Qualunque sia il grado di condivisione delle sue tesi, l'articolo di Alberto Asor Rosa, sul manifesto del 14 ottobre, ha il merito di centrare il cuore dei problemi politici di questa fase. E difatti una importante discussione si è aperta su questo giornale, a riprova ancora una volta, della insostituibilità del manifesto come luogo di confronto politico-teorico dell'intera sinistra. Il mio intervento, che succede agli articoli di Livio Pepino e di Paolo Favilli (16 e 18 ottobre) ha l'ambizione di ampliare lo spettro dei ragionamenti che si son fatti sin qui. Se non sono troppo sbrigativo nella mia sintesi, credo che le obiezioni di fondo mosse dai due autori alle tesi di Asor Rosa, consistano essenzialmente nel non aver egli posto nel dovuto rilievo la natura moderata e sostanzialmente neoliberista del Pd, e nell'aver sottovalutato, di fronte all'alleanza Pd-Sel, l'alternativa possibile rappresentata dai movimenti e da altre forze politiche della sinistra. Per quanto riguarda l'analisi impietosa che i due intervenuti fanno delle politiche del Pd credo che ci sia poco da obiettare. Tuttavia essa è parte, certo importante, ma di un ragionamento incompleto. Credo di possedere un eccellente pedigree di critico radicale di quel partito da non poter essere sospettato di nascoste simpatie. E tuttavia, se dobbiamo ragionare intorno ai caratteri arduamente problematici dell'alleanza Bersani-Vendola, dobbiamo compiere uno sforzo di ragionamento più freddo, come quello che , a mio avviso, ha compiuto Asor Rosa. Ma anche più largo. Occorre una sorta di simulazione di scenario, per avere un quadro più complesso della situazione in cui viene a cadere la scelta di Nichi Vendola.
Poniamo, ad esempio, che Sel avesse scelto di non allearsi con il Pd, cecando al contrario di rappresentare il vasto e variegato mondo della protesta sociale, i gruppi dei movimenti referendari, ecc. Prospettiva che anch'io auspicavo come una svolta necessaria per la sinistra. E tuttavia l'ipotesi deve farsi carico di immaginare effetti e variabili che non compaiono né nel ragionamento di Pepino né in quello di Favilli. E' evidente che se Vendola fosse «andato per la sua strada», il Pd sarebbe stato completamente fagocitato nella logica centrista di Casini. L'«agenda Monti» sarebbe rimasta la linea maggioritaria e dominante delle forze di governo per i prossimi anni. Con le pressioni potenti che vengono dall' Ue, l'Italia sarebbe rimasta a galleggiare con le sue iniquità intollerabili, con la mortificazione a livelli inauditi del lavoro umano, con la progressiva emarginazione della scuola pubblica e dell'Università, con la restrizione ulteriore degli spazi della nostra malandata democrazia. Chi ci assicura che Vendola, insieme a Di Pietro, e a Ferrero avrebbero potuto rappresentare una opposizione forte e unitaria, in grado fronteggiare la definitiva plasmazione neoliberista del nostro Paese? Accolgo subito l'obiezione secondo cui l'occasione era propizia e ci si poteva provare. In effetti, nelle scelte della politica occorre affrontare le incognite che nessun Dio può decifrarci in anticipo. Ma ci sono un paio di perplessità che vorrei esplicitare. La prima riguarda il Pd. Dobbiamo considerare questo partito, nel suo insieme, definitivamente perduto alla causa del welfare, della democrazia, della lotta per i diritti e l'eguaglianza sociale? Visto il seguito di cui ancora gode, credo che si tratterebbe di una grande perdita per tutta la sinistra. La seconda perplessità riguarda l'alternativa al Pd. Una vittoria ( improbabile) del nostro schieramento avrebbe esposto il governo e l'intero Paese ai continui e logoranti ricatti della finanza internazionale. E' difficile avere dubbi su questo punto. L'Italia, con il suo enorme debito, ha perso una parte rilevante della sua sovranità. E noi avremmo bisogno di sostegni internazionali, soprattutto europei, per alimentare la lotta contro l'austerità: sostegni che siamo lontanissimi dall'avere. La scena della sinistra europea è drammaticamente frantumata. Ci si para di fronte e contro un capitale-mondo di enorme pervasività e noi siamo minoranza dentro un paese sotto tutela. Infine una considerazione più specifica sulla sinistra radicale, la nostra parte.
E' indubbio che esista un vasto e variegato fronte di gruppi e movimenti disseminati nel nostro Paese, culturalmente più attrezzati - come ha ricordato Norma Rangeri - di quanto non fossero le formazioni degli scorsi decenni. E' questa la condizione di partenza delle nostre speranze. Ma oltre a essere frantumato ed eterogeneo, quel fronte stenta ad assumere una configurazione politica stabile. L'estremo pluralismo che lo caratterizza rende arduo il suo approdo nella sfera della rappresentanza. Si, la rappresentanza! Considero lo svuotamento dei risultati del referendum sull'acqua da parte di governi e amministrazioni locali, la verifica drammatica dell'impotenza a cui sono condannati i movimenti quando il loro potere è affidato unicamente agli sforzi della società civile. Dobbiamo insediarci stabilmente nei luoghi in cui si decide, si fanno e si applicano le leggi. E senza il governo politico del pluralismo sociale e culturale non si va lontano. Tutti oggi possiamo osservare quanto sia difficile mantenere la coesione all'interno di un mondo in cui è penetrato un individualismo dissolvitore che ha cambiato i connotati storici della militanza. Potrebbe vivere un sol giorno Sel senza il carisma di Nichi Vendola? E sarebbe stato possibile il Movimento 5 stelle senza l'affabulazione di uno strano leader-attore come Beppe Grillo? Stessa considerazione vale per l'Idv di Di Pietro.
Certo, Alba - evocata da Pepino - rappresenta una novità, ma una novità allo stato ancora nascente. E' un'alba, appunto. Essa è per il momento un ricco e plurale laboratorio di idee. Nulla di più. Ma è priva di mezzi e di influenza soprattutto nel mondo dei media. L'importante assemblea di Torino del 6-7 ottobre, dedicata al lavoro, è avvenuta nel silenzio mediatico più completo. Non fosse stato per il manifesto e per una nota del Fatto, il vasto pubblico nazionale non se sarebbe accorto. Tale debolezza dell'Alleanza - che contrasta con la ricchezza di analisi e proposte al suo interno e con le tante figure intellettuali che la animano - la mette oggi in una condizione di paralisi. Essa non può prendere parte all'appuntamento elettorale del 2013: presentare una propria lista sarebbe, infatti, un evidente suicidio. Dov'è oggi, a sinistra, lo spazio per una ennesima formazione? Paul Ginsborg, a Torino, ha invitato a non considerare un dramma l'eventualità di una mancata partecipazione di Alba alla competizione elettorale. Considerazione saggia, ma che contiene anche una visione un po' irenica della lotta politica. E' come se pensassimo che il mondo stia nel frattempo ad attendere la nostra crescita. Non partecipare alla competizione elettorale del prossimo anno è invece, a mio avviso, per le tante figure intellettuali e politiche che i movimenti hanno espresso negli ultimi anni, una perdita secca. Nella fase storica in cui si verificherà un prevedibile sommovimento della composizione del Parlamento italiano, non avere al suo interno i rappresentanti delle donne e degli uomini che hanno lottato contro il Tav in Val di Susa, il Sottopasso di Firenze, che hanno animato le lotte nelle scuole e nelle Università, che hanno guidato le popolazioni locali contro la distruzione del loro territorio, è, con ogni evidenza, una sconfitta. www.
Questo articolo è stato inviato contemporaneamente anche al manifesrto. www.amigi.org
Il programma di Matteo Renzi, sul sito www.matteorenzi.it, ha il merito di indicare una serie di azioni concrete, fra cui si segnalano quelle per una diversa allocazione delle risorse a favore dell'istruzione e dei ceti meno abbienti. Manca, tuttavia, di un vero e proprio spessore politico; ciò che in un'ottica riformatrice non significa ripetere gli slogan consunti di una certa sinistra, quanto prendere posizione rispetto a un modello di sviluppo e a un'ideologia che a livello europeo hanno fatto del neoliberismo il loro unico credo e a livello italiano coprono la collusione fra capitalismo nostrano e caste politiche - insegnano gli infiniti episodi di corruzione. Nel programma, le indicazioni di contenuto più impegnativo come "ritrovare la democrazia" - questa sì che sarebbe una scelta di grande significato politico - sono ridotte a proposte di mero carattere legislativo (nuovo bicameralismo, preferenze elettorali) o in inutili esortazioni. Domina un approccio efficientista che nei dodici capitoli del programma ripete le ricette di 'snellire', 'semplificare', 'ridurre la burocrazia', e simili
Tuttavia, il paragrafo c) del capitolo 5 "Dalle grandi opere ai grandi risultati" sembra dire 'qualcosa di sinistra', con un inizio promettente: "... Non è detto che lo sviluppo dipenda solo da grandi opere per le quali non esistono, nella maggior parte dei casi, neppure le più elementari valutazioni d’impatto econo¬mico. L’Italia spende una cifra spropositata in trasporti e infrastrutture.... E’ una spesa non sempre necessaria e altamente inefficiente,.... Negli ultimi vent’anni abbiamo speso l’equivalente di 800 miliardi di euro in infrastrutture, con risultati tutt’altro che soddisfacenti. Noi proponiamo di invertire la rotta con tre mosse. Prima mossa. "Dare la priorità alle manutenzioni e alle piccole e medie opere, come, a titolo di esempio: la costruzione di asili nido (sic), interventi per decongestionare il traffico e per il trasporto pubblico locale, per il recupero ambientale, la messa in sicurezza di edifici in aree critiche o l’efficienza energetica." Cui seguono una seconda mossa che consiste in alcune proposte di carattere tecnico-procedurale e una terza mossa che parla d'altro. Fine.
Qui non pretendiamo che Renzi abbia conoscenza delle molte proposte di Piero Bevilacqua, tutte pubblicate su eddyburg, e di tanti altri sul tema, ma leggendo come si concretizza 'l'inversione di rotta' rispetto alla politica delle grandi opere, è impossibile non piombare nello sconforto. Chiuso nella sua ottica efficientista, Renzi, nonostante tutto "dalla parte di Marchionne", non si rende conto che il sistema che lui ammira e sostiene, proprio quel sistema, produce e si nutre di grandi opere costose e inutili; e che una reale inversione di rotta sarebbe il più efficace metodo per rottamare una classe politica - inetta, spesso corrotta - che prospera su quel sistema.
Nel Programma, non una parola è spesa sui grandi temi che oggi agitano buona parte della società italiana: quelli negativi, il dissesto idrogeologico, l'abusivismo più o meno legalizzato, l'assalto alle coste e alle parti più pregiate del territorio; ma anche le grandi risorse del nostro patrimonio culturale e paesaggistico che possono essere valorizzate proprio nel modello alternativo delle 'piccole opere'. Mutismo completo; è evidente che Renzi non ha alcuna cultura in proposito e che di territorio e paesaggio non gli importa; ed è evidente che fra i suoi collaboratori manca qualcuno che gli spieghi la situazione e che su questi temi - ambiente, territorio, paesaggio, consumo di suolo - vi è più di un quarto di italiani che non si sente rappresentato e che ha la forte tentazione di non andare a votare.
Ma se il sindaco di Firenze è muto, anche tutti gli altri tacciono, a cominciare dai rivali di Renzi all'interno del PD e nei partiti di sinistra.
, dal Mibac agli enti locali, alle Università, ha ricevuto, finalmente, uno schiaffone: il 27 settembre si è svolta a Roma una giornata di mobilitazione, riflessione, protesta organizzata dall’Associazione Bianchi Bandinelli sul precariato giovanile nell’ambito dei beni culturali.
L'Italia dei Beni Culturali: formazione senza lavoro e lavoro senza formazione, il titolo dell’iniziativa di grande impatto sociale, culturale, emotivo, cui anche eddyburg ha aderito e che ha finalmente acceso i riflettori su quelle migliaia di giovani laureati nell’ambito dei beni culturali, in percentuali altissime specializzati e plurispecializzati costretti a condizioni lavorative troppo spesso sotto il limite della dignità, senza diritti, nè tutele. E’ l’inferno del precariato che sta condannando una o forse due generazioni ad una qualità di vita con pochi confronti in Europa.
Le crisi speculari di Università e Mibac (quest’ultima probabilmente irreversibile), hanno aggravato e accellerato il fenomeno: da un lato l’Università ormai persa in un loop autoreferenziale ha continuato a proporre, nel corso degli ultimi vent’anni, percorsi formativi privi di sbocchi professionali e per di più inadeguati anche sotto il profilo delle competenze richieste in ambito lavorativo: valgano per tutti i famigerati corsi o facoltà in Conservazione in beni culturali, moltiplicatisi soprattutto negli anni ’90. Dall’altro lato, un Ministero sempre più esangue, ormai incapace di mantenere i seppur minimi livelli di gestione del patrimonio culturale, sta procedendo da almeno un lustro alla dismissione delle proprie funzioni in una climax di tentativi maldestri e pasticciati: dai commissariamenti alle fondazioni, ai fantozziani esperimenti di marketing elaborati dalla Direzione alla Valorizzazione.
Eppure, in tale convergenza di disastri, queste migliaia di ragazzi che hanno resistito nel loro impegno, nonostante retribuzioni orarie fra i 5 e i 10 euro lordi, e un reddito annuo che, nella grande maggioranza dei casi non supera i 10.000 euro lordi l’anno (la soglia di povertà secondo l’ISTAT), hanno sostanzialmente garantito, cifre alla mano, il mantenimento di un livello dignitoso alla gestione dei nostri musei, archivi, biblioteche, delle centinaia di interventi di archeologia preventiva o di emergenza.
Il quadro articolato di questa complessa galassia è stato fornito nella giornata della Bianchi Bandinelli dagli stessi giovani precari, di gran lunga i più efficaci, da Federico De Martino a Claudio Gamba a Tsao Cevoli e Salvo Barrano, che con le loro documentatissime relazioni hanno dimostrato, geometrico more, quanto la situazione in questo settore sia da allarme rosso: siamo di fronte ad una vera e propria bomba sociale costituita da ormai decine di migliaia di giovani (e non più tanto giovani, nel frattempo).
A completare, sotto il profilo emotivo, la crudezza dei dati numerici, un gruppo di giovani attori (a loro volta precari) ha recitato i racconti di vita dei precari dei beni culturali.
Purtroppo, la lettura delle storie e testimonianze di lavoro precario ha subito uno spostamento rispetto al programma e per lo stesso motivo un’interessante relazione sulle forme contrattuali è stata brutalmente interrotta per lasciar spazio al sottosegretario dei beni culturali Roberto Cecchi appalesatosi nel frattempo.
Costui, dopo un intervento più consono a chi avesse trascorso la sua vita in tutt’altre faccende affaccendato rispetto al mondo dei beni culturali e dopo aver persino pronunciato il famigerato enunciato “beni culturali come volano dello sviluppo”, con un gesto di arroganza che riuniva in sè il peggio del malcostume politico della prima e seconda repubblica assieme, al termine di un discorsetto in cui – lui, funzionario statale per oltre trent’anni e rappresentante del governo in carica - ha livorosamente ribadito il suo sdegno per tutti coloro che “demonizzano il privato”, se ne è sgattaiolato via, senza attendere un solo minuto, verso il successivo inderogabile impegno.
Ci dica, sottosegretario Cecchi, quali appuntamenti c’erano nella sua agenda, più importanti di ascoltare le ragioni, spietate nella neutrale freddezza delle cifre, struggenti nella rivisitazione teatrale, aggiornatissime e inedite nella loro sistematicità, di coloro che in condizioni, non solo precarie economicamente, ma spesso lesive della dignità professionale e umana contribuiscono in maniera ormai determinante a reggere il sempre più pericolante sistema della tutela del nostro patrimonio culturale?
Forse una svendita pronta cassa all’Abramovich di turno del brand pompeiano (essendo quello del Colosseo ormai indisponibile per i prossimi 15-20 anni)?
Nessuno si aspettava da lei risposte – non le ha sapute dare in trent’anni di carriera ai vertici del Mibac che la collocano di diritto nell’olimpo dei correi dell’attuale disastrosa situazione del ministero - ma il semplice doveroso ascolto, imprescindibile in chi riveste un ruolo che dovrebbe essere di servizio all’intera comunità dei cittadini e in primo luogo di coloro che per quel ministero da lei rappresentato lavorano con una passione persino un po’ incosciente.
Negli astanti, l’educazione ha prevalso sull’indignazione: e questo è stato forse l’unico neo di un’iniziativa che, seppur in altre forme, dovrà continuare.
Perchè se una speranza si è affacciata, in mezzo ai racconti sconsolati, alle riflessioni desolate, ai dati drammatici, mi sembra possa essere letta soprattutto in una nuova consapevolezza di questi giovani, ormai indisponibili a farsi illudere dalle chimere del posto fisso nel Ministero o nell’Università, istituzioni ormai sature e soprattutto bisognose, urgentemente, di una radicale riforma che dovrà essere gestita “dal basso”. Non tanto per pulsioni radicaliste, ma perchè, come è stato ampiamente dimostrato anche l’altro ieri, è in questa fetta della società, ormai sempre più importante dal punto di vista anche numerico, che si trovano le idee più innovative e le energie più (forse le sole) vitali.
Perché un giovane che in Italia voglia iscriversi all'Università deve incontrare così tanti sbarramenti in un numero oggi crescente di Facoltà? Non è sufficiente che egli paghi le tasse e poi affronti la severa selezione degli esami, vera “prova attitudinale” affrontata davanti a una commissione di docenti? Sostengono i propugnatori del numero chiuso che lo sbarramento agli ingressi alle nostre Università serve a garantire decenti standard di servizi agli studenti che superano i test. A onor del vero, da quando esiste il numero chiuso, che ormai da anni sta dilagando come una malattia , non mi pare che on Italia i servizi abbiano conosciuto un qualche visibile miglioramento. A tutti è noto che è accaduto esattamente il contrario e ciò a causa dei tagli lineari degli ultimi anni. Viene dunque facile e spontanea la replica : ma perché, se esiste una cosi vasta domanda della nostra gioventù, che preme sulle vecchie strutture universitarie, non si investe per ampliarle e ammodernarle ? Perché non si incrementano i servizi? Non lamentiamo un basso numero di laureati rispetto agli stati d'Europa? Non deve la classe dirigente di un grande Paese tentare di rispondere a una richiesta civilmente, economicamente e culturalmente importante di così tanti giovani? E' il caso di rammentare che essi aspirano a un lavoro di qualità più elevata, che vogliono accedere alle professioni, che amano le scienze e le lettere e che per questa via rendono più prospero e civile il Paese ?
A tale obiezione si risponde con un'altra più impegnativa argomentazione: per molti profili professionali (medici, veterinari, architetti, ecc) non esiste capacità di assorbimento da parte del mercato del lavoro e quindi non sarebbe giusto assecondare la tendenza spontanea dei giovani a intasarlo ulteriormente. E' questa la risposta di apparente buon senso, che fa la stoffa del senso comune rassegnato oggi dominante. Essa appare ragionevole perché tessuta col filo del conformismo economicistico in cui si distilla la miseria culturale della nostra epoca.
Ma perché impedire a un giovane che voglia studiare medicina di accedere liberamente ai corsi, di misurarsi con le discipline, di affrontare gli esami con la propria preparazione, sbarrandogli ex ante la strada con dei quiz che a volte penalizzano persone dotate, rendendo talora impossibile il loro progetto di vita? Dopotutto, un giovane può aspirare a diventare medico perché vuole andare a praticare tale meritoria professione in Bangladesh o in Uganda, perché è nel suo progetto di vita svolgere un'attività lavorativa che abbia anche un'utilità sociale e non sia soltanto finalizzata al reddito. Non viviamo in un mondo globale? Non dobbiamo sentirci cittadini del mondo? Non gridano tutti ai quattro venti che i confini delle nazioni sono saltati? E allora perché questa nostra sedicente società liberale assicura la cittadinanza alle merci e non anche alle persone?
Ma c'è un'altra obiezione. Il giovane può voler studiare medicina perché sogna di fare il ricercatore in quel campo disciplinare, perché sente di possedere il talento e la vocazione. Perché sbarrargli la strada con un quiz cervellotico, che può definitivamente compromettere le sue legittime aspirazioni? Non è importante favorire la ricerca scientifica, l'ingresso di giovani intelligenze in questo ambito fondamentale della conoscenza ? Non troviamo scritto dappertutto, fra poco anche sui muri delle osterie di paese, che la ricerca aiuta la crescita?
Ma esiste un'altra e più dirompente obiezione, che, a mio avviso, mostra alla radice l'incostituzionalità del numero chiuso e la vocazione autoritaria delle società neoliberiste. Percorrere, con lo studio, i curricula universitari per diventare medico, veterinario, architetto, (ma anche chimico o ingegnere) ecc. non significa semplicemente impossessarsi di un insieme di tecniche per poi svolgere un mestiere. Questo è quel poco che riescono ad afferrare gli economisti neoliberisti. Studiare le discipline scientifiche, che portano alla fine alla professione, costituisce un processo formativo rilevante, non dissimile da quello che compiono i giovani nelle facoltà umanistiche. Per diventare medico o architetto occorre studiare matematica, chimica, urbanistica, ecc, ma questo significa acquisire conoscenza, farsi una visione del mondo. Nell'accedere a una professione, che non si esaurisce nell'apparato delle sue tecniche specialistiche, si conquista dunque una rilevante fisionomia e ruolo intellettuale, un potenziamento della personalità , una dotazione culturale che arricchisce l'intera società.
