Titolo originale: Urban myths – Traduzione di Fabrizio Bottini
Londra, con la sua lunga e illustre storia, coi suoi infinitamente vari paesaggi urbani, è una delle più grandiose città del mondo. È anche una delle meno addensate è più diffuse [ sprawling]. Quest’ultima affermazione farà senza dubbio accigliare qualcuno. Dopo tutto, la parola “ sprawl” nella mente di molte persone evoca le immagini del suburbio americano del dopoguerra. La Gran Bretagna, d’altra parte, in particolare nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, ha adottato alcune delle più rigide leggi di regolamentazione dello sviluppo territoriale del mondo, ed è di solito considerata all’avanguardia nella lotta allo sprawl.
Ma molto di quanto crediamo di conoscere a proposito dello sprawl, è sbagliato. Nel caso di Londra, è chiaro che la città alla fine dell’ultima guerra si era già allargata prodigiosamente per secoli. Anche il termine “ sprawl” nella sua attuale accezione corrente sembra essere di conio britannico, e non americano. Di fatto la Gran Bretagna è stata pioniera sia nel produrre sprawl che nel tentare di arrestarlo. Le conseguenze, qui come nel resto del mondo sviluppato, sono state ambigue.
Oggi una coalizione di architetti, urbanisti, accademici, funzionari pubblici e altri in tutto il mondo ricco ritiene che lo sprawl sia economicamente inefficiente, socialmente iniquo, ambientalmente dannoso, e brutto. Lo sprawl, affermano, è il fattore principale determinante qualunque cosa, dall’obesità degli abitanti del suburbio al riscaldamento globale. Ritengono anche che lo sprawl sia un fenomeno recente, peculiarmente americano, spinto da un eccessivo uso dell’automobile, e risultato di insufficienti politiche pubbliche. Vista la diagnosi, la cura appare chiara. È necessario modificare le politiche in modo tale da poter fermare lo sprawl e orientare la nuova crescita verso insediamenti meglio progettati e più compatti.
Questo insieme di diagnosi e prescrizioni è diventato tanto diffuso che anche i giornali distribuiti sugli aerei, sempre sensibili alla possibilità di urtare qualunque potenziale cliente, hanno pubblicato articoli di biasimo allo sprawl e celebrazione della “ smart growth”. Quando persone oneste raggiungono un simile livello di unanimità di opinione su qualunque argomento, forse è il caso di iniziare a sospettare. Nel caso dello sprawl, anche solo un po’ di riflessione fa pensare che il grande edificio delle opinioni di seconda mano poggi su fondamenta traballanti.
L’idea che lo sprawl porti con sé necessariamente un maggior consumo di energia, un incremento degli spostamenti in auto, viaggi pendolari più lunghi e più traffico e inquinamento, ad esempio, è difficile da sostenere. Se ciò fosse vero, i tempi di pendolarismo sarebbero ridotti nelle città più dense e più lunghi in quelle diffuse. La realtà si avvicina invece di più al contrario. I tempi pendolari nelle città americane sono notevolmente più ridotti che nelle città europee. E l’area ad alta densità di Tokyo, nonostante uno dei migliori sistemi di trasporto pubblico del mondo, ha tempi fra i più lunghi.
Non c’è alcun paradosso. Mentre le città si diffondevano, anche i posti di lavoro si muovevano dal centro insieme alle case. Non c’è alcun motivo intrinseco per cui una vita in ambiente a bassa densità debba portare ad un maggior consumo energetico o produrre più inquinamento dell’alta densità. In realtà, a densità sufficientemente basse è possibile immaginare gli abitanti suburbani che si producono quasi tutta la propria energia tramite impianti solari, eolici, geotermici, prelevando acqua e restituendo localmente quella utilizzata al terreno, tutto senza i grandi sistemi centralizzati che erano necessari a sostenere le città industriali dense del XIX secolo, che noi spesso confondiamo con la condizione urbana naturale.
Storicamente la maggior parte delle città ha preso la propria forma non perché qualcuno riteneva fosse quella ideale, ma per le necessità della difesa, dell’accessibilità, dell’energia. Ora che le nuove tecnologie ci hanno allentato il guinzaglio, non c’è motivo per cui le città non possano avere un aspetto molto diverso da quello che avevano nel XIX secolo. Ed è esattamente questo che in realtà sta avvenendo nelle città del mondo, con le densità in centro che cadono e gli insediamenti esterni che fioriscono, portando superstrade, centri commerciali, lottizzazioni di case unifamiliari. Come è possibile, che lo sprawl stia accelerando in tutto il mondo, di fronte a tutti gli sforzi per arrestarlo? È la storia a fornire alcuni interessanti indizi.
Uno dei problemi, dell’attuale idea condivisa dello sprawl è il fatto che i crociati anti- sprawl non siano mai stati in grado di mettersi d’accordo su cosa significhi esattamente il termine. Ciò non sorprende. Esattamente come quella che per alcuni è un’erbaccia per altri è un’apprezzata pianta locale, così ciò che per qualcuno è sprawl, per altri è l’amato quartiere. Sprawl, come molte parole utilizzate dai riformatori di tutte le risme, allo stesso tempo conferma gli orientamenti di chi la usa e condanna chi non è d’accordo. Non sentirete ma qualcuno usarlo per descrivere il proprio quartiere: sprawl è dove abitano gli altri, prodotto di scelte sbagliate e mancanza di discernimento da parte di altri.
