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Re:Common, 31 gennaio 2019. Processo contro i dirigenti della Tirreno Power accusati di disastro ambientale e sanitario colposo per la gestione della centrale a carbone di Novi Ligure, impianto sequestrato nel 2014. (i.b.)

A fine gennaio è cominciato il processo di 26 persone, ex e attuali dirigenti e funzionari dell'azienda e vari componenti dei Cda. L'accusa è di disastro ambientale e sanitario colposo. Sotto inchiesta erano finiti anche politici e amministratori locali, ma la loro posizione è stata archiviata. L'impianto é stato sequestrato nel 2014 per il rischio di inquinamento nonché di mortalità dei residenti e dell'aumento delle malattie respiratorie. Attualmente la centrale è in funzione solo in parte, ma alimentata a metano.
Si leggano gli articoli: RE: Common Stories sulla centrale di Vado Ligure,
Centrale a carbone di Vado Ligure, processo alle porte?, e La lotta contro il carbone di Vado Ligure non è finita. (i.b.)

In anteprima per eddyburg, la sintesi del tavolo sul «Degrado ambientale e profughi, transizione energetica, rinnovabili, decarbonizzazione» al Forum Associazione Laudato Si’: Un alleanza per il clima, la terra e la giustizia sociale del 19 gennaio 2019. (i.b.)

19 gennaio 2019 - Milano
FORUM ASSOCIAZIONE LAUDATO SI’
UN’ALLEANZA PER IL CLIMA, LA TERRA E LA GIUSTIZIA SOCIALE

Un’iniziativa promossa dal gruppo consiliare Milano in Comune con Casa della carità, Osservatorio Solidarietà - Carta di Milano, Associazione Diritti e Frontiere (ADIF), CostituzioneBeniComuni, Associazione Energia Felice, Ecoistituto della Valle del Ticino. Qui il programma completo.

Sintesi del Tavolo Clima
a cura di Mario Agostinelli (coordinatore)

Intervengono:

Massimo Scalia - docente Fisica matematica Università La Sapienza, già presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sulle ecomafie
Karl Ludwig Schibel - coordinatore italiano dell’Alleanza per il Clima delle città europee
Angelo Consoli - direttore dell’Ufficio Europeo di Jeremy Rifkin
Andrea Donegà - segretario Fim Cisl Lombardia

La protezione dell'ambiente o, detta altrimenti, la salvaguardia del creato, deve diventare sempre di più un compito prioritario, vitale, perché non ci impegna soltanto a difendere i beni ricevuti gratuitamente quanto a consegnarli alle generazioni future. Ma finora non c’è stata una diffusione capillare del grido della terra nelle coscienze e nemmeno la politica sembra essersi risvegliata. Forse è prevalsa la preoccupazione di sentirsi continuamente sul banco degli imputati.

L’Enciclica “Laudato Sì’” ricorda che il 20 percento della popolazione mondiale consuma risorse in misura tale da togliere alle nazioni povere e alle nuove generazioni ciò di cui hanno bisogno per sopravvivere. In un pianeta grande ma di dimensioni limitate la produzione e il consumo di oggetti, utili e superflui avviene soltanto sottraendo risorse naturali (acqua, prodotti agricoli e forestali, minerali, fonti di energia) dal pianeta e con l’inevitabile formazione di scorie e rifiuti che rendono meno utilizzabili l’aria e le acque, rendono meno fertile il suolo e, soprattutto sconvolgono irreversibilmente il clima. Più difficile continuare ad abitare.

La falsa narrazione delle destre reazionarie, xenofobe e razziste opera quotidianamente con l’indice puntato contro i migranti. Agita i pericoli e le paure derivanti dal rischio presunto dell’invasione di orde che minaccerebbero l’ordine e il benessere acquisito. Spesso si tratta del benessere di quanti, nel loro orizzonte consumistico, pretendono che le risorse siano messe esclusivamente a loro disposizione.

Viviamo in un sistema ignaro delle persone e dei corpi ed in cui il pensiero dominante, che presuppone che non ci sia spazio per tutti su questo Pianeta e che addirittura non basti una Terra sola, non mette in conto il degrado ambientale né gli effetti di un aumento della temperatura sulle possibilità di sopravvivenza, innanzitutto di chi abita - frequentemente in condizioni di povertà - i territori più vulnerabili. Nel corso di poche decine d’anni sono peggiorate le opportunità di sostentamento e di esistenza che - in maggiore o minor misura a seconda della collocazione geografica - sono esposte all’intensità di eventi climatici. Anziché risalire all’origine - cioè alla responsabilità antropica - di uno dei cambiamenti più rapidi registrati nella storia recente dell’atmosfera terrestre, si applica la forza e si nega il diritto, scaricando non soltanto le conseguenze ma anche i costi della crisi ecologica su chi sta in basso. Il respingimento di quanti cercano di rifugiarsi nei territori meno colpiti, si rivela così brutale da concorrere consapevolmente al rilancio di quelle categorie di esclusione e di identità che sono state all’origine di autentiche tragedie nella storia. Ma non si tratta solo di avversare decisioni perfide: bisogna cambiare registro. Se il clima non diventa un’emergenza per l’umanità tutta, prima o poi tutti saremo migranti. E’ il capitalismo neoliberista e insieme negazionista che ha bisogno di aggiungere la xenofobia alla rapina delle risorse naturali e allo sfruttamento del lavoro, creando così un ulteriore strumento di sfrangiamento sociale. Bisogna prendere atto di una capacità inesauribile di adattamento alla contingenza, che passa dall’individualismo competitivo ad una sorta di “individualismo della paura” (forse questo distingue Berlusconi da Salvini…) contro, ovviamente, l’ecologia integrale e in opposizione così incomponibile da prevedere l’esclusione dai diritti di cittadinanza - e perciò di esistenza politica - per gli stranieri costretti a migrare. Lo scopo è quello di lucrare consenso in sovranità “protette” per perpetuare l’ingiustizia sociale più generale, intrinseca ad un modello di crescita innaturale. Si conferma per antitesi quanto giustizia climatica e sociale procedano necessariamente in parallelo. In definitiva, ci troviamo per la prima volta di fronte ad uno schema economico e tecnocratico che, mentre cancella la cura della casa comune e la piena occupazione, promuove un’umanità frantumata. Un sistema che caldeggia il superamento dell’umano, da duplicare asessuato e sostituire magari con braccia e intelligenza artificiali.

Non bastano più le chiavi interpretative che ci fornisce la “cassetta degli attrezzi” ereditata da una cultura e da un’idea dello sviluppo continuo, spiazzate dalla velocità dei flussi della globalizzazione e dalla concentrazione della ricchezza. Non siamo affatto - bisogna riconoscerlo - padroni già di un’autentica rivoluzione culturale. Ci proviamo con tutta la memoria ed andando oltre le ricette del passato. Quando il nuovo quadro sarà reso più organico, vista la portata della posta, ci troveremmo – come dice Riccardo Petrella, esagerando, ma non troppo «nelle condizioni dei copernicani segnati a dito dai tolemaici».

Ascoltandoci e scambiando esperienze, ci proponiamo già dalla riunione odierna di cogliere e praticare una direzione diversa da quella della globalizzazione univoca. A questo proposito, una consapevolezza di massa del significato del cambiamento climatico non è rinviabile. L’impresa sta in una torsione che potremmo definire verso il “terrestre”: l’unica prospettiva che risponda ad un’evoluzione dell’umanità con le sue differenze, ma non divisa e in sintonia con la biosfera e il limite della natura. Emergono infatti con sempre maggior evidenza e discontinuità fattori che mettono in relazione il futuro della società umana con la cura per l’ambiente nella sua interezza. La scienza moderna, che ricostruisce quasi per intero la storia e l’evoluzione dell’Universo dalle sue origini, fa emergere la singolarità della vita sul nostro pianeta; spiazza altresì la visione antropocentrica e fornisce l’interpretazione della biosfera come un insieme di processi, di rigenerazioni e di riparazioni che combattono e dilazionano nel tempo il disordine e il degrado. Aver cura coscientemente della Terra diventa l’orizzonte da condividere; negare le implicazioni sociali di questo obbligo e erigere muri per delimitare inclusi e scarti equivale a perdersi irrimediabilmente, oltre a precludere il diritto della pace e l’universalità dei diritti civili e sociali conquistati.