Come si può impedire agli individui di perseguire un simile percorso di umana emancipazione, base fondamentale della nostra civiltà? Non è evidente che una società la quale subordina la formazione e il destino sociale degli individui alle condizioni del mercato del lavoro è una società apertamente illiberale, che inchioda i singoli nelle caselle delle strutture economiche esistenti? Non appare chiaro come la luce del sole che essa non pone gli individui nelle condizioni di superare i limiti dell'esistente, ma li subordina a questi? Quale sforzo mentale è necessario per comprendere che questi sbarramenti sono dunque le avvisaglie di una programmazione autoritaria dei destini sociali e culturali delle persone?
E' il caso di osservare che tale posizione è l'esatto rovesciamento del messaggio di libertà individuale che i neoliberisti vanno propagandando da decenni in ogni canto di strada. Come si spiega un tale paradosso? La risposta indiretta ce l' ha data da tempo Milton Friedman, uno dei padri fondatori del neoliberismo, che ha dedicato particolare attenzione al nesso fra scuola e mercato del lavoro. In un testo del 1980, Liberi di scegliere, scritto insieme alla moglie Rose, egli lamentava esplicitamente: «in un paese come l'India, una classe di laureati che non trovano il lavoro che ritengono adatto al loro livello di istruzione, è stata fonte di agitazioni sociali e di instabilità politica. Dunque la disoccupazione intellettuale è politicamente pericolosa, genera movimenti sociali, danneggia l'economia. Occorre perciò scoraggiarla. O quanto meno bisogna neutralizzarla. In Italia l'attuale ministro dell' Istruzione e dell' Università - e con lui l'intero sistema dei media- svolge tale compito attraverso l'ideologia del merito: uno stratagemma ideologico per far sentire le centinaia di migliaia di giovani pur bravi e preparati, che non passano i test, che non superano i concorsi, che non trovano un dignitoso posto di lavoro, immeritevoli di raggiungere quell'obiettivo. Le vittime devono sentirsi, malgrado il merito già conseguito, responsabili del loro fallimento, messi nella condizione di non poterlo addebitare ad altri che a se stessi. In realtà, è ormai evidente che il capitalismo oggi non è in grado - con la presente organizzazione del lavoro – di offrire occupazione al numero crescente di lavoratori intellettuali che esso stesso produce. Perciò cerca di filtrare una élite ristretta, la più “produttiva” possibile, in grado di incrementare la valorizzazione del capitale.
Il resto deve rimanere fuori, a pascolare nei campi angusti e affollati della precarietà e della marginalità. La nostra società tende a organizzarsi per l'inclusione dei pochi – quelli strettamente necessari – e l'esclusione dei più. Ma ha bisogno, per ovvie ragioni politiche, di camuffare in qualche modo questo spreco gigantesco. Ed ecco a tal fine correre in soccorso politici, rettori, economisti, giornalisti, docenti universitari, che alzano le fitte cortine fumogene dell' ideologia del merito. Ma se si diradano le nebbie, in Italia appare ormai evidente che una oligarchia di anziani, asserragliata nei propri bastioni , sta sparando a pallettoni contro i propri figli e nipoti.
. Aggettivo che ha fatto anche comodo per isolarlo in un perimetro lontano dalla politica dura e pura di chi sa come va il mondo.
L’estate romana è stata la pagina più straordinaria dell’urbanistica di Roma capitale e in generale della moderna cultura della città. Prese il via nel 1977, sindaco Giulio Carlo Argan con una giunta di sinistra insediata in Campidoglio dopo trent’anni di amministrazioni democristiane, quelle del sacco di Roma, mentre gran parte dei romani viveva nella vergogna delle borgate. Nicolini era assessore alla cultura. Fino ad allora le iniziative estive erano l’Aida alle Terme di Caracalla, il teatro romanesco di Checco Durante, qualche concerto. Con Nicolini cambiò tutto, e per sempre.
Ma per cogliere la profondità della svolta si deve ricordare che erano gli anni del terrorismo, delle brigate rosse, dell’assassinio di Aldo Moro, quando un clima cupo induceva a non uscire di casa. Nicolini fissò un grande schermo nella basilica di Massenzio, tremila posti, ogni sera una maratona di film, cinema alto e basso senza steccati. Senso di Visconti insieme alle fatiche di Ercole, ogni volta un successo. A mano a mano palcoscenici furono montati ovunque, in centro, a piazza Farnese e a santa Maria in Trastevere, e in periferia, al Tiburtino III, a Ostia, a Primavalle, Villa dei Gordiani e villa Lazzaroni. Poi il circo, il teatro di strada, il festival dei poeti sulla spiaggia di Castelporziano. E a Roma tornarono le mostra di prestigio, Matisse, Cézanne, Kandisky, Chagall, la Vienna Rossa, i musei di Berlino Est.
Cominciarono subito le polemiche sull’effimero, da destra (ma un po’ anche da sinistra), che il sindaco Argan stroncò da par suo riferendosi al precedente storico del barocco: “Il barocco romano ha scoperto il pensiero immaginativo e l’ha definito, soprattutto con Bernini, con lo stesso rigore con cui negli stessi anni Cartesio definiva il pensiero razionale”. Insomma, contrapporre l’effimero allo storico dimostrava solo la sprovvedutezza delle critiche.
L’estate romana era l’altra faccia del progetto Fori che in quegli stessi anni il nuovo sindaco Luigi Petroselli, succeduto al dimissionario Argan, metteva a punto insieme ad Adriano La Regina, Antonio Cederna, Italo Insolera e altri. Non era solo una diversa sistemazione archeologica del cuore di Roma, non era solo la liberazione dalla morsa del traffico era soprattutto un modo strepitoso di attuare l’idea dell’unificazione di Roma, accorciando le distanze fra il centro e la periferia, portando il popolo delle borgate a farsi custode della storia di Roma antica. Le domeniche pedonali volute da Petroselli nella via dei Fori, sotto la basilica di Massenzio, rispondevano alla stessa filosofia dell’estate romana.
Nel 1981, con l’improvvisa morte di Petroselli, morì il progetto Fori e cominciò il declino dell’amministrazione di sinistra finita nel 1985. L’estate romana è intanto copiata in mezzo mondo, in Italia non ci fu città o paese che non fece iniziative all’aperto. È continuata anche a Roma, ma senza lo spirito di ricerca e di sperimentazione che le aveva impresso Renato Nicolini.
Ma Renato non è stato solo estate romana. Altri celebreranno il suo impegno parlamentare, accademico, professionale e di quando ha fatto l’assessore a Napoli con la prima amministrazione Bassolino. Mi interessa qui ricordare la sua presenza nel dibattito di oggi sull’urbanistica romana e sul futuro della città dopo Alemanno. A fine giugno su queste pagine ha scritto un articolo che possiamo considerare come il suo testamento politico. Si è rammaricato che nessuno associasse il suo nome alle prossime candidature a sindaco di Roma e, accanto a Zingaretti, ha fatto i nomi di Medici e di Berdini. Ha richiamato due concetti alla base del pensiero di Petroselli: l’importanza della cultura nel governo della città e la necessità di rompere con l’idea che la crescita di Roma debba dipendere dall’edilizia. Al riguardo ha scritto che apprezzava particolarmente l’appello di Paolo Berdini (“non è più possibile tacere”) e che quello del 2008 è il peggior piano regolatore della storia di Roma capitale. Concludeva che il suo obiettivo non era il Campidoglio ma la necessità di contribuire a una svolta dell’amministrazione capitolina: non basta vincere bisogna anche cambiare rispetto ai quindici anni di Rutelli e Veltroni.
Addio Renato, lasci un vuoto incolmabile.
L'articolo è pubblicato anche sul manifesto, 5 agosto 2012
Venerdì scorso, 6 luglio, due eventi, fra gli altri, hanno coinvolto il mondo dei beni culturali italiano e il suo Ministero, fautore di entrambi e rappresentato, in uno di questi, ai più alti livelli.
Ebbene, per uno strano caso del destino, essi rappresentano i perfetti antipodi di come possa essere gestito il nostro patrimonio culturale.
Così, mentre a Pechino si inaugurava, in pompa magna e con un’affollata delegazione italiana degno revival della famosa missione cinese di Craxi, una mostra simbolo del degrado scientifico cui sono giunti ormai alcuni dei nostri principali Poli museali, sull’Appia Antica prendeva avvio, fra una folla di cittadini entusiasti, un festival di tre giorni che ha costituito uno dei migliori esempi di valorizzazione del nostro patrimonio che sia stato dato vedere da molti anni a questa parte.
Sull’indecorosa iniziativa pechinese con la quale si è toccata l’ennesima punta al ribasso nella prostituzione dei nostri capolavori rinascimentali, è già stato detto con grande efficacia (v. Montanari, Il Fatto Quotidiano, 6 luglio 2012). Anche se su questo episodio occorrerà ritornare, perchè non paghi della risibilità culturale cui hanno abbassato istituzioni gloriose, i responsabili di quest’impresa l’hanno giustificata facendo ricorso ad un “innovativo” concetto di tutela. Così la nuova vision cui sarà ispirata la politica culturale di questo governo è stata così condensata in un’inaudita dichiarazione dal ministro Ornaghi: “bisogna lanciare operazioni di questo genere, anche correndo qualche rischio” (Corriere della Sera, 7 luglio 2012). Il rischio, ovviamente, è per le opere d’arte, prelevate a casaccio dalle abituali sedi museali e deportate a migliaia di chilometri di distanza, non per illustrare, secondo un progetto culturale, un tema, un evento, un’idea, ma semplicemente per fungere da cornice di lusso ad eventuali accordi economici con i nuovi padroni del mondo.
Lontano non solo molte migliaia di chilometri, ma anni luce in termini di civiltà e intelligenza operativa, nelle stesse ore, il meraviglioso basolato lucidato dai secoli della regina viarum era percorso da una folla via via crescente di cittadini romani e turisti, che partecipavano agli eventi del festival “Dal tramonto all’Appia”, una serie di iniziative che si sono succedute per tre giorni, dal 6 all’8 luglio, lungo la via Appia e alcuni dei suoi monumenti.
Evento cardine è stata la riapertura dopo tempo immemorabile (è stato detto 500 anni) della chiesetta gotica di San Nicola, piccolo edificio compreso un tempo all’interno del castrum Caetani, di fronte al mausoleo di Cecilia Metella. Ora, restaurata con intelligente sobrietà e illuminata splendidamente torna ad essere visitabile, bene pubblico restituito alla collettività, a poche decine di metri da quella proprietà privata che si è impossessata di buona parte del castrum e contro i cui abusi aveva lottato invano anche lo stesso Antonio Cederna (era il 1993).
Già, gli abusi: una piaga che, come dimostra un recentissimo studio curato da Vezio De Lucia, è persino aumentata di intensità (300.000 mc negli ultimi dieci anni), rispetto ai tempi in cui Cederna cominciò a denunciarla (era il 1953), continuando la sua opera di difensore dell’Appia fino alla scomparsa nel 1996. I condoni edilizi hanno solidificato una cancrena di illegalità che l’amministrazione comunale e quella del Parco Regionale hanno sempre tollerato, spesso ostacolando l’opera di tutela svolta in solitudine da alcuni funzionari della Soprintendenza Archeologica di Roma.
Gli stessi, pochissimi, coordinati da Rita Paris, che hanno concepito quest’iniziativa: con risorse risibili (neanche un decimo della spesa di trasporto di un solo quadro “pechinese”), ma in uno slancio di ottimismo e di passione, si è voluto dimostrare come l’Appia possa essere vissuta, nella sua bellezza, passeggiando sui basoli e godendo di proposte culturali concepite per ricordarci la nobiltà e allo stesso tempo le miserie di questo luogo incantato.
Così a Capo di Bove, la sede dell’archivio Cederna, una deliziosa mostra fotografica – Marmo, latte e biancospino – ci mostra aspetti di questa zona inaspettati, che rimandano ad un passato rurale non così lontano nel tempo. E nella stanza accanto si poteva assistere alla proiezione del film di Pasolini, La ricotta, girato nelle campagne che costeggiano l’Appia.
E ancora concerti, di altissimo livello, dal jazz alla musica classica, a quella elettronica, visite guidate al mausoleo di Cecilia Metella, un piccolo film girato per l’occasione che suggestivamente ci ricorda come, fin dai tempi di Napoleone, il sogno di tutti gli uomini di cultura è stato quello di trasformare l’Appia, dal centro di Roma fino ai colli albani in un unico, indimenticabile parco offerto a tutti per la contemplazione e il ristoro dell’anima e del corpo.
Fra i vari momenti culturali, spostandosi da un monumento all’altro, si potevano gustare le specialità proposte dai ristoratori della via Appia che hanno aderito con entusiasmo all’ iniziativa della Soprintendenza, rivelatasi come sempre, in questo luogo, non solo presidio di legalità – quasi l’unico – ma istituzione in grado di suscitare collaborazioni fra pubblico e privato mirate ad una valorizzazione operativa e culturalmente aggiornata.
E in questo caso almeno, uno dei pochissimi nella sgangherata congerie di eventi che il Mibac ha saputo propinarci in questi ultimi anni sotto questa etichetta, si può davvero parlare di valorizzazione, ovvero sia di quella funzione e quelle attività tese, come ci insegna il Codice “a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso”.
Il successo del Festival è stato travolgente: i visitatori, sempre più numerosi ed entusiasti hanno affollato la via, intrattenendosi, mentre il tramonto incupiva le chiome dei pini marittimi, fino a tarda notte, commentando gli eventi, rilevando come, miracolosamente e nonostante tutto, questi spazi possano essere ancora vissuti con tanto piacere collettivo e rimpiangendo la temporaneità di un’occasione come quella.
Così, siamo sicuri che ieri, leggendo il bell’articolo sulla Stampa che riassume, impietosamente, i guai da cui questa strada è afflitta, dagli abusi, al traffico, alle ridicole assegnazioni di fondi per nuove acquisizioni e restauri, qualche cittadino in più abbia pensato che qualcosa bisogna fare per tutelare questo patrimonio preziosissimo e fragile e alleviare la solitudine di chi – Rita Paris - da anni, attraverso un’opera incessante, innovativa e tenace fino alla cocciutaggine la sta difendendo dal degrado, restituendo, centimetro dopo centrimetro, pietra su pietra, nuovi spazi al “godimento di tutti”.
Fra questi nuovi adepti, difficile pensare ai vertici del Mibac, pressochè assenti sia nella fase di organizzazione, che durante il festival.
Ma già, erano tutti a Pechino.
Che dispiegamento di forze maligne nel tentativo di cancellare il Piano Paesaggistico sardo. Quante ambiguità e perfino bugie. La Magistratura indaga. Il Ministero forse si metterà di traverso. Ma molti, troppi sardi credono alla fandonia del Piano che paralizza l’Isola. Il turismo crolla, le fabbriche chiudono, colpa del Piano, raccontano. E vorrebbero mano libera per costruire ovunque perché è giusto che anche loro abbiano una vera bolla immobiliare che gli esploda tra le mani. Abbiamo diritto di essere al passo con gli altri. Dunque, via il vecchio Piano. Eppure la diminuzione dell’attività edilizia in Sardegna è pari e perfino inferiore a quella di altre regioni italiane dove il malvagio Piano non c’è. Niente da fare, non ascoltano ragioni e premono per avere metri cubi per tutti e nuove regole le più malleabili possibile.
Però ci sono punti che gli scappano da tutte le parti.
Punto uno. Nella Commissione regionale per il Paesaggio è prevista la presenza di un rappresentante delle Associazioni ambientaliste portatrici di interessi diffusi. Così a febbraio gli Uffici regionali informano le Associazioni principali che entro sessanta giorni devono proporre tre nomi e la Regione sceglierà il componente. Solo Italia Nostra e Legambiente indicano, nei termini previsti, un candidato. Trascorrono molto più di sessanta giorni e a giugno appare per la prima volta e viene subito scelto il rappresentante di un’Associazione di cui i più ignorano l’esistenza. Si chiama Ambiente e/è vita Sardegna. E la burocrazia regionale fa un’altra capriola. La stessa delibera di giugno, quella che sceglie l’inverosimile candidato di Ambiente e vita, viene bruscamente modificata sul web. Dalla seconda versione scompaiono le sgradite Italia Nostra e Legambiente. Così la Magistratura indaga, mentre sarebbe bastata un po’ di trasparenza.
Balla numero due. Raccontano che su 377 Comuni sardi solo 10 avrebbero adeguato il proprio Piano Urbanistico al Piano Paesaggistico. Una bugia per quei sardi che si bevono tutto. Il Piano è, come si sa, solo delle coste e non delle zone interne. Così solo 104 Comuni costieri – compreso qualche comune pilota non costiero – devono adeguarsi al Piano.
Punto tre. Le Zone Umide. L’idea di costruire nei 300 metri da qualunque stagno, sblocca un centinaio di progetti cementificatori, ci costerà l’ennesima sanzione europea e infrange contemporaneamente più regole. Così distruggono gli stagni sardi. Un tesoro immenso. Contro l’umidità propongono cemento. Mica come quegli sciocchi che si ostinano a tutelare lo stagno della Camargue facendone perfino un buon affare turistico. Qua si bonifica con i mattoni. Gli stagni del Sinis, della Gallura, dell’Ogliastra, di Cagliari, un paesaggio meraviglioso a vocazione, dicono, edilizia.
Punto quattro. L’inestimabile Assessore all’Urbanistica Rassu dopo una riflessione durata sei anni, ha scoperto che il PPR del 2006 ha un vizio che lo fa crollare. Dice l’Assessore che nel 2006 la Giunta non ha proceduto all’intesa con il Ministero e che questo inficia il Piano. Così loro ci devono mettere mano. L’Assessore, però, deve riprendere la meditazione perché il Codice del Paesaggio non prevedeva, nel 2006, l’intesa obbligatoria. Invece la prevede dal 2008. E, per quanto spinoso sia il capitolo delle intese, quella che la sua Giunta ha sfornato pare solo un’esplorazione dei beni concordata con le Sovrintendenze. Che desiderio di nitidezza.
Insomma, nasce male questo nuovo Piano di metri cubi che vuole cancellare la salvaguardia, edificare le campagne, gli stagni, i fiumi e considera la costa una zona “ad alta intensità di tutela”, però variabile. Soccomberà nell’aula del Consiglio o nei tribunali. Nonostante sia vero che parla dritto a molti sardi i quali, speriamo, comprenderanno che la strada del benessere non è lastricata di cemento.
Questo articolo è inviato contemporaneamente a "la Nuova Sardegna
finanziarie, gravata da un considerevole debito pubblico. Anzi, si può dire che il nostro Stato-nazione sorge, nel 1861, su una montagna di debiti contratti per sostenere le nostre guerre d'indipendenza. L'Italia, dunque, nasce indebitata, ma per ragioni ben diverse da quelle dei nostri anni. E tuttavia, allora come oggi, i gruppi dirigenti pensarono di trovare una soluzione mettendo in vendita il nostro patrimonio: in quel caso il vasto complesso dei demani ereditati dai vari Stati regionali. Si trattava di un immenso complesso di terreni ed annessi che si pensò di vendere ai privati per risanare le esauste casse del pubblico erario.
Come ha ricordato una giovane storica, Roberta Biasillo, sulle pagine di questo giornale (3 aprile 2012 ) contro questa scelta si levò la voce di un giuristadell'Italia liberale, Antonio Del Bon, che in un “manifesto “ del 1867, elencava con grande saggezza e competenza le ragioni che sconsigliavano la vendita del nostro patrimonio immobiliare. Egli consigliava, al contrario, di offrire ai privati le terre demaniali con un contratto di fitto venticinquennale, così da non prosciugare i capitali di chi investiva, stimolando al contrario l'utilizzo produttivo dei terreni e lasciare tuttavia i demani in proprietà dello Stato, quale «Tesoro della Nazione... un tesoro produttivo indefinitamente .” da conservare anche per le future generazioni.
Ora, a consigliare di non vendere i nostri beni pubblici, ma di utilizzarli in altro modo per abbassare il livello del nostro debito, concorrono più ragioni che è bene non dimenticare. Innanzi tutto - e questo è noto anche agli uomini del governo - nell'attuale situazione di mercato l'operazione si configurerebbe come una vera e propria svendita. E ciò a prescindere dalla riuscita tecnica dell'operazione. L'obiezione secondo cui tramite un fitto di lungo periodo la somma che lo Stato incasserebbe sarebbe insufficiente, ha scarso valore, perché questo accadrà comunque. Vendere beni pubblici è difficile. E il rischio che lo Stato corre è di privarsi di un immenso patrimonio, con manufatti anche di grande valore, ricavando alla fine somme irrisorie. Questo è accaduto anche negli anni '60 dell' 800. Come ha ricordato la Biasillo, nel 1872 l'allora ministro delle Finanze Quintino Sella dichiarò alla Camera che dalla privatizzazione di beni il cui valore era 700.798.613 di lire, lo Stato aveva incassato solo 277 milioni. Non diverso esito si è avuto dalle vendite recenti. Dalle ultime due operazioni di cartolarizzazione del Governo Tremonti, a fronte di una privatizzazione di beni per 16 miliardi di euro, alle casse dello Stato ne sono arrivati solo 2. Ma occorre richiamare alla memoria una lezione storica che vale perfettamente anche per il presente. Tutte le esperienze di vendita di beni, sia statali che ecclesiastici, lungo l'intera la storia nazionale, mostrano un effetto che costituisce una costante per così dire perversa di simili operazioni. Esse producono un generale rafforzamento dell'attitudine redditiera dei privati e deprimono, di converso, l'ardimento imprenditoriale e l'attitudine al rischio. E' un fenomeno elementare, facile da comprendere anche per gli economisti neoliberali. Chi esborsa un significativo capitale per l'acquisto, è poi in genere restìo a impegnarsi in ulteriori investimenti di valorizzazione produttiva. E' facile immaginare che la vendita creerebbe una nuova manomorta in mano privata e sottrarrebbe capitali all'iniziativa imprenditoriale.
