanta e seguenti richiesero un incessante flusso di mano d’opera da altri stati europei. I meridionali italiani espatriarono in massa, insieme ai turchi (che oggi rappresentano la più numerosa comunità straniera, oltre un milione e mezzo), ai polacchi, ai greci e altri…

Come simbolo del lavoro italiano in terra tedesca scegliamo Wolfsburg (Bassa Sassonia), “Città del Lupo”. Furono specialmente nostri muratori e artigiani a costruire, insieme alle prime case, la fabbrica della “Macchina del popolo” voluta da Hitler nel 1938. Volkswagen, programma industriale, politico e “sociale” bloccato dalla guerra fu rilanciato dopo la scon­fitta, intensificato fortemente dal 1955 e negli anni Sessanta grazie al lavoro degli immi­grati meridionali. Non fu a caso l’arrivo a Wolfsburg di tantissimi compaesani, fu dovuto a una preferenza, a un atto di fiducia degli industriali e dell’Istituto Federale per il Colloca­mento della Manodopera e per l’Assicurazione contro la Disoccupazione.

Probabilmente valse il riflesso delle prestazioni d’opera risalenti alla fondazione della fabbrica e della città. Ne derivò anche la modifica del termine che designava i lavoratori: dapprima Gastar­beiter poi, a causa della contrarietà degli industriali a considerarli solo “ospiti”, Südländer. Così il clamoroso successo del Maggiolino (Käfer) incorporava l’abilità e l’affidabilità degli operai siciliani, calabresi, abruzzesi… e la loro accettazione di un modo di abi­tare che non aveva nulla dell’abitazione famigliare nella propria regione, seppur povera, magari cadente, igienicamente inadeguata.

Una ricerca svolta presso l’Università degli studi di Roma Tre, pubblicata nel semestrale Altreitalie[2], presenta un quadro preciso degli alloggiamenti. Non furono usate le vecchie baracche ma si costruì un Villaggio degli italiani (Italienerdorf) costituito da lunghe “case” a due piani prefabbricate in legno. Nel 1964 erano 46, nel 1966, 58. Gli immigrati tuttavia continuarono a chiamarle baracche: ognuna con 32 stanze per 2-4 persone, a ogni piano una cucina comune, un gruppo di servizi igienici, un locale “per stirare” (?).

Wolfsburg cambiò notevolmente lungo i decenni fino ai giorni nostri. Da luogo-fabbrica de­dicato solo alla produzione divenne una città di oltre 120.000 abitanti dotata di tutte le ri­sorse che ne designerebbero l’abitabilità e la gradevolezza. Lo scrittore Maurizio Mag­giani, autore di quel romanzo fuori del rigo convenzionale che è Il coraggio del pettirosso[3] racconta in un articolo sul Secolo XIX di una delle sue visite[4]. Ha amici compatrioti, del re­sto un quarto degli abitanti ha origini italiane o è tuttora nostro concittadino. L’italianità la si trova non solo nei ristoranti nelle gelaterie nei caffè ma anche nelle scuole, nelle bibliote­che. Per Maggiani «Wolfsburg è una bella città… ricca di verde, funzionale… i suoi quar­tieri operai sono formati da villette a schiera, separati da parchi e collegati con ampi viali».

Il maggior vanto civico è la presenza del Phaeno, il più grande museo scientifico interattivo della Germania dotato di 250 postazioni. Progettato da chi? Diamine, dall’immancabile Zaha Hadid (vogliamo subito paragonarlo col meraviglioso Exploratorium di San Franci­sco, fondato da Frank Oppenheimer nel 1969, un grande spazio entro un’ariosa semplice struttura di ferro, come fosse testimonianza della rivoluzione industriale). Non manca un museo d’arte moderna. Infine la Kulturhaus di Alvar Aalto, che ricordiamo non fra le opere eccelse, funzionava già nel 1962.

Maggiani discorre con gli amici, tutti hanno in certo modo nostalgia dell’Italia; «ma, fatte le ferie se ne tornano a starsene nel cuore della Bassa Sassonia a casa loro, che è Wolfsburg, dove il clima non sarà un granché, ma dove dopo le quattro del pomeriggio nessuno lavora più, si va a passeggiare sui viali, a nuotare nei laghi, al cinema, a teatro, a bere birra sul lungofiume…». E la settimana di ferie autun­nali, l’asilo nido sotto casa, le tessere per i musei e le gallerie, il medico che li chiama per accertarsi della loro salute? Allora una specie di paradiso? Forse il nostro simpatico ro­manziere è propenso a romanzare, ma non a contar balle. In ogni caso un tale paesaggio urbano e umano non può riguardare l’intera Germania; e quali conseguenze proprio lì, nella sede madre dell’azienda, provocherà l’attuale vicenda delle emissioni inquinanti truc­cate in certi modelli?

