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Al fine di favorire il trasferimento da Londra a Milano dell'Autorità Bancaria Europea (EBA) Ferruccio De Bortoli (Corriere della Sera del 25/7) ha individuato un obiettivo che fa al caso dell'Italia: abolire o per lo meno sospendere «l'inutile e dannosa» Tobin tax, la tassa sulle transizioni finanziarie. L'iniziativa costituirebbe un segnale «molto apprezzato dagli operatori finanziari e dai mercati». E su tale esito non abbiamo dubbi, come non abbiamo dubbi sul fatto che l'ex direttore di uno dei maggiori quotidiani italiani abbia tra i suoi compiti quello di perorare una politica apprezzata dagli operatori finanziari e dai mercati. Qualche dubbio nutriamo invece sulla logica argomentativa con la quale De Bortoli sostiene la necessità di abolire la Tobin Tax.

Questo «nuovo balzello europeo» - così lo chiama - tradendo una identificazione personale con la grande finanza che dovrebbe suonare imbarazzante per un giornalista del suo rango. Pesa così tanto questa tassa dello 0,2 -04 % a banchieri e speculatori? Egli liquida con sufficienza il fatto che la Tobin tax rappresenti un tentativo - peraltro alquanto mite - di contenere la speculazione finanziaria e neppure considera la sua potenzialità nell'attenuare, per quanto blandamente, le disugualianze crescenti che lacerano le società contemporanee.

Di fronte alle indubbie difficoltà di applicazione che la Tobin tax incontra in Europa - dovute soprattutto al sabotaggio dei governi e del ceto politico, nonché alla cattiva stampa di cui De Bortoli ci fornisce un saggio - si potrebbe avere certamente ben altro atteggiamento. Ad es. si potrebbe insistere sulla necessità di una sua equa applicazione universale per mettere tutti gli stati alla pari e garantire così un sicuro flusso di risorse nelle casse pubbliche. Rappresenterebbe, per lo meno, una linea di tendenza favorevole a un minimo di regolamentazione dei mercati finanziari che l'attuale disordine dell'economia mondiale reclama da tempo.

Ma il giornalista del Corriere guarda ai fatti correnti, alle forze e alle tendenze dominanti e ne invoca l'ossequio. La sua preoccupazione è il carattere controproducente della tassazione, che allontana capitali e investimenti dal nostro paese. E l'Italia non se lo può permettere, perché deve crescere, deve, come dicono tutti, tornare a correre. Tanto più che - ci avverte ancora De Bortoli - dopo la Brexit, «studia di trasformarsi in una sorta di paradiso fiscale», con l'intenzione di abbassare la tassa alle imprese, portandola dall'attuale 20 al 15%. Come dunque non essere “realisti” e ingaggiare una gara, almeno in Europa, a chi è capace di attrarre meglio capitali e investimenti al proprio interno?
E allora seguendo la logica del ragionamento di De Bortoli - che costituisce un leitmotiv di tipo neocoloniale dell'armamentario neoliberista - noi potremmo suggerirgli provvedimenti che potrebbero rispondere al suo fine più efficacemente dell'abolizione del Tobin tax. Ad esempio, tra le cose che funzionano male in Italia e che sicuramente scoraggiano gli investimenti ci sono le ispezioni sul lavoro. Quanti incidenti e quanti morti nonostante le leggi e le regole esistenti? Non funzionano. Tanto vale abolirle o quanto meno renderle più elastiche. Almeno avremmo il risultato di meno timorosi investimenti. E che dire dei piani regolatori delle nostre città, laddove ancora esistono, e dei loro lacci e laccioli burocratici, che neppure riescono a impedire l'abusivismo? Un più ampia deregolamentazione (di quella che già c'é) favorirebbe certamente la ripresa nel settore dell'edilizia, che oggi è così languente.
Potremmo continuare con la lotta alla criminalità organizzata, che di sicuro ostacola la libera circolazione del danaro, e altro ancora. Naturalmente non saremo così ingenui da accennare alla liquidazione dei contratti collettivi di lavoro - altro formidabile ostacolo per chi vuole investire nel nostro paese - perché ci sta pensando da tempo la Confindustria. E naturalmente arrossiamo all'idea banale di rammentare la strada maestra della precarizzazione del lavoro. E' stata battuta da tempo, com'è noto e con perseveranza. In Italia ormai si compra una persona per delle ore con un voucher. Come si fitta una bicicletta. Con i risultati strabilianti nel volume degli investimenti e nel tasso di occupazione che tutti conosciamo.

Per la verità, le ovvietà neoliberistiche di De Bortoli - che tuttavia colpiscono per la loro ostinazione di fronte alla vastità dei fallimenti reali - non avrebbero attratto le nostre altrettanto ovvie critiche se non fosse stato per una ragione più precisa. Come tutti i giornali italiani, domenica le pagine del Corriere erano fitte di articoli sui fatti tragici di Monaco e sull'ennesima strage a Kabul. Pagine di dolore e di costernazione. Ebbene, strideva in maniera insopportabile, come un dato tragico della cultura del nostro tempo, la distanza abissale tra le immagini e i racconti di quegli eccidi e l'editoriale che apriva il quotidiano. L'articolo di De Bortoli appariva come il distillato di una rimozione che costituisce un dato non più tollerabile dell'analisi sociale contemporanea.

Quello di rappresentare i fatti dell'economia come un mondo a sé, dinamiche che si esauriscono in una sfera separata dal resto della realtà. Come se l' esaltazione della libera circolazione dei capitali, la critica dei vincoli e dei limiti imposti dal potere pubblico, l'indifferenza verso la povertà e le disuguaglianze, non avessero riflessi sulla società, la politica, la cultura, l'immaginario collettivo, i comportanti quotidiani. Come se l'esaltazione continua e insensata della crescita, della replicazione dei rapporti dominanti, senza prospettive di mutamento, non nutrisse il nichilismo quotidiano che invade le nostre vite. Come se non ci fosse alcun legame tra l'implicita apologia del modello di società presente, con tutti i suoi carichi di assurdità e ingiustizie, di barbarie montante, e l'insensatezza dei massacri che ormai ogni giorno vogliono sfidarla. Non si può più, l'economia, questa economia, è ormai conclamata violenza.

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Un’idea obsoleta di sviluppo, una straordinaria insipienza tecnica, un confuso balbettìo politico, dove la posta in gioco non riguarda Firenze, ma la carriera dei protagonisti e i favori alle lobby. Tutto ciò avviene sotto il cielo fiorentino, dove sono in corso operazioni collegate tra loro, ma portate avanti nel massimo disordine. Le principali sono: il nuovo aeroporto fortissimamente voluto da Renzi, ENAC, Toscana Aeroporti e Confindustria; il nuovo inceneritore a Case Passerini (poco distante dall’aeroporto), anch’esso nella piana fiorentina, fortemente voluto dal PD, da Quadrifoglio (società partecipata dagli enti locali), dal suo partner privato Hera e da Confindustria. E ancora: il passaggio della TAV nel sottosuolo di Firenze, con annessa stazione sotterranea (su progetto di Norman Foster): una volta diktat del PD che ora viene messo in dubbio da Nardella e dalle Ferrovie Italiane, ma è ancora sostenuto da Confindustria e (per ripicca?) da Rossi; la linea 2 della tranvia in costruzione e la linea 3 su cui si ipotizzano soluzioni fantasiose; il nuovo stadio, con annesso mega outlet, fortemente voluto dai Della Valle. E, per quanto riguarda Firenze una pletora di nuovi parcheggi (44 tra pertinenziali e non pertinenziali per complessivi 7000 posti macchina). Parcheggi, i più importanti, messi al servizio di investitori privati che comprano o sonno invitati a comprare immobili pubblici e privati, con variante incorporata e con prospettive lungimiranti quali alberghi di lusso, appartamenti di lusso, shopping di lusso.

Tutte queste operazioni hanno alcune caratteristiche in comune: i) sono strettamente collegate l’una con le altre, ma progettate in modo autonomo e con tempi diversi; ii) sono promosse con progetti sbagliati, obsoleti, spesso non rispondenti a quanto prescritto dalla legge, ma con il tratto comune di privilegiare la soluzione più costosa e meno efficiente; iii) sono bloccate o procedono con lentezza, non per le opposizioni di comitati e cittadini (impotenti e tuttavia vituperati dal PD), ma per gli errori progettuali, la mancanza di pianificazione, la diffusa corruzione che le accompagna. Il tutto con uno spreco colossale di denaro pubblico di cui nessuno risponde in un mondo di irresponsabilità politica.

Il caso della Tav fiorentina è esemplare e vale come paradigma di tutto il resto. Progettata alla fine degli anni ’90, con una VIA approvata le cui numerose prescrizioni sono state rimandate al progetto esecutivo; bloccata per due decenni dalla mancata soluzione dello smaltimento delle terre di scavo, con una trentina di politici e tecnici rinviati a giudizio (tra cui Maria Rita Lorenzetti, ex Presidente della Regione Umbria); definita criminogena da Raffaele Cantone in un’audizione al Consiglio regionale (senza che alcun consigliere del PD battesse ciglio); con la stazione sotterranea – che doveva contenere 5 piani di esercizi commerciali - su cui non è stata effettuata la VIA, ma in compenso si è già scavato un buco che con altre opere secondarie è costato 760 milioni (contro i 270 previsti).

Quando finalmente le Ferrovie italiane sembrano ripensarci a favore della soluzione di superficie, da un decennio sostenuta da comitati e Università di Firenze, si scatena un dibattito: non tecnico ma politico: Nardella è a favore del ripensamento voluto da Renzi, suscitando le reazioni risentite di Riccardo Nencini e Enrico Giani, inaffondabili della politica, e di Rossi anch’esso fautore, finora, del tubone sotto la città. I contendenti si vedono a Roma e ne esce un sottoattraversamento dimezzato. Col nuovo tracciato, la stazione Foster non serve più, anche perché qualcuno, dopo decenni, si è accorto che i viaggiatori vogliono arrivare a Santa. Maria Novella, ma che nel frattempo è saltato il collegamento tra le due stazioni inizialmente previsto. A questo punto, entra in crisi per mancanza di utenti la linea 2, pensata per servire oltre l’aeroporto, la stazione alta velocità. Qualcuno riesuma la vecchia ipotesi di Campo di Marte, nel settore est della città, qualcun altro ripropone la lontana e periferica stazione di Castello. Come al solito, chi parlano sono politici senza alcuna cognizione e competenza tecnica. L’argomento più forte è che dopo un ventennio si deve andare avanti, costi quel che costi (e più costa, meglio è). Qualcun altro, inevitabilmente tira in ballo i posti lavoro che andrebbero persi con soluzioni meno impattanti, una sciocchezza buona a tutti gli usi che vede uniti industriali e sindacati.

I protagonisti di tutto questo caotico vociferare non si rendono conto che le opere più impattanti, aeroporto, linea 2, e stadio-outlet vanno tutte a posizionarsi sui confini ovest della città e gravano sul già congestionato nodo di Peretola, dove si dovrebbe realizzare la terza corsia autostradale (sopraelevata per consentirne il sottoattraversamento del nuovo Fosso Reale, a sua volta condizione necessaria per la realizzazione del nuovo aeroporto, onere che Autostrade Italia rifiuta di accollarsi). Una situazione insostenibile, la cui insostenibilità viene mascherata da valutazioni dei singoli progetti e non complessiva. Senza peraltro un piano finanziario, senza risorse assegnate, i privati spingendo per gli aiuti pubblici anche se non consentiti.

Questo è il desolante quadro politico, in cui i protagonisti, oltre a essere uniti nell’insipienza specifica, lo sono anche dall’ignoranza totale di come sta cambiando il mondo. Le città del nord Europa, Rotterdam e Copenaghen in testa, si stanno attrezzando e stanno realizzando importanti progetti per affrontare il cambiamento climatico. Le parole d’ordine sono “rinaturalizzazione” e l’allontanamento del le automobili dalle città. Tutti i progetti fiorentini vanno in direzione opposta, verso un aumento dell’artificialità e quindi della fragilità dei sistemi ambientali. Con le automobili portate fin dentro al centro storico. Un futuro pensato per il turismo, quello ricco negli alberghi e residenze di lusso, quello povero a trascinarsi in uno spazio pubblico ormai ridotto a suk. La ciliegina sarebbe Mac Donald in Piazza del Duomo a sfruttare l’immagine della cupola del Brunelleschi. Operazione contrattata sottobanco dall’amministrazione fiorentina che ora apparentemente fa retromarcia sotto la protesta popolare. Mac Donald: simbolo di qualità e novità. Come la politica fiorentina.

(continua la lettura)

che permettono il ricambio della vegetazione e ristabiliscono equilibri ecologici. Nel corso dei secoli gli esseri umani, col fuoco o con le asce, hanno distrutto le grandi foreste che coprivano l’Europa per trarne terreni da coltivare e legname da costruzione o da usare come combustibile. Nel Medioevo si poteva andare dalla Sicilia a Parigi senza uscire dai boschi e oggi si può fare lo stesso percorso senza entrare mai in un bosco; ottocento anni fa Federico Secondo poteva andare a caccia nei boschi pugliesi oggi scomparsi.

La distruzione dei boschi si è fatta sempre più rapida a mano a mano che è cresciuto il bisogno di terreni coltivabili e di spazi edificabili, a spese della vegetazione spontanea.

Nel nostro paese si sono moltiplicati gli incendi di alberi e di macchia mediterranea a causa di imprudenza ma più spesso intenzionalmente per sgombrare i terreni dalla vegetazione che intralciava progetti di costruzioni e di speculazione edilizia.

Dopo lunghi dibattiti e allarmi delle associazioni ambientaliste, finalmente il 21 novembre 2000 è stata emanata la legge n. 353 sugli incendi boschivi. La legge comincia a definire un incendio boschivo come “un fuoco con suscettività a espandersi su aree boscate, cespugliate o arborate, comprese eventuali strutture e infrastrutture antropizzate poste all'interno delle predette”, e prosegue che si propone di difendere dagli incendi il “patrimonio boschivo nazionale quale bene insostituibile per la qualità della vita”.

E, tanto per scoraggiare chi spera di distruggere boschi o vegetazione per costruirci edifici o altre opere di interesse economico, la legge precisa che “le zone boscate ed i pascoli i cui soprassuoli siano stati percorsi dal fuoco non possono avere una destinazione diversa da quella preesistente all’incendio per almeno quindici anni”. Nel corso degli ultimi venticinque anni la situazione è peggiorata: in tutto il mondo e ogni anno gli incendi stanno distruggendo sempre più estese superfici di boschi e di vegetazione.

Le foreste, dal punto di vista economico e finanziario, sono inutili; servono “soltanto” ad assicurare “la vita” delle attuale e delle future generazioni. Attraverso le loro foglie le piante assorbono l’anidride carbonica dall’atmosfera e la trasformano in biomassa, l’insieme di sostanze chimiche organiche che si formano liberando ossigeno nell’atmosfera; i boschi regolano la diffusione e la distribuzione delle acque superficiali e sotterranee, ospitano innumerevoli esseri viventi vegetali e animali, molti dei quali importanti per l’alimentazione delle popolazioni locali. Alla fine del ciclo vitale degli alberi e delle piante le spoglie cadono al suolo, vengono decomposte da microrganismi e le loro sostanze organiche si trasformano nell’humus, la complessa materia che assicura la continuazione dei cicli ecologici.

“Purtroppo” molte foreste nascondono nel loro sottosuolo preziose risorse di interesse economico, dai minerali alle fonti di energia, intralciano l’avanzata di strade e dighe per centrali idroelettriche. Già nel corso del Novecento è cominciato l’assalto a tali risorse e a nuovi spazi coltivabili e gli incendi sono stati i mezzi più rapidi e meno costosi per sgombrare la superficie dalla “inutile” copertura vegetale.

Nell’Amazonia con gli incendi vengono conquistati spazi da coltivare a cereali e canna da zucchero, anche se la superficie “liberata” rimane esposta alle piogge che dilavano lo strato fertile e rendono, col tempo, le nuove terre inadatte alla coltivazione.

Nelle foreste indonesiane gli incendi sono provocati per liberare terreni da coltivare a palma il cui olio è una merce ricercata per trarne biodiesel, il surrogato del carburante diesel ricavato dal petrolio, e come ingrediente alimentare largamente consumato in Europa nei dolciumi e merendine.

Gli incendi delle foreste fanno aumentare la concentrazione nell’atmosfera dell’anidride carbonica, il principale “gas serra” responsabile del crescente riscaldamento del pianeta; nello stesso tempo proprio il riscaldamento planetario dovuto all’effetto serra altera il ciclo delle acque, fa aumentare la siccità e rende più fragile, rispetto al fuoco, la vegetazione dei boschi. Così l’effetto serra fa aumentare il numero e la durata degli incendi che devastano in numero crescente l’Italia, l’Europa, e tutti i continenti, incendi che fanno notizia soltanto se arrivano a lambire i lussuosi quartieri residenziali della California.

La tecnologia offre strumenti per combattere gli incendi, per esempio spargendo dall’alto sulla superficie a fuoco agenti chimici che fermano in parte la diffusione delle fiamme, ma è una corsa fra i rimedi umani e le cause umane che provocano tali incendi.

Siamo di fronte ad un’altra drammatica conferma di quanto si osserva a proposito della fusione dei ghiacci e dell’innalzamento del livello dei mari, provocati dal riscaldamento globale e a loro volta causa di tale riscaldamento.

Anche qui gli incendi e la distruzione dei boschi sono facilitati dal riscaldamento planetario e contribuiscono al suo aumento, un fenomeno su cui si sta giocando il futuro dell’intera umanità. Molti hanno riso quando il matematico Edward Lorenz (1917-2008) ha scritto, nel 1963, che il battito dell’ala di una farfalla può provocare una tempesta a migliaia di chilometri di distanza. Ma oggi sappiamo che c’è un rapporto diretto fra l’olio di palma, contenuto nelle merendine acquistate a Milano (tanto per citare un nome), e le piogge che allagano periodicamente tale grande città.

L'articolo è inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno

Due metri”, questo lo strano titolo di un recente articolo che parla del possibile innalzamento, di due metri, appunto, del livello dei mari in seguito al riscaldamento dell’intero pianeta ...(segue)

Due metri”, questo lo strano titolo di un recente articolo che parla del possibile innalzamento, di due metri, appunto, del livello dei mari in seguito al riscaldamento dell’intero pianeta Terra. Il dibattito sul riscaldamento globale interessa tanti soggetti: gli scienziati che misurano le variazioni del clima e soprattutto la temperatura in varie parti della Terra nelle varie stagioni; gli ecologi che studiano l’effetto delle variazioni della temperatura sui cicli vitali delle piante e degli animali; i chimici che studiano la natura dei gas (li chiamano gas “serra”) che vengono immessi nell’atmosfera e che influenzano, proprio come avviene nelle serre, il flusso di energia solare che arriva e che esce dalla Terra; i merceologi che studiano da quali fonti (industrie, agricoltura, trasporti, abitazioni) vengono l’anidride carbonica, il metano, gli ossidi di azoto, eccetera, che si comportano come gas serra; gli economisti che calcolano gli eventuali costi e benefici, in soldi, del riscaldamento globale; i governanti che si trascinano da una conferenza internazionale all’altra per cercare di capire quali leggi proporre nei loro paesi per attenuare i danni (allagamenti, siccità, eccetera) provocati da un clima sempre meno prevedibile e sempre più irregolare; le compagnie di assicurazioni che offrono assicurazioni contro i danni delle bizzarrie climatiche. Ci sono poi studiosi e opinionisti che scrivono libri e tengono conferenze per dimostrare che non è vero niente, che il riscaldamento globale non esiste e che se esiste non è dovuto alle attività umane e che non è proprio necessario diminuire il consumo di petrolio o carbone e che comunque si possono inventare altre tecnologie che non alterano il clima presente e futuro.

Sta di fatto che molti segni indicano chiaramente che esistono alterazioni dei cicli biogeochimici del pianeta interpretabili soltanto con un aumento della temperatura ”media” della Terra; è importante sottolineare che si parla non della temperatura di ieri o di quest’estate a Bari o a Stoccolma, ma della temperatura del pianeta nel suo insieme, un valore che, da millenni, oscilla intorno a circa 15 gradi Celsius. Nel corso della lunga storia della Terra, molti milioni di secoli, tale temperatura è diminuita di qualche grado, nei periodi glaciali, o aumentata un poco, sempre a causa delle alterazioni della composizione chimica dell’atmosfera. Lo si vede dallo studio dei depositi marini e dei fossili terrestri. Cambiamenti però lentissimi, che si manifestavano nel corso di millenni. Oggi siamo preoccupati perché simili mutamenti, verso il caldo, si stanno verificando in tempi brevi, nel corso di decenni; un aumento di velocità dovuto al rapido sviluppo delle industrie, al crescente consumo di fonti di energia, ai mutamenti delle coltivazioni agricole.

