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Titolo originale: Agenda 21 Should Not Divert Attention from Homegrown Anti-Growth Policies – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Ambientalismo radicale, settori economici, e le ubique masse dei soliti nimby, cercano da anni e anni di cambiare la forma della città americana secondo le loro amate politiche di “crescita sostenibile”. Tutti questi militanti operano per imporre norme urbanistiche tali da obbligare tutti ad abitare in modo più denso, eliminando qualunque possibilità di scelta in materia di case, discriminando i cittadini a bassi redditi, spingendo la gente a spendere di più per abitare, a rinunciare all’automobile a favore della metropolitana, del tram, dell’autobus o della bicicletta.

Tutte queste cose — che prendono via via il nome di “New Urbanism” o “trasformazione sostenibile” o “tutela degli spazi aperti”— vedono da molto tempo l’opposizione di alcuni cittadini a causa del loro effetto negativo sulla crescita economica, la concorrenza, il livello di vita de paese. Come rilevato dalla Heritage Foundation, là dove si sono applicate politiche di smart-growth sono notevolmente aumentati i prezzi delle case, escludendo così dalla proprietà dell’abitazione i nuclei familiari a redditi medio-bassi. A sua volta, l’alto prezzo delle case obbliga gli acquirenti a contrarre molti debiti, e questo ha contribuito ai meccanismi che hanno condotto alla attuale recessione. In realtà i peggiori problemi coi pignoramenti esistono in quegli Stati con norme urbanistiche più rigide: Florida, California, Arizona, e Nevada.

Ma negli ultimi anni alcuni oppositori della smart-growth che operano a livello locale hanno imparato a mettere in discussione una iniziativa del 1992 delle Nazioni Unite detta Agenda 21, a sostegno di varie politiche basate sui medesimi principi della smart-growth. Hanno cioè riconosciuto in questa Agenda 21 semplicemente un altro modo per far divergere la loro opposizione ai programmi degli estremisti ambientalisti nazionali.

I principi ispiratori della Agenda 21 altro non sono se non quelli della Smart-Growth

L’Agenda 21 è molto articolata, si tratta di un ambizioso piano di azione presentato alla Conferenza sull’Ambiente e lo Sviluppo delle Nazioni Unite del 1992 (UNCED) di Rio de Janeiro, in Brasile, e adottata dai paesi partecipanti come “piano integrato delle azioni da intraprendere a livello globale, nazionale e locale da agenzie delle Nazioni Unite, Governi, Associazioni, in ogni area di impatto umano sull’ambiente”. Nelle sue oltre 300 pagine, l’ Agenda 21avanza centinaia di specifici obiettivi e strategie da adottarsi alle varie scale. Proposti in quattro sezioni:

La dimensione economico-sociale (es. cooperazione internazionale per favorire lo sviluppo sostenibile nei paesi in via di sviluppo, combattere la povertà, modificare i consumi, promuovere insediamenti sostenibili);

Conservazione e gestione delle risorse (es. tutela dell’aria, pianificazione nell’uso del territorio, promozione dell’agricoltura sostenibile e dello sviluppo rurale);

Rafforzamento del ruolo di alcuni soggetti (es. donne, bambini, popolazioni indigene, mondo del lavoro e sindacati); infine

Strumenti di attuazione (es. finanziamenti, trasferimento tecnologico, istruzione e consapevolezza pubblica, diritto internazionale).

Insomma la UNCED è esplicitamente orientate a far sì che i governi “ripensino al proprio sviluppo economico individuando modi per fermare la distruzione di risorse naturali insostituibili e l’inquinamento del pianeta… Il messaggio del Vertice è quello di cambiare i nostri atteggiamenti e comportamenti, per arrivare alle trasformazioni necessarie”. L’Agenda 21 chiama esplicitamente i governi a intervenire per regolamentare qualunque potenziale impatto delle attività umane sull’ambiente.

Se messe in pratica, le politiche esposte dall’Agenda 21 ampliano di parecchio l’ambito di intervento dei governi nelle decisioni economiche, ostacolano crescita e sviluppo, limitano le scelte individuali e la flessibilità in quelle locali. Chi vi si oppone dovrebbe temere i tentativi del governo Usa per applicarla, a livello nazionale e locale. L’Agenda 21 però non è vincolante; dipende totalmente dai vari livelli amministrativi per l’attuazione, e quindi in sé e per sé non rappresenta una minaccia. Se certo si tratta di politiche molto preoccupanti, è perché non restano confinate nell’ambito della sola Agenda 21. Esse permeano di sé l’agenda della smart-growth tanto ampiamente condivisa in varie parti degli Stati Uniti, a danno delle economie locali.

I principi del’ambientalismo radicale derivati dall’Agenda 21

Le politiche di smart-growth così come si trovano nell’Agenda 21 traggono la propria origine nel pensiero di sinistra europeo e di alcuni intellettuali americani, che precede di molto l’adozione dell’Agenda. In realtà delle medesime politiche esiste una versione britannica — che ha avuto una forte influenza sul pensiero e l’azione ambientalista della sinistra americana e internazionale che in gran parte ha contribuito a scrivere Agenda 21 — risalente agli anni ‘20. Come ha scritto il Principe Carlo:

«Da più di ottant’anni la Campaign to Protect Rural England lotta per la difesa del delicate intreccio delle aree di campagna che ci restano. La lungimiranza dei suoi padri fondatori fu straordinaria: nel 1926 Clough Williams-Ellis, che ricordo molto bene e ammiro immensamente, pubblicava il suo L‘Inghilterra e la Piovra, una polemica contro la dispersione urbana, e lo stesso anno Sir Patrick Abercrombie scriveva il suo saggio, La conservazione dell’Inghilterra rurale. Da allora prosegue la lotta, e si sono ottenuti grandi risultati ».

Scelte del genere sono alla base della legge urbanistica approvata dal governo socialista nel 1947, che obbligò tutto lo sviluppo urbano successivo entro i confini della città esistente, e sono state un disastro per l’economia. Oggi i cittadini del Regno Unito abitano le case più piccole e costose di tutti i paesi avanzati del mondo.

Il movimento americano per la smart-growth si afferma decisamente nei primi anni ’70, quando le città della California e dell’Oregon iniziano a riprodurre le politiche britanniche anti-sprawl con norme urbanistiche restrittive per contenere la suburbanizzazione. Un po’ per volta, si diffondono poi in tutto il paese, con sempre più città a adottare scelte che scoraggiano l’espansione suburbana, salvo per i più ricchi. Questo impegno contro la crescita non è spinto esclusivamente da una visione distorta dell’ambiente, ma anche dal progetto di già abita questi idilli rurali, di mantenerne fuori altri che potrebbero rovinare la comunità suburbana.

Negli anni ’80 queste scelte conducono il Presidente George H. W. Bush a costituire una commissione, coordinata dal ministro per la Casa e lo Sviluppo Urbano, Jack Kemp, che indaghi sui loro impatti nelle città e per la crescita, esprimendo un giudizio. Il rapporto finale: Not in My Back Yard: Removing Barriers to Affordable Housing, rappresenta una formidabile critica alla serie di scelte che oggi chiamiamo “smart growth”. Ma la smart-growth continua a crescere negli Stati Uniti. Cresce e si irrigidisce, acuisce gli effetti sui prezzi delle casei ovunque. Esplode l’urbanistica delle zone esclusive, e si adottano orientamenti verso un determinato “profilo” demografico. Scelte che limitano le trasformazioni edilizie a tipi costosi, per “escludere economicamente” i ceti a basso reddito, vale a dire soprattutto minoranze razziali.

Commentando lo scoppio della bolla edilizia americana, il Cancelliere dello Scacchiere George Osborne notava seccamente come la Gran Bretagna avesse scampato questo tipo di crisi che aveva messo in ginocchio l’America, perché invece di espandere la propria dotazione di case, “Noi ci siamo salvati dato che in questo paese non si può costruire nulla”. É vero che la bolla edilizia negli Usa si è dovuta anche a certa avventatezza, ma le scelte smart-growth hanno giocato un ruolo fondamentale nel costruire e esasperare questa bolla, e la successiva recessione. A ben vedere, sono gli Stati e le aree metropolitane con le norme territoriali più rigide ad aver sofferto di più il crollo dei prezzi (ovvero California, Florida, Arizona, e Nevada) nonché dei gravi problemi di pignoramenti poi.

Non mancare il vero obiettivo

Chi si oppone all’Agenda 21 non dovrebbe farsi distrarre dall’osservare le manifestazioni più tangibili dei principi smart-growth delineati dal documento. Se si guarda troppo all’Agenda 21, aumenta la probabilità che vengano messe in pratica politiche locali risalenti ai primi anni ’70 da parte di amministrazioni federale, statali, locali, e in grado di peggiorare la qualità della vita, restringere la libertà di scelta individuale, limitare il diritto di proprietà, a solo vantaggio dei gruppi ambientalisti e di altri interessi consolidati.

A peggiorare il problema, l’Amministrazione Obama ha calorosamente adottato principi smart-growth, e più in generale irrigidito e ampliato la regolamentazione ambientale e sullo sfruttamento delle risorse naturali. É il ministro dei Trasporti, Ray LaHood, l’uomo chiave dell’Amministrazione per imporre agli americani politiche smart-growth. Insieme ad altri esponenti del governo, è alleato a vari rappresentanti di governi statali e amministrazioni locali, o gruppi di interesse quali Urban Land Institute, Agenzie di Pianificazione Regionale, Smart Growth America, la American Public Transportation Association, il Sierra Club, Friends of the Earth, più associazioni economiche locali assai poco lungimiranti.

Chi si oppone a questa politica ha operato molto efficacemente. Un buon esempio arriva dallo Stato della Florida, dove il Governatore Rick Scott (Repubblicano) e la maggioranza del parlamento hanno cancellato pochi mesi fa una legge sulla smart-growth in vigore da venticinque anni. Quando sono messi in pratica, questi orientamenti sollecitati dall’Agenda 21 ostacolano crescita economica e ricchezza. Quindi vale certamente la pena di impedire qualunque attuazioni dell’Agenda 21 in America a livello nazionale, e l’adesione delle amministrazioni locali di contea, città e cittadine all’International Council for Local Environmental Initiatives (ICLEI), oggi Local Governments for Sustainability. Ma ciò si deve considerare solo nel quadro di un più ampio impegno per spingere il governo Usa ad abbandonare i devastanti programmi smart-growth ed evitarne dei nuovi.

Vorrei partire citando una odiosa, odiata, quindi a modo suo azzeccata battuta: con la cultura non si mangia. Azzeccata perché dice qualcosa di vero, pur nella sua odiosa prospettiva, ovvero che stanti certi attuali orientamenti non è certo col sostegno al teatro off e al restauro di un bastione, che sarà possibile far profitti. Il che suscita tutta l’ovvia indignazione possibile, ma è innegabilmente vero, nel suo angusto enunciato. Così come è innegabilmente vero, che le riflessioni sugli ultimissimi eventi di violenza urbana in Italia si sono rapidamente quanto classicamente involate, da quasi subito, verso una miriade di massimi sistemi: tutti ragionamenti degnissimi, ovvio, e preziosi, a volte, ma che dal punto di vista della conoscenza specifica ci lasciano al punto di prima.

A Torino il movente razzista popolare, mescolato alla sottocultura familista e sessista, al disagio delle periferie abbandonate, ai tagli al sistema del welfare, e con un balzo ulteriore (che pare di approfondimento ma ahimè si allontana dal punto) dovremmo “chiederci se i venti anni di liberismo urbano, accettati come un assioma di fede e messi entusiasticamente in pratica dai governi progressisti nazionali e locali, non abbiano minato alla radice la città pubblica, il bene comune per eccellenza”, per usare le parole di Paolo Berdini. A Firenze la pianificata violenza nazifascista da terzo millennio, mescolata al generico razzismo contemporaneo, che di nuovo evoca sia lo smarrimento per l’inconoscibile della mente umana alla radice di tutte le violenze assurde del genere, sia le risposte di tipo politico-costituzionale sull’illegalità oggettiva di certi gruppi troppo a lungo tollerati nel ventennio berlusconiano del fascismo scongelato a scopo elettorale. Ottimi principi, con cui però ahimè si continua a “non mangiare”.

Ovvero a non battere chiodo nel caso, eventuale, in cui si volesse davvero risolvere qualche problema anziché invocare nuovi e diversi paradigmi generali di ordine sociale, politico, di convivenza ecc. E in cui si volesse anche evitare, operazione sempre utile, che altri, portatori sani di nuovi paradigmi alternativi, finiscano per imporli implicitamente, magari mescolati dentro alle solite politiche confuse e improvvisate: dagli interventi sul tema della verginità minorile, al tifo calcistico organizzato, all’economicamente insostenibile eliminazione dei campi rom. O d’altra parte al trattamento psichiatrico obbligatorio dei ragionieri nazisti, o alla telesorveglianza dei mercati rionali, alla stretta sul porto d’armi … Perché sono tutti temi evocati, prima o poi. Il che fa venire in mente un simile dibattito, egualmente confuso e contraddittorio, molto ma molto recente, anche se del tutto o quasi dimenticato: quello sulle rivolte britanniche di quest’estate.

Allora, le reazioni istintive non mancarono certo dei classici toni da critica ai massimi sistemi: la rivolta frutto di scelte urbanistiche sbagliate della sinistra, oppure da queste contenuta nei suoi effetti più potenzialmente devastanti; la rivolta determinata dal disinvestimento nei servizi sociali e di sostegno alle famiglie, oppure dal lassismo dei medesimi servizi, della scuola che non sa più insegnare disciplina e cittadinanza, della televisione che impone modelli scemi e consumisti. Ce n’era, insomma, per tutti i gusti, e anche di più. Ogni specialismo e specifico punto di vista poteva ampiamente trarre spunto per portare un po’ d’acqua al proprio mulino (credo di ricordarmi di averlo fatto anch’io, lo confesso, e forse più di una volta). Ma c’è almeno un aspetto che conferma la cultura un po’ più positivamente empirica del mondo anglosassone, dal quale noi sempre appesi lassù alle grandi categorie avremmo molto da imparare. Mi riferisco all’indagine sociologica urbana lanciata quasi immediatamente dalla London School of Economics in collaborazione col Guardian.

Ricerca per capire, con i classici strumenti dello studio sul campo, in che contesto sociale, motivazionale, ambientale urbano, familiare, di gruppi e bande, da quali ragioni individuali e collettive si è innescata l’inopinata esplosione delle riots. Il metodo parte dalle interviste dirette a chi è stato protagonista degli eventi, ed è a sua volta ispirato a quello utilizzato a Detroit negli anni ’60, anche nella collaborazione fra in istituto universitario e un quotidiano. Una seconda fase prevede indagini simili sull’altro versante della barricata, ovvero le forze del’ordine e la magistratura. Il fatto davvero interessante e innovativo, dal punto di vista dei non esperti, ovvero anche di chi eventualmente poi dovrà discutere e adottare materialmente politiche urbane coerenti, è che la ricerca Reading The Riots si può leggere in diretta, in progress, e alle elaborazioni dati, alle osservazioni specialistiche, affianca costantemente stimoli della cronaca, dei commenti, degli approfondimenti.

Poi, se si hanno orientamenti conservatori si può comunque continuare a leggere tutto come problema di mancata responsabilizzazione degli individui, se si è di sinistra trovare l’anello debole nella crisi del welfare nelle sue varie manifestazioni. Però di sicuro anche i più impavidi decolli verso l’iper-uranio di grandi principi e nuovi paradigmi avvengono sempre con l’ancoraggio di controllo del dato empirico in forma massimamente accessibile. Detto in altre parole: se esiste un riferimento di conoscenze certo e aperto, dotato di una propria struttura, legittimazione, elasticità, l’eventuale malafede o pura ingenuità del nostro cosiddetto “benaltrismo” (piaga nazionale peggio della malaria) è costretta suo malgrado a levare le tende. Un risultato non da poco.

Titolo originale: Suburban farms meet opposition as they look to change business – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Maxine e Robert Walker lavorano al restauro della vecchia fattoria a Woodbine da quando l’hanno comprata nel 1994. L’ultimo progetto è di sostituire tutta una parete marcia in legno del granaio, dopo aver rifatto le fondamenta e sostituito il tetto di lamiera.Per contribuire a sostenere le spese di rinnovo della Harwood Horse Farm, vorrebbero affittare parte dei poderi a privati, e aprire un negozio di antiquariato dentro a un vecchio capanno. Per questo hanno richiesto l’autorizzazione alla Howard County, ma così a quanto pare gli Walker si sono persi degli amici. I vicini lungo la tranquilla strada di Jennings Chapel stanno cercando di fermarli da cinque anni, perché c’è la minaccia di generare traffico, sporco, e una indebita attività commerciale.

Per protestare hanno anche organizzato un corteo.Un contrasto che ne riassume molti altri nell’area di Baltimora, dove sono parecchi gli agricoltori che provano a diversificare l’attività, visti i terreni troppo piccoli per garantire guadagni sufficienti dalla sola coltivazione. Ci sono varie forme di agriturismo — dai labirinti nel granturco, alla costruzione di spaventapasseri, ai frutteti servitevi da soli — attive da molto. Ma spuntano nuove attività, ponendo problemi alle amministrazioni locali che hanno posto vincoli rigidi alle funzioni commerciali consentite in aree agricole.

"É difficile per noi amministratori capire dove esattamente sta il confine” spiega Gene L. Swackhamer, ex presidente della Farm Credit Bank e già membro del consiglio 4-H Foundation.Difficile distinguere fra un improvvisato banco vendita di prodotti un vero e proprio negozio, e ancor più difficile quando le attività sono proprio del tutto nuove, come sazi usati per eventi, corsi di pittura, o anche di baseball, solo per citare alcune proposte.Nella Howard County quest’anno, gli agricoltori si trovano al centro della discussione in consiglio, per decidere se rendere più elastici i vincoli su apicoltori e viticoltori. Nella circoscrizione della Baltimore County sono state parecchie negli ultimi anni le battaglie legali anche di alto profilo sulla possibilità per i contadini di vendere direttamente prodotti in loco. Secondo Swackhamer è difficile guadagnarsi di che vivere con una piccola azienda, che ha costi troppo elevati rispetto a quanto frutta. I coltivatori hanno un secondo lavoro spesso, due entrate, come nel caso degli Walker, cercano un modo di ricavare altri profitti dall’azienda mantenendo comunque l’attività agricola.

Sono molti i vicini lungo la strada di Jennings Chapel che hanno testimoniato contro il progetto degli Walker, convinti che potrebbe distruggere la comunità, portando un’attività commerciale troppo vicino a case e campi, e magari attirando nuove costruzioni."É qualcosa che rappresenta una grossa trasformazione nell’area” commenta uno dei vicini, Robert Styler. “Esistono zone specificamente destinate alle costruzioni, e questa non lo è”. Le norme della Howard County impongono che gli eventi organizzati dagli Walker debbano tenersi all’aperto, e Styler spiega che così li si concentra nei mesi di bel tempo, con un fastidio costante per i residenti.“Non c’è mai pace, ora. Certo ci sono sempre state le macchine agricole, ma è tutta un’altra cosa, particolare, inserita nel paesaggio”.