Sia l'economia capitalista che il clima mondiale rappresentano sistemi complessi e dinamici. L'incertezza rispetto al cambiamento climatico e ai suoi effetti economici ha a che fare con l'interazione di questi due sistemi complessi. A peggiorare le cose, sia il sistema climatico che l'economia umana sono sottoinsiemi della biosfera e sono inseparabilmente interconnessi in modi estremamente complessi con innumerevoli altri processi biogeochimici. Molti di questi vengono trasformati dall'azione umana. Secondo l’IPCC siamo molto vicini alla rottura dell’equilibrio, al di là del quale lo stato energetico complessivo del pianeta raggiungerà un punto di non ritorno. E non sarà semplicemente un cambiamento graduale, un aumento del disagio cui adattarsi con mezzi economici e tecnologici. Le previsioni più aggiornate (dall’IPCC al Pentagono) indicano come probabile un cambiamento brusco, con un massiccio sconvolgimento sociale, una ridislocazione incontrollabile di nativi costretti a spostarsi fuori dai loro paesi. Inaspettatamente, le stesse previsioni segnalano un’eterogeneità molto significativa nel peggioramento delle performance economiche e nel tenore di vita medio, proporzionalmente più a sfavore dei paesi ricchi (USA e Brasile) e di quelli con maggior popolazione (India e Cina). In ogni caso, l’instabilità climatica sarà lo scenario delle prossime decadi.

600 milioni di schiavi sono stati deportati nelle Americhe; 250 milioni di nativi sono stati uccisi nel Nuovo Continente; si calcola che 2 milioni di fanciulli lavorino in condizioni massacranti nelle miniere africane e del Brasile. Le strategie economiche delle multinazionali in Asia ed Africa sono tutt’ora la causa per cui una parte consistente di emigranti parte per evitare regimi di schiavitù. Ma sempre più saranno la siccità, le inondazioni e l’innalzamento del livello dei mari ad obbligare a trasferirsi a qualunque costo dalla terra d’origine. Ogni minuto 60 persone sono costrette ad abbandonare le proprie case a causa di conflitti, persecuzioni e mutamenti ambientali. A metà 2018 sono registrati come migranti in tutto il mondo 65.6 milioni di persone, un numero senza precedenti costretto a fuggire dal proprio Paese. Di queste persone circa 22.5 milioni sono registrate come rifugiati, più della metà con età inferiore ai 18 anni. Ci sono inoltre 10 milioni di apolidi cui vengono negati una nazionalità e l’accesso a diritti fondamentali quali istruzione, salute, lavoro e libertà di movimento.

La transizione energetica richiede profondi tagli delle emissioni di CO2 (dall'80- al 95% entro il 2050) in presenza di un marcato sviluppo delle fonti rinnovabili, chiare vincitrici anche nella competizione per il costo del KWora prodotto. In questa prospettiva, la maggior parte delle riserve di combustibili fossili deve rimanere sottoterra incombusta, mentre va riconvertito un apparato industriale ed un sistema di distribuzione e mobilità ancora per la maggior parte dipendenti dal sistema fossile centralizzato. La chiave non è tanto tecnologica quanto logistica e organizzativa: la rivoluzione industriale aveva disconnesso completamente i territori dalle fonti, ma ora è possibile rimettere a fuoco città e territori, che vanno ridisegnati come sistemi in cui l'energia è distribuita più vicino alla domanda; la fonte è diffusa e di provenienza solare diretta; le perdite di rete sono minimizzate; l’efficienza e il risparmio vengono incentivati; gli edifici possono diventare passivi e mettere in rete essi stessi il surplus accumulato, con l’obiettivo di fondo di una rapida decarbonizzazione dell’economia. Le comunità dell’energia si stanno diffondendo: su di esse sarebbe opportuno spostare le risorse destinate ai fossili, che in Europa gravano oggi per 600 €/anno a cittadino.

I cambiamenti climatici avvengono a dimensione globale, ma una governance globale è solo sulla carta. Se teniamo conto che è in pericolo la base naturale della specie umana e che i meeting mondiali indicano solo vagamente limiti che dovrebbero essere cogenti, la salvezza viene dal locale. Non basta mobilitarsi per le generazioni future: in gioco c’è la dignità di noi stessi, ora, e, perciò, va sviluppata una narrativa che penetri nel mondo vitale delle persone da raggiungere in carne ed ossa. L’idea di una buona vita rende condivisibile la preoccupazione per il clima. Pur nel rigore dei contenuti, l’educazione e la narrativa sul clima deve saper coinvolgere diverse appartenenze e ispirazioni nonché responsabilizzare tutte le forze politiche e le istituzioni (es. in Lombardia 160 Comuni sono governati dalla Lega).

Una Proposta di Legge di iniziativa popolare, lanciata a Roma in Gennaio, fissa l’inversione di tendenza all’aumento di emissioni di climalteranti in Italia a partire dal 2020, per azzerarle entro il 2050. Si basa su 100% rinnovabili e sull’uso dell’idrogeno come vettore e serbatoio di energia, da usarsi sia per fini industriali, sia di mobilità che per celle a combustibile per gli edifici. Una legge analoga è stata proposta in Francia e approvata nel 2015, ma una sua estensione veicolata dalla direttiva RED II dell’Unione Europea trova profondi contrasti nei governi del “gruppo di Visegrad.”

A titolo di esempio di cooperazione nel campo energetico da parte di ONG, in Senegal, nel cuore della savana ad una decina di km dal fiume Gambia, è in corso di realizzazione un orto di 25 Km quadrati, sostenibile al 100% con energia solare, dotato di un impianto di irrigazione a pioggia, in grado di approvvigionare sei villaggi e impiegare 17 contadini locali.

La programmazione di lavoro dignitoso e di crescita dell’occupazione trova nel passaggio dalle fossili alle rinnovabili concrete opportunità di successo. Nel campo delle “energie verdi” l’innovazione porta lavoro qualificato e, al contrario dell’automazione nel manifatturiero tradizionale (la famosa 4.0…), non è “labour saving”. La manifattura per eccellenza, che sforna da decenni auto individuali e l’intero comparto petrolifero sono giustamente accusati di concorrere all’insostenibilità, sia per gli effetti inquinanti prodotti dal binomio, sia per le conseguenze redistributive della tassazione dei veicoli e dei carburanti. Nel convegno è stata suggerita la versione della “carbon tax” alternativa alle “ecotasse”, per cui, alle compagnie che operano nel campo dei combustibili fossili, verrebbe addebitata una “tassa sul carbonio” (per tonnellata di CO2 emessa) imposta alla sorgente, al pozzo minerario o al punto d’ingresso del processo attivato dal carburante. L’ammontare del prelievo risulterebbe neutrale rispetto al bilancio statale perché, una volta incassato, sarebbe ridistribuito per intero come dividendo su base pro capite alla popolazione che paga le tasse (potremmo definirlo un reddito di cittadinanza ecologica).

Aggiunte finali del curatore
Non si può ignorare l’enorme rischio che l’Amazzonia, il polmone del mondo, sta vivendo dopo l’elezione del nuovo presidente brasiliano. Si prospetta uno scenario di attacco ai popoli della foresta e alla foresta stessa, a favore dell’interesse dei grandi proprietari terrieri e delle grandi società dei minerali, del petrolio, della soia, del legname. Va ricordato che il Consiglio Comunale di Milano, 30 anni fa, quando fu dedicato a Chico Mendes in piazza Fontana un cippo ed un albero in ricordo del suo sacrificio, prese l’impegno di proseguire la sua lotta in difesa della foresta. Nella regione dell’Acre, della cui Camera del Lavoro Chico fu segretario, sono state assunte misure e progetti cooperativi e comunitari che hanno rivoluzionato il rapporto tra cittadini brasiliani, campesinos, indigeni, siringueros, togliendo l’egemonia dei cocaleros lungo il confine con la Bolivia. Occorre dar seguito ad un percorso che è risultato esemplare per tutta l’Amazzonia.

