
1. Vista da un satellite, piazza S. Marco potrebbeapparire immutata, perché le dimensioni del contenitore e la densità delcontenuto sono le stesse, ma le tre immagini riportate qui sotto, scattate a quarant’anni di distanza l’unadall’altra parlano di tre città diverse.
Nella prima (1933), lo spazio pubblico è il palcoscenicodelle rappresentazioni del potere, un luogo che normalmente rimane vuoto e si riempie a comando per le adunate delregime.
La seconda (1973), sfuocatacome il mondo che evoca, suggerisce l’idea che la piazza, e quindi la città,appartenga ai cittadini che con il loro lavoro la mantengono viva e ai qualispetta il compito/diritto di progettarne e guidarne le trasformazioni.
Quella odierna conferma (2013) che il passaggio da città vetrina a città merce èormai compiuto ed è difficilmente reversibile.
In questo week end 36 imbarcazioni di grandi dimensioni entreranno nel bacino di San Marco. Solo ieri 12 enormi navi da crociera sono state temporaneamente bloccate dalla manifestazione del comitato No Grandi Navi che da anni combatte contro lo scempio della laguna. Si tratta di imbarcazioni che superano di gran lunga il limite di 40.000 tonnellate di stazza lorda fissato dal decreto Passera-Clini del marzo 2012, emanato per tutelare le coste italiane dopo il disastro della Costa Concordia. Peccato che, solo per Venezia, il decreto ammetteva una proroga in attesa di una soluzione alternativa al passaggio canale della Giudecca -bacino di San Marco.
Quella soluzione non è stata ancora trovata e i passaggi delle grandi navi sono nel frattempo addirittura aumentati: il limite, che sembrava insuperabile fino a pochi mesi fa, di 10 transiti al giorno è stato oltrepassato più volte.
Così, da anni, questi mostri che imbarcano anche oltre 5000 persone fra passeggeri ed equipaggio, che arrivano alle 140.000 tonnellate di stazza lorda e che con un'altezza di oltre 60 metri danno ai passeggeri un'assurda visione dall'alto della città, continuano a stravolgere l'equilibrio fragilissimo della laguna.
Dopo anni di silenzi e di analisi ufficiali a dir poco omertose e assai poco rigorose sui danni, gravissimi, procurati dalle navi da crociera, da qualche tempo, alcune indagini finalmente indipendenti stanno svelando i dati del disastro: inquinamento pesantissimo dovuto a polveri sottili, metalli pesanti, diossine ed altri elementi cancerogeni, erosione dei fondali, danni a rive ed edifici provocati dai fenomeni di risucchio, dalle vibrazioni, inquinamento acustico (anche se ferme alla Marittima, i generatori rimangono accesi a ritmo continuo), enormi quantità di rifiuti da smaltire.
Se questi sono i danni accertati e sul lungo periodo dirompenti, i rischi connessi alle possibilità di un incidente (guasto, errata manovra) la cui probabilità aumenta esponenzialmente all'aumentare del traffico marittimo, sono incalcolabili e con conseguenze quasi certamente irreversibili.
Nonostante la scarsa reattività (per usare un eufemismo) dell'Unesco, organizzazione ormai priva di incidenza, le proteste anche internazionali per questo scempio continuo si sono a tal punto moltiplicate da indurre persino gli amministratori pubblici (da Orsoni a Zaia) fino a poco tempo fa a dir poco ambigui e possibilisti, ad affermare chiaramente che il transito delle grandi navi deve cessare da subito. E si comincia ad ammettere che il passaggio di questi mostri deve essere bloccato non solo in bacino San Marco, ma in tutta la laguna.
Per secoli la Serenissima, proprio per proteggere la prosperità della Repubblica, ha curato l'equilibrio delicatissimo di questo ambiente, provvedendo ad opere di manutenzione costanti e sottoponendo ogni cambiamento a rigorosi principii di gradualità e reversibilità. Gli stessi cui si ispirava la Legge Speciale per Venezia del 1973, poi ampliata nel 1984, ma di fatto disattesa.
Ha funzionato magnificamente per secoli: nei primi decenni del '900 è iniziata invece una manomissione costante, accelerata a dismisura dagli anni '60 in poi, dapprima nel nome di in industrialismo totalmente ignaro delle ragioni ambientali (Marghera) e, negli ultimi decenni, con pari cecità, di un turismo dei grandi numeri che ha ormai ridotto Venezia ad un parco a tema in cui le funzioni della città sono state asservite e stravolte dalle esigenze dell'industria turistica.
Le grandi navi sono il simbolo, l'elemento visivamente più fragoroso di uno stravolgimento ormai compiuto: Venezia non è più una città e le sue istituzioni sono al solo servizio di chi, in vari modi, ha interessi in questo settore: dalle grandi compagnie di navigazione, agli investitori immobiliari, alle catene alberghiere, alla distribuzione commerciale. Il finale di questa partita è purtroppo noto: questo tipo di turismo predatorio finirà per distruggere la risorsa che lo alimenta.
Ma se Venezia è forse giunta ad un punto di non ritorno, l'immagine che ci restituisce è lo specchio di ciò che sta succedendo in troppi centri storici, cominciando da Firenze e Roma. La spietata metafora di Joyce che paragonava gli italiani a quel nipote che campava offrendo la visione a pagamento della nonna defunta si sta avverando, tristemente. È l'immagine di un paese incapace di pensare al proprio patrimonio culturale e paesaggistico in termini diversi dallo sfruttamento economico immediato, incapace di una visione di ampio respiro che, in cambio di una reale sostenibilità di lungo periodo, imponga regole e limiti, e di una politica incapace di governare i fenomeni economici (non solo quelli macro) e quindi destinata ad esserne serva.
In questa partita contro la rovina, ormai giunta allo scadere di ogni tempo supplementare, non avremmo voluto sentire risuonare anche l'ignobile ricatto del lavoro: come, in maniera ancora più grave, sta succedendo a Taranto con la contrapposizione salute- lavoro, anche qui a Venezia si cerca di opporre alle ragioni della tutela del patrimonio e della difesa del territorio (e della salute, anche qui) il ricatto dei posti di lavoro messi a rischio dall'eventuale allontanamento delle grandi navi dalla laguna.
Purtroppo, anche stavolta, neanche questo ci è stato risparmiato: la politica ha forse l'ultima occasione per smascherare questo ricatto. Speriamo che lo faccia, subito. Non solo per Venezia.
Sul problema delle Grandi Navi e più in generale di Venezia e della sua laguna, v. eddyburg.it e il suo ricchissimo archivio. E ancora la collana: Occhi aperti su Venezia, dell’editore Corte del Fontego.
Delle Grandi Navi e dei problemi del turismo si parlerà domani, lunedì 23 settembre, nella trasmissione di Rai3 Geo&Geo, h.17.00
L'articolo è pubblicato contemporaneamente su L'Unità on-line, "nessundorma".
Per gli storici e per la storia bastava la sentenza della Cassazione del 1° agosto 2013 a certificare ufficialmente, oggi e per le generazioni future, che Berlusconi è un criminale…>>>
Per gli storici e per la storia bastava la sentenza della Cassazione del 1° agosto 2013 a certificare ufficialmente, oggi e per le generazioni future, che Berlusconi è un criminale. La sua decadenza da senatore – salvo sortite suicide in aula dei parlamentari PD- taglia ora profondamente nella carne della politica, tanto dei suoi alleati che dei suoi avversari. Chiude vent'anni di storia nazionale. Ma la sentenza è stata importante perché – nell'ipotesi improbabile che Berlusconi debba uscire indenne dai processi che l'attendono – mette già il bollo della legalità repubblicana sulla fedina penale del personaggio e colloca nell'indiscutibilità storica la sua condanna. E' un atto formale importante, perché la legalità, in Italia, è diventata opinabile, oggetto di contese. Benché oggi sia lo stesso Berlusconi a mettere la sua firma autentica sotto la propria biografia di delinquente. E' dalla data della sentenza definitiva che egli ha dismesso i panni dello statista e ha assunto quelli del capo eversivo, frenato solo dai quotidiani calcoli di convenienza. Non solo egli non accetta la legge dello stato, ma è all'opera per ricattare il governo, il Parlamento , la Presidenza della Repubblica e lanciare minacce in ogni direzione. Tale violenta insubordinazione illumina sinistramente sia le sue oscure origini di imprenditore che l'intero suo percorso di uomo politico. E' evidente che egli non si è mai fermato di fronte ai vincoli di legalità quando li ha incontrato come ostacoli sul suo cammino. Così come è chiaro che i tanti processi, passati e pendenti, dipendono da questa sua attitudine al crimine, negli affari e nella politica, e che la cultura del personaggio è quella del gangster. Gangster, termine già usato da Eugenio Scalfari, è etimologicamente calzante, perché trae origine da gang, banda e dunque rinvia al carattere organizzato del suo agire delittuoso. La condanna di Previti, compratore di giudici e proposto dal Capo quale ministro della Giustizia– in un processo da cui Berlusconi è uscito grazie alla prescrizione – lo ha provato ampiamente. Non a torto Roberto Saviano – lo ricorda Francesco Erbani su Repubblica del 5 settembre - ha osservato che Berlusconi usa un linguaggio di discredito della magistratura e di rifiuto delle sentenze che è il medesimo dei mafiosi e dei camorristi.
Dunque, tutto racconta che un malvivente è stato per ben tre volte capo dell'esecutivo nel nostro paese e ha dominato per vent'anni la scena pubblica. Non era mai accaduto nella nostra storia né in quella dell' Europa contemporanea. E in effetti il cesarismo criminale mancava alla collezione storica delle nostre perversioni politiche. Una parabola che si chiude nell'ignominia della persona e nel declino generale del paese, trascinato per quasi vent'anni dietro le sue politiche fallimentari. Insisto su tale aspetto – su cui molti commentatori si sono già soffermati – per sottolineare l'abisso da cui usciamo. Per tentare di tracciare una demarcazione di fuoco, tra questa fase e quella che deve necessariamente seguire.
Ma Berlusconi non ha agito da solo, né sul piano criminale né su quello legale. Non mi riferisco alla sua ristretta corte: il più squallido campionario antropologico che abbia mai calcato la scena politica in Occidente. Egli a lungo ha goduto dell'appoggio incondizionato di grandissima parte della borghesia italiana e dei suoi intellettuali. Sino all'esplodere della crisi ha avuto la Confindustria dalla sua parte. Perfino i giovani industriali erano entusiasti di lui. Qualcuno ricorda i raduni annuali nei quali i giovani imprenditori si spellavano le mani in applausi alle sue battute ? Certo, essere un bravo imprenditore non sempre si accompagna all'accortezza politica. Ma scambiare Berlusconi per uno statista non è un errore da poco, benché nazionalmente così diffuso. Ma quanta stampa, anche non alle sue dipendenze, gli ha fatto coro e dato sostegno per anni? Occorrerebbe ricordare almeno gli editorialisti del Corriere della Sera, che hanno messo la propria autorevolezza e quella del loro giornale, con finti contorcimenti – si coniò allora il termine “cerchiobottista” - al servizio del gangster. Ricordo almeno un articolo di Angelo Panebianco, dell'11 novembre 1997. che gridava a « un regime più o meno soft, fondato su un soffocante conformismo », incarnato nientemeno che dal governo Prodi. Un articolo di cui non si sa se stupirsi di più per la faziosità dello scienziato della politica o per l' inconsistenza predittiva del giornalista, che vedeva un regime nascente in un traballante governo, destinato a cadere 11 mesi più tardi. I governi del Cavaliere (proprietario di 3 canali TV, di case editrici, giornali, produzioni e distribuzioni cinematografiche, istituti finanziari) ovviamente, per gli editorialisti del Corriere , fieri liberal e nemici dei monopoli, non incarnavano tali rischi. Ma Berlusconi ha goduto anche dell'appoggio della Chiesa italiana e soprattutto della CEI, fino a quando l'indecenza scandalosa dei suoi comportamenti l'ha reso possibile, e tollerabile agli occhi dell'opinione pubblica cattolica. E qui bisogna dire – e lo dico nel momento in cui papa Francesco sta inaugurando una pagina straordinaria di rinnovamento e di speranza - che la Chiesa, nel mercimonio sistematico con Berlusconi e i suoi governi, ha scritto una delle pagine più opache e scadenti della sua storia recente. Ci siamo dimenticati il rozzo e feroce razzismo di stato praticato dalla Lega dall'alto dell'esecutivo? Ebbene, prima che papa Francesco si recasse a Lampedusa, la Chiesa – evidentemente attenta ai vantaggi economici contrattati con l'esecutivo - ha taciuto o appena balbettato tanto sulla barbarie culturale della Lega che sui migranti respinti o segregati nei CIE, quando non perivano nel Mediterraneo. Per non dire della brutalità integralista con cui le autorità religiose, spesso col concorso di ministri che avevano giurato fedeltà alla Repubblica, sono intervenute per privare i cittadini italiani del diritto a nascere e a morire.