Stiamo osservando una fotografia del 1964: in un’aula scolastica immigrati italiani ascol­tano qualcuno che li sta istruendo sul lavoro da minatori per essere avviati alle miniere carbonifere di Duisburg, Renania Settentrionale-Vestfalia. Tutta la Ruhr rappresentava, a quell’epoca, una delle massime concentrazioni territoriali minerarie (è noto che soprag­giunto il tempo della chiusura, l’intera regione, con le sue città grandi e piccole, sarà tra­sformata in un insieme multicentrico ricco di occasioni culturali, paesaggistiche, turistiche). I cavatori italiani meridionali, a nostra memoria, furono più fortunati dei loro colleghi emi­grati in Belgio, dove a metà degli anni Cinquanta lavoravano 142.000 minatori, fra i quali 63.000 stranieri comprendenti 44.000 italiani. A Marcinelle, miniera di carbone Bois du Cazier nella periferia meridionale di Charleroi, l’8 agosto 1956 a causa di un irrefrenabile incendio morirono 262 minatori, i sopravvissuti furono solo 13. 136 le vittime italiane, le metà abruzzesi. Sfogliando le notizie in memoriacondivisa.it leggiamo che il ricordo della tragedia è ancora vivo; anche quest’anno nel sito minerario del Bois du Cazier, dal 2012 entrato nel patrimonio mondiale dell’Unesco, si terranno le cerimonie di commemorazione dell’evento.

Ai lavoratori italiani per morire in miniera non occorreva emigrare all’estero. Poco più di due anni prima dello sterminio di minatori a Marcinelle era stata la Maremma, terra di miniere dove l’attività della società Montecatini era iniziata alla fine dell’Ottocento, a essere teatro di una tragedia. Provincia di Grosseto, comune di Rocca­strada, frazione di Ribolla (in effetti, un villaggio Montecatini), miniera di lignite sezione “Camorra”: nella prima mattina del 4 maggio 1954 una spaventosa esplosione di grisù causò la morte di 43 operai. I minatori erano in totale poco più di 1.400, in forte diminu­zione dal 1948 coerentemente alla politica della Montedison, smobilitare anno dopo anno: condotta che comportava la riduzione delle provvidenze per la sicurezza del lavoro. Il libro “d’epoca” di Luciano Bianciardi e Carlo Cassola I Minatori della Maremma[5] dedica un capi­tolo a La sciagura di Ribolla.

Fu per noi una lettura importante. Due ricercatori che sali­ranno la china della letteratura d’autore e della fama fino al vertice ci ragguagliavano sulla storia e la condizione sociale poco conosciute della loro regione, in maniera così accurata e dimostrativa come solo una vocazione allo studio storico e una diretta partecipazione alle vicende potevano permettere. Chi conosceva quale fosse l’abitare per i lavoratori scapoli arrivati lì provenendo da territori lontani? Ecco i “camerotti”, costruiti per cacciarvi i prigionieri di guerra. “Costruzioni a un piano, lunghe e strette, divise all’interno in tante stanzette quadrate…gli scapoli… vivono là dentro, a gruppi di tre o quattro per stanza: brande di ferro, armadietti, pure di ferro, un tavolo, sgabelli… In cima all’armadietto una cassettina di legno… La sensazione è quella, la caserma”.[6]

L’io narrante di La vita agra, il capolavoro di Luciano Bianciardi, sente la “missione” di vendicare le vittime della tragedia: «…venivo ogni giorno a guardare il torracchione di vetro e di cemento [sarebbe la sede della Montecatini a Milano], chiedendomi a quale finestra, in quale stanza, in quale cassetto, potevano aver messo la pratica degli assegni assisten­ziali, dove la cartella personale… di tutti i quarantatré i morti del quattro maggio. Chieden­domi dove, in che cantone, in che angolo, inserire un tubo flessibile ma resistente per farci poi affluire il metano, tanto metano da saturare tutto il torracchione; metano miscelato con aria in proporzione fra il sei e il sedici per cento. Tanto ce ne vuole perché diventi grisù, un miscuglio gassoso esplosivo se lo inneschi a contatto con qualsiasi sorgente di calore su­periore ai seicento gradi centigradi. La missione mia… era questa: far saltare tutti e quat­tro i palazzi».[7]

[1] Vedi la prima parte in eddyburg, 2 dicembre 2015.