Reinventare le nostre infrastrutture ad alta intensità di carbonio è fondamentale e pregiudiziale se si vogliono raggiungere realmente e non lasciare sulla carta gli obiettivi dell'UE e dei documenti su cui si svolgono le Cop sui cambiamenti climatici globali. Il raggiungimento di riduzioni delle emissioni dell'80-95% rispetto ai livelli del 1990 entro il 2050, deciso in ambito UE con scarsa convinzione, richiede un processo di "decarbonizzazione" dell’economia a tutti i livelli. L’Italia e l’Europa continuano a usare come paravento il minor impatto in climalteranti del gas rispetto agli altri fossili. Si tratta di un autentico escamotage per mantenere inalterate le strutture centralizzate del vecchio sistema. E’ fuor di dubbio che la realizzazione della TAP, in una fase in cui la questione climatica assume una valenza discriminante, assumerebbe davvero tutto l’effetto simbolico di una sottomissione a “quell’Ancien Regime” di cui le lobby sono sostenitrici.

La decarbonizzazione avrebbe implicazioni di grande valenza sull’area mediterranea oggi al centro della tragedia dei migranti e sottomessa in una pluralità di Paesi a regimi autoritari e a forme di sfruttamento intensivo delle risorse naturali. La forma territoriale dell’approvvigionamento energetico distribuito e la cultura cooperativa che lo ispira, avrebbero grande influenza sulla convivenza dei popoli che si affacciano alle rive del Mare Nostrum, favorirebbero legami culturali più aperti ed una autentica integrazione dall’una all’altra sponda sia per le comunicazioni che per la mobilità. Si renderebbero automatici e oltremodo utili scambi di esperienze, integrazioni di standard ed un trasferimento di tecnologie e ricerca applicate all’industria e all’agricoltura, rendendo più labile la linea di demarcazione tra Nord e Sud Europa. L’Europa per prima ne trarrebbe beneficio, optando per una autonomia energetica fondata su sole, vento e acqua anziché su petrolio gas e carbone. (C’è una alternativa alle trivelle in mare…)

Contrariamente a quanto viene sostenuto dalla Commissione Europea, vanno promosse aziende energetiche municipali pubbliche, incaricate non solo di fornire energia elettrica rinnovabile per le proprie strutture, ma anche per cittadini e aziende. L’Utility pubblica dovrebbe avere per missione una particolare attenzione ed una diffusione della democrazia energetica. In particolare, dovrebbe facilitare la produzione autonoma di energia rinnovabile da parte dei cittadini e di altri attori locali da mettere in rete, promuovendo il networking tra nuovi produttori e incoraggiando la creazione di cooperative di piccoli produttori sotto gli auspici della municipalità. Per condomini ed edifici, un ruolo di ESCO dell’azienda municipale assicurerebbe garanzie finanziarie ai cittadini e un rendimento degli investimenti. Risolverebbe infine un ruolo decisivo e democraticamente validato per la pianificazione urbanistica in chiave energetica.

Va impresso un forte impegno politico per combattere la povertà energetica: la questione della povertà di carburante è dilagante: colpisce un europeo su sei.

Continua il percorso dei comitati e movimenti ambientalisti italiani contro le grandi opere inutili, per una giustizia ambientale, che rimetta al centro dell’azione la difesa, la messa in sicurezza dei territori, i diritti degli abitanti. Qui il contributo dal Veneto (i.b.)

"Un clima rivoluzionario" é il contributo scritto portato dei comitati veneti sul rapporto tra grandi opere e giustizia climatica alla quarta Assemblea Nazionale dei comitati e movimenti ambientalisti italiani, che oggi, 26 gennaio si riunisce a Roma, ospitata dagli studenti de La sapienza di Roma, presso la Facoltà di Lettere.

Su questo importante percorso intrapreso dai comitati si legga su eddyburg: "Manifestazione Nazionale contro le grandi opere e la giustizia ambientale" .

Questo l'appello di convocazione della Quarta Assemblea dei comitati contro le grandi opere inutili e i movimenti per la giustizia ambientale:
A tutti i comitati, i movimenti, le associazioni e i singoli che da anni si battono contro le grandi opere inutili e imposte e per una nuova stagione di giustizia ambientale e la salvaguardia del Pianeta.

Ci siamo ritrovati a Venezia lo scorso settembre, poi ancora a Venaus, in Val Susa e in molti altri luoghi, da nord a sud, dando vita ad assemblee che hanno raccolto migliaia di partecipazioni. Siamo le donne e gli uomini scesi in Piazza lo scorso 8 dicembre a Torino, a Padova, Melendugno, Niscemi, Firenze, Sulmona, Venosa, Trebisacce e in altri luoghi.

Tutte e tutti abbiamo accolto una sfida, quella di portare a Roma il prossimo 23 marzo la nostra voce ed un nuovo messaggio. Un messaggio che ribadisca la necessità di farla finita con il modello di sviluppo legato alle grandi opere inutili e dannose: una tragedia per l’ambiente, un furto di denaro pubblico per interessi di pochi, una manna per i corrotti, con progetti e cantieri che, in barba alla volontà popolare, vengono imposti manu militari, reprimendo il dissenso.

Porteremo le nostre valutazioni sul “governo del cambiamento“ che mentre tergiversa sull’analisi costi benefici del TAV in Val di Susa, ha fatto chiara retromarcia su tutte le altre opere e gli altri territori: Il TAV 3° Valico, il TAP, le Grandi Navi ed il MOSE a Venezia, l’ILVA a Taranto,le autorizzazioni a cercare idrocarburi nello Ionio, in Adriatico, in Sicilia ed il rischio di rilascio di numerose concessioni on shore, Il MUOS in Sicilia e così via.

Dovremo esprimere un punto di vista chiaro su ciò di cui il nostro Paese ha davvero bisogno, facendola finita con le grandi opere inutili, per avviare un percorso unanime e virtuoso di programmi concreti a favore delle vere necessità del popolo e dei territori, mettendo al primo posto la cura e la messa in sicurezza del territorio, le bonifiche, piccole opere necessarie a vivere meglio ed in grado di dare lavoro diffuso e garantito, buona sanità, servizi adeguati, scuola pubblica ed università libere e sganciate dai modelli aziendalisti, sanità e pensioni decorose, una corretta politica sull’abitare e di inclusione della popolazione migrante con pari diritti e dignità.

L’ultimo rapporto IPCC indica che le emissioni vanno ridotte subito, altrimenti nel 2040 avremo già superato la soglia di sicurezza del riscaldamento globale di 1,5°C.

Affronteremo la crisi climatica che è collegata al modello di sviluppo attuale che ha già fatto troppi danni. Assistiamo ai continui fallimenti delle COP governative (l’ultima a Katowice, in Polonia, pochi mesi fa) e siamo consapevoli che solo un grande movimento può cambiare il corso di questa catastrofe climatica che si aggrava di anno in anno.

Molto si può e si deve fare!

Solo rinunciando da subito al carbone, agli inceneritori, alla combustione di biomasse, alla geotermia elettrica, agli agrocombustibili; solo riducendo drasticamente l’uso delle fonti fossili, del gas anch’esso climalterante; solo praticando con rigore e decisione l’alternativa di un modello energetico autogestito dal basso, in opposizione a quello centralizzato e di mercato, abbandonando progetti di infrastrutture inutili e dannose, finanziando interventi dai quali potremo trarre benefici immediati (messa in sicurezza idrogeologica e sismica dei territori , riconversione energetica, educazione e ricerca ambientali), si potrà finalmente cominciare a dare priorità alla lotta degli effetti climalteranti, cessando così di contrapporre salute e lavoro come invece è stato fatto a Taranto.

E’ urgente imporre un cambio di rotta rispetto all’attuale paradigma energetico e produttivo, per il diritto al clima ed alla giustizia climatica, per favorire cooperazione e sviluppo scientifico al servizio del valore d’uso.

E’ urgente garantire il diritto all’acqua pubblica, una nuova Strategia Energetica Nazionale riscritta senza interessi delle lobbies, la messa a soluzione delle scorie nucleari, la riduzione delle spese militari, il disarmo nucleare.