Una delle più vistose conseguenze del riscaldamento del pianeta è rappresentato dalla fusione di parte dei ghiacciai, quei giganteschi depositi di acqua solida, 30 milioni di chilometri cubi, immobilizzata nelle zone polari e nelle alte montagne; con la fusione l’acqua passa dallo stato solido allo stato liquido e scorre attraverso le valli e le pianure e torna al mare il cui volume aumenta e di conseguenza aumenta anche il livello dei mari e degli oceani; gli studiosi tengono sotto controllo (oggi si può farlo con i satelliti artificiali) la superficie e il volume dei ghiacci e ne stanno osservando, da alcuni decenni, la lenta graduale diminuzione. Non è facile misurare esattamente il livello dei mari, ma le misure fatte in molte parti del pianeta e con diversi strumenti indicano un aumento del livello dei mari intorno a due o tre millimetri all’anno, quasi impercettibile, ma continuo. Il fenomeno sta già preoccupando le isole che vedono lentamente sommergere le loro spiagge; per le isole turistiche questo significa la perdita di clienti che spesso sono l’unica fonte di reddito; le isole costituite da atolli, con una altezza massima sul mare di pochi metri, rischiano di perdere una parte della loro intera superficie.

Che cosa succederebbe se un giorno il livello dei mari aumentasse davvero di due metri ? Questo, per ora improbabile scenario, è stato studiato nell’articolo di cui parlavo all’inizio. Molte strade di Bari, Napoli, Genova, Ravenna, New York, e di tante altre città costiere sarebbero invase dall’acqua del mare; l’acqua marina salina andrebbe a miscelarsi con le acque dolci sotterranee che non sarebbero più adatte per l’irrigazione. Ma anche il sollevamento del livello del mare di poche decine di centimetri provocherebbe danni economici elevatissimi, evitabili soltanto con drastici e costosissimi provvedimenti di difesa a cui oggi nessuno pensa perché il fenomeno procede inesorabile, ma lentissimo. Nessun governo si preoccupa di quello che potrebbe succedere dopo i cinque anni in cui è in carica, sapendo che in tale periodo l’aumento del livello del mare sarebbe di “appena” uno o due centimetri.

Considerare, “oggi”, quello che potrebbe succedere se il livello dei mari aumentasse, non dico di “due metri”, ma anche soltanto di mezzo metro, è un invito a guardare “lontano”, a un pianeta in cui vivranno i nostri nipoti e pronipoti i quali potrebbero rimproverarci per non aver preso in tempo provvedimenti per evitare eventi di cui abbiamo già i segni. Albert Schweitzer, premio Nobel per la pace, scrisse che “l’uomo ha perso la capacità di prevedere e prevenire; finirà per perdere la Terra”, la sua unica casa nello spazio. Se cominciassimo già adesso a pensare al futuro?

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, ma soprattutto nelle grandi città... (segue)

E' stato uno dei temi più dibattuti dai commentatori che hanno preso in esame l'andamento territoriale dei flussi elettorali delle ultime amministrative: un po' ovunque, ma soprattutto nelle grandi città, il PD rastrella consensi nei centri storici e soprattutto nei quartieri bene. Perde vistosamente nelle periferie, che diventano il serbatoio del voto di protesta, della destra e dell'astensionismo. Il fenomeno è apparso clamoroso in alcune grandi città come Roma o come Torino, a cui ha dedicato una efficace disamina Marco Revelli (il manifesto, 29/6/16). Sotto il profilo politico questa sorta di inversione storica della tradizionale geografia elettorale italiana non è una grande novità. E' solo la continuazione di un processo in atto da tempo e il segnale di un definitivo disancoraggio di classe della formazione che aveva rappresentato la sinistra nel nostro paese. Il PD di Renzi ha concluso una parabola che discendeva ormai a velocità crescente.

Ma richiamo questi temi, non per l'ennesima recriminazione contro il PD, quanto per il fatto che essi invitano a ragionare, più che delle forze politiche e delle dinamiche elettorali, delle città, delle strutture urbane. Che cosa sono diventati i nostri centri storici, che cosa le periferie? Un rapido sguardo ad alcune loro trasformazioni è non solo utile per spiegare i fenomeni politici presenti, ma soprattutto per intravedere possibili linee alternative. Ci sono pochi dubbi: il fenomeno sociale più rilevante che ha investito le nostre città dalla metà del secolo scorso, è stata la cacciata dei ceti popolari dai centri storici. Nel 1991 Pier Luigi Cervellati – il “restauratore” del nucleo storico di Bologna – osservava che tra il censimento del 1951 e quello del 1971 gli abitanti dei centri storici si erano dimezzati. (La città bella, il Mulino ). Un fenomeno che è continuato nel tempo: «Le undici più grandi città italiane - ha ricordato Paolo Berdini - hanno perduto circa 700 000 abitanti nel decennio compreso tra i censimenti del 1991 e del 2001». (La città in vendita, Donzelli, 2008).

Chi abbandona i vecchi nuclei? E' fenomeno noto: sono le famiglie operaie e artigiane, strati di ceto medio basso, cacciati dal lievitare della rendita fondiaria. Chiudono le botteghe di idraulici, restauratori, falegnami, tappezzieri, i piccoli negozi di generi alimentari, le librerie, i cinema di quartiere, ecc. e arrivano i negozi di lusso o di cianfrusaglie per turisti, le pizzerie, le banche, le assicurazioni, le agenzie immobiliari. E' stato un processo molecolare, una sotterranea lotta di classe con cui i detentori della rendita fondiaria hanno cacciato il popolo della città costringendolo a trasferirsi nella periferia, l'«aggregato informe», come lo chiama Cervellati, dove altra rendita è stata valorizzata sotto forma di palazzine e quartieri-dormitorio.

Sotto il profilo sociale e politico tale destrutturazione demografica non ha prodotto grandi scosse fino ad epoca recente. Nelle periferie i vecchi cittadini e i nuovi abitanti hanno trovato spesso standard più moderni di servizi abitativi e potuto compensare i disagi di più lunghi spostamenti grazie a nuovi redditi da lavoro e alle strutture locali, per quanto insufficienti, del welfare. Ma negli ultimi 15 anni le cose sono precipitate. La crescente disoccupazione si è combinata, all'indomani della crisi del 2008, con la politica dettata da Bruxelles, che ha di fatto impedito ai comuni di far fronte ai crescenti bisogni di servizi dei cittadini: dai trasporti agli asili nido, dai rifiuti alla manutenzione del verde pubblico. Alla marginalità territoriale si è aggiunta la disperazione sociale. In alcune realtà urbane come quella di Roma la degradazione della vita civile è ormai un motivo di scandalo e di vergogna a scala europea. Ma come si risponde a tali problemi senza scorgere, nella prospettiva storica, la filigrana classista delle trasformazioni avvenute, senza tener conto del potere fondiario-finanziario che decide il destino delle nostre città? Davvero possiamo affrontare i loro problemi invocando la copertura delle buche, il rafforzamento del trasporto pubblico, la possibilità di ospitare le Olimpiadi, le fumisterie tecnologiche delle smart cities?

C'è una città in Italia, che ci racconta quel che avverrà a tanti nostri centri senza adeguate contromisure, ma che ci suggerisce anche che cosa può essere oggi una politica urbana di sinistra. Questa città è Venezia, diventata ormai una sorta di Disneyland. Come ricorda Franco Mancuso (Venezia è una città, Corte del Fontego, 2016) il centro lagunare si è ridotto a soli 56 mila abitanti, dopo essere stata per secoli una delle più popolose città d'Italia. Eppure Venezia attrae ogni giorno per studio e lavoro circa 50 mila persone, più di quanto non non faccia il Petrolchinico di Marghera. Persone che son costrette a vivere nell'entroterra di Mestre per l'elevato costo delle case e per la morte della città come comunità civile: mancanza di artigiani, di botteghe per i consumi quotidiani, di servizi adeguati, di relazioni stabili e normali tra gli abitanti. Eppure tante coppie di giovani amerebbero risiedere in città se i costi non fossero per loro proibitivi, potrebbero farla rivivere di vita vera e non del frettoloso consumismo del turismo di massa.

Ma la rendita distorce perfino le regole classiste del mercato. A Venezia esistono migliaia di abitazioni appartenenti a turisti stranieri che li abitano qualche mese all'anno e che rendono di fatto deserti interi quartieri della città. Case che potrebbero essere abitate da cittadini veneziani e che svolgono il doppio nefasto ufficio di rendere spopolata una parte del centro e di tenere elevati i valori immobiliari. Ebbene, le amministrazioni comunali hanno sino ad ora alzato bandiera bianca di fronte a tale tendenza che fa morire Venezia, prima che le acque dell'Adriatico la sommergano. Ma è proprio qui il luogo in cui ripensare il ruolo del potere municipale e la sua capacità di indirizzo strategico: quel ruolo che per la prima volta è stato creato in Italia dai comuni medievali. Un comune di sinistra non può limitarsi ad amministrare, perché gli attori che si muovono sulla scena urbana non sono alla pari, semplici cittadini e proprietari di case e terreni. I ricchi proprietari di abitazioni e palazzi signorili infliggono un danno crescente alla città e ai cittadini e devono per tale ragione essere assoggettati a una severa fiscalità, che fornisca al comune le risorse per facilitare l'accesso a chi vuole abitare, per approntare una politica di agevolazioni agli artigiani, ai muratori, a tutti i ceti produttori di beni e di servizi.
Se noi consideriamo le città come ecosistemi l'intera visione politica cambia. Prendiamo il caso anch'esso esemplare di Roma. Qui i centri commerciali sorti negli ultimi anni producono danni generali rilevantissimi. Essi non solo fanno morire il piccolo commercio e desertificano i quartieri, ma hanno un impatto ambientale del tutto trascurato. I loro edifici hanno cementificato aree verdi, distrutto ettari di terra fertile, oggi impediscono l'assorbimento di acqua piovana favorendo gli allagamenti nei giorni di piogge intense. Al tempo stesso cemento e asfalto impediscono l'assorbimento di carbonio, favorendo la diffusione nell'aria di CO2, col doppio risultato di accrescere l'inquinamento e favorire l'innalzamento delle temperature. Ma queste cittadelle del consumo richiamano traffico, devono essere costantemente rifornite di merci da pesanti mezzi di trasporto che attraversano la città gravandola di altro smog e usura delle strade e degli spazi. Producono, inoltre, masse rilevanti di rifiuti. Se l'ecosistema città è un bene comune, allora a questi nuovi avamposti del capitale multinazionale va applicata una pressione fiscale supplementare, che ripaghi i danni, offrendo alle casse municipali le risorse per favorire i ceti produttivi, accrescere il welfare, sostenere le fasce più deboli della popolazione. Una politica di uguaglianza sociale giova alla vita della città. La sinistra ritrova la sua bussola, con una politica popolare e di classe che metta al centro il bene comune dell'ambiente.

Questo articolo è inviato contemporaneamente al manifesto

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L’organizzazione non governativa Oxfam è nata 64 anni fa ad Oxford come “Comitato per alleviare la fame nel mondo” e oggi è una federazione internazionale di 12 sezioni che operano in 75 paesi; esiste anche una sezione Oxfam Italia. Oxfam, proprio nei giorni scorsi, ha pubblicato un documento (consultabile gratuitamente in Internet) che getta nuova luce sui rapporti fra produzione agricola e alimentare e alterazioni ambientali, soprattutto modificazioni del clima dovute alle immissioni nell’atmosfera dei “gas serra”.
I due principali responsabili del lento inarrestabile riscaldamento del nostro pianeta, sono l’anidride carbonica (CO2) e il metano; quando si nominano questi gas il pensiero corre subito ai fumi delle centrali termoelettriche che bruciano combustibili fossili (la sola centrale di Cerano, vicino Brindisi, immette nell’atmosfera circa 15 milioni di tonnellate all’anno di CO2), alle caldaie delle case, ai gas di scappamento degli autoveicoli, agli sfiati nell’atmosfera dei pozzi metaniferi.

In realtà al riscaldamento globale contribuisce per circa un quarto del totale anche la produzione di cibo, quella complessa catena di rapporti che va dai campi coltivati, alle stalle, fino ai negozi e alla nostra tavola.

Apparentemente la produzione alimentare dovrebbe essere “neutrale”, dal punto di vista del bilancio planetario della CO2, perché “porta via” dall’atmosfera la CO2 che utilizza, insieme all’acqua e grazie all’energia solare, per formare i vegetali per fotosintesi; la stessa CO2 ritorna nell’atmosfera in seguito al metabolismo degli animali e degli esseri umani.

In realtà non è affatto così; intanto la natura “fabbrica”, con la fotosintesi, i vegetali senza occuparsi di quello che è utile per i nostri commerci; della biomassa vegetale esistente nei campi soltanto una parte, spesso meno del 40 percento, diventa cibo. Nelle piante di mais, i semi da cui trarre la farina e l’olio sono soltanto circa il 30 percento; delle olive l’olio rappresenta soltanto meno del venti per cento. La biomassa restante, che ammonta ad alcuni miliardi di tonnellate all’anno nel mondo, trova in parte impiego nell’alimentazione del bestiame e in parte viene restituita al terreno dove si decompone liberando CO2, ma anche altri gas serra. Inoltre la lavorazione dei campi comporta una modificazione della struttura del suolo che contribuisce anch’essa al peggioramento del clima.

Ma soprattutto le operazioni agricole richiedono l’impiego di macchinari che usano carburanti che emettono CO2 nell’aria; inoltre le elevate rese dei raccolti sono possibili con l’impiego di crescenti quantità di concimi contenenti azoto, fosforo, potassio, per la cui fabbricazione vengono impiegati combustibili fossili che emettono anche loro CO2 nell’atmosfera. Non solo: i concimi azotati svolgono la loro funzione di nutrizione delle piante attraverso complesse reazioni microbiologiche e chimiche, durante le quali si liberano ossidi di azoto, altri gas che contribuiscono, con la CO2 e il metano, al riscaldamento del pianeta. In una spirale: più rese agricole, più meccanizzazione, più concimi, peggioramento del clima.

Lo studio di Oxfam ha mostrato che i cinque principali raccolti --- riso, mais, soia, palma, grano --- contribuiscono ad immettere ogni anno nell’atmosfera circa quattro miliardi di tonnellate di gas serra, il 10 percento del totale mondiale. Alcune piante, come il riso, producono metano proprio nei processi di coltivazione.

Ma il cammino dai campi alla tavola è ancora molto lungo. Circa un terzo delle sostanze nutritive dei raccolti agricoli viene impiegato per l’alimentazione del bestiame. La vita degli animali da allevamento restituisce in parte la CO2 all’atmosfera, ma la “fabbricazione” di carne, di latte, di uova è accompagnata anche dalla liberazione di altri gas serra che vanno dal metano dei bovini a quello che si forma nella decomposizione microbiologica degli escrementi animali.

Molti prodotti agricoli vengono trasportati a grandi distanze. L’olio di palma, prima di arrivare nei dolciumi, percorre ottomila chilometri via mare. L’Italia importa mais dall’America, grano dal Canada, latte dalla Germania, zucchero dalla Francia, viaggi che richiedono combustibili e immissioni di altra CO2 nell’atmosfera.

I prodotti agricoli a questo punto entrano in processi industriali nei quali vengono macinati, miscelati, sottoposti a processi di conservazione, inscatolati e infine trasportati dalle industrie ai negozi e da questi a casa nostra e ai trattamenti di cucina, tutte operazioni accompagnate da emissioni di gas serra.

L’agricoltura è, quindi, fonte di alterazioni climatiche, ma è anche prima vittima delle stesse: l’aumento della siccità e le piogge eccessive che allagano i campi distruggono i raccolti; l’agricoltura intensiva impoverisce la fertilità dei suoli.

L’analisi dell’Oxfam mostra che le alterazioni climatiche, derivanti dalla produzione di cibi più raffinati e abbondanti per una minoranza della popolazione mondiale, rendono più scarsi e costosi gli alimenti disponibili nei paesi più poveri. Molti di questi sono costretti a cedere le proprie terre alle grandi società che praticano quelle coltivazioni intensive e distruttive che consentono di fornire a basso prezzo le materie prime per gli sprechi dei ricchi.

Sono denunce fatte anche molte volte e in varie sedi internazionali dal papa Francesco. Si tratta non di pensare ad un improbabile ritorno all’agricoltura contadina, ma di passare dalla agricoltura industrializzata intensiva e inquinante ad una agricoltura ”ecologica”, come ha messo in evidenza il bel libro di Pier Paolo Poggio Le tre agricolture, apparso di recente. La soluzione del problema alimentare dei poveri è l’unica condizione per estirpare la violenza che ci sta travolgendo.

i massimi o minimi della fortuna critica dell'oggetto in sé, ma l'insieme ... (segue)
Come sanno praticamente da secoli più o meno tutti, il verolegittimo percorso e successo dell'opera d'arte è quello sociale, ovvero non imassimi o minimi della fortuna critica dell'oggetto in sé, ma l'insieme dell'interazionecon varie fasce di utenza diretta e indiretta. Tenendo bene in mente questaprospettiva di osservazione, a cui senza dubbio contribuisce anche se a voltenon in modo determinante l'altra, quella della critica distillata piùappariscente e mediaticamente «vocal», forse è di qualche utilitàprovare a comparare due recentissime, diverse ma analoghe installazioni, cheproprio di questo genere di interazione hanno fatto la loro ragion d'essere. Miriferisco in particolare ai Moli fluttuanti realizzati a metà giugno2016 da Christo attraverso il sistema insulare del Lago d'Iseo nelle Prealpibresciane, e al «Campo di grano» piantato da Agnes Dénes all'interno delcomplesso detto Porta Nuova, nel nucleo denso centrale di Milano, circa un annoprima, e culminato con la «mietitura» quasi negli stessi giorni. Moltissime ledifferenze, moltissime anche le analogie, dal punto di vista del possibilemetodo di osservazione.
Forse val la pena iniziare da alcune analogie, pur nelladifferenza oggettiva delle proposte. La principale sta forse nella sostanzialeinconsistenza della installazione in sé, separata dal contesto. Propriofocalizzandosi su questo aspetto si inizia probabilmente a cogliere il sensodell'accostamento-contrapposizione. In entrambi i casi si tratta in sostanza diuna riproposizione di progetto «chiavi in mano» collocato in una situazionedifferente ma giudicata valida, ma se Wheatfield di Dénes fa il suoviaggio di consegna nel tempo e nello spazio (dalla New York cupa dei primi '80alla Milano globalizzata del terzo millennio di Expo), i Floating Piersdi Christo sbarcano sulle sponde del lago prealpino solo da un tavolo diprogettazione e concertazione, ovvero prima esistevano esclusivamente come concept.Il campo di grano, piantato sulle sponde dell'Hudson mentre ancora la metropolistava sprofondata nella crisi fiscale, razziale, sociale, immobiliare delsecondo '900, indicava la via di una possibile uscita sostenibile epartecipata, per quanto forse solo in termini simbolici. Dove prima c'eranomacerie adesso crescevano spighe, e il raccolto partecipato dai cittadini sidistribuiva in sacchetti anche alle altre città vittima di analoghi dinamichedi degrado. La medesima installazione, fotocopiata identica con piglio dastilisti estetizzanti, trentacinque anni dopo e fra le pareti a specchiolievemente pacchiane di proprietà del Qatar, difficilmente poteva indicarequalche prospettiva, salvo quella di finire sulle pagine patinate di unarivista di moda, come di fatto avvenuto con la «mietitura» fatta da modelli incostume, in uno senario praticamente deserto e tra le erbacce cresciutenell'indifferenza sostanziale della città.