Ma del ventennio fanno parte anche gli avversari del Cavaliere, indubbiamente rimpiccioliti e immiseriti, dall'aver avuto come controparte nulla più che un malfattore, ancorché abile comunicatore di ciance. Raccontano le cronache che Massimo D'Alema abbia agli inizi considerato un vantaggio politico il fatto che Berlusconi fosse gravato da un così enorme conflitto d'interesse. E Luciano Violante ha poi rivelato che ci fu un accordo tra gli ex-comunisti e Berlusconi per non toccare le sue televisioni. Ma vantaggio per cosa? Il vantaggio che si trae dalla posizione di illegalità dell'avversario non può che essere la sua ricattabilità. E la ricattabilità quale beneficio potenziale offre se non quello di realizzare accordi sottobanco ? Ma vantaggio per chi?Per una parte politica, forse, non per il paese. Il non scalfito impero mediatico del Cavaliere, oltre ad alterare gravemente il gioco democratico, ha inferto un colpo mortale al pluralismo della comunicazione, ha fatto delle TV, private e pubbliche, la macchina incontrastata per la colonizzazione consumistica dell'immaginario nazionale. Vent'anni di desertificazione culturale hanno spianato la vita pubblica italiana.
Ma gli avversari hanno anche fatto propri gli stilemi, il linguaggio, la cultura mercantile del magnate televisivo. Chi non ricorda gli elogi di D'Alema per la TV? Ma egli ha trasformato il vecchio PCI – che indubbiamente andava rinnovato – nel partito del leader, che può fare a meno del legame con i territori, delle federazioni e delle sezioni, e che parla direttamente ai militanti, ormai solo elettori, nuovi consumatori di messaggi, tramite la voce televisiva del capo. Naturalmente affinità di linguaggi e di modalità d'azione rivelano affinità di programmi, di orizzonti culturali. In questi vent'anni non abbiamo soltanto subito il danno dell'azione dei governi berlusconiani e la macelleria sociale della sua fase finale, ma anche il calco soffocante di questa versione cialtronesca del neoliberismo sulla sinistra storica. L'attuale governo è l'esito naturale – il “piano inclinato” di cui ha parlato Asor Rosa – di questa affinità di due ceti politici che hanno finito per rassomigliarsi nell'intento di salvare se stessi, prima ancora che il paese. Il voto (obbligato) degli uomini del PD alla decadenza di Berlusconi dovrebbe perciò essere occasione di una rottura definitiva con un passato i cui errori e i cui danni generali sono sotto gli occhi di tutti. Il cambiamento del gruppo dirigente del PD è anch 'esso obbligato. Un cambiamento di uomini, ma anche di strategia e di visione, di modo di operare di un partito. Per questo, fatta la riforma elettorale, il governo Letta – figlio di una legge incostituzionale - deve chiudere. Non è certo sufficiente mandare a casa Berlusconi e il governo delle larghe intese per uscire dalla miseria del berlusconismo, ma certo è un passo preliminare e fondativo.
www.amigi.org
Impossibile, in Sardegna, entrare nella questione dei tanti separatismi, sovranismi, indipendentismi, autonomismi, autodeterminazioni e autarchie senza suscitare reazioni... >>>
Questa “corrente di pensiero” consisterebbe nel lasciare ai sardi pieni poteri sul loro paesaggio liberi da Roma ladrona, dallo Stato sopraffattore e dall’algida Europa. Ma i fatti – i fatti e non sofistiche teorie – dimostrano in cosa consista il pericolo. Tutti sappiamo che il nostro Piano Paesaggistico, adottato a maggio del 2006, è la conseguenza provvidenziale del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio.
Però tutti ricordiamo anche come nel 2009, una schiacciante maggioranza di elettori sardi abbia determinato la vittoria dei pasdaran del cemento i quali dichiararono guerra al Piano definito giogo crudele, ostacolo a una indefinita crescita dei sardi i quali fioriscono, si vede, solo se li fertilizzano con il cemento.
Ma il Piano è saldo e resisterà al tentativo sterile, in atto da quattro anni, di cancellarlo. Oggi i fatti – sempre i fatti – dimostrano che senza l’obbligo attuale di modificare il Piano insieme con il Ministero – ossia, se fossimo indipendenti – noi lo avremmo già cancellato per democratica e fiera volontà isolana. Magari avremmo ampliato con molti metri cubi anche nuraghi, domus de janas e tombe dei giganti. Insomma, se fossimo “paesaggisticamente indipendenti” il Piano sarebbe nato e subito morto nella sua culla, la Sardegna.
Però, per fortuna, non esercitiamo nessuna indipendenza paesaggistica. E oggi a difendere il paesaggio dell’Isola c’è il Ministero “lontano”, i suoi uffici “lontani” e leggi concepite “lontano”, imposte dalla tirannide italiana e europea. Mentre i sardi hanno votato per ricoprire d’altri mattoni la loro terra. Lo Stato e l’Europa – i siti di importanza comunitaria andrebbero moltiplicati e rafforzati – costituiscono un sistema imperfetto, d’accordo, ma, nell’attesa vana della “coscienza di chi siamo e dove viviamo”, questa tutela articolata e stratificata esiste ed opera. Dà i brividi l’idea di affidare il paesaggio al capriccio politico di un comune o di una regione, all’estro di sindaci, giunte e consiglieri volatili.
E’ poiché è ovvio che le bellezze e le risorse della Sardegna non sono solo sarde, come Pompei non è dei campani o il Colosseo non è dei romani, poiché è fuori discussione che il patrimonio paesaggistico – e ambientale – non appartiene ad una singola comunità, oggi la temporanea maggioranza politica che governa l’isola non detiene il potere di agire in solitudine su temi che coinvolgono un’intera nazione.
Cosa sarebbe accaduto al paesaggio sardo senza lo Stato negli ultimi settant’anni? Nessuna legge Bottai, nessuna legge Galasso, nessun Codice del paesaggio. Non avremmo avuto il Piano paesaggistico e, se anche lo avessimo prodotto, lo avremmo cancellato dal 2009 quando vinse la mistica del mattone libero.
Lo Stato sarebbe “invasivo” su questi temi? Altre, altre sono le invasioni.
I sardi che sognano di diventare emiratini, le migliaia di ettari nelle mani di società lontane, spesso adorate dalle nostre devote comunità locali, le vicende di ogni singola speculazione – ancora fatti – dimostrano come la collettività e i suoi rappresentanti siano fragili, come tanti isolani creduli approvino quei progetti. E sono la prova che una vera indipendenza non è nell’animo dei nostri trecentottanta comuni perché un accettabile autogoverno passa per la difesa tenace della propria terra, metro per metro, particolare per particolare. Qua, invece, la vendiamo.
il geografo francese Alfred Sauvy ...>>>
il geografo francese Alfred Sauvy (1898-1990): il primo mondo era quello capitalistico, comprendente gli Stati Uniti e i paesi amici e satelliti occidentali, dal Canada all'Inghilterra, alla stessa Italia; la Spagna era ancora sotto il regime fascista di Franco, la Grecia era ancora governata dai "colonnelli" di destra. Il secondo mondo era rappresentato dall'Unione Sovietica e dai paesi satelliti. C'era poi un "terzo mondo" molto variegato, in genere di paesi arretrati economicamente, molti dei quali si erano appena scrollato di dosso il dominio coloniale di Francia, Spagna, Inghilterra; la Cina stava vivendo la rivoluzione culturale, una contraddittoria ondata di cambiamento, una via comunista indipendente dall'Unione Sovietica.
Il 1973 fu l'anno della svolta. Una ventata di indipendenza scuoteva i paesi del terzo mondo, consci delle ricchezze minerarie e petrolifere fino allora sfruttate dal primo e dal secondo mondo. Poco prima un oscuro colonnello Gheddafi, aveva assunto il potere in Libia con l'obiettivo di nazionalizzare le risorse petrolifere e, tanto per cominciare, aveva aumentato il prezzo del petrolio di cui erano affamati i paesi industriali. Molti paesi produttori di petrolio, sudamericani, asiatici, africani, si erano uniti in un cartello, l'organizzazione dei parsi esportatori di petrolio, meglio nota come OPEC, per accordarsi su produzione e prezzi, in un momento in cui gli Stati Uniti cominciavano a dover dipendere dalle importazioni di petrolio per continuare a far correre le proprie automobili e i treni e i camion e per far funzionare le fabbriche.
In questo turbolento panorama di rapporti internazionali il mondo era attraversato da altre ondate di contestazioni. La ribellione dei negri contro la segregazione e la miseria negli Stati Uniti e nel Sud Africa di Mandela; la contestazione degli studenti americani ed europei che chiedevano al mondo accademico una nuova maniera di insegnare e nuovi diritti; la protesta degli operai che chiedevano maggiore sicurezza nelle fabbriche e nei campi e più giusti salari.
E, come se non bastasse, dagli Stati Uniti era arrivata l'"ecologia", una nuova domanda di un uso parsimonioso delle risorse naturali scarse, di lotta agli inquinamenti dell'aria, del suolo, dei campi, delle acque, generati dalla "civiltà consumistica". In Italia alcuni magistrati, i "pretori d'assalto", si erano messi di lena ad utilizzare le leggi esistenti per denunciare gli scarichi di veleni nell'ambiente, le fogne a cielo aperto, le strade urbane invase dai fumi del velenoso piombo, il pericolo del mercurio nei mari e nei pesci, la tossicità dei pesticidi. L'"ecologia" spaventò ministri, e industriali che, a parole, fecero finta di convertirsi rapidamente ad amici dell'ambiente e della natura. Corsero tutti alla Conferenza delle Nazioni Unite sull'ambiente umano, tenutasi a Stoccolma nel 1972, senza accorgersi che stavano approvando impegni (poi successivamente disattesi) per una lotta all'inquinamento, per la cessazione delle esplosioni delle bombe nucleari, per un uso più giusto delle risorse naturali di ciascun paese, le cose che i paesi del terzo mondo avevano chiesto, pochi mesi prima, nello stesso 1972, nella Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo tenutasi a Santiago, nel Cile.
Il 1973 inoltre era agitato dal vivace dibattito provocato dalla pubblicazione di un libro "sovversivo" intitolato "I limiti alla crescita", che avvertiva: se non si fosse provveduto ad un rallentamento della crescita economica e merceologica, il mondo sarebbe andato incontro a crescenti inquinamenti e ad un peggioramento della salute umana, a conflitti per appropriarsi di minerali e petrolio e prodotti agricoli scarsi e, alla fine, ad un rallentamento e declino della stessa crescita dell'economia monetaria. Uno studio condotto da una società di analisi economiche aveva dimostrato che i costi monetari dovuti ad inevitabili malattie, incidenti, distruzione di beni economici, alluvioni e frane, sarebbero stati di gran lunga superiori alle spese richieste da una nuova politica di difesa ambientale.
Il "che fare" fu esposto nella "prima" relazione sullo stato dell'ambiente in Italia che il governo di centrosinistra aveva fatto preparare dai maggiori studiosi, urbanisti, chimici, biologi, economisti, ecologi, con il coinvolgimento delle prime associazioni ambientaliste; ne era risultato un documento in vari volumi (ormai introvabili) che fu presentato ufficialmente ad Urbino nel giugno 1973. Subito dopo fu costituito il primo ministero dell'ambiente. Quanto fosse necessaria una svolta nella politica ambientale italiana fu dimostrato da altri incidenti e inquinamenti fino alla comparsa, nell'agosto 1973, del colera a Napoli e Bari (ricordata in queste pagine nei giorni scorsi) a riprova della carenza perfino di depuratori urbani; in molte città italiane le fogne finivano non trattate nel mare, col loro carico di inquinanti e batteri (una situazione che, a dire la verità, non è molto migliorata in molte zone, anche del Mezzogiorno, a 40 anni di distanza).
Quanto fossero credibili le denunce espresse nella Conferenza di Stoccolma e nel libro sui limiti alla crescita apparve chiaro in quel 1973. Nel settembre nel Cile il governo del socialista Allende fu abbattuto con un colpo di stato fascista sobillato dalle multinazionali americane che poterono così riappropriarsi delle miniere di rame; nell'ottobre il tentativo di invasione di Israele da parte dell'Egitto, proprio nel giorno della festa ebraica di Yom Kippur, fu respinto col sostegno occidentale e subito dopo i paesi arabi produttori di petrolio decisero di punire i paesi occidentali bloccando le esportazioni e aumentando il prezzo da 3 a 10 dollari al barile.
A partire dalla fine del 1973 la paura della scarsità di petrolio pervase il mondo industriale; oggi si ricordano le domeniche senza auto, le persone che si muovevano sui pattini a rotelle e le code ai distributori di benzina.Il governo italiano, elaborò degli affrettati piani energetici, tutti sbagliati perché non tenevano conto della nuova terribile realtà, la scarsità di risorse naturali a basso prezzo. Sembravano avverarsi le previsioni dei "limiti alla crescita" e cominciò a circolare la sgradevole parola: austerità. Esorcizzata, nei decenni successivi, dalla scoperta di nuovi giacimenti, dalla fine del comunismo, da ondate consumistiche.
Fino alla nuova crisi iniziata nei primi anni duemila; con crescenti instabilità politiche e militari, ondate migratorie dai paesi poveri verso i paesi ricchi; sono oggi ben visibili ingiustizie e discriminazioni etniche, sociali, religiose, in una popolazione mondiale che è raddoppiata rispetto al 1973; una sfacciata opulenza di pochi di fronte alla miseria della maggioranza dei popoli. Anche oggi le rivolte in Africa settentrionale e centrale, nel medio Oriente, nell'Asia centrale, hanno la loro origine nella protesta contro il tentativo dei paesi ricchi di appropriarsi a basso prezzo del loro petrolio, rame, coltan, ferro, uranio, tungsteno, terre rare, dei loro prodotti forestali e agricoli, le merci che tengono in moto la società dei consumi e dei rifiuti.