La convenienza a non vendere e a utilizzare i beni pubblici, come sosteneva Del Bon, quale “prospettiva di credito stabile e duraturo” trova oggi una singolare conferma nella recente esperienza della Finlandia , alle prese con gravi problemi di finanza pubblica. Come ha ricordato il primo ministro conservatore di quel Paese, Jyrki Katainen, in una intervista a Der Spiegel del 13 agosto – ne ha riferito Repubblica lo stesso giorno – anziché vendere i loro beni, i finlandesi li hanno utilizzato come pegno per l' emissione di nuovi titoli pubblici. Tale operazione ha ottenuto una notevole riduzione degli interessi sul debito, con un risparmio pari al 10% del PIL in un breve periodo di tempo.« Non dimenticheremo mai questa istruttiva esperienza.”(We will never forget this formative experience) conclude Katainen. Operazione dunque di grande interesse per noi, considerando che, in fatto di patrimonio immobiliare, la Finlandia non è certo l'Italia.
E qui veniamo ad un altro punto di riflessione. E' vero che nel novero di “beni pubblici” sono comprese tipologie molto varie di strutture e manufatti, anche di scarso valore storico-artistico e malamente utilizzati. Le amministrazioni locali spesso non conoscono gli immobili di cui sono proprietari, o che appartengono allo Stato, e pagano talora lauti affitti ai privati – come ha ricordato Paolo Berdini sul Manifesto del 10 agosto - per ospitare scuole od uffici. Ma, fatte le debite distinzioni, occorre ricordare a tutti- ai nostri governanti, al nostro ceto politico, agli economisti e ai giornalisti che scrivono di temi economici - che i beni pubblici dell'Italia non sono i demani postunitari, né gli immobili della Finlandia. I nostri sono i beni ricadenti nei confini di un Paese che, secondo l'Unesco, racchiude il 60% del patrimonio artistico dell'umanità. Dobbiamo perciò chiederci: case del rinascimento, chiese sconsacrate, castelli, monasteri, ville, palazzi signorili, devono finire in mani private? Ma quelle opere non solo hanno un valore artistico in sé, come singoli manufatti. Essi sono spesso legati a una più larga trama urbana e territoriale e compongono, nel loro complesso e nel contesto del nostro paesaggio, la bellezza dell'Italia, la sua fisionomia e la sua identità nel mondo. Quindi la sua ricchezza inalienabile presente e futura. Quella ricchezza che nessuna mirabilia tecnologica può riprodurre, che non può essere minacciata dalla concorrenza delle manifatture cinesi o indiane, ma che oggi, paradossalmente, può essere distrutta dall'interno, dal ceto politico di governo. Molti di quei beni racchiudono il nostro passato, la nostra memoria , la trama della nostra storia e del genio nazionale. E allora ? Devono perdere la loro natura e fisionomia di bene comune, di patrimonio collettivo, essere smembrate e accaparrate da mani privati, magari da coloro che nell'ultimo ventennio hanno fatto le loro fortune nelle scorribande piratesche della finanza deregolata? C'è infine una ulteriore ragione di opposizione all'alienazione del nostro patrimonio. Una ragione sociale rilevante, che occorre mettere in campo contro la liquidazione della nostra identità e della nostra storia. Come ha ricordato Ugo Mattei, molti di questi beni, nel corso di numerosi decenni, sono stati restaurati, hanno ricevuto tutela e manutenzione grazie all'intervento pubblico e quindi con il supporto della fiscalità generale. Dunque essi sono giunti sino all'attuale stato grazie al concorso materiale di tutti gli italiani. E' evidente che essi appartengono a tutti noi, non solo come lascito della nostra storia, ma come frutto del nostro lavoro e dei nostri risparmi. Chi dà legittimità morale e politica di vendere il nostro passato a un pugno di uomini che nessuno ha eletto, che dureranno qualche mese alla guida del Paese? E per ripianare quale debito? Gli uomini della Destra storica, che misero in vendita il demanio, dovevano ripianare le spese sostenute per liberare con le armi l'Italia e realizzare l'unità del Paese. Ma oggi? Il nostro debito è pubblico perché grava su tutti noi, ma le sue origini sono prevalentemente private. Oggi dovremmo svendere il nostro patrimonio per rimediare a oltre 40 anni di privilegi del ceto politico regionale e nazionale, agli affarismi clientelari dei gruppi di potere, a costose “grandi opere”, alle facilitazioni alle grandi imprese ( in primis e per decenni, alla Fiat) al complice lassismo fiscale dei vari governi, perfino alle spese di guerra ( dai Balcani all'Afganistan) in violazione della nostra Costituzione?
Eppure, tale strada segna un grave errore politico dell'economicismo neoliberista . Questo ambito della manovra del governo attuale – ma anche di quelli che nel prossimo futuro dovessero muoversi sulla stessa linea – costituisce una grande occasione culturale e politica per la sinistra italiana. Perché laddove verrà minacciata la vendita ai privati di manufatti importanti di un determinato territorio, sarà possibile attivare la reazione popolare in difesa di beni e monumenti che costituiscono, in tanti casi, il pregio e l'identità di un luogo. Non solo sarà possibile vedere all'opera Italia Nostra, il Fai ecc. che metteranno in evidenza il valore del singolo manufatto, ma sarà l'occasione per rendere le popolazioni più vivamente consapevoli dei patrimoni singolari che fanno la fisionomia del loro comune, del loro borgo, del loro quartiere urbano. E le lotte in difesa di questi speciali beni comuni, contro la loro privatizzazione, costituiranno l'occasione per mostrare ad aree sempre più vaste di opinione pubblica il fondo miserabile della cultura capitalistica del nostro tempo. Alla furia privatizzatrice del ceto politico neoliberista sarà possibile contrapporre l'idea di una società che difende i beni pubblici della bellezza, dell'identità dei luoghi, della memoria storica, della condivisione comune degli spazi del vivere sociale. Perché, infine, anche quest'altra drammatica differenza va segnalata, tra i padri della patria che nell' '800 vendevano i demani e gli attuali governanti. Quegli uomini avevano un'idea dell' Italia che volevano costruire. I nostri governanti, tecnici di lungo corso del capitale, annaspano nel caos che essi stessi hanno contribuito ad alimentare. Il termine futuro, che ritorna ossessivo nei loro discorsi, è come la parola luce in bocca ai ciechi, che invocano ciò che non vedono, testimonia lo smarrimento di ogni idea del nostro possibile avvenire. Nessun altra prospettiva emerge dalle loro parole se non rendere tutto il vivente perfettamente vendibile. La futura società che essi riescono a prefigurare non è che un pulviscolo di individui e di presidi privati tenuti insieme dagli scambi monetari. Per questo, difendere i nostri beni artistici, il patrimonio collettivo della nazione, consentirà di mostrare ancor più nitidamente il nulla verso cui marciano questi fautori della crescita, il cui unico orizzonte è quello di sciogliere la società nell'acido del mercato.
(questo articolo è inviato contemporaneamente a il manifesto)
Credo anch'io, con Alberto Asor Rosa, che il dilemma lavoro/ambiente fatto emergere drammaticamente dalla vicenda dell' Ilva di Taranto, costituisca « la problematica fondamentale con la quale avremo a che fare nel corso dei prossimi decenni ». ( Il Manifesto, 5/8/ 2012 in controreplica a Rossana Rossanda, che aveva scritto sul Manifesto del 31/7). Aggiungerei che essa riporta in primo piano e in forma paradigmatica , il nodo teorico e culturale che la sinistra non è stata in grado di affrontare nella seconda metà del '900. E non soltanto in Italia. Certo, non sfugge a nessuno il dramma sociale che vivono in questo momento le migliaia di famiglie minacciate dalla perdita del lavoro e del reddito. E dunque sappiamo bene quale difficile compito sindacati e forze istituzionali hanno di fronte dopo la lodevole, coraggiosa, obbligata iniziativa della magistratura. Ma tale stato di necessità, questa gigantesca questione sociale in uno momento per giunta acutissimo della Grande Crisi, non può impedirci di pensare ai significati più generali della vicenda e ai rischi che essa presenta. Asor Rosa paventa, osservando la riduzione della classe operaia italiana a “classe particolare”, che essa finisca col porsi contro le ragioni dell'ambiente e quindi contro l'interesse generale. La sua legittima difesa del lavoro, infatti, la spinge a collocarsi a difesa della continuità produttiva e dunque dell'interesse padronale. Contro gli interessi degli altri cittadini che operai non sono, contro la salute del territorio tarantino, che riguarderà anche la vita delle prossime generazioni. Ma questo rappresenta esattamente il capovolgimento delle finalità strategiche e della storia della classe operaia. Quanto meno della classe operaia politicamente orientata dalla sinistra. E paradossalmente in una fase nella quale la difesa dell'ambiente rappresenta il nuovo orizzonte di rappresentanza generale, la nuova universalità di una politica progressista.
Io credo che tale condizione di subalternità della classe operaia e della sinistra non rispecchi soltanto la condizione politica di debolezza propria di questa fase storica, ma anche, e forse soprattutto, l'esaurimento di una tradizione teorica. Ci sono stati momenti in cui il movimento operaio è stato in grado, in Italia, di organizzare conflitti in difesa della salute in fabbrica, determinando talora mutamenti positivi nell'organizzazione del lavoro. Negli '70 il movimento "Medicina democratica", grazie a Giulio A. Maccacaro, segnò in questo senso una grande novità nel nostro Paese. Ma l'analisi si limitava all'ambiente di lavoro e a problemi della salute, non andava oltre. L'ambiente naturale restava oltre i recinti pressocchè dell'intera cultura nazionale. Credo, a tal proposito, che nessuno abbia mai sollevato, visto che parliamo di Taranto – neppure chi scrive - il sacrificio storico che il Mezzogiorno ha subito delle sue bellezze naturali, dei suoi paesaggi e delle sue risorse per rispondere alla fame di occupazione delle sue popolazioni. Una storia che è iniziata con Bagnoli, agli inizi del secolo scorso, e che è proseguita appunto con Taranto, con Brindisi, Manfredonia, Priolo, Siracusa, Gela, Porto Torres. Luoghi, talora di straordinaria bellezza, di notevole potenzialità turistica, costretti a ospitare industrie chimiche e siderurgiche altamente inquinanti, divoratrici di acqua e di suolo. Ricordo qui che è stata sufficiente la promessa di un centro siderurgico, a Gioia Tauro, per far sparire una delle agricolture più ridenti e prospere che sorgevano allora in fondo alla Penisola. Potrei azzardare che il bisogno di lavoro nel Sud ha favorito, nel secondo Novecento, una nuova geografia neocoloniale dell' industrializzazione italiana. Una specifica “questione ambientale” si è incistata anche nel cuore della questione meridionale.
Ma il ritardo culturale della sinistra sui temi dell'ambiente ha una portata teorica ben più vasta su cui cui occorre insistere. Soprattutto in momenti come questi, nei quali lo stato di necessità, spinge a ripercorrere il vecchio sentiero. Lo stesso modo con cui si pone il problema dell'Ilva di Taranto è rivelatore di questo limite radicale e originario. L'ambiente naturale viene infatti percepito solo in quanto danno alla salute delle popolazioni locali. E questo perché alla natura non viene assegnata nessuna realtà autonoma, nessun valore generale. Essa esiste se gli uomini che ci vivono subiscono danno, se produce perdite economiche, se si presenta come “esternalità negativa”. Un antropocentrismo ingenuo, infatti, è sempre alla base del pensiero economico contemporaneo. Non mi riferisco tanto al pensiero economico neoclassico, che la natura non sa che cosa sia, quanto soprattutto al pensiero economico marxista. La teoria del valore lavoro su cui si fonda l'interpretazione marxista del capitale( che non esaurisce, ovviamente, il pensiero di Marx) ha tolto ogni ruolo alla natura nel processo di produzione della ricchezza. Non diversamente che nella teoria capitalistica la natura viene ridotta a merce, degradata a “materia prima.” E' sufficiente darle un prezzo e il cerchio della razionalità economica appare perfettamente chiuso. Ma la natura non è una cosa, una quantità di materiale disponibile all'uso. Il rame del Cile, utilizzato nell'industria automobilistica ed elettronica, non è solo dato dalle tonnellate di materiale pronto alla valorizzazione e pagato dai capitalisti americani o giapponesi. Esso non è solo frutto del lavoro operaio, come continua giustamente, ma oggi limitatamente, a ricordarci la tradizione marxista. Dietro di esso c'è la distruzione di ecosistemi naturali che appartengono al popolo cileno e a tutti noi. Gli scavi minerari per produrre la materia prima necessaria all'industria, ancor prima che questa incominci a generare i suoi specifici danni, comportano la sbancamento di vasti territori, l'uso e l'inquinamento di fiumi e falde acquifere, l'ammassamento di montagne di scarti, la dispersione di veleni nell'aria, il consumo gigantesco di energia che contribuisce alla produzione di C02 e quindi al riscaldamento climatico globale. La preistoria della materia prima è da subito una vicenda di distruzione generale. L'economia capitalistica, dunque, non è una partita che si gioca solo tra operai e capitale. Essa coinvolge un Tertium, la natura, senza diritti e senza rappresentanze, ma che oggi acquista una universalità inoccultabile. Ovviamente son sempre gli uomini, è l'umano interesse alla salute e alla sopravvivenza a rappresentare i diritti di questo Tertium. Ma ora in una forma radicale e universale. E questo rinnovato antropocentrismo mette in luce, per la prima volta, un limite fondativo di egemonia del capitale: la produzione illimitata di ricchezza, con cui esso ha creato le basi del suo consenso, coincide sempre più perfettamente con la distruzione di ecosistemi limitati, con le fonti stesse della nostra prosperità e del nostro benessere. L'interesse privato del capitale non solo sottrae plusvalore al lavoro operaio, ma viene distruggendo i beni comuni della terra. Negli ultimi decenni la sinistra aveva davanti a sé una formidabile risposta teorica e culturale da dare alla retorica dell'individualismo neoliberistico. Non l'ha trovato, soprattutto perché inchiodata alla propria tradizione industrialista e sviluppista, chiusa nei limiti della proprie basi teoriche originarie. Ma non è riuscita a trovarla anche perché schiacciata dagli “stati di necessità” che ha dovuto di volta in volta affrontare. Le considerazioni realistiche di Rossana Rossanda, prima ricordate, ne costituiscono ancora oggi una testimonianza esemplare. Senza dire che, oltre una certa misura, il realismo rischia di coincidere con la difesa dello status quo. Io credo che la questione dell'Ilva possa costituire occasione per riprendere uno sguardo progettuale. Anche in questo momento difficile. Abbiamo ancora di fronte una prospettiva che rimane aperta e che fornisce a noi una nuova, straordinaria possibilità di allargare le alleanze della classe operaia a forze sociali varie e diverse. E al tempo stesso al mondo della ricerca e della scienza. Sempre che a questo mondo siamo in grado di chiedere non certo altra crescita, ma nuove forme di economia, nuovi paradigmi tecnici in cui collocare l' umana operosità.
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E' possibile fare un breve e disincantato bilancio del governo Monti? La prima, avvilente constatazione, è che in quasi 9 mesi di “riforme” e di “vertici decisivi” la montagna del debito pubblico italiano non è stata neppure scalfita. Anzi si è fatta ancora più alta e imponente. Il debito ammontava a 1.897 miliardi di euro nel dicembre 2011, oggi è arrivato a. 1.966. Dunque, la ragione fondamentale della nostra condizione di rischio , la causa causarum delle nostre difficoltà presenti e future si è ulteriormente aggravata. Lo spread si mantiene elevato e il 16 luglio ha sfiorato i 500 punti. Il Pil – questo vecchio totem delle società capitalistiche – è nel frattempo diminuito e diminuirà ancora. Scenderà di oltre il 2% nel 2012. Dicono gli esperti che si riprenderà nel 213. Ma per quale felice congiunzione degli astri non è dato sapere. Qui, infatti, la scienza economica si muta in astrologia, dà gli oroscopi. L'elenco dei disastri non è finito. La disoccupazione, com'è noto, è aumentata, quella giovanile in particolare. Per quella intellettuale in formazione il governo propone ora di aumentare le tasse universitarie, così potrà essere efficacemente ridotta... Una nuova tassa sulle famiglie italiane di cui occorrerebbe informare l'on. Casini, che ne è uno zelante difensore.
Nel frattempo le più importanti riforme realizzate dal governo incominciano a mostrare effetti indesiderati che pesano e peseranno sull'avvenire del Paese. Prendiamo la riforma delle pensioni, sbandierata dai tecnici al governo come lo scalpo di un mostro finalmente abbattuto. Pur senza considerare qui il grande pasticcio dei cosiddetti esodati, che pure costituisce un dramma inedito per migliaia di famiglie, la riforma appare come un'autentica sciagura economica e sociale. L' allungamento dell'età pensionabile ha già bloccato l'assunzione di migliaia di giovani nelle imprese. Vale a dire che essa impedirà l'ingresso nelle attività produttive e nei servizi di figure capaci di portare innovazione e creatività. Mentre riduce ulteriormente prospettive e speranze di lavoro alle nuove generazioni. Quale slancio può venire da una società se si chiede agli anziani di continuare a lavorare sino alla vecchiaia e ai giovani di aspettare, cioé di invecchiare senza lavoro? Ma le imprese dovranno tenersi lavoratori logorati e demotivati sino a 65 anni e oltre. Chiediamo: è' questo un 'incentivo alla crescita della produttività, fine supremo di tutte le scuole economiche? Quale danno, in realtà, sarà portato alle imprese e a tutti noi? E' facile infatti immaginare – salvo ambiti limitati in cui l'anzianità significa maggiore esperienza tecnico-organizzativa – che questi lavoratori saranno più facilmente vittime di infortuni, che contrarranno più malattie , si assenteranno per stress, ecc. Dunque peseranno sul bilancio dello stato, probabilmente in maniera più costosa che se fossero in pensione.
Non meno fallimentare appare la riforma del lavoro della ministro Fornero. A parte la razionalizzazione di alcuni aspetti di una normativa ingarbugliata, essa ha peggiorato la condizione dei lavoratori occupati. Come hanno mostrato tante analisi pubblicate sul Manifesto, questi sono oggi più ricattabili da un padrone che può licenziarli con maggiore facilità tramite un indennizzo monetario. Nel frattempo la giungla legislativa del lavoro precario non è stata cancellata. I giovani, pochi, che entrano nel mondo del lavoro fanno ingresso nel regno dell'insicurezza, non diversamente da quanto accadeva in precedenza. Ma quanta nuova occupazione creerà questa rivoluzione copernicana della supponente Ministra ? Perchè le imprese straniere dovrebbero precipitarsi a investire nel nostro Paese, dove prevale una forza-lavoro anziana, le Università e i centri di ricerca sono privi di risorse, dove la pubblica amministrazione è in gran parte inadeguata, dove illegalità e criminalità sono fenomeni sistemici, dove spadroneggia un ceto politico fra i più inetti e affaristici dell'Occidente? Questi ultimi due aspetti, ovviamente, non sono addebitabili al governo Monti, ma fanno parte ineliminabile del quadro nazionale di cui occorrerebbe tener conto.
Ebbene, dove ci porterà questo governo nei prossimi mesi? Economisti e media continuano il loro estenuato ritornello: faremo “riforme strutturali”, la formula magica che dovrebbe dischiudere la spelonca di Alì Babà, deposito di immensi tesori. Quali riforme strutturali? Forse la nazionalizzazione delle banche, una tassazione stabile sulle transazioni finanziarie, il 3% del PIL destinato alla formazione e alla ricerca, la creazione di un sistema fiscale progressivo, una tassa stabile sui patrimoni, una grande legge urbanistica che protegga il nostro territorio e faccia vivere civilmente le nostre città? No, niente di tutto questo. Le riforme strutturali sono state già fatte e sono quelle che abbiamo esaminato e ora la spending review, che avrebbe bisogno di tempi lunghi e di circostanziata conoscenza della macchina statale per non diventare un' altra operazione di tagli lineari. Quale di fatto è. Essa, infatti, deprimerà ulteriormente la domanda aggregata, con quali effetti sul PIL ce lo comunicheranno nei mesi seguenti, invocando qualche altro vertice decisivo. Ma il repertorio pubblicitario è in realtà esaurito. Proveranno con la svendita dei beni pubblici, ma non avranno né il tempo né l'agio.
Chi dice dunque, a questo punto, che il re è nudo, che il governo Monti ha fallito? Il fallimento è certo globale. Sono ormai 5 anni che le società industriali navigano nella tempesta e gli uomini di governo, che hanno salvato le banche dalla rovina, protetto i potentati finanziari da tracolli su vasta scala, sono ancora col cappello in mano a chiedere comprensione ai grandi speculatori, definiti mercati. Cinque anni nei quali si potevano separare le banche di credito dalle banche d'affari, bandire i prodotti finanziari ad alto rischio, riformare le agenzie di rating, regolamentare i movimenti di capitale, chiudere i paradisi fiscali, applicare la Tobin tax, ecc. Eppure niente è stato fatto. La finanza spadroneggia e il ceto politico ubbidisce, demolendo pezzo a pezzo, su suo ordine, le conquiste sociali del XX secolo. E chiama riforme strutturali questo cammino all'indietro verso il XIX secolo.