Sorgono timori molto simili a quelli di Styler, quando le aziende cercano nuove attività che si allontanano dall’agricoltura tradizionale”. Tutto bene fin che si tratta di cose che c’entrano con la campagna, ma “la gente si preoccupa quando si tratta di produzione o vendita”, cose che potrebbero essere fatte altrove senza interessare le zone agricole, spiega Teresa Moore, direttrice esecutiva dell’associazione Valleys Planning Council. Che promuove piani di tutela nella fascia nord-occidentale della Baltimore County.E si ricorda di problemi simili di governo del territorio.Con la sua azienda da cento ettari nella Long Green Valley, Bobby Prigel voleva a tutti i costi aprire un negozio di latticini, alla Bellevale Farm. Prodotti biologici dal latte delle vacche, ma il progetto fu fermato perché i vicini contestavano l’attività commerciale, in un’area dove sono parecchie e aziende tutelate dalle costruzioni attraverso specifici programmi.

Questa settimana, la corte d’appello statale ha deliberato che i vicini hanno pieno diritto di rivendicare i propri diritti in tribunale."Noi vogliamo solo mantenere in piedi l’azienda” spiega Prigel. Si deve trovare un modo per reggere la concorrenza di quelle più grandi del West e straniere, continua, cosa resa ancora più difficile dai costi alti dei terreni in zone suburbane. "Dobbiamo far profitti nella BaltimoreCounty”.Quelli che abitano vicino alla Springfield Farm di Sparks, si sono preoccupati quando il proprietario voleva aprire un chiosco sulla strada, racconta la Moore. Sostengono che su terreni agricoli non si debba svolgere un’attività commerciale, attività vietata anche nelle aree residenziali.Brad Powers, ex sottosegretario dal Dipartimento dell’Agricoltura e presidente di Shore Gourmet, che sostiene la creazione di piccoli mercati nelle aziende, spiega che cose come chioschi stradali e labirinti nel granturco sono molto diverse. Qualcuna si somma alla produzione alimentare, altre, come quelle degli Walker, proprio no.

“Si tratta di qualcosa di più di una funzione commerciale” giudica. Le piccolo aziende si sono rafforzate grazie alla nuova tendenza a “comprare locale” o ai progetti di agricoltura partecipata, specie quelle più vicine ai centri abitati con una base consistente di potenziali clienti. Sono contadini che semplicemente “cercano di fare la limonata coi limoni” sfruttando la vicinanza della clientela per guadagnare, racconta Susan G. Summers, portavoce del Maryland Farm Bureau. Nella Howard County, Ted Mariani, membro dell’associazione Cittadini Preoccupati, spiega che sono molte le aziende che hanno cercato nuovi metodi per guadagnare anche su superfici piccole. La sua associazione sostiene la tutela delle aree rurali.“Nell’ultimo decennio alcune aziende di questa contea hanno deciso che coltivare cereali o allevare bestiame è molto difficile” per la concorrenza di quelle più grandi.Parecchi contadini affittano terreni altrui per allargarsi e riuscire a guadagnare. Altri magari vorrebbero cominciare a lavorare il latte e vendere prodotti, invece di venderlo in Pennsylvania per la trasformazione, ma questa è una attività non ammessa.

Nella più densamente popolata Ellicott City, i proprietari della Elioak Farm (220 ettari) gestiscono anche il parco giochi Foresta Incantata per arrotondare i proventi, non potendo costruire dato che c’è il vincolo agricolo dagli anni ‘80.“Cerchiamo di promuovere attività a valore aggiunto nelle aziende” spiega Mariani, e intende anche le norme urbanistiche meno restrittive per gli apicoltori approvate quest’anno.Da maggio l’amministrazione della Howard County Council consente, con alcune contestazioni, ai viticoltori di aprire spacci, ma sono molti gli abitanti preoccupati per il traffico, il gran numero di presenze, il rischio di attività commerciali di una certa dimensione in zona.Nel caso degli Walker prima era stata approvata un’autorizzazione, ma poi i vicini di Woodbine hanno presentato ricorso.

Nel corso delle udienze, si sono espressi in modo contrario, a causa di disagi come il traffico su quelle strette strade di campagna, il rumore della musica, il timore per una attività che si svolge tanto vicino a zone residenziali e agricole. Altri ancora anticipavano il fastidio per le luci troppo forti, le grandi feste all’aperto rumorose e fino a tardi.“Non pensavo che sarebbe successo tutto questo” dice Maxine Walker. “Pensavo fosse un’idea magnifica, una cosa che potevamo condividere”.Le attività si sarebbero svolte soprattutto di giorno perché “la bellezza del posto è con la luce”. Quando i vicini hanno espresso i loro timori per le grandi folle in zona, lei ha risposto di aver avuto qualche richiesta per eventi, ma per cose piccole, come i compleanni di qualche bambino.

Ogni anno gli Walker ospitano parecchie centinaia di persone in occasione della Iron Bridge Hounds fox hunt, senza alcun problema. Alcuni dei vicini partecipano anche.La decisione definitive sul caso dovrebbe arrivare entro il 12 dicembre. E se qualcuna delle parti presenterà di nuovo ricorso si passa al tribunale.Ma nonostante tutto Maxine Walker si dice ancora convinta di continuare nel recupero degli immobili alla loro gloria di un tempo. Comunque vada con la disputa sulle autorizzazioni edilizie, “Tutta la zona sta cambiando. Potremmo anche vivere comodamente lasciando tutto come sta ora, ma vogliamo migliorare. Dà tanta soddisfazione”.



Nota: probabilmente per capire meglio il contesto di tutela dello spazio aperto questo articolo andrebbe letto anche in parallelo alla nostra nota sul Piano Territoriale del Maryland (f.b.)

Titolo originale: London: an urban neo-Victorian dystopia – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Londra, famosa un tempo per la sua mescolanza sociale, via via divenne sempre più una città economicamente segregata, dopo il varo delle misure di rigore nel 2011, cominciarono sei anni di disordini che cambiarono per sempre il suo volto. Nel 2015, gli studiosi coniarono le definizione di "utopia negativa urbana neo-vittoriana" a descrivere le traumatiche trasformazioni sociali e urbanistiche della città, che avevano iniziato a paragonare alla Londra descritta da Charles Dickens 160 ani prima. La riforma della casa e dei sussidi nel 2012 e 2013 aveva sospinto decine di migliaia di inquilini a basso reddito fuori dalle zone centrali, verso la periferia più estrema della capitale, e anche oltre fino a Margate, Hastings, Milton Keynes e Luton. Innescando così una inesorabile progressiva separazione fra ricchi e poveri, e una serie di gravi problemi sociali.

Un’era di vero e proprio boom per alcune zone privilegiate, come la fascia dei quartieri agiati lungo la sponda settentrionale del Tamigi, da Westminster a Notting Hill a Hammersmith, soprannominata dagli agenti immobiliari “La Via Dorata”. Chelsea, Kensington e Marylebone, un tempo punteggiati di aree a case economiche o sacche di povertà, erano diventati uniformemente ricchi, sempre più richiesti dai ceti medio-alti in cerca di un rifugio lontano dalla difficile realtà della crisi. E questi abitanti ricchi erano sempre più ossessionati dai prezzi crescenti degli immobili, o dalla opportunità o meno di privatizzare la propria via, dal confronto di professionalità delle agenzia di sicurezza private inglesi e polacche, dalla crescente difficoltà di trovare personale di servizio per cucina e pulizie.

Nel 2017 vennero vendute le ultime case di proprietà pubblica nella circoscrizione di Westminster, ai sensi delle norme 2011 sul diritto di acquisizione. L’amministrazione del municipio si liberava anche della metà delle proprie biblioteche e parchi, centri per bambini e edifici scolastici, per cui non esisteva sufficiente domanda, a causa delle trasformazioni demografiche ed economiche dell’area. Molto meno serena, la situazione fuori da questa zona ricca. Sporadici scoppi di rivolte, e siti di opinione orientati a destra che riferivano di una fascia suburbana minacciosa popolata da giovani disoccupati. I responsabili dei servizi sanitari temevano epidemie di tubercolosi da sovraffollamento a Tower Hamlets. A Barking, il British National Party lanciava la sua campagna contro i "Mangiapane a tradimento" decentrati da Londra nell’esodo successivo al taglio dei finanziamenti per la casa 2012-2013.

Un negozio della Tesco a Hackney inventò nel 2013 l’iniziativa “giornate della crisi”, offerta di alimentari a buon mercato il giorno di versamento dei sussidi. L’Esercito della Salvezza nel 2015 toccava la quota di distribuzione del milionesimo pasto, a una famiglia di Walthamstow. Nel 2014, un consorzio di enti per la casa popolare aveva convertito alcuni edifici vuoti del Villaggio Olimpico in “ostello” per giovani senzatetto. I criminologi rilevavano incrementi di furti e scippi. Gli assistenti sociali sottolineavano elenchi infiniti di casi di bambini bisognosi di sostegno, e gli psichiatri notavano una crescita esponenziale delle ricette mediche per antidepressivi. Gli uffici sanitari calcolavano che i tassi di suicidio, di gravidanza di minori, di ricoveri in ospedale, nelle zone povere erano cinque volte tanto la media cittadina.

Gi statistici discutevano sul raggiungimento o meno della quota simbolo di un milione per le persone apparentemente “scomparse” dalle liste elettorali e da altri elenchi ufficiali. Annnciando nel 2017 la fine della crisi, il governo attaccava le cosiddette cassandre disfattiste nei media. La Gran Bretagna era sopravvissuta alla peggiore crisi dopo la seconda guerra mondiale, restando unita, dichiarava il primo ministro da dietro lo scherma antiproiettile sulla soglia del numero 10 di Downing Street: “Come sempre, ce l’abbiamo fatta, tutti insieme”.

Nota: in particolare per quanto riguarda il rapporto fra soluzioni britanniche di centrodestra alla crisi e trasformazioni del territorio, si veda anche questa breve Rassegna su Mall (f.b.)

Estratti e traduzione di Fabrizio Bottini

Con le dimensioni assunte a scala globale dal progetto di nuovi insediamenti, emerge la necessità sia di comprendere concretamente, sia di affrontare disciplinarmente il problema delle città socialmente (oltre che economicamente e ambientalmente) sostenibili. L’esperienza insegna quanto spesso non si tenga conto sul lungo termine delle necessità sociali nel programmare ad ampia scala abitazioni e quartieri. Ciò si deve in parte ai modelli di finanziamento dei progetti, dove la pianificazione è svolta dagli uffici pubblici, ma gli investimenti sono dei costruttori privati.

Di norma si dà la precedenza alla realizzazione delle case rispetto ai servizi, per ottenere il gettito con cui si finanziano le infrastrutture o le case economiche. Gli abitanti vanno a stare così in spazi privi di negozi, scuole, autobus, spazi di ritrovo in grado di offrire relazioni sociali. La situazione si protrae spesso per parecchi anni, anche se il quartiere cresce sino a dimensioni che giustificano perfettamente quei servizi locali. Ai problemi della casa si sommano le urgenze economiche, e le varie difficoltà di rapporto fra i soggetti pubblici e privati aumentano ancora la tendenza a pensare prima alle costruzioni che alla qualità urbana. Il che non toglie l’altissimo valore sociale responsabilità politica di affrontare le conseguenze di lungo termine, il degrado dei nuovi quartieri, i problemi emergenti. Del resto sono molto elevati anche i costi di questo degrado, economici certo, ma soprattutto sociali.

Se non si risponde alla necessità e diritto di avere delle infrastrutture a orientamento sociale qualunque nuovo quartiere può rapidamente imboccare la spirale in discesa del degrado. Fra gli esempi più vistosi si possono citale le banlieue di Parigi, il complesso Cabrini Green a Chicago, Broadwater Farmnella fascia settentrionale di Londra, o Park Hill a Sheffield che oggi è in corso di riqualificazione con un costo di 170 milioni di euro. Alcuni quartieri, come il Pruitt-Igoe di St. Louis negli USA o il Fountainwell Placedi Glasgow, sono stati completamente demoliti. In altri casi si interviene con riqualificazioni profonde e altissimi costi, come a Castle Vale a Birmingham, o Robin Hood Gardens e Holly Street a Londra. Sempre a Londra il complesso Heygate a Elephant and Castle, dove abitavano 3.000 persone, è stato demolito nel maggio 2011, con un costo approssimativo di dieci milioni di euro, più naturalmente gli oltre 40 milioni per le nuove case. Le cifre poi non rispecchiano davvero il costo sociale sostenuto dalla comunità, vent’anni di convivenza col crimine, comportamenti devianti, abitazioni di scarsa qualità, la pessima fama di quartiere fra i peggiori della città.

Il complesso Heygate – insieme a tanti altri quartieri popolari degli anni ’60 e ’70 – si è attirato forti critiche per l’architettura cosiddetta “brutalista”. All’inizio piaceva anche agli abitanti per le abitazioni spaziose e moderne, ma presto si iniziò a dire che così si isolavano gli alloggi, sic ostruivano spazi “morti” aumentando il rischio di comportamenti antisociali, ambienti rigidi non in grado di adattarsi alla vita contemporanea, e costosi da mantenere. Ma poi si critica anche oggi la decisione di demolire Heygate. Ci si chiede che logica ci sia nel distruggere tante case economiche in un’epoca in cui ce ne sarebbe tanto bisogno, mettendo in primo piano quanto in vent’anni abbiano contribuito la cattiva gestione e l’abbandono, al degrado. Forse il caso Heygate è il segno di un atteggiamento che cambia verso la casa popolare in generale, lo spazio urbano, la proprietà dell’alloggio.

In altri quartieri non si riesce a realizzare una vera complessità mescolando redditi diversi, case pubbliche e private. A Londra coi Docklands, quartiere di riqualificazione degli anni ’80 e ’90, residenziale e finanziario, si sono visti purtroppo tanti appartamenti di lusso dove vanno gli operatori finanziari, ma nessun intervento di case economiche per i rediti più bassi delle famiglie dell’East End. Il che sfocia in una tensione fra chi già nel quartiere ci abitava e i nuovi arrivati, con problemi di comportamenti antisociali e identità. Prima dell’attuale tendenza alla realizzazione di nuovi insediamenti, uno dei più importanti programmi del mondo per nuove città fu quello inglese delle New Towncon32 insediamenti fra il 1946 e il 1970 abitati complessivamente da tre milioni di persone. Questa esperienza ha dimostrato come ignorare la dimensione sociale dei nuovi spazi, le aspirazioni e opinioni dei residenti, sia causa di problemi di lungo termine.

L’esame della letteratura scientifica sui vari casi di nuovi insediamenti del mondo sottolinea la difficoltà di questi spazi a trasformarsi in vere e proprie città: spesso occorrono anche più di quindici anni perché si sviluppi qualche tipo di rete sociale locale. Alcune ricerche sulla Cina rilevano quanto manchi un sistema di rapporti per periodi assai lunghi, dopo il completamento dei quartieri. Si capisce il bisogno di infrastrutture a carattere sociale di alta qualità, di servizi a sostegno degli abitanti, di partecipazione alle decisioni, di spazi e attività condivisi. Egualmente importanti anche forse meno visibili di facilitazione all’incontro fra abitanti, costruzione di reti e condivisione.

Alcune ricerche della fondazione Joseph Rowntree sui quartieri riusciti ad articolata composizione sociale individuano nove priorità. Precisamente: buone abitazioni; buone scuole; quartieri sicuri, gradevoli, ordinati; assistenti sociali; asili infantili; case economiche integrate nell’insieme; attenta collaborazione fra i vari enti interessati nel progetto; personale che segua il quartiere; supervisione degli spazi pubblici e del verde. Senza questi presupposti un nuovo quartiere difficilmente produrrà coesione,ambienti vivaci che conferiscono identità e appartenenza. I casi studiati mostrano come i quartieri privi di servizi e operatori adeguati soffrano di tutta una seri di disagi sociali. L’insegnamento delle new town britanniche è di alti tassi di malattie, anche psicologiche, isolamento spesso determinato dalla povertà dei collegamenti, raggiungere amici, parenti, posti di lavoro. Altro problema quello di abitazioni poco flessibili, dove non si riesce a mantenere abitanti o attirarne dei nuovi, scarse occasioni di partecipare alle decisioni urbanistiche, con risultati di servizi e spazi inadeguati: e costi economici e sociali.

I quartieri degradati spesso hanno problemi di manutenzione; ad esempio in Gran Bretagna il forte incremento di coloro che comprano case per affittarle ha reso difficile intervenire in quartieri problematici. Difficile impedire a qualcuno di trasferirsi dove vuole, magari abbandonando chi non può farlo. Nei casi più estremi, il quartiere degradato diventa una sacca di emarginati, di soggetti vulnerabili, e relativi comportamenti antisociali, questioni di salute, istruzione, ordine pubblico. Nei quartieri si deve cercare di mantenere un insieme di abitanti a vario reddito, fasce di età, tipo di godimento dell’alloggio, per ottenere spazi desiderabili sul lungo termine. Spesso si sceglie un posto perché le case sono migliori, c’è più spazio pagando meno, ci sono occasioni di lavoro. Ma come insegna l’esperienza e dimostrano le ricerche, se non si risolvono da subito i problemi delle infrastrutture sociali, dell’isolamento, dei piccoli motivi di insoddisfazione, poi rapidamente si può scivolare nel degrado.

Il National Housing Audit del CABE nel 2007 ha rilevato un rapporto diretto tra infrastrutture sociali, servizi, e soddisfazione degli abitanti di un quartiere. E in media anche quando c’era un’ottima opinione per le case, il gradimento calava per i quartieri in generale, si descrivevano problemi di carenza di spazio pubblico, strade poco sicure per i bambini e i ciclisti, poca identità spaziale. L’insoddisfazione cresce man mano si resta di più in un quartiere: dopo un anno è scontento il 18%, solo il 10% chi ci sta da meno. La fama più o meno buona della zona si definisce molto presto: è una volta che c’è, è molto resistente al cambiamento.

L’identità di un quartiere si basa sul tipo di case, la forma o l’uso in proprietà o in affitto, i ceti sociali e il reddito, professione dei capifamiglia, immigrati. Anche se col tempo ci si evolve, la prima impressione può persistere a lungo e influenzare la disponibilità di altri a trasferirsi. Bradley Stoke, nuovo quartiere alla periferia di Bristol realizzato negli anni ‘80, è stato ribattezzato dalla stampa locale “Sadly Broke” [tristemente fallito] per via della quantità di proprietari che faticavano col mutuo. E anche vent’anni dopo quel “Sadly Broke” resiste. Ci sono già segnali che anche la nuova generazione di nuovi quartieri e città incontra certi problemi. Chenggong, a Kunming, Cina meridionale, Ordos e Qingshuihe nella Mongolia interna, sono esempi di “città fantasma”, progettate dal nulla per attirare investimenti e favorire sviluppo locale, sono vuote e lasciate a metà. Si trovano staccate dai centri esistenti, a 20 o 30 chilometri, pensate per particolari attività come estrazione mineraria, uffici governativi, università che dovrebbero trasferirsi lì.

I lavori si sono fermati a Qingshuihe nel 2007 dopo due anni. Oggi ci sono case e alberghi vuoti, giusto di fianco alla città vecchia che è “assai bisognosa di interventi sociali e infrastrutturali”. A Chenggong si dice ci siano 100.000 nuovi appartamenti, edifici pubblici, campus universitari e una metropolitana leggera: ma non ci abita nessuno.Si ritiene che sia la distanza dalle città esistenti, uno dei motivi del fallimento cinese. In un articolo sui problemi di Ordos e Qingshuihe si legge:non è realistico pensare che una comunità si sradichi dal proprio contesto sociale e culturale da un momento all’altro: è insostenibile”. Lo stesso è avvenuto nelle nuove città egiziane del deserto. Mancanza di servizi infrastrutture sociali, unita alla distanza dal Cairo, ha reso molto difficile attirare nuovi abitanti.