Usando una definizione più neutrale di sprawl, ovvero insediamento a bassa densità con poca pianificazione generale, è possibile affermare che lo sprawl è antico quanto la città stessa. Era già in gran voga nel mondo antico, ad esempio quando i ricchi Romani uscivano verso le località marine.
Questo sprawl avveniva perché le città dense, dall’inizio della storia umana sino a tempi piuttosto recenti, erano posti terribili da abitare. Non semplicemente sgradevoli, ma spesso malsani e insicuri. Per questo motivo nel corso della storia, quando un gruppi di cittadini raggiungeva un’agiatezza sufficiente, molti di loro si procuravano case in zone a bassa densità attorno alle città. E in ogni caso saliva un grido di allarme dal “club dei veri credenti”.
Dato che Londra era ricca, e la tranquillità della campagna inglese le aveva consentito di fare a meno delle mura difensive prima delle altre città del continente, sperimentò il più vasto decentramento d’Europa. Già nel XVIII secolo, la spinta dei ceti agiati verso quelle che erano le piazze residenziali a bassa densità di Westminster aveva fatto di Londra una delle aree urbane meno dense d’Europa.
Durante il dominio dell’industrializzazione nel XIX secolo il tessuto urbano esplose all’esterno, spingendosi per chilometri verso la campagna circostante, coi costruttori che tiravano su migliaia di casette per famiglie di possibilità relativamente modeste. Là dove in pochi avevano obiettato, quando una manciata di famiglie agiate si era costruita grandi case in campagna, ci fu costernazione da parte dell’ élite intellettuale, ora che migliaia di famiglie erano in grado di godere un po’ della stessa privacy, mobilità e possibilità di scelta. Gli osservatori descrivevano le nuove zone suburbane come brutte e monotone, prodotto di avidi speculatori senza cura per la civiltà e la bellezza. Naturalmente, ora questo sprawl del XIX secolo è considerato universalmente una parte del centro di Londra, e l’antitesi di tutto ciò che non funziona negli insediamenti contemporanei alla periferia urbana.
Il termine “ sprawl” diventa per la prima volta comune in Gran Bretagna negli anni first successivi alla prima guerra mondiale. Viene utilizzato per denigrare le casette in linea che stavano iniziando a crescere in gran numero attorno a Londra. L’area della città negli anni ’20 aumentò solo del 10% in popolazione, ma raddoppiò la sua superficie. La reazione era prevedibile. “Stiamo facendo dell’Inghilterra un ridicolo pasticcio” iniziò la classica geremiade.
Ma, ancora una volta, condizioni urbane e norme estetiche da quei tempi si sono così modificate che molti interventi degli anni tra le due guerre, se realizzati oggi, potrebbero facilmente passare in molti casi per “ smart growth”. A causa di queste continue ridefinizioni, il termine è sopravvissuto per essere utilizzato in ciascuna epoca successiva come etichetta della nuova offesa perpetrata al paesaggio, che si tratti delle ranch houses di Los Angeles negli anni ‘50, delle “ McMansions” su grossi appezzamenti nell’esurbio americano degli anni ’90, o dei negozi big-box che compaiono oggi ai margini di ogni città europea.
Nello stesso modo in cui la Gran Bretagna è stata all’avanguardia del mondo nel produrre sprawl, ha anche guidato il mondo nei tentativi di combatterlo. L’episodio più rilevante ebbe luogo dopo la seconda guerra mondiale. Con le città del paese in rovina e l’economia decimata, il governo del Labour riuscì ad attuare alcune delle misure da tempo richieste da urbanisti come Thomas Sharp, la più famosa delle quali fu il piano regionale per la Grande Londra redatto da Patrick Abercrombie nel 1944. Per dare agli urbanisti il potere di mettere in atto questo e altri piani il governo del Labour approvò una serie di leggi culminate nella scelta draconiana di nazionalizzare tutti i diritti edificatori.
Come ha dimostrato lo storico dell’urbanistica Sir Peter Hall, il sistema che ne risulta era al tempo stesso radicale e conservatore. Radicale era il tentativo da dare una forma definitiva alla metropoli diffusa tramite un atto di governo. Ciò fu ottenuto imponendo una greenbelt attorno all’area urbanizzata e, ad accogliere la popolazione in eccesso in una città considerata ancora troppo densa, un’area di “traboccamento” oltre la fascia verde, dove lo sviluppo era organizzato entro “ new towns” accuratamente pianificate. La gran parte della nuova edificazione sarebbe stata realizzata dal governo. Quella privata avrebbe dovuto più o meno fermarsi.