In Italia non si è fatta eccezione. Ma oggi occorre aggiornare il quadro. Non si tratta più, per gli italiani, come alla fine dello scorso anno, di scegliere fra uno dei peggiori governi dell'Italia repubblicana e la strada di una cura severa e dolorosa, ma che alla fine ci porterà fuori dalla catastrofe. Oggi non si da più questa alternativa. Il governo Monti ha solo ritardato la discesa del Paese nell'abisso per un comprensibile effetto psicologico. Oggi appare nella sua piena luce di “governo ideologico”, come lo chiama Asor Rosa: esso è la malattia che vuol curare i sintomi, acuendo le cause che ne sono all'origine. E' l'ideologia che domina a Bruxelles. Lo abbiamo visto con la Grecia, lo stiamo osservando con la Spagna. Un medico che dovrebbe dare ossigeno al malato e continua a tagliare col bisturi. Prima il “risanamento” e poi la crescita è un vecchio ritornello, che oggi appare tragicamente fallimentare. La presente crisi, com'è noto ormai a molti, origina dalla sproporzione fra l'immensa ricchezza prodotta a livello mondiale e la ridotta capacità della domanda di attingerla. Troppe merci a fronte di redditi popolari stagnanti e in ritirata, sostenuti con il surrogato dell'indebitamento familiare. La politica di austerità, dunque, rende più grave la crisi perché ne ripropone e alimenta le cause. Premi Nobel come Stiglitz e Krugman lo vanno ripetendo da mesi, anche sulla stampa italiana.
Forse qualcuno dovrebbe rammentare ai dirigenti del Partito Democratico che in autunno le condizioni economiche generali del Paese saranno peggiorate. E che agli occhi degli italiani il perdurante sostegno a Monti finirà col rendere tale partito interamente corresponsabile di un fallimento di vasta portata. La sua prudenza e il suo tatticismo si trasformeranno in grave irresponsabilità. Perché la forza politica che dovrebbe costituire e aggregare l'alternativa, non solo di facce, ma anche di politiche economiche, apparirà irrimediabilmente compromessa. Parte indistinguibile del mucchio castale che ha fatto arretrare le condizioni generali del Paese. Un vuoto drammatico che, temiamo, la sinistra radicale non riuscirà a colmare e che indebolirà il tentativo di una nuova “rotta d'Europa”: vale a dire l'alleanza con le sinistre europee per cambiare strategia, a cui gruppi e singoli intellettuali vanno lavorando da tempo. Appare a tal proposito molto significativo che un giornalista come Eugenio Scalfari, uno dei più convinti sostenitori del governo Monti nell'area liberal progressista, abbia preso le distanze con tanta eleganza, ma con tanta fermezza, nel suo editoriale su Repubblica del 15 luglio. Che abbia più fortuna di Stiglitz e di Krugman ?
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Si deve ammettere l’esistenza di una costante sarda che, però, non è una costante resistenziale. Da almeno mezzo secolo, infatti, salvo brevi sussulti d’amor proprio, non resistiamo più a nulla.
L’emiro del Qatar ha comprato la Costa Smeralda. Ora, dicono, vuole investire nel Sud dell’isola. Il Qatar è per Amnesty International uno Stato nel quale i diritti civili sono limitati, soprattutto quelli delle donne e degli immigrati. Ma la costante compiacente sarda non è interessata a queste quisquilie. La costante compiacente sarda è abbagliata dalla solita promessa di una pioggia d’oro e onori sull’isola in liquidazione.
Comprano e consumano l’unica ricchezza che possediamo. Comprano il Paesaggio, e noi con esso. Ma non compra solo l’emiro. Arbus, Teulada, la Marmilla, tutto è in vendita. L’Isola si vende e venera – come accade agli sventurati – chi la compra. A capo chino chiede almeno di poter guardare lo sfarzo da lontano. E noi capiremo troppo tardi che un popolo privato del Paesaggio non è più neppure un popolo.
Il Presidente della nostra Regione ha incontrato in un “summit segreto” l’emiro del Qatar. Il termine “summit” è ridicolo. Ma l’aggettivo “segreto” è oltraggioso.
Quale comunità sopporterebbe che il proprio rappresentante incontri “in segreto” un Capo di Stato per discutere alla chetichella del destino di tanti? I 2300 ettari inedificabili di Arzachena - parte del consorzio Costa Smeralda - diventerebbero edificabili se la Giunta sviluppista cancellasse le regole del Piano Paesaggistico. Questo è l’argomento neppure tanto segreto. Indebolire il Piano e poi costruire, costruire, costruire.
A Cagliari, invece, approda il sultano dell’Oman e andremo a contemplare l’irriguardosa ricchezza di un altro monarca assoluto, possibile compratore di porzioni di Sardegna. Una giornalista poco resistenziale lo descrive: “Sguardo profondo, ama le donne, così come i fiori e i cavalli”. E immaginiamo che non si confonda mai. Il sultano elargisce qualche milione di euro alle città dove ormeggia e noi, a causa della nostra costante compiacente, tendiamo la mano. Ci sarà un incontro al vertice anche con lo sceicco. Stanno sempre in vetta.
Nel frattempo, in pianura l’aria è pesante e alcuni regnanti locali – a breve senza regno – parlano di sovranità, di orgoglio sardo (che si dovrebbe chiamare in altro modo), di lingua sarda (concessa come trastullo, tanto non disturba gli affari) e di Sardegna indipendente proprio mentre la vendono. E viene dolorosamente da chiedersi se scozzesi, islandesi, catalani e corsi sopporterebbero un Presidente che contratta la sorte dell’Isola in un colloquio segreto. No, scozzesi,islandesi, catalani, evocati in modo martellante e antistorico dagli indipendentisti sardi, non ammetterebbero l’anacronistico comportamento di chi organizza vertici come titolare di un feudo. Altro che sovranità, indipendenza e autodeterminazione. I sovranisti sardi cercano sovrani.
Non una parola sulle alternative vere al crepuscolo industriale, sull’agricoltura e la sua ripresa, su un plausibile governo del turismo che sino a oggi è stato un travestimento dell’edilizia. Non una parola su un realistico modello di vita. Solo il cupo desiderio di consegnarci, spogli di ogni responsabilità, ad altri. Una comunità in cerca di affidamento.
Ma la modifica compiacente del Piano passerà dritta dalla Giunta che la concepirà al Tribunale che la boccerà perché la tutela dei nostri beni non può essere allentata ma solo, casomai, rafforzata. Quando si è raggiunto un livello di protezione dei luoghi nessun summit, vertice o Giunta lo può attenuare, specie se agisce in nome degli affari di pochi e non in nome della comunità che con un referendum ha dimostrato di considerare il Piano Paesaggistico una conquista primaria. Un rarissimo guizzo d’orgoglio.
Ricordo che l'idea ispiratrice da cui nasce il Partito Democratico, arriva storicamente tardi, quando il bipartitismo di tipo angloamericano, a cui esso si rifà, era in conclamato declino e ormai andava svuotando, in quasi tutti i paesi in cui si era affermato, la sostanza della vita democratica: l'effettività della rappresentanza dei cittadini e la partecipazione popolare. Una Grande Trasformazione si è consumata infatti nell'ultimo trentennio negli assetti tradizionali delle democrazie rappresentative: la scomparsa di fatto della figura del partito di opposizione. L'eclisse della “competizione di classe” tra i grandi partiti politici - surrogata da una semplice “competizione elettorale” - ha spinto sempre più verso una una gestione monopolistica del potere. Il sociologo americano Richard Sennet ha paragonato la sostanziale identità di posizioni fra partiti di governo e di opposizione alla funzione che ha il telaio nell'industria automobilistica. Le grandi fabbriche producono un medesimo telaio per tutte le automobili, ma poi vi aggiungono vari optionals – dorature, dice Sennet - per rendere diversificati i prodotti destinati al pubblico, ma che sono sostanzialmente simili, come i programmi elettorali dei partiti.
Tale trasformazione, che ha lasciato i lavoratori senza rappresentanza e favorito la diffusione della disuguaglianza sociale, costituisce una componente politica fondamentale all'origine della Grande Crisi. Sotto l'apparenza della varietà delle sigle governa un' élite di ceto politico che opera come una moderna oligarchia. La grosse Koalition in Germania, nel 2005-2009, e oggi il governo Monti sono delle emersioni che rendono visibile una tendenza, operante da tempo, verso il “partito unico”. Un partito unico a due teste, ma sempre più simile, in forme aggiornate, a quello dei totalitarismi del XX secolo.
E questo è un folgorante paradosso: mentre tutte le voci del coro incitano alla competizione, infallibile regolatrice perfino dei rapporti fra persone, i gestori del potere supremo, quello che si fa stato, vale a dire i partiti, tendono a configurarsi come monopoli. Detentori unici delle decisioni in cui la competizione è finta.
Dunque, il PD che voleva rendere più dinamica ed efficiente la nostra democrazia, porta in realtà un tardivo contributo alla riduzione dei suoi spazi. Ricordo che esso si è imposto violentemente al ricco arcipelago di culture politiche che contrassegna l'Italia, con un disegno semplificatore che forzava caratteri storici insopprimibili. E senza un'idea della loro possibile valorizzazione.
Ora, a parte la litigiosità irresponsabile della sinistra minoritaria, è anche giusto ricordare che il PD ereditava un partito il quale, dopo lo scioglimento del PCI, aveva progressivamente abbandonato la rappresentanza diretta degli interessi operai e popolari e annacquato progressivamente la propria funzione di partito di opposizione. Si potrebbe fare un lungo elenco di scelte molto significative di tale percorso. Ogni potere, allorché vede eclissarsi le ragioni ideali che l' hanno fatto sorgere, rivolge tutte le proprie residue energie al compito unico della propria sopravvivenza. Ma oggi questo processo di avvizzimento storico si svolge entro una nuova geografia dei poteri mondiali. I centri transazionali dell'economia finanziaria non solo scorazzano per il mondo e condizionano apertamente la vita degli stati. Essi oggi formano personale per il ceto politico o trasformano gli esponenti del ceto politico in loro personale. E' la nota pratica del revolving door, la porta girevole, che fa passare le persone dalle banche ai partiti e dai partiti alle banche. Ne “ Il volto dei signori del debito” – su Le Monde Diplomatique. Il manifesto di giugno 2012 - G.Geuens ha fornito un quadro impressionante di questa disinvolta incestuosità civile che ormai tocca tutti i partiti del mondo e anche gli esponenti della socialdemocrazia europea, non esclusa quella scandinava.
Nessuno, tuttavia, creda che siamo di fronte a una semplice “questione morale”. La questione è eminentemente politica: quanto più i partiti politici perdono consenso tra i ceti popolari, a causa delle restrizione delle politiche di welfare, tanto più chiedono risorse al potere economico- finanziario per mantenere la base clientelare del loro consenso.
Occorre tuttavia tenere presente anche la specifica storia italiana. Il discredito profondo e senza precedenti che oggi circonda i partiti è continuazione di una vicenda pluridecennale. Non siamo mai usciti da un lungo ciclo di svalutazione della funzione dei partiti politici. Qualcuno si ricorda della virulenta stagione di critica alla partitocrazia negli anni '80? Una invadenza delle forze politiche che tendevano a occupare ogni spazio visibile di potere. Tangentopoli sembrò interrompere e spezzare quella trama sotterranea che soffocava l'Italia. Ma, com'è noto, fu solo una pausa. Anche Berlusconi, che in quanto imprenditore doveva incarnare l'alternativa ai burocrati di partito, ha inaugurato una nuova e più larga e ramificata invadenza delle élites politiche nella vita del Paese. E' storia nota.
Ma, mentre il PCI dei primi anni '90 apparve ai margini del sistema affaristico, oggi il PD appare parte interna al quadro, anche se non sempre in forme che assumono rilievo penale. Chi ha un minimo di esperienza delle politiche di amministrazione locale sa bene quali intrecci legano gli amministratori del PD agli affari, soprattutto al mondo delle costruzioni. Non mancano, ovviamente, gli amministratori bravi e onesti, anche giovani, che rinnovano una tradizione a suo modo esemplare. Ma non costituiscono, come un tempo, l'indirizzo dominante delle politiche locali di questo partito. Nel Mezzogiorno capita spesso che gli amministratori del PD siano al di sotto, per qualità culturale e civile, degli standard medi del ceto politico nazionale.
Oggi, il progressivo venir meno della funzione di forza d'opposizione da parte del PD si può constatare in un esito davvero paradossale della storia recente del nostro Paese. L'Italia ha uno dei debiti pubblici più elevati del mondo e un welfare che era in costante ritirata già prima della crisi presente. Al tempo stesso vanta una distribuzione sperequatissima fra i redditi delle famiglie, i salari agli ultimi posti dei Paesi Ocse, disoccupazione e precarietà fra le più elevate degli stati industrializzati. Chi ha vigilato sulle spese dello stato? Chi ha tenuto d'occhio le tendenze distributive della ricchezza prodotta? Chi si è fatto carico di quanto stava accadendo a un paio di generazioni di giovani privati di ogni prospettiva?
Ebbene, dovrebbe apparire evidente che questo partito, così com'è oggi, rappresenta una delle più rilevanti concause del declino storico del nostro Paese. Innanzitutto per la drammatica inadeguatezza culturale del suo gruppo dirigente. Qualcuno ha mai sentito i suoi maggiori esponenti discutere di assetto delle città e di questioni urbanistiche, del sistema nazionale della formazione e di 'Università, dei problemi drammatici del territorio italiano, della difesa del nostro paesaggio agrario e dei beni artistici, della potenzialità della nostra agricoltura? Non pretendiamo, ovviamente che si occupino di riscaldamento climatico e della distruzione degli ecosistemi. Ci mancherebbe! Ma oggi nessuno sa che progetto di società vuol proporci il gruppo dirigente di questo partito, a quale nuovo assetto dovrebbe aspirare l'intero apparato produttivo del Paese, in un momento così grave. Che cosa ha da dire sul destino che attende i ceti medi? E che analisi ci offre del Mezzogiorno. Che cosa propone a milioni di giovani laureati senza lavoro? Non è il caso di infierire sul tema dei diritti civili.
Non è tutto. Oggi questo partito comincia a rappresentare una agente attivo di arretramento della democrazia italiana. Culturalmente subalterno alle ideologie neoliberiste, esso tende ad accettare gli “stati di necessità”imposti dall'avversario e dunque manipolazioni gravi della nostra Costituzione. La modifica dell'art. 81 e l'inserimento dell'obbligo di pareggio di bilancio nella nostra Carta, che priva i cittadini del diritto di referendum confermativo, è una ferita grave. Mentre sono in discussione altri assetti della nostra Costituzione e dei nostri ordinamenti, come l'art. 41 della Carta e l'art. 18 dello Statuto dei lavoratori(di fatto svuotato), insieme ad altri tentativi di manipolazione della forma di Stato di cui il Manifesto ha dato conto in questi giorni. La paura di assumere responsabilità di governo, di affrontare una competizione elettorale che nella primavera scorsa dava questo partito come vittorioso, conferma tale dato preoccupante della situazione italiana. Da anni la vita vegetativa del Partito Democratico corrisponde alla paralisi di ogni iniziativa politica dell' opposizione nel nostro Paese. Uno stallo che neutralizza tante energie riformatrici, che pure esistono al suo interno, e che genera frustrazione nel vasto popolo dei suoi elettori: una variegata platea di cittadini che non ha cessato di manifestare una fedeltà meritevole di ben altro ascolto.
Il come uscirne è uno dei più ardui rompicapo di questa fase. Forse si può delineare il problema, esprimere aspettative . La questione, credo, è la seguente: alla prossima scadenza elettorale occorrerebbe ridimensionare il peso del PD, inducendo un shock chiarificatore al suo interno, senza portare il centro-sinistra alla sconfitta elettorale. Tale evento potrebbe favorire un centro sinistra di tipo nuovo, in cui l'ipoteca moderata che Ds e Pd hanno esercitato nei precedenti governi non possa più esercitarsi. Ricordo che un governo di sinistra-centro, come sarebbe auspicabile, è uno strumento imprescindibile per rimettere in equilibrio la macchina economica nazionale. Tale operazione è infatti resa possibile solo da una rilevante redistribuzione della ricchezza fra le classi e le famiglie. Il Pd non possiede né la cultura né l'intenzione politica di un tale compito e ci trascinerebbe in una replica ancora più fallimentare di quelle conosciute in passato.
Difficile, ovviamente, il compito della sinistra radicale, difficilissimo quello di Vendola. L'incognita Grillo complica ulteriormente il quadro, sebbene sia difficile pensare che i rappresentanti del movimento Cinque Stelle possano fare peggio dei parlamentari del PDL e della Lega: avanguardie del più abietto Parlamento dell'Italia repubblicana. Nel nuovo Parlamento i vecchi giochi saranno più difficili. Ilvo Diamanti su Repubblica del 25 giugno ha prospettato un quadro numerico di difficile ricomposizione.
Occorrerebbe perciò una più forte avanzata della sinistra, in questa fase in cui l'egemonia moderata, anche quella del PD, è in rovina. La crisi è il collasso di un paradigma economico e di un assetto di potere di cui i partiti sono parte integrante. Ma a contrastare tale avanzata, a mio avviso, sono almeno due cause. La prima è l'incapacità, finora dimostrata, di offrire all'opinione pubblica un progetto credibile di nuova occupazione e ripresa economica. Abbiamo milioni di giovani disoccupati, provenienti da tutte le classi sociali, quindi la possibilità di guadagnare il consenso trasversale delle famiglie italiane e tuttavia nessuno accenna a un possibile progetto. Bisogna rammentarselo : il consenso a Monti, oggi in declino – e in parte la tenuta del PD - si fondano in buona parte sulla paura della maggioranza delle famiglie che temono, col tracollo dell'euro, di perdere i risparmi conquistati col lavoro di una vita. E a queste paure occorre saper parlare, mostrando alternative, sia pur minime. Temo che lo si farà solo in campagna elettorale, quando ogni voce contende verità all'altra, diventa confuso schiamazzo pubblicitario.
L'altro ostacolo, che si potrebbe più agevolmente superare, è l'assenza di accenni di autoriforma del ceto politico. Occorre che i dirigenti delle formazioni che non stanno in Parlamento non si facciano illusioni. Essi sono percepiti come vecchi partiti politici. Tale percezione ha inchiodato il Prc alle sue esigue percentuali, che non crescono nella Fds. Questo – in una misura che temo crescente – impedisce a SEL, tra altre cause, di espandere la sua influenza. Tali formazioni debbono togliersi di dosso l'odore di partito che si portano appresso. Non perché devono sciogliersi nei movimenti, ma perché devono cambiare le loro modalità di organizzazione. Con il passare dei mesi, in Italia, a tale odore si darà la caccia, e credo anche all'odore dei tecnici, quando disoccupazione, alti prezzi dei servizi, tassazione crescente mostreranno il fallimento di un ceto politico che ha allungato “nello spazio di una notte” le pensioni dei lavoratori e recalcitra a ogni forma di limitazione dei suoi privilegi. Sempre che lo scenario non sia più catastrofico. Il PD potrebbe pagare un prezzo rilevante per tutto questo, di cui finirà col portare piena responsabilità. Io credo che le formazioni minori debbano presentarsi agli elettori dichiarando in programma – Alba potrebbe svolgere un compito importante in tale direzione- la durata dei mandati parlamentari, la volontà di sottoporsi al monitoraggio dei propri redditi durante il mandato, di presentare una legge che fissi la quota massima di spesa per ciascun candidato nella campagna elettorale, le incompatibilità fra le varie cariche, e insomma la volontà di essere portatori di una politica come bene comune.
So bene che un governo di sinistra-centro non è la presa del Palazzo d'inverno. Ma a sinistra scambiamo agevolmente la forza delle nostre ragioni con la forza politica con cui dovremmo farle valere, che invece non possediamo. Una delle più limpide vittorie conseguite dai movimenti negli ultimi decenni, quella del referendum contro la privatizzazione dell'acqua, rischia di essere vanificata perché il potere, nelle istituzioni, ce l'hanno gli altri.
Un esito fortunato di tale strategia potrebbe favorire una svolta in Europa, in grado di emarginare la Germania e soprattutto di unificare le sinistre. Nell'attuale partita internazionale, mentre la finanza minaccia gli Stati, la concertazione fra tanti paesi europei avrebbe una forza straordinaria: perché c'è questo di singolare e poco esplorato nel rapporto tra debitori e creditori. Il creditore ha un bisogno vitale che il debitore goda di ottima salute, altrimenti può dire addio ai suoi soldi.
. www. amigi.org. L’articolo è inviato contemporaneamente al manifesto
del libro patrocinato da Italia Nostra Lombardia con l’intento di “rivedere” e “aggiornare” il pensiero di Antonio Cederna. L’immediato e deciso intervento di Giulio, Camilla e Giuseppe Cederna, cui fece seguito un appello di decine di intellettuali – da Alberto Asor Rosa a Corrado Stajano –, indusse Electa a interrompere subito la distribuzione del libro. Ma all’interno del consiglio nazionale dell’associazione la vicenda fu condotta molto maldestramente. La presidente Alessandra Mottola Molfino – d’accordo con la maggioranza – rifiutò di assumere qualunque provvedimento nei confronti degli autori del pasticcio. Mise anzi sullo stesso piano i responsabili del libro impropriamente attribuito a Cederna e i componenti del consiglio – soprattutto il sottoscritto, Maria Pia Guermandi ed Elio Garzillo – che contro quel libro avevano preso posizione pubblica, con il che avrebbero danneggiato l’associazione. Alla stampa fu comunicato che la vicenda si era conclusa nel migliore dei modi e tutti i consiglieri erano allineati alle posizioni della presidente.
Ho ricordato queste cose perché nei prossimi giorni i soci di Italia Nostra votano per il rinnovo delle cariche elettive e potrebbe finalmente concludersi uno dei periodi più tristi nella vita della benemerita associazione, un periodo caratterizzato da un’attività tanto estesa e propagandata, quanto superficiale, anodina e inconcludente. Solo un esempio. L’Aquila, in particolare il centro storico. A leggere i documenti ufficiali sembra che l’azione di Italia Nostra sia stata decisiva per il suo recupero. Ma non è così. A fine marzo [cfr. eddyburg] autorevoli esponenti del governo hanno formalmente condiviso un inaudito documento dell’Ocse e dell’università di Gröningen che propone di svuotare gli interni degli edifici del centro storico dello sventurato capoluogo abruzzese conservando soltanto le facciate. Una cosa inverosimile, che avrebbe preteso (e tuttora pretende) un energico e risoluto intervento sui vertici del ministero dei Beni culturali. Con i quali la presidenza di Italia Nostra vanta rapporti inutilmente cordiali.