In tutti questi esempi, osservatori da vari prospettive ritengono di poter trovare la risposta per come provare negli anni a venire a costruire a dimensione conforme, quartieri adatti agli abitanti. Ma si continuano anche a ripetere i medesimi errori, nonostante la ricerca e l’evidenza indichino obiettivi sociali, economici e ambientali diversi. Le amministrazioni locali, gli uffici governativi, gli enti per le case popolari, devono collaborare con urbanisti e costruttori a far sì che i nuovi quartieri nascano integrati in un quadro sociale, economico, ambientale, con strategie di investimento adeguate, se non si vuole correre il rischio di un fallimento.

(il rapporto integrale, circa 60 pagine con una breve prefazione di Peter Hall, è scaricabile direttamente da qui)

É passato solo qualche giorno dalla sensazionale rivelazione di un installatore di pannelli solari: David Cameron non è un vero ecologista! Ma va? Raccontava alla stampa, l’artigiano e probabile ex elettore dei tories, che il primo ministro prima si fa installare gli impianti pagando “solo” cinquemila euro e rotti grazie ai sostegni al settore garantiti dai laburisti di Brown, e poi appena andato al governo taglia i medesimi sussidi, lasciando il settore a bocca asciutta. Con buona pace dell’artigiano, a cui va naturalmente tutta la nostra solidarietà, il sedicente ambientalismo dei Conservatori pare proprio consegnato agli archivi insieme agli opuscoli elettorali. Basta vedere ciò che accade con la riforma urbanistica e in genere l’approccio al territorio, per confermare e rafforzare l’idea.

La penultima puntata della composita telenovela, che si gioca su vari tavoli, aveva un sapore vagamente berlusconiano, palesi illegalità tipiche del nostro paese a parte. Come riferiva Robert Booth sul Guardian c’era stato un andirivieni un po’ troppo frequente delle stesse persone fra i privatissimi uffici delle compagnie interessate alle trasformazioni urbane e quelli pubblici dei Ministeri intenti a scrivere le nuove regole. Regole tanto tagliate su misura per i costruttori da far nascere qualche legittimo sospetto di interferenza, confermato dai documenti. Appunto nulla di illegale, per ora, però almeno politicamente discutibile di sicuro sì. Ma i tavoli su cui si gioca la partita sono parecchi, e ieri l’attenzione doveva concentrarsi su quello, assai più delicato nel rapporto con l’opinione pubblica e l’elettorato, del problema casa.

Perché il governo di coalizione ha approvato una serie di agevolazioni per i mutui, rivolte alle giovani coppie e non solo, che dovrebbero da un lato iniziare ad allentare la grave e annosa tensione abitativa del paese, dall’altro sbloccare un settore edilizio che, complice la crisi economica, l’anno scorso ha toccato un minimo di produzione che non si vedeva da quasi un secolo. La crisi economica però è appunto considerata solo “complice”: come hanno sottolineato Cameron e Clegg presentando il provvedimento, per sbloccare davvero il settore si dovranno aspettare i risultati della riforma urbanistica, quella che riduce da mille a cinquanta il numero di pagine delle linee guida nazionali (devono aver studiato semplificazione con Calderoli) e introduce un “orientamento preventivamente favorevole alle trasformazioni sostenibili” guardandosi bene dallo spiegare cosa diavolo voglia dire sostenibili. E implicitamente lasciando agli opuscoli dei costruttori il compito di interpretare il concetto bruntlandiano.

Ma giusto oggi 23 novembre 2011 all’elenco dei possibili tavoli di gioco delle strategie territoriali si aggiunge il rapporto del centro studi conservatore Policy Exchange intitolato Cities for Growth: Solutions for our Planning Problems, firmato da Alex Morton. Una firma particolarmente significativa di questi tempi, visto che proprio l’anno scorso Morton pubblicava un altro studio dedicato specificamente al tema della casa. Oggi lo sguardo si allarga al territorio nazionale, che nella migliore tradizione del neoconservatorismo globalizzato sarebbe sottoposto al tallone di ferro di una tradizione urbanistica soffocante. Le cui radici sono facili da ricostruire: nel secondo dopoguerra, complice l’unità nazionale e l’anelito diffuso alla ripresa, il tarlo del comunismo riesce a infilarsi nei gangli istituzionali, e ad arrivare sino ad oggi quando esplode la contraddizione: grigi burocrati autoreferenziali che pretendono di decidere da polverosi uffici pubblici la vita dei cittadini. Sicuramente è un tipo di retorica che ricorda qualcosa a qualcuno.

La soluzione naturalmente è spazzar via col vento della storia queste croste novecentesche, e farlo attraverso la riforma urbanistica in corso. L’impavido Alex Morton non ha alcun dubbio quando prova a migliorare ulteriormente quanto già suggerito ai ministri dai grandi manager immobiliari. Loro chiedevano e ottenevano “orientamento preventivamente favorevole alle trasformazioni sostenibili”, e probabilmente questo secondo Morton è troppo, perché poi ci si deve infilare (come infatti hanno subito chiesto CPRE e National Trust) in quelle sottili definizioni di cosa sia sostenibile e cosa no. Molto meglio, suggerisce nel suo rapporto, una “Presumption Against Public Interference” che credo non abbia alcun bisogno di interpretazione. Il centro studi Policy Exchange è, in tutto e per tutto, organico al partito Conservatore al governo, forse anche più di altri enti ultraliberisti del genere come per esempio oltreoceano la repubblicana estrema Heritage Foundation, nota per le attività pro-sprawl. E proprio sul tema della dispersione urbana, mai esplicitamente nominata, si articolano le tesi di Morton, riassumibili in un breve slogan: costruiamo sulla Green Belt.

Ci si potrebbe soffermare sulle forme narrative del rapporto, tanto simili a quelle di certi lavori recenti soprattutto americani, dal Bruegmann di Sprawl, a compact history, al Glaeser di Triumph of the city, ma lascio ai veri appassionati (con un po’ di certosina pazienza) il privilegio, scaricando direttamente le cento e passa pagine del rapporto qui in fondo. Si va dal classico “così vuole la famiglia media” rivolto naturalmente al modello della casa singola con giardino, che richiede sterminati spazi, al recupero a gettone di Ebenezer Howard e del suo movimento, dimenticandosi o forse non sapendo neppure sino a che punto l’idea della Green Belt in senso assolutamente moderno si debba a quella scuola di pensiero. E naturalmente ad ogni passo si evoca il nemico acquattato nell’ombra: il sinistro urbanista di sinistra, grigio funzionario orwelliano che vuole incasellare l’umanità dentro a grigi scatoloni, magari completi di Grande Fratello che scruta ogni nostro movimento …

Purtroppo non c’è niente da ridere, sapendo che questi sono gli ascoltati consiglieri del governo, e che poi magari arriva pure l’aiutino di qualche concentrazione mediatica alla Murdoch, a soffiare sul fuoco di temi già assai caldi come l’emergenza abitativa, l’edilizia ferma, certe lungaggini burocratiche innegabili. Però a concludere questa ennesima puntata dedicata alla riforma del sistema urbanistico britannico, che non dimentichiamo da un secolo fa da riferimento internazionale, forse valgono di più alcune citazioni letterali di Alex Morton:

“Le Green Belt soffocano le nostre città, tutelando spazi senza valore ai loro margini, di fatto spingendo le trasformazioni verso la campagna vera e propria e densificando ancor di più quanto è già congestionato”.

É arrivato il momento per una radicale revisione del sistema urbanistico. Al centro delle decisioni ci sono da almeno sessant’anni le amministrazioni locali. Adesso occorre introdurre un orientamento preventivamente contrario all’interferenza pubblica [Presumption Against Interference] al cuore del sistema. La pianificazione locale si deve interessare di obiettivi strategici, non cercare di gestire ogni piccola cosa”.

“Il paese è costruito solo per il 10%, non mancano certo superfici disponibili, ce ne sono invece troppo poche su cui sia autorizzato costruire. Per fare un esempio, a Oxford e in Oxfordshire un ettaro di terreno agricolo costa 23.000 euro. Quando la destinazione è industriale però vale cinquanta volte tanto, e se è residenziale duecento volte. Ne abbiamo destinati troppo pochi a queste funzioni”.

Ecco, è contro queste argomentazioni apparentemente di buon senso ma facilone e in malafede, che tocca scontrarsi. Il modo migliore però non è quello di indignarsi e scagliarsi contro il Male, ma di fare appello alla ragionevolezza del medesimo “pubblico”, e in fondo del medesimo “mercato” a cui si rivolgono i profeti a gettone da un paio di generazioni in qua.

Per qualche commento in più sul rapporto Policy Exchange consiglio Oliver Wright, Call for new towns on Green Belt, su The Independent 23 novembre. Il capolavoro completo è scaricabile in pdf qui di seguito.

Titolo originale: Visions of a Development Rising From the Sea– Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Ai newyorkesi piace un sacco, pure troppo qualche volta, inventarsi sempre nuovi nomi a definire nuove aree in gran voga, che sia NoMad (a Nord di Madison Square Park) o SoBro (South Bronx) o addirittura BoCoCa (Boerum Hill, Cobble Hill e Carroll Gardens). Adesso arriva pure LoLo: il più creativo di tutti dato che quel quartiere ancora non esiste.

LoLo, che sta per Lower-Lower-Manhattan, è una delle prime proposte uscite dal nuovo Centro Studi Immobiliari della Columbia University. L’area si creerebbe collegando Lower Manhattan e Governors Island tramite imbonimento con milioni e milioni di metri cubi di terra, in modo simile a quanto successo con Battery Park City negli anni ‘70. Su un arco di venti-trenta anni, calcolano al Centro, su LoLo si potrebbero realizzare circa otto milioni di metri quadrati di superficie di pavimento, con un gettito di oltre 16 miliardi e mezzo di dollari per l’amministrazione cittadina.

Forse si tratta di un progetto impossibile, dato che le norme per le costruzioni su area di colmata sono molto rigide. E poi Governors Island è diventata una meta molto popolare per il tempo libero e gli eventi artistici. Ma si tratta comunque di una di quelle idee di ampio respiro di cui New York ha sempre bisogno, pensa Vishaan Chakrabarti, direttore del centro studi e titolare della cattedra Marc Holliday di sviluppo immobiliare alla Columbia.

Fra gli altri progetti allo studio del centro, il modo in cui la città potrebbe stimolare nuove trasformazioni modificando le norme di zoning. Ci sono quasi quattrocento milioni di metri quadrati di diritti edificatori non sfruttati, settanta milioni solo a Manhattan. Il metodo più comune usato per costruire è quello di acquisire da edifici accanto i cosiddetti “diritti d’aria” ovvero di edificare verticalmente. Se si rendessero più elastiche le norme di zoning, secondo il Centro, un costruttore potrebbe acquisire diritti d’aria non solo da edifici accanto, ma in tutta l’area omogenea.

Del resto è stato proprio il principio adottato nella zona del progetto High Line, a cui ha lavorato Chakrabarti quando era consulente dell’ufficio di Manhattan per il cittadino Department of City Planning. Lì I costruttori possono acquisire diritti aerei da qualunque proprietà, confinante o meno. “Credo nel libero mercato” dichiara Chakrabarti. “Se c’è un bacino di acquisto limitati, le proprietà tendono ad alzare eccessivamente i prezzi, nel caso in cui il mercato si fa più fluido i diritti aerei si assestano. La cosa ha funzionato magnificamente con la High Line, oltre i nostri sogni più spinti”.

Il Center for Urban Real Estate funziona da quest’estate alla Columbia presso la Graduate School of Architecture, Planning and Preservation. Oltre a Chakrabarti il gruppo conta su un altro professore e un ricercatore a tempo pieno, più la partecipazione parziale di un professore. I finanziamenti sono della Carnegie Corporation e della Open Society Foundations, oltre che dalla facoltà di architettura. La Durst Organization, che ha da poco donato quattro milioni di dollari alla facoltà e alla biblioteca, sostiene gli eventi annuali di presentazione delle ricerche del Centro. Prima di entrare alla Columbia nel 2009, Chakrabarti è stato vicepresidente esecutivo alla Related Companies, grossa impresa di costruzioni, per cui ha collaborato a coordinare il progetto Hudson Yards e la ristrutturazione della Moynihan Station. Continua a collaborare come consulente per la compagnia su vari progetti.

Il Centro sta anche iniziando la redazione di un Rapporto, titolo NYC2040, sulle trasformazioni edilizie di New York in un arco di trent’anni a venire, tenendo conto di politiche pubbliche e questioni ambientali. Alcuni risultati dello studio potrebbero essere anche anticipate in primavera, con pubblicazione definitiva entro l’estate. Per quanto riguarda il progetto per Governors Island, Chakrabarti ne aveva già parlato a un incontro tenuto dalla Municipal Arts Society. Mentre la versione integrale della proposta è stata esplicitata settimana scorsa al convegno “Zoning the City” del Department of City Planning.

Chakrabarti non ha ancora presentato ufficialmente il progetto LoLo agli uffici cittadini. Si rende conto che si tratta di una cosa “enorme” che necessita complesse valutazioni ambientali, procedure, e modifiche normative. Ma nonostante la difficoltà si dichiara convinto che non sia molto più complicato della variante urbanistica e realizzazione del progetto Hudson Yards, o del prolungamento della Linea 7 della metropolitana. In entrambi in casi la procedura è stata molto complessa. Ci vorranno decenni, con un costo per la città di miliardi di dollari.

La proposta comprende quaranta ettari di area a tutela storica nazionale sull’isola, 300.000 metri quadrati circa per edifici a servizi pubblici come scuole, 130 ettari di spazi aperti. Il gettito delle trasformazioni edilizie sarà sufficiente a sostenere i costi di prolungamento delle linee 1 e 6 della metropolitana nel nuovo quartiere, e per un ponte che collega con l’area di Red Hook sulla sponda di Brooklyn. Robert Pirani, direttore esecutivo dell’associazione Governors Island Alliance, gruppo che partecipa anche alla Regional Plan Association, dice di dover ancora vedere il progetto completo. Ma da quanto ne sa Pirani mette in dubbio la possibilità che con questa colmata di collegamento fra Manhattan e Governors Island si possano stimolare trasformazioni positive. “Col traghetto ci vogliono cinque minuti da Manhattan, ed è una gestione molto economica. Secondo me il fatto di essere staccato da Manhattan non impedisce affatto le trasformazioni”.

E aggiunge: “La città deve certo dotarsi di infrastrutture migliori sull’isola, dall’acqua potabile ai trasporti pubblici, così che poi qualunque intervento possa essere considerato come tutti gli altri, anziché qualcosa di amorfo e anomalo. I costruttori vogliono certezze, è quello che manca”. Il Centro propone anche l’uso di colmate per creare isole-barriera nella baia per proteggersi dalle onde, di eliminare le sponde a muro esistenti attorno a Governors Island e sostituirle con cosiddetti margini morbidi, superfici inondabili con maggiore capacità, secondo gli studiosi, di assorbire gli effetti di una tempesta. I materiali per la colmata possono essere messi a disposizione dal Genio Militare che di norma draga il porto di New York per mantenere la profondità dei corridoi di navigazione. Nei prossimi 55 anni, si calcola di dragare 180 milioni di metri cubi dal fondale, di cui la maggior parte dovrebbe essere smaltito in altre colmate o in miniere abbandonate sparse per tutto il paese.

Prima che fossero approvate le norme ora vigenti sull’imbonimento e la possibilità di costruirci sopra, era il metodo correntemente usato per ampliare la superficie della città, come per Battery Park City, realizzata dagli scavi per la costruzione del World Trade Center. È un metodo ampiamente utilizzato nelle città di tutto il mondo. Si sono usati 250 milioni di metri cubi di interramento per l’aeroporto di Hong Kong, e ben 6,65 miliardi di metri cubi per nuove superfici urbane nella baia di Tokyo. Quindi la proposta di Governors Island è abbastanza modesta, visto che si utilizzerebbero circa 23 milioni di metri cubi, stando ai calcoli dello studio. “Vishaan pensa in modo globale” giudica Vin Cipolla, presidente della Municipal Arts Society di New York, che ben conosce il progetto per Governors Island, “e non si fa certo intimorire dalle cose che possono stimolare verso il futuro una regione come la nostra”.

Titolo originale: House builders lobbied cabinet privately to get planning relaxed – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

I maggiori costruttori del paese hanno esercitato privatamente pressioni sui ministri per far sì che le regole di pianificazione diventassero molto più elastiche, come rivelano alcuni documenti in possesso del nostro giornale. I responsabili delle principali imprese come Barratt, Bovis e Redrow hanno chiesto che fosse introdotto il principio della “riposta positiva pregiudiziale” alle domande di trasformazione, i che significa una enorme spinta per la loro attività. E questo principio è diventato uno dei pilastri del national planning policy framework (NPPF) oggi in corso di discussione, e che dovrebbe entrare in vigore la prossima primavera.

Nel giugno 2010, mentre ne era in corso la scrittura, la Home Builders Federation (HBF) aveva chiesto la pregiudiziale, tramite lettera molto esplicita che è circolata fra il Cancelliere George Osborne, il ministro per le aree urbane Eric Pickles, quello per le attività economiche Vince Cable, i responsabili per la casa e l’urbanistica Grant Shapps e Greg Clark. I responsabili della federazione affermavano che questo criterio doveva “essere assolutamente introdotto”, e che si trattava di uno di quelli “essenziali” del nuovo indirizzo in urbanistica. I costruttori sottolineavano anche come quel messaggio fosse una “lettera privata rivolta a lei e ai suoi colleghi ministri e altri rappresentanti del governo, che non intendiamo rendere pubblica”.

Per i costruttori si tratta di costruire migliaia di abitazioni su aree greenfield grazie a questo orientamento. Il governo sostiene che con la riforma si darà un impulso alla crescita economica aumentando l’offerta di case, che l’anno scorso è crollata a un minimo di 102.720 mentre gli obiettivi erano più del doppio. I conservazionisti sostengono invece che quella clausola rappresenta un semaforo verde per costruire comunque e dappertutto. Si teme che possa condurre a una cementificazione delle campagne, visto che il concetto di “sostenibile” tocca gli aspetti economici e sociali oltre che ambientali.

Quella richiesta si inserisce in un quadro di continue pressioni fra lettere, rapporti, incontri coi ministri, gruppi di lavoro di alti responsabili del settore privato e del governo. Uno scambio documentato grazie alla legge sulla pubblicità degli atti. Secondo una delle lettere, è il sottosegretario alla casa ad aver esplicitamente chiesto ai rappresentanti del settore si esplicitare cosa “avrebbero voluto leggere nel progetto di legge sul decentramento e il localismo, e quali contributi e idee su altri aspetti della riforma urbanistica ". La Federazione risponde di essere certamente “favorevole a quel tipo di orientamento preventivo, ma di sicuro di non averlo concepito”. Inoltre: “Nella lettera chiediamo di introdurre assolutamente un orientamento preventivamente favorevole alle trasformazioni sostenibili. Non si tratta di una indicazione nostra, ma di quanto è promesso in un documento del partito Conservatore del febbraio 2010”.