Tutto diverso il discorso dei moli fluttuanti, dove già il«contenitore» non è l'opera in sé, ma la sua interazione col paesaggio, prontaa sua volta a interagire con l'utente-contenuto. Chi anche preventivamente (èil caso ad esempio del critico Philippe Daverio) ha stroncato l'iniziativa inquanto opera d'arte ripetitiva e dozzinale, sagra paesana che non valeva lapena giudicare, probabilmente non ha colto proprio la sua natura aperta adaccogliere altro senso. L'invito esplicito a «entrare nel paesaggio modificatomodificandolo ulteriormente» non a caso è stato accolto intuitivamente dalpubblico, e comunicato col passaparola, tra parentesi mettendo in crisi un giàcarente e improvvisato sistema logistico e moltiplicando critiche improprie.Perché non si tratta esattamente di installazione-opera, come poteva apparirein un primo tempo specie leggendo certe raccomandazioni a fruirla in tutto ilsuo splendore contemplandola dall'alto, ma di puro espediente tecnico perprodurre un evento sociale, esattamente come avviene per le migliori piazzemonumentali simboliche luogo di ritrovo pubblico.

E anche con qualcosa in più e inedito: la dimensione fisica,la composizione mista, le sensazioni coinvolte. Un ambiente enorme,spropositato anche rispetto a quello delle piazze pubbliche di ritrovo dimassa, ma che replica di fatto il medesimo meccanismo di trasfigurazione, unendoprobabilmente per la prima volta su dimensioni del genere cose disparate chevanno dalla fila per la mostra o il museo, la giornata in spiaggia, lapasseggiata in montagna, il godimento tutto soggettivo di un particolare o unpaesaggio, ivi compresa la sensazione tattile della superficie increspata. Ilcomporsi del fattore spaziale, sociale, dei flussi (in questo senso anche ipercorsi di avvicinamento, poi collassati per via della pessima gestione, fannoparte dell'installazione), dell'immaginario, delle relazioni interne che sisperimentano tra i fruitori-protagonisti. Tutto, e basta parlare con chiunqueci sia stato a confermarlo, molto molto oltre la comune dinamica dellafruizione del bene culturale, per quanto massificata, e anche molto oltre (questoè certo) le ragionevoli aspettative dell'artista e dei critici. Che infatti almomento paiono sinistramente silenziosi, salvo qualche legittima collateralestroncatura di aspetti parziali, che però nulla toglie al bilancioinfinitamente positivo dell'evento, che potrebbe già da oggi tranquillamentetrasformarsi in un concept replicabile, in uno standard di ripropostadel paesaggio. Per chi non ha preconcetti ideologici, naturalmente.

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Un riassunto

Due principi hanno guidato il pensiero e l’azione di quelli che hanno coltivato l’urbanistica e l’architettura credendo nella loro unione come, riguardo alla cultura in generale, nel superamento della scissione fra cultura umanistica e cultura scientifica. Il primo, adozione di un punto di vista univoco circa le due discipline, rappresentabile nel progetto e nel piano con la pretesa che il tutto sia presente nelle parti e le parti nel tutto; il secondo, conseguente, ideazione non solo di singole architetture nobilmente motivate e urbanistiche redistributive di standard quantitativi, ma compimento di un’architettura collettiva urbana[i] («fare città», si dice oggi): aggregazione delle diverse componenti di una organizzazione spaziale in un’unità complessa, dove le ineluttabilità sociali, le funzioni e le estetiche si muovano e si fondino per ritrovare il significato comune e la bellezza di quei luoghi (piazze, strade…) che distinguevano la storia urbana italiana ed europea. In molti casi possiamo goderli ancora oggi, da spettatori, come opere d’arte sociale scampate al rovesciamento distruttivo in ogni campo, territorio e città compresi, provocato da un capitalismo che non guarda in faccia nessuno (inteso: le persone, i gruppi sociali, i beni comuni, gli edifici privati e pubblici…) pur di perseguire un’«economia dell’arricchimento» che richiede lo sfruttamento intensivo del plusvalore del lavoro nei periodi di deindustrializzazione (di recessione)[ii] e del plusvalore della terra (moltiplicazione delle rendite).

Dai tempi della semplificazione funzionalista-razionalista che ha sancito la crisi già in corso della città di strade e piazze residenziali, l’urbanistica e l’architettura, ognuna per sé sorda ai suoni della storia, non possono creare spazi di vita ed estetici di quella giustezza sociale e di quella bellezza[iii]. Il brulicare di vita collettiva, gli intensi rapporti sociali che li rendevano mirabilmente adatti erano imprescindibile necessità di una specifica formazione economico sociale; oggi non sappiamo o non possiamo praticare rapporti umanizzanti e solidari perché l’attuale società li ricusa (così ne deriva il recepimento di quei luoghi solo come nude opere d’arte…).

Ha avuto successo negli anni recenti la raffigurazione degli ipermercati, dei centri commerciali, degli aeroporti…, essenzialmente i «nonluoghi» nell’accezione di Marc Augè (Non-lieux), quali nuovi spazi di socializzazione, nuove «piazze» dove la gente s’incontra, dialoga vive…la vita. A noi paiono luoghi ultimi di cui le persone assoggettate al consumo devono accontentarsi in mancanza d’altro, impedite d’incontrarsi e di dialogare davvero. Lì all’«uomo della metropoli» manca soprattutto la comunità, la condivisione del desiderio e del ritrovamento del luogo di tutti. Le piazze e piazzette di città, cittadine e paesetti, i campi e campielli veneziani, le strade e stradine d’ogni parte: erano spazio conchiuso o delineato dalle cortine edilizie, abitate e destinate a miriadi di utilità; forma in ogni caso decisamente progettata nel senso di un concerto della popolazione per una comune scelta per così dire urbanistica. In quei nonluoghi vige forse la denaturazione psicologica e biologica dell’uomo come previsto da Willy Hellpach ottant’anni fa[iv].

La critica e la contrapposizione al razionalismo da parte degli architetti nati nel decennio 1925-1935, ispirate alle esperienze pre-razionaliste o espressioniste di olandesi e tedeschi, a F. L. Wright, a movimenti rinnovatori come la Wiener Secession si sono risolte da una parte in ingegnose architetture affatto minoritarie, neoliberty e talvolta storicistiche, dall’altra in urbanistiche pubbliche (Piani per l’edilizia economica popolare e simili) pensate in opposizione alla speculazione o indirizzate alla ricostituzione di demani locali ma, salvo poche eccezioni, respinte in innocue applicazioni troppo lontane dal corpo urbano compatto, inoltre difficilmente rapportabili alle isolate novità architettoniche[v].

Lunghi decenni fluivano attraverso vicende da cui ogni tanto sorgevano deboli speranze di cambiamento dell’urbanistica pubblica grazie all’adozione di singole normative di stampo quasi-illuminista (ma una nuova legge urbanistica generale era continuamente dilazionata fino alla rinuncia odierna!). Nei fatti si susseguivano le vittorie di uno smaccato neoliberismo speculativo e profittatore coerentemente alla progressiva finanziarizzazione dell’economia, d’altronde essa stessa propizia all’ancor più veloce decadimento della produzione industriale fino alla distruzione o riduzione all’insignificanza dei settori tradizionali. Il disinteresse della politica riguardo agli enormi danni reddituali personali, sociali, culturali provocati dal dominio delle rendite di ogni genere, unificate in una sorta di Santo Principio Primo (Spp) come statuto materiale e morale del paese, giungeva a ogni grado del potere, dal capo del governo fino al sindaco del più piccolo Comune di trentasei abitanti valtellinesi, e decretava così l’agonia della sovranità popolare (demo-kratía).

L’iniziativa urbanistica privata negoziata in apparenza col potere politico, in realtà lo surclassava anzi lo assorbiva ostentando essa presunti valori pubblici. Pseudo-concorsi «chiavi in mano» fra coppie di impresa-architetto, accordi al chiuso fra sindaci e padroni spacciati per gestiti all’aria aperta, realizzazioni urbane di enorme portata sostitutive di grandi e buone industrie con disprezzo di piani generali o di note priorità locali e regionali, architettura incapace di proporsi come arte dalla parte dei cittadini invece che subalterna alle imprese: questa, dal punto di vista del destino di città e territorio, era la trama che guidava il paese verso la fine del millennio e l’inizio del nuovo.

Una figura milanese la rappresenta in modo ideale: Gabriele Albertini, il sindaco del decennio 1997-2006, colui che impersonò gli affari urbani definiti da Vezio De Lucia «rito ambrosiano», forse primo fra gli amministratori pubblici, presto seguito da altri di altre città e dai successori di destra e di sinistra (Letizia Moratti e Giuliano Pisapia), a sostenere l’avvento degli architetti internazionalisti al servizio del municipio e dei possessori della rendita urbana. Progettisti che prospettano la costruzione di grattacieli-giganti per contesti a loro sconosciuti e tuttavia non studiati, personaggi a ogni modo propensi ad accettare o addirittura offrire essi straordinarie densità di fabbricazione.

Così valse la diffusione della fandonia, grazie anche alla condivisione di colleghi distratti, che le grandi cubature ottenute mediante inusitate altezze degli edifici applicando indici di densità fondiarie inammissibili nella pianificazione onesta comportassero il guadagno di vaste superfici di terreno da destinare a parco; quando è vero il contrario: eventuali notevoli altezze in regime di basse, molto basse densità spingono lontani l’uno dall’altro i volumi e lasciano ampie zone aperte.

Il tipo edilizio detto grattacielo o gran mole spuntava qua e là nel paese in posti inimmaginabili, Savona con Fuksas quanto mai balzano e Bofill, Sarzana coi funghi velenosi di Botta, Salerno col muraglione di Bofill, Torino la bellissima, famosa per l’elegante perfezione e uniformità delle sue strade porticate, arresa all’arroganza della più potente banca italiana, con Alessandro Antonelli sacrificato all’improvvisa insensibilità di Renzo Piano…

Milano, dopo la fallimentare prova del terzetto Hadid-Isozaky-Lebeskind al servizio della cordata Generali-Ligresti-Lanaro-GLDR nell’area dell’ex Fiera, esibiva a Porta Nuova-Isola il luogo topico della nuova architettura urbana. Già diversi mazzi di grattacieli ligrestiani per uffici, abusivi nei due ultimi piani, si erano distribuiti al di là della cinta ferroviaria quasi per declinare rapidamente verso rugginoso abbandono (intanto la rendita avanza lo stesso). Ora il raggruppamento di alcuni giganti, come in qualunque emirato o qualunque Kuala Lumpur segnato da astruse esteriorità formali e falsità sostanziali, attua in quella parte di città, guarda caso non più milanese giacché comprata interamente dal Qatar, la contestazione dell’architettura urbana laddove fosse persistita dal passato nella sua giustezza e bellezza, mistificando infine l’intera operazione targandola col nome di «piazza»: Gae Aulenti per di più.

Intanto la vendita di terra milanese a potentati stranieri procede. Se da una parte è soddisfatto l’emiro dall’altra lo sarà la dinastia dei reali sauditi: sta sorgendo su terreni utilizzati per l’Expo a Cascina Merlata (destinazione agraria sacrificata per sempre) il più grande centro commerciale della città. Sono solo due esempi fra tanti di una tendenza irreversibile. Tutto si tiene rispetto ai nuovi luoghi di falsa socializzazione. È raggiunta nell’intero paese l’obbedienza alla legge della mondializzazione; così funziona anche in questi casi il capitalismo vòlto, come detto, all’economia dell’arricchimento nell’epoca di impoverimento dei lavoratori.

Grattacieli

1.- Un’architetta intervistata in piazza Gae Aulenti disse che Milano ha il grattacielo nel suo DNA perché ha eretto la guglia del Duomo con la Madonnina. Macché DNA, macché Duomo. L’unico edificio di altezza inusitata (al suo tempo) significativo non per aver fondato una tendenza ma per essere emblema di singolarità, il contrario di possibile molteplicità, è il grattacielo Pirelli (Ponti, Nervi, Rosselli e altri, 1956-60, 32 piani, 127 metri). Quasi un contradditorio architettonico radicale ma non arrogante alla magnifica Stazione Centrale di Ulisse Stacchini (nota: opera di un fantasioso tardo eclettismo, da noi amata e per disgrazia massacrata dai lavori del Progetto Grandi Stazioni senza alcuna opposizione di ordini professionali, istituzioni culturali, politecnici, università…). Altri pochi edifici alti, da non potersi più definire grattacieli stante le spaventose gonfie verticalità raggiunte a Milano Porta Nuova-Isola (se è per questo, nemmeno il Pirelli…) non contano nulla da entrambe le prospettive: danno grave o vantaggio apportati al paesaggio urbano. Un’ammirabile eccezione sarebbe la cosiddetta Torre Rasini, la parte «alta» di un palazzo residenziale all’angolo fra corso Venezia e i Bastioni, con la Porta Venezia da un affaccio e i Giardini Pubblici piermariniani dall’altro (Emilio Lancia e Gio Ponti, 1933-34), se dovessimo accettare l’inganno nominalistico e includerla con i suoi miseri undici piani più un parziale dodicesimo arretrato. Conta invece il disegno urbano e la bellezza di un’architettura tipicamente «milanese» fra razionalismo e Novecento.

2.- Al Palazzo Reale di Milano c’è una mostra di Umberto Boccioni, abbastanza ampia se non esaustiva. Qualche giornalista innamorato dei nuovi grattacieli ha preso «La città che sale», del resto presente solo in bozzetti (uno è nella collezione della Pinacoteca di Brera; l’opera compiuta, 200x300 cm, è al Moma di New York) per una profezia del 1910 alla vocazione dei costruttori milanesi a erigere, appunto, grattacieli. Grossolana deduzione dal puro titolo. Basta osservare con attenzione le immagini di bozzetti e del quadro finito, aggiungendo magari la lettura di qualche passo di critica d’arte moderna, per capire che Boccioni lavora in piena assunzione del «dinamismo» preludente al compimento del Futurismo. Quattro quinti del dipinto sono occupati da cavalli e uomini in contorsione «fusi esasperatamente insieme in uno sforzo dinamico»[vi]. Solo in un piccolo spazio in alto a destra sbuca una forma che potrebbe rappresentare una casa in costruzione di quattro o cinque piani, oppure alludere a un quartiere periferico in corso di realizzazione come tanti all’inizio del Novecento. «La città che sale» significa una Milano che scala la china del progresso, come l’artista la vede nella realtà e la proietta in visione avveniristica.

[i] L. Meneghetti, La sostenibile infelicità della divisione, in eddyburg, 15 marzo 2015.
[ii] Intervista a Luc Boltansky del Collettivo La Boétie,
«L’Indice dei libri del mese», a. XXXIII, n. 5, maggio 2016.
[iii] L. Meneghetti, Alla ricerca dello spazio perduto (Discorsi di piazza), in eddyburg, 25 novembre 2006. In «il Grandevetro», a. XXX, n. 184 novembre-dicembre 2006; poi in Libere osservazioni non solo di urbanistica e architettura, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2008. – L. M., La strada, la piazza. Un cuore antico per il futuro, in eddyburg, 7 febbraio 2009; poi in Promemoria di urbanistica architettura, politica e altre cose, Maggioli, 2010. – L. M., Dov’è la bellezza di Milano?, in eddyburg, 11 giugno 2015.
[iv] W. Hellpach,
L’uomo della metropoli (Mensch und Volk der Grosstadt, 1935, prima pubbl. 1939), Edizioni di Comunità, Milano 1960.
[v] Cfr. la rassegna di Piani di edilizia economica e popolare in
«Urbanistica», a. XXXIII, n. 41, agosto 1964. L’unico progetto, inserito nel contemporaneo Prg, che appare meno marginale è quello di Novara.
[vi]
Boccioni a Milano Catalogo della mostra al Palazzo Reale, dicembre 1982-marzo 1983, Mazzotta, Milano 1982.

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"Non c'era un posto per loro" nell'affollata e opulenta Betlemme e Giuseppe e Maria col bambino trovarono rifugio solo in una grotta fredda: mi tornano sempre in mente queste parole del Vangelo di Luca quando penso a tutti i poveri e poverissimi per i quali “non c'è un posto” in cui rifugiarsi, a cominciare da casa nostra: basta vedere le persone ammassate nelle “Rosarno” d’Italia, negli scantinati di edifici abbandonati come l’ospedale Forlanini di Roma.

Più di mille milioni di persone abitano nelle “Rosarno” del mondo, dai campi di concentramento di esuli e rifugiati, alle tendopoli di lavoratori immigrati e sfruttati, alle capanne e baracche delle periferie del terzo mondo, spesso vicino a discariche di rifiuti, ai ricoveri provvisori delle persone in fuga dalla fame, dalle guerre, dalla siccità, vittime dei cambiamenti climatici, rifugi circondati da polvere, sporcizia e acqua di fogna, senza acqua potabile e al buio.

Non è possibile avere una vita libera e dignitosa se si è privi di una casa decente e, davanti al grave problema di chi è privo perfino di un rifugio, già nel 1976, quarant’anni fa, le Nazioni Unite hanno sentito il bisogno di indire a Vancouver una conferenza internazionale sull'abitare per capire che cosa si può fare per soddisfare questo fondamentale bisogno umano che viene subito dopo il bisogno di cibo e di acqua e che si fa sempre più pressante a mano a mano che aumenta la popolazione dei miserabili del pianeta.

Dopo Vancouver le Nazioni Unite hanno costituito una speciale agenzia, Habitat, con sede a Nairobi, e hanno organizzato una seconda conferenza “Habitat II” a Istanbul nel 1996. La terza si terrà a Quito nell’Ecuador, nel dicembre di quest’anno. Per cancellare le migliaia di “Rosarno” del Nord e del Sud del mondo occorre un enorme sforzo internazionale: conoscitivo, prima di tutto (dove sono i senza-casa della terra, quanti sono, di che cosa hanno bisogno ?), finanziario, tecnico scientifico, politico.

Diffondere abitazioni decenti, far crescere villaggi e città umane soprattutto nei paesi poveri, è premessa indispensabile per sconfiggere i grandi mali delle società umane: violenza, sfruttamento dei bambini, prostituzione, diffusione della droga, epidemie, AIDS.

Anche nei paesi avanzati e industriali come il nostro esiste un problema di abitazioni, con drammatiche contraddizioni: ci sono abitazioni vuote, terze case abitate per pochi giorni all’anno, ci sono costruzioni belle e confortevoli e anzi di lusso, quelle che ci occhieggiano dalle riviste patinate, ci sono nuovi quartieri di case invendute, ci sono famiglie senza casa o sfrattate a cui i bassi redditi non consentono di affittare né tanto meno comprare una casa, ci sono i senza-casa.

L’industria dell’edilizia fa fatica ad avviarsi perché orientata a costruzioni adatte per un “mercato” a sua volta in crisi. Quelli che erano i grandi progetti di edilizia popolare si scontrano con la mancanza di soldi dello Stato.

E poi c’è quel miliardo di persone dei paesi poveri e poverissimi che non hanno un rifugio decente. La risposta alla loro domanda richiede tecniche completamente differenti da quelle a cui siamo abituati noi. Bisogna inventare soluzioni semplici, case costruibili con materiali esistenti sul posto, resistenti alle tempeste e all'attacco dei parassiti e dell’umidità.

La purificazione delle acque, la distribuzione di acqua di decente qualità per l'alimentazione e per usi igienici, modeste attrezzature, come gabinetti e docce, possono contribuire a fermare la diffusione di epidemie e salvare milioni di vite.

Per tante zone occorre energia; l'energia del sole e del vento, spesso abbondante nei paesi poveri e poverissimi, può essere messa al servizio dei bisogni umani: penso a piccoli generatori di elettricità, a livello di villaggio, per l'illuminazione, per i frigoriferi in cui conservare i medicinali, per sollevare, purificare e dissalare le acque, per semplici sistemi di telecomunicazioni che avvertano gli abitanti dell'avvicinarsi di tempeste e diffondano istruzione per adulti e bambini.

In questa sfida potrebbero trovare utilizzazione materiali riciclati per la costruzione di prefabbricati, e tutto questo potrebbe creare occasioni di lavoro anche per i paesi industriali. Purtroppo le università e i grandi centri di ricerca sono assenti da questa grande gara per lo sviluppo di tecnologie "appropriate", adatte al miglioramento delle condizioni dell'abitare dei poveri.

Esistono alcuni piccoli centri di sviluppo e diffusione di tali tecnologie; molte iniziative sono prese da associazioni religiose cattoliche e protestanti e di volontariato che operano nei paesi poveri e ne conoscono e fanno conoscere le richieste di abitazione e servizi igienici.

