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Fabrizio Bottini
Wilmaaa: dammi lo Sprawl!!
8 Aprile 2006
Recensioni e segnalazioni
Una complimentosa recensione al recentissimo libro di Robert Bruegmann che critica i critici dello sprawl, dedicata soprattutto agli indignati disattenti

Alla fine ce l’ha fatta: anche se pubblicato a ridosso della fine dell’anno, il libro di Robert Bruegmann Sprawl: A Compact History è entrato nei dieci lavori più votati per la classifica 2006 di Planetizen. Un bel risultato, che in fondo non sorprende visti il tema, il titolo “compatto” ad effetto, e soprattutto i contenuti sostanzialmente favorevoli all’insediamento diffuso, secondo una linea raffinata e innovativa. Tanto raffinata e innovativa che anche un osservatore certo non sprovveduto come Robert Fishman ha scritto che si tratta di una brillante sfida ai luoghi comuni sull’argomento, documentatissima e di respiro internazionale, e che dell’autore riflette “ il profondo rispetto per le scelte di milioni di famiglie a favore dell’abitazione a bassa densità”. E in effetti la tesi sostenuta e lo sviluppo critico scelti da Bruegmann sono notevoli: lo sprawl non sarebbe una patologia novecentesca legata all’automobilismo di massa, ma un percorso lungo, per molti versi inevitabile, che dagli albori delle civiltà urbane rappresenta una naturale evoluzione delle città in crescita. Ne risulta, secondo la breve scheda critica proposta da Planetizen, “ un lavoro accessibile e conciso, che chiede di … riconsiderare la necessità di una comprensione più complessa, non necessariamente negativa, del fenomeno”.

Un approccio intrigante sin dall’inizio, con l’autore che descrive una planata d’aereo verso la pista di una grande area metropolitana, quando la fusoliera si inclina e sul finestrino all’uniforme sfondo del cielo si inizia a sostituire il tappeto verde e ondulato del paesaggio. Appaiono piccoli segni di presenza umana, che si fanno via via più definiti e regolari, mentre l’aereo perde quota e contemporaneamente si avvicina al corpo centrale del sistema insediativo. Scorrono sino a scomparire sotto il profilo dell’ala, dapprima le formazioni appena percettibili dell’ esurbio, con le abitazioni distanziate e simili ad antichi castelli che presidiano un territorio seminaturale; poi le varie fasce discontinue ma visibilmente più strutturate dei suburbi, di fascia esterna, intermedia, e più interna sino a fondersi con la periferia urbana estrema. Alla fine compaiono sull’orizzonte gli imponenti grattacieli del Central Business District mentre già si profila la pista di atterraggio, ma qui l’Autore ci ha già implicitamente ed esplicitamente comunicato che “ Per i miei scopi ho ritenuto che la mia migliore fonte di informazione fosse lo stesso ambiente costruito. Gran parte della mia ricerca è consistita nell’andare in giro e guardarmi attorno”. Un guardarsi attorno che come già accennato non si limita certo ai finestrini dell’aereo o dell’auto, ma comprende una notevolissima mole di attente letture. A partire da quella della parola: SPRAWL, dalla sua grafia e modo di presentarsi delle vocali e consonanti, prese una per una o nell’insieme. Povero sprawl, si dice Bruegmann, come ti presenti male già all’inizio! Quasi per forza produci per istinto un atteggiamento negativo nei tuoi confronti, che poi ispira tutte le letture pregiudizialmente negative del fenomeno. Anzi, di una miriade di fenomeni, tutti raccattati dentro a quella orribile parolaccia, ma diversi, a volte per niente studiati, definiti in modo vario e variabile e seconda dei casi e delle stagioni culturali. Insomma un guazzabuglio, dove anche elementi a prima vista inoppugnabili, come il concetto di “densità” cambiano senso a seconda delle convenienze dei vari crociati che allo sprawl, sempre e comunque, si opporranno. Sprawl che, secondo l’Autore, pur in tutte le infinite varianti si concreta sempre nella casa di qualcun altro, mai nella propria.

Un approccio simpatico e abbastanza convincente, un po’ da cartone animato con quella parola SPRAWL che inizia a stiracchiarsi esattamente come poco prima scorrevano le lontane chiazze dell’insediamento diffuso sul finestrino dell’aereo. Il fatto è che l’atmosfera da cartone animato comincia da qui, pur se in modo discreto, a stiracchiarsi un po’ troppo.