Il governo è già stato criticato per ché si riteneva che la sua politica urbanistica fosse troppo pesantemente influenzata dai costruttori. Sono tre o quattro i componenti della commissione consultiva per la riforma ad avere legami diretti col settore. Ma il Mnistero delle Aree Urbane nega qualunque influenza. “’idea di introdurre un orientamento preventivamente favorevole alle trasformazioni sostenibili è una politica consolidata del partito Conservatore sin dalla pubblicazione delle nostre linee urbanistiche nel febbraio 2010. Compare nel nostro manifesto, ed è esplicitamente nominata nel programma della coalizione di governo”.

La commissione ambiente della camera dei Comuni lo scorso mese ha chiesto ai rappresentanti dei costruttori di queste pressioni ministeriali. John Slaughter, responsabile delle relazioni esterne della Federazione, insieme a Liz Peace, che rappresenta i maggiori operatori riniti nella British Property Federation, ha risposto. La presidente della commissione Joan Walley, ha domandato se il documento bozza delle linee guida fosse “allineato alle proposte che voi avevate presentato ai ministri”. La Peace ha risposto che “nessuno del mondo delle costruzioni ha parlato degli orientamenti favorevoli alle trasformazioni sostenibili. Quello viene dal governo e dai ministri. Non samo stati assolutamente coinvolti nelle stesura delle linee guida, né discusso i principi generali. É stata una sorpresa interessante al momento di pubblicazione della prima bozza”. Slaughter concorda, aggiungendo che “naturalmente ci siamo incontrati, coi ministri, è del tutto normale che avvenga da parte delle persone del settore”.

Le lettere al governo in possesso del Guardian mostrano come, dopo un incontro dello scorso luglio con Steve Morgan, presidente della Redrow, nel quale il costruttore lamenta quello che considera un “abuso” delle norme sulle osservazioni da parte di chi si oppone ai progetti, Eric Pickles scrive: “Sono lieto che possiate collaborare strettamente coi nostri funzionari per sviluppare le questioni che abbiamo discusso”. Neil Sinden, responsabile per la Campaign to Protect Rural England, che chiede al governo di rivedere la riforma urbanistica, commenta: “Da questi documenti pare proprio che qualcuno nel governo si sia avvicinato un po’ troppo alla lobby dei costruttori, consentendo [al settore] un’influenza esagerata. Non sorprende che il mondo delle costruzioni abbia tanto spinto per l’orientamento preventivamente favorevole alle trasformazioni sostenibili. Così si consente loro di minacciare le amministrazioni locali con costosissimi ricorsi, nel caso in cui i progetti non siano approvati”.

Naomi Luhde-Thompson, responsabile per l’urbanistica dei Friends of the Earth, aggiunge: “I costruttori hanno avuto rapporti privati di discussione col governo e lo riteniamo scorretto. La bozza di NPPF trabocca di cose che derivano da queste pressioni, nulla che sia mai stato discusso in pubblico”. Con l’orientamento favorevole ai progetti sostenibili si mette nelle mani dei costruttori uno strumento in grado di scavalcare qualunque tentativo di strategia territoriale delle amministrazioni locali, visto che "dentro il documento delle linee guida non c’è alcuna indicazione sulla insostenibilità di costruire su aree greenfield”.

Ci sono già superfici sufficienti per 620.000 abitazioni

I costruttori lamentano da tempo che la costruzione di case è bloccata dalla scarsa disponibilità di superfici e dalle norme urbanistiche troppo rigide. Ma una recente ricerca (vedi commento e rapporto scaricabile su Mall) mostra come a livello nazionale ci sia una scorta sufficiente già a disposizione del settore per costruire 620.000 case, di cui quasi il 50% con qualche tipo di autorizzazione già rilasciata. Un gruppo di pressione legato al settore delle case economiche ha dichiarato al parlamento che i costruttori “sostanzialmente stanno limitando l’offerta attraverso il controllo che esercitano su queste superfici che già possiedono”. E aggiunge che i ministri sbagliano ritenendo che il settore inizierà a trasformarle una volta rese più elastiche le norme, dato che ci sono più profitti sulle aree greenfield.

Le pressioni dei costruttori riguardano soprattutto le zone del sud-est e i centri meglio collegati a Londra da linee ferroviarie. La fascia occidentale londinese e il corridoio autostradale M4-M3 sono un obiettivo particolare, con molte delle amministrazioni sottoposte a pressione dal settore, mentre gli abitanti temono l’invasione degli spazi di green belt con case di lusso. L’associazione per le case economiche sostiene che gli operatori inizieranno a costruire sui terreni già controllati solo se ci sarà una pressione fiscale contro questo accaparramento. “Fin quando non avranno alcun rischio di perdere soldi tenendosi queste scorte, non saranno mai sfruttate”.

Certe volte davanti a certi studi scientifici viene proprio da chiedersi se non sono quelle, le cose che poi provocano l’aggressività dei politici in malafede nel tagliare i fondi alla ricerca. Torme di qualificatissimi nerds coordinati da pimpanti professori si aggirano nei posti più impensati coi loro vari strumenti di rilevazione, a volte costosi a volte no, e poi sembrano ogni volta annunciare la scoperta dell’acqua calda. Magari poi contraddetti la settimana dopo al convegno concorrente, dove si spacca in quattro invece l’acqua tiepida … Mah!

E sarebbe istintivamente questa la reazione immediata, scorrendo il sommario della ricerca A Difference-in-Differences Analysis of Health, Safety, and Greening Vacant Urban Space, proposta dal numero di novembre dell’American Journal of Epidemiology. La tesi è proprio del tipo descritto, più o meno: dove la città è migliore si sta meglio in generale, e in particolare ne guadagnano sia alcune patologie che il livello dei reati contro la persona. Più in dettaglio, se gli spazi di risulta e gli altri ambienti aperti pubblici vengono sistemati a verde, mantenuti, con una buona accessibilità e qualità, si verifica rispetto a spazi identici di bassa qualità (ovvero privi di intervento e/o non mantenuti) un rilevabile e netto calo di aggressioni, scippi, stress, e benessere urbano generale.

Però non c’è niente da ridere, naturalmente. Se è vero che pare scontata da un certo punto di vista intuitivo l’equazione quartiere migliore = qualità della vita migliore, il fatto di applicare a un elemento così puntuale come il verde ben tenuto nei lotti in edificati, un metodo altrettanto se non ancor più puntuale, è un bel passo in avanti, di sicuro. In termini di merito, perché così sarà possibile ad esempio a qualunque amministrazione sostenere economicamente le spese necessarie a quegli spazi verdi, sulla base di specifici riscontri di bilancio: quanto costano i servizi sanitari relativi alle patologie che così si riducono? Quanto costa la repressione dei reati che evaporano davanti alle aiuole? Tutti quei soldi si possono semplicemente spostare da una voce all’altra, e la scelta così potrà anche distinguere una amministrazione di destra tutta legge e ordine, da una progressista che ricorre alla forza pubblica, o agli assistenti sociali, solo quando ce n’è davvero bisogno.

Un’altra utilità immediata di questa ricerca è quella di metodo: se si può applicare, magari perfezionandolo e standardizzandolo, al verde, per estensione è possibile sommare e comparare, magari in modo interdisciplinare, i risultati di indagini sistematiche simili su altri elementi che possono aumentare o diminuire la qualità urbana: dagli arredi, alle sezioni stradali, alle densità (edilizie, di utenza ecc.). Spesso davanti ai successi di certe politiche di successo qualcuno osserva con sorrisimi di compatimento che “quello è un contesto diverso”. La rilevazione scientifica consente facilmente di capire se è così, oppure no: basta elaborare i dati. Certo prima bisogna averli, quei dati, e qui torniamo all’inizio: la ricerca serve, serve sempre, e chi sostiene che è uno spreco racconta sempre frottole. Questo è scientificamente provato.

(per chi volesse pascersi di tabelle e dotte analisi, A Difference-in-Differences èscaricabile direttamente da qui)

Credo sia capitato a chiunque di saltare sulla sedia, e poi probabilmente di incazzarsi di brutto, leggendo o ascoltando da qualche parte il tizio che dava la colpa del terremoto abruzzese ai peccatori locali, che si sarebbero attirati questo brusco ammonimento divino. E poi di incazzarsi ancor di più dopo aver scoperto che non solo il tizio con le sue sparate (questa non era neppure l’unica) aveva trovato posto sui media, ma un posto assai più stabile e prestigioso lo occupava, inopinatamente, presiedendo il principale ente di ricerca italiano. Beh, adesso si scopre anche che siamo fortunati, fortunatissimi, almeno rispetto ad altre sciagurate popolazioni, che certi pericolosi idioti se li devono sorbire molto, ma molto di più.

A certificare l’invasione degli ultracorpi antiscientifici, ci ha pensato abbastanza curiosamente proprio il metodo scientifico, con cui l’Istituto Reuters per gli Studi sul Giornalismo dell’Università di Oxford ha sistematicamente analizzato in modo comparativo, su un arco di diversi anni, un campione significativo della stampa internazionale, alla ricerca dei contributi sul cambiamento climatico. Scoprendo tra l’altro almeno due cose piuttosto significative: la stampa anglosassone è molto più permeabile di quella che parla altre lingue, quando si tratta di ospitare opinioni “scettiche” rispetto ai vari aspetti e manifestazioni del cambiamento climatico, e in generale sono i giornali di orientamento conservatore e di destra i più accoglienti ai tanti “se” e vari “ma” sollevati pur davanti all’evidenza scientifica. Soprattutto, osservano documentatamente i ricercatori, le strampalate opinioni di persone che nulla sanno, ovvero i politici.

Resterebbe da capire perché, succede questo, e vengono in mente due assai poco scientifiche spiegazioni. La prima è che la tradizionale stampa anglosassone, come ci raccontano tutti da secoli, coerente col suo ruolo democratico e aperto, non possa non accogliere quella che in un modo o nell’altro deve essere una vox populi vox dei: anche le sciocchezze più inverosimili (e spesso fuorvianti e pericolose) sparate da un politicante qualunque del tipo tea party o dintorni continuano a ricordarci che scienza e tecnica non sono una specie di religione, si evolvono e a volte ribaltano i propri presupposti. La seconda un pochino più cattivella è che la stampa internazionale letta dalla classe dominante di tutto il pianeta, guarda caso, è proprio quella che parla inglese, chi decide si forma quotidianamente su quelle letture, e proprio per questo motivo si moltiplica la pressione per comparire da parte degli “scettici”, in buona o più probabile mala fede.

Un’altra osservazione, stavolta autarchica, riguarda il nostro paese, che ufficialmente non compare nell’analisi comparata dell’Istituto Reuters. A parte le sciocchezze del pio antiscientifico governatore delle scienze citato in apertura, va detto che uno dei motivi per cui, molto probabilmente, non si verifica una vistosa presenza di “scettici”, è che a seminare sia scetticismo che atteggiamenti fideistici ci pensa il tono generale dei contributi giornalistici ai temi legati alla scienza. In cui si oscilla da certe prediche tracimanti onnipotenza, alla Veronesi per intenderci, a un certo cinismo sospettoso con poco tempo e voglia per dati certi, a un ottimismo della volontà magari in buona fede ma campato per aria a dir poco. E anche gli articoli scientificamente schierati, raramente si meritano poi risposte puntuali, come ad esempio nelle recenti polemiche sulle alluvioni. Insomma, un po’ ce la meritiamo la gentile ironia con cui sul Guardian di venerdì scorso Leo Hickman fa partire proprio dall’Italia, pur esclusa dalla ricerca, il suo articolo di presentazione del rapporto.

(di seguito scaricabile il Sommario della ricerca)

Titolo originale: The Food Revolution and Its Impact on Real Estate – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Cosa può contribuire insieme a fermare il riscaldamento globale, dar da mangiare a chi ne ha bisogno, renderci più sani, e aumentare il valore degli immobili? In una sessione da tutto esaurito nel recente convegno autunnale Urban Land Institute di Los Angeles abbiamo appreso che la risposta al problema è l’agricoltura a base locale. Negli Stati Uniti spesso si considera ciò che mangiamo senza conferirgli particolare importanza, dove lo si coltiva, come viene prodotto. Ma come sta imparando anche il settore delle costruzioni, il cibo può avere grossi effetti anche sul successo o meno di importanti progetti edilizi, specie in questi tempi economicamente problematici.

Il convegno “Rivoluzione alimentare e ricadute sul settore immobiliare” ha proposto tre diversi esempi di quanto il tema si stia imponendo non solo nella nostra dieta, ma anche sui quartieri. Coordinata dall’esperta californiana California di marketing Beth Callender, l’assise ci ha fornito spunti di riflessione sul ruolo del cibo come fattore di miglioramento dei complessi edilizi, strumento per costruire identità e comunità, marchio che può caratterizzare un progetto.

Si parte con la presentazione di Christian Meany, associato del costruttore di San Francisco Wilson Meany Sullivan. Nel 1998, la Wilson Meany Sullivan è stata scelta dal Porto di San Francisco per riqualificare il Ferry Building, famoso complesso della città affacciato sul mare.

Affidato in concessione per 66 anni e trasformato, il Ferry Building è uno straordinario esempio di riuso pubblico-privato. I lavori sull’edificio del 1898 hanno riguardato il ripristino della facciata storica occidentale, della torre campanaria e Grand Hall alta 201 metri. Ma l’elemento che ha davvero determinato la rinascita di tutta l’area è stato il mercato alimentare in stile europeo al pianterreno, che attirando più di un milione di visitatori l’anno ne ha fatto una delle mete principali di tutta San Francisco. Prima è stato trasferito lì con accordi specifici un farmers market già esistente. Questo a sua volta ha attirato altri esercenti. Oggi complessivamente il mercato garantisce un gettito di quasi 13.500 dollari al metro quadro.

Il secondo intervento è stato quello di Brent Herrington della DMB Associates e presidente di Kukuiula Development Company. DMB opera dall’Arizona ed è una compagnia immobiliare diversificata con tradizione sia nei complessi terziario-commerciali, che turistici e per il tempo libero, che di quartieri residenziali in tutto l’ovest degli Stati Uniti. La relazione di Herrington si è concentrata sul ruolo dell’agricoltura in un complesso turistico di lusso. Con una consolidata esperienza in fatto di ampi spazi a verde e aperti, per quartieri come DC Ranch e Verrado, entrambi in Arizona, la DMB sta oggi realizzando Kukuiula, villaggio vacanze a bassa densità su un’area di 405 ettari nell’isola hawaiana di Kauai. Come gran parte di questi interventi di lusso, anche Kukuiula comprende un classico campo da golf, luogo di riunione, complesso termale-benessere, la cosa particolarissima però qui è rappresentata dalla fattoria a gestione comune su 4 ettari. Affacciata su un lago che copre altri 9 ettari, produce banane, papaye, bietole, agrumi, erbe aromatiche, ananas, rucola, alberi del pane e altro.

C’è un piccolo gruppo di dipendenti, ma sono in molti gli abitanti che hanno scelto di sporcarsi le mani con lavoro volontario sulla terra, o altri che semplicemente se ne stanno a contemplare, godendosi però poi i prodotti a tavola. Impressionante la varietà di frutti fiori, verdure che si riesce a produrre in così poco spazio, ma ancor più impressionante quanto abbia pesato la fattoria sulla scelta degli acquirenti e l’immagine del villaggio, spendendo relativamente poco(circa un milione di dollari), specie se la si paragona agli altri costosi servizi come il campo da golf, il club, o la spa (qui siamo sui 100 milioni).

L’ultima relatrice è stata Sibella Kraus, presidente di Sustainable Agriculture Education (SAGE) a Berkeley, California. All’inizio degli anni ’80 la Kraus era una cuoca al famoso ristorante Chez Panisse, poi ha iniziato a impegnarsi nella divulgazione dell’agricoltura di prossimità. SAGE opera nel campo delle coltivazioni urbane e della partecipazione degli abitanti in una prospettiva di sostenibilità. Secondo la Kraus, agricoltura urbana non significa solo far crescere delle cose, ma anche rafforzare la comunità. Ci ha raccontato come sempre più quartieri in città diverse stiano sviluppando esperienze del genere, a partire da un “greenprint” [gioco di parole su blueprint, che significa il lucido di un progetto n.d.t.]. Un greenprint a scala regionale individua gli spazi in cui è possibile investire in aree aperte, nello stesso modo in cui si fa con gli investimenti immobiliari.

Si mangia ogni giorno, e pare del tutto logico che si avvicini il più possibile a casa la produzione alimentare, specie se si pensa al’impronte ecologica che deriva dal trasporto e distribuzione. Come ama ripetere James Howard Kunstler, “É finita l’era dell’insalata mista che viaggia tremila chilometri”. La Kraus è sembrata particolarmente convinta dell’importanza di collegare agricoltura, tutela naturale, educazione ambientale, in un sistema di parchi agricoli, cinture produttive, zone di conservazione. Ha raccontato le esperienze in corso di food belt periurbana a Fresno e altre città della California. Ha trattato il tema dell’agriturismo sollecitando le amministrazioni a distinguersi proprio sul “sapore del luogo”.

Quando riflettiamo sul futuro del settore immobiliare, quindi è evidente come alimentazione e agricoltura diventino sempre più importanti, e anche convenienti.

Titolo originale: New York’s green new underground – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Sotto Delancey Street nel Lower East Side di Manhattan stanno nascosti nel buio e inutilizzati più di cinquemila metri quadrati di percorsi lastricati e soffitti a volta. Il terminale ferroviario del ponte di Williamsburg è abbandonato dal 1948, ma oggi ha suscitato l’interesse di un gruppo di investitori con un progetto ambizioso: convogliare sottoterra la luce naturale per creare un parco nel sottosuolo. Non si conoscono i particolari della soluzione tecnologica sviluppata dall’architetto James Ramsey, che è anche nel gruppo dei finanziatori, e resterà un mistero fino alla prevista dimostrazione. Ramsey ha comunque fatto cenno all’uso delle fibre ottiche.

La apprezzeranno i newyorkesi questa idea fuori del comune, così come successo per altri parchi urbani? Qui il livello dell’offerta è piuttosto alto dopo la seconda fase della High-Line a luglio, parco lineare ricavato da un tratto ferroviario sopraelevato in disuso che doveva essere demolito. Mentre oggi à una fascia erbosa sopra il livello stradale. La trasformazione ha consentito sia la conservazione di uno straordinario elemento di archeologia industriale, che attirato sei milioni di visitatori, lontano dal traffico. Non sorprende quindi che siano spuntate iniziative simili a Filadelfia, Chicago o Rotterdam.