Eppure la cura di queste malattie planetarie era stata indicata già nel Settantatre nella forma di una maggiore giustizia e minore avidità; perché non l'abbiamo adottata ? Siamo ancora in tempo ?
Il Sindaco di Firenze, Matteo Renzi, è fermamente intenzionato a realizzare due parcheggi sotterranei... >>>
"I fiorentini sono tornati in centro ma per riportarci la residenza servono i parcheggi, è il concetto che da anni Renzi va ripetendo" (Repubblica, 27 agosto 2013). Non ci si aspetterebbe un'idea così arretrata da un politico che si presenta come innovatore. Autentica innovazione sarebbe se il Sindaco così si rivolgesse ai fiorentini: "cari cittadini, l'Oltrarno, storicamente popolare, diventerà una casa confortevole per i residenti e per gli ospiti; un quartiere dove lo spazio pubblico pedonalizzato accoglierà attività commerciali e produttive di eccellenza: artisti, artigiani, laboratori, negozi; come accade in tante città del nord Europa,- il quartiere sarà progressivamente liberato dal traffico privato, ciò che conviene sia a giovani e forestieri senza automobile, sia a una popolazione anziana che non vuole usare il mezzo privato se non nelle occasioni strettamente necessarie, ma preferisce un efficiente sistema di mezzi elettrici, con risparmio economico e di salute. Sono convinto che si riportino gli abitanti nel centro storico liberandoli dalla schiavitù dell'automobile, non rafforzandone la dipendenza e legando i valori immobiliari al possesso di un posto macchina.
Purtroppo non è così e si persevera nel progetto quanto mai arretrato di incentivare il traffico automobilistico all'interno delle città storiche, mentre, nonostante le pessime esperienze di Firenze Mobilità e Firenze Parcheggi (la realizzazione e gestione dei parcheggi di Fortezza da Basso, Alberti, Beccaria, si sono tradotte in consistenti perdite per il Comune), il Sindaco di Firenze rimane uno sponsor convinto di tutto ciò che gli viene proposto nelle forme del project financing. E l'ultima iniziativa del Comune, l'annuncio di un avviso pubblico affinché le nuove destinazioni del Regolamento Urbanistico siano prospettate dai privati piuttosto che dall'amministrazione, è coerente con questa ideologia. Il risultato è una politica, non solo totalmente sbagliata da un punto di vista funzionale, ma anche iniqua socialmente: in cui la città è considerata come una palestra di iniziative e arricchimenti privati, compensati da qualche beneficio finanziario per l'amministrazione se le cose vanno bene (e finora non è stato così). Follia urbanistica o strategia di 'appeasement' con i privati, In entrambi i casi non si tratta di un buon viatico per colui che si presenta come l'innovatore della politica italiana.
L'auspicio è un messaggio nella bottiglia. Si desidererebbe, al prossimo congresso del PD, nientemeno che una collettiva autocritica del gruppo dirigente. Simile, per lo meno nelle motivazioni etico- politiche, a quella personale di Goffredo Bettini ( Manifesto,13/8/), orientata da due specifici indirizzi. Il primo riguarda la revisione della politica di liberalizzazione e formazione di un mercato finanziario deregolamentato, a cui il PD ha contribuito, come tutti gli altri partiti socialisti e socialdemocratici europei. Mentre il secondo, coerente e legato al primo, riguarda la spinta fornita sino ad ora alla “flessibilità del lavoro”, il nuovo, moderno servaggio del nostro tempo, la creazione di un esercito di precari, che ha sostituito l'esercito industriale di riserva di marxiana memoria. Come è facile intuire, si tratta dei due assi strategici di una politica che è all'origine della presente crisi e al tempo stesso la ragione dell'attuale impotenza di partiti e governi e in primo luogo della sinistra. Come tutti gli altri partiti, il PD ha rafforzato i poteri dominanti e indebolito e tagliato i legami con le classi sociali che a lungo avevano costituito la propria base di riferimento, il proprio punto di forza. L'autocritica mostrerebbe facilmente che il partito degli ex comunisti (e successive incarnazioni) ha vissuto , sul piano dell'elaborazione culturale, sui cascami rimasticati dell'avversario storico. Un presa d'atto che, ovviamente, non ha fini di autoafflizione penitenziale, ma dovrebbe servire a ridisegnare l'intero progetto riformatore.
Esiste un'altra strada, tuttavia, più realistica, che potrebbe aprire una prospettiva all'intera sinistra italiana. Proviamo a simulare uno scenario molto semplice. Nichi Vendola lascia il posto di presidente della Puglia e si dedica interamente a dare una struttura più solida al suo partito. Ad es. rendendo più ampio e visibile il gruppo dirigente di Sel – che conta politici bravi e di lunga esperienza – rafforzandolo con nuovi elementi, auspicabilmente giovani, portatori di esperienze, culture e geografie dell'Italia di oggi. In questo modo Sel apparirebbe un partito meno dipendente dal suo leader. Vendola e il nuovo gruppo potrebbero dedicarsi più sistematicamente a battere territori e periferie d'Italia, là dove conflitti e movimenti hanno fatto emergere figure di potenziali dirigenti. Qui Sel potrebbe incontrare militanti in grado di presentarsi ai cittadini non con il volto delle vecchie, ancorché rade, figure di apparato, ma con l'aspetto di una società civile che si autorappresenta al meglio delle sue possibilità. Un partito così potrebbe essere alimentato da un programma politico che Sel, ovviamente, già possiede anche se mortificato dall'alleanza fallimentare con il PD. Ma puntando essenzialmente su due assi fondamentali. Il primo riguarda il lavoro e in primissimo luogo il lavoro della gioventù. Non era mai accaduto nella storia d'Italia che almeno due generazioni di giovani venissero lasciate senza possibilità di occupazione e senza prospettiva di vita. E' un suicidio della nazione di proporzioni inaudite, dal momento che tra questi giovani si trovano centinaia di migliaia di laureati, ricercatori, studiosi: l'élite di un moderno paese industriale.
Dunque, la richiesta del reddito di cittadinanza dovrebbe uscire dalle nebbie della propaganda elettorale e trovare formulazioni concrete e pressanti. Crediamo che l'evoluzione “naturale” di una società industriale dovrebbe essere l'accorciamento della giornata lavorativa e la distribuzione del lavoro su una più vasta platea di occupati Ma i rapporti di forza totalmente sbilanciati a favore del capitale – resi tali anche dalla ritirata dei partiti di sinistra dalla rappresentanza politica della classe operaia - spinge gli imprenditori a cercare strade più profittevoli nell'uso flessibile della forza-lavoro e nella speculazione finanziaria. Non abbiamo altra strada, per molti anni ancora, che la redistribuzione parziale dei redditi attraverso un atto politico. Pensare che la “ripresa” porterà il mercato del lavoro, a breve, a una condizione di normalità, significa svilire l'attività stessa del pensare.
Il secondo asse strategico dovrebbe riguardare le prospettive dell'Unione. E qui occorre partire da una presa d'atto. L'Europa attuale è morta da tempo nella coscienza dei cittadini europei. Se ne erano avuti significativi segni, già prima della crisi, con il no di Francia e Olanda al referendum del 2005 sulla Costituzione europea. L'Unione si può rilanciare solo attraverso una severa critica dei modi in cui essa è stata realizzata. Altrimenti si suonano solo le trombe stridule della retorica. E la critica deve risvegliare e far leva – dobbiamo pur dirlo – sull'orgoglio nazionale, mortificato dalla politica di austerità della Troika. Davvero si può credere che non sia successo nulla, nella coscienza degli italiani, nel constatare che le condizioni della loro vita dipendono dal fanatismo di ristrette oligarchie straniere?Naturalmente la critica all'Unione dovrebbe essere accompagnata da quello che è clamorosamente mancato: uno sforzo di 'alleanza con gli altri paesi paesi mediterranei e il Portogallo per ridiscutere il debito e avviare una prospettiva politica all'altezza delle sfide che si aprono in questo angolo del mondo.
Crediamo che, collocata in tale prospettiva, Sel potrebbe attestarsi nella prossima campagna elettorale su una percentuale del 10% e forse oltre. L'ottimismo della previsione si fonda su alcune basi certe. La prima è sicuramente data dal fallimento cui è condannato il governo Letta. Un esecutivo che spende mesi della propria attività per partorire il mostriciattolo dell'abolizione dell'IMU, mentre il paese va a picco, è un piccolo monumento all 'attuale tragedia italiana. E non sono certo le promesse della ripresa che conforteranno i milioni di cittadini indebitati e senza lavoro nei prossimi mesi ed anni. E' certo che le condizioni sociali dell'Italia peggioreranno ancora, visto che l'arretramento economico non si è ancora fermato. E dunque il PD pagherà la sua politica moderata, peraltro condotta insieme a un partito che fa scudo al suo capo criminale: un uomo condannato dalla giustizia italiana, che continua a sconvolgere il nostro sistema costituzionale e ad avvelenare lo spirito pubblico. Non meno consensi Sel potrebbe sottrarre al movimento 5 Stelle. Il fallimento di questa formazione è sotto gli occhi di tutti. A un movimento, nato e cresciuto grazie alla corruzione e alla impotenza dei partiti tradizionali, non sarà perdonato di aver contrapposto, sul piano politico e parlamentare, nulla più che una onesta inettitudine. Per non dire dell'impoliticità irrimediabile di Grillo e del suo socio.
C'è infine una condizione storica di fondo da considerare. Come ha ricordato di recente Ilvo Diamanti (Un salto nel voto, Laterza), le antiche fedeltà elettorali si sono ormai dissolte. Le inerzie che tenevano idealmente legati milioni di persone, da decenni, a uno stesso partito hanno ormai ceduto. Nulla è più garantito ai detentori di vecchi e onorati marchi.
Un così probabile successo elettorale farebbe di Sel il centro del sistema politico italiano, punto di riferimento di gran parte dei movimenti sociali, capace di attrarre il consenso di gruppi e figure intellettuali di larga influenza nazionale. Nessun governo sarebbe possibile senza di essa. Allora l'alleanza con il PD potrebbe avvenire su nuove basi e sconvolgere gli assetti del suo gruppo dirigente. Nuovi scenari a sinistra.
... >>>
Fra il 1974 e il 1980 il governo italiano predispose tre o quattro "piani energetici"; poi, dopo lunghi silenzi, nel 2012, negli ultimi giorni del governo Monti, è stata redatta una proposta di "strategia energetica" di cui non si è più saputo niente, per cui l'Italia continua a procedere a tentoni, sotto le pressioni esercitate da contrastanti interessi. Prendiamo un caso che riguarda la Puglia. Immaginiamo che si voglia sostituire il carbone, molto inquinante, impiegato nella centrale termoelettrica di Brindisi con il gas naturale che è meno inquinante. Naturalmente sarebbero molto scontenti gli importatori di carbone; sarebbero contenti gli ambientalisti e gli importatori di gas naturale. Ma il gas naturale potrebbe arrivare in Italia mediante gasdotti dai grandi giacimenti russi e asiatici e questo piacerebbe ai venditori di tubazioni, ma potrebbe piacere di meno alle popolazioni, per esempio del Salento, che subirebbero il disturbo ambientale del terminale del gasdotto trans-Adriatico TAP.
La soluzione non piacerebbe neanche alle imprese che sono interessate all'importazione, con navi frigorifere, del gas naturale liquefatto dai giacimenti dell'Estremo Oriente e che vorrebbero costruire nell'Adriatico degli impianti di rigassificazione, quelli che riportano il gas naturale liquefatto allo stato gassoso, pronto per la distribuzione. Ma l'uso dei combustibili fossili (carbone o petrolio o gas) nelle centrali elettriche non piace ai fabbricanti e venditori di impianti solari e di motori eolici, tanto "ecologici", finora generosamente finanziati con pubblico denaro, i quali neanche piacciono a molti ambientalisti. A questo punto fanno sentire la loro voce anche quelli che producono elettricità bruciando i residui agro-industriali, le cosiddette biomasse, o i rifiuti urbani e industriali nei cosiddetti "termovalorizzatori", operazioni anche queste finanziate con pubblico denaro e contrastate energicamente da molti ambientalisti. Comunque le importazioni o di carbone, o di petrolio, o di gas naturale, o di impianti fotovoltaici o di pale eoliche, comportano la necessità di dipendere da paesi esportatori con cui si devono avere buoni rapporti, anche se ci sono antipatici.
Senza contare che i pubblici finanziamenti o incentivi dell'una o dell'altra fonte di energia si traducono in un aumento del prezzo dell'elettricità pagata dal consumatore finale. Elettricità, poi, per fare che cosa ? Per far aumentare il numero di automobili elettriche, forse meno inquinanti? Una scelta che non piacerebbe ai venditori di prodotti petroliferi e neanche all'industria automobilistica che dovrebbe cambiare gli attuali cicli produttivi; molti autoveicoli a benzina o gasolio dovrebbero così essere rottamati, e sarebbero contenti coloro che si occupano di riciclo degli autoveicoli fuori uso. Con la disponibilità di elettricità abbondante alcuni potrebbero pensare di diffondere stufe elettriche e condizionatori di aria; in questo caso dovrebbero essere rifatti molti edifici e sarebbero contente le imprese edili.