Se non si vuole ragionare in termini di solidarietà e di aiuto dei paesi poveri si consideri che il potenziale enorme “mercato” di nuove “tecnologie della solidarietà” potrebbe attrarre l’interesse di tante imprese in cerca di nuovi sbocchi.

Si parla tanto di rallentare il flusso migratorio che sta premendo dai paesi poveri e una soluzione continuamente ripetuta è quella di aiutare i poveri nei loro paesi di origine. Il primo concreto aiuto consisterebbe nell’offrirgli la possibilità di costruire sul posto, con materiali locali e con saperi locali, i beni più indispensabili, come casa, acqua, servizi igienici, energia.

Una rivoluzione della speranza che non è soltanto un'operazione caritativa: se i paesi industriali non ascolteranno la voce dei poveri saranno travolti da violenze, pressioni migratorie e sociali, conflitti, generati dal loro egoismo e che tale egoismo finiranno - giustamente - per travolgere.

L'articolo è inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno

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Norma Rangeri, la nostra instancabile direttrice, mi invita a esprimere pubblicamente la mia scelta di voto al prossimo ballottaggio delle elezioni per il sindaco di Roma. L'intenzione, naturalmente, è di raccogliere una pluralità di pareri davanti a uno scenario cha appare abbastanza problematico e ingarbugliato. Per lo meno per chi si colloca a sinistra del Partito Democratico. Oggi, tuttavia, rispetto a poco tempo fa, il quadro della situazione politica romana mi appare molto più chiaro e definito e le possibilità di fare una scelta di voto assai meno problematica.

Avendo votato per Stefano Fassina al primo turno, sapevo per certo che avrei dovuto affrontare al ballottaggio una scelta che lo escludeva. E confesso che, se mi fossi trovato di fronte a un alternativa tra Roberto Giachetti e un candidato del centro-destra, non avrei avuto dubbi: mi sarei “turato il naso”, per dirla alla Montanelli, e avrei scelto il candidato PD. Lo avrei scelto per senso di responsabilità, pensando alle sorti della mia città, che non può tornare in mano al peggior centro destra d'Italia. Ma lo avrei fatto con disagio, prima di tutto per ragioni di politica nazionale. Considero il PD di Matteo Renzi un grave danno per la sinistra e per l'Italia. Per la sinistra, perché la sua politica di apertura alla destra berlusconiana - come alcuni di noi avevano previsto - non avrebbe allargato il consenso di quel partito, mentre avrebbe definitivamente spezzato i legami con il suo insediamento popolare, esponendolo alla sconfitta.

I risultati elettorali recenti sono le prime prove della validità di tali previsioni. Ma il danno è anche per l'Italia. Questa non è la sede per valutazioni generali, ma un aspetto che non bisogna dimenticare, nel dare un giudizio sull'operato di questo governo, è di considerare anche quel che non si è fatto e invece si poteva fare. Il tempo nel frattempo sprecato con i problemi che si aggravano. Son passati due anni e mezzo e Renzi ha perduto l'occasione di impostare un sistema fiscale progressivo: vera chiave di volta per attenuare le diseguaglianze crescenti che lacerano tutte le società “neoliberiste”. Ha premiato la rendita, abolendo la tassa sulla prima casa e non ha impostato una vera politica di investimento nella formazione e nella ricerca, per il rafforzamento strategico del sistema-paese: borse di studio per migliaia di giovani che non possono proseguire la carriera scolastica o iscriversi all'Università, fondi per la ricerca, ingresso di nuovi docenti nell'Università e soprattutto risorse per ridare slancio a un settore da cui dipende l'avvenire dell'Italia. Nulla di tutto questo, com'è noto.

Ma che c'entra tale valutazione con la scelta del sindaco di Roma? Per fortuna, senza dover dimenticare i danni generali della politica nazionale del PD, al ballottaggio non sarò costretto a turarmi il naso. Ho sentito più volte Giachetti in Tv perorare la causa delle Olimpiadi a Roma e del nuovo stadio della squadra capitolina e questo mi ha definitivamente persuaso. Considero simili scelte il distillato del neoliberismo urbanistico che già affligge le nostre città (Venezia fa testo da anni) e che rischia di distruggerle. E' il processo di disneylizzazione dei nostri centri urbani, un modo di mobilitare risorse per singoli eventi, tutto interno alla logica della società dello spettacolo, del profitto per alcuni gruppi, mentre si rimuove la visione d'insieme della città: con i suoi bisogni quotidiani, le sue periferie, il suo crescente disagio sociale, le sacche di emarginazione che si vanno gonfiando.

Ispirato da tali scelte, - che lo portano anche a strumentalizzazioni pacchiane, come l'uso elettorale di Totti - Giachetti è dunque un perfetto avversario da sconfiggere. Tanto più che la candidata del Movimento 5 stelle, Virginia Raggi, ha cominciato a fare scelte interessanti per la sua eventuale squadra di governo cittadino. Ed è di dominio pubblico che ella ha chiesto, per l'assessorato all'urbanistica, la disponibilità di Paolo Berdini. Ebbene, considero questa una scelta di grande valore, una vera bandiera politica. L'Assessorato all'urbanistica (o comunque si chiamerà) è un posto di potere-chiave dei governi municipali. Da li si governa l'uso del territorio e la possibilità di cavare profitti dal suolo. E da li, nei decenni passati, sono passate le scelte che hanno devastato Roma, cementificando l'Agro romano, costruendo interi quartieri senza trasporto su ferro, innalzando cinture di centri commerciali che richiamano traffico da ogni dove. Paolo Berdini è uno dei più competenti e intransigenti avversari di questa politica dissennata, che ha premiato la rendita dei grandi costruttori e creato danni all'universalità dei cittadini romani.

Infine, qualche considerazione sugli insuccessi elettorali più significativi della sinistra a Roma e a Torino, che mi paiono comuni per tanti aspetti. Avevo considerato, a suo tempo, imprudente la candidatura di Fassina, ma - una volta nell'agone elettorale - ho espresso su questo giornale il mio sostegno al suo lavoro per tanti versi coraggioso. Naturalmente, senza illusioni, con l'auspicio che si costruisca a Roma, per il futuro, un centro aggregatore delle forze di sinistra, quale terminale di una formazione politica più larga, di respiro nazionale. C'era, tuttavia, nella candidatura di Airaudo a Torino e di Fassina a Roma, un peccato d'origine che evidentemente il lavoro sul campo, quello tra la classe operaia torinese e nella periferia romana, non è bastato a sanare. E le ragioni sono ovvie.

Il lavoro quotidiano tra i cittadini non può dare frutti elettorali nel giro di pochi mesi. Si tratta di un'opera di lunga lena, che sarebbe dovuta iniziare molto prima dell'apertura della campagna elettorale. Lo si voglia o no, la fiera elettorale copre di una patina di strumentalità qualunque impegno e dialogo “col popolo”. E infine, di passata, ma è forse il problema fondamentale, tanto Airaudo che Fassina e altri candidati meno noti, sono apparsi troppo isolati: avanguardie solitarie di una sinistra che non c'è, per giunta esponenti dissenzienti di una tradizione che oggi si chiude nel fallimento. L'idea di Sinistra Italiana di aspettare il congresso di dicembre per “partire” non ha certo aiutato questi candidati. Ma ha anche gettato un ombra pesante di fragilità su tutto il campo. Persino il mio «giovanile entusiasmo» (come benevolmente ironizza Asor Rosa) è stato messo a dura prova.

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in occasione dell’apertura della Conferenza delle Nazioni Unite di Stoccolma sul tema: “L’uomo e l’ambiente”. Quest’anno le Nazioni Unite propongono come tema la lotta al commercio illegale di specie vegetali ed animali e di loro parti come le zanne di elefante o le pelli di tigre. Un problema importante perché tale commercio è alimentato dal bracconaggio e da operazioni illegali e criminali che provocano la perdita della biodiversità da cui dipendono la stessa sopravvivenza delle specie, alla lunga della nostra stessa specie.

La giornata mondiale dell’ambiente rappresenta una occasione per leggere ancora una volta, tutte insieme, le forme in cui l’ambiente viene modificato, le cause delle modificazioni, i danni umani e anche gli effetti economici che le violenze all’ambiente provocano.

La prima cosa che viene in mente riguarda le modificazioni climatiche i cui effetti sono sotto gli occhi di tutti, anche in questi giorni di fine primavera; da Parigi a Bari, da Milano alle campagne tedesche e romene. Piogge improvvise cadono su città di asfalto e su campi supersfruttati e l’acqua non trova più le sue strade naturali di scorrimento e dilaga nelle cantine, esplode dalle fognature, distrugge coltivazioni agricole pregiate. Ormai, con buona pace dei negazionisti, non c’è più dubbio che tali violenze climatiche derivano dalla continua, crescente modificazione della composizione chimica dell’atmosfera, la quale, a sua volta è dovuta non a punizioni divine, ma ad azioni lecite e anzi lodevoli: all’uso dei combustibili con cui oltre un miliardo di autoveicoli sulle strade del mondo trasportano persone e merci e tengono in moto l’economia, con cui le fabbriche producono cose utili e benefiche come acciaio per la costruzione delle abitazioni, dai lussuosi grattacieli del Golfo Persico, alle periferie che continuamente si espandono per ospitare miliardi di persone, in Cina come a Milano, in Africa come in California.

I gas che modificano il clima vengono dall’agricoltura che assicura il cibo che “consumiamo” ogni giorno, dai campi coltivati con concimi e trattori, agli allevamenti del bestiame che fanno arrivare proteine pregiate sulle mense del mondo.

Se ci spostiamo dalle modificazioni climatiche agli incendi che devastano tante zone della Terra, dai boschi che circondano le ville dei divi in California, a Pantelleria, alle grandi foreste brasiliane, indonesiane, africane, si vede che tali incendi lasciano il suolo nudo ed esposto all’erosione da parte delle piogge. Incendi e distruzioni forestali che spesso sono intenzionali per lasciare spazio a speculazioni edilizie o a nuove coltivazioni o a miniere da cui estrarre preziosi minerali, operazioni che spesso rispondono alla richiesta di “cose buone”. La estensione delle coltivazioni di palme nel sud-est asiatico permette di soddisfare la domanda dell’olio di palma che entra in molti alimenti e del biodiesel, quel surrogato ”ecologico” del carburante diesel ricavato dal petrolio. Oppure i nuovi spazi, “liberati” dalle foreste, consentono di ottenere lo zucchero da trasformare in alcol usato come carburante “ecologico” al posto della benzina, o di estrarre due miliardi e mezzo di tonnellate all’anno di minerale di ferro che sarà poi trasformato in un miliardo e mezzo di tonnellate di ferro e acciaio, che sono cose buone e utili.

Tutte le cose buone e i “servizi” come la conoscenza, le telecomunicazioni, la difesa della salute, la possibilità di muoversi, richiedono dei beni materiali che vengono tratti dalla Terra, modificandola, e inevitabilmente comportano la restituzione alla Terra delle acque usate, addizionate di sostanze nocive per la vita, di gas, di scorie solide, un flusso di circa 250 miliardi di tonnellate all’anno di materie, corrispondenti ad un “peso” di circa 35 tonnellate all’anno per ogni persona che abita la Terra (500 volte il peso del corpo). Inutile dire che questo numero, oltre ad essere una grossolana approssimazione, è un valore medio; molti abitanti della Terra si appropriano delle sue ricchezze molto di più e molti altri se ne appropriano in quantità molto minore.

L’”ambiente” che le Nazioni Unite e i governi del mondo intendono difendere viene, insomma, continuamente attraversato da un flusso di materiali che trasformano la biosfera, che è cosa buona, in tecnosfera, il mondo degli oggetti capaci di soddisfare la richiesta dei “consumi” umani, che sono cose buone, come ci ripetono ogni giorno i governanti. Consumi che anzi dovrebbero aumentare per tenere vivace l’economia mondiale, ma la cui produzione e uso modificano inevitabilmente e negativamente proprio quello stesso ”ambiente” che diciamo di voler invece difendere.

Con strani effetti finanziari; l’aumento dei consumi fa aumentare la massa di denaro in circolazione e i danni ambientali, la distruzione del suolo, le alluvioni, gli inquinamenti, fanno aumentare la massa di denaro in circolazione per risarcire gli alluvionati, per costruire impianti di depurazione o pannelli solari o automobili elettriche e così via. La Terra ci rimette sempre e i soldi crescono sempre.

Le precedenti brevi considerazioni non hanno alcun fine moralistico né raccomandano necessariamente comportamenti di austerità merceologica, anche se una critica dei “consumi” figura in maniera quasi ossessiva perfino nell’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco; sono semplicemente avvertimenti degli effetti che l’attuale comportamento merceologico determina sulla Terra e sul suo ambiente. Tanto per saperlo.


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Nasceva ufficialmente a Londra circa un secolo fa, l'idea di urbanista moderno, quando su iniziativa del Royal Institute of British Architects si riunivano a congresso studiosi e professionisti da tutto il mondo rivendicando in sostanza una grande intuizione maturata proprio e principalmente nel mondo dell'architettura: le trasformazioni urbane non potevano più avvenire di fatto spezzettando nello spazio, nel tempo, nei flussi economici e nelle decisioni decine di competenze e prospettive diverse. Che ci fosse un gran bisogno di qualche genere di sintesi lo dimostrava da solo e da subito già il contenuto e il tono delle comunicazioni, a tratti surreale come quando George Lionel Pepler esordisce così: «Se non fosse per la straordinaria importanza dell’argomento che propongo, quasi dovrei scusarmi del fatto di presentarlo a questo Convegno, vista la distanza da una prospettiva propriamente architettonica». E di argomento importante si tratta di sicuro, visto che è la London Orbital, dopo un paio di generazioni caposaldo del grande piano regionale di Abercrombie, e capostipite di tutti gli schemi metropolitani del mondo.

Ma la confusione su cosa diavolo siano, l'urbanistica e l'urbanista, decisamente imperversa, e lo si vedrà di lì a non molto con la divaricazione di fatto in due tronconi (due a dir poco) o gruppi di principi generali, confusi spesso anche dagli stessi protagonisti con alcune forme esteriori, testimoniando la fatica di allontanarsi da quella citata «prospettiva propriamente architettonica». Ci sono da un lato i sostenitori dell'approccio razionalista modernista, diventati poi negli anni famigerati per i quartieri di casermoni o falansteri che dir si voglia. Dall'altro i discendenti del riformismo socio-ambientale utopistico, superficialmente antindustrialista, con le loro densità ridotte, l'integrazione tra verde e architetture, l'attenzione alla comunità spontanea. Ovviamente c'è anche tantissimo che mescola e confonde nei fatti questi due approcci, in fondo davvero divisi da qualcosa di superficiale e accomunati dalla profonda radice comune: valga per tutti la costante ricerca della dimensione ideale intermedia fra l'individuo-famiglia e la società più in generale, declinata via via fra unità di vicinato, quartiere autosufficiente, separazione per zone omogenee o a funzioni composite.

Un primo deciso segnale di discontinuità, rispetto alle divaricazioni, ri-convergenze, nuovi equilibri di questa comunità tecnico-scientifica, arriva verso la metà del '900, quando fa capolino un inatteso dissenso esterno. Anche qui per molti versi succede, anche se informalmente e spalmato nel tempo e nello spazio, qualcosa di analogo alla Town Planning Conference di Londra 1910, c'è una convergenza, una coincidenza, ma al tempo stesso tutto si articola da subito in vari rivoli di cui proviamo a individuare un paio di grandi famiglie, corrispondenti a quelle degli architetti-urbanisti. La prima famiglia ha anche il suo bel nome proprio da sfoggiare come santino di riferimento, ed è (inutile forse ricordarlo) quello della casalinga urbanista per caso Jane Jacobs, temprata nell'opposizione culturale sociale e politica al dispiegarsi meccanico della città razionalista governata con criteri meccanici e autoritari. La seconda famiglia non sa ancora di essere tale, e si esprime nel puro iniziale disagio per quello che qualche audace ha iniziato a chiamare addirittura sprawl, riprendendo un nomignolo già usato da paesaggisti e conservazionisti tra le due guerre mondiali. Il disagio per i quartieri dormitorio ormai prodotti in serie «immersi nel verde» dai discendenti perduti della cultura della città giardino, immemori sia di cosa sia una città, sia della differenza tra un giardino e un prato davanti al cancello di ingresso.

E arriviamo ai nostri giorni, in cui per dirla con le statistiche internazionali, l'urbanizzazione planetaria trasformerebbe l'urbanistica in una specie di potenziale geopolitica, e il suo approccio in un nuovo, ennesimo convergere di società, saperi, aspirazioni. La domanda a cui ci sarebbe da trovare risposta è chi adesso, dovrà farsi carico della responsabilità di elaborare un nuovo modello all'altezza dei tempi e dei bisogni, e di gestirne la trasformazione in spazi e sistemi ambientali sempre più vasti e comprensivi. Non certo più l'intellettuale solitario degli albori del XX secolo, con la sua fusione di arte e scienza che rinvia alla politica, ma neppure quel vago anelito partecipativo assembleare emerso dal disagio di metà secolo, ed espresso soprattutto in opposizioni locali, la cui capacità di elaborare progetti si è poi incanalata in modi del tutto tradizionali, per quanto molto più attenti ad esprimere la domanda. Come si riformula, oggi, l'idea di città e territorio?

Riassumendo per sommi capi un processo ancora ampiamente agli inizi, ma di cui si possono già intravedere parecchi segnali, la nuova urbanistica potrebbe configurarsi a partire da un rinnovato intreccio, non solo analogo ai due descritti sopra, ma in grado in qualche modo di ricomporli nella continuità. Il «nuovo urbanista» (chiamiamo così per semplificare un soggetto non certo individuale) deriva coerentemente dalla transizione che per tutta la seconda metà del '900 ha visto dialetticamente scontrarsi l'idea originaria, di approccio scientifico-professionale universale, quella di espressione spontanea di disagio e bisogni locale dei destinatari della pianificazione, sfociando sostanzialmente in un processo comunicativo e di relazione.

Un processo dove pianificare, individuare priorità, decidere modi e tempi, entra direttamente nel fare politica, nella partecipazione in quanto diritto, inclusione, potere effettivamente praticato in modo diffuso, ben diverso sia dall'elaborare grandi progetti o contrapporsi ad essi con istanze alternative particolari. Una città e un territorio che esprimono un processo di pianificazione sanno amalgamare il punto di vista degli abitanti e dei portatori di interessi piccoli e grandi, quelli mediati e metabolizzati dei loro rappresentanti eletti ai vari livelli, e soprattutto sono in grado di riequilibrare (o almeno provare a farlo sistematicamente) il peso relativo dei decisori, determinato dal loro potere. Si integrano così – in verticale e in orizzontale - anche le conoscenze specifiche, quelle che nella prima metà del '900 avevano a volte diviso la disciplina urbanistica, a volte addirittura determinato gerarchie che parevano eterne e naturali fra i saperi e il loro ruolo relativo. Restano le discipline prettamente spaziali tradizionali, ma si integrano quelle sui flussi (materiali e oggi immateriali), sociali, ambientali, ciascuna poi articolata a sistema nei propri aspetti gestionali. Forse qualche importante architetto entusiasticamente accorso alla Town Planning Conference di Londra 1910 resterebbe perplesso, magari scandalizzato, davanti a questa perdita di sacralità delle forme fisiche, del «contenitore» che domina il contenuto. O forse, ne coglierebbe il grande spirito innovativo, di fatto analogo nel metodo e negli obiettivi allo spirito di quei tempi.