Il sotterraneo di Delancey Street è sicuramente più audace della High Line, ma soprattutto si può fare? “Un’idea davvero stravagante, bizzarra, ma credo che abbia dei contenuti naturali” ribadisce Ramsay. Però restano parecchie questioni a cui rispondere, replica Nikolaos Karadimitriou, esperto di riqualificazione urbana all’University College di Londra. “É un progetto in grado di innescare qualche flusso economico, delle attività, delle tasse?” Potrebbe rivelarsi essenziale il sostegno degli abitanti. É il fattore che ha determinato il successo del caso della High Line. E stavolta potrebbe trasformare una “idea stravagante e bizzarra” in uno spazio verde per il Lower East Side

Titolo originale: Detroit: rejuvenation through urban farms, sustainable living and innovation – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Ero stato a Detroit l’ultima volta diciassette anni fa, e la mia prima impressione tornandoci è stato quello sconcertante silenzio. Quelle larghe vie verso il centro svuotate dalle macchine. In quelle zone un tempo trafficatissime e piene di enormi edifici, adesso si sentiva solo il suono dei miei passi. L’ex rombante Motor City, mi pareva ridotta a un sussurro. Ma è una prima impressione che nasconde quello che invece a Detroit sta accadendo realmente, coi suoi abitanti che lavorano non solo per sopravvivere, ma per rilanciare, far addirittura diventare ricca, la città. Con ostacoli da superare enormi. A Detroit ci saranno sempre le fabbriche di automobili, ma non più a fare da base economica e motore di occupazione come hanno fatto per un secolo. In una città che ha perso oltre un milione di abitanti dal 1950, si è deciso che la sopravvivenza sta nel demolire, nello smontare. Si prevede di smantellare 10.000 abitazioni nei prossimi anni.

Ma accade molto di più delle sole demolizioni, a Detroit. Famiglie che abitano qui da generazioni, o nuovi arrivati, si riprendono la città nelle proprie mani. Nella parte vecchia resiste una straordinaria serie di architetture art deco, c’è un museo d’arte con collezioni del valore di un miliardo di dollari, una solida rete di industrie. E adesso tutto questo sarà immerso in un ambiente che mescola l’urbano e il rurale. L’aspetto rurale, costruito grazie a quelle determinate braccia, potrebbe ribaltare del tutto la nostra idea di città. Detroit come modello per i centri che invecchiano e cercano una nuova via.

Oggi predominano ampi spazi aperti, che hanno dato agli abitanti l’occasione di recuperare un rapporto diretto con ciò che si mangia. Spariti quasi del tutto i supermercati, e coi drugstore che vendono soprattutto prodotti confezionati (o magari freschi ma importati dal Sudamerica), ci sono associazioni cittadine come Earthworks che insegnano come si fa a coltivare frutta e verdure, come si pianta, si raccoglie, si fertilizza, si conserva. “Non è solo sopravvivenza” spiega Shane Bernardo, coordinatrice del lavoro esterno di Earthworks, all’avanguardia del movimento per l’agricoltura urbana a Detroit dal 1997. “É anche giustizia economica, e sul lungo periodo resilienza economica”.

Contemporaneamente c’è la Hantz Farms di un imprenditore finanziario che mira a offrire prodotti alimentari con tecniche sostenibili e energie da fonti rinnovabili. Che Detroit diventi leader globale dell’agricoltura urbana? Beh, dopo tutto il Michigan è una delle aree a maggior biodiversità del Nord America, come si vede benissimo ogni giorno nel sempre affollato Eastern Market. Una resilienza manifestata da una creative class in crescita. In una città in cui si comprano per 300 dollari grossi lotti residenziali, e ci si accaparra una casa con poche migliaia, stanno arrivando giovani imprenditori, sistemano abitazioni, fanno partire iniziative. Case che non erano più da tempo attaccate alla rete elettrica adesso si alimentano con pannelli solari e turbine eoliche.

In alcuni casi si va anche agli estremi: i giornali parlano di abitanti che vivono senza alcun contatto coi normali circuiti economici, e diventano casi su Youtube. Con tante case disponibili, altre persone hanno fatto di ex quartieri come Bloomtown una specie di tela da ridipingere con arte. Alla Wayne State University sperano che saranno in molti, vecchi e nuovi residenti, a trovare lavoro nella TechTown. Parco scientifico di Detroit e incubatore di oltre 220 imprese alle prime armi, mentre ce ne sono tante altre il lista d’attesa. A regime, la superficie di 12 isolati urbani comprenderà un quartiere a funzioni miste fruibile a piedi da tutti quelli che lavorano nelle vari attività legate a energie rinnovabili, scienze della vita e engineering. Ci sarà da 2016 anche la metropolitana leggera per andare fino al fiume, agli impianti sportivi, alle zone per l’intrattenimento, o verso il suburbio esterno.

La nuova Detroit sarà un solido sistema economico e culturale innestato sulla Woodward Avenue dal centro attraverso Wayne State sino a Ferndale. Attorno ampi tratti di superfici coltivate, sino a Dearborn a ovest, a Grosse Point verso est e il Lago St. Clair. Ma la vera sfida per la cittadinanza e l’amministrazione è quella di convincere anche i più poveri soli e disincantati cittadini, che ci sia un futuro oltre l’incertezza, per Detroit.

Titolo originale: The 19 Building Types That Caused the Recession – scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Tra i suoi esempi preferiti di complesso edilizio replicato fino alla nausea in tutto il paese nell’ultimo mezzo secolo, Christopher Leinberger sceglie il polo servizi di zona a base alimentare. Si tratta si un intervento su circa 5-7 ettari di superficie, asfaltata all’80%. Si colloca sulla corsia di una grossa superstrada (4-8 corsie) percorsa nel ritorno dopo la giornata di lavoro verso le zone residenziali, pensata per il momento in cui con ogni probabilità si sta pensando a che fare per cena.

C’è un grosso supermercato, 5.000-6.000 metri quadrati a formarne un lato, e un altro grande complesso con servizio drive-in sull’altro, presenti importanti catene di distribuzione nazionali e regionali, magari anche qualche marchio come Hallmark o Starbucks. Nel parcheggio ci stanno quattro o cinque piazzole di sosta ogni cento metri quadri di superficie commerciale. In teoria c’è anche un marciapiede, anche se non si arriva a pensare che ci sia qualcuno che lo usa. Ciascun esercizio è concepito per allettare un potenziale cliente che passa a settanta allora. E – salvo gusti locali particolari di qualcuno di questi centri acquisto dell’ultimo, magari imbiancature art-deco o un tetto di coppi – gli shopping center a forma di “L” sono identici ovunque si vada, da Denver a Orlando.

“Tutto si concentra in quella frazione di secondo in cui si cerca lo sguardo di chi sta guidando” commenta Leinberger, “e che allora potrà pensare: ‘hey, ecco un supermarket! Accostiamo!’”. Leinberger, studioso di strategie insediative e professore all’Università del Michigan, ha inserito questa tipologia del polo servizi di zona a base alimentare in un elenco di 19 prodotti immobiliari standardizzati dominanti nell’America del secondo dopoguerra. Che comprende anche: le villette unifamiliari suburbane per giovani coppie, i grandi complessi di big-box, quelli a magazzini che ospitano molte ditte, quelli di self-storage. Sono tutti concepiti per un ambiente suburbano fruibile solo in auto. E rispecchiano ciò che è stato voluto quasi in esclusiva dagli investitori per oltre 50 anni. Oggi che l’edilizia pare in ripresa dopo la recessione, secondo Leinberger dobbiamo tenerci lontani da ciascuno di loro.

“Chi investe finanzia prodotti consolidati” spiega Leinberger. “Non certo cose uniche, pionieristiche, cose che non si sono mai sperimentate, che si tratti di immobili o di computer Apple”. Tutti quei modelli immobiliari si riassumono nel contesto suburbano, e il polo di zona alimentare ne rispecchia un effetto collaterale, l’accumulo di provviste dagli scaffali dei supermercati ai nostri congelatori e dispense nel sottoscala. “Di sicuro non c’è nessun complotto” continua Leinberger. “Alla gente piace il big box”, nel senso che si apprezza sia il negozio che quanto dal negozio ci si porta a casa. Però di quei 19 tipi di complessi edilizi ne abbiamo costruiti troppi.

“Il prodotto sbagliato nel posto sbagliato, e adesso nessuno lo vuole più. Ecco il motivo della crisi edilizia, poi di quella dei mutui, e infine della Grande Recessione”. La maggior parte delle persone ritiene che la crisi edilizia abbia accelerato la recessione. Ma Leinberger teme però che non si sia discusso a sufficienza di quale tipo di edilizia, di quale tipo di prodotto immobiliare. Oggi però la crisi – e la pausa che ne consegue – può fornire a costruttori e investitori tempo a sufficienza per rifletterci. “Fra le cose positive di una recessione – la cosa vale per qualunque recessione – c’è il fatto che le imprese possono ripensare le proprie strategie, anzi sono obbligate a ripensarle. É un fatto positivo, ma ce la faranno i nostri a imparare nuovi trucchi? Qualcuno l’ha già fatto, altri non ci riusciranno. E questi sono destinati a fallire nel moment in cui si esauriranno I sostegni federali per lo stimolo”.

A Washington, D.C., una delle grandi città americane uscite immuni dalla crisi del settore, si è continuato a costruire, ma Leinberger calcola che un 90% abbondante dei nuovi interventi sia per spazi ad alta densità fruibili a piedi (come la riqualificazione al Tyson’s Corner, o il complesso Navy Yard). É a questo tipo di prodotti immobiliari che, a parere di Leinberger, ci si dovrebbe orientare: piani terreni a negozi, e sopra appartamenti in affitto, magari alberghi o centri congressi con sopra dei condomini, nei pressi di un corridoio di mobilità collettiva. Una serie di modelli che possono diventare il nuovo standard.

“In linea di massima ci sono sempre stati dei prodotti standardizzati” continua Leinberger. “Pensiamo anche a uno spazio urbano di tipo pedonale degli anni ’20, sono tutti molto simili. La cosiddetta Main Street USA non pare tanto diversa se ci si sposta dalla California al New England”. Dobbiamo accettare una certa standardizzazione, perché in questo modo diventa più facile (ed economico) per il settore edilizio e gli investitori realizzare prodotti del genere su una scala adeguata a rispondere alla domanda. “Oggi idealmente” conclude Leinberger riferendosi agli aspetti architettonici particolari “ci si potrebbe orientare verso forme organiche”, ma forse sarebbe un ottimo segnale anche se solo iniziassero a diventare un fenomeno replicato a livello nazionale i “poli ad alta densità e funzioni miste legati al trasporto pubblico”.

Titolo originale: La ville grignote les campagnes – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

L’Istituto Centrale di Statistica: i francesi si stabiliscono sempre più nella periferia allargata

La Francia pare ormai invasa dalla città. Soltanto il 5% degli abitanti non fa riferimento a un centro urbano. Quei tre milioni di persone che vivono e lavorano in campagna o nelle aree montane. Ovunque, altrove, la città avanza. E a passi da gigante, secondo la ricerca pubblicata martedì dall’Insee. Sbocciano costruzioni nei campi, via via che nuove coppie con figli escono dal centro alla ricerca di più spazio, e se possibile diventare proprietari. A conferma di una tendenza di lungo periodo, «le fasce circostanti le grandi città non smettono di allargarsi, e diventano autonome», commenta Bernard Morel, responsabile della sezione regionale. Territori che trasformati in periferia della periferia si allargano a coprire una superficie che interessa il 28,6% del totale.

Si allungano gli spostamenti

La regione parigina, in cui si concentrano 12 milioni di abitanti, pare già tentacolare. Ma prosegue nel processo di ulteriore estensione. Sono spesso gli abitanti delle periferie, soprattutto dei quartieri più difficili, a cercare la tranquillità più all’esterno, specie nell’area Seine-et-Marne.

E le regioni urbane di Lione, Bordeaux, Nantes e Rennes si sono allargate del 50% in dieci anni! Le villette crescono attorno ad antiche tenute di campagna. Le circondano, poi si trasformano in veri e propri quartieri. La popolazione non smette di crescere su tutta la fascia atlantica e l’asse del Rodano. A Lille, dove le possibilità di crescita non sono infinite, la popolazione si concentra. E poi iniziano a crescere cerchi concentrici anche attorno a centri di 20.000 abitanti. Ormai i grandi centri urbani e le loro corone di periferie interessano la metà del territorio e quasi l’85% della popolazione e dei posti di lavoro.

Imprese e pubblica amministrazione restano nei nuclei centrali di queste agglomerazioni, e così gli spostamenti da casa al lavoro si allungano. In media, precisa l’Insee, si percorrono 15 chilometri dal luogo di residenza alla fabbrica o all’ufficio. Nelle grandi agglomerazioni si sono sviluppate infrastrutture di trasporto che ne indicano l’estensione territoriale, e i nuovi insediamenti si collocano lungo le strade. É l’automobile il mezzo principale, con costi non indifferenti che certo le famiglie non avevano messo nel conto decidendo di comprar casa nell’area allargata.

I desiderio della casa unifamiliare

C’è uno studio del Datar che mostra sino a che punto le giovani coppie abbiano sottovalutato tempo e denaro degli spostamenti pendolari. Non è affatto raro che poi la moglie lasci il lavoro per essere più presente e badare alla famiglia, man mano la città si estende sempre più lontano fra lottizzazioni e edifici isolati; «Seguiamo un modello di crescita all’americana che pone problemi di governo pubblico, lamenta l’urbanista Jean-Loup Msika, decisamente contrario a questo sviluppo in orizzontale. Perché costa molto di più realizzare servizi in queste zone tanto remote e popolate in modo non denso» Ma il processo anche dopo trent’anni non accenna ad attenuarsi, spinto dalle dinamiche immobiliari, dai ritmi di lavoro, dal desiderio sempre vivo della proprietà della casa. Sino a ridefinire completamente il tessuto sociale, come osserva il geografo Christophe Guilluy, con una parte della Francia nella grande città, e tutta la fascia periurbana sostanzialmente abitata dai ceti popolari.

Titolo originale: In Protest, the Power of Place – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Il movimento Occupy Wall Street in costante crescita, coi suoi campi di tende a Manhattan, e oggi anche a Washington, Londra e altre città, dimostra fra le altre cose quanto nonostante i nuovi mezzi di comunicazione siano diventati indispensabili per diffondere la protesta, nulla possa sostituire la presenza fisica nelle strade.

Ce lo siamo ricordato settimana scorsa quando la proprietà di Zuccotti Park, dove si svolgono le manifestazioni di New York City, ha prima richiesto e poi rinunciato alla presenza della polizia per ripulire il parco. Così, almeno per ora, ha evitato di mostrasi davanti a tutti nel mondo in quello che sembrava proprio un pretesto per liberarsi dei dimostranti.

Avevamo a lungo sottovalutato il valore politico degli spazi pubblici. Poi è arrivata piazza Tahrir. E poi Zuccotti Park, sino a un mese fa un’oscura piazza delle dimensioni di un solo isolato , con qualche albero e delle panchine di cemento, poco distante da ground zero e a due isolati a nord da Wall Street su Broadway. Grazie a qualche centinaio di persone in poncho e sacco a pelo abbiamo imparato che esiste.

La Kent State University [ quella degli studenti uccisi nel 1970 durante una manifestazione contro la Guerra in Vietnam, raccontata dalla canzone Ohio . n.d.t.], piazza Tienanmen, il muro di Berlino: è evidente il ruolo che assumono spazi, edifici, architetture nel serbare la nostra memoria e forza politica. La politica tocca le coscienze. Ma sono i luoghi che poi colgono la nostra immaginazione.

Certo ci ritroviamo su Facebook e Twitter, ma andiamo in pellegrinaggio a Antietam, Auschwitz o anche all’Acropoli, ad ammirare quello che resta del’epoca di Pericle e Aristotele.

Fra tutte le cose, pensavo proprio ad Aristotele guardando i dimostranti di Zuccotti Park tenere una delle loro “assemblee generali” qualche giorno fa. Nella sua Politica, Aristotele sostiene che le dimensioni della polis ideale sono quelle della distanza a cui si sente il grido di un araldo. Era convinto che la voce umana avesse un rapporto diretto con il buon ordine civile. Una sana convivenza in una città ben organizzata richiede dialogo diretto.

Ed è accaduto che proprio all’inizio delle proteste, quando la polizia ha proibito l’uso dei megafoni a Zuccotti Park, i dimostranti sono stati obbligati ad escogitare un’alternativa. Così il metodo per comunicare le varie decisioni è diventato quello delle “ prove audio”, ovvero ripetere frase per frase a chi si a attorno ciò che dice un oratore, in pratica parlare tutti insieme. Un po’ come nel vecchio gioco del telefono senza fili, e terribilmente lento.

“Ma è la democrazia” come mi spiega l’attore disoccupato quarantaseienne e falegname Jay Gaussoin. “Siamo così disorientati di questi tempi, ci si è scordati come fare il punto. Però con la “ prova audio” siamo obbligati ad ascoltare gli altri, non solo le opinioni, ma proprio parola per parola, esattamente, perché dobbiamo poi ripeterlo.

“É un’architettura di consapevolezza” per usare l’azzeccata definizione di Gaussoin.

Magari può anche sembrare una specie di campo profughi ad una prima occhiata la mattina presto, quando i contestatori sbucano dai loro sacchi a pelo, ma Zuccotti Park in realtà è diventato una polis in miniatura, una piccola città che cresce. Ma il parco è anche di proprietà private, e si tratta di uno degli aspetti collaterali più interesassanti della vicenda. Un tempo si chiamava Liberty Park, ma nel 2006 gli è stato dato un altro nome, da John E. Zuccotti, presidente della Brookfield Office Properties, che possiede l’area. Una norma urbanistica impone però che la Brookfield tenga aperto il parco giorno e notte, anche se non è uno spazio di proprietà pubblica.

Quest particolarità della norma di zoning getta luce inattesa sulle contraddizioni di quanto qui in America da un paio di generazioni chiamiamo spazio pubblico. Che invece in gran parte è solo gentile concessione di proprietà privata in cambio possibilità di costruire edifici più grossi e più alti. Basta pensare all’atrio dell’edificio a torre I.B.M. su Madison Avenue e a un’infinità di spazi simili: spazi “pubblici” che non sono affatto pubblici, ma semi-pubblici, controllati dalla proprietà. Lo Zuccotti in linea di principio dipende dalle regole fissate dalla Brookfield, che proibiscono teli, sacchi a pelo, e il deposito di effetti personali sul luogo. L’intera situazione spiega piuttosto bene quanto ci si sia allontanati dall’idea tradizionale di spazio pubblico, da luogo di espressione collettiva e assemblea (diciamo lo Speakers’ Corner di Hyde Park) a banalissimo luogo commerciale (come l’ingresso del Time Warner Center).

Avendo vissuto in Europa negli ultimi anni, ho spesso visitato piazze e parchi, a Barcellona e Madrid, Atene e Milano, Parigi e Roma, occupati dai campeggi delle proteste. Queste proteste e riunioni fanno parte della norma sociale d’Europa. Forse la differenza in America si deve a tutta la nostra mania delle automobili, dell’autosufficienza, di preferire l’isolamento, ci piace più guardare che partecipare.

In Europa, si protesta per il lavoro, contro i tagli del governo e per la questione del debito. Il fatto che ciò che emerge da Zuccotti Park sia un po’ fumoso non è la questione. Il punto centrale è proprio che esiste quel campo.

“Così riusciamo a sentirci parte di una comunità più ampia” racconta Brian Pickett, trentatreenne professore aggiunto di recitazione e dizione alla City University di New York. L’ho trovato settimana scorsa, seduto fra i teli e le file ordinate di sacchi a pelo in un angolo del parco. “È importante vedere queste cose, nella condizione alienata di oggi. Su Facebook siamo da soli. Ma qui no”.