Eccetera: il ragionamento potrebbe infatti essere esteso a tutti i settori economici e produttivi che hanno bisogno di energia. Una soluzione dovrebbe essere cercata partendo, alla rovescia, dai fabbisogni di energia nei diversi settori economici - industria, trasporti, agricoltura, abitazioni, servizi - decidendo poi con quali fonti di energia è possibile soddisfare tali fabbisogni, con l'obiettivo di un aumento dell'occupazione e di minori costi per i consumatori, tenendo presente che non è vero che un aumento del benessere nazionale richiede un aumento dei consumi di energia. Una decisione, ad esempio, di consumare "meno energia" consentirebbe di diminuire i danni ambientali e le importazioni di fonti di energia, privilegiando quelle, non molte, ma neanche poche, disponibili in Italia.
Dato per scontato che non si possono accontentare tutti - interessi del carbone, del petrolio, del gas, degli inceneritori di biomasse e rifiuti, dei venditori di impianti solari ed eolici, dei vari gruppi di ambientalisti e delle popolazioni coinvolte in opere pubbliche e impianti- la soluzione può essere soltanto politica: la redazione di un piano energetico discusso e approvato in Parlamento, esteso ai prossimi (diciamo) dieci anni, che decida chi accontentare e chi scontentare, nell'interesse degli unici che dovrebbero contare veramente, i lavoratori e i cittadini.
Forse le attuali crisi, economica e ambientale, possono essere entrambe curate da una rinascita della cultura e degli studi sul futuro... >>>
Ne viene un senso di scoramento, soprattutto nelle generazioni più giovani che sembrano avere perso la speranza. Su, studiosi, ingegneri e sociologi, chimici e filosofi, provate a ricominciare a interrogarvi sul futuro. Su; governanti, provate a immaginare come vorreste il vostro paese e i vostri cittadini e a fare politica a questo fine.
Possibilmente poco rumoroso, e servizievole.
L'articolo è pubblicato contemporaneamente su L'Unità on-line, "nessundorma"
Usi civici, la storia, la proprietà, l’uso della terra. In Sardegna tutto questo è finito dentro due articoletti di una legge scarna. >>>
Il Consiglio regionale ha approvato con una discussione afona una legge ritenuta urgente da tutti i gruppi. Poche righe scivolose per modificare l’uso dei suoli nei 380 Comuni sardi.
Dall’assessorato all’urbanistica dicono con sguardo sfuggente che non si tratta di provvedimenti sul paesaggio ma di chiarimenti e – parola avvelenata – semplificazioni. Eppure il titolo della legge recita: ”Norme urgenti in tema di usi civici, di pianificazione urbanistica, di beni paesaggistici”.
Nessuna discussione in aula, neppure sui singoli articoli. Nulla. Solo silenziose alzate di mano. Qualche intervento “per diritto di voto”. Contrari solo i consiglieri Lotto e Solinas del Pd e Sechi di Sel. Sorprendente l’onorevole Gian Valerio Sanna, uno degli ostetrici del nostro Piano paesaggistico, allineato con la legge che in realtà favorisce il cemento travestito da interesse pubblico.
Certo, è credibile che alcune intricate situazioni di fatto avessero urgenza di essere sanate. Ma cosa può accadere dopo questa legge? Secondo i proponenti nulla di negativo e, anzi, si scioglierebbero alcuni nodi.
Invece sarà l’ennesimo salvacondotto per fare quello che si vuole del nostro suolo, uno strumento per rendere più facile la trasformazione e cancellazione degli attuali usi civici che sono una barriera contro la frenesia edificatoria.
Gli usi civici vincolati ope legis fin dalla Legge Galasso del 1985, definiscono gli utilizzi possibili di terre pubbliche e rappresentano da millenni la complessità del nostro modo di essere, di vivere, di occupare e utilizzare i luoghi. E’ giusto liquidarli con uno scheletrico articolo di legge e senza una discussione? No, certo.
Neppure per l’onorevole Sanna conta che le terre destinate a usi civici siano considerate un bene paesaggistico dal Codice Urbani e dal nostro Piano? E non conta che Regione e Comuni non possano in solitudine, senza lo Stato, decidere cosa è o non è considerabile bene paesaggistico? E il fatto che la tutela del paesaggio prevalga su ogni altro interesse secondo la Costituzione e la Corte? Neppure una parola. Solo l’indebolimento sostanziale di un istituto ultramillenario.
Questa legge sarà impugnata e un giorno si pronunceranno i giudici. Ma intanto la subiremo.
La semplificazione consisterebbe nel dare la possibilità ai Comuni di “proporre permute, alienazioni, sclassificazioni e trasferimenti dei diritti di uso civico secondo il principio di tutela dell'interesse pubblico prevalente”.
Ma “l’interesse pubblico” è un’espressione vaga e azzardata. Abbiamo visto quale interesse prevalga e quale sia il destino dei luoghi, soprattutto quelli più belli e preziosi. Li rosicchiano sino a che non ne resta più nulla anche in nome dell’interesse pubblico. E l’onorevole Sanna lo sa.
Facile immaginare quale sarà l’uso una volta che si sclassificherà un sito. Vedremo entro l’anno come i comuni sclassificheranno i loro usi civici e se la Regione approverà.
Non è da profeti di sciagure aspettarsi un tornado di mattoni, di eolico e fotovoltaico con un Piano Paesaggistico svuotato, privi di un Piano energetico. Affoghiamo nel cemento e gli usi civici sono un argine alla speculazione. Casomai dovevamo rinforzare gli argini e non facilitarne la cancellazione un pezzo per volta.
Un’altra perla splendente inanellata da questa legge ribadisce una norma avversata un anno fa dai partiti della “sinistra” e dall’onorevole Sanna i quali, con una torsione improvvisa, hanno votato a favore.
Il Consiglio ha ribadito che si può costruire a meno di 300 metri dagli stagni e proseguire sereni il disfacimento del nostro paesaggio. Un accordo difficile da comprendere, oppure troppo facile. E anche questa, si vede, è semplificazione. Basta un’alzata di mano.
Le talpe sono notoriamente animali dotati di scarsissima vista. Così deve essere Mauro Moretti, amministratore delegato... >>>
La talpa Moretti dichiara in un'intervista alla Nazione del 31 luglio 2013 "Non è che abbiamo voglia di delinquere ... Ci si deve dare una mano ... non si può pensare che chi deve fare delle cose, specie un gruppo come il nostro, abbia chissà quale interesse a volere effettuare operazioni contro la legge, non se ne capirebbe il motivo ... Poi dovremo affrontare il problema delle rocce di scavo (dopo la verifica dell'idoneità della fresa, nda), capendo quale legislazione dobbiamo rispettare."
Moretti non è stato in grado di leggere, le delibere della Giunta regionale toscana del 31 gennaio 2011, del 24 aprile 2012 e del 15 ottobre 2012, estremamente dettagliate nei contenuti tecnici formulati dal Nucleo di valutazione ambientale. Riassumiamo le conclusioni dell'ultimo documento: la 'duna schermo', da realizzare nella miniera di Santa Barbara a Cavriglia (AR), è autorizzata a patto che le 2.800.000 tonnellate di materiale di scavo contaminato dalla fresa siano trattate come rifiuti e come tali analizzate e bonificate. A meno che non si avveri l'auspicio (intercettato) espresso da Busillo, tecnico della Seli, la società proprietaria della talpa. "Serve il Decreto (Sviluppo, nda) perché il materiale viene chiamato col nome giusto, rocce e terra proveniente dagli scavi e quindi l'Enel (?) dà l'autorizzazione allo stoccaggio permanente..." . Questione nominale, una bazzecola, che può essere risolta semplicemente riclassificando il materiale di scavo da rifiuto a roccia e terra, sia pure allo stato semiliquido; ci penserà a 'dare una mano' il Ministro Lupi? Si sa che la talpa ha la vista corta, ma sa ben scavare nel sottosuolo del lobbismo. Appaiono, perciò, imprudenti o impudenti le dichiarazioni del Sottosegretario alle Infrastrutture e ai Trasporti, Erasmo D'Angelis, che annuncia per settembre 2013 la ripresa dei lavori. Ma, in attesa, la legislazione da seguire è chiarissima; a meno che l'interesse di effettuare operazioni contro la legge, sia - guarda caso - di far risparmiare sui costi di smaltimento che sarebbero ben più consistenti per Nodavia, società controllata da Coopsette - partner delle FSS in molti lavori, fra cui la stazione Tiburtina - che nel gennaio del 2013 ha chiesto al tribunale di Reggio Emilia di essere ammessa al concordato preventivo.
Particolare da non trascurare l'indagine in corso da parte della Procura di Firenze (gennaio 2013) su 31 soggetti, funzionari ministeriali e dirigenti di aziende, fra cui Maria Rita Lorenzetti (Pd), ex presidente della Regione Umbria e presidente dell'Italferr (società di progettazione del gruppo Ferrovie), cui vengono contestati l'abuso di ufficio, l'associazione a delinquere e la corruzione, ''svolgendo la propria attività nell'interesse e a vantaggio della controparte Nodavia e Coopsette (soggetti appaltanti)". Né del tutto secondario il fatto che una delle ditte incaricate in subappalto dello smaltimento di fanghi sia legata alla camorra dei Casalesi. Ma si sa, Moretti ha una vista troppo corta per occuparsi di questi aspetti, anche se non ha alcun interesse ad agire contro la legge.
Matteo Renzi, battuto da Bersani come candidato premier, si ripresenta come unico candidato in grado di portare il Pd alla vittoria...>>>
Matteo Renzi, battuto da Bersani come candidato premier, si ripresenta come unico candidato in grado di portare il Pd alla vittoria nelle prossime elezioni. Autorevoli opinionisti, inizialmente ostili, hanno cambiato idea e lo vedono ora come l'estrema possibilità di salvezza di un partito lacerato e perdente: Matteo Renzi, in grado di recuperare voti sul fronte moderato e in effetti assai più gradito agli elettori di destra che di sinistra; una candidatura a premier - in stile Pdl - fatta sul personaggio e non sulla politica. Questa è appunto la domanda: quale è la politica di Matteo Renzi, ovverosia quali sono i valori e gli obiettivi che propone al paese? Domanda cui non è facile dare risposta, data l'evasività di Renzi su questo punto e dato il fatto che il suo programma per le primarie è collocato su un piano quasi esclusivamente efficientista, fatto di ricette come 'snellire', 'semplificare', 'ridurre la burocrazia', e simili.
Tuttavia, spesso ci si dimentica che Renzi è da quattro anni Sindaco di Firenze e che i suoi valori, la sua politica, possono essere valutati su quanto ha fatto o non ha fatto per la città. Ricordiamo solo quattro casi significativi: l'approvazione del Piano Strutturale, la pedonalizzazione di piazza del Duomo e dintorni, l'avviso pubblico affinché che le nuove destinazioni del Regolamento Urbanistico siano proposte dai privati piuttosto che dall'amministrazione, la previsione di parcheggi sotterranei nelle piazze del centro storico, costruiti e gestiti in project financing. Queste operazioni ci raccontano molto di Renzi: la pedonalizzazione dell'area centralissima di Firenze (di per sé una buona idea) è avvenuta senza alcuna considerazione su cosa sarebbe accaduto in altre parti di città, ora ancora più invivibili per il traffico ed è contraddittoria con la scelta sciagurata di portare e radicare nuove macchine nelle piazze medievali.
Col passare dei decenni si fa sempre più pallido e formale il ricordo dell’esplosione... >>>
L’”atomica” era il risultato dell’applicazione militare di una rivoluzionaria scoperta scientifica sperimentale: i nuclei dell’uranio e di alcuni altri atomi, urtati dai neutroni, particelle nucleari prive di carica elettrica, subiscono “fissione”, si frantumano in altri nuclei più piccoli con liberazione di altri neutroni che assicurano la continuazione, a catena, della fissione di altri nuclei. In ciascuna fissione, come aveva previsto teoricamente Albert Einstein (1879-1955) nel 1905, si liberano grandissime quantità di energia sotto forma di calore. Energia che avrebbe potuto muovere turbine elettriche, navi e fabbriche, ma che avrebbe potuto essere impiegata a fini bellici.
Circa duemila esplosioni sperimentali di bombe nucleari nei deserti, negli oceani, nel sottosuolo, hanno mostrato che cosa una moderna bomba atomica potrebbe fare, se sganciata su una città. Ciascuna potenza nucleare si è dotata di bombe nucleari per avvertire qualsiasi potenziale nemico che, se usasse una bomba atomica, verrebbe a sua volta immediatamente distrutto: la chiamano deterrenza e questa teoria finora ha fatto vivere il mondo con un continuo stato di tensione. L’esistenza delle bombe nucleari ha sollevato proteste finora inascoltate; anzi si può dire che la contestazione ecologica sia cominciata proprio con la protesta contro tali armi.
Con la graduale distensione internazionale, a poco a poco le potenze nucleari hanno cominciato a smantellare una parte delle bombe esistenti. Nel 1986, l’anno della massima tensione, nel mondo esistevano 65.000 bombe atomiche e termonucleari; oggi tale numero è diminuito a circa 17.000 bombe, delle quali alcune migliaia sono montate su missili pronti a partire entro un quarto d’ora dall’ordine. La potenza distruttiva delle bombe nucleari ancora esistenti nel mondo equivale a quella di duemila milioni di tonnellate di tritolo, settecento volte la potenza distruttiva di tutte le bombe impiegate durante la seconda guerra mondiale.