Su La Città Conquistatrice molti testi, d'epoca e non, trattano il tema della figura dell'Urbanista
Alcuni concetti ripresi nell'ultimo paragrafo derivano da una rilettura in prospettiva storica dell'ultimo rapporto ONU-Habitat, Urbanization and development – Emerging futures - 2016

L'intervista che Massimo Cacciari ha rilasciato a Ezio Mauro per motivare il suo SI al referendum sulla riforma del Senato, offre al lettore, io credo, un buon campionario di motivi per indurlo al comportamento contrario...(continua la lettura)



L'intervista che Massimo Cacciari ha rilasciato a Ezio Mauro (Repubblica, 27.5.2016) per motivare il suo SI al referendum confermativo della riforma del Senato, offre al lettore, io credo, un buon campionario di motivi per indurlo al comportamento contrario a quello perorato dal filosofo: cioé a votare decisamente NO. Nel merito Cacciari arriva a definire l'oggetto del referendum «una riforma modesta e maldestra. La montagna ha partorito un brutto topolino». Poco prima, incalzato da Mauro, aveva ricordato che da decenni era nelle sue aspirazioni e nella parte più illuminata della sinistra, la creazione di «un autentico Senato delle Regioni con i rappresentanti più autorevoli eletti direttamente, e non scelti tra i gruppi dirigenti più sputtanati d'Italia, come oggi». Come dissentire?
E tuttavia, nonostante una sequela di giudizi così svalutativi e sprezzanti, egli dichiara che la riforma è da approvare comunque, perché finalmente si arriverebbe a decidere un cambiamento in materia istituzionale. Quel che importa è che si faccia qualcosa. Un ragionamento – mi perdonerà l'amico Cacciari – che non si discosta molto da quello del padre della fanciulla che ha visto sfumare in gioventù tante occasioni di matrimonio e alla fine si acconcia a farla sposare allo sciancato del paese. Perché almeno non resti zitella. In verità le contorsioni poco persuasive con cui Cacciari cerca di motivare la sua scelta sono disseminate a ogni riga. Ma non son queste le pecche peggiori del suo argomentare. Egli fa una ricostruzione storica troppo sommaria e indistinta della sinistra in lotta per le riforme istituzionali. Certo, una intervista non è mica un saggio, anche se condotta da un grande giornalista. E tuttavia egli finisce con lo stabilire un nesso di continuità, diciamo tra la fondazione del Centro per la riforma dello Stato, voluta dal PCI nel 1972, con l'efficace direzione di Ingrao per tutti gli anni '80, e il «brutto topolino» dei nostri giorni. Con linguaggio certamente più fine e colto, Cacciari finisce col dare ragione a tanti giovanotti e fanciulle del PD, che negli ultimi tempi sono andati urlando per le TV d'Italia: finalmente si sta realizzando «la riforma che l'Italia aspettava da 30 anni». Come dimenticare, infatti le grandi manifestazioni popolari, nelle piazze di tutto il Paese, per invocare l'abolizione del Senato? A ricordarcelo sono esponenti politici che, a occhio, 30 anni fa frequentavano le prime classi delle elementari. Ma questo è il follkore...
La sostanza storica è che Cacciari mette insieme cose diverse e soprattutto non scorge la frattura tra le rivendicazioni dei decenni passati, anche sue, e le riforme di Renzi. Intanto ricordiamo che l'esigenza di una riforma dello Stato, nata dentro alcuni settori del PCI, non era ispirata solo da ragioni di efficienza della macchina decisionale, ma soprattutto dalla volontà di un allargamento della democrazia. Abbiamo dimenticato che, sino almeno all'ascesa di Craxi, l'Italia è stata governata, con la cooptazione di qualche forza satellite, da un Partito-Stato, la DC, un monstrum unico in tutto l'Occidente? Per la verità, ricordando le battaglie federaliste degli ultimi decenni, Cacciari non dimentica le ragioni di una maggiore vicinanza delle istituzioni ai cittadini, ma proprio questo rende ancora più paradossale e insostenibile la sua posizione.
A essere tradito oggi è esattamente l'ordito federalista da lui auspicato, a favore di un neocentralismo che sta sottraendo materie importanti alle regioni, soprattutto per quanto riguarda il governo dei propri territori. Il nuovo Senato toglierà ancor più potere alle aree periferiche del Paese – com'è stato persuasivamente argomentato da tanti costituzionalisti di rango – non solo perché non tutti i territori saranno parimenti rappresentati.Ma anche per una ragione più grave e per certi versi drammatica. Ma si ha idea delle lotte che esploderanno all'interno dei Consigli regionali per accaparrarsi il posto di consigliere-senatore? Quanti mesi sottrarranno al lavoro dei nostri governi regionali? Quanta paralisi operativa si creerà?
C'è nel ragionamento di Cacciari, ma soprattutto di tanti altri commentatori, una impropria sopravvalutazione del fattore efficienza della macchina amministrativa. Fattore certo importante, ma spesso secondario. Attribuire al bicameralismo perfetto l'inefficienza dei nostri governi è una lettura semplicemente superficiale della storia politica italiana.Negli anni '70 vigeva il bicameralismo, eppure in quel decennio sono state realizzate le riforme più importanti per la modernizzazione dell'Italia. E il ragionamento vale anche in periferia. Davvero si crede che le nostre regioni, soprattutto quelle meridionali, non siano capaci di utilizzare a pieno i fondi strutturali europei per pura inefficienza? In realtà sono lentissime nel decidere a causa delle lotte intestine trai i vari gruppi che si contendono le risorse e sono in perenne litigio sulle forme, i modi, i luoghi del loro utilizzo. Il guasto è nel corpo del ceto politico e lo si cerca nelle istituzioni.
Ancora più paradossale è però il si di Cacciaci al referendum accompagnato da un giudizio severo sulla riforma elettorale dell'Italicum. Ma dov'è, innanzi tutto, il senso tattico di questa posizione? Già Renzi ha fatto sapere, con la consueta mitezza di modi, che «l'Italicum non si tocca». Figuriamoci quanto sarà disponibile a modificarlo nel caso dovesse vincere il referendum d'autunno. Ma questa distinzione tra legge elettorale e riforma del Senato, che è di tanti attori politici e commentatori, tradisce una grave incomprensione storica di quel che è avvenuto nei paesi capitalistici. E a Cacciari, a tal proposito, dovrei ricordare, allorché usa il termine sinistra, che negli ultimi 15 anni, un arcipelago di intellettuali si è messo a studiare il capitalismo attuale e riesce a leggere in profondità e con capacità di anticipazione i fenomeni sociali e politici del nostro tempo. Quella capacità che la sinistra storica sembra avere ormai definitivamente perduto.
Il dispositivo autoritario contenuto nell'Italicum non è una cattiveria di Renzi. E' un passaggio obbligato, nel contesto del capitalismo globalizzato, di una strategia che oggi appare ineludibile per il ceto politico. Non lo ripeterò mai abbastanza: ceto politico vuol dire una classe professionale, con sempre meno legami con le masse popolari, che vive di politica, cioé di mediazione tra i poteri industrial-finanziari e la società. Tale ceto politico, sia per la sempre minore autonomia d'azione dello Stato-nazione, sia perché necessitato a ridurre sempre di più diritti e welfare non riesce a governare con il consenso dei cittadini.
C'è bisogno di prove? Osservate le statistiche della diserzione delle urne da parte dei cittadini, in Italia come altrove. Se manca il consenso, per governare occorre rafforzare il potere, emarginare il dissenso. Ora non c'è bisogno di temere l'arrivo di un qualche Videla o Pinochet, per allarmarsi. L'Italicum è il completamento di un disegno già in atto, non lo si vede già? Il governo Renzi ha abolito l'articolo 18 e messo i lavoratori in condizioni di piena disponibilità del padronato, combatte apertamente il sindacato, ha elevato a simbolo della sua nuova narrazione un capitalista internazionale come Marchionne, ha insediato la figura del preside-capo nelle scuole, controlla e presidia quotidianamente le TV pubbliche. Forse che non ha dato sufficienti prove di spregiudicatezza e irresponsabilità nel manomettere la Costituzione e spaccare ora il Paese?
Che cosa devono desiderare di più e di meglio i gruppi capitalistici nazionali e transnazionali? Giusto un governo dominato da un capo che comanda un Parlamento di nominati.Eccolo in arrivo... L'Italia ha già conosciuto su scala ridotta lo squallido servilismo, il conformismo asfissiante generato in tutti gli ambiti della società dal potere assunto, a metà anni '80, da Bettino Craxi e dal suo PSI. Oggi incombe su di noi un ben più grave pericolo, perché allora, benché mal messi, esistevano ancora i partiti di massa.Oggi non più. Il pericolo che ci minaccia è enorme, anche senza evocare stadi affollati di prigionieri politici. Allarmante è che un intellettuale della statura di Cacciari non l'abbia ancora capito.

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Alla maggior parte degli Italiani il nome “Montalto di Castro” dice poco; alcuni hanno notato, andando veloci lungo la linea ferroviaria Roma-Genova, questo nome sul muro di una stazione; i più curiosi, guardando fuori dal finestrino, dalla parte del mare, avranno visto in lontananza quattro grossi edifici con un grande, alto camino: una centrale elettrica che, negli anni ottanta del secolo scorso, è stata al centro di vivaci polemiche ecologiche. A dire la verità le centrali di Montalto di Castro sono state due, una nucleare che non è mai stata neanche completata, e quella a olio combustibile che ha funzionato pochi anni e oggi è chiusa. Dopo la grande crisi del 1973, quando il prezzo del petrolio aumentò di dieci volte in pochi anni, il governo italiano avviò dei piani energetici che prevedevano la costruzione di numerose centrali nucleari distribuite in varie parti d’Italia. Cominciò una vivace contestazione antinucleari e rimase in piedi soltanto il progetto di una centrale nucleare da 2000 megawatt, del tipo ad acqua bollente simile a quella che era in funzione a Caorso (Cremona), da localizzare nel Lazio, quasi al confine con la Toscana, in una pianura occupata da campi coltivati, vicino al mare.

Un progetto nato sotto una cattiva stella perché nel 1979 si verificò negli Stati Uniti il primo grave incidente alla centrale nucleare di Three Mile Island, con fusione del nocciolo contenente l’uranio, il plutonio e gli elementi radioattivi formatisi nel processo. Furono avviate inchieste sulla sicurezza nucleare e, nonostante le proteste e i dubbi, il governo italiano decise di iniziare ugualmente la costruzione della centrale di Montalto. Sfortunata davvero, perché nel 1986 si verificò l’altro gravissimo incidente nucleare alla centrale ucraina di Chernobyl. Grande spavento, altre commissioni, altre inchieste parlamentari, in Italia un referendum bocciò la scelta nucleare e nel 1989 fu deciso di abbandonare a metà la costruzione della centrale di Montalto. Fra opere già fatte, fra risarcimento di danni per i contratti in corso, eccetera, il tutto è costato ai cittadini italiani l’equivalente di alcuni miliardi di euro attuali.

Come se non bastasse, sulla base di previsioni errate dei consumi di elettricità, nel 1990 nella stessa località è stata iniziata la costruzione di un’altra centrale, questa volta alimentata ad olio combustibile, con una potenza quasi doppia di quella della defunta centrale nucleare. La centrale, dell’ente elettrico statale, è entrata in funzione nel 1992, ma nel frattempo, grazie ai lauti incentivi dello stesso stato, sono stati costruiti moltissimi impianti che producono la stessa elettricità dal Sole, dal vento e anche dai rifiuti. L’Italia è così venuta a disporre di elettricità in quantità molto superiore a quella richiesta per cui i governi hanno deciso di chiudere le proprie centrali termoelettriche più vecchie, ma anche quella recentissima di Montalto. In tale centrale la produzione di elettricità è scesa, fra il 2004 e il 2006, cioè dopo appena una dozzina di anni di vita, a 12 miliardi di chilowattore all’anno (la metà di quella possibile) ed è continuata a diminuire fino alla chiusura, nel 2011, dopo appena diciannove anni. La centrale di Montalto è ora un rudere che attende una qualche utilizzazione. Qualcuno parla di farne un grande inceneritore di rifiuti, altri di utilizzare lo spazio per il famoso deposito delle scorie nucleari, circa 100 mila tonnellate di materiali radioattivi e pericolosi sparsi per l’Italia, uno scottante problema da decenni irrisolto.

Intanto la centrale è la, nella pianura, ferma. Ogni volta che muore una fabbrica, anche se era sbagliata, anche se per anni i suoi fumi hanno contribuito ai mutamenti climatici, dovrebbe essere un lutto nazionale. Erano belle e grandi caldaie e turbine, costate acciaio e lavoro, erano grandi strutture di cemento costruite da centinaia di lavoratori, in cui erano impiegati centinaia di tecnici e operai. Una fabbrica che chiude è occupazione perduta, sono famiglie che perdono un reddito, ma soprattutto porta con se speranze deluse. Le imprese non perdono mai i soldi, sanno a chi fare pagare i loro errori, i manager escono di scena sempre con lauti premi. E’ il paese che rimane impoverito e ferito e deluso.

Nel caso di Montalto di Castro siamo poi di fronte a dolori e sprechi che potevano essere evitati. Si sapeva che la centrale nucleare era una scelta sbagliata, lo aveva denunciato il movimento antinucleare; anche la costruzione di una così grande centrale termoelettrica era in contraddizione con la scelta governativa di incentivare la produzione di elettricità da fonti rinnovabili. Per evitare futuri errori e sprechi sarà bene che la politica energetica ed industriale prenda decisioni non sotto la pressione di miopi interessi finanziari, ma precedute da corrette analisi e previsioni di che cosa il paese ha realmente bisogno, come è opportuno soddisfare queste necessità e con processi che assicurino duraturi posti di lavoro. Magari ascoltando anche un poco le voci critiche.

Il lavoro deriva dalla produzione di merci, industriali e agricole, e da servizi, i quali richiedono anch’essi sempre “cose” materiali. Le merci e i servizi non sono tutti uguali; alcuni inquinano l’ambiente, altri fanno male alla salute, e la storia mostra che spesso i processi inquinanti e nocivi dopo poco devono essere abbandonati lasciandosi alle spalle terre desolate e dolore.


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di non avere adeguatamente informato e protetto il caporalmaggiore Salvatore Vacca, morto di leucemia a 23 anni per essere venuto in contatto con uranio impoverito durante la campagna di Bosnia del 1998. Il metallo tossico era usato nei proiettili dalle forze NATO di cui il giovane Vacca faceva parte.

L’uranio è un metallo molto pesante (pesa un terzo più del piombo, quasi come il tungsteno), durissimo ed è piroforico: quando un proiettile contenente uranio urta ad alta velocità un corpo metallico (per esempio la corazza di un carro armato), raggiunge altissime temperature, si ossida e il calore liberato è sufficiente a far fondere la corazza di un carro armato o di una fortificazione. Durante l’urto e l’ossidazione una parte dell’uranio si libera sotto forma di finissime particelle di metallo o di ossido che ricadono tutto intorno al punto dell’impatto. L’uranio non solo è radioattivo, ma è anche tossico.

L’uranio era già stato usato dall’esercito nazista durante la seconda guerra mondiale, quando scarseggiava il tungsteno impiegato nei proiettili penetranti. Nel suo libro di memorie il ministro degli armamenti della Germania nazista Albert Speer ha scritto: «Nell’estate del 1943 sono cessate le importazioni di minerali di tungsteno dal Portogallo: ho perciò ordinato di usare le riserve di uranio, circa 1200 tonnellate, per la fabbricazione di proiettili penetranti, dal momento che era stato accantonato il progetto di costruire la bomba atomica». L’impiego dell’uranio come metallo per proiettili penetranti, già presente nelle fertili menti degli ingegneri tedeschi, è rimasto limitato fino a quando non è diventato disponibile in grandi quantità come sottoprodotto delle attività nucleari negli Stati Uniti. La produzione di energia nelle centrali nucleari e nelle bombe atomiche dipende dall’uranio, un elemento che è presente in natura con due isotopi, uguali dal punto di vista chimico, ma con un differente numero di protoni nel nucleo: l’uranio-235 (presente in concentrazione di appena lo 0,7 percento), e l’uranio-238, il più abbondante. Le centrali nucleari liberano calore sottoponendo a “bombardamento” con neutroni l’uranio contenente circa il 3 o 4 percento di uranio-235; le bombe nucleari liberano l’enorme quantità di energia esplosiva in seguito all’urto con neutroni dell’uranio contenente circa 90 percento di uranio-235.

La separazione dei due isotopi si ottiene facendo passare i rispettivi fluoruri allo stato gassoso attraverso speciali “filtri” che lasciano passare prevalentemente il più “leggero” isotopo uranio-235; in queste operazioni di ”arricchimento” dell’uranio-225 si formano dei residui di uranio “impoverito”, costituito quasi esclusivamente dal più “pesante” isotopo-238 (contenente soltanto circa lo 0,2 percento di uranio-235).

Nel corso di mezzo secolo, nei paesi in cui si sono svolte attività industriali di “arricchimento” dell’uranio - Stati Uniti, Francia, Unione Sovietica (l’attuale Russia), e altri - si sono accumulate grandissime quantità di uranio ”impoverito”, mezzo milione di tonnellate negli Stati Uniti, oltre un milione di tonnellate nel mondo, come sottoprodotto e scoria degli impianti di diffusione gassosa. Il complesso militare-industriale ha così pensato che era un peccato buttare via tutti questi residui di uranio-238 e gli ingegneri militari si sono così ricordati che l’uranio impoverito si presta bene per la fabbricazione di proiettili penetranti, è migliore del tungsteno e, proprio per il suo carattere di sottoprodotto industriale, costava meno del tungsteno stesso. Si trattava, insomma, del recupero e riciclo di un rifiuto, secondo i principi della migliore “economia circolare” !

Con l’unico inconveniente che l’uso militare dell’uranio impoverito, radioattivo anche lui e tossico, rappresentava una fonte di pericolo e contaminazione delle persone e dell’ambiente; non solo sono contaminati i combattenti nemici, ma anche i combattenti che l’hanno usato e i civili che percorrono strade o territori in cui permangono residui di polvere di uranio, di questo “metallo del disonore”, secondo il titolo di un documentato libro sull’uso militare dell’uranio impoverito.

Durante la guerra del 1991 in Iraq l’esercito americano ha usato e disperso nell’aria e sul suolo circa 500.000 chili di uranio impoverito; molti soldati americani sono stati contaminati e hanno manifestato una speciale malattia, la “Sindrome del Golfo” con effetti anche mortali. Molti reduci americani hanno chiesto e ottenuto dei risarcimenti dal loro governo.

E’ stato stimato che oltre tremila militari italiani nelle forze NATO in missione di pace in Bosnia e nel Kosovo siano stati esposti al metallo tossico usato nei proiettili dei cannoni e dei carri armati e che oltre trecento siano morti per questa causa. Molti reduci hanno chiesto giustizia al governo italiano senza successo. Soltanto dopo 14 anni una qualche giustizia è stata resa almeno al caporalmaggiore Vacca.

Ci sarà una città o un paese che intitolerà una via o una piazza ai “Caduti di guerra avvelenati dalle armi del proprio esercito”? Senza contare che nessuno aiuterà a riconoscere le malattie, dovute ad una così subdola causa, comparse negli abitanti dell’Iraq meridionale, o negli abitanti della ex-Jugoslavia, una volta che sono tornati nelle loro terre devastate e contaminate; chi li aiuterà a guarire, chi riconoscerà la causa della loro morte nell’uranio radioattivo, “brillante” frutto di una tecnologia che non si ferma neanche davanti ai danni alla vita di persone inermi e all’ambiente?

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Sul futuro urbanistico di Milano e della sua area metropolitana si addensano nubi nere; ma il temporale era già annunciato dalle scelte della Giunta Pisapia... (continua la lettura)

Sul futuro urbanistico di Milano e della sua area metropolitana si addensano nubi nere; ma il temporale era già annunciato dalle scelte della Giunta Pisapia. Recentemente ho avuto l’occasione di analizzare e commentare i dati sull’andamento demografico e occupazionale di Milano e Provincia negli ultimi due decenni 1991-2001 e 2001-2011 (in un saggio che ho intitolato Milano: da metropoli fordista a Mecca del real estate)[1]. I risultati della mia analisi sono preoccupanti: evidenziano l’emergere, nell’ultimo decennio considerato, di una tendenza a un dualismo produttivo-residenziale che divide il centro dall'hinterland metropolitano, generando crescenti movimenti pendolari. Tutto lo sviluppo demografico si è localizzato nell'hinterland, mentre tutto lo sviluppo occupazionale si è localizzato esclusivamente nel comune di Milano: indice quest'ultimo (+9,17% e +0,17% rispettivamente nel comune centrale e nell'hinterland) di una cesura gravissima nell'integrazione produttiva che aveva caratterizzato la regione urbana in tutto il periodo dal boom economico alla fine del secolo.