E chi dimostra si rivela anche agli altri. L’hanno ben dimostrato gli egiziani a piazza Tahrir. E a loro modo anche quelli del Tea Party. Non ci si limita a mostrare al mondo il proprio numero. Ci si scopre anche vicendevolmente: persone con atteggiamenti non identici, ma simili. Come mi diceva un rappresentante della protesta, pensiamo a Zuccotti Park come se fosse in diagramma degli insiemi, che rappresenta varie delusioni politiche ed economiche. Lo spazio del parco è il luogo in cui esse riescono a sovrapporsi. Ed è anche uno spazio comune, letteralmente.

E mi pare evidente guardando quella folla compatta giorno dopo giorno che si tratta di coesione con un portato urbanistico, vale a dire che i dimostranti, dopo aver individuato una propria forma di organizzazione senza leader ma presidiando il luogo, trovano unità nello spazio. La loro forma prescelta di organizzazione è la base del loro messaggio.

Si costruiscono così i tratti fondamentali di una città, come ho già detto. Si è istituita una cucina per mangiare, un angolo legale e un settore sanitario, una biblioteca di libri regalati, un’area per l’assemblea generale, un ambulatorio, un media center dove si possono ricaricare i portatili usando un generatore, addirittura un emporio, si chiama comfort center, stipato di vestiti regalati, lenzuola, dentifricio e deodorante: come con le cose da mangiare, ci si può servire liberamente.

Qui trovo Sophie Theriault una mattina, che fruga tra pantaloni e camicie appena arrivati. Tranquilla ventunenne che fa la coltivatrice biologica in Vermont, è qui da parecchio e lavora come volontaria. “Forse non siamo venuti qui pensando proprio le stesse cose, ma condividere il parco un giorno dopo l’altro, una notte dopo l’altra, è anche un’occasione per scoprire interessi comuni”.

C’è un ragazzino in jeans leggeri e canottiera che curiosa dentro a cumuli di giacche. “Cerco qualcosa per stare al caldo” borbotta.

“Questo mi pare ottimo” dice la Theriault indicandone una invernale di sintetico col cappuccio di pelo finto che gli sta davanti.

“Beh, non così caldo” risponde, indicando un paio di calze, che la Theriault gli passa mentre riprende: “Ci incontriamo ogni sera a discutere come tener pulito e in ordine il posto, mantenerlo un ambiente sicuro, dal punto di vista materiale ed emotivo, per tutti. Il consenso di opinioni costruisce comunità”.

Patrick Metzger, ventitreenne compositore e ingegnere del suono, fa eco al medesimo pensiero: “Dai post sulla rete non si riescono certo ad avere informazioni vere sulla gente, classe, razza, età. Fox News parla magari di folle minacciose o spacciatori. E invece c’è una gran complicazione e mescolanza: studenti, anziani, intere famiglie, i muratori in pausa pranzo, dirigenti di Wall Street disoccupati”.

Si, si magari anche qualche tizio poco raccomandabile ci sarà, ci sono sempre nelle occasioni politiche. Ma l’ha detta giusta Metzger. É proprio la diversificazione dei contestatori, almeno di giorno, ad aggiungere resilienza alla protesta. É dall’11 settembre che non c’era tanta gente a chiedere “Ci sei stato?” “Hai visto?” a proposito di un posto di Manhattan. Occupare anche il mondo virtuale insieme a Zuccotti Park spinge il movimento Occupy Wall Street, l’uno aiuta l’altro e

Ma detto questo, è nello spazio fisico che si sta costruendo un’architettura della consapevolezza.

Nota: anche noi come forse qualcuno si ricorda abbiamo provato a ragionare un po' sul tema dello Spazio Pubblico; e alle prime avvisaglie della "primavera araba" sempre sulle colonne del New York Times l'economista urbano e un po' tuttologo Edward Glaeser aveva fatto un collegamento simile, anche se più rigido, fra spazio urbano e manifestazione di democrazia. Il testo tradotto è disponibile su Mall (f.b.)

Titolo originale: The Future Is Machine-Readable – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Quando si chiede a qualcuno di descrivere la città del futuro, ci si aspettano immagini di metropoli scintillanti magari di quelle che si intravedono in Giappone o in Corea, o i quei disegni tutti acciaio e cristallo e auto senza pilota che scivolano silenziose sull’autostrada .

E invece il vero modello di città del futuro è una minuscola cittadina medievale nella campagna toscana, Peccioli. Con oltre un quarto della popolazione residente che ha superato l’età della pensione, qui anche la gente appare un po’ antiquata. E invece Peccioli è all’avanguardia della rivoluzione tecnologica europea. Nel quadro di una collaborazione con la Scuola Sant'Anna di Pisa iniziata nel 1995, la cittadina si è trasformata nel campo di applicazione delle ricerche avanzate sull’invecchiamento, telesoccorso, energie alternative, tutela ambientale, e molto altro. Qui hanno iniziato ad lavorare per strada in mezzo alla gente i primi operai robot.

Dopo una breve sperimentazione nel 2009, due unità del tipo DustCart [più o meno letteralmente carretto delle pulizie n.d.t.] si sono fatti carico della raccolta rifiuti nel centro di Peccioli per due mesi del 2010. Gli abitanti richiedono un intervento, il supervisore dei robot (un’intelligenza artificiale che si chiama AmI) spedisce il DustCart più vicino all’interessato, a prelevare la spazzatura e portarla al centro smistamento. Li hanno soprannominati Oscar, quei robot (il riferimento è al signore che faceva prima quel lavoro, non al Muppet).

Può anche sorprendere che nel XXI secolo i robot più avanzati a contatto con l’uomo debbano solo raccogliere spazzatura, modelli Roomba o DustCart. Perché l’ascesa di queste macchine non è stata travolgente come ci si aspettava? Perché se è abbastanza facile sostituire al meglio gli esseri umani per lavori semplici e ripetitivi, trovano invece enormi difficoltà nell’operare in ambienti estranei. Limiti che li tengono incatenati a luoghi monotoni e lineari, come una catena di montaggio, e di solito lontano dagli sguardi della gente. Quando sono alla fine arrivate, le auto senza pilota hanno subito imboccato la via con meno ostacoli: quella dell’aria.

Se i robot vogliono diventare una presenza corrente quotidiana, si pensa di solito, dovranno adattarsi ad operare in un ambiente aperto del tutto non controllato. Credo invece che sia molto più probabile il contrario: in futuro, modificheremo lo spazio per renderlo più robot-centrico, per rispondere alle necessità delle macchine.

Per esempio le strade, oggi del tutto sconcertanti per un robot. Anche la famosa automobile a guida automatica di Google si sposta solo dopo che un essere umano l’ha programmata inserendo "segnali, semafori e tutto il resto" spiega il responsabile Jay Nanncarrow. L’auto della Google non può funzionare in un ambiente che non conosce già, e non è neppure chiaro se sia in grado di gestire eventi imprevisti come semafori aggiunti per lavori, o chiusura temporanea di corsie.

Se il futuro è anche delle auto automatiche, dovremo anche investire parecchio sulle infrastrutture, per adeguarle al robot. Ciò può voler dire segnali radio in corrispondenza degli attraversamenti pedonali, o guide elettroniche inserite nell’asfalto per capire dove fermarsi in caso di incroci complicati. Ci sarà anche bisogno di segnali che avvertano il passeggero che sta uscendo dalla rete delle strade attrezzate alla guida automatica.

Per le vie, negozi e altre attività aggiungeranno al tipo di visibilità attuale anche quella elettronica. Già oggi in Corea i pendolari possono fare la spesa in metropolitana scansendo immagini di alimentari sui muri delle pensiline. L’introduzione massiccia di sistemi robotizzati a basso costo potrebbe anche voler dire un grande ritorno del negozio tradizionale, dove i cliente arriva con una lista e si rivolge all’addetto.

É quanto già accaduto alla nuova biblioteca James B. Hunt della North Carolina State University costata 115 milioni di dollari. L’ateneo la presenta come il proprio "simbolo di una nuova era di sviluppo". Fra le novità di questa nuova era, c’è che agli studenti non è più consentito girare liberamente per gli scaffali, come si è fatto per generazioni. I due milioni di volumi saranno in sale climatizzate sotterranee, a cui ha accesso esclusivamente un impianto robotizzato. Queste scaffalature occupano solo una minima parte dello spazio che si prendevano prima, e la consegna è di gran lunga più rapida (con questo sistema dovrebbe anche finire il vecchio vizio di tenersi troppo libri che possono anche servire ad altri). Insomma invece di progettare un robot in grado di muoversi nella biblioteca, l’Università ha concepito l’intera biblioteca attorno al robot.

Ma cosa potrebbe accadere se si introducessero i robot anche in altri aspetti della nostra vita? Rendere le strade adatte alle auto che si guidano da sole può essere abbastanza facile, visto che si tratta di un ambiente già piuttosto controllato e standardizzato, dall’organizzazione planimetrica alla segnaletica. Le strade sono anche gestite da un’autorità centralizzata, il che rende relativamente semplice introdurre le modifiche necessarie, quindi non dovremmo sorprenderci troppo se diventasse normale progettare strade leggibili dalle macchine. A Peccioli, i ricercatori hanno introdotto parecchi accorgimenti per guidare DustCart. É stata contrassegnata una particolare "corsia per robot " dipinta di giallo, per separare la macchina dal traffico normale ed evitare ingorghi nelle vie più strette. C’è anche una segnaletica rivolta agli automobilisti per avvertirli della presenza di questo insolito collega. L’area è del tutto coperta da Wi-Fi ad alta velocità e telecamere a circuito chiuso, che garantiscono un contatto costante coi droni, e ci sono segnali dappertutto nella zona di raccolta della spazzatura per guidare DustCart.

Ma una maggior diffusione di robot non significa solo realizzare ambienti più controllati; vuol dire anche rendere i nostri spazi il più possibile leggibili alle macchine. I codici QR evoluzione mutante di quelli a barre non sono nulla di nuovo, ma si stanno oggi affermando grazie all’enorme diffusione degli smartphone. Anziché concepire sistemi di lettura ottica simili al nostro, diventa assai più facile sostituire al testo scritto qualcosa che è leggibile alla macchina, ma incomprensibile agli esseri umani. Improbabile che si possa rinunciare del tutto alle nostre normali informazioni, per passare a una scacchiera di icone, ma se vogliamo che degli androidi ci servano al banco della spesa o trasportino i pazienti in barella in ospedale, dovremo almeno accettare il diffondersi di questa forma di bilinguismo.

Stiamo vivendo una digitalizzazione di massa dei nostri dati. Si prevede che enormi proporzioni delle informazioni quotidiane, dal giornale alla corrispondenza, passino a un formato gestibile digitalmente. Mentre gli archivisti lavorano a mettere a disposizione interi cataloghi storici di materiali scritti. Il futuro ci riserba anche molto di più, portandoci verso un mondo tutto leggibile dalle macchine.

postilla

Comprensibile e in parte anche condivisibile, l’entusiasmo dell’adepto per un mondo che vede spuntare ogni giorno dappertutto i segni dell’ascesa trionfante del robot, nella forma poco inquietante e assai diversa dalle problematiche domande di Isaac Asimov (che paiono loro, fantascienza in negativo, per certi versi).

Però, se ripensiamo col senno di poi ad esempio a tutti i guai portati dall’automobile alla forma delle città e del territorio, o allo schematismo con cui certa cultura architettonica e urbanistica novecentesca ha inglobato l’entusiasmo per la macchina delle avanguardie artistiche, qualche problemino in effetti sorge. Certo non ci aspetta un futuro da rincoglionimento ameboide, tutti lì come un nerd da barzelletta a guardare ad occhi spalancati un apparecchio che vive in nostra vece.

Ma ci tocca, ragionevolmente, evitare sia il solito atteggiamento da diffidenza contadina (che poi sotto sotto ci fa accettare quasi tutto, se ce lo propongono nel modo giusto), sia appunto l’accettare tutto quanto come dono del cielo, fino alla santificazione dei suoi angeli vista dopo la morte di Steve Jobs.

L’urbanista consapevole dovrebbe saperlo: la differenza, nel bene e nel male, è un po’ come quella fra le utopie sociali ottocentesche e il sogno immerso nel verde alla Silvio Berlusconi e dintorni. Ci sono un sacco di vie di mezzo, o anche del tutto nuove, da inventarsi e/o esplorare (f.b.)

Titolo originale: Pakistan gated community sparks controversy – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini

Lungo curatissimi prati e casette marciapiedi in perfetto ordine scendono il pendio della collina artificiale di fianco a steccati bianchi, coi bambini che giocano e i vicini che si scambiano saluti.

Il grande quartiere si chiama Bahria — " Vieni nella tua casa esclusiva" recita la promozione — e gestisce in proprio raccolta rifiuti, scuole, pompieri, moschee, rete idrica, polizia di pronto intervento: una specie di stato perfettamente efficiente dentro a un altro stato che efficiente non lo è affatto. E tutto quanto è garantito senza neppure pagare le bustarelle indispensabili fuori, precisano gli abitanti.

"Mi piace abitare qui" racconta Abdul Rashid, ultrasessantenne ex impiegato governativo in pensione. "É come abitare in un piccolo paese tranquillo e garantito: pulizia, servizi che funzionano, la famiglia si può rilassare. Se si presenta qualunque problema, si dà un colpo di telefono alla sicurezza".

La stridente presenza di questo quartiere di ceto medio alto, in un paese tanto violento, ha avuto la strada spianata anche dai militari. Grazie alle leggi dell’epoca imperiale britannica, che assegnavano terre alle truppe amiche, l’esercito oggi controlla circa il 12% delle superfici di proprietà pubblica del Pakistan, secondo alcune stime. E nella propria posizione privilegiata è in grado di coinvolgere con vantaggi reciproci e facilitazioni grossi costruttori.

Bahria e il suo corrispettivo militare Defense Housing Authority insieme coprono una superficie doppia rispetto alla città di Rawalpindi, piazzaforte a circa 30 minuti dalla capitale Islamabad.

Nella zona elegante di Safari Villas, tra la Sunset Avenue e College Road, Mohammad Javed, 69 anni, dà un’occhiata al suo giardinetto prima di rientrare nella casa da tre stanze sull’angolo, e accomodarsi nell’angolo divano beige davanti all’ultrapiatto televisore Samsung. I prezzi vanno dai 25.000 ai 60.000 dollari, fuori portata per la maggior parte dei pachistani.

Ha avuto un gran successo, Bahria, non solo tra chi aveva dei soldi e stava qui, ma anche tra chi torna dall’estero. Come Javed, gestore di un distributore di benzina in Canada rima della pensione, spera di continuare anche qui il suo stile di vita nordamericano. Il muro di cinta protettivo attorno a Bahria dà sicurezza, spiega, anche se ancora non si fida a far venire qui i parenti, per timore che succeda qualcosa di brutto fuori. "Ci vediamo in Thailandia o in Canada".

Difficile criticare i pachistani che si proteggono dietro le mura private, quando sono in crescita attentati suicidi, imboscate a sfondo politico, irrequietezza diffusa, ovvio che si sia preoccupati. Ma si teme che questo progetto possa allargare la distanza fra ricchi e poveri, oltre ad essere dannoso per l’ambiente.

L’edificazione si espande e divora terreni agricoli, alimenta un traffico da incubo, distrugge i rapporti sociali, commenta l’architetto Jamshaid Khan, che progetta le case di Bahria e altrove. In tutta la gated community non ci sono campi da calcio né da cricket, neppure biblioteche: non sono cose da cui si guadagna.

"Mi sono offerto di progettarle gratis, le biblioteche, anche di regalare dei libri" ci racconta nel suo studio stipato di lucidi. "Non le hanno volute".

Questo tipo di quartieri sottolinea anche lo squilibrio economico.

"Non è bello" commenta il sarto trentenne Mohammad Ameen, che abita giusto fuori dal cancello di ingresso di Bahria, col metro appeso attorno al collo. "I pachistani ricchi fanno la bella vita, e noi soffriamo. É uno stato dentro lo stato. L’energia che consumano provoca a tutti gli altri cadute di tensione".

Il settore foreste di Rawalpindi accusa Bahria di essersi allargata troppo su aree non di propria competenza. Ci sono ricorsi in tribunale che sostengono un trattamento troppo di favore grazie ai contatti con polizia, politica locale, magistratura. La gestione non ha voluto rispondere alle nostre domande.

Questa settimana l’amministratore generale di Bahria, il colonnello in pensione Saeed Akhtar, è stato arrestato insieme al supervisore Muhammad Iqbal con l’accusa di aver acquisito circa 70 ettari di superficie con documentazione falsa. L’avvocato del gruppo, Malik Waheed Anjum, dichiara al giornale Express Tribune che Bahria è vittima di altri documenti falsi, quelli di proprietà prodotti dal fisco.

Tutto il progetto è partito dall’allora piccolo costruttore Malik Riaz negli anni ‘80. La concorrenza si rivolgeva ai super ricchi, lui ha cominciato a costruire per l’emergente ceto medio, diventando il più importante operatore di tutto il Pakistan.

Secondo i critici l’impero di Riaz a Bahria è troppo condizionato dai legami con gli ambienti militari. Ayesha Siddiqa, autrice di Military Inc: Inside Pakistan Military Economy, sostiene che è grazie a quei legami se si sono acquisiti i terreni, restituendo poi il favore ad alti ufficiali sotto forma di immobili.

"Anche i migliori, quelli che hanno fama di non essere corrotti, alla fine si sono ritrovati con due o tre immobili. Vantaggi per tutti".

Le cifre ufficiali affermano che i militari possiedono poco meno di cinque milioni di ettari di terreni, vale a dire il 12%, delle superfici statali del Pakistan, spiega la Siddiqa, di cui la metà direttamente controllata da ufficiali in servizio o in pensione, in un paese dove ci sono venti milioni di contadini senza terra.

"Nessuno salvo i militari ha un potere del genere". L’amministrazione di Bahria ha appena emesso un bando pubblico rivolto ad alti ufficiali in pensione, per importanti incarichi nel gruppo- prosegue la Siddiqa – e sta qui la chiave per avere altro potere”.

Ma per chi ci abita, come l’imprenditore alimentare Shaheryar Eqbal, sono tutte questioni marginali se si pensa a quanto vantaggi comporta Bahria.

"Il governo dovrebbe consideraci un modello, e realizzarne altre. L’esercito ha un accordo, che funziona a Bahria. Tutto funziona. Il Pakistan certo supererà la fase del terrorismo, ma la chiave del futuro è qui".

URBANIZED: made urban in nature; taking on urban characteristics. Si può iniziare da queste definizioni per raccontare l’ultimo lavoro del regista newyorchese Gary Hustwit che si intitola, appunto, Urbanized, (qui il trailer ufficiale) la cui traduzione letterale “rendere urbana la natura” o “assumere caratteristiche urbane” restituisce quella dimensione di perpetuo movimento e cambiamento che ogni città ha nel proprio dna e che, a fronte di mutamenti economici e sociali sempre più veloci, rischia di condannarla all’ingovernabilità.

Più del 50% della popolazione mondiale vive in aree urbane e prima del 2050 la percentuale è destinata a raggiungere il 75%. A fronte di questi spostamenti demografici cosa succederà al supporto fisico (case, strade e tutto quello che compone lo spazio urbano) destinato ad ospitare i nuovi arrivati? Per cercare di comprenderlo, e di raccontarlo, Hustwit interroga architetti, urbanisti e politici su oltre quaranta progetti urbani che si propongono di affrontare le nuove sfide della città contemporanea: mobilità, politiche ambientali, spazio pubblico, sviluppo economico e sociale, solo per citarne alcune.