Fratelli, non crediate che siano utopie: davvero “siamo ancora in tempo” a fermare il pericolo di un olocausto nucleare molte volte più grande di quello di Hiroshima e Nagasaki, a condizione di chiedere ai governanti di ciascuno e di tutti i paesi della Terra di inserire il disarmo nucleare totale fra le loro priorità di azione politica. Nel nome dei soldi risparmiati, se non gli importa niente della sopravvivenza degli abitanti del pianeta e del suo ambiente naturale.
Mi pare che Ignazio Marino sia partito bene. È stata soprattutto la grande partecipazione...>>>
Il Progetto Fori, quello autentico, quello che volevano Antonio Cederna, Luigi Petroselli, Adriano La Regina, prevedeva l’eliminazione della via dei Fori per portare alla luce il complesso archeologico più importante del mondo: i Fori di Cesare, di Augusto, di Nerva, di Traiano che, insieme a basiliche e altri edifici, formavano il centro direzionale dell’impero romano. Ma nell’attuale rilancio del Progetto l’eliminazione della via dei Fori sembra rimossa, mi pare che nessuno dei protagonisti istituzionali, a cominciare dal sindaco, ne parli esplicitamente e sembra che l’obiettivo sia solo la pedonalizzazione integrale da piazza Venezia al Colosseo. Ma così non può essere, il Progetto Fori non può essere la folla che passeggia lungo la strada voluta da Benito Mussolini.
La cronaca dei primi passi della proposta e dell’interesse che riscosse in Italia e all’estero è stata raccontata da Italo Insolera e Francesco Perego nel libro Archeologia e città. Storia moderna dei Fori di Roma dove sono raccolti i documenti, le testimonianze e le immagini fondamentali della vicenda dal 1870 al 1983. Per Insolera e Perego l’operazione Fori propone «una sintesi ambiziosa quanto inedita tra il patrimonio archeologico e il tessuto urbano che lo circonda: l’“antico” non è più inteso come “monumento”, né come quinta evocatrice di illustri memorie, ma come parte storica potenzialmente equiparabile ad altre parti storiche – medievali, rinascimentali, barocche – che la città non ha mai smesso di usare».
Il sindaco Giulio Carlo Argan, gli assessori Vittoria Calzolari e Renato Nicolini si schierano subito con La Regina e la sua proposta di realizzare un grande parco archeologico dai Fori fino all’Appia Antica, allontanando il traffico automobilistico, «uno degli elementi più deturpanti della città». Ma a imporre l’archeologia e il Progetto Fori al centro del dibattito politico e culturale fu l’elezione a sindaco di Luigi Petroselli (il 27 settembre 1979), quando Argan si dimise. L’idea-obiettivo che guidò l’azione di Petroselli era di accorciare le distanze fra il mondo marginale delle periferie e la città riconosciuta come tale, e perciò voleva che anche la storia dell’antica Roma non fosse patrimonio solo degli studiosi ma di tutto il popolo di Roma, anche quello più sfavorito. Sospinto dall’entusiasmo di Petroselli, il recupero dei Fori diventò l’insegna del rinnovamento della capitale, mobilitò le migliori energie, raccolse un consenso vastissimo, dalle autorità di governo alla grande intellettualità internazionale, dagli abitanti delle borgate che si stavano risanando a coloro che partecipavano all’Estate romana di Renato Nicolini.
L’esordio di Petroselli sui problemi dell’archeologia fu la decisione di smantellare via della Consolazione che da un secolo separava il Campidoglio dal Foro romano. Subito dopo il Comune deliberò l’eliminazione del piazzale che separava il Colosseo dall’arco di Costantino e dal resto del complesso Foro-Palatino. Si ricostituì così l’unità Colosseo-Foro Romano-Campidoglio e la continuità dell’antica via Sacra. L’elaborazione del progetto fu accompagnata dall’esperienza delle domeniche pedonali di via dei Fori cominciata senza grande clamore il primo febbraio del 1981, e continuata nelle domeniche successive, con crescente partecipazione popolare, nello stessa clima festoso dell’Estate romana. (E l’altra notte sono tornati alla memoria brandelli commoventi di quella stagione).
Mi pare importante ricordare che a favore del Progetto Fori si schierò subito Il Messaggero, diretto da Vittorio Emiliani. Il quotidiano diventò un protagonista dell’operazione, lo stesso quotidiano che oggi dà la linea alla destra. Allora all’opposizione stava solo Il Tempo, che all’avvicinarsi delle elezioni del maggio 1981 cominciò a insinuare che la chiusura di via dei Fori fosse suggerita più da odio al fascismo che dall’esigenza di risolvere problemi archeologici o urbanistici.
Ma improvvisamente, il 7 ottobre del 1981, solo due anni dopo la sua elezione, Petroselli morì, a quarantanove anni. Con lui cominciarono a morire il Progetto Fori e l’immaginazione al potere, e cominciò la crisi della città pubblica, sostituita dall’urbanistica contrattata, drammaticamente incollata alla concretezza degli affari. Con la scomparsa del sindaco, veli sottili di opportunismo e di circospezione avvolsero lentamente il progetto, e anche importanti intellettuali (tra gli altri, Federico Zeri, Cesare Brandi, Luca Canali) ne presero le distanze. I tempi si prolungarono all’infinito. Il parco archeologico centrale a mano a mano perse attendibilità, fu spostato nel novero delle cose molto difficili, poi impossibili, infine svanì nel nulla.
Nel 1993, dopo la sconfitta del 1985, la sinistra tornò in Campidoglio con Francesco Rutelli (sindaco dal 1993 al 2001). Poteva essere la grande occasione per riprendere le idee di Petroselli. Ma la svolta non ci fu. Anzi Rutelli si dichiarò contrario all’eliminazione della via dei Fori. Una strada che intanto – a seguito dei provvedimenti dell’assessore Walter Tocci per la drastica riduzione del traffico di attraversamento e per l’inserimento della via nella zona a traffico limitato – ha finito con l’assumere un aspetto insensato per l’esubero dello spazio impegnato dalla viabilità. Nel 1996, ripresero comunque gli scavi ai lati della via dei Fori, ma non ci si preoccupò di dar loro un disegno compiuto. Venne anche ripetuta l’esperienza delle domeniche pedonali, ma la chiusura definitiva della strada alle automobili fu rinviata alle calende greche.
Un autorevole stop al Progetto Fori è stato imposto nel 2001 con un decreto di vincolo monumentale che congela lo stato di fatto dalla via dei Fori e dintorni fino alle terme di Caracalla. La sistemazione voluta da Mussolini è presentata come «un’immagine storicamente determinata che rappresenta il volto della Capitale laica per tanti anni ricercato e finalmente, come sempre e ovunque, nel bene e nel male, raggiunto». Un vincolo posto con un decreto ministeriale si rimuove con un altro decreto ministeriale. Ma non è questo il problema. Il problema è che il vincolo sulla via dei Fori è evidentemente un prezzo pagato alla cultura della destra nostalgica. Una cultura, soprattutto a Roma, non certamente minoritaria, e attiva nelle articolazioni della società. Non mi pare che serva adesso uno scontro ideologico, serve invece un’azione culturale diffusa e convincente, che faccia leva sull’assoluta modernità del progetto Fori. Nel senso che non si tratta di un’(impossibile) operazione antistorica di ripristino dell’assetto spaziale precedente agli anni del fascismo ma, al contrario, di partire dalla sistemazione degli anni Trenta per realizzare, nel migliore dei modi, un nuovo e autentico rapporto con i più famosi resti dell’impero romano, considerando l’archeologia una componente vitale della città contemporanea, ecologica e pedonale.
Tutto ciò impone un lavoro, non facile e forse non breve, che coinvolga le università, le scuole di ogni ordine e grado, la stampa, le istituzioni scientifiche di altri paesi presenti a Roma, eccetera. Un lavoro che soprattutto mobiliti i cittadini romani per farli partecipare da protagonisti alla costruzione della nuova immagine della capitale. La grande partecipazione dell’altra notte è stata una magnifica conferma che la Roma democratica e popolare, cioè la stragrande maggioranza dei cittadini, è d’accordo con il Progetto Fori. Allora, coraggio, andiamo avanti. Non credo che ci sia un problema di risorse finanziarie, serve in primo luogo l’impegno delle persone giuste, cominciando da due amministratori che da sempre sono stati a favore del Progetto: l’archeologo Rita Paris e l’e l’assessore all’urbanistica Giovanni Caudo.
La dichiarazione di intenti del Sindaco sviluppista di Bosa – trecentomila metri cubi in una bella cittadina che già ne ha qualcuno di troppo... >>>
Il borgomastro di Bosa, asserragliato in una macchina del tempo, propone ai suoi cittadini di dare via perle in cambio di fondi di bottiglia e ci assicura che con trecentomila metri cubi “adagiati” qua e là saremo moderni, verdi e sostenibili. Disegna nell’aria posti di lavoro. Golf e grifoni. Golf e miniere. Golf e malvasia. E lacera – lui che dovrebbe unirla – la sua comunità per un progetto drammatico chiamato “Colores”.
Condotte immobiliare possiede 337 ettari nel territorio di Bosa. A Tentizzos-Sa Miniera, 247 ettari lungo la Bosa Alghero, una delle strade più belle dell’isola, preparano un torrido campo da golf sul mare e 75.000 impalpabili metri cubi. A Campu e mare, 17 ettari, “adagiano” 217.000 metri cubi di brutta edilizia abitativa. A Sa Sea, 73 ettari, 25.000 soavi metri cubi e alberghi che grondano stelle.
L’astuzia consiste nel tentativo di spostare a Tentizzos-Sa Miniera, dove le leggi lo vietano, un’enormità di metri cubi già autorizzati in un'altra parte. E così il Sindaco annichilerebbe tre siti al costo di uno. Un primato. Ma è un’astuzia scadente.
Ovvio che non si possa detestare l’azione di costruire in sé, ma quando costruire è un mezzo per il profitto di pochi e sperpera il bene non ripetibile della bellezza, quando costruire diviene un’azione priva di filosofia e assomiglia al gioco delle tre carte, allora la critica, il “No” e l’opposizione diventano necessari.
Il golf è salutare. Però diventa una malattia quando diciotto buche portano con sé 75.000 metri cubi. Tanto più in un luogo sublime dove ogni norma lo vieta. Lo proibiscono il piano urbanistico comunale, il Piano paesaggistico regionale, norme europee e il buonsenso. Lo sport non è il golf, lo sport è costruire. E il principio è più buche, più cemento. Però il Sindaco di Bosa dice di crederci. E coltiva una pericolosa ostilità tra chi non vuole cemento e una minoranza legata a interessi locali. I nostri Mazarò che accumulano “roba” e con la roba se ne andranno all’altro mondo avvinghiati ai loro metri cubi.
Per risolvere la crisi di un sistema morente basterebbero campi da golf e cemento sparso nei luoghi più belli? Il decotto anti-crisi del Sindaco farebbe sorridere se non fosse tossico. Dare mattoni all’agonizzante mercato del mattone è come dare droga a un drogato.
Le cicale sarde sono voraci come le altre o anche di più e a forza di spingere carriole di mattoni rimarremo poveri per sempre. Cura, cura amorevole dei luoghi è l’unico possibile investimento. La cura conserva la bellezza e crea un benessere duraturo che non oscilla quando oscillano i mercati lontani.
Il Sindaco metrocubista chiede le mostrine dell’Unesco ma sostiene il progetto del golf e cemento. E sogna che il Piano paesaggistico venga cancellato, che la legge sul golf non sia bocciata dalla Corte Costituzionale, che Bosa modifichi in peggio il suo piano urbanistico e che scompaia il vigoroso movimento civile che gli si oppone.
Protegga Bosa, il Sindaco, sostenga le leggi che la difendono, riunisca la sua comunità. E nella piccola storia locale conserverà una buona memoria di sé. Sennò lo ricorderemo come un flagello, tra i tanti, di Bosa e dell’isola.
E così, da oggi è cominciato il grande esperimento della pedonalizzazione di via dei Fori Imperiali, preannunciato dalla kermesse di ieri sera, simbolica per molti aspetti. A partire da una gestione per così dire approssimativa che, ad esempio, non ha saputo impedire la gazzarra ostentata da Alemanno sul problema delle discariche (come dicono nell'Urbe quelli educati, 'la faccia come il gomito'): défaillance che interroga non solo l'organizzazione capitolina della serata, ma la stessa Questura, beatamente ignara di quanto si stava preparando in un luogo affollatissimo e potenzialmente a rischio incidenti.
Tutta la serata si è tenuta in realtà in bilico fra qualche banalità istituzionale, momenti di passione, un po' di contorno di inutile vipperia gestita dalla presentatrice di sinistra di prammatica e, per fortuna, una debordante partecipazione popolare. Perché erano veramente tanti i cittadini romani venuti a sfidare la sfiancante afa della capitale: volevano sapere, capire qualcosa di più di quel 'progetto Fori' che si riaffaccia dopo oltre trent'anni nell'agenda politica della capitale.