Sosteniamo che questa transizione ecologica indispensabile la debbano pagare i detentori di capitale, i grandi gruppi finanziari, le élite che negli ultimi anni hanno approfittato della crisi per arricchirsi riservando alle persone e ai territori solo la ricetta dell’austerità e la distrazione di massa della guerra tra poveri, mettendo l’uno contro l’altro, alimentando la disinformazione.

Assieme al NO , la nostra piazza sarà capace di trasmettere l’urgente necessità di cambiamento della società a fronte del modello capitalistico che distrugge convivenza ed ecosistema.

Siamo consapevoli che ad oggi nessun governo, tanto meno quello in carica, ha mostrato di avere le condizioni per poter realizzare quello che vogliamo e che necessita per far sopravvivere il pianeta.

A fronte delle emergenze reali che chiamiamo in causa, chi ha il potere è impegnato a soffiare sul fuoco del razzismo, del sessismo e dell’autoritarismo, alimentando, con costante opera di manipolazione mediatica, nuove forme di desolidarizzazione ed oscurantismo.

Discuteremo di come costruire un movimento, uno spazio pubblico aperto che in tante e tanti stiamo cercando per trasformare la società, il modo in cui si guarda alla vita dei territori, per decidere insieme il nostro futuro, per iniziare un cammino di giustizia ambientale, che non può più aspettare.

La manifestazione di Roma, il prossimo 23 marzo, sarà un passo importantissimo in questa direzione. Prepariamolo assieme!

Al Palazzo Reale di Milano il 19 gennaio 2019 dalle 9.30 si terrà un incontro sulla connessione tra cambiamenti climatici, depredazioni ambientali, migranti e povertà; si parlerà di riconversione ecologica, ecofemminismo, beni comuni, diritto al salute, resistenza culturale, antifascismo come fondamentali antidoti a questa società in declino. (i.b.) Qui il programma.

FORUM ASSOCIAZIONE LAUDATO SI’
UN’ALLEANZA PER IL CLIMA, LA TERRA E LA GIUSTIZIA SOCIALE
Un’iniziativa promossa dal gruppo consiliare Milano in Comune con Casa della carità, Osservatorio Solidarietà - Carta di Milano, Associazione Diritti e Frontiere (ADIF), CostituzioneBeniComuni, Associazione Energia Felice, Ecoistituto della Valle del Ticino

Milano, 19 gennaio 2019
Palazzo Reale
Piazza del Duomo, 12
ore 9.30-13, 14-17.30

SALUTI
Basilio Rizzo (consigliere comunale Milano in Comune)

INTRODUZIONE
Daniela Padoan (presidente associazione Laudato si’)

Prima sessione (9.30-13)

1. CLIMA
Degrado ambientale e profughi, energia, rinnovabili, decarbonizzazione
Coordina Mario Agostinelli (Energia felice)
Massimo Scalia (docente Fisica matematica Università La Sapienza, già presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sulle ecomafie)
Karl Ludwig Schibel (coordinatore italiano dell’Alleanza per il Clima delle città europee)
Angelo Consoli (direttore dell’Ufficio Europeo di Jeremy Rifkin)

2. DEPREDAZIONE AMBIENTALE
Landgrabbing, watergrabbing, estrattivismo e grandi opere, difendere i difensori della Terra
Coordina Oreste Magni (Ecoistituto della valle del Ticino)

Elena Papadia (NoTAP)
Roberta Radich (NoTriv)
Elena Gerebizza (Re:Common)
Chiara Sasso (NoTav)
Francesco Martone (già senatore, In difesa di)

3. MIGRANTI
Accoglienza, contrasto delle politiche di respingimento e militarizzazione delle frontiere, razzismo, criminalizzazione della solidarietà
Coordina Guido Viale (presidente Osservatorio Solidarietà)

Sergio Bontempelli (Associazione Diritti e Frontiere)
Luigi Manconi (coordinatore UNAR, presidente A buon diritto)
Donatella Di Cesare (filosofa)
Riccardo Gatti (capomissione Proactiva Open Arms)
Anna Camposampiero e Fabrizio Ungaro (Rete No-CPR)

4. POVERTA’ ED ECONOMIA DELLO SCARTO
Cultura della sottomissione e nuovo schiavismo, cultura dei diritti, lavoro e politiche contro la povertà
Coordina Giovanna Procacci (Libera)

don Virginio Colmegna (presidente Casa della carità)
Francesca Re David (segretaria nazionale FIOM)
Gigi Malabarba (Ri-Maflow)
Guido Barbera (presidente CIPSI)
Guido Pollice (già senatore, presidente Verdi Ambiente e Società)
Alessandro Pagano (segretario FIOM Lombardia)

Seconda sessione (14-17.30)

5. DEBITO, RICONVERSIONE, LAVORO
Debito, finanza, politiche dei grandi sistemi, riconversione ecologica, lavoro per tutti, amianto e salute pubblica
Coordina Guido Viale (presidente Osservatorio Solidarietà)

Antonio De Lellis (Comitato per l’annullamento del debito illegittimo)
Fulvio Aurora (segretario nazionale Associazione It. Esposti Amianto)
Aldo Bonomi (sociologo, direttore Consorzio AASTER)
Andrea Di Stefano (direttore “Valori”)
Luigi Agostini (presidente Federconsumatori)
Vincenzo Vasciaveo (Distretto Economia Solidale Rurale - Parco Agricolo Sud Milano – GAS)

6. VIVENTE
Critica dell’antropocentrismo, tutela del vivente, patriarcato ed ecofemminismo, diritti della natura, diritto alla salute
Coordina Daniela Padoan (scrittrice, presidente Ass. Laudato si’)

Laura Cima (già deputata e presidente Gruppo parlamentare Verde)
Vittorio Agnoletto (medico, già parlamentare europeo)
Francesco Remotti (professore emerito, già ordinario di Antropologia culturale nell'Università di Torino)
Annamaria Rivera (antropologa)

7. PACE E BENI COMUNI
Disarmo, denuclearizzazione, beni comuni, diritti ambientali, tempo di vita, diritto alla bellezza
Coordina Mario Agostinelli

Lisa Clark (Rete italiana per il disarmo, co-presidente International Peace Bureau, Beati i costruttori di pace)
Paolo Cacciari (responsabile dipartimento beni comuni di DemA)
Elio Pagani (Pax Christi)
Luca Zevi (architetto e urbanista)

8. EDUCAZIONE, COMUNICAZIONE, RESISTENZA
Scuola, comunicazione e nuovi media, contrasto dei linguaggi d’odio, resistenza culturale, memoria storica e antifascismo

Coordina Simona Sambati (Casa della carità)
Raniero La Valle (giornalista, già deputato e senatore)
Roberto Giudici (FIOM, Zona 8 Solidale)
Alessandra Ballerini (avvocato, Terre des Hommes)

CONCLUSIONI
Don Virginio Colmegna (presidente Casa della carità)

Il fatto quotidiano, 7 gennaio 2019. L'abbandono dei fossili per affrontare la crisi climatica, uscire dal modello di sviluppo basato sulla crescita, e quindi dare un futuro al nostro pianeta non possono essere disgiunti dalla lotta per i diritti umani e sociali e la lotta contro le diseguaglianze. (i.b.)
I delegati di oltre 200 Paesi delle Nazioni Unite erano arrivati ai colloqui sul clima a Katowice con l'incarico di sostenere l'accordo di Parigi 2015 (v. https://www.energiafelice.it/). Pur trattandosi di un appuntamento “tecnico” per fare il punto sui progressi o i ritardi rispetto all’agenda fissata tre anni orsono, l’attenzione si è focalizzata sulle responsabilità che i leader mondiali si sarebbero assunti nei confronti dell’emergenza climatica. A un mese dalla conclusione della Conferenza possiamo dire che sono state confermate le previsioni più pessimistiche: in tre anni non solo non si sono verificati miglioramenti apprezzabili, ma, alla luce degli ultimi dati diffusi dal Global Carbon Project, le emissioni di gas serra sono aumentate per il secondo anno consecutivo nel 2018.