[2] Katiuscia Curone, Italiani nella Germania degli anni Sessanta: immagine e integrazione dei Gastarbeiter, Wolfsburg 1962-1973, in Altreitalie, rivista internazionale di studi sulle popolazioni di origini italiane nel mondo, n. 33, luglio-dicembre 2006.

[3] Edito da Feltrinelli nel 1995, ha vinto nello stesso anno i premi Viareggio, Rèpaci, Campiello. Nel 2010 la quattordicesima edizione.

[4] Maurizio Maggiani, Povera Italia, vista da Wolksburg, in Il Secolo XIX (unito a La Stampa), 31 agosto 2010.

[5] Luciano Bianciardi – Carlo Cassola, I minatori della Maremma, Editori Laterza, Bari 1956 – Libri del tempo.


[6] Ivi, p. 50-51. «Le famiglie, che dovettero costituirsi parte civile accettarono le offerte in denaro della Montecatini e il processo si concluse con l’assoluzione di tutti gli imputati e il disastro fu archiviato come ‘mera fatalità. A seguito del disastro la direzione della Montecatini decise la chiusura della miniera, la cui smobilitazione richiese ben cinque anni», dal sito memoriacondivisa.it.

[7] La vita agra, 1967, in Luciano Bianciardi - L’antimeridiano - Tutte le opere, a cura di Luciana Bianciardi, Massimo Cipolla e Alberto Piccinini. Volume primo. Saggi e romanzi, racconti, diari giovanili, Isbn Edizioni e ExCogita Editore, Milano 2005, p. 595.

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Una biblioteca che chiude dovrebbe essere considerato sempre un lutto nazionale. Nel momento in cui viene sbandierato il ruolo dell’Italia e di Roma come portatrici della bellezza e della cultura, gli amministratori del Comune di Roma non esitano a mettere a repentaglio l'esistenza della biblioteca Fabrizio Giovenale che ha tenuto accesa la luce della cultura nella lontana periferia della città, in un popoloso quartiere fra le vie Nomentana e Tiburtina, antiche zone industriali di cui rimangono oggi vuote fabbriche abbandonate.

La biblioteca Fabrizio Giovenale si trova in Via Fermo Corni presso il Centro di Cultura Ecologica. Nato un quarto di secolo fa in una prima sede provvisoria, il Centro ha ospitato incontri e lezioni di una delle ultime Università Verdi animate, fra l’altro, proprio dall’architetto Fabrizio Giovenale, figura centrale della cultura ambientale e urbanistica. Vice presidente di Italia Nostra, fra i fondatori della Lega Ambiente, scrittore e giornalista, Giovenale è stato instancabile educatore e animatore di migliaia di persone in tutta Italia sui problemi dell’ambiente, del territorio, della città.

Nel 2003 il Centro ottenne dal Comune di Roma, tramite convenzione, la gestione di una vecchia stalla che, ristrutturata e attrezzata con scaffali e computer, è divenuta sede della biblioteca, federata con le Biblioteche di Roma. Negli anni la biblioteca ha ospitato importanti mostre e convegni, centinaia di ore di didattica ambientale, eventi letterari, teatrali, cinematografici e musicali, mettendo in contatto i cittadini con personalità della cultura, del volontariato sociale, dell'arte e dello spettacolo. La biblioteca si è via via arricchita di libri e documenti donati anche dagli studiosi che la frequentavano e dagli studenti che depositavano le loro tesi di laurea preparate studiando nelle sale della biblioteca.

La biblioteca del Centro di Cultura Ecologica si è ulteriormente arricchita quando, alla morte di Giovenale, nel 2006, i familiari hanno voluto donarle le carte, i documenti e i libri scritti e letti dal grande urbanista. A questo fondo iniziale si sono aggiunte altre donazioni di materiale archivistico spesso unico. Non una semplice biblioteca, quindi, ma un importante archivio storico del movimento ambientale, dell’evoluzione del pensiero ecologico in Italia, della storia delle periferie. Il Centro ha voluto intestare a Fabrizio Giovenale la biblioteca.

La convenzione tra il Comune di Roma e una associazione del quartiere, grazie alla quale la biblioteca ha potuto esistere come presidio culturale nella periferia nord est di Roma, si conclude alla fine dell'anno. Ora gli amministratori di un Comune senza sindaco comunicano ai cittadini, agli studenti e agli operatori che se vogliono tenere aperta la biblioteca dovranno pagarsela di tasca propria, altrimenti si chiude!