Ma non è tutto. Il dato più grave dell’inerzia di Italia Nostra riguarda l’atteggiamento di fronte alla crisi della cultura, dell’etica, della politica che sta travolgendo la società italiana. In una realtà drammaticamente caratterizzata dalla perdita di riferimenti, nella quale la rappresentanza istituzionale non ha più credito, che sembra destinata al si salvi chi può, l’azione di un soggetto come Italia Nostra – storicamente impegnato in nient’altro che non sia l’interesse generale – dovrebbe essere obbligatoriamente orientata a ricomporre, compattare, organizzare brandelli di società intorno al nostro patrimonio d’arte e di cultura. Non per sostituirsi ai partiti, ma per contribuire con la propria specificità alla ricostruzione di un più vitale tessuto civile. Invece, in questa direzione, di Italia Nostra non è traccia se non nel senso di una retorica perorazione di buone pratiche.
Mi pare francamente più utile ed efficace l’azione di eddyburg. Penso all’impegno per lo stop al consumo del suolo, alla critica inesorabile alla mala urbanistica capitolina, all’attenzione sempre disponibile nei confronti di comitati e tensioni emergenti (anche all’Aquila). Perciò mi sembra importante segnalare la candidatura del direttore e del vicedirettore vicario al consiglio nazionale di Italia nostra insieme ad altri che possono considerarsi parte della squadra di eddyburg: una bella novità che può essere decisiva per la rinascita di Italia Nostra.
Concludo ricordando che in questi giorni è stato pubblicato un libro commissionato da Legambiente a Francesco Erbani su Antonio Cederna, nel quindicesimo anniversario della sua morte. Un libro che ricostruisce con puntualità il rigore e l’intransigenza di quel grande italiano, fondatore del moderno ambientalismo. Come sappiamo, Cederna è stato il più autorevole esponente di Italia Nostra ed Erbani lo scrive con esattezza. Che ciò sia raccontato in un libro voluto da Legambiente mi pare che sia meritevole di apprezzamento, non disgiunto dal rammarico per l’ennesima occasione persa da Italia Nostra.
In allegato il programma della lista: Nel nome di Cederna
Da tempo i media legati ai poteri dominanti fanno ricorso a un binomio retorico per screditare tutto ciò che cerca di resistere alle innovazioni distruttive imposte dal capitalismo che avanza. Il mondo viene spaccato in due: antico e moderno, arretrato e avanzato, conservatore e innovatore, vecchio e giovane. Com'è noto, Marchionne ha rinfrescato il binomio con una divaricazione immaginifica: prima e dopo Cristo. Dove, “per dopo Cristo”, lui intende una modernità che si mette alle spalle anche la misericordia cristiana, ormai invecchiata come tutte le cose che non stanno coi tempi rapidi dei mutamenti in atto. La sua lucente modernità, è a tutti noto, riporta in fabbrica i ritmi di lavoro al livello di intensità dei primi del XX secolo, quando in USA trionfava lo Scientific Management di Robert Taylor. Quello, per intenderci, messo alla berlina da Chaplin in Tempi moderni. Ma non è tutto. Il suo compenso è arrivato a superare anche di mille volte il salario di un suo dipendente. Ora, per trovare una tale disparità di reddito bisogna risalire molto indietro nel tempo, assai prima che la società industriale si articolasse nella attuale stratificazione sociale. Una tale divaricazione di ricchezza è tipica dell' Antico regime ( secoli XII-XVIII) quando la società era divisa tra grandi feudatari, che avevano in mano tutto, e popolazioni contadine, che possedevano solo le proprie braccia. E' moderno, avanzato, giovane, Marchionne?
Di recente, un nuovo modernizzatore è apparso sulla scena pubblica italiana, è il ministro dell' Istruzione dell' Università e della Ricerca, Francesco Profumo. Il ministro ha appena incassato una disfatta personale sul terreno di una innovazione che gli sta particolarmente a cuore: l'abolizione del valore legale del titolo di studio. Il referendum on line che egli ha organizzato, tramite il suo ministero, ha sonoramente sconfitto le sue velleità con oltre il 70% dei no. Una risposta degli «italiani “conservatori”» titolava mestamente un articolo di commento del Corriere della sera del 22 aprile. Se non l'avesse già fatto Monti, il ministro avrebbe potuto recriminare sul fatto che « gli italiani non sono ancora pronti. Capita a tutti i grandi novatori di giungere fra noi con troppo anticipo sull'avvenire. E' infatti caparbia aspirazione del prof. Profumo togliere alle Università, vale a dire alle istituzioni storiche in cui da secoli si viene organizzando e trasmettendo il sapere degli italiani, la possibilità di certificare la qualità delle lauree che esse rilasciano. Le ragioni di tanto zelo riformatore, sono state variamente dibattute, e non è ora il caso di ritornare su una questione da considerare, ormai, «un cane morto» : come si diceva un tempo di un eminente filosofo fuori moda.
Val la pena, tuttavia, aggiungere qualche elemento di chiarificazione sulla modernità degli intenti perseguiti dal ministro. L'abolizione del valore legale della laurea, tra le altre novità, comporterebbe una liberazione straordinaria degli individui dalle pesanti bardature statali. Non sarebbe infatti più lo stato a certificare la qualità della formazione del cittadino, ma finalmente il mercato. Non più la validazione di una entità pubblica, dietro cui stanno decenni di tradizioni di ricerca, di scuole scientifiche, di procedure di verifiche consolidate, in una parola il sapere di una comunità culturale che è parte costitutiva della storia di una nazione. Al contrario, varrebbe il parere di un qualunque commisario di concorso pubblico, ma sopratutto il giudizio di opportunità del privato, dell'imprenditore, che non deve essere condizionato nelle sue scelte di assunzione del personale.
Si dissolve così uno dei collanti della società, intesa come comunità di valori universalmente riconosciuti, e si risolve il problema della valutazione all'ingresso nel mondo del lavoro in un rapporto meramente contrattuale, tra due individui privati: l'assuntore, cioé l'imprenditore e il dipendente-lavoratore. Tutto ciò che è comune si dissolve, restano solo gli individui. «Ognuno è solo sul cuore della terra», recitava Quasimodo. Scava, scava e salta fuori la solita rogna neoliberista. Vale a dire l'ideologia che negli ultimi 30 anni ha scavato abissi di iniquità nella società del nostro tempo, dissolto le relazioni umane, trascinato nell'insicurezza milioni di individui, generato la crisi mondiale che continua ad alimentare con le sue ricette fallimentari. Quanto è moderno, avanzato, giovane, Profumo?
Questo ministro, che ha davanti a sé circa un anno di possibili iniziative, potrebbe intraprendere almeno un paio di decisioni, certamente modeste, dati i tempi ristretti, ma sicuramente utili , sia in prospettiva che nell'immediato. La prima di queste, che non comporterebbe spese particolari, potrebbe essere l'avvio di un processo di delegificazione della vita universitaria. Gli atenei ( ma anche le scuole) soffocano sotto montagne di carte. I neoliberisti tuonano contro la burocrazia che soffoca le imprese, ma non risparmiano leggi e regolamenti quando si tratta di assoggettare l'autonomia del sapere alla volontà delle burocrazie ministeriali. Naturalmente, il ministro non muoverà un dito su questo fronte, essendo egli l'esecutore testamentario della legge Gelmini. L'altra iniziativa possibile, diciamo così congiunturale, potrebbe essere quella di sventagliare un po' di milioni di euro in borse di studio per studenti meritevoli, per dottorandi, per post-dottorati che a migliaia, in Italia trarrebbero un sospiro di sollievo. E lo farebbero trarre anche alle loro famiglie. Un piccolo aiuto, mentre il numero dei nostri laureati continua a precipitare rispetto alla media europea, mentre la nostra migliore gioventù intellettuale continua a fuggire fuori d'Italia. E' troppo? Il ministro non lo fa, verosimilmente perché il suo peso specifico all'interno del Governo deve essere nullo. Tuttavia, poiché il prof. Profumo sa di marketing, cerca di dar segni di vita e rilievo al suo ruolo e si inventa trovate fantasiose. Com'è noto egli ha aperto un nuovo fronte di modernizzazione: quello dell'uso esclusivo della lingua inglese nel Politecnico di Milano, con l'intenzione di estendere la pratica al resto degli atenei. Un po' di lustrini per stupire l'analfabetismo linguistico della borghesia italiana.
Ora, a differenza del ministro Profumo, noi sappiamo che l'inglese è la lingua imperiale del XX secolo, lo strumento dell'egemonia del capitalismo angloamericano, fonte di bussines e vantaggi innumerevoli per i paesi di lingua madre. Pure non ci sogniamo di svalutare i vantaggi di una buona conoscenza dell'inglese da parte dei nostri giovani, strumento di comunicazione internazionale, mezzo utile anche per accedere alla saggistica di paesi e lingue di difficile accesso. Ma perché darle tanto spazio e peso nell'Università? Un buon possesso della lingua inglese dovrebbe essere una conquista della scuola media. All' Università lo studio delle lingue - non di una sola lingua – dovrebbe costituire oggi, in Europa (come in parte già accade ) un momento di alta formazione culturale. Si studia il francese, il tedesco, lo spagnolo per penetrare in profondità la cultura di quei paesi, per afferrare attraverso queste straordinarie lingue di cultura le articolazioni nazionali di una civilizzazione che è fra le più alte e plurali della storia umana. O dobbiamo realizzare l'unità d' 'Europa parlando tutti inglese'? Si dovrebbe studiare questa lingua per poter leggere in originale Shakespeare o Defoe, non solo per comunicare informazioni. E perché l'apprendimento dell' italiano – come ha osservato Raffaele Simone su Repubblica del 17 aprile - non dovrebbe costituire un elemento di attrazione per gli studenti dei vari paesi del mondo? L'italiano non è solo indispensabile per leggere direttamente Dante o Italo Calvino, ma per comprendere l'arte italiana nei suoi svolgimenti e nelle sue stagioni , il melodramma, il paesaggio, le cucine regionali. Dopotutto, quando nel XIV secolo, in Italia fioriva la prima lingua letteraria d'Europa, un fondamento della civiltà del Continente, l' England era ancora un povero paese abitato da pastori. Perché i giovani europei che escono dalle nostre università non dovrebbero possedere almeno la conoscenza della nostra o delle altre lingue nazionali? Non possiamo permetterci questo avanzamento, questo ulteriore salto di civiltà?
Il ministro Profumo è fissato con l'inglese. Ma sarebbe sbagliato pensare che si tratti solo di provincialismo. No, la ragione è che l'inglese è un mezzo, uno strumento per qualcos'altro. Come un martello per fissare un chiodo. Serve per comunicare, per organizzare, per mettere su aziende, per scambiare informazioni e possibilmente beni e danaro. Serve alla crescita. La cultura, per questo ministro, non è mai un fine, che ha le proprie ragioni fondative nell'elevazione culturale, civile, spirituale delle persone, prima che nelle tecniche destinate ad attività professionali. Gratta, gratta, ed esce fuori il fondo miserabile dell'economicismo, la più grave infezione spirituale della nostra epoca.
E' moderno, avanzato, è giovane il ministro Profumo?
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La lettura dell’articolo di Alberto Roccella, I cinquant’anni della legge sui piani per l’edilizia economica e popolare (17.04.2012), con l’accenno al prossimo settantesimo anniversario della legge urbanistica del 1942, mi permette di aggiungere qualche personale breve ricordo dei primi anni Sessanta sulla riforma che ancora stiamo aspettando. Quando, il 18 aprile 1962 fu approvata la legge 167, ministro dei lavori pubblici era Fiorentino Sullo, che puntava su un obiettivo ben più ambizioso, l’approvazione di una nuova legge urbanistica generale (per un’informazione esauriente invito alla rilettura di La proposta di Fiorentino Sullo e la sua sconfitta, di Edoardo Salzano, in eddyburg 12.08.07 – è lo stralcio di un capitolo del libro Fondamenti di urbanistica, Laterza 1998).
«La legge urbanistica nuova giungerà in ogni caso troppo tardi rispetto alla prima fase di sviluppo [dell’Italia], che può dirsi iniziata subito dopo il 1953 appena ultimata la ricostruzione. Se però dovessimo impiegare (come accadde per i contratti agrari fra il 1948 e il 1956) parecchi altri anni per definire legislativamente l’indirizzo urbanistico, tanto varrebbe non farne niente». Parole di Sullo, ormai ex ministro, nel libro Lo scandalo urbanistico, edito (Vallecchi 1964) dopo l’archiviazione del suo progetto di legge ma prima che il processo di svilimento dei temi fondamentali inerenti a una buona legislazione si compisse col secondo governo Moro, ministro dei lavori pubblici il socialista Giacomo Mancini.
Il 24-25 ottobre 1964 si svolgeva a Firenze il congresso dell’Istituto nazionale di urbanistica (Inu). Lo schema di legge governativo, nato dall’accordo estivo dei quattro partiti del centro-sinistra, cozzava contro la decisa opposizione di quegli urbanisti e di quei politici contrari a un provvedimento che non rispecchiasse la volontà di un’autentica riforma, espressa da almeno un quindicennio. Una mozione (prossima ai contenuti basilari, cui accenneremo, del progetto Sullo) che raccolse 196 voti contro i 124 di un documento qualunquista (invito all’Inu «ad affrancarsi dalle ipoteche politicistiche…») rappresentò un atto di viva unità fra architetti e urbanisti quali Samonà, Zevi, Quaroni, Piccinato, Astengo e parlamentari di diverse tendenze come Camillo Ripamonti (democristiano, presidente dell’Inu), Aldo Natoli (comunista), Riccardo Lombardi (sinistra socialista).
Nel 1962 era capo del governo Amintore Fanfani quando il ministro Sullo si dedicò all’elaborazione della sua proposta ispirandosi alle esperienze verificate in anni di pratica nei paesi europei (capitalisti) più evoluti del nostro e anche ricuperando gli studi già effettuati dall’Inu. Alcuni punti cardine del progetto si rivelarono particolarmente incisivi e, nei confronti delle consuetudini nazionali in materia, in grado di avviare quei processi realmente riformatori perché pertinenti agli interessi generali della collettività, e non, come si continuerà a ripetere nei decenni successivi sprezzando il tentativo di Sullo, «troppo» rivoluzionari:
- chiara strutturazione delle competenze delle regioni e degli enti locali in un conteso finalmente costituzionale che assegnasse ai piani urbanistici regionali un ruolo guida,
- coordinamento con la programmazione economica;
- esproprio generalizzato dei suoli urbani ( generalizzato non doveva confondersi con tutti);
- indennità di esproprio nelle aree di espansione delle città commisurata al valore dei terreni agricoli;
- istituzione del diritto di superficie, ossia cessione delle aree dopo l’esproprio e l’urbanizzazione secondo un titolo tale da impedire la formazione di nuove plusvalenze.
Insomma si trattava del primo tentativo di dotare l’ente pubblico di una strumentazione atta a controllare la dinamica urbana sottraendola all’enorme potere da sempre esercitato dalla proprietà fondiaria, dai costruttori edili e dagli alleati finanzieri. Per questo la contraddizione fra la vocazione riformatrice di Sullo e la tendenza moderata assunta dalla politica del centro-sinistra fra la fine del 1962 e l’inizio del 1963 si tradusse infine nell’offensiva dorotea della campagna elettorale per le elezioni del 28 aprile: il ministro fu sconfessato e il suo disegno accantonato.
Tuttavia nell’ambiente governativo non si poteva più sottrarsi all’impegno urbanistico. Si poteva però ridurlo al minimo e comunque rimandare i provvedimenti concreti. Così nel novembre del 1963, col primo governo Moro al quale parteciparono i socialisti, al ministro socialista dei lavori pubblici Giovanni Pieraccini fu assegnato il compito di rivedere il progetto Sullo, vale a dire addolcirlo, cancellargli l’impronta «di sinistra», in altre parole adeguarlo al debole compromesso su cui si basava la nuova alleanza. Sette mesi durò il governo Moro e non si riuscì a presentare alcuno schema di legge né al Consiglio dei ministri né tantomeno al parlamento. Da bozze ufficiose del nuovo testo si percepiva la netta deviazione moderata, benché, rispetto al successivo immediato sviluppo della controversia, ne sortisse che un peggio verso la proposta Sullo si sarebbe rivelata un meglio verso lo schema Mancini. Sette mesi durante i quali la destra economica ebbe buon gioco, sbandierando il pretesto della congiuntura e della nascente crisi edilizia – mentre per quasi quindici anni i padroni del settore edilizio avevano accumulato guadagni giganteschi – per scatenare una violenta campagna contro la regolamentazione urbanistica. Immediato fu l’allineamento dei burocrati ministeriali, pronti a smantellare i principi della riforma fino a sostituirla con uno schema contro-riformatore al quale gli architetti e urbanisti migliori, del resto tenuti a sostenere fermamente l’applicazione dei piani di zona comunali voluti dalla 167, furono del tutto estranei. Quando sopraggiunse la crisi di governo fu subito chiaro che insieme alla modificazione del programma generale e all’accantonamento del progetto economico di Antonio Giolitti anche la legge urbanistica sarebbe stata trattata col metodo centrista doroteo.
Nacque il nuovo testo Mancini del secondo governo Moro (Pieraccini era stato spostato al ministero del bilancio), in maniera semi-ufficiale ma sufficiente per mostrare la resa dei socialisti e provocare l’opposizione dell’Inu al congresso di Firenze. Il processo di smantellamento del progetto riformatore era ormai compiuto, il governo aveva accettato le pressioni e i ricatti delle immobiliari, dei grandi proprietari e dei mercanti di terreni. Il principio dell’esproprio dei suoli edificabili era demolito dalla casistica degli esoneri; le indennità si prevedevano commisurate a valori assai prossimi a quelli del libero mercato, modalità che, secondo la mozione vincente al congresso dell’Inu, avrebbe impedito «l’avocazione in mano pubblica delle plus-valenze» e avrebbe premiato «le rendite patologiche accumulate negli anni recenti»; e il rinvio sine die della definizione di un regime pubblicistico dei suoli ne avrebbe comunque reso illusoria l’applicazione in maniera uniforme sul territorio nazionale.
L’accentuazione della crisi edilizia nel 1965 spaventerà la Democrazia cristiana, tanto che organizzerà un convegno di partito sul tema (Bari, 10-11 luglio). È interessante ricordare che sarà questa l’occasione per sancire il distacco definitivo dei vertici democristiani da qualsiasi ipotesi di riforma urbanistica generale di tipo «socialdemocratico», per quel momento e per sempre. Una volta cadute nel vuoto le critiche di Sullo alla nuova proposta di legge, le sollecitazioni dell’onorevole Ripamonti per adottare un programma di forti investimenti cooperativistici, le osservazioni del professor Beniamino Andreatta sulle debolezze del settore edilizio dovute anche all’episodicità e alla scarsità dell’intervento pubblico, vincerà il doroteismo: superare la fase di crisi e recessione in chiave di facilitazioni all’iniziativa privata e di limitazioni del controllo pubblico legislativo e applicativo, in edilizia come in urbanistica. Mariano Rumor, quegli che sarà cinque volte primo ministro dal 1968 al 1974, dopo aver rivendicato come obiettivo primario della legislazione urbanistica quello di facilitare l’acquisizione della casa in proprietà (sottolineatura mia), dichiarerà che la legge non dovrà intimorire o scoraggiare imprenditori e costruttori prevedendo l’esproprio, poi li inviterà a concentrarsi sulla produzione di case popolari (private) «essendosi ormai saturato il mercato delle case di lusso». Sarà il vicesegretario Giovanni Galloni a trarre le conclusioni del convegno: quattro punti «per assicurare la ripresa»:
- richiesta di uno stanziamento, davvero miserevole (solo dieci miliardi), per contributi pluriennali all’edilizia sovvenzionata;
- perorazione di grosse facilitazioni all’edilizia privata mediante l’anticipazione di norme attuative favorevoli all’edilizia convenzionata e l’aumento degli importi mutuabili fino al 75 per cento della spesa;
- affermazione della necessità di ampliare il credito fondiario a lungo termine «in modo da soddisfare le esigenze dell’edilizia libera»;
-reiterazione, infine, del principio indiscutibile per il partito in tema di legge urbanistica: che non dovrà essere punitiva, non dovrà avere l’esproprio come obiettivo primario, dovrà limitarsi a rendere operante la legge 167 prima di vincolare qualsiasi altro comprensorio.
(Per chi, come si dice, ha una certa età, ora non c’è più tempo nemmeno per attendere…)
Milano, 23 aprile 2012
Proviamo ad anticipare lo scenario in cui il nostro paese verrà a trovarsi da qui a 7-8 mesi. Nessuno può dubitare del fatto che le condizioni economiche generali peggioreranno ulteriormente rispetto alla già gravissima situazione presente. Non è la voce inascoltata di Cassandra a dirlo, ma le previsioni dello stesso governo in carica e degli organismi internazionali. Dunque, nei prossimi mesi noi avremo centinaia di migliaia di nuovi disoccupati, l'ulteriore impoverimento dei cassintegrati di lungo corso, il trascinamento nella povertà o quanto meno nel disagio sociale di strati estesi di ceto medio a causa dell'innalzamento della pressione fiscale (IMU, IVA, imposte locali). Una spaccatura verticale fenderà in due il paese come non accadeva da decenni e come forse mai era accaduto, con tanta divaricazione, nella storia dell' Italia contemporanea.