Preso atto di ciò, si deve constatare che l'incombente crisi climatica sta andando oltre le nostre capacità di controllo: vale allora la pena di andare oltre la ricerca dei colpevoli del passato (peraltro tanto noti quanto insensibili), per metterci in azione come persone e soggetti sociali attivi, capaci con le loro reazioni e comportamenti di imporre un cambiamento di rotta. Tanto urgente da doversi realizzare in un arco temporale breve, che, secondo l’IPCC, non può andare oltre i prossimi quindici anni. Se questo è il contesto, occorre rendersi conto che la fobia verso i migranti e l’inganno della crescita a spese della natura non servono ad altro che a distrarre l’opinione pubblica, per mantenere immutate le disuguaglianze sociali anche a fronte della sfida del clima. Una sfida di primaria importanza che richiede due impegni cogenti: lasciare sottoterra i combustibili fossili e garantire i diritti umani e sociali nella transizione energetica. Sono queste le autentiche ipoteche per la civiltà a venire e non si riscuoteranno senza conflitti, per cui ogni individuo, ogni soggetto, ogni associazione, ogni organizzazione di interessi o di valori sarà tenuta a contrapporre una visione strategica all’interesse a breve, come è sempre avvenuto nelle fasi di profonda trasformazione.

Sappiamo da dove partire. Il mantenimento della crescita economica avviene tuttora al prezzo di un aumentato consumo di combustibili fossili. Negli ultimi anni - senza andare lontano e tirare in ballo la sconsiderata imprevidenza di Trump - Polonia, Germania e Italia non hanno fatto alcun passo indietro nel ricorso al carbone e al gas. In fondo, Katowice ha messo in luce quanto le élite globali, compresi i sovranisti nostrani del “cambiamento”, si aggrappino al business dei fossili e quanto i governi difendano i loro interessi nazionali ad essi associati, accettando in compenso l’ineluttabilità del disastro climatico. La situazione è così compromessa e l’inerzia del sistema economico-finanziario così rigida, da richiedere che tutte le componenti sociali forniscano un supporto per attuare quella che altro non è se non una vera rivoluzione dell’economia mondiale. Ad ora manca totalmente quella consapevolezza espressa con lucidità nella “Laudato Sì” e cioè che “un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale”.

Data la mia esperienza, ritengo che sia ora che entri in gioco il sindacato, fin troppo silenzioso ma, mi auguro, già capace di segnali al prossimo congresso CGIL. L'accordo di Parigi, oggi messo da parte perfino dall’Europa, accanto ai diritti umani, parla esplicitamente di sicurezza alimentare, diritti delle popolazioni indigene, uguaglianza di genere, partecipazione pubblica, equità intergenerazionale, integrità degli ecosistemi e, per il clima, propone una transizione giusta. C’è da chiedersi: su quali gambe? Forse su quelle malferme e incapaci di murare strada delle corporation e della grande finanza? Al punto in cui siamo, continuare a fare della combustione dei fossili una ragione primaria di profitto porta a violare i diritti umani e a ricattare i lavoratori sotto il profilo occupazionale e dei diritti sociali. Ed è altrettanto chiaro, anche se ce ne scordiamo facilmente, come le persone possano perdere i loro diritti tradizionali di vivere in una foresta (Amazzonia), o in una valle (TAV) o lungo un litorale marino (TAP) quando si infrange l’equilibrio climatico potenziando la filiera fossile oltre il tollerabile. Tutte materie su cui il sindacato ha titolo pieno per essere informato e per negoziare a favore dei suoi organizzati.

I crescenti conflitti sociali legati all'eliminazione progressiva delle industrie fossili danno senso al termine "giusta transizione", che non può che basarsi su un'attuazione completa della giustizia climatica. Per cominciare, ciò dovrà includere la limitazione del riscaldamento globale a un massimo di 1,5 gradi °C, altrimenti il ​​cambiamento climatico aggraverà globalmente le ingiustizie sociali. Carbone, petrolio e gas vanno rapidamente eliminati con una radicalità cui ci ha costretto lo sviluppo industriale ininterrotto e la cui espansione non è negoziabile, anche se ciò minaccia posti di lavoro. E’ d’obbligo che i lavoratori dipendenti dal sistema fossile non vengano lasciati a se stessi, ma affidati ad una rete di sicurezza che li faccia transitare verso un lavoro socialmente significativo e che conservi la loro dignità. Non si tratta di assistenza, ma di diritti, di riconversione “win to win”.

Proprio con una visione strategica un sindacato non corporativo può prevenire una divisione irreparabile tra lavoratori e le comunità colpite dai cambiamenti climatici. Oggi è in atto una campagna insidiosa al riparo della quale governi e grandi attori fossili, in particolare nei Paesi industrializzati, hanno iniziato a chiedere solo compensazioni finanziarie e sgravi per le loro attività inquinanti, al fine di allungare il più possibile i tempi della fuoriuscita da carbone petrolio e gas e usando come grimaldello per i loro interessi la questione dei posti di lavoro nelle filiere fossili inquinanti. Le stesse associazioni imprenditoriali e le corporation che sostenevano la necessità di chiudere impianti e delocalizzare per competere, di fronte alla crisi climatica si scoprono accaniti difensori del valore sociale e professionale del lavoro nei territori da cui traggono profitti, chiedendo nel contempo una sponda nel sindacato. Capisco come la situazione non sia facile e le cose non siano limpide, ma la posta è troppo alta perché il ricatto ricada su tutti sotto la veste di un interesse di pochi.

I tempi si avvicinano più di quanto si prevedesse e l’attacco è già in corso. Il governo polacco ha ottenuto a Katowice una ambigua dichiarazione (Solidarity and Just Transition Silesia) per ottenere con l’appoggio di 49 delegati una marcia più lenta rispetto agli accordi internazionali nell’abbandono del carbone. La Commissione UE è alle prese con un protocollo di sostegno all’industria del carbone e alla siderurgia nei paesi dell'Europa centrale e orientale che hanno chiesto di aderire all'UE. In entrambi i casi non c’è ombra di organizzazioni sindacali, ancora prede forse delle storiche contraddizioni tra ambiente e lavoro. Basta rammentare quanto sia preveggente la posizione dei metalmeccanici piemontesi a fianco delle ragioni degli abitanti della Valle Susa e quanto imprudente sia l’annuncio di uno sciopero dei lavoratori impegnati nelle grandi opere, senza distinzione della loro utilità e del loro impatto ecologico, da parte del sindacato nazionale degli edili. Temi vecchi e nuovi su cui dibattere, non privi della massima urgenza, per non trascurare l’ineluttabilità di quanto accade in atmosfera e non cedere alla favola che la salute climatica la debbano pagare i lavoratori e i più indigenti.

A partire da una critica al capitalismo e al modello di sviluppo corrente, la decrescita ha sviluppato un interessante dibattito su una possibile trasformazione politica radicale. (i.b.)


Il concetto della decrescita è una delle critiche più interessanti al capitalismo e al modello di sviluppo corrente, che a partire dai ragionamenti dell'economista Nicholas Georgescu-Roegen e André Gorz ha sviluppato un dibattito su una possibile trasformazione politica radicale tesa al superamento delle ingiustizie e dell'insostenibilità ecologica del nostro modo di abitare il pianeta.
Si legga "Introduzione a 'Decrescita: vocabolario per una nuova era' – di Giorgos Kallis, Federico Demaria e Giacomo D’Alisa" tratto dal sito Effimera.

Per un approfondimento del rapporto tra lavoro e natura, e dell'ineluttabile nesso tra lotta di classe e lotte per l’ambiente e per i beni comuni, lotte accomunate da una critica all'accumulazione per appropriazione - del lavoro domestico, servile o delle risorse ambientali - si legga il libro "Lavoro Natura Valore – André Gorz tra marxismo e decrescita" di Emanuele Leonardi (2017, Orthotes editore), di cui si veda la una recensione in perunaltracittà.
Segnaliamo inoltre due volumi, editi da Marotta e Cafiero, parte di un ambizioso progetto editoriale che coinvolge ricercatori e attivisti di tutto il mondo:

“Verso una civiltà della decrescita. Prospettive sulla transizione” a cura di Marco Deriu (2016, editori) che raccoglie una serie di articoli che cercano di spiegare che è necessario "un ripensamento radicale del nostro modo di concepire la modernità, l’insieme delle relazioni sociali, l’idea di benessere e di benvivere, le logiche di fondo alla base dell’evoluzione tecnica ed organizzativa e della costruzione di una democrazia politica" (dall' introduzione di Marco Deriu). Qui una recensione al libro di Paolo Cacciari.