Ritengo ingiusto e scandaloso che la capitale d'Italia non sia in grado di assicurare la vita di una biblioteca che costituisce un servizio essenziale per una delle periferie della città. Ci saranno motivi amministrativi che inducono il Comune alla sua decisione, ma l’effetto è un’ulteriore offesa alla cultura, a chi studia l’ambiente denunciando l’inquinamento, il dissesto idrogeologico, la congestione urbana, l’abusivismo edilizio, l’abbandono dei parchi, l’erosione delle spiagge, che caratterizzano il nostro paese.

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La ruota smette di girare

il sole tramonta
con amarezza.

Sono le prime righe di una poesia che lo scrittore inglese Ian Mcmillan ha scritto in occasione della chiusura, nei giorni scorsi, dell’ultima miniera sotterranea di carbone del Regno Unito, quella di Kellingley, nello Yorkshire, Inghilterra nord orientale. Finisce così un’era cominciata nel Medioevo quando si è scoperto che il carbone poteva sostituite il legname come fonte di calore, salvando così i boschi dalla distruzione. Il carbone è stato il motore della rivoluzione industriale in Inghilterra e poi in Germania, Francia e negli altri paesi europei e poi negli Stati Uniti.
In Inghilterra sono state fatte le principali scoperte che hanno spianato la strada al trionfo del carbone. Già nel Seicento si è visto che il carbone fossile, estratto dalle miniere, si prestava alla produzione di ferro e acciaio per trattamento del minerale molto meglio del carbone di legna, e nei primi anni del Settecento fu scoperto che risultati ancora migliori si potevano avere trasformando, per riscaldamento in camere di acciaio chiuse, il carbone fossile in carbone coke, più resistente alla pressione. Era così possibile costruire forni (gli altiforni) di maggiori dimensione e produrre ferro di migliore qualità e con minori costi. La chimica ha permesso poi di scoprire che i gas che si liberavano insieme al coke bruciavano con una fiamma luminosa; nei primi anni dell’Ottocento cominciava la diffusione delle lampade a gas e “la luce”, proprio quella alla cui celebrazione era stato dedicato l’anno che sta finendo, illuminava le strade, le case, le biblioteche, le fabbriche.

Una storia travagliata perché ben presto si è scoperto che la combustione del carbone era fonte di inquinamento, che l’estrazione del carbone dalle miniere sotterranee era accompagnata da crolli ed esplosioni e morti dei lavoratori, condannati ad una vita faticosa all’oscuro, in mezzo alle polveri. Le dure condizioni di lavoro e i miseri salari imposti dai primi spietati campioni del capitalismo spinsero i minatori a dar vita alle prime organizzazioni sindacali, a imparare parole come sciopero e lotte per nuovi diritti e dignità. Poche merci come il carbone hanno stimolato gli scrittori nella denuncia delle miserevoli, dolorose e pericolose condizioni di lavoro. Il libro Il re carbone (1917) del socialista americano Upton Sinclair (1878-1968) e i due romanzi Le stelle stanno a guardare (1935) e La cittadella (1937) del medico inglese Archibald Cronin (1896-1981) stimolarono le autorità per un maggior rigore nel controllo della sicurezza dei lavoratori delle miniere di carbone.

L’uso del carbone provocava la liberazione di polveri che si rivelarono mortali; l’esistenza degli idrocarburi aromatici policiclici cancerogeni fu scoperta cercando le cause del tumore che si manifestava negli operai delle cokerie e negli spazzacamini che venivano a contato con la fuliggine. D’altra parte il lavoro nelle miniere assicurava un salario alle famiglie più povere che lasciavano i campi alla ricerca di meno misere condizioni di vita. In questo mondo di contraddizioni il carbone continuava il suo cammino trionfale, estratto in quantità sempre maggiori al punto che l’economista inglese William Stanley Jevons (1835-1882) nel 1865 scrisse il libro Il problema del carbone, affermando che se fosse continuato lo sfruttamento delle miniere inglesi un giorno le riserve di carbone si sarebbero esaurite.

Le scoperte di altri giacimenti, a profondità sempre maggiori, ha permesso all’Inghilterra di continuare a estrarre carbone fino ad un picco di produzione di 290 milioni di tonnellate all’anno nel 1913. A partire dal 1950 comincia il declino del carbone inglese ed europeo non per l’esaurimento delle riserve ma per la comparsa di un invadente e aggressivo concorrente come fonte di energia, il petrolio. Fra le cause del declino del carbone c’è anche la difficoltà di trasporto; essendo un combustibile solido il carbone deve essere caricato su navi e treni carbone in maniera scomoda e costosa, mentre il petrolio che è un liquido e, ancora di più poi, il gas naturale, appunto un gas, possono essere trasportati mediante condotte o navi in modo molto meno costoso.