Divenuta il fiore all'occhiello della campagna elettorale di Ignazio Marino, la ripresa del progetto di Petroselli, Cederna, La Regina, ha innescato, da subito, una discussione aspra. I critici, per lo più dalle colonne del Messaggero, degno erede de Il Tempo degli anni '80, il tempio dei 'romanisti' anticederniani, hanno riciclato i temi dell'intangibilità di via dei Fori Imperiali, come se l'urbanistica del ventennio si celebrasse difendendo un massacro storico archeologico, quale fu la costruzione della strada, e non piuttosto tutelando adeguatamente i monumenti dell'EUR, dove, ad esempio, il Palazzo della Civiltà italiana, come raccontano le cronache di queste settimane, è in corso di privatizzazione, senza che questo susciti il benché minimo frisson da parte dei difensori dell'ex via dell'Impero. Pur di fronte all'evidente stato di degrado e di illeggibilità storica dell'intera area centrale, si è utilizzata l'intera panoplia del 'benaltrismo': ci vuol altro per recuperare il degrado di Roma, meglio cominciare dalle periferie, ecc. ecc. ecc.
In questa querelle il nome di Antonio Cederna è stato spesso evocato, dall'una e dall'altra parte, spesso a sproposito. Sia per palesi ragioni di faziosità, sia per conclamata ignoranza, come è apparso evidente anche ieri sera, vista la presenza, sul palco, di un rappresentante di quell'Istituto di Studi Romani che 30 anni or sono contrastò il 'progetto Fori' con i più beceri argomenti della retorica criptolittoria.
Dall'una e dall'altra parte, nella discussione odierna, si dimenticano le ragioni profonde del 'progetto Fori', urbanistiche prima che archeologiche. E sociali, perché nella visione di Petroselli soprattutto, quel parco archeologico, che si allargava da Piazza Venezia all'Appia antica, aveva innanzi tutto la funzione di riconciliare i cittadini romani, a partire da quelli delle periferie più degradate, con la storia della loro città, con quella città che li aveva espulsi e condannati a condizioni di vita urbana incivili. Quel parco, come ci ha spiegato anche recentemente Vezio De Lucia, doveva costituire il momento di riscatto di una città per troppo tempo governata esclusivamente dagli appetiti fondiari, la risarcitura, in nome della cultura e della storia, di una città lacerata dalla speculazione. Che poi questo comportasse la valorizzazione - tramite lo studio e la ricerca - della più importante zona archeologica del mondo, era effetto non secondario.
Delle molte critiche al 'progetto Fori', le uniche che meritano speciale attenzione riguardano la sottolineatura della complessità del progetto sia dal punto di vista archeologico che da quello della gestione successiva dell'intera area. È senz'altro vero che l'archeologia italiana nel suo insieme viva in effetti una fase piuttosto oscura (Pompei docet), per cui è lecito domandarsi se davvero esistono le energie culturali per un progetto di questo tipo che rappresenta una sfida ben diversa da uno scavo archeologico per quanto vasto e complesso. Nella stessa direzione, per gestire nel tempo l'area prefigurata, occorrono capacità e competenze culturali, istituzionali, amministrative e politiche che solo con molto ottimismo si possono accreditare a certi settori dell'attuale classe dirigente capitolina: basti per tutti l'infelice uscita della neo assessora alla cultura sulla necessità di un manager per il parco dei Fori.
Occorrerà uno sforzo enorme e la collaborazione di molte energie e competenze, anche di quelle dei critici di buona volontà. Però ieri sera, quando nella notte romana è apparso il video di Renato Nicolini che spiegava, in un minuto e mezzo, le ragioni - così evidenti, così importanti, così definitive - del 'progetto Fori', l'applauso finale di tutti noi ha in qualche modo sancito la necessità di quell'idea, per quanto difficile e tortuoso ne sia il percorso. Perché la cialtroneria devastante con cui Roma ci esaspera, è pur sempre superata dalla sua infinita bellezza.
L'articolo è inviato contemporaneamente a L'Unità on-line, blog "nessundorma"
...>>>
La plastica è dovunque, dai sacchetti per la spesa alle automobili, dal rivestimento dei fili elettrici alle tubazioni per l'acqua e le fogne, dagli imballaggi che consentono di conservare al freddo gli alimenti, ai giocattoli, eccetera. "Plastica", però, è un nome che non dice niente, perché esistono numerosissimi tipi di materie plastiche, macromolecole sintetiche costituite da migliaia a milioni di atomi uniti fra loro. Di alcune conosciamo l'abbreviazione perché la troviamo stampigliata sui relativi manufatti: PE, polietilene a bassa o alta densità; PP, polipropilene; PET, tereftalato di polietilene; PV, polivinile; PS, polistirolo. Gli oggetti che usiamo sono miscele complesse di alcune di queste macromolecole con plastificanti, coloranti, additivi di vario genere, capaci di adattare ciascuna miscela ai vari usi.
Benché sia così buona e utile, esiste una diffusa contestazione e per alcuni ambientalisti plastica è parolaccia. Ciò deriva dal fatto che i manufatti di materia plastica sono quasi indistruttibili, il che è desiderabile in molte applicazioni nelle quali si desidera che tubi, fili elettrici, parti di macchinari siano duraturi, resistenti agli acidi, inattaccabili dall'acqua e dai batteri. Invece per molte altre applicazioni, soprattutto negli imballaggi destinati ad una breve o brevissima vita prima di diventare rifiuti, si tratta di un grosso inconveniente dal punto di vista del loro smaltimento. Si dice normalmente che, per evitare discariche e inceneritori, occorre raccogliere i rifiuti separatamente, per qualità merceologica, in modo da poterli sottoporre a riciclo, a ricostruzione delle merci originali, e questo viene anche ripetuto per i rifiuti di materie plastiche.
Il successo della raccolta differenziata è affidato alla buona volontà dei cittadini ed è fortunatamente crescente anche in Italia, ma la trasformazione degli oggetti usati di plastica in nuovi oggetti presenta difficoltà tecnico-scientifiche. "Se", lo scrivo fra virgolette, fosse possibile ottenere tutti insieme i rifiuti, per esempio di PET (per lo più le bottiglie di acqua), o di PE, in via di principio, dopo una pulizia grossolana, sarebbe possibile farli fondere e trasformarli di nuovo in oggetti commerciali dello stesso materiale. Purtroppo dei circa 2 milioni di tonnellate di oggetti di plastica a vita breve (per lo più imballaggi) immessi in commercio ogni anno in Italia soltanto circa 600.000 tonnellate sono raccolte in maniera differenziata; circa 300.000 tonnellate sono avviate al riciclo vero e proprio, cioè alla trasformazione in altri prodotti vendibili, e circa 750.000 sono bruciati negli inceneritori o nei forni da cemento, come miscele di materie plastiche diverse, o plasmix. Il resto finisce nelle discariche.
Da questi numeri approssimativi è facile vedere i motivi della contestazione ambientalista contro le materie plastiche: le discariche sono sempre più difficili da trovare; la combustione negli inceneritori provoca inquinamento atmosferico; e poi viene contestata la grande quantità di petrolio, la materia prima, usata per produrre le materie plastiche, e infine la resistenza, la non biodegradabilità, delle plastiche quando finiscono nei campi, nei fiumi, nel mare. Le soluzioni, finora tentate, quella di "inventare" delle materie plastiche "verdi", biodegradabili, capaci di decomporsi in settimane o mesi, anziché in anni o decenni, o quella di diminuire il peso di alcuni oggetti di plastica come i sacchetti per la spesa, si sono rivelate finora dei palliativi.
Nell'attesa di un materiale che sia lavorabile con le stesse tecniche usate oggi e sia adatto per le stesse applicazioni delle materie plastiche odierne e che "scompaia" in pochi giorni quando è buttato via, proprietà in evidente contrasto fra loro, restano i processi capaci di trasformare le plastiche miste in qualcosa di vendibile; non saranno più bottiglie o tubi, ma potrebbero essere prodotti più poveri come pavimenti per abitazioni o strade, infissi, panchine o tavole, qualcosa insomma che tolga dalle discariche o dagli inceneritori una parte delle plastiche. Qualche impresa si sta muovendo: non occorrono grandi impianti, la materia prima, i rifiuti di plastiche sono disponibili nel Nord e nel Sud d'Italia e sono oggetto anche in un commercio internazionale, con prezzi fra 100 e 300 euro alla tonnellata.
C'è molto lavoro, anche nel Mezzogiorno, per studiosi, inventori e imprenditori nel campo della chimica e della merceologia del riciclo, nel nome di un ambiente meno sporco e inquinato.
.>>>
La produzione mondiale di petrolio greggio è di circa 4100 milioni di tonnellate all'anno; il suo prezzo è in lento continuo aumento e, in questa metà di luglio, ha superato i 108 dollari al barile, corrispondenti a oltre 600 euro alla tonnellata. In passato è stato previsto che il petrolio si sarebbe esaurito; è vero che i pozzi si esauriscono uno dopo l'altro, ma finora sono state scoperte nuove riserve in seguito al miglioramento delle conoscenze geologiche del sottosuolo e al perfezionamento di tecniche di perforazione e di estrazione capaci anche di ricavare petrolio da rocce sotterranee, sia pure con crescenti costi monetari e danni ambientali. Nuovi paesi si affacciano prepotentemente come produttori di petrolio, in Africa, nelle repubbliche asiatiche dell'ex Unione Sovietica, nell'America meridionale e in Estremo Oriente, una geografia economica continuamente variabile, sempre con lo spettro di una più o meno lontana scarsità.
Il petrolio può essere sostituito dal carbone e dal gas naturale in molti settori, come le centrali termoelettriche, ma resta finora insostituibile nel settore dei trasporti che assorbe circa un terzo di tutto il petrolio prodotto nel mondo, per cui gli automobilisti sono i più esposti ai capricci del mercato petrolifero internazionale. Per far uscire i propri clienti da questa schiavitù, l'industria automobilistica propone veicoli tutti elettrici, o ibridi; in questi ultimi un motore a benzina o gasolio è abbinato ad un motore elettrico. La transizione alle auto elettriche però fa uscire dalla dipendenza dai produttori di petrolio, ma fa cascare nella dipendenza dai produttori di altri materiali strategici come il litio per le batterie e le terre rare indispensabili per i magneti permanenti.
Del litio esistono giacimenti negli altopiani desertici delle Ande; delle terre rare, una ventina di elementi poco diffusi in natura, esistono limitate riserve nel mondo, per ora in gran parte nelle mani della Cina. D'altra parte la diffusione dei veicoli elettrici farebbe aumentare la richiesta di elettricità generata in centrali che bruciano carbone o gas naturale, con effetti di inquinamento atmosferico e di crescenti alterazioni climatiche. Ma, si potrebbe pensare, ci sono le fonti energetiche rinnovabili che producono essenzialmente elettricità e la cui diffusione sta rapidamente aumentando. Purtroppo il Sole e il vento consentono di ottenere elettricità con "macchine" che richiedono anche loro materiali le cui riserve sono limitate. Le grandi pale mosse dal vento richiedono dei magneti che dipendono dalle terre rare, l'elettricità tratta dal Sole o dal vento può essere inserita nelle grandi reti di distribuzione con speciali delicate apparecchiature.
Resterebbe l'elettricità ottenibile dal moto delle acque, ma anche in questo caso le grandi dighe alterano il corso dei fiumi con danni ecologici e la produzione di elettricità dai piccoli salti di acqua o dalle acque correnti dei fiumi e torrenti è in grado di soddisfare soltanto richieste locali.
La morale è che, purtroppo, la natura non da niente gratis. La scarsità e l'ineguale distribuzione planetaria delle materie prime e dei minerali e l'inquinamento sono il prezzo che noi esseri umani dobbiamo pagare per i benefici che ci vengono dai progressi tecnologici. Dalle varie trappole si può parzialmente uscire con decisioni politiche, con governanti informati, capaci di riconoscere, fra le varie soluzioni proposte dai venditori di petrolio, di pale eoliche, di pannelli fotovoltaici, di automobili, ora anche del litio, in concorrenza fra loro, quale è più utile per i loro cittadini. La salvezza potrebbe venire da una nuova politica internazionale capace di indicare, in solidarietà e con adeguate conoscenze, come assicurare agli abitanti del mondo i beni materiali capaci di soddisfare i bisogni essenziali di abitazioni, di igiene e di istruzione, di aria respirabile e di acque pulite, di energia e di mobilità.
Un grande sogno finora vanificato da egoismi nazionali e scontri di poteri economici e finanziari, incapaci di affrontare i problemi posti dai vincoli fisici della scarsità delle risorse del pianeta. Da qui le continue guerre per le materie prime. La posta in gioco non è soltanto quella di pagare qualche centesimo di più o di meno la benzina o il gasolio, ma è la possibilità di assicurare lavoro e condizioni ambientali e di vita decenti a tutti i sessanta milioni di italiani, a tutti i settemila milioni di terrestri.
Questo articolo è inviato contemporaneamente alla Gazzetta del Mezzogiorno
Ma c'è del metodo in questa follia, in fondo. Ciò che accade oggi, cioè gli ennesimi provvedimenti a favore di una speculazione edilizia senza regole - perché è questo che si nasconde sotto il velo ipocrita delle "semplificazioni" - sono solo l'ultimo atto di un processo storico lungo, consapevole e coerente.
Quello che ha portato il nostro paese da giardino d'Europa, a primo fra i cementificatori, con un consumo annuale di 35.000 ettari di suolo fertile.