Non è difficile immaginare che cosa accadrà al solido zoccolo di consenso, già in fase di erosione, di cui ha finora goduto il governo Monti. Così come è facile prevedere che cosa ne sarà del residuo grado di fiducia riposto dagli italiani nei partiti politici. La sfiducia presente, lo ricordiamo, non è solo alimentata dallo spettacolo moralmente riprovevole dei privilegi a cui il ceto politico, indistintamente, si mostra così tenacemente legato. Né solo dagli gli episodi di corruzione che danno un quadro desolante della vita interna dei partiti. Ma forse ancora di più dalla ormai conclamata loro incapacità di cambiare, se non in peggio, la condizioni delle grandi masse popolari. Protagonisti, per tutti i decenni del dopoguerra, della costruzione del welfare nazionale, essi hanno camuffato tramite la pubblicità ingannevole delle “riforme” il suo graduale smantellamento. Un tempo redistributori di ricchezza, essi hanno di fatto lavorato – tramite la flessibilità del lavoro, le privatizzazioni, le politiche fiscali - per concentrarla in poche mani. I dati sul divario dei redditi delle famiglie italiane forniti dalla Banca d'Italia già prima della crisi son l'esito di questa politica.
Anche in questo caso la fenditura non farà che approfondire una “faglia” storica, spalancando prospettive imprevedibili di degenerazioni populistiche. La democrazia italiana, già gravemente manomessa, rischia ulteriori, gravi arretramenti. Ma da qui a 8 mesi le “grandi riforme”, le liberalizzazioni, l'ulteriore ristrutturazione del mercato del lavoro, mostreranno la loro prevedibile, totale inefficacia a lenire una disoccupazione imponente e a fare uscire l'Italia dalla recessione. Il debito resterà li, probabilmente accresciuto dal calo, ufficialmente previsto, del PIL. A quel punto il re sarà completamente nudo. Quali altre riforme propaganderanno governo e partiti che lo sostengono? Come spiegheranno il disastro a cui hanno condotto il paese?
Di fronte a un tale scenario, il Manifesto per un nuovo soggetto politico appare un scelta coraggiosa e di grande responsabilità. Un gruppo di intellettuali, di fronte alle prospettive facilmente prevedibili dell'immediato futuro, constatando la subalternità se non l'impotenza del maggiore partito d'opposizione, elabora un canovaccio progettuale per tentare di sperimentare strade nuove di democrazia, destinata a offrire alternative alla sinistra nei prossimi mesi e nei prossimi anni. Quel Manifesto, ovviamente, non è lo statuto solenne di una setta. Nessuno dei firmatari ha prestato giuramento sui suoi vari articoli. Dunque, pluralità di posizioni intorno a un progetto e ad aspirazioni convergenti. Ognuno è libero di portare il proprio contributo di riflessione, sia di metodo che di contenuto. Qui, dunque, essendo un dei primi firmatari, tenterò di chiarire la mia posizione e di abbozzare alcune riflessioni.
Come hanno chiarito sul manifesto tanto Marco Revelli che Tonino Perna, non è alle viste la nascita di nuovo partito. Lo scenario è già abbastanza affollato. E soprattutto il popolo della sinistra – questa è una mia convinzione – lo vivrebbe come un elemento di complicazione dello scenario politico oltre che di divisione del fronte di lotta. Se c'è una aspirazione davvero vasta e profonda, in questo popolo, questa è l'unità delle forze che lo rappresentano. Questione, com'è noto, che costituisce il problema dei problemi e non solo in Italia. Ma come si può muovere tale nuovo soggetto in un così stretto sentiero? Io credo che una rete di comuni in grado di costituire, come dice Alberto Lucarelli, una « una intelaiatura », democratica di tipo nuovo, costituisca un tentativo importante di potenziamento della partecipazione dei cittadini al governo della cosa pubblica. Non possiamo continuare a pensare che la politica altro contenitore non abbia che i partiti. Così come credo che l'elaborazione teorica sui beni comuni, apra un' ampia e inesplorata strada, in grado di dilatare il territorio dei diritti, rinchiusi per secoli, in Occidente, dentro la rigida gabbia binaria di pubblico/privato. Tuttavia io non ritengo – come del resto gli estensori e i firmatari del manifesto - che si debba abbandonare il terreno della democrazia rappresentativa, e darla come perduta e inutilizzabile. In Parlamento si votano leggi che condizionano la vita di tutti noi, per la durata di anni e decenni. L'umana durata della lotta politica. Il potere legislativo è un pezzo rilevante dello stato, che oggi appare insufficiente a contrastare i potentati economici e finanziari mondiali. Dobbiamo rinunciare anche a tale soglia minima di potere?
C'è un aspetto, nella contrapposizione tra democrazia rappresentativa e partecipata, che andrebbe chiarito con realismo ed onestà. La partecipazione di massa alle decisioni che si sprigiona nei momenti delle lotte, non dura. Essa si rende possibile solo in luoghi delimitati, ed è frutto dell'iniziativa di ristrette avanguardie. La lotta è la febbre di crescita della società civile, che accelera la trasformazione culturale e politica generale, ma non è la sua normale fisiologia. Solo durante i sommovimenti delle rivoluzioni, la lotta può diventare anche per qualche anno dimensione quotidiana delle masse. Non è oggi il nostro caso. Pensiamo al movimento di Occupy Wall Street. I protagonisti, che parlavano a nome del 90% degli americani, erano numericamente meno dell'1% contro cui lottavano. E tuttavia il loro consenso nella società americana era ed è assai più vasto. Ma questo consente di vedere la grande differenza che esiste tra partecipazione e consenso. In questo passaggio si coglie la differenza fra avanguardie e masse. E si comprende la necessità di trasformare quel consenso in egemonia organizzata, in “casematte” – per dirla con Gramsci – in cui il potere popolare si solidifica in organizzazione per durare nel tempo. Quanti degli italiani, che nel referendum hanno votato per l'acqua pubblica, sono poi disposti a impegnarsi per il controllo della sua gestione democratica? Di certo una minoranza. Per questo la democrazia rappresentativa dell'amministrazione comunale finisce con l'avere il sopravvento e durare.
Ora, io credo che il nuovo soggetto potrebbe battersi per modificare le ragioni che fanno degenerare la democrazia rappresentativa. Chiedamoci: perché quella forma di potere delegato, col tempo, si separa e si nasconde allo sguardo degli elettori? Perché la democrazia organizzata nei partiti si restringe a oligarchia? Ma perché gli elettori, dopo aver deposto la scheda nell'urna, ritornano nei loro ruoli sociali tradizionali, e non hanno più tempo e passione per seguire le sorti del loro mandato. Nessuno, del resto, può pretendere, che la politica duri nel tempo come l'unica passione dominante della vita di milioni di persone. Questo accade a pochi individui. E la separatezza e opacità dei corpi eletti, inevitabilmente, finisce col prendere il sopravvento, la politica diventa pascolo recintato di professionisti. Ebbene, oggi la rete consente ciò che era impossibile solo venti anni fa. Io credo che la creazione di un Osservatorio politico nazionale, gestito in rete, e finalizzato a seguire e monitorare, durante il mandato, il comportamento degli eletti, potrebbe accorciare in maniera efficace la distanza tra governanti e governati. Ma esso potrebbe costituire una forma a dimensione nazionale di democrazia partecipata. Tramite la rete ogni cittadino può comunicare all'Osservatorio le proprie osservazioni locali, le proprie critiche e suggerimenti agli eletti, può prendere parte a un Agorà che non richiede una militanza fisica quotidiana, ma che offre l'opportunità di comunicare con efficacia la propria opinione a un organismo con il compito istituzionale di accoglierla e vagliarla.
Ovviamente tale istituzione andrebbe accompagnata con vari altri interventi di riorganizzazione della vita dei partiti. Uno di questi, imprescindibile, è la fissazione di un tetto massimo di spesa per ogni candidato nel corso della campagna elettorale, nel momento cioè in cui si riproduce il ceto politico della democrazia rappresentativa. Il dispositivo introdurrebbe un importante egalitarismo di partenza, risolverebbe molti conflitti d'interesse, limiterebbe la corruzione, avrebbe la forza potenziale di spezzare il legame tra i partiti e i poteri economico-finanziari che oggi limitano la sovranità degli stati.
Com'è possibile realizzare un tale ambizioso obiettivo? Oggi dall'Europa giunge una insperata opportunità. Grazie al Trattato di Lisbona sarà possibile già dai prossimi mesi mettere in atto l'ICE, l'Iniziativa dei Cittadini Europei, i quali potranno proporre importanti riforme raccogliendo un milione di firme in almeno 7 stati dell'UE. Una iniziativa che partirà quest'anno riguarda il reddito di cittadinanza. E qui siamo già ai contenuti promessi nel titolo. Tale battaglia può innescare, già alla fine di quest'anno, una mobilitazione europea di vasta portata, in grado di coinvolgere milioni di giovani disoccupati. Si rassegnino gli sviluppisti : anche quando saremo usciti dalla turbolenza questo capitalismo non creerà più piena occupazione. La sinistra deve perseguire, come suo asse strategico, la separazione del reddito per una vita degna dal lavoro, che sarà sempre meno. Anche così si spezza il rapporto di forza che dà oggi al capitale la capacità di condizionare a suo vantaggio la dinamica di classe e spaccare la società con disuguaglianze insostenibili. Anche così si può fare uscire la nostra gioventù dalla attuale disperazione, senza attendere il Godot della crescita.
Da dove prendere i soldi? Qui si apre una questione che riporta ai rapporti tra il “nuovo soggetto” e la sinistra nel suo complesso. Una sinistra, ricordo, che si compone anche di forze importanti che oggi non stanno in Parlamento. Oggi è evidente perfino a Warren Buffet , uno degli uomini più ricchi del mondo, che la crisi attuale è l'esito di un “grande saccheggio” del capitale che dura da trent'anni. Si supera trasferendo ricchezza dai ceti ricchi alle classi popolari. E' dunque necessario riportare la fiscalità generale ai meccanismi progressivi che sono stati manomessi dalle politiche neoliberistiche. Mario Pianta, sul manifesto (4.4.2012) ne ha parlato diffusamente.
Si deve allestire dunque uno scontro di classe, di inusuale ampiezza ed asprezza, che imporrà al PD scelte non facili. Il gruppo dirigente di quel partito non potrà più raccontare la favola ormai consunta delle liberalizzazioni. E dovrà fare i conti con una questione spinosissima, che è rimasta silente negli ultimi tempi. E’ dal 18 novembre 2001, con l'invio della flotta “Comando gruppo navale italiano”, che l'Italia partecipa in forme sempre più impegnative alla guerra in Afganistan. Oggi si spendono circa 68 milioni di euro al mese per il nostro contingente. Che cosa dirà, quel gruppo dirigente, a milioni di italiani disperati, su una guerra che viola la Costituzione, appare ormai perduta e accresce un debito pubblico che si fa pagare ai cittadini incolpevoli con lacrime e sangue? La partita si aprirà presto. Intanto, si potrebbe già pensare, per le prossime elezioni politiche, a organizzare, dove possibile, delle primarie territoriali: forme di selezione dei candidati che a livello locale sfuggano ai comandi delle segreterie e premino i soggetti che si sono distinti nei movimenti, mostrino capacità e culture politiche all'altezza delle sfide. Anche questo potrebbe essere un mezzo per incominciare a pensare a una ristrutturazione plurale dell'intera sinistra, che certo, dopo Monti, non può più essere quella di prima.
Questo articolo è stato inviato anche al manifesto
Rendere le Regioni più forti in seguito a un disastro naturale. Abruzzo verso il 2030: sulle ali dell’Aquila. Si intitola così il documento che l’OCSE e l’università di Groningen hanno reso pubblico in questi giorni e che dovrà essere discusso nel Forum previsto all’Aquila per sabato 17 marzo. Lo studio è stato finanziato dal ministero dello Sviluppo economico (Dipartimento per lo sviluppo e la coesione economica) e da CGIL, CISL, UIL. [il testo è scaricabarile in calce]
È un testo inverosimile. Da anni, da decenni, non si leggevano stoltezze simili, sembrano chiacchiere da bar. Non riesco a credere che invece sono state scritte da istituzioni autorevoli come l’Ocse, l’università di Groningen, il ministero dello Sviluppo e le confederazioni sindacali. Mi riferisco alla parte seconda del documento, in particolare ai paragrafi Raccogliere la sfida della ricostruzione e L’aquila: concorso internazionale di architettura e candidatura al titolo di Capitale europea della cultura. Molto in sintesi, eliminando preamboli e preliminari, si propone di “utilizzare moderne soluzioni architettoniche e ingegneristiche per modificare gli interni degli edifici con lo scopo di creare luoghi moderni destinati alla vita quotidiana, al lavoro e al tempo libero, conservando e migliorando allo stesso tempo le facciate storiche degli edifici. I requisiti architettonici possono essere incentrati sulla celebrazione del passato, vista come mezzo di costruire un futuro nuovo e sostenibile”.
Sta scritto proprio così. E non è finita. Per realizzare lo scempio si dovrebbe organizzare un concorso internazionale di architettura consentendo “che venga modificata la destinazione d’uso” degli edifici, permettendo altresì ai proprietari di “modificare la struttura interna delle loro proprietà (in parte o in totalità)”.
Alla giuria del concorso dovrebbero partecipare “architetti di fama mondiale e di livello internazionale” e per pubblicizzare l’iniziativa al concorso verrebbero affiancati un documentario televisivo e altre operazioni di comunicazione che valorizzino la natura della sfida.” Aiuto!
A questo punto – per ora – solo qualche domanda. Lo sanno gli autori del documento che esiste una cultura del recupero, che da più di mezzo secolo ha messo a punto principi, procedure e regole per intervenire nei centri storici? Lo sanno che questa cultura è un vanto dell’Italia e che dall’Italia si è a mano a mano diffusa in Europa e nel resto del mondo? Hanno mai sentito parlare della Carta di Gubbio? Fu approvata nel 1960 e per la prima volta dichiarò che i centri storici sono un organismo unitario, tutto d’importanza monumentale, dove non è possibile distinguere, come si faceva prima, gli edifici di pregio (destinati alla conservazione), dal tessuto edilizio di base (disponibile invece per ogni genere di trasformazione, come quelle che propongo Ocse e soci). Lo sanno che l’impostazione della Carta di Gubbio fu raccolta da una legge della Repubblica nel 1967 (allora, negli anni del primo centro sinistra, succedeva che governo e parlamento fossero sensibili ai progressi della cultura). Lo sanno che la stessa impostazione, approfondita e perfezionata, nella prima metà degli anni Settanta guidò la formazione del piano per il centro storico di Bologna che diventò un modello apprezzato, imitato, invidiato in mezzo mondo? Che da allora altre città, grandi e piccole, anche esposte a rischio sismico, hanno seguito la stessa strada (cito solo Como, Venezia, Palermo, Napoli)?
Al Forum di sabato 17 dovrebbe partecipare il ministro Fabrizio Barca delegato dal presidente Monti a seguire la ricostruzione della sventurata città dell’Aquila. Siamo certi che chiederà agli autori di cancellare le eresie insensatamente proposte e che l’Aquila faccia tesoro delle migliori esperienze italiane in materia di centri storici e di politiche di recupero.
Col consueto stile manageriale dell’uomo del fare Corrado Passera, ministro delle Infrastrutture, ha deciso di chiudere Arcus, la società per lo sviluppo dell’arte, la cultura e lo spettacolo creata nel 2004 con capitale sociale interamente sottoscritto dal Ministero dell'Economia, mentre l’attività derivava dai programmi di indirizzo forniti annualmente dal Ministro per i Beni le Attività Culturali.
Che sia un bene mettere una pietra tombale su uno dei peggiori esperimenti partoriti in campo di gestione culturale, divenuto, da subito, bancomat per regalie clientelari, da sempre oggetto di critiche della Corte dei Conti e più volte al centro di inchieste giudiziarie (cfr. Corrado Zunino su Repubblica di oggi) è fuori di dubbio.
In questi anni pressoché nessuno dei progetti finanziati da Arcus è mai rientrato nella mission della società: originariamente pensata per sostenere, con risorse provenienti dai fondi per le grandi opere, progetti di compensazione proprio sull’impatto che tali opere avrebbero avuto sul paesaggio e il patrimonio culturale, ben presto questi obiettivi si sono stemperati in “progetti importanti e ambiziosi concernenti il mondo dei beni e delle attività culturali, anche nelle sue possibili interrelazioni con le infrastrutture strategiche del Paese” (fonte Arcus).
Da lì, il passo è stato breve verso una deriva di mille iniziative, tutte riconducibili ad un padrino politico, identificabile in primis nei ministri dei beni culturali e delle infrastrutture e nel sottobosco che di volta in volta ruotava loro attorno. Vertice del malcostume, l’assegnazione dei fondi per la ristrutturazione del palazzo di Propaganda Fide, frutto di uno scambio fra l’ex ministro delle Infrastrutture Lunardi e il cardinal Crescenzio Sepe. E oggetto di ulteriore scandalo fu che nel programma delle attività 2010 successivo di qualche mese al terremoto a L’Aquila, alla ricostruzione del patrimonio culturale abruzzese fossero state destinate solo poche briciole, mentre decine di milioni erano assegnati in attività di “valorizzazione”.
Ma che questo passaggio sia ancora una volta stato deciso in altre sedi rispetto a quelle deputate, è sintomatico dell’attuale situazione di irrilevanza politica del Mibac e del suo Ministro pro tempore.
La chiusura di Arcus avrebbe dovuto essere il risultato di un coraggioso e onesto bilancio di questi anni (che invece, italicamente, si preferirà evitare) operato da parte del Mibac e non lo scippo, l’ennesimo, di risorse da parte degli interessi forti che sembrano prevalere nell’attuale governo.
Le ragioni addotte per la chiusura della società sono che Arcus avrebbe ormai esaurito la propria missione: al contrario, semplicemente non l’ha mai perseguita, ma ciò non significa che tale missione fosse sbagliata o inutile, anzi. Di fronte all’arrembante e pervasiva retorica della necessità delle Grandi Opere per la sopravvivenza economica del paese, necessario e urgente sarebbe dotare il Ministero di strumenti per mitigare in maniera non solo superficiale i danni, inevitabili, a paesaggio e patrimonio culturale.
L’alternativa è lavarsi la coscienza con i proclami quali la lettera del trio Passera, Ornaghi, Profumo a commento del così detto “manifesto della cultura” del Sole 24 Ore. Risposta consonante al vuoto e alla banalità con cui si sta cercando di nascondere il delitto perfetto: quello nei confronti dell’art. 9 della nostra Costituzione.
Le gaffe di Monti e delle sue maldestre ministre sul lavoro e le “oziose attitudini” della nostra gioventù - sinistra forma di scherno su una tragedia sociale di proporzioni mai viste - hanno avuto da più parti la risposta che meritavano. Splendido, fra gli altri, M. Gotor su Repubblica del 7 febbraio. Val la pena, tuttavia, ricordare che i nostri uomini e donne di governo non compiono solo l'errore di scambiare la condizione privilegiata della propria famiglia con quella generale degli italiani. Non solo confondono la complessa realtà del nostro tempo con i manuali di economia studiati nella loro lontana giovinezza. Ma soprattutto non hanno nessuna idea delle forme inedite e socialmente distruttive che ha assunto il capitale nel nostro tempo. Ne è prova la caparbia insistenza con cui ripropongono come rimedio alla disoccupazione la ricetta che in parte ne è la causa: la flessibilità. Quasi 20 anni di flessibilità del lavoro, che ha prodotto, come mostrano i fatti, precarietà e crescente disoccupazione, soprattutto giovanile, stagnazione economica, decadimento delle infrastrutture civili e dei servizi dell'intero paese. Ma per loro non basta e l'articolo 18 resta il totem arcaico da abbattere.
Dunque, siamo di fronte a un caso conclamato di quella che Einstein chiamava “insanity”, follia: «fare la stessa cosa e continuamente ripeterla e aspettarsi risultati diversi». Fa parte di tale insania – comprensibile in un epoca in cui la mente di tanti uomini è diventata un dispositivo tecnico per pensare un unico pensiero - l'idea che l'uscita dalla Grande Crisi in cui annaspiamo, ridarà al paese la piena occupazione perduta, sia pure in forme “cangianti” e flessibili. Basta riprendere la crescita - è questa la vulgata pubblicitaria in Italia e nel mondo - e tutto ritornerà più bello e più splendente che pria.
Tocca allora ricordare che questo, con assoluta certezza, non avverrà, perdurando l'attuale modello di accumulazione capitalistica. La certezza evidente nasce da una rapida ricognizione storica. Prima della Crisi, e a dispetto della crescita economica, la piena occupazione era sparita da un pezzo dalle società industriali. Il secolo scorso si era chiuso con 35 milioni di disoccupati nei paesi OCSE (8% delle forze di lavoro, 11% nell'Unione Europea). La crescita dell'occupazione che spesso, negli anni successivi, è stata vantata da governi e stampa benevola, è stato il lavoro frammentato e precario con cui si è cercato di mettere i lavoratori al servizio intermittente delle imprese. Utile per incoraggiare le statistiche, assai meno per dare redditi dignitosi e continuativi ai lavoratori. Se la situazione era questa prima della crisi, solo un atto di fede, non certo una previsione razionale, può fare immaginare l'approdo a una condizione di piena occupazione per effetto della crescita nei prossimi anni.
Occorre qui almeno accennare a una riflessione generale. La sempre più ridotta capacità del capitalismo di creare posti di lavoro, nasce da un insieme di cause congiunturali e storico-strutturali che l'opinione economica dominante non vuole in nessun modo vedere. Cercherò di elencarli brevemente.