A partire dal percorso storico e internazionale che ha distinto da subito il lavoro di Bruegmann rispetto alla miriade di altri sul medesimo argomento e quasi col medesimo titolo. Perché questo rappresenta indubbiamente il primo (e più ripreso dalla stampa non specializzata) fondamentale punto di forza del libro: non c’è l’abituale – spesso anche un po’ confuso – sfondo novecentesco USA da cui spuntano improvvise a milioni le famiglie middle-class, complete di villetta, doppia auto, falciatrice e moralismo da quattro soldi. Qui le nebbie si diradano già da molto, molto prima, e in posti molto, molto lontani dai soliti Oak Springs, Weeping Willows e compagnia bella. Si parte, ad esempio, dalla constatazione che pure gli antichi romani, almeno quelli che potevano permetterselo, se la filavano appena possibile dall’ urbs per antonomasia, a raggiungere le frescure riposanti del suburbium. Qui il lettore dovrebbe essere già in trappola, perché questo non glie l’aveva mai raccontato nessuno: nessun complotto della destra repubblicana, della highway gang militar-industriale, o dell’inventore delle casette Cape Cod, William Levitt; solo patrizi romani, e poi signori rinascimentali, di epoca barocca, e intraprendente paleoborghesia londinese. Tutti, insomma, appena riescono a permetterselo economicamente, scappano dalla città per periodi più o meno lunghi, per tornarci quando gli affari chiamano. Descrizione come sempre documentata, equilibrata, accattivante anche per l’uso continuo di termini moderni e correnti: esurbio, suburbio, sprawl.

Interessante, senza dubbio, ma mi ricordava qualcosa. Qualcosa che mi è tornata in mente con chiarezza parecchio più avanti nella lettura del libro, ma che evidentemente già da qui aveva iniziato a ronzarmi nell’orecchio. Era una citazione dalla Bibbia, esattamente dal Levitico, molto usata (dai non specialisti ma attivisti e propagandisti “politici”) all’epoca delle New Towns britanniche. Diceva, più o meno, il Signore ordinò di lasciare tutt’attorno alla città una grande fascia verde, perché ci potessero pascolare gli armenti e si potessero coltivare gli orti; e gli attivisti dicevano: ecco qui, da dove nasce l’idea della Greenbelt, dalla parola del Signore e dalla notte dei tempi, mica dalla pensata estemporanea di qualche architetto o planner dirigista! Alla lettera, per i veri appassionati, la citazione recita: “ Le case dei Leviti situate nelle città, possono sempre venir riscattate […] I loro campi suburbani però non vadano venduti, perché sono loro possessione perpetua” (Levitico, 25, 34).

Con questo vago ricordo per la testa, ho riguardato quella rassegna di Bruegmann sullo sprawl nella storia umana, e mi è parso proprio di vederci, diluito e reso più simpatico e convincente da una leggerezza da cartone animato, il medesimo zelo di certi attivisti howardiani dell’ultima ora con le loro citazioni bibliche. E mi sono apparse delle decise forzature quelle immagini che, sotto sotto, consapevolmente o no, evocavano paterfamilias pendolari bloccati in un ingorgo di bighe, o gli amici di Boccaccio in villa che nelle pause del Decamerone falciano il prato o ridipingono lo steccato. In altre parole, il tentativo di attualizzare l’enorme mole di riferimenti storici (comprese città quasi mitiche dell’Asia antica) a mostrare che lo sprawl è componente irrinunciabili dell’urbanesimo, ha cominciato a sembrarmi una specie di saga Flintstones, dove Fred, Barney, Wilma e soci, riproducono in tutto e per tutto uno stereotipo di vita quotidiana del suburbio americano, facendoci entrare qualunque particolare, purché ricostruito in pietra e senza elettricità o motori a scoppio. Perché, a pensarci bene, il “pendolarismo suburbano” su biga o carrozza, di senatori romani o borghesi parigini, è un concetto non molto più realistico delle scorribande di Fred e Wilma allo shopping mall di Bedrock il sabato pomeriggio.

Il che, naturalmente, non significa superficialità, o mancanza di attenzione per tutto ciò che non conferma direttamente il punto di vista centrale. Le dinamiche della diffusione insediativa emergono ampiamente documentate dai vari filoni storico-geografici considerati (escluso quello della megalopoli terzomondiale, che come precisato dall’Autore rappresenta un caso a sé per l’assenza del rapporto diretto di tipo occidentale sprawl/sviluppo economico). Si aggiunge, in molti casi, anche l’equilibrata miscela di rassegna della letteratura scientifica, di quella di informazione o “militante”, e infine dell’osservazione diretta, a riprendere e dar corpo a quel suggestivo incipit dal finestrino d’aereo.