Quello che è analizzato con lucida passione, nel libro di Vezio De Lucia Nella città dolente (Castelvecchi, 2013), ultimo in ordine di tempo di un trittico iniziato con Se questa è una città (1989 e 2006) e proseguito con Le mie città (2010).
Nella città dolente viene ripercorsa cronologicamente e per exempla, la storia funestissima e dolente del degrado del nostro territorio nell'ultimo mezzo secolo, a partire cioè da quel momento che l'autore considera quale snodo fondamentale, in negativo, di tutta la successiva vicenda urbanistica, e non solo, italiana, cioè il fallimento della riforma urbanistica basata sull'esproprio delle aree edificabili voluta dal ministro democristiano Fiorentino Sullo.
Eravamo nel 1963, nel pieno di quel processo riformista che porterà negli anni successivi ad un'evoluzione decisiva sul piano sociale e democratico del nostro paese, pur fra contraddizioni e ripensamenti.
Eppure quel colpo d'arresto inferto dai poteri forti della proprietà fondiaria sarà destinato ad avere ripercussioni negative non solo sul destino urbanistico delle nostre città, ma anche sulla tenuta democratica della stessa società.
E rappresenterà un discrimine, mai più colmato ed anzi destinato ad allargarsi, nei confronti della cultura urbanistica europea, sviluppatasi su rigorosi principi di regolamentazione pubblica dell'uso del suoli.
L'inestricabile connessione che lega urbanistica e politica è da sempre uno dei temi privilegiati di De Lucia, testimone attivo e spesso protagonista delle vicende urbanistiche di alcune città e luoghi simbolo, da Napoli a Roma, da L'Aquila a Venezia e Milano, che assieme a tanti altri sono i luoghi attraverso i quali si dipana un racconto storico incalzante: l'uso stesso di una prosa priva di tecnicismi e di grande efficacia sottolinea come in realtà, parlare della storia urbanistica italiana, argomento da sempre negletto dai media, sia spiegare un pezzo di storia del nostro paese determinante anche per capire le ragioni della crisi di oggi, che è prima di tutto crisi culturale e di cultura urbanistica.
Questo libro è quindi importante per il contributo che fornisce alla comprensione di alcuni passaggi fondamentali della storia nazionale, dall'autunno caldo del '69 a Tangentopoli fino al ventennio berlusconiano che, non per caso, porta a compimento ed estremizza la deregulation non solo urbanistica iniziata negli anni '80 del craxismo arrembante, con i condoni e i piani casa e il famigerato disegno di legge Lupi di riforma urbanistica (2005).
Ma Nella città dolente è una bussola indispensabile oggi, in tempi di memorie distorte ed intermittenti, per comprendere i fenomeni che caratterizzano le nostre città, il nostro paesaggio attuale e per capire che non sono che l'inevitabile conseguenza di decisioni politiche maturate cinquant'anni fa, i cui frutti avvelenati ancora cogliamo con suicida coazione a ripetere, come sta a dimostrare quest'ultimo decreto del fare. Le 'semplificazioni' di oggi sono figlie del progressivo abbandono delle pratiche di pianificazione di area vasta da parte dell'amministrazione pubblica, sempre più disponibile nei confronti della speculazione fondiaria.
Non inaspettatamente, man mano che questo processo di sudditanza del pubblico nei confronti degli interessi privati progrediva, aumentava, in modo direttamente proporzionale, sia lo svilimento degli organi democratici- dal ruolo dei consigli regionali e comunali a quello dello stesso Parlamento - sia l'infiltrazione delle grandi organizzazioni criminali ormai presenti in tutto il territorio nazionale e in tutti i grandi cantieri aperti in questi ultimi decenni.
Così l'urbanistica contrattata che dagli anni '80, ha scardinato la forma delle nostre città, e che per De Lucia rappresenta il momento di resa della pianificazione pubblica agli interessi privati, si coniuga sia all'esplosione del fenomeno corruttivo, poi svelato da Tangentopoli, sia all'ampliamento, geografico e politico, del raggio d'azione delle economie mafiose, da sempre legate al ciclo del mattone e del cemento.
Esemplare di questi meccanismi, e della loro trasversalità politica, come il libro spiega esemplarmente, il caso Sesto San Giovanni.
Eppure, in questo panorama che De Lucia disegna con accenti pessimistici, ma mai rassegnati e anzi propositivi, esistono, come rileva lo stesso autore, oasi di resistenza e un allargamento della consapevolezza che qualcosa deve essere cambiato, impensabile all'epoca di Se questa è una città.
E, inaspettatamente, riaffiorano temi e progetti che parevano definitivamente travolti dall'ondata dell'urbanistica neoliberista.
Uno per tutti, quel progetto Fori la cui storia costituisce uno dei capitoli più amari del libro, e che pare, da qualche settimana, ritornato fra i primi posti nell'agenda della politica capitolina.
L'idea di una nuova idea di città, in grado di rilanciare il destino urbanistico di Roma a partire dalla sua storia e archeologia attraverso un grande parco che dall'area centrale dei fori si allarghi a comprendere Colosseo, Circo Massimo, fino all'intero parco dell'Appia Antica.
Era il progetto di Cederna e Petroselli. E di De Lucia e di quella sua stravagante idea di un'urbanistica regolata dalla mano pubblica come strumento necessario per garantire una migliore qualità di vita di tutti i cittadini.
Idea cocciutamente perseguita in cinquant'anni di attività in direzione ostinata e contraria: Nella città dolente è solo l'ultimo capitolo di una storia di resistenza che continua.
Vezio De Lucia, Nella città dolente. Mezzo secolo di scempi, condoni e signori del cemento dalla sconfitta di Fiorentino Sullo a Silvio Berlusconi, Castelvecchi, 2013.
L'articolo è pubblicato contemporaneamente su L'Unità on-line, "nessundorma"
Fra i tanti punti oscuri di questa operazione, decisa da un'amministrazione in dismissione, quello più macroscopicamente pericoloso è la durata della concessione: 20 anni sono un'era geologica per un'area urbana. Significa che per una generazione l'amministrazione pubblica non si occuperà più di questi spazi, delegati in toto al privato cui si richiedono ben poche garanzie sul piano culturale: nel bando non si parla affatto di meccanismi di verifica e monitoraggio, nonostante si tratti di attività complesse e assai diverse fra di loro per tipologia, per le quali il bando prevede infatti la possibilità di subappalti.
Anzi, l'unica possibilità di rinegoziazione del contratto è esplicitamente prevista solo in ampliamento, con l'inserimento, nell'area in concessione anche dell'ex Albergo della Catena a fronte di "eventuali finanziamenti derivanti da mecenatismo e/o sponsorizzazioni". Tradotto: l'unico elemento di riscontro sono i soldi, in cambio dei quali il diritto a "sfruttare economicamente" (sic) l'area è completo e, come sembra dal bando, senza controlli. Quest'ultimo colpo di coda della giunta Alemanno si inserisce perfettamente in quella politica di privatizzazione progressiva degli spazi pubblici e del patrimonio culturale che caratterizza l'attuale fase di governo a livello nazionale e locale.
Se a Firenze, come denuncia oggi Tomaso Montanari, la Soprintendente (statale) ha approntato il suo tariffario per la "concessione in uso dei beni culturali per eventi", includendo tali beni gli Uffizi, Palazzo Pitti e giardino di Boboli, di ieri è la notizia, sui giornali siciliani, dell'affitto del Tempio di Segesta per 'eventi' di qualsiasi tipo alla Modica cifra di 5.000 euro. Prezzo da saldo, considerato che comprende la possibilità di usare il piazzale dell'ex stazione ferroviaria come eliporto per gli ospiti dell'evento, come già accaduto lo scorso 20 giugno, per una cena a lume di candela che ha comportato, quale quisquilia collaterale, la mancata illuminazione notturna del tempio. È certo che le risorse economiche disponibili per il nostro patrimonio culturale siano poche e mal distribuite, ma è altrettanto certo che con queste svendite di fine stagione non riusciremo a colmare i buchi di bilancio, ma solo a proporci come un paese straccione disponibile a qualsiasi compromesso al ribasso.
Il sindaco Marino ha ora una possibilità fantastica di dimostrare nei fatti l'assoluta discontinuità con la giunta precedente: blocchi quel bando quale primo passo di un'autentica politica culturale che serva di esempio ai colleghi facilmente seducibili dal fascino del glamour rosso Ferrari e alla dirigenza del Mibac che ha ormai smarrito il senso della propria funzione.
L'articolo è pubblicato contemporanamente su L'Unità on-line, blog "nessundorma"
Le numerose e continue crisi ambientali ed economiche non sono colpa di una divinità ostile... >>>
Le numerose e continue crisi ambientali ed economiche non sono colpa di una divinità ostile, ma dell'imprevidenza di chi prende le decisioni di fare o non fare una certa opera o una certa scelta produttiva senza tenere conto delle possibili conseguenze. Gli esempi potrebbero riempire interi volumi e qualche opera è stata anche scritta su questo argomento: Nel 1971 il libro "La tecnologia imprevidente" ("The careless technology", di T. Farvar e John Milton) conteneva una lunga serie di esempi di interventi sbagliati, come la diga di Assuan che ha provocato l'arretramento della costa nel delta del Nilo; alcuni anni dopo, nel 1997, un libro dell'americano Edward Tenner spiega "Perché le cose ci ricadono addosso" ("Why things bite back"), con un elenco di casi in cui le scelte economiche si sono rivelate sbagliate.
Spesso una scelta non adeguatamente valutata provoca conflitti: ad esempio se un comune vuole smaltire i suoi rifiuti urbani (cosa che deve fare per legge) seppellendoli in una discarica, gli abitanti e gli agricoltori vicini possono opporsi perché prevedono che la discarica generi cattivi odori o danneggi i raccolti. Gli scienziati dalla parte del comune dichiarano che non c'è nessun danno; gli scienziati dalla parte dei contestatori assicurano che i danni ci saranno. Chi ha ragione ? Occorrerebbero degli scienziati "neutrali" (per quanto neutrali possano essere gli scienziati) in grado di informare le amministrazioni locali, ma ancora di più i parlamenti, sui prevedibili aspetti positivi e negativi delle decisioni che si propongono di prendere.
Il più noto esempio di un ufficio di previsioni tecnologiche è stato l'Office of Technology Assessment (OTA) che fu creato presso il Congresso (Camera dei rappresentanti e Senato) degli Stati Uniti nel 1974. I progetti di legge venivano inviati all'OTA che conduceva degli studi di scrutinio ("assessment", appunto) delle possibili conseguenze. L'OTA funzionò fino al 1995 producendo centinaia di rapporti (fortunatamente ancora disponibili in Internet) su tutti i principali problemi tecnico-scientifici di interesse non solo americano, ma mondiale, nel campo delle scelte industriali, dei minerali, delle fonti di energia, dei prodotti agricoli e commerciali, eccetera.
Per avere una struttura capace di prevedere gli effetti delle scelte tecnico-scientifiche in Europa sarebbe stato necessario aspettare fino al 1998 quando il Parlamento Europeo creò un servizio denominato Science and Technology Options Assessment (STOA). In Internet. nel sito www.europarl.europa.eu/stoa, si trovano tutte le pubblicazioni relative ai vari argomenti che sono stati sottoposti ad uno scrutinio tecnico-scientifico. Mi chiedo quanti parlamentari italiani e membri italiani del Parlamento europeo utilizzino questa preziosa fonte di informazioni quando prendono decisioni sulla cosiddetta "economia verde", sulle caratteristiche dei prodotti alimentari, sugli organismi geneticamente modificati, sulla prevenzione dei mutamenti climatici, sullo smaltimento dei rifiuti, eccetera.
Eppure su questi problemi e su molti altri di interesse economico e industriale, il servizio STOA conduce indagini dirette a prevedere e prevenire possibili effetti secondari negativi. Faccio pochi esempi: lo studio STOA n. 01-2012 esamina i diversi aspetti del dibattito sui finanziamenti pubblici agli impianti che utilizzano le biomasse (prodotti, scarti o residui agricoli e forestali) come fonti di energia rinnovabili, contestati come possibili cause di inquinamento. Per produrre energia rinnovabile dal Sole o dal vento si parla tanto dello sviluppo di una industria capace di produrre centrali fotovoltaiche o pale eoliche, oggi quasi monopolio cinesi.
Ma quali e quanti metalli speciali (le terre rare) occorrono per costruire tali apparecchiature e dove prenderli e quanto costano è il tema esaminato nel rapporto STOA n. 12-2011. I sindaci che pensano al futuro del traffico nelle loro città trarranno utili informazioni dal rapporto STOA 12-2012 che esamina le possibili evoluzioni dei trasporti urbani. Gli studi dello STOA forniscono indicazioni utili anche per scelte produttive indicando quali settori hanno reali prospettive di successo commerciale, capaci di aumentare una stabile occupazione industriale. Per inciso la lettura di questi documenti, realizzati con i nostri soldi e per questo pubblici, offrirebbe molti temi per delle belle tesi di laurea.