“La decrescita tra passato e futuro” a cura di Paolo Cacciari sul significato e il valore di liberarsi dal dominio della crescita economica per immaginare delle trasformazioni ecologicamente sostenibili e socialmente giuste.

Non è la prima volta che assistiamo all' entusiasmo, sostenuto da soldi pubblici, per fonti di energia etichettate come rinnovabili e pulite. Si scopre poi che inquinano, sottraggono risorse, arricchiscono qualche azienda, impoveriscono la popolazione, ma gli investimenti continuano e neanche la scusa occupazionale è rilevante. Sempre vilipesi sono gli interessi collettivi! (i.b.)

Da molti anni assistiamo alla falsa alternativa tra mantenere produzioni nocive generatrici di occupazione, e l'ambiente. Proprio in questi mesi abbiamo visto la parabola dei movimenti ambientalisti che si sono spesi politicamente per una alternativa all'Ilva di Taranto, alla galleria in Val di Susa per il TAV Torino-Lione, alla trivellazione del TAP a Melendugno e ogni volta che la questione della bonifica dei siti inquinati entrava in conflitto con gli interessi economici si poneva la questione occupazionale come ostacolo insormontabile, irrisolvibile, tutto in carico ai comitati dei cittadini.

La questione è vecchia e databile almeno 40 anni, ovvero dalla bonifica di Seveso. In quel caso l'ICMESA dovette pagare la bonifica del sito inquinato dalla fuoriuscita di diossina e i costi di quell'intervento di ripristino fu presa come base per contabilizzare il danno ambientale e fu evidente che più grande è l'industria inquinante, più grande il territorio inquinato da bonificare, maggiore la quantità di popolazione investita da elementi nocivi, i costi sarebbero stati talmente alti che nessuna impresa sarebbe stata in grado di sopportare il ripristino e le bonifiche. Da quel momento in poi ogni intervento legislativo è stato teso a favorire la socializzazione dei costi ambientali, riconoscendo alcuni buchi normativi per poter permettere alla grande industria la sopravvivenza.

Nel caso della Geotermia Elettrica Industriale della Toscana, monopolio di Enel, ora sappiamo che queste centrali hanno quotidianamente inquinato il territorio. Le centrali geotermiche Flash (con fluidi caldi tipici dell'Amiata) oppure a vapore dominante come quelle di Larderello con i classici soffioni producono e diffondono nell'aria tonnellate di anidride carbonica, metano, boro, acido solfidrico, ammoniaca, mercurio, tallio e arsenico, che ricadono nella Val di Cecina e sul Monte Amiata.

La popolazione investita non è monitorata adeguatamente. Solo negli ultimi anni, dopo infinite richieste alla Regione Toscana, sono saltati fuori i dati di un danno alla salute paragonabile ai siti altamente inquinati come la Val Bormida, Porto Marghera o l'Ilva di Taranto: l'incidenza di alcuni tumori è in alcuni casi superiore a questi siti e fa pensare che siamo di fronte al più grave danno ambientale della storia repubblicana, prodotto da una azienda pubblica, su un territorio vastissimo e su una popolazione tenuta all'oscuro da forze politiche, sindacali e in qualche caso anche ambientaliste.

Dirigenti di Enel Green Power sono sotto inchiesta della magistratura. La Procura della Repubblica di Grosseto ha aperto un fascicolo di indagini, iscrivendo l’Amministratore Delegato di ENEL Green Power, ing. Montemaggi, quale persona informata delle indagini a suo carico, per l’ipotesi di reato di emissioni fuori norma delle centrali di Bagnore di Santa Fiora. Il procedimento è in corso davanti al GIP.

In questa situazione è arrivata la scomparsa degli incentivi alla geotermia nella bozza FER 1 nel passaggio tra Ministero dell'ambiente e MISE. La geotermia non viene più considerata energia rinnovabile e sindaci geotermici, consiglieri regionali, qualche parlamentare, e in testa il Presidente della regione Toscana continuano a dare “ i numeri” del disastro che causerebbe. Eppure il decreto non tocca gli incentivi ex certificati verdi e le tariffe incentivanti degli attuali impianti di produzione geotermoelettrica che ammontano complessivamente a 90 milioni € l'anno. Una enormità, che continueranno a prenderli fino al 2028, dopo quindi la data nella quale si prevede la messa all'asta degli impianti nella liberalizzazione del mercato geotermico previsto dalla legge Scajola; la torta ricca nella quale i dirigenti Enel puntano per accaparrarsi soldi pubblici senza colpo ferire. Gli impianti verranno comprati da multinazionali e Banche e i dirigenti Enel si metteranno alla loro direzione (sono gli unici che conoscono effettivamente ogni impianto e anche il modo di “coltivarlo” efficacemente).

I contributi ai comuni sono 35 milioni € l'anno.

L'azienda elettrica è anche lei in via di privatizzazione; quote consistenti sono già in mano a grandi investitori internazionali che non credono nello sviluppo della geotermia come fonte alternativa (esperimenti tedeschi e cinesi sono fermi al 2014, gli americani, cileni, islandesi e turchi costruiscono centrali solo nelle zone desertiche) a causa degli alti costi di ricerca e trivellazione (oggi a carico dello Stato in Italia con i famosi contributi di Fer ) e con una resa piuttosto bassa della produzione elettrica.

Il 30% del fabbisogno di energia elettrica regionale toscana, non giustifica i soldi pubblici spesi per mantenerla, proprio perché i consumi elettrici sono solo l'8% dei consumi energetici totali. In 10 anni la produzione solare con pannelli in Toscana ha raggiunto la quota del 30%, quando per la geotermia ci sono voluti 40 anni. Si pensa che se gli stessi incentivi si spostassero dalla geotermia al solare e all'eolico, si avrebbe l'80% di energia elettrica prodotta da queste fonti e con l'idroelettrico arriveremmo in pochi anni a non avere bisogno di combustibili fossili per la produzione elettrica. In realtà la geotermia impedisce la transizione energetica per l'interesse di pochi.

La fonte geotermica non è rinnovabile: un pozzo geotermico che emunge fluidi caldi dal sottosuolo ha una vita efficace solo per una decina di anni, poi viene “coltivato” con una miscela di acidi che vengono reimmessi per “spingere” i fluidi profondi verso i pozzi. Questa pratica proibita per gli idrocarburi in Europa è invece altamente praticata dal 1975 proprio in Val di Cecina, una delle cause principali della subsidenza, terremoti e inquinamento di falde acquifere.

Nel 1975 la produzione geotermica aveva subito un declino irreversibile e al calo della produzione si reagì con varie strategie. I pozzi furono portati a profondità di 3000\4000 metri, venne proposta la tecnologia di reiniezione con la stimolazione delle fratture con una miscela di acido cloridrico e acido fluoridrico, misto ad acqua, stimolazione e reiniezione che serve anche a rimuovere fango e detriti (da 10 e 50 tonnellate al giorno per pozzo, dati rilevati da un progetto di trattamento fanghi Ecogest) e mineralizzazioni. Lo stress termico della reiniezione produce una contrazione e un cracking. Non è il fracking, ma gli somiglia tanto.

La reimmissione dei fluidi incontra delle difficoltà proprio nella condensazione dei gas. Sappiamo che una delle difficoltà del circuito chiuso (se no avremmo impianti senza emissioni, i famigerati impianti binari) è proprio la non condensabilità dei gas presenti in Val di Cecina e sull'Amiata. Il fallimento degli impianti binari è solo questione di tempo. Gli esperti ci dicono che si potrebbero nascondere i gas in qualche modo, ma la reiniezione porterà sicuramente a fenomeni tellurici, anche di grossa entità.

I fluidi geotermici non salgono da sé. Specialmente nei pozzi molto profondi si prevedono anche tre pompe in linea. Lascio immaginare il bilancio energetico finale. Mentre nelle centrali flash Enel si può arrivare ad un rendimento del 40%, nelle centrali con reiniezione si parla di 9%. Il bilancio è comunque molto basso.