Benché l’Unione Europea sia nata nel 1950 come Comunità del carbone e dell’acciaio, il carbone europeo ha subito, nella seconda metà del Novecento, un continuo declino; le ferree leggi del libero mercato hanno portato alla progressiva chiusura delle miniere sotterranee in Belgio, Francia, Germania; in Inghilterra le prime drastiche chiusure si ebbero nel 1984 con il governo conservatore e l’ultima chiusura è delle settimane scorse. Una storia piena di luci e di ombre e non fa meraviglia che gli ultimi minatori abbiano salutato con malinconia la perdita del posto di lavoro che non era solo un salario, ma anche l’orgoglio di aver fatto la storia del mondo contemporaneo.

Il carbone comunque non è scomparso dalla scena delle fonti di energia, con i suoi otto miliardi di tonnellate estratti nel mondo, quasi la metà in Cina, seguita da Stati Uniti, India, Australia, e tanti altri paesi che sul carbone basano il loro impetuoso successo economico; la Germania estrae carbone da miniere a cielo aperto. Le riserve di carbone e lignite nel mondo ammontano a circa mille miliardi di tonnellate; dal carbone dipende ancora gran parte della produzione di acciaio, di elettricità, di prodotti chimici. Con tutti i suoi limiti per motivi ambientali, il re non è morto.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno

Emendamento “mascalzone” quello per l’aeroporto di Firenze: , ma forse è meglio definirlo “criminale”. Si tratta ... (continua la lettura)

Emendamento “mascalzone” quello per l’aeroporto di Firenze: ma forse è meglio definirlo “criminale”. Si tratta di un emendamento presentato dai relatori della Legge di Stabilità, Melilli (Pd) e Tancredi (Ncd), volto a spianare la strada al progetto del nuovo aeroporto di Firenze. Mascalzone, perché manipolare le leggi per favorire un progetto o un intervento in corso, cambiare le regole durante il gioco, è profondamente antidemocratico. “Criminale”, perché qui non si tratta di una bretella stradale o di una linea ferroviaria (ciò che sarebbe già grave); qui si tratta di un aeroporto situato a tre chilometri dal centro di Firenze, in una zona densamente popolata, ad alto rischio idraulico, dove è insediato il polo scientifico universitario e dove si vuole costruire un nuovo inceneritore il cui inquinamento si sommerà a quello dell’aeroporto; e dove sono presenti centri commerciali, autostrade, linee ferroviarie e ogni sorta di infrastrutture. Un progetto che secondo l’Università di Firenze non valuta adeguatamente il rischio di catastrofe aerea: si gioca con la vita delle persone.

Cosa contienel’emendamento? Una norma retroattiva, valida per tutti gli aeroporti, ma cucitaper quello fiorentino, per cui “i piani di sviluppo aeroportuale degliaeroporti finanziati o cofinanziati dallo Stato, considerati aeroporti diinteresse nazionale, sono redatti, anche ai fini della Valutazione di ImpattoAmbientale, con il grado di definizione degli interventi previsto a carico delsoggetto proponente (e non più sul progetto definitivo come prescrive la Legge152/2006 vigente)”. Si applica, cioè, surrettiziamente la criminogena “LeggeObbiettivo” e di fatto si svuota la Via, perché condotta su uno studioapprossimativo, incompleto e sviluppato a piacere del proponente. Ma non basta:per sbarazzarsi del fastidio di dovere decidere come e dove trattare 3 milionidi tonnellate di terre inquinate, il piano di smaltimento delle terre di scavoviene sottratto alla Via e rimandato a una qualche fase successiva. Infine, ilparere favorevole della Regione, (bypassando la Conferenza di servizi) “comprendee assorbe a tutti gli effetti la verifica di conformità urbanistica epaesaggistica delle singole opere inserite negli stessi piani, e comportavariante di tutti gli strumenti della pianificazione territoriale, urbanisticae paesaggistica comunque denominati e da qualunque ente approvati”. Emendamentopalesemente anticostituzionale, ma cosa importa; l’importante è piazzare ilcolpo, poi con la Consulta si vedrà (tra qualche anno).

L’emendamentoè stato ritirato nell’arco di dodici ore per le combattive opposizioni parlamentarie per la mobilitazione contraria di associazioni ambientaliste eamministrazioni locali, cui si si sono aggiunti alcuni esponenti del Pd eperfino il sindacato Cgil. Un ritiro che non è dato di sapere se dipenda dalla pessimaqualità giuridica dell’emendamento o dal fatto che lo si voglia ripresentare,magari in forme meno eversive, in qualche ‘veicolo’ più veloce della Legge diStabilità.
Rimanetuttavia un fatto che non può essere cancellato da un ripensamento non si saquanto convinto: l’attuale governo (perché non si può pensare a un’iniziativanon programmata, per quanto mal condotta) supera di gran lunga per spregiudicatezzae favoreggiamento degli interessi privati quello di Berlusconi.