Certo, non era facile per nessuno prevedere che il XXI secolo ci avrebbe dischiuso uno scenario di rivolte popolari su scala mondiale >>>
Certo, non era facile per nessuno prevedere che il XXI secolo ci avrebbe dischiuso uno scenario di rivolte popolari su scala mondiale. Quasi una disarticolata e spontanea risposta dei popoli alla globalizzazione dei mercati e dei capitali. Ricordiamolo, il millennio scorso – salvo le ombre anticipatrici della guerra nei Balcani e dell'invasione americana dell'Irak - sembrava voler chiudere con una solenne pacificazione, il '900: il secolo più sanguinoso dell'età contemporanea. D'altronde, non era uscito di scena, con il crollo del blocco sovietico, il Grande Nemico dell'Occidente? Non era stata sanata, con la riunificazione delle due Germanie, la più grave ferita lasciata dall'ultima guerra nel cuore dell'Europa? Non si avviava il Vecchio Continente all'agognata unificazione e alla creazione di una moneta comune? E non apparivano ormai tutte le società del pianeta – perfino la Cina comunista, perfino il Vietnam, simbolo dell'epica antimperialista dell XX secolo - affratellate sotto l'ombrello uniforme del “consenso di Washington”? Per un momento, l'americanizzazione del mondo è apparsa un fatto compiuto. Con significativa coerenza ideologica, ma con troppa fretta e somma ingenuità, qualcuno proclamò la “fine della storia”.
Sappiamo che la grande rete della pacificazione si è smagliata ben presto. Lo stesso Novecento, come si ricordava, prima di uscire dal calendario, ha lasciato un'orrida scia di sangue nell'Europa balcanica. Sappiamo che con il nuovo millennio il conflitto antimperialista ha assunto le forme fanatiche del terrorismo religioso con l'attacco dell' 11 settembre alle Torri Gemelle. E si è potuto subito constatare che la storia non era ancora finita. Ma oggi la pentola mondiale ribolle per l'alimentazione di altri fuochi. Certo, non si può commettere l'errore di ricondurre tutti gli eventi che oggi vanno esplodendo un giorno dopo l'altro, a poche e uniformi cause.
Grande è sotto il cielo la varietà dell'universale scontento. E la considerazione non vale solo per le rivolte di questi giorni. Non vale soltanto per gran parte del popolo dell'Egitto, trascinato dal moto delle “primavere arabe”e mai rassegnato a subire il calco autoritario e oppressivo dell'islamismo. Non vale per le folle in tumulto del Brasile, che hanno rovesciato per le strade i vecchi idoli del calcio, al cui oppio si erano troppo lungamente assopiti. Né per i giovani turchi di piazza Taksim, anima di una rivolta nazionale innescata dalla difesa del bene comune di un parco. Anche in Europa i movimenti e le lotte che l'hanno attraversato in questi ultimi anni avevano diverse cause e ragioni. Dalle lotte dei francesi contro la riforma delle pensioni del governo Sarkozy, alle proteste degli studenti inglesi contro l'aumento delle rette universitarie, dalle diverse ondate del movimento degli studenti e degli insegnanti italiani, alle prolungate proteste dei giovani spagnoli che hanno occupato le piazze di Madrid e Barcellona. L'Italia meriterebbe una considerazione a sé, per la varietà dei conflitti sociali: da quella dei ricercatori universitari agli operai arrampicati sulle gru per difendere il posto di lavoro, dalle manifestazioni di massa delle donne alla straordinaria campagna popolare contro la privatizzazione dell'acqua. Certo, la crisi economico-finanziaria apertasi nel 2008 ha funzionato da grande detonatore. E non solo nel Vecchio Continente, dove la Grecia è stata squassata dalle proteste disperate della sua popolazione repentinamente immiserita, ma perfino negli USA, dove il movimento Occupy Wall Street ha testimoniato la colossale iniquità su cui si regge il modello sociale americano.
Dunque, dobbiamo concludere che cause molteplici e non collegabili fra loro oggi agitano le nostre società? Niente accomuna questa straordinaria novità storica: il fatto che le lotte non sono limitate all'Europa, ma investono ormai tutti i continenti, pullulano a migliaia nella Cina della Grande Trasformazione, nelle campagne dell'India, in America Latina, nell'Africa settentrionale?
In realtà - benché occorrerà affidare a meno occasionali analisi la ricognizione su una scala così vasta – a osservare da vicino gli eventi, alcuni elementi comuni saltano agli occhi. Il primo fra tutti è che la grandissima parte di questi moti non sono organizzati da partiti politici. Certo, ci sono qua e là i sindacati, quando sono in campo i conflitti operai. Ma i partiti sono assenti. Vale a dire : mancano dalla scena allestita dai movimenti le figure che dovrebbero trasformare le ragioni della protesta in azione politica dentro lo stato. Com'è evidente, soprattutto in Occidente, questo non accade perché i partiti sono diventati, indistintamente, stato. Essi sono sempre meno rappresentanti degli interessi collettivi, e sempre più controparte. Si tratta della conferma di una realtà già nota.
La grande ritirata dei partiti da massa da una rappresentanza effettiva degli interessi popolari ha finito col porre non uno, ma due distinti poteri sulle spalle dei ceti popolari: il dominio dei gruppi economico-finanziari e i partiti-stato. Da tempo questi ultimi sono impegnati, con capacità mediatoria che varia da caso a caso, a trasformare il potere mondiale del sopramondo economico finanziario in agende politiche nazionali. Con effetti stridenti sempre più noti ed evidenti. Mentre sono impegnati a liberalizzare e a privatizzare, a piegare tutti gli spazi della vita umana e sociale a regole profittevoli di mercato, a scatenare insonni campagne pubblicitarie sulla competizione e sul merito, a rendere “contendibili” le imprese – come suona le retorica predatoria della finanza - flessibile il lavoro, essi marciano in direzione inversa. I partiti si statalizzano, non premiano il merito ma le clientele, non attivano la competizione, ma più spesso gli accordi segreti, non sono “contendibili”, non adottano flessibilità, a volte sono corrotti e collusi coi poteri criminali. Si sono trasformati, di fatto, in chiusi oligopoli impegnati a perpetuare il loro ruolo e potere.
Questa evidente contraddizione tra ciò che si impone alla società e si risparmia a se stessi è certo causa non ultima del rancore che si va accumulando nel fondo dell'anima popolare e che di tanto in tanto esplode. Eppure non è questa la grande causa comune che noi crediamo di percepire al fondo dei moti che vanno dilagando in ogni punto del pianeta. Il fuoco che alimenta le rivolte, a prescindere della varietà delle occasioni locali, è una contraddizione che ormai stride sotto gli occhi di chiunque vuole osservare. Una conoscenza diffusa, una informazione quotidiana a scala universale di cui si impossessano ormai masse crescenti di cittadini, confligge con violenza contro l'opacità, la distanza, l'impenetrabilità perdurante del potere, di tutti i poteri.
Il cittadino che sa, comprende sempre di più che le scelte operate dallo stato o dall'amministrazione locale influenzeranno la sua vita e perciò pretende di dire la sua, vuole partecipare alle decisioni.Egli va scoprendo, di giorno in giorno, i diritti lungamente occultati di cui non gode. Ma a fronte della conoscenza di cui dispone, il suo potere di influenza sulle scelte del ceto politico è spesso nullo. Non accade solo in Cina, dove, come ormai si dice, c'è il Wi Fi, la connessione libera alla rete, in ogni villaggio, mentre il potere del Partito rimane gigantesco e imprescrutabile. Ormai accade anche nei paesi dove vige da tempo il moderno stato di diritto. In Italia i gruppi dirigenti continuano la guerra in Afganistan, violando la Costituzione, in aperto disprezzo della grandissima maggioranza dell'opinione pubblica nazionale. Con la sensibilità delle vecchie dittature latinoamericane del '900, essi continuano nella fabbricazione e acquisto di armi di combattimento, nella dilapidazione di ingenti risorse per fini di morte, mentre fanno precipitare in condizioni umilianti le nostre scuole e Università. E' anche per questa ragione che utilizziamo qui il termine popolo. Sappiamo bene che le moderne società industriali hanno sviluppato complesse stratificazioni sociali. Ma oggi, mentre vediamo sempre più limitate le sovranità nazionali, sempre più inascoltate le richieste e le proposte che salgono dalla società, tale regressione aggiornata all' Ottocento richiede che si torni a parlare di popolo e di popoli. E questi popoli oggi sono stanchi. Stanchi di non essere ascoltati, stanchi di contare sempre meno. Stanchi di osservare l'avanzare in ogni dove di una nuova democrazia dell'informazione, i segnali di un nuovo mondo possibile e di trovarsi addosso inette oligarchie che paiono trascinarli nell'opaca passività dei secoli passati.
www.amigi.org
Era il 6 novembre 2010 quando il crollo della Schola Armaturarum, la casa dei gladiatori, divenne il caso simbolo, a livello mondiale, della condizione del nostro patrimonio culturale e dell’incapacità del Ministero dei Beni Culturali di tutelare persino uno dei siti archeologici più importanti al mondo. Qualche mese dopo (dicembre ‘10– gennaio ‘11), l’Unesco - Pompei, dal 1997, è nella World Heritage List - inviò un gruppo di ispettori Icomos per monitorare la situazione. I tre ispettori, studiosi di riconosciuta competenza, stilarono un report inviato, oltre che all’Unesco, al Mibac, dove fu prontamente “archiviato”, senza riscontri.
Nel rapporto, con grande diplomazia, si evitarono ultimatum ed anzi si riconobbero le difficoltà insite nella gestione di un sito così ampio (66 ettari di cui 44 scavati) e complesso. Nello stesso tempo si evidenziarono le criticità sulle quali agire, riassunte in 15 raccomandazioni finali di esemplare chiarezza: la mancanza di tecnici specializzati (non solo archeologi, ma restauratori , manutentori, ingegneri), la necessità urgente di operazioni per l’eliminazione del rischio idrogeologico (tutte le volte che piove, c’è un crollo), la fragilità del contesto, ovvero sia della zona extra moenia, attorno al sito. Il report sottolineava infatti come Pompei fosse stata inserita nella lista Unesco dei siti dell’umanità non solo per l’importanza in termini archeologici, ma per il rapporto, allora ancora in gran parte intatto, fra la città e il panorama circostante, a partire dal Vesuvio. Questa zona che circonda gli scavi è invece stata terreno di abusi di ogni tipo che l’hanno ridotta a livello di un suk informe di costruzioni e allestimenti più o meno provvisori e più o meno legali.
Da allora, mentre i crolli si sono succeduti, sono passati due anni abbondanti: sono cambiati tre ministri dei beni culturali e due governi, l’ex commissario Marcello Fiori è stato incriminato per i restauri del Teatro Grande, sono arrivati i soldi della UE, molte decine di milioni (anche se le cifre del Mibac sono un po’ ballerine), e, ai primi di aprile del 2012, è stato avviato, fra squilli di trombe e rulli di tamburo, il Grande Progetto Pompei (maiuscole incluse). Nelle intenzioni dei 4 ministri 4 presenti all’epoca, doveva trattarsi del definitivo piano di rilancio del sito: non solo messa in sicurezza, quindi, ma “alto impatto di sviluppo” per l’intera area.
Dopo molti stop and go, i primi cantieri (un paio) del Grande Progetto, relativi al restauro di due domus, si sono avviati, alla fine, nel febbraio di quest’anno, 2013, in seguito a gare aggiudicate con ribassi del 57% e il commissariamento, per lo meno amministrativo, della Soprintendenza Archeologica da parte della società Invitalia.
Come preannunciato in quel primo report del 2011, intanto, gli ispettori Unesco sono tornati a verificare la situazione nel gennaio di quest’anno. E si sono resi conto che pochissimo era stato fatto rispetto a quelle recommendations, sia sul piano del personale specializzato che sulle attività di manutenzione ordinaria: decisamente peggiorato lo stato di conservazione complessivo delle strutture e ampliato il rischio di danni anche gravi con pesante impatto sulla fruizione (73% del sito inagibile per il pubblico). E hanno pure dovuto constatare che le costruzioni incongrue ed abusive erano aumentate. Eleganti, ma radicali, infine, le critiche al Grande Progetto in termini di tempistica ed efficacia.
La gravità del rapporto Unesco non sta solo in ciò che segnala sull’attuale situazione, ma nel fatto che in oltre due anni, i responsabili del Ministero (o dei ministeri) abbiano colpevolmente trascurato le indicazioni di un organismo scientifico di altissimo livello e super partes (e animato, almeno finora, da grande spirito di collaborazione) per inseguire i Grandi Progetti, voluti in particolare dall’ex ministro Barca, e abbiano, con questo, buttato a mare tempo e competenze preziosissime.
La polemica di queste ore comprende anche le profferte dell’amministratore delegato di Impregilo che, a suo dire, avrebbe voluto donare 20 milioni al sito senza riuscirci. Al di là delle doverose verifiche che vanno effettuate su generosità che prevedono spesso lauti ritorni - almeno in termini di immagine- da parte del “mecenate” di turno, come ci ha insegnato il caso Colosseo-Della Valle, il problema di Pompei non sta nella mancanza di risorse economiche: i soldi ci sono, anche se naturalmente altri fondi sarebbero benvenuti.
Quello che manca è invece la capacità organizzativa e la consapevolezza che il recupero di Pompei non può che essere il frutto di un insieme di molteplici operazioni, singolarmente modeste – così come indicavano gli ispettori UNESCO fin dal primo rapporto – ma inquadrate in una stategia complessiva e quella sì, grandiosa, coerente e di lungo respiro.
A Pompei, come per l’Italia.
L'articolo è pubblicato in contemporanea su L'Unità on-line, "Nessun dorma"