La prima e più ovvia causa è che le società capitalistiche mature hanno un ritmo di crescita ridotto rispetto al passato. Un andamento che negli ultimi anni ha risentito anche del fatto che una parte degli investimenti si sono indirizzati verso i paesi a bassi salari e a bassa protezione ambientale. Tra il 2000 e il 2005 gli USA, ad esempio, hanno perso 3 milioni di posti di lavoro nelle manifatture, tra ristrutturazioni e delocalizzazioni. Ma al fondo c'è un mutamento strutturale che segna una cesura rispetto ai decenni precedenti. La maturità del capitale oggi significa soprattutto il declino dell'industria automobilistica, la più grande fabbrica labor intensive del '900. Questa industria, insieme a quella degli elettrodomestici, è stata in grado, in Italia come negli altri paesi avanzati, di svuotare quell'immenso serbatoio di forza lavoro che erano le campagne dell'Occidente. Milioni di contadini sono diventati classe operaia nel giro di pochi anni. Com'è noto, quell'industria non solo alimentava a monte l'attività mineraria e siderurgica per i suoi materiali, ma aveva intorno le piccole e medie imprese dell'indotto, a valle l'industria delle costruzioni stradali e autostradali. Questa immensa idrovora di forza lavoro ha ormai ridotto i suoi ranghi e in Occidente non risorgerà nulla di simile. Lo dice eloquentemente un dato che è anche un tratto distintivo del capitale oggi: 30 milioni di auto ogni anno rimangono invendute. Il ministro dell'Istruzione e dell'Università, Profumo, in una intervista a Repubblica (6.2.2012) ha paragonato la capacità di Internet di attivare economie, all'industria automobilistica del dopoguerra. Pensare che essa possa creare tanti posti di lavoro quanti ne ha generato il settore dell'auto è una illusione che gli USA hanno già scontato. E questo, almeno per una ragione fondamentale: se è vero che l'informatica apre continuamente nuove possibilità operative e di servizi, la sua indomabile forza, la sua centralità, è sostituire lavoro con processi automatizzati. Consiglierei a questo proposito la lettura (e possibilmente la traduzione) del testo di un ingegnere della Silicon Valley, Martin Ford, The Lights in the tunnel, che mostra la gigantesca sostituzione di lavoro con processi informatici in arrivo nei prossimi anni.
Ma la nostra epoca, e le nostre società opulente, sono contrassegnate da un fenomeno ignoto alle società del passato: la rapida obsolescenza delle innovazioni di prodotto, che riducono i margini di profitto delle imprese a una velocità prima sconosciuta. Esse si muovono in un mercato che si satura rapidamente. Quanto è durata l'automobile, quanto il computer prima di diventare un prodotto maturo? Quanto dura sul mercato un nuovo cellulare che è costato elevati investimenti in ricerca, realizzazione, commercializzazione? Quanti sono oggi gli attori imprenditoriali che si contendono il mercato di prodotti affini? E occorre, a questo proposito, ricordare che - al di la della spasmodica ricerca di profitti- l'asprezza della competizione mondiale fa la sua parte nello scoraggiare il capitale ad entrare nel circolo Denaro-Merce-Denaro. Esso trova sempre più lucroso attivare il circolo D-D-D, cioè operare nelle attività meramente finanziarie senza passare per l' impegno gravoso della produzione. Infine, com'è noto, ubbidendo ai dogmi neoliberisti, i governi hanno quasi dismesso ogni impegno imprenditoriale pubblico, riducono progressivamente il welfare, che è stato ed è ancora fonte di posti di lavoro. Una tendenza che si avvita su se stessa, generando concentrazione di ricchezza privata e impoverimento di risorse pubbliche.
Se questo quadro sommario è esatto, l'esortazione alla crescita proveniente dal Governo e gli indirizzi che la ispirano non risolveranno il grave problema della disoccupazione nel nostro paese. Purtroppo, non è neppure necessario scomodare le tendenze di fondo del capitale per pronosticare che essa è destinata ad aggravarsi almeno nei prossimi due anni, vista la recessione in atto. E allora? Quali sono i progetti per alleviare la sofferenza di milioni di disoccupati? Come si intende aiutare oltre il 30% della nostra gioventù che non ha più alcuna prospettiva di lavoro davanti a se?
Questa è una domanda, tuttavia, che non deve guardare al problema come a un fatto transitorio e congiunturale. Essa si inscrive in un più ampio interrogativo di prospettiva che André Gorz formulò in un suo scritto nel 2005: «quando la società produce sempre più ricchezza con sempre meno lavoro, come può far dipendere il reddito di ognuno dalla quantità di lavoro che fornisce?»
Com' è noto, una risposta certamente parziale, ma importante e per tanti aspetti tendenzialmente rivoluzionaria, esiste. Una risposta che tante forze, gruppi, ambienti intellettuali sollecitano e che costituisce una realtà già operante in tanti paesi d'Europa, come ricorda Giuseppe Bronzini nel suo Il reddito di cittadinanza. Si chiama reddito minimo o di cittadinanza, o universale e conosce varie declinazioni. La sua diffusione decreta ormai la separazione sempre più spinta tra lavoro e reddito. Quest'ultimo non può più dipendere in assoluto da una occupazione che diventa sempre più rara. E' arrivato il momento, per le società opulente, di destinare risorse cospicue ai cittadini cui non sa più fornire lavoro. Altrimenti il capitalismo tracolla per sovraproduzione e la democrazia prende una china dagli esiti imprevedibili.
Oggi un reddito minimo fornito ai nostri giovani tra i 18 e 35 anni costituirebbe una leva importante non solo per fare uscire milioni di ragazzi dalla disperazione, ma per fornire aiuto alle famiglie, ridare fiducia e un qualche slancio al nostro paese. Quanti ragazzi potrebbero così proseguire i loro studi e ricerche, intraprendere da soli o in cooperativa, qualche attività stabile senza perdersi in lavoretti per sopravvivere, attivarsi nel volontariato, cooperare con i comuni, svolgere compiti utili nei territori? Pochi immaginano quale sollievo sarebbe oggi anche un minimo sostegno in famiglie dove i genitori sono in cassa integrazione, o senza lavoro, dove misere pensioni tengono a galla più persone.
Un reddito minimo non è l'avvilente assistenza che si teme. Esso è ormai una condizione di libertà, fornisce una base minima ai cittadini per non chinarsi alla mortificazione di chi impone condizioni non tollerabili di prestazione, per progettare e creare nuovi servizi, per svolgere attività di valorizzazione dei beni collettivi. Su di esso ormai poggia, quale condizione imprescindibile, quel bene comune che si chiama vita dignitosa. Si vuole davvero fare retorica sulla fine del posto fisso? Bene, facciamo scegliere con un po' più di libertà dal bisogno quali lavori i nostri giovani vogliono scegliere e cambiare.
Un tale obiettivo ha un pregio politico, che non si fa fatica a scorgere. Esso potrebbe unificare l'intera sinistra, fornirle un versante rivendicativo e contrattuale forte e unitario, toglierebbe dall'isolamento il sindacato. Anche lo smarrito PD potrebbe guadagnare una immagine meno servizievole nei confronti del governo e assumere un profilo rappresentativo più spiccato dei bisogni del paese. E sì che questo partito ne avrebbe bisogno, di fronte all'onda di discredito che si è abbattuta sul ceto politico e che è destinata a ingigantirsi nel prossimi mesi di crescente disperazione sociale.
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Una battaglia rivoluzionaria, non perché usi la violenza, ma perché, le ragioni dei No-Tav, se fossero accolte, implicherebbero una ‘rivoluzione’ nel sistema partitico-imprenditoriale-tangentizio italiano. Tutto ciò è esaurientemente spiegato ne Il libro nero dell'alta velocità di Ivan Cicconi. Il libro, documentato oltre possibile dubbio, spiega non solo le vicende, ma le ragioni strutturali di un affare, l'Alta Velocità, che è, dopo tangentopoli, il nuovo banco di finanziamento dei partiti, della casta e, Fiat in testa, dei capitalisti nostrani. E' un sistema che sfugge a ogni controllo tecnico, contabile e di legittimità e si autoalimenta sestuplicando (come di fatto è accaduto) il costo delle opere.
La chiave dell'architettura è il Project financing combinato alla Legge Obiettivo. Lo stato avrebbe dovuto finanziare attraverso Tav (dal 2010 sciolta in Rete ferroviaria italiana) un quaranta per cento del costo dell'opera, il sessanta i privati; i quali, però, di tasca propria hanno messo gli spiccioli, il resto se lo sono fatto prestare dalle banche, meglio se da loro partecipate. Ma non basta, perché per legge (obiettivo) il General Contractor dell'opera, soggetto privato scelto da Tav, affida direttamente progettazione e realizzazione delle opere a imprese collegate e rappresentative di tutto il capitalismo immobiliare e cementizio italiano: da Caltagirone a Lodigiani, da Todini a Ligresti passando per la Lega delle cooperative, oltre, capofila, Impregilo della Fiat; il tutto senza gare d'appalto e via 'per li rami', cioè per sub-appalti e sub-sub-appalti, fino ad arrivare alle imprese della mafia e della camorra.
Con una fondamentale clausola: che i privati sono concessionari dell'opera per la 'realizzazione', ma non per la 'gestione'. Ciò significa che più alti sono i costi di costruzione, più si guadagna, mentre che l’opera fuzioni e faccia profitti non interessa. Come si è puntualmente verificato, con i nostri 60 milioni di euro a km contro i 10 di Spagna e Francia: una differenza che include ben altro che le gallerie e i viadotti. Un ultimo pregio: in quanto opera formalmente privata i debiti non vengono contabilizzati nel bilancio dello stato, ma di fatto le Ferrovie italiane e quindi lo stato ne garantiscono la solvibilità. La grande truffa è quindi un capolavoro politico-imprenditoriale per cui comandano i privati, pagano i contribuenti e guadagnano, oltre che gli imprenditori, i partiti, la casta, includendovi l'enorme numero di società di consulenza, advisors, esperti, progetti, consigli di amministrazione di società operative controllate, garanti, comitati, distribuiti in tutte le direzioni politiche.
Il risvolto tragico della vicenda è che l'alta velocità in Italia non serve, almeno non nel modello francese, ma piuttosto in quello tedesco o austriaco: velocità più ridotte, stazioni più frequenti, adeguamento del materiale rotabile esistente; con un unico difetto però: di costare troppo poco rispetto a faraoniche progettazioni di linee ferroviarie dedicate, sottoattraversamenti urbani – i cosiddetti ‘nodi’ - massicci acquisti di nuovo materiale rotabile. E, peggio ancora, la nostra alta velocità viene realizzata per tratte su cui è illusorio il pareggio di bilancio (ma la gestione, si è visto, non spetta ai privati): pagherà lo stato. Come a Val di Susa, dove, si sa, l'adeguamento del sistema ferroviario attuale sarebbe già ampiamente sovrabbondante rispetto alla domanda.
Insomma si distrugge il territorio, si inquina l'ambiente, si prosciugano fiumi e sorgenti, si trivellano le montagne e mettono a nudo rocce amiantifere, si mettono a rischio città e cittadini, tutto perché il sistema macini ancora guadagni sicuri per una cupola politico-affaristica e altrettanto sicuri debiti per le incolpevoli 'generazioni future'.
Qui si dovrebbe vedere alla prova un governo serio non solo nell'immagine; che puntasse a uno sviluppo ben diverso da quello millantato delle grandi opere, aumentando l'occupazione e tagliando i costi; ma, anche se Monti avesse il coraggio di andare contro gli interessi del suo establishment, una mossa decisa verso la normalizzazione del sistema significherebbe, presumibilmente, il ritiro dell'appoggio al governo da parte di Pdl e Pd. Tutto ciò per ricordare, ancora una volta, che la battaglia dei no-Tav per la Val di Susa prima ancora che per la difesa sacrosanta del proprio ambiente di vita, è una battaglia ‘rivoluzionaria’ per una diversa democrazia. Ridurla a una cronaca di incidenti, come fanno non solo le testate televisive, ma anche gran parte della stampa, significa non avere compreso la vera posta del gioco; o farne parte.
In tanti abbiamo pensato che si sarebbe realizzata un’idea di città non fondata sul cemento, che l’urbanistica avrebbe prevalso sull’edilizia, che avrebbe vinto il verde, che i viali sarebbero stati ombrosi, i centri storici restaurati e rispettati. Invece una delibera di giunta, di questa giunta, ci toglie ogni ingenua illusione.
Riappare il cemento a Tuvixeddu. Riaffiora dai fondali l’idea, naufragata nelle aule dei tribunali e non solo, che la salvezza del colle consista in una «tutela francobollo» della sola necropoli e che a pochi metri dai sepolcri si possano costruire palazzine e strade. Il medesimo progetto sostenuto dalle passate giunte sviluppiste.
Un tormento. Ma anche una irrisione dopo le affermazioni elettorali e le interrogazioni in consiglio regionale dell’attuale sindaco, il quale a febbraio del 2011 firmava un appello angosciato che reclamava il «necessario intervento immediato per evitare la realizzazione di ogni altra qualsivoglia opera o manufatto nell’area di Tuvixeddu-Tuvumannu».
Ed è davvero doloroso prendere atto che oggi questa, proprio questa giunta proponga al consiglio comunale come unica «fascia di tutela integrale» l’area asfittica del vincolo archeologico, ossia solo la necropoli e il «catino». Tutto intorno, il cemento. Un «francobollo archeologico» strangolato da mattoni e bitume, già sfigurato dalle fioriere ideate da architetti che volevano conformare la necropoli a se stessi. Quelle fioriere, costruite anche sui sepolcri, sono oggi prove in un processo.
Eppure è lampante che la minuscola area di tutela archeologica non può coincidere con l’area di tutela paesaggistica. La ragionevolezza e le norme stabiliscono che un bene archeologico è inserito all’interno di un paesaggio il quale sarà, per conseguenza, più ampio di quel bene. E ambedue devono essere protetti e inedificabili.
Invece nella delibera dell’11 gennaio, la amministrazione comunale, quella che doveva «salvare il colle», propone «coraggiosamente» di tutelare quello che è già tutelato - ossia l’area archeologica - e sostiene che si debba, per devozione al piano urbanistico, costruire a pochi metri dalle tombe. Proprio quello che Antonio Cederna chiamava «dente cariato», come i gloriosi resti di acquedotto romano divenuti uno squallido spartitraffico.
Sostiene la delibera che si dovrà tenere conto dei «princìpi ispiratori del Piano paesaggistico regionale», ma sopratutto delle «destinazioni urbanistiche individuate dal Puc». E il Puc, il Piano urbanistico comunale, prevede, si sa, circa mezzo milione di metri cubi sul colle. Il cemento, insomma, è sempre l’ago magnetico di questa città. Così le promesse e i princìpi crollano sotto il peso dei palazzi.
Del resto questa giunta comunale ha già preso la strada della cosiddetta continuità amministrativa. Ha dichiarato di voler abbattere lo stadio Sant’Elia, di voler scavare tre piani di parcheggi sotto le mura vincolate di Castello, nonostante la vicinanza della torre simbolo della città e i rischi dell’ignoto sottosuolo della rocca, ha sostenuto di essere «vittima del dovere» e di «dover» per forza costruire in un’area verde di via Milano, di «dover» edificare in molti degli otto ettari di vuoti urbani e di «dover» costruire un’orribile, smisurata casa dello studente all’ex semoleria. E questo «senso del dovere» ha scatenato una slavina di cemento che non ci aspettavamo.
Ma esistono alcuni ostacoli insormontabili.
Il primo è l’attuale condizione giuridica. Tuvixeddu è inedificabile. E questo Comune - il cui sindaco appartiene a un partito che nella sigla contiene le parole sinistra e ecologia, nonché libertà - dovrebbe oggi necessariamente adeguare il piano urbanistico al piano paesaggistico regionale. Questa procedura, che doveva avvenire cinque anni fa e non è neppure avviata, non è un’opzione. E’ un obbligo.
Il piano urbanistico adeguato al piano paesaggistico tutelerebbe quello che di buono resta alla città involgarita, fermerebbe la grandinata di mattoni e l’imbruttimento dei nostri quartieri, consentirebbe di investire in veri recuperi e veri restauri. Cagliari sarebbe curata e custodita.
Il secondo, altrettanto rilevante, è una «miscela» che si chiama pubblica opinione, già esplosa in mano a chi si svagava con il piccolo chimico. Esiste una parte rilevante della comunità che ha maturato capacità critiche evidentemente sottovalutate anche da chi, come il nostro sindaco, ha attinto sostegno e energie da quelle capacità. Quell’opinione pubblica che dopo vent’anni ha aperto le finestre sperando che l’aria cambiasse, ha i mezzi per rinchiuderle se vede l’aria ristagnare.
Costruire a Tuvixeddu sarebbe la dimostrazione che nulla cambia mai neppure se muta il vento. La prova malinconica che da qualunque parte soffi è sempre lo stesso vento già usato e scaduto.
L'articolo è pubblicato contemporaneamente anche su la Nuova Sardegna
A posteriori, il titolo “Le varianti del gusto” cui inizialmente avevo rimproverato una certa ambiguità, si è rivelato del tutto confacente al carattere alquanto surreale della discussione. Andrea Emiliani e Pier Luigi Cervellati erano chiamati a difendere quell’impianto teorico e metodologico che, consolidatosi nella Carta di Gubbio, ha permesso, a partire dagli anni ’60, la tutela dei centri storici in Italia e, a Bologna, ha guidato le sperimentazioni di risanamento conservativo condotte dallo stesso Cervellati e premiate in tutta Europa.
Nella Carta di Gubbio del 1960, come noto, la città storica era definita come un “organismo urbano unitario cui va riconosciuta la qualità di bene culturale”. Con uno slancio innovativo avvertito per troppo tempo solo dalle avanguardie urbanistiche, il documento sanciva un passaggio di scala dirompente, dal punto di vista teorico: la città storica non più come somma di elementi, seppur numerosissimi e di altissimo valore storico artistico e architettonico, ma come sistema inscindibile, non gerarchicamente scomponibile, conchiuso architettonicamente e allo stesso tempo urbanisticamente vitale perché preservato da modalità di uso adeguate all’importanza monumentale e alle esigenze della conservazione.
Non semplice ampliamento delle tutele ad immobili non architettonicamente “di pregio”, quindi, ma evoluzione di un paradigma: dalla dimensione dell’elenco a quella del sistema, evoluzione in parte accolta dalla legge ponte del 1967.
Come ha esemplarmente sottolineato Leonardo Benevolo (La fine della città, 2011) si è trattato del “contributo più rilevante dell’Italia alla moderna ricerca internazionale”. E come tale, del resto, questa impostazione si è affermata, negli anni, in molti paesi europei, dalla Francia alla Germania, e , da ultimo, è divenuta punto di riferimento anche per i paesi dell’est europeo, a partire dalla Polonia.
A Bologna, aspetto speculare ed inscindibile di questa interpretazione del centro storico è stata da subito l’attenzione alle esigenze abitative delle diverse componenti sociali. L’investimento a tutela del tessuto urbano era correlato, quindi, con grande lucidità politica e lungimiranza urbanistica, alla tutela delle fasce sociali più deboli : il centro storico come sistema non solo urbanistico, ma sociale, da preservare nel suo complesso, perchè perno vitale di una città più armonica e vivibile.
Quel modello, elaborato normativamente nel Piano del Centro Storico di Bologna del 1972, costituisce uno dei momenti più avanzati di quel decennio riformista che dall’inizio degli anni ’60 ha garantito un autentico progresso civile e sociale al paese. In linea con quanto succederà col volgere degli anni ’70 in tutti i campi della società italiana, non stupisce che questo esperimento abbia allora conosciuto ostacoli politici sempre più poderosi e, a partire dagli anni ’80, abbia cominciato ad essere palesemente contraddetto per quanto riguarda gli aspetti sociali. Espulse verso le periferie intere fasce di popolazione come anche le attività artigianali e il commercio di prossimità, il centro storico di Bologna è divenuto un guscio vuoto, colonizzato da banche e grandi catene commerciali, desertificato al calar della sera o preda di una “movida” invasiva e senza regole, fonte di conflitti e degrado.
Di quel modello, seppur svuotato nell’anima, più a lungo ha resistito l’attenzione al tessuto edilizio che, pur con molte smagliature, è perdurata almeno fino alla metà degli anni ’90. Poi, a poco a poco, colori degli edifici, illuminazioni, insegne, dehors, pavimentazioni storiche: l’insieme dell’arredo urbano ha subito una mutazione progressiva, frutto soprattutto di una indifferenza crescente nei confronti della città storica da parte dell’amministrazione comunale e, almeno da un lustro, anche degli organi di tutela, sempre più “possibilisti” e sempre meno attrezzati culturalmente.
Infine, nel 2009, con l’adozione del RUE (Regolamento Urbano Edilizio), l’ultimo argine viene rimosso: l’assoluta maggioranza degli edifici del centro storico è classificata nella categoria di “interesse documentale”, e ciò significa che su di essi “si opera con le modalità progettuali e le tecniche operative del restauro applicate solo alle parti di pregio storico-culturale o testimoniale, individuate come tali dal progettista sulla base di opportune verifiche e approfondimenti conoscitivi. Gli interventi edilizi ammessi sono: manutenzione ordinaria, manutenzione straordinaria, risanamento conservativo, ristrutturazione edilizia”. E addirittura la demolizione “è assimilata a intervento di manutenzione straordinaria”.
Non solo il centro storico non è più considerato come un organismo unitario, ma addirittura ogni singolo edificio può essere smembrato in una serie di parti di differente valore. Fine della storia.
Le conseguenze non hanno tardato a verificarsi: immobili di impianto settecentesco demoliti, in pieno centro storico, durante la scorsa canicola estiva nell’indifferenza di una città ormai assuefatta, distratta, inconsapevole.