Il titolo, che può apparire enfatico, vuole dunque sottolineare una specificità drammaticamente negativa del capoluogo lombardo: lo strapotere esercitato da almeno 20 anni dalla finanza immobiliare; una specificità che non sembra destare alcuna preoccupazione nei due candidati maggiori alle prossime elezioni comunali: né, ovviamente, in quello del centro-destra (Stefano Parisi), né, e questo è molto più preoccupante, in quello del centro-sinistra (Giuseppe Sala). E infatti, nel merito i loro programmi sono purtroppo molto simili. Entrambi hanno già affermato che l’Accordo di Programma sugli Scali Ferroviari verrà onorato, malgrado l’incidente di percorso che ha visto finalmente emergere un dissenso all’interno della maggioranza uscente. Entrambi, da manager quali sono, hanno lodato l’urbanistica milanese, quella della deregulation, quella del PGT rimediale e meramente quantitativo, come un modello da perseguire e irrobustire. Entrambi perseverano nell’elogio sperticato dei grandi progetti realizzati a Milano e nel sottolineare il formidabile successo di EXPO2015 (e il conseguente brillante posizionamento competitivo di Milano nel mondo, assolutamente indimostrato e indimostrabile).

Effettivamente a Milano si è costruito molto.

I dati sugli addetti al settore delle costruzioni lo confermano. Se nel passato, e anche nel decennio 1991-2001, lo sviluppo dell'occupazione aveva evidenziato una crescita dell'attività edilizia esclusivamente nell'hinterland e una caduta nel centro urbano, del tutto in linea con le tendenze demografiche, nell'ultimo decennio si è verificato invece un vero e proprio ribaltamento. I dati evidenziano infatti una sorta di boom edilizio nel centro metropolitano, con una crescita degli addetti pari a oltre il 16%: circa il doppio del tasso di crescita registrato nell'hinterland e cinque volte superiore al tasso di crescita medio nazionale. Un simile indicatore di crescita quantitativa, una crescita peraltro ben visibile nella città, confligge tuttavia con le tendenze rilevate sul fronte demografico che segnalano una ulteriore perdita di popolazione a Milano (-4,26%) e una crescita robusta dell’hinterland (+8,99%).

Per quale tipo di popolazione si è costruito recentemente? All'evidenza, non si è manifestata quella tendenza al ritorno di popolazione verso il centro metropolitano, superficialmente attesa da tanti sostenitori dello sviluppo edilizio quantitativo concesso dai Piani di Governo del Territorio delle amministrazioni di centro-destra (ma anche, sia pure in misura inferiore, dal governo di sinistra), né (fortunatamente) il temibile obiettivo di riportare Milano agli ‘splendori’ degli 1,8 milioni di abitanti della fine degli anni ‘60, sbandierati dall’assessore all’urbanistica della giunta Moratti. Evidentemente, il differenziale di prezzo milanese rispetto alle cinture esterne non ha controbilanciato il limitato, e in alcuni casi anche nullo, differenziale di qualità urbana offerto dal polo centrale alle classi medie e medio basse.

Si è costruito nel cuore metropolitano per una domanda internazionale a carattere prevalentemente finanziario, che certamente fin qui si è manifestata ma le cui aspettative potrebbero facilmente cambiare non appena si avvedesse dei limiti dell'offerta immobiliare milanese. Si tratta di limiti che riguardano la qualità, sia edilizia che urbanistica, e il rapporto qualità/prezzo - come si dice senza giri di parole nel settore, il value for money. Una domanda internazionale che comunque non è sufficiente per colmare un'offerta, oggi largamente sovradimensionata, che si risolve in una montagna di appartamenti costosissimi in vendita o sfitti, mentre il disagio abitativo si fa sempre più drammatico.

In assenza di una visione condivisa e di precisi impegni per una sua coerente realizzazione, si sono negli ultimi 20 anni inventate effimere grandi funzioni urbane per legittimare, anche attraverso i concorsi internazionali di architettura, una trasformazione delle aree più centrali o accessibili dettata da pure logiche di mercato. Né le varie amministrazioni che si sono alternate alla guida del Comune si sono sentite obbligate a renderne conto alla città, in quanto l’accountability è stata considerata con continuità un inutile orpello.

Nel prossimo futuro Milano rischia di sprecare anche l’ultima cruciale occasione per realizzare un autentico policentrismo: quella relativa al riuso degli scali ferroviari dismessi. Anziché utilizzare, trattandosi di aree ad alta accessibilità pubblica, rigorosi criteri di localizzazione di nuove funzioni di irraggiamento metropolitano, una Bozza di Accordo di Programma fra Comune e Ferrovie dello Stato ha proposto nel 2015 di spalmare in maniera pressoché indifferenziata 670.000 mq di superficie di pavimento, prevalentemente a destinazione residenziale[2].

Da questo modello di urbanistica Milano ha guadagnato davvero in attrattività, così come sbandierato quotidianamente dai candidati sindaci, dai loro partiti di riferimento, nonché da Renzi e compagni?
Può essere utile, anche se certamente non entusiasmante, scorrere per intero l’ultimo rapporto sugli investimenti immobiliari esteri in Europa nel 2015 “Emerging Trends in Real Estate”. Il rapporto ha suscitato qualche campanilistico entusiasmo nelle pagine locali dei quotidiani milanesi, poiché ha segnalato la presenza del capoluogo lombardo, unica città italiana, fra le 10 maggiori “piazze” europee, con 4 miliardi di euro di investimenti nel 2014-2015. Ma uno sguardo ai commenti più puntuali relativi alle città inserite nella classifica appare molto più interessante di quelli relativi ai miliardi investiti. Berlino, la più attrattiva in prospettiva, viene giudicata tale per il suo potenziale di sviluppo nelle tecnologie avanzate, per il capitale cognitivo, per una forte immigrazione di giovani con formazione di alto livello, per la abbondanza di offerta abitativa in affitto a basso prezzo (e quindi, con ampi margini di aumento (sic!)). Anche per tutte le altre città predilette dagli investimenti immobiliari vengono evidenziati alcuni elementi di qualità urbana e di progettualità pubblica. Per Milano invece non una parola sui vantaggi localizzativi offerti dalla città, ma soltanto la citazione degli acquisti immobiliari recenti di due grandi investitori internazionali, nonché una estrapolazione sul futuro di questi acquisti che pare, come ho già sottolineato, azzardata[3].

Che ne è dell’hinterland, nel modello neoliberista trionfante in area milanese? È il grande sacrificato poiché, in assenza di un disegno strategico metropolitano, continueranno a prevalere i localismi competitivi fra comuni e i processi imitativi delle pratiche milanesi, inevitabilmente ‘al ribasso’: infatti Milano ha fatto scuola anche per gran parte dei comuni dell’area metropolitana[4]. Né questo protratta, e “mostruosa” direbbe Mario De Gaspari, alleanza fra amministrazione locale e interessi della finanza immobiliare sembra poter trovare nel governo metropolitano un autorevole attore, capace di rimettere in discussione le regole del gioco: ad esempio attraverso un piano strategico davvero di scala e ambizione metropolitana; e, soprattutto, attraverso una profonda revisione dei criteri che presiedono al negoziato pubblico/privato.

La Città Metropolitana di Milano appare infatti evanescente come un ectoplasma; così come totalmente evanescente appare il Piano Strategico recentemente presentato con il solito stucchevole trionfalismo. Sorge il sospetto che i Comuni, in primis Milano, abbiano assecondato, se non addirittura gradito, un’istituzione metropolitana così debole come è quella scaturita dalla legge regionale n. 92/2015[5] (si veda Grand Lyon Métropole e Città Metropolitana Milanese: un confronto impari), allo scopo di mantenere un controllo saldo ed esclusivo sulle proprie competenze.

La Giunta Pisapia ha perso l’occasione di promuovere una svolta davvero radicale in materia di politiche urbanistiche: ha adottato, nella revisione del PGT, una strategia “rimediale” meramente quantitativa; ha lasciato i rapporti di forza pubblico/privato immutati; ci ha regalato come grande innovazione del PGT il concetto di indifferenza funzionale che autorizza il “mix funzionale libero” (un vero e proprio ossimoro urbanistico con cui si è consentita al privato piena libertà di intervento su tutto il tessuto consolidato della città: esemplare per la sua indesiderabilità, ma simile a molti altri, il progetto per lo stadio del Milan al Portello, in pieno centro, saltato soltanto per il mancato accordo fra l’ente Fiera e il Milan); ha trascurato il tema, cruciale in un contesto decisionale ampiamente deregolato, della trasparenza. Nelle buone pratiche internazionali, i risultati degli accordi negoziali per quanto concerne il vantaggio pubblico e il vantaggio privato sono accessibili in Internet; dove c’è opacità si apre la strada a scelte sub-ottimali, quando non a progetti inaccettabili o a fenomeni corruttivi.

In estrema sintesi, a Milano si è rinunciato a qualsivoglia regia pubblica nelle politiche urbanistiche.
E le prossime elezioni del sindaco di Milano non sembrano riservare sorprese liete: anzi, un futuro ancora peggiore… se è possibile.

note
[1] In via di publicazione sul prossimo numero di Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali.
[2] Si tratta di 7 scali ferroviari con una superficie in dismissione di ben 1.100.000 mq. La bozza di Accordo di Programma, a cui si lavorava dal 2005 nelle segrete stanze del potere, è decaduta nel dicembre 2015 per l’ostruzionismo non solo dell’opposizione, ma anche di parte della maggioranza, evidenziando, nella fase conclusiva del mandato del sindaco Pisapia, una dialettica politica inattesa, ma destinata probabilmente a costituire un’eccezione date le prospettive elettorali. Si vedano G. Goggi, “Solo un frammento del problema urbanistico: gli scali ferroviari”, in arcipelagomilano.org, 16 dicembre 2015; M. Monte, “Scali ferroviari: oltre l’approccio immobiliare”, in arcipelagomilano.org, 26 aprile 2016.
[3] A proposito di Milano si scrive soltanto: «Overseas investors are pouring capital into the city: Qatar Holding consolidated its interest in Milan’s new Porta Nuova project, while China's Fosun group spent €345 million on its first Italian purchase, UniCredit’s former headquarters, the historic Palazzo Broggi, and Partners Group acquired two prime office properties in the centre of Milan for €233 millionı (PricewaterhouseCoopers(PwC), Urban Land Institute: Emerging Trends in Real Estate® Beyond the capital Europe 2016: 39).
[4] Nei PGT dei comuni dell’hinterland, le rilevanti previsioni edificatorie segnalano una inesauribile, e insostenibile, propensione per un’espansione residenziale destinata a produrre ulteriori consumi di suolo agricolo; nel riuso di grandi aree dismesse, domina invece incontrastato lo shopping mall con il corredo di multisale, residenze, alberghi, nuove infrastrutture stradali o ampliamento di quelle esistenti: un vero affare per la lobby del cemento e del movimento terra. I più importanti, recenti, e contrastati dalla popolazione e dai piccoli commercianti: l'Arese Shopping Center, da poco inaugurato, sull’area ex Alfa Romeo a Nord Ovest del capoluogo lombardo (120.000 mq. di pavimento sui quali si insedieranno anche i giganti dell’abbigliamento low-cost) e lo “Westfield Milan”, di futura realizzazione sull’area, prossima all’aeroporto di Linate, dell’ex dogana di Segrate di proprietà delle Ferrovie italiane (pubblicizzato come lo “shopping mall di lusso più grande d’Italia”: 235.000 mq e l’arrivo, annunciato trionfalmente, delle Galeries Lafayette).
[5] La Regione Lombardia ha ulteriormente ridimensionato le già deboli competenze delegate dalla legge Delrio alle Città Metropolitane, riaccentrando tutte le funzioni precedentemente esercitate dalla Provincia di Milano. Si tratta di competenze che dovrebbero costituire ambiti fondamentali per la sostenibilità economica, ambientale e sociale del territorio metropolitano: l’agricoltura, la cultura, l’ambiente e l’energia.

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Vi immaginate una repubblica con poco più di 50 mila abitanti che cita in tribunale il gigante mondiale, gli Stati Uniti? Per trovare questa repubblica, denominata delle Isole Marshall, dovete prendere un mappamondo, guardare l’immenso Oceano Pacifico, cercare proprio a metà, fra l’Australia e le Isole Hawaii, all’altezza dell’equatore; farete fatica a riconoscere un puntino che indica una catena di isole coralline, distanti fra loro centinaia di chilometri; è questo il territorio della minuscola repubblica di cui parlo. Sarà stato perché negli anni quaranta del secolo scorso erano state affidate come “mandato” agli Stati Uniti, sarà stato perché erano lontane da altri paesi abitati, sta di fatto che sono state scelte per condurre una serie di esplosioni sperimentali di bombe atomiche americane.

Anche se così lontane da tutti, le isole Marshall hanno avuto una interessante storia; già tremila anni fa sono state visitate da marinai e pescatori provenienti dalle coste dell’America meridionale, dall’Australia e dall’Asia orientale, che percorrevano il mare sterminato con zattere capaci di resistere alle tempeste oceaniche. Sono state poi scoperte dai navigatori europei, spagnoli, prima di tutto, poi inglesi fra cui il capitano John Marshall che visitò le isole nel 1788 e le dette il proprio nome; le isole rimasero proprietà spagnola fino al 1884 quando la Spagna “le vendette” alla Germania. Rimasero tedesche fino alla prima guerra mondiale quando i giapponesi le occuparono e ne ebbero il mandato fino alla seconda guerra mondiale, durante la quale furono occupate dagli americani che vi costruirono una base militare.

La prima bomba atomica, dopo quelle di Hiroshima e Nagasaki, fu esplosa nel luglio 1946 nell’isola di Bikini, una corona di rocce coralline intorno ad una laguna nella quale furono poste varie navi militari in disarmo, per vedere che effetto la bomba avrebbe fatto su una flotta. Affondarono tutte e l’America esultò per la potenza della nuova arma, un avviso per l’Unione Sovietica con cui era cominciato una “guerra fredda”. La bomba di Bikini fu battezzata ”Gilda” dal nome della protagonista di un omonimo film di successo interpretato dall’”esplosiva” bellezza di Rita Hayworth; uno stilista chiamò “bikini” il costume di bagno in due pezzi che permetteva alle signore di esporre i propri “esplosivi” attributi femminili. Solo dopo molto tempo si sarebbe saputo che le polveri radioattive gettate nell’atmosfera dalle bombe atomiche e nucleari esplose nelle solitarie isole Marshall, a Bikini fra il 1946 e il 1958 e ad Eniwetok dal 1948 al 1958, avrebbero provocato centinaia di morti per tumori. La bomba termonucleare usata nel marzo 1954 nel test “Bravo” aveva una potenza distruttiva equivalente a quella di 13 milioni di tonnellate di tritolo (cinquecento volte superiore a quella della bomba di Hiroshima) e polverizzò una parte del suolo corallino dell’isola di Bikini.

Gli Stati Uniti risarcirono con soldi gli abitanti che erano stati spostati dalle loro isole, spesero cifre enormi per “grattare” via il suolo contaminato dalla radioattività; alcuni abitanti furono riportati sul luogo e alla fine gli fu riconosciuta, nel 1986, la sovranità sulle loro travagliate isole che ora hanno una bandiera, un piccolo parlamento e un seggio all’assemblea delle Nazioni Unite.

Nel frattempo i vari paesi dotati di bombe nucleari, hanno continuato a collaudare i loro arsenali facendo esplodere circa duemila bombe nucleari nell’atmosfera e poi nel sottosuolo e hanno continuato a perfezionare e tenere in funzione le bombe esistenti, oggi oltre 10.000 in nove paesi, Stati Uniti, Russia, Cina, Regno Unito, Francia, India, Pakistan, Israele, Corea del Nord. Altre bombe nucleari sono distribuite in altri paesi, fra cui l’Italia che ”ospita” bombe termonucleari americane a Ghedi (Brescia) e Aviano (Pordenone).

Dal 1968 esiste un trattato di non proliferazione nucleare (NPT) firmato da tutti i paesi (ad eccezione di Israele, India, Pakistan e Corea del Nord) che avrebbe dovuto limitare la fabbricazione di armi nucleari e anzi, nel suo articolo VI, impone a tutti gli aderenti di procedere ad un totale disarmo nucleare, un impegno mai rispettato, con la scusa che il possesso di armi nucleari da parte di un paese scoraggia altri da usarle, il principio della deterrenza. Ricordando quello che avevano sofferto, gli abitanti delle isole Marshall si sono arrabbiati e hanno deciso di intraprendere delle azioni legali contro i paesi nucleari. Hanno cominciato a fare causa al governo degli Stati Uniti presso un tribunale della California per violazione del NPT di cui è firmatario; il tribunale ha respinto l’accusa ma si sono messi in moto delicati problemi di diritto internazionale. Come se non bastasse la Repubblica delle Isole Marshall ha denunciato presso la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja tutti i nove stati nucleari per la violazione degli obblighi di disarmo imposti da una precedente sentenza della stessa Corte.

Il dibattito è in corso ed è un peccato che non se ne parli in Italia. Di disarmo nucleare ha parlato invece Papa Francesco nel messaggio inviato nel dicembre 2014 alla Conferenza di Vienna sull’”impatto umanitario delle armi nucleari ricordando che «le armi nucleari hanno il potenziale di distruggere noi e la civiltà», le armi nucleari come tali, non quelle di un paese o dell’altro paese, proprio per il solo fatto di esistere, e ha concluso: «Un mondo senza armi nucleari è davvero possibile». Speriamo che qualcuno lo ascolti.

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, il movimento cresciuto in pochi mesi, di oltre... (continua la lettura)

, il movimento cresciuto in pochi mesi, di oltre 100 Associazioni, 22 sigle sindacali e 9 fra partiti e movimenti politici, ha deciso che questa esperienza - preziosissima - non possa che essere l'inizio di un percorso.

Nato per contrastare la deriva che ha investito il nostro patrimonio culturale e paesaggio attraverso le riforme Franceschini e leggi quali SbloccaItalia, legge Madia, Codice degli Appalti e ddl sul consumo di suolo, Emergenza cultura è riuscito, in pochi mesi, a coalizzare un gruppo sempre più vasto di persone, di esperienze, di conoscenze di altissimo livello culturale, sociale, civico. Perché al contrario di chi ha pensato le riforme del Mibact, lo strumento che ci ha guidato per contrastare quello che riteniamo un gravissimo attacco all'art. 9 della Costituzione, è stato il confronto, la discussione, l'ascolto reciproco di posizioni diverse. Insomma, l'esercizio di quel senso critico che riteniamo essere uno degli obiettivi primari cui porta la conoscenza del nostro patrimonio culturale.

Lo si è capito benissimo nell'affollatissimo convegno del 6 maggio al Centro Congressi di Roma. Tantissime le analisi, i commenti, i racconti delle esperienze e delle iniziative che ruotano attorno ai beni culturali e al paesaggio: quasi da sopraffare per complessità e vastità dei problemi e del loro intreccio. Un’amplissima disamina delle ragioni del patrimonio - dalle Soprintendenze agli archivi, dalle Biblioteche ai Musei, ai cantieri di scavo - che ha impietosamente rivelato lo stato di preparalisi di tantissimi Istituti e luoghi della cultura, non più in grado di svolgere le funzioni loro assegnate per una mancanza di risorse ormai più che decennale. Asfissia aggravata dall'insipienza amministrativa che ha guidato gli ultimi provvedimenti ministeriali, a partire da quello sulla mobilità interna del personale, costretto ad un'autogestione imbrigliata in criteri opachi e contraddittori.

Ma poi anche le iniziative "dal basso", di Comitati ed Associazioni, che in questi tempi così faticosi si affiancano nell'opera di denuncia, ma anche, spesso, svolgono un'efficace azione civica a tutela di patrimonio e paesaggio.

E assieme, l'analisi puntuale dei provvedimenti normativi, nella pericolosità derivante dal loro carattere sistemico; pur se farraginosi, giuridicamente deboli e talora contraddittori, decreti e leggi di quest'ultima stagione sono accomunati in realtà da una coerenza ferrea: la ridefinizione sistematica della pubblica amministrazione mirata ad una compressione radicale delle sue competenze e funzioni. Quelle funzioni che permettono ad uno Stato degno della maiuscola, l'esercizio dei principi costituzionali, compreso quindi l'art. 9.

Ma assieme, fra questi interventi troverete (sul sito emergenzacultura.org) l'analisi della latitanza e conclamata inadempienza del Ministero, nell'insieme della sua componente dirigenziale, di fronte a qualsivoglia funzione di programmazione di area vasta, a partire da quella cruciale connessa alla pianificazione paesaggistica.