Ad un livello più elementare, però, questo progetto era conservatore. Presumeva che la forma della città non sarebbe stata lasciata ai capricci del mercato o determinata dalla somme delle scelte delle singole famiglie, ma imposta da urbanisti ben preparati dagli uffici centrali di Londra. E sarebbe stata una trasformazione definitiva. Una volta che l’area centrale si fosse ridimensionata e le new towns satellite consolidate, tutto si sarebbe fermato.
Abercrombie non aveva previsto l’aumento di popolazione nell’area di Londra, o l’aumento di ricchezza e incremento nella proprietà dell’auto o nella domanda di casa in proprietà.
Le conseguenze dell’offensiva britannica anti- sprawl del dopoguerra sono state vivacemente contestate. Secondo alcuni osservatori il piano di Londra imbrigliò lo sprawl e conservò la preziosa greenbelt. Ma, la greenbelt fu conservata solo al prezzo di forzare più popolazione oltre ad essa verso l’esterno, di fatto urbanizzando l’intero sud-est d’Inghilterra, causando uno sprawl molto più esteso di quanto sarebbe accaduto se la greenbelt non fosse mai stata istituita, e portando ai più alti tempi di pendolarismo d’Europa. E ciò che conta di più, sostengono molti economisti, la limitazione nella disponibilità di terreni necessaria a far funzionare il sistema ha causato una lievitazione dei loro prezzi, che a sua volta ha reso più costoso per gli abitanti della Grande Londra accedere alla casa.
Non sorprende, visto l’ampio incremento dei redditi negli scorsi decenni, in particolare negli anni ’90 del boom, che ci sia stata un’accelerazione dello sprawl in tutto il mondo sviluppato. Sia in Nord America, che in Europa, Giappone o Australia, la densità nei nuclei centrali è in caduta, fiorisce l’edificazione periferica ed esplode l’uso dell’auto privata. Eppure, vista la sua lunga posizione di avanguardia nel decentramento, la densità dell’area di Londra, pur superiore a quella di qualunque zona urbana americana, è di gran lunga inferiore a quella della maggior parte delle grandi città del mondo, il più delle quali sta nei paesi in via di sviluppo.
E, nonostante l’impegno degli urbanisti, lo sprawl attorno a Londra continua. Sir Richard Rogers, che veste il mantello del crociato anti- sprawl crusader, ha scritto dell’Inghilterra negli anni ‘90: “Continuiamo a credere che il futuro sia del suburbio, o meglio dello sprawl suburbano. Negli ultimi 20 anni – in un regime di urbanistica del libero mercato e del laissez-faire – l’area urbanizzata d’Inghilterra è raddoppiata, e abbiamo consentito di costruire 400.000 metri quadrati di centri commerciali extraurbani”.
E tutto questo, nel paese all’avanguardia del mondo per la crociata anti- sprawl!
Ciò non vuol lasciar intendere che lo sprawl non abbia causato problemi. Come qualunque tipo di forma insediativa, chiaramente ne ha creati. Comunque, la storia dello sprawl sembra indicare che la sua permanenza e sviluppo si devono al fatto che ha dato a molte persone comuni qualcosa che apprezzano.
E quale futuro, per lo sprawl? È possibile che il tipo ideale di residenza per la maggior parte delle persone sarà la casa unifamiliare su un grosso pezzo di terreno in campagna. Ma potrebbe anche darsi che, con sufficienti mezzi, la maggioranza possa proferire un appartamento in un quartiere molto denso, come a Islington, vicino ai musei e ai posti di incontro sociale più alla moda. La città è sempre stata il luogo del cambiamento, spesso delle trasformazioni sconcertanti, e ciò rende difficile prevedere il futuro.
Uno di principali ostacoli al tentativo di immaginare tutte le possibilità che si apriranno ai futuri abitanti urbani, è che il concetto di sprawl sia tanto impantanato dentro a presupposti discutibili, su cosa siano state e siano ora le città. Sembra scoraggiare un’analisi più attenta del modo in cui le gente vive davvero, dei modi in cui vorrebbe vivere, e quindi qualunque esplorazione delle azioni politiche che potrebbero consentire alla massima quantità di persone le massime possibilità di scelta, senza danneggiare inutilmente nessun gruppo particolare.
Nota: Robert Bruegmann è professore di Storia dell’arte, dell’architettura e dell’urbanistica alla University of Illinois di Chicago, autore di Sprawl: A Compact History , edito dalla University of Chicago Press. Un libro che è già stato presentato su questo sito in un paio di occasioni attraverso i commenti (di solito molto benevoli) della stampa americana. Lascio però da questo punto di vista ai lettori l’eventuale ricerca di questi contributi, proponendo invece un link a un testo che considero indebitamente e faziosamente bistrattato da Bruegmann (che forse non lo conosce direttamente). Si tratta del Greater London Plan coordinato da Patrick Abercrombie, che non è affatto lo strumento rigido di cui si parla qui sopra, e di cui anni fa ho messo a disposizione il “Preambolo” in originale e tradotto sul mio vecchio sito. Per un'opinione recentissima e un po' più articolata su questi temi consiglio anche il testo inedito, pubblicato qui in forma provvisoria, del pure citato Peter Hall (f.b.)
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