Con un’ultimanotazione: il giornale La Repubblica, nell’edizione fiorentina fin dall’inizioschierato senza se e senza ma a favore dell’aeroporto, ha ripetutamente argomentatoa favore dell’emendamento con la motivazione che, in fondo, questo traduceva inlegge una “prassi consolidata”; attestando così che dal 2008 ad oggi i progettidegli aeroporti sono stati approvati in violazione della legge tuttora vigente.In attesa, seguendo questa linea di ragionamento, di un emendamento che legalizzila compravendita e la corruzione politica. Per prassi consolidata.

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I partecipanti alla conferenza sul clima di Parigi hanno concluso i lavori con un accordo per limitare il riscaldamento globale. Hanno parlato di quanti gradi potrà aumentare la temperatura media del pianeta entro qualche improbabile data del futuro e soprattutto di tanti soldi, chi li deve spendere e chi li prenderà. Fra i tanti argomenti poco spazio ha ricevuto il rapporto fra cibo e clima, un rapporto bivalente. Il cibo ha come unica fonte l’agricoltura che produce i vegetali per fotosintesi utilizzando l’anidride carbonica dell’atmosfera, il principale fra i “gas serra” responsabili delle modificazioni climatiche; l’agricoltura opera, quindi, come depuratore di parte dei gas emessi dai camini e dalle automobili. La biomassa di prodotti agricoli adatti, direttamente o indirettamente, all’alimentazione umana nel mondo è dell’ordine di dieci miliardi di tonnellate all’anno.

Intanto va chiarito che ci sono due modi di accedere al cibo; gli alimenti che ci sono familiari, la pasta, la carne, i formaggi, i grassi, la verdura che acquistiamo nei negozi, sono stati ottenuti da una agricoltura industrializzata che fornisce prodotti agricoli in grande quantità, di elevata qualità e a basso prezzo con impiego di energia ricavata da combustibili fossili e con conseguente liberazione nell’atmosfera di gas serra in quantità molto maggiore di quella eliminata dalla fotosintesi dei vegetali. L’agricoltura industrializzata impiega macchinari che richiedono energia nella fabbricazione e nell’uso; concimi ottenuti per sintesi con consumo di energia e liberazione di gas serra, e che si trasformano nel terreno liberando altri gas serra come ossidi di azoto; occorrono poi navi e treni e camion (e energia) per il trasporto dei raccolti dai campi alle industrie di trasformazione e la produzione degli alimenti finali richiede processi di conservazione, trasformazione, inscatolamento, distribuzione, tutte operazioni che richiedono energia. La carne e i latticini e le uova, con le loro proteine di elevata qualità nutritiva, sono ottenuti da animali che sono stati nutriti con una parte dei prodotti vegetali e, durante la loro vita, tali animali hanno prodotto altri gas serra, alcuni, come metano, nella loro digestione, altri liberati dalla decomposizione degli escrementi.

Non solo; molti prodotti agricoli pregiati possono essere ottenuti soltanto con monocolture e pascoli che richiedono crescenti spazi che vengono recuperati, soprattutto nei paesi più poveri, distruggendo le foreste spontanee che sono uno dei sistemi naturali per eliminare dall’atmosfera una parte dei gas serra. E ancora: le modificazioni della superficie terrestre alterano anche loro lo scambio di energia fra la Terra e il Sole, con conseguente aumento della temperatura dei continenti. Insomma l’agricoltura industrializzata, capace di assicurare a circa un terzo dei terrestri, abitanti nei paesi economicamente più avanzati, cibo di buona qualità e abbondante, contribuisce anch’essa, insieme ai trasporti e alle industrie e alle centrali, al riscaldamento del pianeta e ai mutamenti climatici; tali cambiamenti provocano, in alcune zone, piogge improvvise che allagano i campi coltivati, in altre zone siccità, in altre ancora alterazioni dei cicli biologici naturali che favoriscono la diffusione di parassiti sempre più difficili da combattere: il tutto con perdita di preziosi raccolti. Insomma se si assicura più cibo per alcuni, si compromette la disponibilità di cibo per loro stessi e per tutti, in una reazione a catena.