Un ampio campionario di tecniche urbane che ha innescato un esercizio progettuale e di confronto tra politica, professioni e cittadinanza, catalizzando l’interesse dell’opinione pubblica sul futuro delle città: quali scelte e politiche intraprendere per migliorare la qualità degli spazi urbani, per aumentare il verde, per spostarsi più facilmente? Come trasformare i tessuti edificati abbandonati per rispondere in modo efficace alle domande delle metropoli contemporanee? Poter vedere come risposte progettuali diverse, ma nate dalla stessa domanda, producano forme, e quindi esiti, molto differenti ha innescato un formidabile meccanismo di partecipazione collettiva in cui ognuno si è sentito chiamare in causa non solo per fare valere i propri diritti ma anche per esternare le proprie idee e speranze maturate nel personale esercizio quotidiano di pratiche urbane.

La tournée organizzata per presentare Urbanized sembra infatti aver attirato l’attenzione di amministratori, tecnici e semplici abitanti, dando l’avvio a un acceso dibattito che, partendo dai temi affrontati nel film, è arrivato ad occuparsi dei problemi dei singoli contesti locali. Ed ecco che il Sindaco di Toronto ha dovuto in tutta fretta ritirare un progetto, presentato solo qualche giorno prima, di fronte a una nuova consapevolezza e capacità di critica (che potremmo chiamare post-Urbanized), in virtù della quale l’opinione pubblica ha demolito, ma solo metaforicamente, la sua proposta di recupero del litorale.

L’opera di Hustwit dimostra, un po’ inaspettatamente, un rinato interesse per i temi delle politiche pubbliche e delle trasformazioni della città da parte dei destinatari finali: i cittadini, finalmente consapevoli che dietro ogni cartello di “lavori in corso” può nascondersi un progetto che migliorerà le loro condizioni di vita oppure un’ennesima occasione persa con tanto di sperpero di denaro pubblico e finalmente consapevoli che la possibilità di scelta spetta anche a loro.

Non ci resta che attendere l’uscita di Urbanized in Italia, per vedere l’effetto che farà, augurandoci che possa ridestare l’attenzione di un’opinione pubblica che sembra sempre più rassegnata a vivere in contesti urbani brutti e poco funzionali, nei quali ogni giorno si deve affrontare una vera e propria lotta alla sopravvivenza, cercando di evitare buche stradali, che in alcuni casi sono vere e proprie voragini, di scansare cadute di tegole e di calcinacci provenienti da edifici fatiscenti e precari, di arrivare in orario al lavoro nonostante i ritardi cronici dei mezzi di trasporto pubblici, di accaparrarsi l’ultimo posto disponibile nell’unica panchina all’ombra dell’unico parco esistente nel raggio di un kilometro e di fare jogging senza rischiare la vita ad ogni attraversamento pedonale. In fondo trovare risposte ad alcuni di questi modesti e comuni problemi porterebbe a migliorare la vita di molte persone comuni, forse addirittura di tutti.

Accusare i tories al governo di essere degli ipocriti in fondo è una specie di complimento, almeno per chi pare convinto di essere infinitamente più brillante, intelligente e dalla parte giusta rispetto al popolino credulone da cui ha ricevuto mandato e fiducia incondizionata. Ma, appunto, in questi giorni la stampa accusa alcuni politici di ipocrisia, di predicare bene e razzolare male in una materia delicata come quella delle trasformazioni urbanistiche, di cui si sta discutendo una radicale riforma attesa come la manna dai soliti costruttori graniticamente convinti (lo sono in tutto il mondo da diversi secoli) che se non ci fossero tutte queste inutili limitazioni alla loro attività diventeremmo ricchi e felici nell’arco di un paio di mesi al massimo.

Perché i politici della maggioranza britannica sarebbero degli ipocriti? Ma perché da un lato stanno facendo circolare un Planning Policy Framework dove si afferma solennemente che “la risposta alle proposte di trasformazione è SI”, dall’altro come riferisce documentatamente Damian Carrington sul Guardian del 10 settembre si scopre che uno degli sport preferiti di questi campioni del fare, almeno quando sono a casa loro nel cuore del collegio elettorale, è l’opposizione ai progetti. Proprio così, a partire dal mastino responsabile per le aree urbane Eric Pickles, che solo cinque o sei anni fa le sparava grosse (udite udite) contro lo sprawl metropolitano che si mangia preziose fette di territorio agricolo degradando ambiente e paesaggio. Peccato che lo facesse solo ed esclusivamente contro la realizzazione di case popolari, secondo lui imposte dall’alto da una pianificazione centralizzata di stampo sovietico (Gordon Brown: figuriamoci).

A quella del massimo responsabile ministeriale per la riforma urbanistica si aggiungono poi le ipocrisie del suo sottosegretario alla casa, che le case fortissimamente non le ha proprio volute, quando erano popolari e avrebbero sconciato con le loro proletarie forme il sacro suolo del suo collegio elettorale e idilliaco luogo di residenza a Welwyn (zona un tempo famosa per la città giardino equa e solidale). E ce ne sono tante altre, di queste apparenti variazioni sul tema predicare bene ma razzolare male, promuovere la cosiddetta crescita di mercato sulla testa degli altri, ma starsene rigorosamente su terreni protetti dall’alluvione prodotta dalle proprie decisioni. Però viene da chiedersi: è davvero ipocrisia, questo comportamento della ineffabile casta politica, o si tratta a guardare meglio della più coerente interpretazione dei nuovi tempi? Cosa stanno proteggendo, con le unghie e coi denti, questi influenti personaggi, se non la propria, sacrosanta e intoccabile così come ribadito in infiniti discorsi, privata proprietà? Naturalmente allargata a quel po’ di sfondo urbano/rurale che, come ci insegnano gli agenti, è indispensabile a contestualizzare e valutare l’immobile.

Fra i passaggi più innovativi del nuovo Planning Policy Framework (si scarica anche direttamente da questo sito, allegato all’articolo di John Vidal sulla riforma) c’è l’introduzione dei Piani di Zona o di Quartiere, pensati coerentemente all’idea di società e spazio locale del governo di coalizione, per “ conferire alle comunità poteri diretti per decidere sulle proprie aree. … sviluppare un’idea di quartiere condivisa, fissare norme per le trasformazioni e l’organizzazione spaziale, rilasciare concessioni tramite ordinanza”.

Chi vuole riformare così il sistema urbanistico ritiene che si tratti di un modo per far sì che gli abitanti autodeterminino il proprio spazio, anche se certo coerentemente a un’idea più vasta, e quindi a partire dalle specifiche indicazioni del piano comunale, che può essere ad esempio anche incrementato nelle previsioni insediative.

Più costruzioni di quante non ne preveda il piano comunale? E chi mai le accetterebbe? Qui casca l’asino: le accetta chi è costretto ad accettarle, chi si vede promessi i classici posti di lavoro in cambio di metri cubi, e di quei posti di lavoro (o posti letto) ne ha un disperato bisogno, perché i ragazzi stanno tutto il giorno per le strade, magari pronti a una replica delle rivolte dell’estate 2011. Ci si può permettere di fare gli schizzinosi nimbies, via via sempre un po’ più refrattari alle trasformazioni, man mano cresce il potere della specifica community che quella zona occupa: potere economico di solito, meglio ancora se puntellato dall’influenza politica del ministro, sottosegretario, presidente di ente pubblico, che abitano al civico tal dei tali. In fondo, i cosiddetti tories “ipocriti” non lo erano affatto, limitandosi semplicemente ad anticipare nei fatti la loro riforma, che sancisce il privilegio come prassi comune.

Pochi anni fa, la studiosa Anna Minton nel suo Ground Control (Penguin 2009) aveva indicato la pericolosa direzione in cui si stavano incamminando i programmi di riqualificazione urbana pubblico-privati, sempre più tesi a una privatizzazione dello spazio pubblico, a realizzare sacche di esclusione sempre più ricche e impenetrabili, dequalificandone parallelamente altre inesorabilmente e specularmente povere. Non era affatto una distorsione, ma solo un piccolo sintomo di qualcosa di più profondo, che prova a quanto pare a riprodurre nel nostro sistema metropolitano occidentale certi squilibri, certe differenze di potenziale, che già il mitico mercato ci mostra normalmente ad esempio con le delocalizzazioni produttive. Che meraviglia, poter vendere a carissimo prezzo, a chi se lo può permettere, un bel quartiere fortificato, guardato giorno e notte, circondato da un ambiente reso ancora più minaccioso proprio dalla privazione/privatizzazione che quel quartiere ha determinato!

Adesso l’urbanistica del privilegio diventa legge: le grandi trasformazioni, le opere strategiche, saldamente in mano agli organismi decisionali centrali. Il localismo nelle mani di organi frammentati, strutturalmente egoisti, con potere contrattuale differenziato a seconda del reddito medio. È un enorme salto indietro, che con la scusa ideologica dell’individuo sovrano, del cittadino proprietario, declina una sorta di ciclopico Padroni a Casa Nostra!.

Peccato che, per soprannumero, oltre ad essere falso lo slogan suoni anche incompleto. Prima di diventare Padroni a Casa Propria, come vi spiegheranno ancora quelli dell’agenzia immobiliare, tocca finire di pagare le rate. Altrimenti siete (siamo) fuori dai giochi. Nessuna ipocrisia, a saperlo leggere.

In un articolo di fondo pubblicato recentemente dal New York Times, il premio Nobel Paul Krugman dà elegantemente dell’imbecille a uno, anzi due, dei candidati Repubblicani di punta alle prossime elezioni presidenziali. E con ottime ragioni, visto che sia l’ex governatore del Texas Rick Perry, sia quello del Massachusetts Mitt Romney, paiono sostenere posizioni a dir poco oscurantiste nei confronti della scienza, in particolare per quanto riguarda cambiamento climatico e evoluzione. I temi sono quelli classici della destra (non solo americana, ricordiamoci che anche da noi pullulano decerebrati del genere, pure in posizioni di potere). Ovvero l’uomo mica discende dalla scimmia che è brutta e pelosa, ma l’ha creato Dio con l’argilla. E poi il riscaldamento del pianeta non c’entra niente col bruciare petrolio, ma è solo un complotto mondiale degli scienziati. Unica differenza tra i due, è che il rude texano Perry alle sciocchezze pare crederci sul serio, mentre l’ex furbo imprenditore Romney lo fa per ingraziarsi un elettorato che dà già per scontato di essere pura creazione divina (al 75%) e che chi studia e fa ricerca sia per sua natura un comunista da eliminare (all’89%).

Rischiano, entrambi, di diventare Presidente degli Stati Uniti d’America. E poi di invitare un altro scrittore di fantascienza – come faceva Bush – a discutere il global warming nella prospettiva del complotto, o magari accogliere Borghezio che parla al popolo della superiorità ariana, per via dell’argilla più pura usata da Dio nell’atto creativo. C’è poco da ridere, di fronte a questa ottusa pervicacia nel negare l’evidenza, perché in fondo si tratta solo della punta dell’iceberg di un atteggiamento molto, ma molto, più diffuso, che rallenta oltre ogni misura la nostra capacità collettiva di adattarci a un mondo che cambia. E per forza, ci risponderebbero gli antievoluzionisti: l’evoluzione non esiste, a cosa volete adeguarvi? Prendiamo le città.

Verso la metà del XX secolo (quando senza saperlo già stavamo scaldando il pianeta con gli scarichi delle auto) raggiungeva il massimo impulso l’idea, cullata da Henry Ford prima, restituita in affascinanti immagini poi da Frank Lloyd Wright e altri, dell’estinzione dell’uomo urbano così come era esistito sino a quel momento. Giù giù sino al nostro Domenico Modugno che non molto tempo dopo dal palco di San Remo dava il suo Calcio alla Città, aggiungendosi alle falangi di chi considerava ormai l’ambiente urbano alla stregua di una specie di obbligatoria valle di lacrime, da attraversare part-time giusto per guadagnarsi il sacrosanti diritto alla villetta immersa nel verde, alla privacy del giardino di proprietà eccetera. In fondo era lo sbocco logico del concetto di città macchina intuitivamente criticato dalla Metropolis di Lang ai Tempi Moderni di Chaplin: un puro apparato di potere economico finalizzato alla produzione di ricchezza, che nulla concedeva se non la pura sopravvivenza di chi la rendeva possibile. La vita era altrove.

Contemporaneamente stava prendendo piede un percorso opposto di riflessione, ben riassunto dagli studi empirici di Jane Jacobs, e soprattutto dall’approccio comprensivo e sistematico del suo primo mentore, William H. Whyte. La differenza sostanziale fra queste riflessioni e quelle tradizionali antiurbane che le avevano precedute, non sta tanto nel merito, ma nel metodo. Certo la critica della città industriale, dagli utopisti alla città giardino cooperativa di Howard alle ipotesi urbanistiche del primo ‘900 deriva da analisti statistiche, sanitarie, sociologiche, ma nell’epoca in cui nascono gli studi sulla città moderna ormai impera il luogo comune della spinta conformista verso la divaricazione fra città luogo della produzione, e gli spazi dispersi come nuovo habitat umano privilegiato. Il che fa comodo a un complesso intreccio di interessi. Si capisce così, forse, l’incredibile successo interdisciplinare e giornalistico della cosiddetta teoria Behavioral Sink dell’etologo John B. Calhoun. Il fatto è che, impostazione scientifica a parte, dava ancora una bella spintarella alla villettopoli universale.

In breve, Calhoun aveva costruito una colonia chiusa di topi, dove al crescere della densità per aumento di popolazione in uno spazio definito si raggiungeva un picco corrispondente a un crollo senza rimedio di tutta la struttura sociale. Niente più riproduzione, niente più famiglie, solo conflitti senza sbocco, solitudine, attesa della morte per vecchiaia. Un boccone troppo ghiotto per chi sognava di vendere a ogni cittadino una fettina individuale di ogni cosa, prodotto, servizio, identità, anziché contare in tutto o in parte sulla costruzione metropolitana collettiva. Non a caso vennero abbastanza messi in sordina (basta relegarli nelle cosiddette polverose riviste di settore) gli studi successivi che spiegavano come i ratti sono ratti e gli umani sono umani, o che confondere una grossa tana chiusa con una metropoli moderna non tiene conto di cose enormi, a partire dalla possibilità di spostarsi tanto per dire la prima che viene in mente. Macché, come con Bush, anche qui spuntò l’utile innocente scrittore di fantascienza, si chiamava John Brunner e il romanzo Tutti a Zanzibar! L’ho visto ancora negli anni ’80, questo romanzo di fantascienza sulla sovrappopolazione, il controllo delle nascite ecc., in una bibliografia di corso appesa a un bacheca del Politecnico di Milano, presumibilmente per parlare di densità urbane, di forma del quartiere eccetera.

William H. Whyte nel suo City (1988) ricorda quanta fatica gli ci volle negli anni ’60 per trovare finanziatori al progetto di ricerca sui comportamenti sociali negli spazi urbani, in un mondo scientifico evidentemente egemonizzato dalla comoda teoria antiurbana del Behavioral Sink. Che era da un lato sicuramente scientifica nei metodi, e assai poco invece nell’estensione a un ambito diverso, esattamente come l’ingegneria applicata massicciamente e acriticamente agli organismi urbani dal XIX secolo. Ma per fortuna arrivò la National Geographical Society, col medesimo fondo che di solito finanzia quelle spedizioni di entusiasti dottorandi nella jungla nera alla ricerca di popolazioni sperdute e comportamenti ancestrali. E Whyte riuscì a iniziare quel progetto ancora in corso di evoluzione oggi, sostanzialmente dedicato alla promozione dell’ambito pubblico, che vede fra i suoi più noti esegeti e specialisti l’architetto danese Jan Gehl. Cosa c’è, alla base di queste ricerche sulla qualità urbana in rapporto all’uso concreto quotidiano da parte di abitanti e utenti? L’osservazione sistematica, e poi l’uso di categorie generali per trasformare tale osservazione in ipotesi interpretative.

Non è sicuramente un caso se oggi, in una città dove pare impossibile immaginare gli scenari dipinti solo trent’anni fa nel film di John Carpenter Fuga da New York, le osservazioni di Whyte si traducono in realtà nei progetti del Planning Department diretto dalla sua allieva Amanda Burden, o in quelli della responsabile ai Trasporti Janette Sadik-Kahn che vedono al centro la consulenza di Jan Gehl, gli spazi pedonali, la permeabilità, la possibilità di esprimere comportamenti sociali, l’esatto contrario della diffidenza contadina che domina sia il suburbio delle gated communities (Repubblicane creazioniste) che la densità coatta dei ghetti topaia socio-urbanistici residui dell’era modernista. E non è sicuramente un caso se la città densa, compatta, ricca di relazioni ed occasioni di socialità, interazione, conflitti ricomposti, si è rivelata anche l’ambiente più reattivo alla calamità naturale, a uno degli eventi climatici estremi che, ci ripete la scienza, diventeranno sempre meno eccezionali negli anni a venire.

Perché, se osserviamo con una minima attenzione quanto accaduto con l’uragano Irene, si dimostra inequivocabilmente la superiorità del contesto insediativo urbano moderno rispetto agli altri. La grande metropoli ha naturalmente saputo esprimere, come abbastanza ovvio, il classico ruolo delle strutture tecnologiche pensate anche per proteggere l’uomo dai rigori della natura, con tutti i limiti emersi non molto tempo fa per esempio a New Orleans di fronte a Katrina. Ma c’è qualcosa di meglio e di più, che ha funzionato egregiamente: la capacità di convivenza consapevole e organizzata, ben dimostrata dalla gestione dell’emergenza: altro che Behavioral Sink da eccesso di densità, e soprattutto altro che superiorità implicita del pioniere-capofamiglia, che nella sua casetta suburbana fa da baluardo alle tenebre che avanzano! Emergenza dichiarata, piano di evacuazione e cautela in atto, sinergia fra sistema edificato, impianti tecnologici, comportamenti collettivi. Pare casuale, ma dove ci sono stati i danni più gravi? Nelle zone suburbane a bassa densità, Staten Island per esempio.

E per forza i Repubblicani adesso si sbracciano in sgangherate critiche sull’eccesso di allarmismo, sulla sopravvalutazione del pericolo e compagnia bella. Basta guardare i risultati di un evento che poteva essere una catastrofe. Il programma strategico PLANYC2030 per la sostenibilità urbana promosso dal sindaco Bloomberg (Repubblicano anomalo che alla scienza ci crede quanto ai soldi) vorrebbe spingere ancor di più in questa direzione, ovvero far dipendere sempre meno il funzionamento tecnologico, economico e sociale della città dai grandi impianti e interventi hard di emergenza, e sempre più da una fitta rete di prevenzione e adattamento, fatta insieme di natura, attività diffuse, comportamenti, spazi integrati, ambiti pubblici. Dove si attenui sempre più la separazione netta fra spazio/tempo del lavoro e altre attività, dove non esista più la specializzazione segregata indotta dallo zoning un secolo fa. Ma, vorremmo dire noi, dove tutte queste cose comprendano anche chi non è milionario: in fondo sta qui la distinzione fra destra e sinistra. O ameno dovrebbe stare.