E lo svelamento articolato nel dettaglio e supportato da cifre e dati inequivocabili del carattere velleitario, e spesso dannoso delle ultime "invenzioni" della riforma: dalle Soprintendenze "olistiche" (e quindi sulla necessità delle specializzazioni, non come territori circoscritti, ma come rivendicazione della supremazia del sapere scientifico su quello amministrativo), ai poli museali regionali (un limbo di strutture eterogenee con finalità velleitarie quali i "sistemi museali regionali") alla così detta Scuola del Patrimonio (un ircocervo senza alcuna precisa visione culturale).

E, infine, e non certo per importanza, le ragioni del mondo del lavoro: dalla delegittimazione costante del personale interno alle condizioni incivili di precariato cui sono costretti ormai molte migliaia di giovani che pur in situazioni al di sotto della dignità professionale (dai tirocini, ai voucher, dagli stages ai contratti a 5 euro lordi l'ora per studiosi spesso plurispecializzati e dottorati) contribuiscono - tutti i giorni - e in modo sempre più determinante, a far funzionare archivi, biblioteche e musei, a catalogare il patrimonio, a gestire migliaia di cantieri archeologici l'anno.

Nella propaganda governativa delle riforme Franceschini e del miliardo per la cultura, non un solo centesimo è assegnato alla tutela del paesaggio, o per il miglioramento delle condizioni professionali del personale - interno e non - cui è affidato il compimento dell'art. 9.

Gli eventi di emergenza cultura, che hanno trovato una loro perfetta continuità nel convegno - partecipatissimo - organizzato a Bologna dalla locale sezione di Italia Nostra il 13 maggio, oltre ad un indubbio successo mediatico, hanno ottenuto altri risultati straordinari: riunire verso un obiettivo comune, gruppi che sinora avevano proceduto su strade separate, e addirittura confliggenti.

Oltre al personale del Mibact, il mondo dell'Università, quello del precariato, i sindacati, gli operatori culturali sul territorio, i comitati civici, le Associazioni a tutela del patrimonio e di categoria, partiti e movimenti politici, il mondo intellettuale che si sta mobilitando in difesa della Costituzione per il No al Referendum. Perché, come è stato sottolineato da molti, a partire da Salvatore Settis, nella Costituzione - con sapiente costruzione - i vari articoli si richiamano l'un l'altro, necessitandosi: così la difesa dell'art. 9, si ricollega direttamente agli articoli 1, 3, 4, 33, 35, 36...

Credo che per i lavoratori del Mibact sia stato il momento dell'orgoglio ritrovato, per quello delle Università, il rinnovarsi della consapevolezza che la ricerca - ciò che lega tutela, valorizzazione, insegnamento - è tale solo se pienamente libera e non ammette cesure istituzionali, per i precari, la speranza che la loro condizione diventi una battaglia allargata: perchè il futuro di questo Ministero passa anche e soprattutto attraverso di loro. Inevitabile, adesso, che questa esperienza prosegua e, accanto e oltre la denuncia, riesca a costruire una diversa proposta per l'attuazione dell'art. 9.

Non sarà semplice, ma intendiamo "usare" le energie intellettuali e le competenze emerse in chi si riconosce in "Emergenza cultura", innanzi tutto per elaborare dei correttivi all'attuale quadro normativo e proporre, di conseguenza, una diversa e più efficace attuazione di quanto prescrive il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. È un impegno complesso, soprattutto perché passa attraverso un obiettivo ineludibile, che è quello dell'allargamento del "popolo dell'art. 9".

Abbiamo il dovere, prima di tutto, di ampliare la platea di chi riconosce l'importanza cruciale di quell'articolo come strumento di consapevolezza civile. La "democratizzazione" del patrimonio culturale è un passaggio ancora incompiuto della nostra democrazia: dalla ristretta platea di una colta élite di frequentatori di musei e monumenti, siamo approdati alla folla dei turisti consumatori, teleguidata nelle scelte. È successo in pochi decenni, senza mediazioni, anche per colpa nostra: abbiamo il dovere di recuperare, in fretta e aiutare a costruire una maggioranza di cittadini che, in quanto tali, rivendicano un diverso modo di accesso al patrimonio, più consapevole e critico.

Dopo il 7 maggio, però, sappiamo di possedere entrambi i "figli" della speranza:
La speranza ha due bellissimi figli, lo sdegno e il coraggio.
Sdegno per le cose come sono e coraggio per cambiarle.

Sant'Agostino

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“Economia circolare” è un termine diventato di moda da alcuni anni per descrivere le tecnologie di riciclo dei rifiuti e le tecnologie “verdi”, presentate come grande novità. In realtà in tutte le società umane, a cominciare da quelle antichissime, il riutilizzo delle cose usate e dei residui è stata pratica non solo saggia, ma necessaria per sopravvivere in un mondo in cui le risorse materiali disponibili sono sempre state limitate. Un dimenticato episodio di economia circolare riguarda la Puglia e la sua importante produzione di olio di oliva. L’olio di oliva è un alimento ottenuto nei paesi mediterranei, da almeno tremila anni, macinando le olive; la pasta omogenea risultante viene poi pressata facendone colare l’olio insieme ad una parte dell’acqua dalla quale l’olio è poi separato. Il contenuto di olio è di circa 15-20 chili per ogni 100 chili di olive; dalla spremitura restano circa 40-50 chili di un panello umido (la sansa) contenente ancora circa 2-3 chili di olio.

La sansa per secoli era considerata un rifiuto, buttata via o bruciata o dispersa nel terreno, anche con qualche beneficio perché contiene piccole quantità di sali potassici. L’imprenditore pugliese Vito Cesare Boccardi (1835-1878), durante un viaggio in Germania, intorno al 1865 venne a conoscenza della possibilità di estrarre il grasso dalle ossa mediante solfuro di carbonio. Il solfuro di carbonio è un liquido volatile, con odore sgradevole, infiammabile e tossico da respirare, che era stato ottenuto nel 1796 dal chimico tedesco Lampadius scaldando insieme pirite di ferro (solfuro di ferro) e carbone; si libera così un vapore facilmente condensabile, il solfuro di carbonio, appunto, con formula CS2, un atomo di carbonio legato a due atomi di zolfo, che si rivelò subito un buon solvente dei grassi.

I primi brevetti per l’estrazione del grasso dalle ossa, anche questa un’operazione di economia circolare, di recupero di materie commerciabili da un sottoprodotto della macellazione, erano stati assegnati al chimico francese Edouard Deiss già nel 1855.

Poco dopo la ditta tedesca C.O.Heyl di Moabit, alla periferia di Berlino, estraeva con solfuro di carbonio olio dai pannelli di vari semi oleosi. Boccardi (1835-1878) pensò di applicare il processo alle sanse di oliva per ottenere olio da trasformare in sapone, in un suo sansificio a Molfetta. Sorsero in breve tempo vari stabilimenti che operavano con ciclo integrale: estraevano olio dalle olive, poi recuperavano dalle sanse l’olio residuo usando come solvente il solfuro di carbonio che essi stessi producevano.

Nel 1869 con capitali francesi fu creata a Bari la “Società delle olierie e saponerie meridionali”, diretta dai signori Marius Gazagne e Sarlin; lo stabilimento, sito nella zona dell’attuale Fiera del Levante, produceva solfuro di carbonio e olio di sansa. Un articolo del 1883 afferma che la fabbrica produceva ogni giorno 1200 chili di solfuro di carbonio e 7000 chili di olio di sansa. A Milazzo nel 1873 la ditta Zirilli produceva anch’essa solfuro di carbonio e olio di sansa. Nel 1883 simili stabilimenti esistevano, oltre che in Puglia e in Sicilia, anche in Toscana.

Si ha notizia che imprenditori pugliesi presentarono, con successo, nelle esposizioni merceologiche, dei campioni di olio di sansa al solfuro. Dapprima l’olio di sansa, di colore verde intenso per la clorofilla che veniva estratta insieme all’olio, era considerato non adatto ad uso alimentare e veniva impiegato per la fabbricazione del sapone, apprezzato perché, per il suo elevato contenuto di acido oleico, permetteva di ottenere dei saponi meno duri di quelli ottenuto con grassi ricchi degli acidi palmitico e stearico. L’”olio al solfuro” era oggetto di esportazione, specialmente negli Stati Uniti; un saponificio di Milwaukee fondato nel 1864 da un tale Caleb Johnson, nel 1898 diede il nome “palmolive” al sapone, dal caratteristico colore verde, fatto con gli acidi grassi dell’olio di sansa di oliva italiano. La fabbrica fu poi assorbita dal saponificio Colgate e il nome “Palmolive” è ora marchio di fabbrica di questa multinazionale dei detergenti.

Queste operazioni di antica economia circolare non erano prive di inconvenienti: I sansifici che producevano olio al solfuro erano soggetti a esplosioni e incendi ed erano inclusi fra le industrie esposte a rischio di incidenti rilevanti, da localizzare fuori dalle città. Per questo motivo già agli inizi del Novecento il solfuro di carbonio fu sostituito con benzina o altri idrocarburi meno pericolosi.

Con vari perfezionamenti è stato possibile eliminare colore e sapori sgradevoli dall’olio di sansa e farne un olio adatto ad usi alimentari. Con successo, perché già negli anni trenta del Novecento era prevista la vendita di olio alimentare di sansa, il cui prezzo era inferiore a quello dell’olio di pressione, col quale poteva anche essere miscelato, nel qual caso era denominato “Olio di sansa e di oliva”. Il favore ricevuto dall’olio di sansa presso i consumatori meno abbienti spinse gli industriali dell’olio di oliva a chiedere ai vari governi di applicare all’olio di sansa una imposta di fabbricazione che ne facesse avvicinare il prezzo a quello degli oli di pressione, naturalmente con le proteste dei proprietari dei sansifici che erano in genere piccoli stabilimenti diffusi nelle zone di produzione delle olive.

L’olio di sansa è ancora prodotto e commerciato; le sanse esauste, dopo l’estrazione dell’olio, trovano impiego come miglioratori del terreno o come combustibili, altra prova che l’economia può operare a cicli sempre più chiusi.

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Tanto tempo fa, veniva individuato tra gli obiettivi delle politiche per la casa quello di raggiungere il traguardo, allora ambizioso, di un abitante per stanza. Obiettivo chiarissimo nelle sue finalità sociali, sanitarie, e più in generale urbanistiche come spiegava con notevole dettaglio e preveggenza quello straordinario opuscolo intitolato modestamente Cottage Plan And Common Sense, in cui molto sottotono Raymond Unwin delineava la propria versione di quello che una generazione più tardi si sarebbe detto «dal cucchiaio alla città». E citare proprio Unwin, il teorico del sobborgo giardino, anziché un apparentemente più congruo antenato dell'urbanistica razionalista, ha un senso preciso qui, dato che sarà proprio l'ambiente suburbano a raggiungere quel traguardo, seguito più tardi e in forme diverse dalla città-macchina industriale. Un abitante una stanza, ma anche per esempio un veicolo un passeggero, un prodotto specifico mirato ad ogni consumatore, più tardi con le ultime evoluzioni tecnologiche e organizzative una centrale di comunicazione per ogni individuo, o addirittura tendenzialmente una unità locale produttiva per ciascuno. Tutto comincia però, anche secondo studi sistematici di sociologia, con quella disponibilità inaudita della stanza personale, fin dagli anni della formazione: il ritratto dell'eremita da giovane.

Nella stanzetta personale messa a sua disposizione dall'evoluzione della casa familiare moderna, il bambino/bambina poi adolescente e magari anche giovane adulto, inizia a perseguire un proprio percorso esistenziale, secondo vaghi ideali un tempo inseguiti solo da pochi privilegiati, fra cui spicca la figura dell'eremita meditante. È in quel tipo di sottrazione consapevole e per nulla ostile, al trambusto e condizionamenti reciproci della «pazza folla», che si intravedono certe tendenze contemporanee, così diverse dalla solitudine dell'essere umano «solo al comando», che su quella folla più o meno numerosa vuole esercitare qualche tipo di potere: si tratti anche solo di quello del capofamiglia sui parenti e sulla casa. Così come l'eremita meditante solitario, anche altre figure del tutto storicamente accettate e consolidate esprimono, anche se in qualche modo part-time, la medesima aspirazione: il giovane o la giovane che «aspetta di sposarsi» per un periodo più o meno lungo, magari senza farlo mai; i separati o divorziati; i vedovi, e in generale chiunque per amore o per forza si ritrova a vivere una condizione distinta dal mainstream familiare e sociale. Il fatto che non si tratti di devianza, è ribadito sia dalla persistenza storica di figure del genere, sia da uno sguardo non distratto all'evoluzione dell'offerta di strutture, prodotti, servizi, che con notevole rigidità si orientano però in quella direzione.

Rigidità è per esempio e paradigma quella della forma della casa citata in apertura, sia nel progetto «familiare», sia nell'organizzazione dei quartieri quando esiste qualcosa del genere, sia nella gestione e amministrazione del servizio casa quando questo entra a far parte dei programmi di welfare. Qui nemmeno l'approccio razionalista ed efficientista industriale riesce a andare oltre certi studi meccanici del filone existenzminimum, se è vero che di fatto poi la produzione di abitazioni, e soprattutto la gestione del grande comparto pubblico, resta ancorata al modello granitico della famiglia nucleare. Al punto che in tantissimi paesi, segnatamente la Gran Bretagna dove di fatto si è quasi «inventato il modello», dopo diverse generazioni si scontano ancora diseconomie e polemiche politiche di grande rilievo, quando l'assegnazione e godimento di alloggi pubblici vede una incredibile discrasia tra domanda e offerta, soprattutto a fronte della crescita esponenziale di famiglie di una sola persona a occupare per vari motivi spazi enormi. Un relativo lusso, certo, ma a spese di altri.

C'è poi l'approccio neoliberale mercatista, che prima con la retorica della creative class, del suo contributo allo sviluppo locale, ha provato a sperimentare soluzioni edilizie e urbanistiche diverse, poi riproducendole in modo piuttosto meccanico pro domo sua ha creato e continua a creare ghetti gentrificati per i cosiddetti Millennials, giovani che ancora non si sono formati una famiglia, e che secondo il mercato semplicemente «aspettano di trasferirsi in una villetta unifamiliare». La risposta del privato è quella di realizzare delle sorte di pensionati studenteschi allargati, in cui i microappartamenti (comunque esclusivi e costosissimi per unità di superficie) si mescolano a localini e negozi di tendenza, spazi di coworking e altre amenità a mezza strada fra il campus universitario e una specie di azienda individuale diffusa sul territorio. Ma ancora qui non si coglie affatto che quella condizione individuale forse non è affatto provvisoria, che richiederebbe un ripensamento abbastanza radicale dell'approccio, dei servizi, della città che ci sta attorno insomma.

Perché le nude statistiche, oltre a cose magari apparentemente più effimere ma assai significative come associazioni, pubblicazioni, prodotti mirati, ci dicono che «stare da soli» (cosa diversa dalla solitudine patologica così come viene proposta di solito) è tendenza in grande crescita. Case, quartieri, welfare, trasporti, servizi, paiono inchiodati a quel modello familiare nucleare fissato nel XIX secolo e a quanto pare per ora inamovibile, mentre la realtà va da un'altra parte, a volte solo soggettivamente e psicologicamente, in altri casi anche proiettandosi in modo vistoso sulla realtà. Qualcuno naturalmente ha già provato, in una logica di marketing politico, a calcolare quanto peso relativo possano esprimere le istanze di questo neo-individualismo postindustriale, e se si tratti tendenzialmente di istanze declinabili in senso progressista o liberista-conservatore. Ovvero se orientate più al modello del single solo al comando, oppure a quello democratico dell'eremita meditante. E anche così, guardando agli attriti fra la città com'è e come ce la immaginiamo, con le tensioni nelle periferie tra anziani soli barricati dentro spazi inadeguati e nuove formazioni che rivendicano diritto alla casa, si capisce quanto complicato sia, farsi un'idea ragionevole del senso di destra o sinistra, oggi.

Un piccolo, particolare esempio di attrito (si noti la non sottolineata ambientazione da sprawl automobilistico di villette unifamiliari) del genere descritto, è quello raccontato magistralmente dal sociologo Eric Klinemberg in questo estratto dal suo Going Solo, su La Città Conquistatrice (f.b.)

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La maggior parte dei paesi ha sottoscritto, con una grande cerimonia, gli accordi, presi a Parigi nel dicembre 2015, per rallentare il lento continuo aumento della temperatura del pianeta Terra, responsabile dei mutamenti climatici e a sua volta provocato dall’immissione nell’atmosfera di gas, detti “gas serra”, provenienti dalle attività umane. Per la maggior parte i gas serra sono costituiti dall’anidride carbonica CO2 liberata dalla combustione dei combustibili fossili, carbone, petrolio e gas naturale, che sono le fonti di energia usate in maggiore quantità nel mondo, dall’incendio delle foreste, dalla produzione di cemento. Altro gas serra è il metano che sfiata dai pozzi di gas naturale o che si libera dalla putrefazione di rifiuti agricoli e urbani, e altri gas serra derivano da processi industriali. Nel mondo ogni anno circa 35-40 miliardi di tonnellate di CO2 si aggiungono a quelle già esistenti nell’atmosfera; in Italia circa 400-450 milioni di tonnellate all’anno di CO2 vengono immessi nell’atmosfera planetaria.

Per rallentare il riscaldamento planetario sono previste delle specie di multe (“carbon tax”), tanti euro per ogni tonnellata di gas serra immessi nell’atmosfera da una industria o da un paese, soldi che dovrebbero servire in parte ad aiutare i paesi poveri ad avviarsi allo sviluppo economico e sociale con tecnologie meno inquinanti e rispettando il proprio ambiente.

Trattandosi di soldi, i governi, le banche, le compagnie di assicurazioni, le imprese, enti di ricerca, ma anche associazioni ambientaliste, cercano di prevedere di quanta energia ciascun paese avrà bisogno e quali fonti energetiche poco inquinanti farà bene a utilizzare. In questi ultimi tempi si stanno moltiplicando analisi e previsioni di consumi energetici che prendono il nome di piano, strategia o, più modernamente, “roadmap” (che sarebbe come dire la strada che occorrerebbe percorrere per ottenere un certo risultato).

Tutti questi piani, al fine di diminuire le emissioni di gas serra per “stare dentro” i vincoli di emissioni imposti dagli accordi di Parigi, prevedono di sostituire una parte dei combustibili fossili con le fonti energetiche rinnovabili: solare, eolico, idroelettrico, con carburanti derivati da prodotti agricoli, con la combustione negli inceneritori (ora chiamati “termovalorizzatori”) dei rifiuti (promossi a fonti rinnovabili), e di diminuire i consumi totali di energia con la ristrutturazione degli edifici, con la diffusione dei servizi informatici, eccetera,

La maggior parte delle fonti rinnovabili però produce essenzialmente energia elettrica che oggi in gran parte è ottenuta bruciando l’inquinante carbone (oltre dieci milioni di tonnellate all’anno solo nelle centrali termoelettriche italiane). Ma l’elettricità prodotta con le meno inquinanti fonti rinnovabili costa di più di quella ottenuta dalle fonti energetiche fossili e i maggiori costi di produzione devono essere rimborsati ai proprietari di pannelli fotovoltaici, di pale eoliche o di termovalorizzatori sotto forma di soldi tratti facendo pagare di più l’elettricità ai consumatori i quali, in un certo senso, devono pagare per quello che sarebbe il loro diritto: respirare aria pulita e non essere alluvionati.

L’energia, sotto forma di calore e di elettricità, ”serve” a produrre merci e ad assicurare servizi: a trasformare il minerale in acciaio, il grano in pane e pasta, a muovere le automobili, a scaldare le case e ricaricare i telefonini, insomma a tutte le cose della vita quotidiana. A modesto parere di un merceologo, per prevedere e indicare di quali e quante fonti di energia avrà bisogno un paese nei prossimi anni e con quale inquinamento, sarebbe bene cominciare dal fondo, cioè dall’analizzare di quali e quante merci e servizi si prevede che un paese abbia bisogno.