Ma pur nell’impeccabile incedere fra varie realtà e punti di vista sullo sprawl, le sue manifestazioni, le politiche pubbliche e le evoluzioni sociali, si nota quello che sembra sia un ricorso alla tecnica mediatica del “panino”, ovvero proporre ciclicamente per ogni tema un gruppo di opinioni favorevoli, uno contro, e un altro di favorevoli in chiusura. A questo si aggiunge una non sempre esplicita (ma piuttosto avvertibile) tendenza a mettere in ridicolo gli aspetti di attivismo e militanza che spesso hanno accompagnato – in pratica dal movimento delle città giardino a cavallo dei due secoli in poi – il dibattito sulla suburbanizzazione. Ed è piuttosto facile, per uno studioso di razza come Bruegmann certamente è, abituato a gestire in modo articolato fonti ricche e varie, scovare crassi esempi di goffaggine benintenzionata, o ricostruire processi in cui la “ricerca” non è davvero tale, ma si limita ad ammucchiare documentazione favorevole ad una tesi precostituita, da difendere a oltranza.

E infatti Bruegmann si guarda bene dal farlo, come emerge ad esempio dalla lettura del Saggio Bibliografico allegato in appendice, dove compaiono in bella evidenza noti lavori anti-sprawl come Building Suburbia di Dolores Hayden, Asphalt Nation di Jane Holtz Kay, o la “bibbia” del new urbanism, Suburban Nation.

Salta agli occhi con altrettanta evidenza, però, anche l’incredibile schematismo con cui viene presentato e liquidato un caposaldo dell’urbanistica moderna come il Greater London Plan di Patrick Abercrombie. Quelle pagine complesse e articolate, frutto non solo del lungo lavoro di coordinamento fra uffici, informazioni, centri decisionali, ma anche della stratificazione storica dal primo attivismo garden-city, attraverso gli studi metropolitani di Raymond Unwin, sino alle varie Commissioni tematiche a cavallo fra anni ’30 e periodo dei bombardamenti. Beh, è un po’ sconcertante vedere tutto questo trattato come intuizione arbitraria e un po’ schematica, nel solco del movimento moderno con qualche megalomania alla Le Corbusier, lo stesso Abercrombie ridotto a un autocrate, pure un po’ grigio e burocratico. E questo perché? Per lo stesso motivo che Robert Fishmann ha riassunto nel “ profondo rispetto per le scelte di milioni di famiglie”, le quali a quanto pare possono scegliere meno davanti a una fascia metropolitana a verde agricolo, e in generale a qualunque forma di programmazione che non segua automaticamente qualunque tendenza “libera”. Certo, la schematicità di molti piani grandi, grandiosi, o solo roboanti, ha provocato un sacco di guai nella storia. Ma ripetere per qualche dozzina di volte e su casi diversi che, orrore, la limitazione degli spazi per le lottizzazioni di villette ha provocato “aumento dei prezzi”, non sembra gran che come giudizio storico.

Ma si tratta, appunto, di osservazioni parziali, che nulla tolgono a quello che credo debba essere considerato il valore centrale, senza dubbio innovativo, del libro. Quello in cui riesce magnificamente lo storico dell’architettura di Chicago, è sottolineare la debolezza del consenso su temi anche ampiamente condivisi (come è diventato lo sprawl) quando il cane informativo e culturale inizia a mordersi la coda e a citarsi addosso. Non a caso sempre nell’ambito aeronautico che senza dubbio predilige, Bruegmann nota come lo sprawl sia ormai diventato argomento da copertina per le riviste gratuite delle compagnie, e di conseguenza “sospetto”. Naturale che il luogo comune sia sospetto, per l’accademico ricercatore che vuole aprire nuove frontiere, magari anche a chi vedrebbe la cosa da prospettive del tutto opposte, tranne che nel metodo. Ma questa è un’altra storia.

Il Levitico, tra l’altro recita “ non uscite dal recinto del tabernacolo; se no perirete, perché l’olio della consacrazione è sopra di voi” (10, 7), e una cosa che si può immediatamente fare è di trasgredire.

Con metodo, attenzione, e magari guardando verso l’alto, di tanto in tanto. Oltre che dall’alto di un volo di linea.

I dati completi del libro sono: Robert Bruegmann, Sprawl: a compact history, University of Chicago Press, 2005, $27,50; qui su eddyburg_Mall sono già stati proposti un breve estratto, e l’articolo autopromozionale di Bruegmann sul Guardian di qualche settimana fa.

il PDF di questa recensione
Sprawl Compact

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