Certo è facile lanciare slogan interessanti quando si sta all’opposizione, come nel caso del Labour londinese dopo la sconfitta di Ken Livingstone e l’ascesa dell’enfant prodige conservatore Boris Johnson. Si aggiunga che il rapporto Housing Policies for London appena pubblicato non è in effetti il programma politico ufficiale, ma un contributo ad esso, inoltrato in primo luogo al ministro ombra per le aree urbane Caroline Flint, graziosa signora che da sottosegretario alla casa nel governo Brown si è distinta tra l’altro per una serie di dichiarazioni sulle eco-città di bassissimo profilo, dove a volte si scivolava direttamente nello sciocchezzaio della “misura d’uomo” e dintorni. Ma anche fatta la dovuta tara, il documento elaborato dal gruppo di lavoro londinese sulla casa, e discusso nel corso di alcune sessioni nello scorso agosto, appare ricco di spunti. Tralasciando le tematiche finanziarie e di orientamento sociale, pur importantissime se si pensa a quanto avvenuto nel governo conservatore dopo le rivolte, val forse la pena qui di concentrarsi sugli aspetti più legati allo sviluppo urbano. Chi volesse scendere ne dettagli può comunque scaricarsi il rapporto integrale in pdf allegato al termine di questa nota, che vuole proporre del rapporto alcuni temi, adattati e commentati rispetto a una sensibilità più generale.

Il quartiere ambientalmente e socialmente sostenibile

La domanda che potremmo porci è: esiste una idea di città di sinistra?

Forse si, se ciò significa fissare principi generali che leghino obiettivi sociali a una struttura spaziale definita da aspetti come le densità, le qualità edilizie e urbanistiche, il tipo di godimento degli alloggi, il contesto ambientale generale.

E far sì ad esempio che i principi non restino a galleggiare nell’aria, a pura legittimazione di chi li afferma programmaticamente, ma si traducano in tempi certi in qualità tangibili, secondo un programma che metta in primo piano le necessità più urgenti, ad esempio dei servizi, dei trasporti pubblici ecc. Di conseguenza coinvolgendo in modo equilibrato sia le risorse pubbliche che private in termini economici, progettuali, di ricerca.

L’obiettivo è di costruire un tessuto urbano non ghettizzato, sia sul versante funzionale che su quello sociale, inteso dal punto di vista del reddito, delle fasce di età, della condizione professionale e culturale.

Un primo strumento, anche in controtendenza rispetto a certi commenti recentissimi a proposito di alcuni motivi sottesi alle rivolte urbane, è quello di fissare al 50% di qualunque intervento di trasformazione edilizia la quota delle abitazioni economiche entro la circoscrizione londinese. Non basta, visto che nell’accezione di casa economica poi rientrano giustamente diverse fasce di riferimento sociale. Di questo 50% allora un 70% sarà di case sociali in affitto, e il 30% di tipo intermedio, ovvero quanto oggi i conservatori chiamano “affitto controllato” e che non è affatto rivolto ai redditi bassi.

Intervenire sulla casa non significa solo costruire abitazioni, e farlo con l’idea di una società composita ed equilibrata, ma anche porre le basi di una città sostenibile. La pianificazione urbanistica qui deve porre in primo piano la qualità dei quartieri, edilizia, degli spazi pubblici, dell’ambiente riguardo alle emissioni e ai consumi energetici, dei servizi, del verde. Non va scordato ad esempio che una buona gestione dei bilanci energetici alla fine si traduce in un intervento sociale, riducendo il carico delle bollette per gli abitanti. Lo stesso vale per i trasporti e i rapporti spaziali diretti con le attività economiche, che riducono i costi monetari e di tempo della mobilità. Da questo punto di vista sarà fondamentale coordinare politiche per la casa e grandi e piccoli nodi infrastrutturali, in grado di porre le basi per una ottima accessibilità multimodale, a servizio delle varie utenze. Ciò significa anche operare trasversalmente e in modo coordinato alle varie scale e responsabilità dei piani. Il che, pare di capire, è l’esatto opposto dell’ideologico localismo decisionale in urbanistica alla base della Big Society di Cameron.

La centralità dei quartieri secondo i laburisti è del tutto alternativa al modello localista e sostanzialmente nimby dei conservatori, e si basa sulla consultazione, partecipazione, e ripristino di un ruolo centrale degli organismi para-regionali di programmazione cancellati dall’attuale governo, che nel campo della casa avevano iniziato un approccio di area vasta non certo accusabile di particolarismi, e soprattutto coerente agli obiettivi di evitare ghetti qualsivoglia, come avvenuto in altre epoche coi complessi di case popolari di stampo modernista.

In questa prospettiva, a livello nazionale, è auspicabile un rilancio degli interventi in territori sinora emarginati e particolarmente colpiti da fenomeni di crisi locale e spopolamento, dalle aree rurali (dove allo sprawl si affianca spesso una forma di gentrification) a quelle montane, alle zone turistiche dove la speculazione delle seconde case colpisce contemporaneamente qualità ambientale e della vita per i residenti.

Città compatta e tutela del territorio

Tutto quanto detto al paragrafo precedente, a ben vedere, riguarda in genere una idea di città futura e di qualità complessiva dell’insediamento. Potrebbe però apparire abbastanza declamatorio parlare di sostenibilità senza toccare un tema centrale come il contenimento del consumo di suolo. Il documento programmatico del Labour è dedicato specificamente alla casa e dunque non si è ritenuto di esplicitare in capitoli o sezioni apposite questo tema, che però sottotraccia emerge chiarissimo, a partire da affermazioni come questa: “le nuove costruzioni rappresentano comunque solo una piccolissima parte delle abitazioni. Sono quelle già esistenti, e destinate ad esistere probabilmente per secoli coi ritmi attuali di sostituzione, ad essere al centro dell’interesse per un utilizzo migliore, interventi di miglioramento, gestione diversa”.

In termini generali, si introduce così il tema delle aree già urbanizzate, delle infrastrutture esistenti, la classica diatriba fra sostenitori di un approccio in stile new town e l’assai più realistica centralità delle densificazioni locali, del riuso edilizio e urbanistico, della modernizzazione e ristrutturazione anziché sola ricerca di nuovi spazi.

Una strategia di riuso a scala vasta ha come premessa un censimento delle abitazioni esistenti e dell’uso attuale, degli appartamenti sfitti, o sottoutilizzati, degli usi impropri o abusi.

Certo non è il caso di intervenire in modo poliziesco esclusivo e privilegiato nel sistema delle assegnazioni di case pubbliche in base a requisiti familiari e di reddito (grandi superfici con pochissimi abitanti, cessazioni di effettivo diritto per uscita dalle fasce protette, casi di abusivismo), ma è certo che il sistema delle assegnazioni, degli affitti privati convenzionati, va rivisto nei metodi e nel controllo, per ritornare a far svolgere alle case popolari davvero il proprio ruolo.

Del resto in una logica di interventi coordinati anche la mobilità degli inquilini potrebbe uscire dalla sola alternativa fra godimento di un diritto ed esclusione, aprendo incentivi a passaggi intermedi e miglioramento delle proprie condizioni abitative.

A partire dalla riqualificazione integrata del vecchi complessi monoclasse, da riarticolare sia fisicamente che nelle modalità di assegnazione. Questo dell’intervento sui complessi di case popolari esistenti introduce in senso proprio l’altro tema generale, ovvero il privilegiare le zone urbane esistenti, risparmiando per quanto possibile aree agricole, di greenbelt, e in genere superfici aperte.

In nome della realizzazione di case economiche, e spesso sulla spinta di interessi speculativi dei costruttori, si finisce spesso per introdurre varianti nei piani, dove aree libere diventano urbane, magari lontano dai nodi di servizio e infrastrutturali, penalizzando così sia l’ambiente che gli abitanti. Secondo i laburisti (e direi secondo chiunque sia minimamente attento a questi temi) occorre invertire la rotta indicata dal governo attuale, che non privilegia più il recupero delle aree dismesse, anche coinvolgendo in modo coordinato vari operatori pubblici, privati, cooperativi.

Titolo originale: Evicting tenants guilty of rioting – Scelto e tradotto da Fabrizio Bottini (al link del testo originale anche la serie completa delle lettere)

Vi scrivo per chiarire la nostra posizione riguardo agli sfratti degli inquilini di case comunali giudicati colpevoli nelle rivolte urbane. Si tratta di una scelta estrema, e non certo dell’unica opzione. Vengono attentamente valutati i singoli casi delle famiglie così da verificare dove e come offrire sostegno. Qualunque decisione viene presa caso per caso, e non si tratta affatto di decisioni "draconiane" come è stato detto. Esiste una gerarchia di interventi, e ci sono almeno cinque livelli di gravità dei casi e cinque relative forme di azione, prima che si inizi solo a valutare la possibilità di sfratto.

Siamo favorevoli alla richiesta di Ed Miliband perché un apposito organismo indipendente esamini in profondità i problemi sociali che possono aver pesato sulle recenti rivolte. E non si può considerare la questione come un fatto di semplice contrapposizione fra una prospettiva di destra e una di sinistra. Come ha già scritto il Guardian , ben il 75% degli arrestati ha precedenti, nel quasi 80% dei casi si tratta di persone maggiorenni. É un problema di legalità e di ordine pubblico. E se non sono le pubbliche amministrazioni ad applicare la legge, chi altri dovrebbe farlo? Gli inquilini delle nostre case sono responsabili delle proprie famiglie. Non siamo noi a inventare le leggi, né possiamo improvvisare, ma dobbiamo invece applicarle, come si aspettano da noi tutti gli altri inquilini.

Dobbiamo imparare tante cose, e siamo stati davvero colpiti in questo caso dalla risposta immediata e spontanea degli abitanti, degli esercenti, e in particolare dei giovani. Abbiamo organizzato una serie di “dialoghi di quartiere” in tutta la circoscrizione, per raccogliere informazioni e opinioni su da farsi. Spero che tutte le amministrazioni locali dove ci sono state rivolte possano sviluppare iniziative simili, così che si possa anche trar vantaggio da conoscenze collettive più ampie.

(Cllr Ian Wingfield è vicepresidente del consiglio municipale di Southwark, Londra)

postilla

Sembrerebbe tenersi tutto, nel linguaggio attento dell’amministratore pubblico di centrosinistra, se non fosse appunto per quella negazione di una prospettiva diversa fra destra e sinistra. La legge è legge, ma che legge è quella imposta dal governo di coalizione di centrodestra, per punire anche con lo sfratto gli inquilini di case popolari condannati per le rivolte e i saccheggi dell’agosto 2011? Senza tirare in ballo grandi categorie di giustizia, che c’entra la casa con la fedina penale? Certo gli elettori di ceto medio e operaio che abitano gli stessi quartieri potranno anche manifestare consenso, per chi li libera con questa specie di stratagemma di vicini indesiderabili e antisociali. Ma ripeto: che c’entra il diritto alla casa con la fedina penale? Per la destra c’entra eccome, perché nella nazione di proprietari, nella prospettiva del capitalismo compassionevole, la casa pubblica è una graziosa elemosina, giusto per mantenersi l’esercito di disgraziati da cui pescare per i lavori umili, la polizia, l’esercito da mandare in Afghanistan ecc. ecc. Ma la sinistra da queste leggi, anche se magari gli effetti piacciono ad alcuni loro elettori, dovrebbe tenersi a distanza di sicurezza (f.b.)

Titolo originale:This wrecking ball is Osborne's version of sustainable developmentScelto e tradotto da Fabrizio Bottini



Impassibili di fronte alla realtà, impenetrabili alle critiche: il ministro per le aree urbane, Eric Pickles e quello alle finanze George Osborne a quanto pare non hanno imparato proprio nulla dalla crisi economica. Sostengono che un meccanismo di autorizzazione urbanistica più semplice ed elastico sia “la chiave della ripresa economica”. Ma sono proprio i paesi dell’Europa più colpiti dalla crisi – Grecia, Italia, Spagna, Irlanda – ad avere meccanismi più deboli e subire dispersione insediativa. I paesi che si sono dimostrati più reattivi sono invece quelli con sistemi strutturati e insediamenti compatti.

Un sistema urbanistico solido rappresenta certo solo uno dei vari fattori in campo, ma è sintomatico di una cultura politica in grado di porre gli interessi nazionali sopra quelli egoistici di pochi, e la prospettiva di lungo periodo invece del denaro facile. Pickles e Osborne cercano di fare a pezzi il sistema urbanistico britannico con la stessa motivazione per cui vogliono abolire le norme sulle banche: libertà d’azione per le imprese, nepotismo, plutocrazia, esattamente le forze che ci hanno cacciato nel pasticcio attuale.

Meno pianificazione significa esasperare i problemi economici, perché si spostano capitali da funzioni produttive a speculative; le città si degradano svuotandosi; un localizzazione mal concepita delle attività economiche, insediamenti sparsi e lunghi tempi di spostamento frenano l’efficienza economica. Solo domenica il New York Times riferiva come al raddoppio delle densità urbane la produttività aumenti fra il 6% e il 28%.

Obiettivo di un sistema di pianificazione urbanistica non deve essere la crescita economica. Ma far sì che si risponda alle necessità umane tutelando al tempo stesso l’ambiente. Però, se abbiamo l’obiettivo di crescere, comunque un’urbanistica forte serve meglio allo scopo rispetto a una debole. L’attacco governativo alla pianificazione probabilmente potrebbe produrre gli effetti peggiori su entrambi i fronti: devastare l’ambiente e devastare l’economia.

Insieme al servizio sanitario nazionale e al resto del welfare state, le nostre leggi urbanistiche derivano dalla grande esperienza politica del dopoguerra, nella quale tanti cittadini di tutte le classi avevano perso la vita per il paese. L’idea di fondo era che la Gran Bretagna, salvata dal sacrificio collettivo, mai più sarebbe stata governata ad esclusivo vantaggio di ricchi e potenti. Una promessa rimangiata da partiti politici controllati da una ristretta elite.

Settimana scorsa sul Daily Telegraph Geoffrey Lean sosteneva che l’assalto al sistema di pianificazione sia spinto soprattutto dai compunti giovani metropolitani della coalizione governativa, che si sarebbero sostituiti ai “vecchi gentiluomini cacciatori di campagna”. Mentre in realtà sono proprio i vecchi cacciatori ad aver guidato l’attacco al’urbanistica, attraverso la loro Country Land and Business Association. Posti di fronte alla scelta tra abbastanza indefiniti “valori rurali” e un po’ di soldi facili, paiono non aver alcun dubbio sulla direzione in cui puntare il fucile. É il ritorno del vecchio potere, contro la democrazia.

Secondo il documento guida governativo sull’urbanistica in via di discussione, sarà quasi impossibile non autorizzare le trasformazioni, per quanto distruttive o dannose siano. Salvo nelle aree ufficiali di green belt, parchi nazionali, zone di riconosciuto alto valore paesaggistico, tutto è consentito purché non esistano enormi motivazioni contrarie, e anche su questo punto ci si è già mossi in anticipo. Recita il documento che le amministrazioni locali devono “approvare ovunque possibile tutte le proposte

Fine della politica di riuso delle aree dismesse (e di tutto ciò che è già in qualche modo urbanizzato) prima di pensare ad espandersi su spazi aperti. Greg Clark, il sottosegretario responsabile, ha ripetutamente reso poco chiare le cose su questo aspetto. Il nuovo documento parla chiaro: a pagina 51 dice che “ viene eliminata a livello nazionale la priorità nel riuso delle superfici già urbanizzate”. Fine dell’impegno a ridurre al minimo con la localizzazione degli insediamenti i tempi di pendolarismo e la congestione stradale, salvo nei casi in cui gli impatti siano “ gravi”, ma poi nel documento non si capisce cosa significhi esattamente questo “ gravi”. E fine dell’idea che la campagna, al di là di alcune aree specificamente tutelate, debba comunque essere difesa.

Sono le ruspe avanzanti, la vera idea governativa di sviluppo sostenibile. “ Edilizia vuol dire crescita”, recita il documento, e “ senza crescita non ci sarà alcun futuro sostenibile”. Quindi così diventa sostenibile qualunque trasformazione, da approvarsi senz’altro. “ Siamo preventivamente favorevoli allo sviluppo sostenibile”, ribadisce il documento, e questa deve essere “ la base di partenza per qualunque progetto, decisione … la risposta alle proposte di trasformazione è SI”.

C’è un elenco dei tipi di sviluppo sostenibile che le amministrazioni ora dovrebbero approvare. Stazioni di servizio sull’autostrada, grandi arterie verso un aeroporto, grandi cartelloni pubblicitari. E se non sono sostenibili loro, cosa lo sarà mai?

Per valutare le intenzioni reali del governo c’è un ottimo metodo. Se esiste un atteggiamento preventivamente favorevole alle trasformazioni sostenibili, dovrebbe anche essercene uno contrario a quelle insostenibili. Ma frugate tutto il documento e troverete al massimo in un caso una decisa diffidenza per le miniere di carbone. Il che va benissimo, ma non c’è altro. Qualunque altra trasformazione diventa, automaticamente, sostenibile.

C’è di peggio. Il documento afferma che le amministrazioni devono dare comunque l’autorizzazione nel caso in cui i loro “ strumenti di pianificazione non siano aggiornati”. Come osserva l’esperto di urbanistica Andrew Lainton nel suo utilissimo blog, è il 95% delle amministrazioni locali, che al momento dell’approvazione finale del documento non sarà dotata di strumenti aggiornati. A gennaio John Howells, segretario parlamentare di Greg Clark, spiegava alla Federazione Immobiliare Britannica che in questi casi si può costruire “ quello che si vuole, dove si vuole e quando si vuole”. Lainton sottolinea anche che quando un piano non è aggiornato, secondo il documento, non esistono salvaguardie per respingere progetti contrastanti. Così non significa solo indebolire il sistema urbanistico, ma accantonarlo totalmente.

L’arma che il governo usa per tutelare gli interessi degli speculatori è una minaccia emotiva: se non accettate il nostro piano diventeremo un paese di senzatetto. Molto interessante, notare in che modo gente che non ha mai e poi mai manifestato alcun interesse per i più poveri, improvvisamente sembri prendere le loro parti, quando c’è da far guadagnare i più avidi tra i ricchi.

Nessuna persona ragionevole può contestare il fatto che nel paese ci sia un grandissimo bisogno di case, specie di case economiche. E nessuno discute il fatto che le si debba adeguatamente autorizzare. Ma non è certo il sistema urbanistico ad aver impedito che negli ultimi anni di costruissero delle case, approvando l’80% dei progetti, sono i soldi. Nella revisione di bilancio dell’anno scorso il governo – senza dubbio motivato dalla sua ritrovata solidarietà verso i bisognosi – tagliava del 60% le disponibilità per le abitazioni economiche. Il sistema del credito si è prosciugato, la domanda solvibile ristretta, i costruttori falliscono. E non è certo indebolendo la pianificazione urbanistica che si risolvono questi problemi.

La plutocrazia ha i suoi eterni cicli. Spinge contro qualunque ostacolo alla propria distruttiva avidità. Ci riesce, e provoca un crollo. Viene salvata a costi enormi, dalle stesse forze che aveva avversato: regole, urbanistica, fisco, intervento pubblico. Si riprende, si scrolla la polvere di dosso, e subito si rivolta contro coloro che l’hanno salvata. L’assalto all’urbanistica fa parte del ciclo. Ma i danni dei plutocrati non saranno di sicuro reversibili.

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