Gli altri due terzi degli abitanti della Terra sono i poveri dei paesi avanzati, e i poveri dei paesi emergenti come India, Cile, Brasile, e i poveri e poverissimi dei paesi che chiamiamo “arretrati”, in Asia, Africa, America meridionale; questi poveri ricavano cibo da una agricoltura contadina che soddisfa il fabbisogno locale senza alimenti in scatola o esotici, spesso con raccolti scarsi e con alimenti meno nutritivi. Questi abitanti della Terra non contribuiscono praticamente alle modificazioni climatiche ma sono i primi a subirne i danni nella maniera più grave. Le tempeste tropicali spazzano via i raccolti dei loro miseri campi, la siccità inaridisce i campi e li trasforma in terre sterili. Mentre, quindi, un terzo dei terrestri è danneggiato dai cambiamenti climatici provocati dal progresso e dal benessere della “civiltà”, avendo in cambio almeno un cibo abbondante e adeguato, gli altri due terzi, esclusi dalla “civiltà” industriale e merceologica, hanno soltanto dei danni e diventano ancora più poveri.

Alcuni mesi fa numerosi studiosi si sono riuniti a Brescia, su iniziativa del Museo dell’Industria e del Lavoro MusIL e della Fondazione Micheletti, per discutere sul futuro dell’agricoltura e hanno analizzato i caratteri delle varie agricolture (gli atti sono raccolti nel volume Le tre agricolture, pubblicato da Jacabook). L’agricoltura contadina è quella più esposta ai danni dei cambiamenti climatici; quella industriale assicura maggiori quantità di cibo ed è causa e vittima, nello stesso tempo del riscaldamento planetario. La produzione di cibi “biologici” senza concimi e pesticidi, la diffusione dell’uso di prodotti agricoli locali “a chilometri zero”, sono alcune possibili soluzioni. Ma la salvezza per i nove miliardi di persone che abiteranno la Terra nella metà di questo secolo è possibile soltanto con una “terza agricoltura ecologica” che recuperi un rapporto fra coltivatori e consumatori riconoscendo la centralità della “terra”, in grado di assicurare cibo alla crescente popolazione in armonia con i cicli e le leggi della natura. E, come diceva Bacone, la natura soddisfa i bisogni umani solo se le si ubbidisce.

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Ci sono analisi settoriali che svelano molte più cose di profondità sistemica che non tante indagini di portata programmaticamente generale. E' questo il caso del libro di Walter Tocci, La scuola, le api e le formiche. Come salvare l'educazione dalle ossessioni normative, Donzelli 2015, che è' molto più di una tagliente analisi della scuola italiana nel nostro tempo. Senza forzare molto le cose si potrebbe dire che è una diagnosi della società italiana e al tempo stesso una spiegazione etiologica del suo conclamato declino attraverso le politiche della formazione. L'autore, infatti, prende in esame i tentativi di riforma degli ultimi anni, i suoi impatti sulla scuola, ma ha il grande merito di non rimanere dentro questo recinto, di scorgere le origini dei problemi in dinamiche più generali, sotto il cui influsso l'Italia indietreggia a grandi passi, chiudendosi in un processo di autoemarginazione di cui non si vede la fine.

La situazione della scuola italiana e il livello culturale dell'intero paese sono il risultato di processi economici e sociali molteplici, e al tempo stesso il frutto di scelte, di assecondamento, da parte delle classi dirigenti e del ceto politico, di convinzioni ideologiche dominanti. Si pensi alla diffusione del mito della società della conoscenza. «Dagli anni novanta - ricorda Tocci - si è diffusa una interpretazione rassicurante della modernità riflessiva, come processo auto-generativo della competenza sociale. Si suppone una capacità degli individui e delle istituzioni di cogliere nel cambiamento stesso i saperi necessari per il suo governo. E' il sogno del cittadino razionale che sceglie nel mercato, decide in politica ed è in grado di progettare la propria vita. Innovare sembra come passeggiare in un prato raccogliendo i fiori della conoscenza».
E' da tale visione - illusione, rielaborazione e insieme cascame ideologico della cultura neoliberista, che nasce la politica di intervento “riformatore” sulla scuola degli anni recenti. Un politica tutta orientata a piegare, attraverso dispostivi normativi, le strutture “antiquate” della formazione alla “modernità” rampante della società che avanza. «La scuola - sottolinea Tocci - è sempre in ritardo rispetto a una presunta paideia della modernizzazione. La sua resistenza al cambiamento diventa una colpa rispetto alla società. E può essere mondata solo con le riforme». Senza che gran parte dei riformatori ne abbia piena consapevolezza, tale posizione assume la società plasmata dal cosiddetto libero mercato, le sue intime logiche competitive, come il principio di realtà a cui la formazione scolastica deve adattarsi per poterla più prontamente servire. Non è più la scuola, la comunità scientifica ed educativa dello Stato-nazione che progetta le linee di formazione delle nuove generazioni, sulla base della sua storia e dei bisogni conoscitivi e culturali dell'epoca, ma è la società di mercato che tenta di trascinare le istituzioni nel vortice delle sue imperiose dinamiche.