Ciascun prodotto o servizio può essere ottenuto, infatti, con diversissime quantità e tipi di energia. Per restare al caso dell’acciaio, che è al centro di tanti problemi in Puglia, la stessa tonnellata di acciaio può essere prodotta con carbone, con gas naturale, o con l’elettricità, con diverse quantità di energia tratte da diverse fonti e con diversi effetti inquinanti. Una persona può percorrere un chilometro con un’automobile economica, con un SUV, con un treno o con un autobus, in ciascun caso con quantità e tipi di energia diversissimi e con diversi inquinamenti, eccetera. La quantità di merci e servizi di cui i cittadini di un paese hanno bisogno dipendono dal numero di abitanti e dalla loro età: gli anziani hanno bisogno di meno motociclette dei giovani e hanno bisogno di maggiori spazi ricreativi e assistenza medica; l’invecchiamento della popolazione impone modifiche nella richiesta di nuove abitazioni e nei relativi consumi di cemento e piastrelle; le mode inducono a modificare la richiesta di alimenti, di tessuti, di mobili. Tutti fenomeni da cui dipende la richiesta di energia.

Nei piani energetici che ho visto in circolazione, in generale mancano le informazioni sulle previsioni dei fabbisogni di merci e servizi, al di là di una generica promessa di chimica o tecnologia “verde”. Per quanto ne so, solo il rapporto 213/2015 dell’ISPRA (l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) conteneva le previsioni dei consumi di elettricità, addirittura al 2050, basate sulle previsioni della richiesta e della produzione di alcuni prodotti: acciaio, alluminio, prodotti chimici industriali, prodotti farmaceutici, cemento, laterizi, carta, prodotti alimentari e tessili. Le previsioni sono sempre difficili, ma vanno pur fatte ricordando che in futuro, piaccia o no, le società umane hanno bisogno di oggetti, di energia e anche di cieli meno inquinati.

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Credo che sulla polemica esplosa in seguito alla dichiarazioni di Camillo Davigo occorra un di più di riflessione politica, rispetto alle schermaglie formali, alle difese e alle accuse che abbiamo letto in questi giorni. Sotto la densa polvere che si è alzata occorre cogliere una sostanza politica di primissimo rilievo. Sono in totale disaccordo con quanto sostiene Anna Canepa, segretaria di Magistratura Democratica, a proposito delle posizioni di Camillo Davigo, nell'intervista concessa ad Andrea Fabozzi, sul Manifesto del 24 aprile. Sono in disaccordo non tanto per i contenuti in sé, che rientrano in logiche e schermaglie di corrente e che interessano a pochi italiani. Anche se nell'intervista vi si leggono banalità folgoranti del tipo: «Noi pensiamo che la corruzione non possa essere affrontata esclusivamente in termini repressivi». Un motivo di bassa retorica per depotenziare le posizioni di Camillo Davigo e ridurlo al rango del Grande Repressore.

Ma come si può attribuire una convinzione del genere non dico a un magistrato dell'intelligenza di Davigo, ma una qualsiasi persona di media cultura? Chi può non essere d'accordo su questo punto? Ma il fatto è che se manca la repressione, il resto (l' amministrazione efficiente, un giustizia più rapida, la cultura della legalità, ecc.) non tiene. Senza la certezza della sanzione, la tendenza a delinquere appare incomprimibile. Soprattutto, per svariatissime ragioni storiche, in Italia. Non dimentichiamo che nel nostro paese sono ancora vive e vegete due forme di criminalità organizzate che risalgono a prima dell'unificazione nazionale, la mafia e la camorra, mentre una terza, meno antica, la 'ndrangheta, ha un raggio d'azione a scala mondiale.

Capisco bene quanto ha dichiarato ad Aldo Cazzullo, Reffaele Cantone, in un'intervista su Corriere del 23 aprile: «Mani Pulite ha fallito perché le manette non bastano». Certamente, le manette non sono bastate e non bastano mai, in nessun caso. Ma chi doveva far seguire alla repressione i fatti di una profonda trasformazione della macchina amministrativa, delle procedure giudiziarie, delle strutture della vigilanza e dei controlli? Chi se non i governi e il ceto politico? Chi non ha fatto seguire alla galera i fatti positivi di un profondo rinnovamento anche dello spirito pubblico nazionale? Chi, se non il potere legislativo e gli esecutivi? Sono costoro che sono mancati alla prova. Non certo i magistrati, che avevano svolto il loro compito e a cui spettano altri compiti.

In questo modo, per difendere il governo Renzi capovolgiamo la verità dei fatti e con una capriola retorica gettiamo la croce su Mani Pulite? Ma allora un po' di storia, per favore, in questo paese della Grande Dimenticanza. Un po' di storia non tanto per Cantone - magistrato prezioso per l' opera che svolge nel nostro paese - ma soprattutto per il presidente del Consiglio. Le parole polemiche di Davigo sui politici che continuano a rubare, come in passato, ma ora non se ne vergognano - che certo non sono formalmente ineccepibili in chi rappresenta un sindacato - nascono nell'atmosfera tossica creata dalla dichiarazione di Renzi al Senato il 20 di questo mese. In quella occasione ha detto testualmente che negli ultimi 25 anni sono state scritte «pagine di autentica barbarie legate al giustizialismo». 25 anni? Ora lasciamo da parte Mani Pulite, che di sicuro eccessi ne ha commessi, ma senza i quali non avrebbe scoperchiato un sistema di corruttela così pervasivo e onnipotente. Chi ha governato in Italia dopo quel terremoto giudiziario?

Abbiamo già dimenticato? Noi siamo appena usciti da una fase storica in cui un avvocato, Cesare Previti, che faceva vincere le cause al suo padrone comprando i magistrati che lo giudicavano, è diventato ministro della Repubblica. Vigeva allora la barbarie giustizialista? Erano gli anni in cui il presidente del Consiglio, Berlusconi, con i suoi avvocati fatti eleggere in Parlamento, si faceva emanare le leggi che dovevano salvarlo dalla cause pendenti. L'intero parlamento della Repubblica asservito ai voleri, ai capricci, perfino alle bugie ridicole di un magnate. A questo giustizialismo allude Renzi? Sono anni di giustizialismo i nostri, in cui il parlamentare Denis Verdini, amico del presidente del Consiglio Renzi, e suo importante sostegno politico, con ben 6 rinvii a giudizio, è tranquillamente al suo posto e continua a onorare della sua presenza il nostro Parlamento? Ma perché Renzi scopre oggi l'urgenza del garantismo? Non è per caso che, avendo fondato il suo potere su una costellazione di appoggi, dal mondo imprenditoriale a quello finanziario - come ha ben scritto A.Floridia sul Manifesto del 14 aprile - teme che qualche inchiesta giudiziaria possa mandare in aria il suo traballante castello?

Ora, nel paese in cui si tende a guardare solo al dito e a non scorgere la luna, bisogna ricordare che Davigo ha anche fatto una affermazione importante, ripresa da pochi: «la classe dirigente, quando delinque, fa un numero di vittime incomparabilmente più elevato di qualunque delinquente da strada, e fa danni più gravi». Ed è questo il punto, il vero punto da discutere. Perché la corruzione dominante nel nostro paese, non è quella dei ladruncoli di strada, ma delle classi dirigenti. E tra queste, lo si voglia o no, occorre metterci mafia, 'ndrangheta e camorra, sia per l'imponenza dei capitali che muovono, che per l'ampiezza dei territori che controllano. Tale corruzione non è solo rilevante per il danno economico che infligge al paese, com'è universalmente riconosciuto. Essa rivela in realtà una questione politica di prima grandezza, a cui la sinistra dovrebbe guardare con più attenzione.

Più di quanto non si creda essa è legata strettamente alla dissoluzione dei grandi partiti di massa, i quali formavano e selezionavano i quadri politici destinati alle amministrazioni locali, al Parlamento, alla loro stessa gestione in centro e in periferia. Erano questi che operano i primi filtri e controlli sulla qualità, innanzi tutto morale, dei propri esponenti. Oggi tale lavoro di selezione e filtro non esiste più. I presidi politici della legalità sono stati sciolti. E chi decide di fare politica lo fa per pura ambizione personale, entrando in un agone competitivo interpersonale, anche con i propri compagni e in cui tutto è permesso - Renzi fa testo col suo comportamento nei confronti di Letta - e con una inclinazione verso l'illegalità facilmente intuibile.
Ma la scomparsa dei grandi partiti popolari, nel nostro caso del PCI, e l'emarginazione crescente del sindacato, hanno anche un altro esito rilevantissimo per il dilagare della corruzione. Perché in mancanza di un grande antagonista organizzato, capace di opposizione, vigilanza e controllo, le classi dirigenti italiane, i nostri ceti dominanti e quei politici che li rappresentano, sono da 20 anni impegnati in un'azione predatoria del bene pubblico di un'ampiezza senza precedenti. Un'opera imponente di manomissione che solo il vigore delle leggi riesce in parte a contenere e limitare. Oltre all'azione generosa di pochi movimenti.
La predazione, tramite soprattutto le Grandi opere, riguarda il territorio, l'acqua, il patrimonio urbano, i beni artistici , le città, il paesaggio. Anche spesso i nostri diritti. Allora, caro Cantone, è evidente che «le manette non bastano». La legge e la vigilanza dei magistrati servono solo a contenere parte di quella predazione di classe che scivola nell'illegalità, la punta dell' iceberg. Non il resto. Perciò non solo non è giusto, ma è un grave danno criticare i magistrati intransigenti. Perché oggi, quanto meno, costituiscono l'insufficiente argine in difesa del bene pubblico.

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A trent’anni di distanza da quel 26 aprile del 1986 giornali e televisioni ricordano il grave incidente che porta il nome di Chernobyl; in quella cittadina dell’Ucraina, allora sovietica, che nessuno aveva mai sentito nominare, in uno dei quattro reattori della centrale nucleare, per l’interruzione della circolazione dell’acqua di raffreddamento si verificò la fusione del “nocciolo”, un insieme di tubazioni di acciaio che contenevano grandi quantità di atomi radioattivi: uranio, plutonio e i loro prodotti di fissione che il mondo avrebbe imparato a conoscere per nome: cesio, stronzio, iodio radioattivi.

A causa dell’altissima temperatura la grafite che circondava il nocciolo si incendiò e poi si verificò un’esplosione che scaraventò nell’aria una nube di polveri e gas con una radioattività equivalente a quella di circa 100.000 chilogrammi di radio; le polveri ricaddero in parte intorno alla centrale e poi si dispersero nei cieli dell’Europa centrale e arrivarono fino in Italia. Grande spavento e confusione e risposte contraddittorie alle domande degli Italiani: la radioattività della nube fuoriuscita dalla lontana centrale rappresentava un pericolo per la nostra salute ? dove ? che cosa bisognava mangiare e che cosa bisognava evitare ?

Le conseguenze ambientali, economiche e politiche dell’incidente di Chernobyl furono grandissime. Le fiamme e i fumi fuoriusciti dal tetto scoperchiato di quella centrale segnarono di fatto la fine dell’avventura nucleare italiana e anche nel resto del mondo fecero svanire il sogno dell’elettricità illimitata a basso costo. Da allora le oltre 400 centrali nucleari esistenti nel mondo hanno continuato a produrre elettricità; alcuni reattori sono stati chiusi anticipatamente, qualche nuovo reattore è stato anche costruito. Da alcuni anni la produzione mondiale di elettricità nucleare è in continua diminuzione, dal 14 percento della produzione mondiale di energia elettrica nel 2000, all’attuale meno del 10 percento. Della scelta atomica ci restano le crescenti quantità di scorie radioattive prodotte dai reattori nucleari militari e commerciali, che nessuno sa dove sistemare, una eredità che lasciamo alle generazioni future.

Ma la tragedia di Chernobyl ebbe anche altri volti che sono rimasti poco noti o dimenticati. Mi riferisco agli operai, ingegneri, volontari, pompieri, presenti o venuti dalle città vicine, che si adoperarono con i pochi mezzi a disposizione, nella grande confusione di strutture contorte e crollate, per spegnere l'incendio e che, per fermare la fuoriuscita di materiale radioattivo, esposero le loro vite a radiazioni mortali; morirono quasi tutti, così come morirono i piloti degli elicotteri che, a ripetizione, sorvolarono il reattore ancora in fiamme per gettare al suo interno centinaia di migliaia di tonnellate di sabbia e cemento e piombo, in modo da fermare la reazione nucleare che procedeva ancora.

Se non ci fosse stato il loro sacrificio, la radioattività delle polveri e gas che si sparsero e ricaddero in Europa avrebbe avuto conseguenze ben più disastrose. La storia è raccontata da Grigori Medvedev nel dimenticato libro Dentro Chernobyl, pubblicato nel 1996 dalle edizioni La Meridiana di Molfetta, un libro che dovrebbe essere letto nelle scuole perché è una specie di Cuore del ventesimo secolo. Il libro di Igor Kostin, Chernobyl, confessioni di un reporter, Ega Editore, Torino, contiene una ulteriore drammatica documentazione fotografica delle ore e delle settimane della grande paura e degli sforzi dei tecnici e degli operai impegnati a fermare la fuoriuscita della radioattività. Qualche città italiana avrebbe fatto bene a intitolare una strada o una piazza ai "martiri di Chernobyl", agli eroi che, in quelle terre lontane, a prezzo della loro vita, evitarono che fossimo contaminati in modo molto più grave e salvarono tante delle nostre vite.

Il disastro fu accompagnato da episodi di generosità e solidarietà internazionale. Il chirurgo americano Robert Gale, specialista di trapianti di midollo osseo, corse subito in Ucraina e per molto tempo operò i malati più gravi; anche questa storia è raccontata in un libro dello stesso Gale e in un film dal 1991, "Chernobyl", del regista Anthony Page, che ancora circola in qualche televisione e che meriterebbe di essere visto da tanti italiani.

Le zone intorno al reattore di Chernobyl, rese inabitabili a causa dell’elevata radioattività, furono fatte sgombrare dalla popolazione; molti abitanti di tali zone erano stati avvelenati dalla nube radioattiva; in Ucraina molti che allora erano bambini e ragazzi portano ancora nel corpo le conseguenze di tale contaminazione; per anni alcuni di questi bambini hanno trascorso dei periodi di vacanza in Italia, ospiti di organizzazioni di volontariato.

Qualche anno dopo, nel 2011, in Giappone si verificò un’altra catastrofe nella centrale nucleare di Fukushima. Un maremoto provocò l’interruzione della circolazione dell’acqua di raffreddamento di tre reattori e anche lì i reattori esplosero e provocarono l’immissione nell’ambiente di polveri con una radioattività equivalente a quella di circa 25.000 chilogrammi di radio. Anche a Fukushima, molti operai, ingegneri e tecnici sacrificarono la propria vita per cercare di fermare la fuga verso l’ambiente esterno delle polveri, salvando quindi dalla morte molti abitanti delle zone vicine. Eroi sconosciuti anche quelli come quelli di Chernobyl di cui Medvedev, nel libro prima citato, scrisse: "Gli eroi e i martiri di Chernobyl ci hanno fatto comprendere l'impotenza dell'uomo di fronte a ciò che l'uomo stesso crea, nella sua presunzione di onnipotenza".

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Il 16 aprile, un episodio apparentemente marginale ha segnato simbolicamente la fine della primavera toscana, quella prospettiva balenata durante l’assessorato Marson di una politica che facesse di ambiente, paesaggio e territorio ingredienti di uno sviluppo innovativo e durevole.

L’episodio: la Regione Toscana, pure con difficoltà ed esitazioni, aveva finanziato in base a una propria legge un “processo partecipativo” sul progetto del nuovo aeroporto di Firenze. Ma in occasione della giornata conclusiva, ha negato il salone delle feste di palazzo Bastogi – sede della giunta regionale - per “intoppi burocratici” obbligando i 300 partecipanti a ridursi a 60, quanti ne poteva ospitare la sala di un hotel prenotata all’ultimo momento. Un segnale di indifferenza, se non di astio, che si aggiunge al fatto che nelle quattro giornate del processo partecipativo non solo i proponenti del progetto – Toscana Aeroporti e Enac - sono stati sempre assenti con l’altezzosa giustificazione che loro avevano già fatto la (loro) informazione; ma ancora più grave è che totalmente assente sia stata la Regione Toscana: assente il Presidente Rossi, assente l’Assessore al territorio, assenti i consiglieri di maggioranza. Un’ostenta mancanza di ascolto nei riguardi dei cittadini che vi hanno attivamente preso parte, ben informati ed agguerriti, e dei tre Sindaci promotori. Stupisce, in proposito, la disattenzione di Enrico Rossi: da politico navigato avrebbe dovuto capire l’opportunità di essere presente, affrontare il dissenso e sostenere le proprie ragioni, differenziandosi da Carrai e Riggio.

Questo episodio, marginale ma significativo, è il suggello di una gara crescente tra Renzi e Rossi a chi è più bravo nel facilitare opere inutili e dannose. Basta ricordare due ultimi episodi. Il 25 marzo Renzi, accompagnato da alcuni suoi fidi e ignorando Rossi, ha convocato in segreto a Palazzo Vecchio il Sindaco Nardella e alcuni assessori per sancire che l’aeroporto dell’amico Carrai si doveva fare e altrettanto (ultima improvvisazione) una nuova linea della tranvia sotto il centro storico di Firenze. E poiché due tunnel nel sottosuolo fiorentino, la tranvia oltre la Tav, forse sarebbero stati troppi, quest’ultima poteva attendere. Pochi giorni dopo, simmetricamente, il Presidente Rossi si è precipitato a Roma, è intervenuto nel procedimento Via in corso sul nuovo aeroporto e annunciato che entro un mese la Commissione Via (che ancora deve pronunciarsi con votazione, in seduta plenaria) avrebbe dato parere favorevole con prescrizioni al progetto esecutivo: esattamente ciò che fin dall’inizio hanno sostenuto e preteso i proponenti del progetto. Infine, per rassicurare i cittadini, Rossi si è proposto come presidente di un costituendo Osservatorio, che ripentendo la tragica esperienza del Mugello, niente conterà e niente farà: un’autentica presa in giro.

Ha aggiunto Rossi che si sarebbe fatto il sottoattraversamento dell’alta velocità, fortemente voluto dalle cooperative rosse, e che le terre di scavo sarebbero state declassate da rifiuti a materiali riutilizzabili. Dimenticandosi che solo qualche mese fa Raffaele Cantone aveva ribadito di fronte al Consiglio regionale quanto già era scritto nella sua relazione del 4 agosto 2015: che erano mancati gli adeguati controlli da parte degli enti pubblici preposti e che le “criticità emerse dalle indagini della Procura non potevano ritenersi del tutto superate”. Tra queste, i permessi scaduti, i vertici delle società arrestati, chi per corruzione chi per associazione a delinquere, chi per abuso d’ufficio, chi per tutti e tre i reati e per altri ancora” e che “i comportamenti dei soggetti preposti all’esecuzione sono finalizzati a conseguire maggiori utili a discapito di una minore qualità dell’opera”.

La diretta streaming dell’audizione di Cantone è stata negata, la maggioranza ha glissato, i giornali hanno dato scarne notizie per tacere subito dopo, mentre sono acritici quando si tratta di diffondere autentiche balle tra cui spiccano le notizie che l’aeroporto sarà inaugurato nel 2018 e che i lavori di rifacimento dell’intero assetto territoriale della piana fiorentina costeranno (solo) 150 milioni. Soldi pubblici nelle intenzioni di Renzi, che perciò aveva spinto su Firenze come sede del prossimo G7 per giustificare con l’eccezionalità dell’evento i finanziamenti statali all’aeroporto, non altrimenti concedibili per normativa europea. Dirottata altrove la sede del G7, la classe dirigente fiorentina ha emesso alti lamenti, dichiarando tra l’altro che l’evento “avrebbe dato visibilità” a Firenze… finora, come si sa, ignota al mondo.

Una piccola perla che testimonia o la dabbenaggine di chi la dice o il fatto che egli creda di parlare a un esercito di mentecatti, ma riportata senza battere ciglio dalla stampa locale. In sintesi, Renzi e Rossi si comportano in modo simmetrico. Intromissioni in questioni e procedure che devono essere lasciate alle istituzioni rappresentative e agli organi competenti, indebite pressioni, violazione di norme e procedure; cui si possono aggiungere, nella sostanza, l’idea dei cittadini come massa inerte e l’attiva acquiescenza agli interessi del cemento e della finanza. Qualcuno dovrebbe spiegare a Rossi che l’alternativa a Renzi si fa sul terreno dei valori, sull’ascolto dei cittadini, sulla valorizzazione dei contributi dei cosiddetti “corpi intermedi”: In una parola su un’effettiva democrazia. Se Rossi vuole battere Renzi facendo a chi è il più Renzi dei due, la sua partita è persa. Purtroppo anche quella della Toscana e non solo.

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