La vita media delle centrali può essere anche più lunga, ma la coltivazione di un sito è molto breve. In Toscana ci sono 900 pozzi e 36 centrali, ma i pozzi chiusi sono molti di più. Capitolo a parte la chiusura dei pozzi. Possiamo fare una gita nelle campagne toscana a visitare le trivellazioni Eni degli anni 60 che all'epoca era alla ricerca di petrolio. Sono diventate dopo 50 anni, nei quali il cemento si è degradato, dei laghetti di anidride solforosa, cianuro e fanghi caldi. Il danno alle falde acquifere è irreversibile.

Peccato che proprio la falda del monte Amiata risulti scesa di quasi 200 metri se non di più in alcuni punti. Attraverso il sito INGV possiamo monitorare tutti i terremoti i delle zone metallifere toscane, essi coincidono con le centrali. La subsidenza all'Amiata è così evidente che hanno dovuto cambiare strade e ponti, case crepate etc.

Abbiamo le prove che nella Val di Cecina l'arsenico nelle acque potabili potrebbero essere direttamente riferibili alla geotermia. I pozzi profondi producono il mescolamento di acque appartenenti a stratificazioni diverse. La differenza di potenziale elettrico tra acque superficiali e profonde produce arsenico, che rimane localizzato nelle vicinanze del pozzo, ma con il degrado delle cementificazioni e il movimento delle acque sotterranee arriva ai pozzi di sollevamento della piana del Cecina. Non si può dire che il dilavamento diluisca gli inquinanti. Questa mentalità ingegneristica è lontana dalla realtà. Occorre tener conto delle sinergie tra gli elementi e non possiamo essere contenti di una minaccia che porterà conseguenze nel tempo, quando la geotermia sarà archeologia industriale.

Enel da qualche anno ha fatto capire che avrebbe abbandonato il settore, disinvestendo e portando uomini e mezzi finanziari in altri settori. Nei mesi scorsi c'era già stata la sollevazione dei sindaci della Val di Cecina contro la perdita questa fonte di soldi pubblici sulla quale però solo una parte della popolazione ne ha beneficiato.

Questo è stato evidente lo scorso sabato nella quale ex dipendenti Enel, sindacati e apparati di partito con i sindaci in testa hanno dato vita ad una manifestazione SI Geotermia, sulla stessa linea della manifestazione di Torino Si Tav. Il parallelo con le due manifestazioni è evidente: in entrambe chi si oppone al danno all'ambiente e alla salute dei lavoratori viene dipinto come terrapiattista, medioevale, contrario al progresso, mentre difendono un settore industriale che non produce valore da 40 anni e si tiene in piedi esclusivamente con i soldi delle bollette, come per la Tav sappiamo non ripagherà mai i miliardi spesi per una galleria pericolosa e inutile.

L'ambizione della manifestazione era quella di cambiare verso nell'opinione pubblica, ma il territorio è già ampiamente impoverito, desertificato dall'inquinamento e abbandonato dai giovani. Se gli incentivi di Fer 1 non riguardavano le centrali esistenti, i posti di lavoro attualmente presenti nel settore non sarebbero toccati, ci chiediamo perché i sindaci, il presidente della regione, i sindacati hanno allora mobilitato social, giornali e televisioni locali?

Togliere gli incentivi ai progetti progetti pilota gestite da multinazionali petrolifere o dell'acqua , società offshore ucraine, portoghesi, cerchi magici fiorentini e gioiellieri di Arezzo forse ha toccato un nervo scoperto che con l'occupazione e lo sviluppo economico c'entra poco.

Il conflitto ambiente e lavoro nel caso della geotermia quindi non si pone. Un settore che ormai destinato ad una fine ingloriosa, nel quale nessuno vorrà pagare i danni sociali e ambientali, giunto al crepuscolo della sua parabola, difende con i denti le ultime briciole di potere.

Articolo inviato contemporaneamente anche a controlacrisi.org e perunaltracittà.org


8 dicembre 2018, in migliaia sono scesi in piazza contro questo modello di sviluppo che sta devastando l'habitat in cui viviamo. Contro le grandi opere inutili e dannose; l'inquinamento dell'aria; la contaminazione di acque e suolo da processi industriali; gli inceneritori, le politiche sui rifiuti e l'ecomafia che ci specula; il consumo di suolo; le grandi navi; i gasdotti e la dipendenza dai fossili; la sottrazione di beni comuni; le antenne militari; l'erosione della democrazia; il prevalere del profitto di pochi sul benessere di tutti. Non solo per la difesa dell'ambiente, della salute, dei territori, ma per un inversione di rotta.
Fonte: l'immagine è della manifestazione di Torino, presa dal sito notav.info. Altre le città dove si sono svolte le manifestazioni: Padova; Firenze, Sulmona, Pescara, Niscemi; Melendugno; Giugliano (NA), Venosa (PZ), Melendugno (LE), Trebisacce (CS). (i.b.)

Intervento al Convegno Nazionale "Luigi Mara e Medicina Democrazia: la stagione del modello operaio di lotta alle nocività", Milano, 20 ottobre 2018: Per non dimenticare il ruolo importante di Medicina Democratica e di quelle lotte operaie nella difesa della salute umana e dell'ambiente. (i.b.)

Prima di tutto voglio riproporvi il messaggio del 14 maggio2016 di Franco Rigosi di Medicina Democratica di Venezia e Mestre checondividiamo in toto:
«Luigi Mara, fondatore di Medicina Democratica nel 1976 conGiulio A.Maccacaro, ci ha lasciato, inesorabilmente colpito da un improvvisomalore nel pomeriggio del 12 maggio 2016. Impossibile, a caldo, esprimere oltreal dolore di tale perdita quanto Luigi rappresentasse per il nostro Movimento,per l’ambientalismo scientifico e il movimento operaio. Un oramai raro esempio di intellettuale incui il rigore scientifico e la chiarezza di intenti si univano a una integra (eintegrale) scelta di classe. Esigente in primo luogo con sé stesso,instancabile e incredibilmente capace di lavorare contemporaneamente sumolteplici argomenti ed iniziative, ha caratterizzato la storia quarantennaledi Medicina Democratica con un autentico umanesimo: a favore dei più deboliaffinché si risvegliasse la coscienza e l’auto-organizzazione dal basso (la nondelega). Ha inoltre portato nelle aule dei Tribunali la richiesta di giustiziae di riconoscimento della dignità per le vittime dell’organizzazionecapitalista dei luoghi di lavoro svelando la scienza (e gli scienziati) alservizio del profitto, Si è battuto per una giusta condanna dei responsabilidei tanti ecocidi sparsi per l’Italia e non solo (da Porto Margheraall’Eternit). A tutti gli appartenenti a Medicina Democratica il compito diraccogliere il testimone e proseguire, a barra diritta, nella lotta perl’affermazione della salute a partire dal diritto ad un ambiente salubre.»
La morte di Luigi Mara anche per tutti noi di Venezia,Mestre e Marghera è una perdita enorme. Io ho conosciuto Luigi nel 1986 graziead un incontro promosso da Gabriele Bortolozzo a Marghera e da allora LuigiMara è stato un punto di riferimento costante ed un aiuto per me e per tuttiquei pochi lavoratori del Petrolchimico di Porto Marghera che per moltianni hanno denunciato i molti danni cheproduceva l’industria chimica all’ambiente, che lottavano contro le produzioni cancerogene e pericolose, che lottavano per condizioni di vita e dilavoro più salubri, che lottavano perchéi diritti fossero realmente riconosciuti e garantiti. Ricordo una bellissimafrase sentita ad uno dei primi convegni di Medicina Democratica ai quali hopartecipato e che abbiamo subito “rubato” e sempre inserita nei nostridocumenti e fogli di controinformazione:
«Non è mai esistito, né mai esisterà, un posto di lavorosicuro perché nocivo ed inquinante. Dovenon si affermano sicurezza e protezione, dell’uomo come dell’ambiente, non sicostituiscono certezze occupazionali. Inogni caso, le produzioni di morte devono essere bandite ed eliminate.»
Porto Marghera: il lavoro, le lotte, la ristrutturazione, lafine di una storia
Nel 2017 il polo industriale di Porto Marghera compiva 100anni. Porto Marghera è stato uno dei poli industriali più grandi d’Italia. Nasce nel 1917 con lavori di bonifica di unaparte della Laguna di Venezia.