Da ciò discende l'emarginazione sempre più dispiegata della cultura umanistica, poco utile ai bisogni economici del momento, l'insistenza ossessiva sulla valutazione e sui suoi criteri, piegati a logiche sempre più attente ai risultati quantitativi immediati, piuttosto che al processo evolutivo dei ragazzi. Il fine della scuola è sempre meno quello di formare spiritualmente e civilmente i cittadini italiani, di dotarli di un patrimonio cognitivo e culturale per la futura navigazione in una società complessa, ma di renderli più pronti alle esigenze del mercato del lavoro. Questo spiega l'ossessione normativa con cui i governi sono intervenuti negli ultimi decenni in tale ambito, senza alcuna ambizione di innalzare la qualità dei processi formativi, di innovare i metodi e i modi dell'insegnamento, di attingere alle novità dei saperi contemporanei, oggi impegnati in uno straordinario sforzo di cooperazione interdisciplinare. Una tendenza a cui si è accompagnata la nessuna cura per le sorti di chi “non eccelle”, dei ragazzi provenienti da famiglie modeste, che sempre più numerosi ripercorrono il destino sociale dei padri, entro un meccanismo di mobilità sociale bloccato, riproduttore di disuguaglianze sociali oltre che territoriali.

Indagini recenti - ricorda Tocci - mostrano che nel nostro paese poco meno di un terzo della popolazione attiva possiede le competenze necessarie per interagire consapevolmente nella società del XXI secolo. Da noi, tale incapacità, fondativa di una piena cittadinanza, riguarda il 70% dei cittadini tra i 16 e i 65 anni. Una cifra impressionante - che ci colloca agli ultimi posti, insieme alla Spagna, nelle statistiche OCSE - composta da dati articolati in altre cifre edificanti: il 6% di analfabeti primari; il 22 % di analfabeti di ritorno (quelli che perdono negli anni le poche competenze apprese a scuola); il 42% di analfabeti funzionali, di coloro, cioè che pur essendo in grado di leggere un testo non riescono a padroneggiarne il significato.

Un quadro allarmante che avrebbe dovuto essere posto al centro della riflessione delle classi dirigenti italiane, quale fuoco strategico decisivo su cui intervenire per invertire il corso accelerato del declino nazionale. E che invece non trova attenzione se non per qualche giorno sui nostri media, figuriamoci nell'agenda politica di governo. Tocci racconta che nel 2014, quando i giornali pubblicarono i risultati dell'indagine Piaac-Ocse, di fronte all'enormità dei dati, il governo Letta decise di nominare una commissione, presieduta da Tullio De Mauro, per studiare i rimedi. Giusto un gesto di buona volontà. Inutile rammentare che il governo Renzi, l'ha messa da parte, realizzando il progetto risolutivo a tutti noto come “Buona scuola”: sigillo definitivo di questo esecutivo sulla propria radicale inadeguatezza ad affrontare i problemi fondamentali del Paese.

Significativamente poche voci critiche si son levate dal mondo imprenditoriale e professionale, dal giornalismo, dai gruppi intellettuali, e non per caso. I livelli di istruzione delle nostre classi dirigenti sono fra i più bassi d'Europa: il 31% di laureati contro la maggioranza assoluta in Germania, Regno Unito e Francia, accompagnati da un sontuoso 26% di individui col solo titolo elementare. A fronte di dati a una sola cifra negli altri paesi.

Tali numeri sono decisivi per comprendere come si configura il sistema-Italia e il carattere perverso del suo avvitarsi verso il basso. Tocci lo mostra con nitore espositivo e argomentazioni inoppugnabili. Una classe imprenditoriale fra le più incolte del Continente investe in ricerca meno di quanto faccia lo stato - caso unico in Europa - che già di suo investe meno di tutti gli altri. Il sistema produttivo avanza una domanda modesta di innovazione tecnologica e si accontenta di una percentuale annuale di laureati che è la metà di quella europea. Sicché non stupisce come nel nostro Paese sia stato politicamente così agevole, ai vari governi, praticare i tagli lineari alla scuola e all'Università degli ultimi anni. Così come non stupisce lo spreco delle competenze e dei saperi dei nostri laureati e ricercatori, della nostra gioventù studiosa di cui l'intero sistema paese, fondato sullo sfruttamento intensivo della forza lavoro, non sa che fare. Come non vedere allora che scuola e Università sono le leve strategiche per invertire la china e che solo un grande progetto politico può metterle in moto?

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