Ironia, prevedibile, della storia, le giustificazioni “ideologiche” che puntualmente vengono ora portate a soccorso del new deal felsineo, ripetono stancamente gli stessi vetusti stilemi che avevano caratterizzato la discussione sull’esperimento Cervellati quasi quarant’anni fa e che, in questo paese di stanca memoria, vengono riciclate senza troppi aggiornamenti: una città “congelata” secondo un principio “storicista” (termine connotato ovviamente in senso negativo), secondo il quale non è concesso all’architetto contemporaneo di lasciare il proprio segno ed è inibita ogni innovazione.
E non è un caso che tali posizioni si dispieghino quasi esclusivamente nell’ambito estetico e si coniughino ad un’indifferenza quasi assoluta nei confronti degli aspetti sociali del fenomeno urbano: si continua a ignorare che problema prioritario, anzi “il” problema delle nostre città è la mancanza di edilizia sociale, di qualità accettabile e in quantità tale da soddisfare una domanda sempre più pressante, a causa di un ampliamento sempre più marcato (immigrazione, crisi economica) di una fascia di popolazione a reddito ormai insufficiente per accedere all’attuale mercato della casa.
In tale contesto, la discussione di qualche settimana fa, ben poteva essere collocata nell’ambito delle esercitazioni surreali.
Con le posizioni di chi, come Cervellati ed Emiliani, riafferma, con ineguagliata passione e lucidità critica nei confronti dei fenomeni odierni, la validità di un modello interpretativo del centro storico si confronta, insomma, uno sguardo corto, incapace di misurarsi con i problemi complessi dei contemporanei sistemi urbani all’interno dei quali, i centri storici (percentuali aggiornate al 2011 e riferite all’Emilia Romagna) costituiscono a malapena il 5% dell’intero territorio urbanizzato.
Ciò significa, nel buon senso delle cifre, che il 95% delle città in cui viviamo sono altro dal centro storico e ben più bisognoso, questo 95%, di interventi di riqualificazione, a partire da architetture di qualità.
Per incapacità di visione organica, certamente, per una sorta di tranquillizzante arretramento concettuale, forse, ma anche, non sempre inconsapevolmente, sotto le pressioni ideologiche che interpretano le esigenze della rendita immobiliare (troppo appetibili, sotto questo profilo, le aree dei centri storici), si continua a rimuovere quello che fu uno dei pochi “scarti” verso la modernità operati dalla nostra cultura, in grado di proporre una lettura del fenomeno urbano più complessa ed organica.
Così, ennesimo sintomo del provincialismo che caratterizza il nostro dibattito culturale, continuiamo a rimettere in discussione acquisizioni altrove ormai consolidate – la tutela dei centri storici – ignorandone per di più gli aspetti tuttora vitali, quelli che Antonio Cederna aveva magistralmente enunciati nella sua premessa a “I vandali in casa”: la complementarietà della città storica e di quella moderna, necessarie l’una all’altra, con modalità interagenti (dalla mobilità alla dislocazione dei servizi), tali da assicurare la tutela dell’una e lo sviluppo dell’altra e, in tal modo, la qualità dell’organismo urbano nel suo complesso.
E non è un caso che il modello bolognese della buona urbanistica sia stato caratterizzato non solo dalle sperimentazioni di risanamento conservativo, ma dal fatto che contestualmente, accanto al centro storico, furono costruiti quartieri periferici architettonicamente dignitosi e rispettosi degli standards.
Nella città che era riuscita a realizzare, in anticipo sull’Europa, una diversa visione della città, imperniata sul rispetto della storia e della dignità dell’abitare, isolate risultano ormai le voci di chi, ostinatamente, continua ad interrogarsi sulla necessità urbanistica ed estetica di un cubetto di lego bianco spuntato in poche settimane in una via del centro.
La vicenda dell’affresco vasariano in Palazzo Vecchio su cui anche eddyburg si è soffermata nelle ultime settimane dello scorso anno, si presta perfettamente ad esemplificare lo stato del nostro sistema di tutela e delle politiche dei beni culturali oggi in Italia. Non solo pessimo, ma tendente al farsesco.
Come noto, l’affresco di Giorgio Vasari che ricopre la parete orientale del Salone dei Cinquecento in Palazzo vecchio è stato sottoposto ad alcuni sondaggi alla ricerca di una precedente opera di Leonardo, la mitica rappresentazione della battaglia di Anghiari. L’ideatore del progetto che prevedeva i sondaggi e l’investigazione della parete alla ricerca di un’intercapedine al di là della quale si troverebbe l’affresco leonardesco, è un ingegnere italiano, Maurizio Seracini, collegato con l’Università di San Diego in California: che, dopo anni di tentativi, trovatosi uno sponsor nel National Geographic, ha ottenuto i permessi necessari non solo dal sindaco Renzi – il Comune è proprietario dell’opera - ma anche dalla soprintendente, Cristina Acidini.
Peccato che quest’ultimo passaggio sia stato contestato attraverso una coraggiosa presa di posizione di una funzionaria dell’Opificio delle Pietre dure, istituzione cui era stato richiesto il parere di competenza sulla possibilità di operare i sondaggi senza danno per l’affresco del Vasari. Cecilia Frosinini, responsabile del dipartimento delle pitture a fresco all’interno dell’Opificio, assieme all’ISCR di Roma, la massima istituzione nazionale in tema di restauro, ha espresso una circostanziata critica non solo sulla potenziale pericolosità dei sondaggi a danno dell’affresco, ma sull’intero progetto in questione i cui presupposti scientifici non sono mai stati illustrati pubblicamente e compiutamente.
Ma le preoccupazioni circostanziate di un tecnico di lunga e provata competenza, rilanciate con vigore da Tomaso Montanari in un articolo del 30 novembre, non sono bastate neppure a richiedere, come un elementare atteggiamento prudenziale avrebbe richiesto, un supplemento di verifica. Agli inizi di dicembre sono stati avviati i sondaggi ed è a questo punto, il 5 dicembre, che, mentre Italia Nostra, tramite un esposto alla Procura della Repubblica, sollevava il problema dell’integrità all’affresco vasariano, un contemporaneo appello per l’interruzione delle operazioni potenzialmente invasive, lanciato da un gruppo di storici dell’arte e intellettuali al sindaco e alla soprintendente ha raccolto in pochissime ore molte e qualificatissime adesioni di studiosi di storia dell’arte e di restauro.
Il 6 dicembre, senza nessuna conferma ufficiale, le operazioni di ricerca sono state interrotte e, contemporaneamente, il sindaco ha iniziato una vivace campagna di denigrazione nei confronti dei firmatari dell’appello, da lui, novello Ulisse, accusati di scarso amore per la ricerca e la verità scientifica. La procura, come atto dovuto, ha proceduto ad un sopralluogo sul cantiere di cui si attendono gli esiti.
Nello stallo determinatosi nei giorni successivi, mentre l’appello continuava a registrare un incessante flusso di adesioni, la soprintendente, nella sua doppia veste di responsabile del Polo museale fiorentino e, ad interim, dell’Opificio delle Pietre dure, non ha ritenuto necessarie spiegazioni o commenti ai firmatari dell’appello.
Nel frattempo il materiale prelevato nei sondaggi effettuati è stato inviato per le analisi ad un laboratorio di provincia e sui risultati “secretati” (sic!) dal National Geographic detentore dell’esclusiva, lo scoppiettante sindaco non ha mancato di alludere ad anticipazioni relative a clamorosi risultati.
Infine, dopo settimane di incredibile silenzio, il 23 dicembre la Soprintendente si è finalmente espressa con una lettera a mezzo stampa, affrontando – con molte contraddizioni – solo il tema della pericolosità dei sondaggi. La dichiarazione, sulle cui ambiguità ci sarà sicuramente modo di ritornare, rappresenta ad oggi l’ultimo atto ufficiale della vicenda.
Ad oggi, dunque, mentre i ponteggi serviti per le operazioni ancora ingombrano il Salone dei Cinquecento, ciò che sappiamo di quest’impresa è registrabile esclusivamente sotto l’etichetta “scoop mediatico”. Nessuno di coloro che dovrebbero farlo per ruolo istituzionale ha mai illustrato le premesse scientifiche di quest’operazione. La totale mancanza di trasparenza sulla sua genesi si sposa pericolosamente con la carenza (per usare un eufemismo) di un curriculum specifico dell’ideatore del progetto a ineliminabile, preventiva garanzia della fondatezza del progetto stesso.
Si tratta di lacune non giustificabili non solo nel campo della storia dell’arte, ma della ricerca scientifica tout court, inammissibili, poi, di fronte al potenziale livello di invasività delle operazioni che hanno interessato l’affresco vasariano, pericolo ipotizzato da chi, al contrario, per ruolo e competenza, aveva tutte le credenziali per poterlo fare.
L’episodio va ben al di là di una querelle interna e specialistica fra storici dell’arte. E non perché vi sia coinvolto quel blockbuster mediatico che è Leonardo, ma perché sottolinea spietatamente il degrado cui sono giunte le nostre politiche dei beni culturali.
Dell’uso mercantile del nostro patrimonio usato in maniera spregiudicata anche in questo caso si è scritto con lucidità, ma tale deriva rischia di essere micidiale quando viene ad innestarsi, come a Firenze (ma non solo) in un deserto culturale: da troppi anni la città dei Medici è priva di una programmazione di livello almeno nazionale e si limita ad uno sfruttamento del proprio patrimonio artistico asfittico e privo di una visione di lungo respiro tanto da ricordare il caustico aforisma di Joyce quando di Roma affermava che “fa pensare a quel giovanotto che vive mostrando il cadavere della nonna ai turisti”.
E’ una situazione che caratterizza ormai troppe realtà italiane: oltre a Firenze e Roma, appunto, Venezia, Milano, Napoli, Palermo… pare insomma che al di là di singoli sempre più isolati episodi, la “valorizzazione” del nostro patrimonio culturale sia ormai declinata solo in funzione di un turismo predatorio. E i cui protagonisti sono a loro volta predati, vittime di un’offerta sempre più scadente e da troppo tempo non aggiornata.
Non si tratta solo dell’ormai endemica mancanza di risorse: le troppe iniziative inconsistenti che ancora si succedono (tanto per rimanere a Firenze, si pensi alla dispendiosa vacuità di un evento come Florens), non sono negative solo perché rappresentano uno spreco di risorse, ma perché “inquinano” un contesto e lo vampirizzano e, sostituendosi ad un’offerta culturale degna di questo nome, diseducano, annegando in un’opaca palude di mostre e mostriciattole, eventi e convegni usa e getta (dove facce e argomenti hanno ormai raggiunto un grado di assoluta ripetitività) la possibilità di costruire politiche e azioni non effimere e capaci di ripensare il nostro patrimonio in termini innovativi e conservativi assieme.
Non è un ossimoro, ma una sfida di evoluzione e ripensamento in cui occorre investire tutte le energie possibili: negli ultimi tempi, con una pericolosa accelerazione nell’ultimo biennio, al contrario, a questo ruolo si è costantemente sottratta la principale istituzione di tutela del patrimonio.
Il nostro Ministero dei beni culturali ha dunque urgentissima necessità di rifondare una politica aggiornata e in grado di contrastare culturalmente l’assalto al patrimonio e al paesaggio in atto nel nostro paese. Si tratta di un’operazione né immediata, né semplice, né spendibile in termini mediatici e non ci sono ricette sicure, ma di sicuro deve possedere caratteristiche di trasparenza e, soprattutto, ripristinare spietatamente e senza deroghe, criteri di competenza: gli unici strumenti efficaci in una navigazione che rischia di essere tempestosa.
E’ tutto ciò che è mancato in questa vicenda del “gratta e Vinci”, ed è per opporsi a questo che decine e decine di studiosi di tutto il mondo – e quanto competenti! – hanno espresso il loro dissenso. Non era, per molti di loro e per ragioni diverse, un atto scontato: anche in questo risiede l’esemplarità dell’iniziativa e assieme la necessità di trasformarla, al di là delle contingenze del singolo episodio, in un’occasione di ripensamento profondo dell’uso del nostro patrimonio. Collettivo e collaborativo: a questo mira ad esempio la richiesta dei promotori di istituire un Comitato di esperti che possa discutere, in piena trasparenza, del progetto e del destino di uno dei luoghi simbolo del Rinascimento.
E al “giovane” Renzi, paladino di quest’impresa, consigliamo nel frattempo di rivedere un film ormai decrepito per i suoi standard (1984), Non ci resta che piangere, laddove gli improbabili e cialtroneschi ingegneri simulati dagli irresistibili Benigni e Troisi incontrano un Leonardo da Vinci dapprima perplesso e poi in grado, lui, di inventarsi il primo treno della storia.
Il presidente del consiglio e il suo governo hanno dunque deciso di rinviare la decisione di abolire il valore legale della laurea universitaria. Non trattandosi di una materia che rivesta particolare urgenza c'è tutto il tempo per decidere con ponderazione e anche per aprire una consultazione nel Paese. Mi sembra un scelta saggia, espressione, forse, di quella saggezza che Asor Rosa ha ricostruito analiticamente sul manifesto come pilastro di questo esecutivo e dell'operazione politica generale su cui si reggono oggi le sorti dell'Italia.
Potrei anche aggiungere che la scelta inaugura un apprezzabile stile di coinvolgimento democratico degli italiani, che oggi vorremmo esteso ad altre questioni: per esempio ai problemi della Val di Susa, al conflitto sul Tav, a cui sinora si è risposto con la militarizzazione del territorio e con la criminalizzazione di una intera popolazione. Ma non sono sicuro di poter essere così magnanimo, per le ragioni che dirò alla fine. Debbo, peraltro, aggiungere che se si fosse proceduto immediatamente all'abolizione del valore legale, il governo avrebbe compiuto un atto di imperdonabile arroganza. E avrebbe ricevuto un contraccolpo di non trascurabile ampiezza.
Come avrebbe potuto, dopo tutto quello che è successo, con il precedente esecutivo? Rammento che il governo Berlusconi, non ha soltanto, per quasi quattro anni , coperto di vergogna e di disonore il nostro paese, ma ha inferto colpi micidiali, i più gravi in tutta la storia della Repubblica, all'intero sistema dell'istruzione. Ha gettato letteralmente sul lastrico la scuola pubblica, dalle elementari alle superiori, ha ridotto nelle condizioni forse più precarie della sua storia recente l'Università. Oggi gli studenti italiani hanno sempre meno borse di studio per poter frequentare i corsi, pagano le tasse più elevate d'Europa dopo quelle del Regno Unito e dell'Olanda, ricevendo servizi sempre più scadenti per assenza cronica di personale amministrativo, spazi collettivi, orari delle biblioteche, rarefazione dei docenti. Al tempo stesso migliaia di giovani con in tasca la laurea con lode, dottorato, master vari, conseguiti talora anche all'estero, non sanno dove sbattere la testa, sono gettati nella più grave angoscia che una persona possa subire: la consapevolezza di avere alle spalle anni e anni di studi, di possedere saperi, idee, energie volontà di essere utile al proprio paese e non sapere che cosa fare un giorno dopo l'altro. E a questa condizione, a tale drammatica situazione, nella sua prima uscita sui problemi dell'Università, il governo avrebbe davvero potuto rispondere con la grave decisione di abolire valore legale alla laurea?
Ma entriamo nel merito della questione. Le argomentazioni più serie a favore dell'abolizione non reggono alla prova. Sostengono i fautori di tale scelta, che nei concorsi pubblici il voto di laurea altera la corretta valutazione dei candidati, premiando spesso gli immeritevoli che hanno strappato a buon mercato, in qualche Università di serie b, un alto voto.
L'abolizione del valore legale metterebbe tutti in condizioni di parità. A questa apparentemente giudiziosa obiezione si possono tranquillamente fornire più risposte. Intanto, quello sollevato, è un problema che riguarda le norme sull'accesso alle professioni, le modalità con cui vengono valutati curricula, titoli, nei diversi concorsi. È lì che caso mai bisogna intervenire se si vuole essere più certi di premiare il merito, ma il valore legale della laurea non c'entra affatto. D'altronde, una cosa è la formazione universitaria, un'altra cosa sono le professioni. Per esempio, per l'accesso dei laureati all'insegnamento scolastico i legislatori italiani hanno di volta in volta varato dispositivi di "abilitazione" alla professione, che si aggiungevano alla semplice laurea e fornivano un vantaggio concorsuale a chi la conseguiva. D'altra parte, nei concorsi pubblici si valuta la prova a cui i candidati sono sottoposti, non è certo il voto di laurea, da solo, a decidere della selezione. E le norme variano comunque da professione a professione.
Gli abolizionisti ritengono invece che senza il condizionamento della laurea la valutazione sarebbe più libera, meno condizionata e premierebbe di più il merito. Ma è davvero così? Faccio notare che un giovane uscito dall'Università italiana ha svolto - a seconda della Facoltà - almeno tra 30 e 50 esami per conseguire la laurea. È stato cioè sottoposto alla valutazione di decine e decine di professori di diversi insegnamenti e ha subito il filtro legale di almeno due commissioni di lauree, se ha conseguito triennale e specialistica. Dunque ha superato innumerevoli "piccoli concorsi". Non c'è merito alla fine di una tale carriera? Perché queste numerose verifiche di formazione e preparazione non dovrebbero avere più per noi una validità legale, utile per valutare il merito di un candidato? Noi ci affidiamo alle cure di un medico perché ha vinto il tale concorso o perché sappiamo che è passato per lunghi studi e ha superato prove e verifiche accademiche lunghe e ripetute? Gli abolizionisti ribattono: ma perché una laurea conseguita in una Università marginale deve avere lo stesso valore di una guadagnata in un ateneo di antico e riconosciuto prestigio? La risposta è, innanzi tutto, che le Università realmente marginali sono davvero poche nel nostro paese. Oggi, che si emarginano quelle telematiche, lo sono ancor meno. Dobbiamo allora colpire e svalutare l'intero sistema universitario italiano? È come se a una persona che zoppica da un piede si prescrivesse il taglio di tutte e due le gambe.
Quello che gli abolizionisti e in generale i "riformatori neoliberisti", ispiratori spesso di queste amenità, non considerano è che le Università italiane non sono state create semplicemente per consentire ai cittadini di accedere ai concorsi, ma incarnano un percorso di formazione. Sono un patrimonio pubblico, che si è consolidato nel tempo, che è fatto della storia delle varie discipline scientifiche, delle diverse scuole accademiche, dei saperi, delle norme e dottrine destinate a formare le classi dirigenti del paese. Le università, da noi più che altrove, sono la sede storica delle diverse comunità scientifiche. In questo grande collettivo di studi si sono formati e si vanno formando non solo dei professionisti, ma il corpo intellettuale della nazione, con la sua identità e i suoi valori condivisi. Qui risiede la legalità, nel senso più alto, dei saperi che il nostro paese produce con la sua straordinaria e creativa operosità. Che senso ha, dunque, smembrare questo patrimonio in cui una parte estesa degli italiani riconosce le sue conquiste più alte? Che senso ha svalutare un lascito straordinario del nostro passato, ingiustamente vilipeso negli ultimi tempi per episodi certamente gravi di corruzione, ma che solo il moralismo indiscriminato e il neoliberismo interessato hanno potuto trasformare in una generale svilimento del nostro sistema formativo?
Ma ostinatamente si perora la necessità di creare una «pluralità di agenzie di accreditamento e di certificazioni a livello nazionale dei percorsi formativi», come si continua a dire. Si vogliono giurie esterne a quelle già esistenti. Queste garantirebbero il riconoscimento del merito. Molti dirigenti di Confindustria spingono in tale direzione, e così alcuni economisti, mai paghi dei fallimenti sotto cui sono state seppellite le loro misere dottrine. Davvero, in Italia, questa sarebbe una soluzione desiderabile? In Italia, paese di antica e lacerante frammentazione? Paese storicamente alle prese con i più gravi problemi di legalità civile di tutto l'Occidente? Si abolisce valore a un titolo garantito da un lungo processo pubblico e lo si mette in mano agli interessi dei privati? Qual è la ratio, se non la superstizione neoliberista, che non vuol vedere l'infinita serie di fallimenti di cui ha costellato la recente storia del mondo? In realtà si vuole continuare a colpire tutto ciò che è pubblico, deregolamentare tutto ciò che è fissato in norme di valore collettivo, come si fa in altri campi: dai contratti nazionali del lavoro agli articoli della Costituzione. Credo che all'intelligenza dei lettori del manifesto posso risparmiare ogni mio commento. Aggiungo solo che è con passi come questi, demolendo un presidio pubblico come la laurea, che si tende a piegare tutte le relazioni a logiche contrattualistiche private, a rapporti dare/avere, e si avanza verso il dissolvimento del tessuto culturale del paese come comunità nazionale.
Devo, tuttavia, concludere con un chiarimento. Tutte le considerazioni sin qui svolte si sono rese necessarie perché ho dovuto stare al gioco e prendere sul serio anche alcune fandonie neoliberali che non meriterebbero alcun commento. Ma quel che occorre dire, e avrei dovuto dirlo subito, è che la questione del valore legale della laurea è solo e semplicemente una astutissima manovra diversiva del governo. Nulla di più. Altro che saggezza, caro Asor, qui si tratta di astuzia raffinata. Con l'aggiunta di tanta professionalità. Il professor Monti e alcuni suoi ministri hanno studiato marketing o comunque ne sono esperti. Oggi l'Università ha un disperato bisogno di soldi, di personale tecnico e amministrativo, di nuovi docenti e ricercatori, di dottorati, di borse di studio. E che cosa orchestra il governo? Tira fuori un coniglio bianco dal cappello per incantare la folla, per dare in pasto ai furori contrapposti questo bel tema e distrarli per un po' dai problemi in cui annaspa l'intero sistema formativo nazionale. Non ci caschiamo. Il ministro Profumo non si faccia illusioni. Metteremo le questioni reali dell'Università al centro dell'attenzione e non sarà facile farci distrarre con qualche trovata pubblicitaria.
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