Il numero dei lavoratori riportato nella tabella, è quellodei lavoratori diretti, ma se si considerano anche i lavoratori delle imprese,il periodo di maggior occupazione è quello relativo agli anni 1965-1975, quandosi stavano costruendo nella seconda zona industriale i nuovi impianti,prevalentemente chimici e si stima che tra personale diretto e personale diimprese lavorassero circa 40.000 lavoratori.
Nel settore della chimica e raffinazione petrolio nel 1976,anno di punta della massima occupazione, c’erano circa 8.800 lavoratoridiretti.
Nel 2016 nell’area del petrochimico (chimica) e dellaraffineria erano occupati complessivamente circa 1.700 lavoratori diretti. Nelpolo industriale di Porto Marghera gli unici settori che sembrano tenere sonoquelli delle attività legate alla Portualità e quelle legate alla cantieristicanavale. In questo ultimo settore (Fincantieri) lavorano meno di 1.000 lavoratori diretti ed un esercitodi 3.000 lavoratori di imprese, che operano in sub-sub appalto e in condizionidi lavoro paurose, di sfruttamento e retributive da terzo mondo.
La ristrutturazione del polo industriale di Porto Marghera èiniziata nel 1981 (come in altri poli industriali italiani) e parte dallostabilimento Petrolchimico dove per la prima volta viene introdotta la cassaintegrazione speciale e il prepensionamento per un numero massimo di 616persone, ma una volta raggiunto questo numero invece di decadere rimane erimarrà in vigore sino al 1991 e tramite questo meccanismo verranno espulsi2751 lavoratori. Al Petrolchimico in questi 10 anni fiorisce un vero e propriomercato con l’istituzione di vere e proprie figure di mediatori (sindacalisti)che accompagnano i singoli lavoratori all’ufficio del personale per ottenerebuonuscite, incentivazioni all’esodo, favori, e nascono tutta una serie diclientele e giochi sporchi; su questo ci sarà anche un’indagine dellamagistratura e un’indagine interna del sindacato. Dal 1981 in poi, grazie alleorganizzazioni sindacali CGIL CISL UIL e i referenti dei partiti della“sinistra” PCI e PSI, in un vortice pauroso vengono man mano svendute esmantellate tutte le conquiste delle lotte degli anni ’60 e ’70.
Viene introdotta la nuova organizzazione del lavoro – con lacogestione della ristrutturazione continua. Vengono altresì introdotti: i“Circoli di qualità” su modello giapponese; i “nuovi contratti di FormazioneLavoro” (nuove assunzioni tramiteclientelismo politico-sindacale); la Terziarizzazione e la Lottizzazione ditutte quelle attività considerate non strategiche (queste attività vengonosubito “rilevate” da prestanomi che erano ex sindacalisti che avevano dietro aloro strutture politiche e sindacali). Vengono poi svenduti reparti e lineeproduttive ad altre società e a multinazionali che dopo un certo periodo ditempo li ristruttureranno ulteriormentee poi man mano li chiuderanno.
Questa purtroppo è la triste storia della lunga agonia diquesti ultimi anni della storia di Porto Marghera dal punto di vistaoccupazionale.
Ma nel polo industriale di Porto Marghera si sono visteanche storie molto belle
Gli anni ’60 e ’70 sono il periodo delle lotte per i dirittidei lavoratori, dei Consigli di Fabbrica, delle lotte per la sicurezza neireparti e luoghi di lavoro, delle lotte contro le fughe di gas e gli incidenti,del Sapere Operaio, dei Comitati Operai – i Comitati dei Lavoratori. Essivedono anche la nascita di un “ambientalismo operaio”, la presa di coscienzache bisognava difendere l’ambiente nel quale si lavorava e nell’ambiente nelquale si viveva.
Negli anni ’80 e ’90 emergono le esperienze di gruppi dilavoratori che facevano controinformazione e che denunciavano sia le condizionidi lavoro, che gli incidenti, le malattie, le morti sul lavoro e ladevastazione dell’ambiente e del territorio (inquinamento dell’aria, delleacque, del territorio, traffico di rifiuti, discariche abusive).
Dal 2000 in poi, si assiste alla nascita di gruppi dicittadini che lottavano per la difesa della loro salute e dell’ambiente controla chimica di morte e le lavorazioni nocive.
Porto Marghera Archivio AmbienteVenezia
Perché non si perda la memoria storica di quanto è successoin questi anni, nel 2017, centenario di Porto Marghera, abbiamo aperto unapagina facebook (qui il link) dedicata a Porto Marghera con molti materiali raccoltiin questi ultimi decenni. Sono a disposizione di tutti coloro che utilizzanofacebook e che vogliono vedere una parte molto importante della storia e dellelotte per i diritti sul lavoro e sul diritto a vivere e lavorare in un ambientesalubre.
Chi visiterà questo vero e proprio archivio troverà: foto,volantini, documenti, manifesti, interpellanze, dossier, libri e molti articolidei giornali locali e nazionali che raccontano la nostra storia e le nostrelotte. [1]

In particolare vi segnaliamo:

Troverete momenti della storia e delle lotte operaie per la difesa dei diritti e della salute, del "Sapere Operaio" e dei ragionamenti che facevamo in quegli anni:

Sono cose e storie di cui oggi molti dei vecchi protagonisti ha rimosso dalla memoria e che le nuove
generazioni non conoscono. Sono documenti che possono far capire che un altro tipo di mondo sarebbe possibile e che se si vuole si può tentare di cambiarlo veramente.

Tutti i documenti cartacei raccolti sono stati depositati e sono consultabili presso l’IVESER (Calle Michelangelo 54 P, Zitelle, Giudecca, Venezia) all'interno del Fondo Porto Marghera costituito da 28 raccoglitori di cartone.
Il materiale raccolto è stato ordinato per data, documentazione varia che va dal semplice volantino o articolo di giornale a documenti più consistenti come libri, giornali e opuscoli di fabbrica, verbali dei Processi Petrolchimico e Breda Fincantieri e documenti anche tecnici che affrontano anche problematiche produttive.
Presso l’IVESER troverete anche altri fondi con documenti sulla storia di Porto Marghera: Fondo Franco Bellotto, Fondo Luigi Scatturin, Fondo Emanuele Battain, Fondo Cesco Chinello.

Presso il Centro di Documentazione di Storia Locale di Marghera (Biblioteca di Marghera, Piazza Mercato, Marghera) troverete: Fondo AmbienteVenezia – Luciano Mazzolin, Fondo Associazione Gabriele Bortolozzo; Fondo Augusto Finzi.

Nel sito di https://www.medicinademocratica.org/wp/ sono consultabili e facilmente scaricabili i documenti di due archivi di AmbienteVenezia: Porto Marghera e Ambiente Laguna e Territorio, con documenti fino a dicembre 2011.

Qui i link alle schede di dettaglio allegate all'intervento, relative a tre esperienze (con link per accedere al documento pdf):

Scheda 1:Agenzia di informazione COORLACH
Scheda 2: Assemblea Permanente Contro il Rischio Chimico
Scheda 3: Il processo petrolchimico

Note

[1] L’archivio AmbienteVenezia è curato da Luciano Mazzolin. Email: luciano.mazzolin@libero.it

Al terzo appuntamento dell'assemblea nazionale contro le grandi opere inutili che si è tenuta a Venaus si è confermata la manifestazione capillare sui territori per l'8 dicembre e lanciato una grande manifestazione nazionale a Roma il 23 di marzo prossimo. (i.b.)
Il 17 novembre si è tenuta a Venaus l'assemblea nazionale dei comitati ambientali contro le grandi opere. Era il terzo appuntamento dopo quello di Venezia del 29 settembre e quello di Firenze del 6-7 ottobre. Sono la risposta di movimenti e comitati, sempre più consapevoli dei gravi problemi causati da politiche nazionali e locali neoliberiste, orientate allo sviluppo predatorio e senza limiti, alla speculazione, al profitto degli interessi della rendita, del cemento e dell'automobile e incuranti delle devastanti ripercussioni dei cambiamenti climatici.

Se l'8 dicembre sarà l'occasione per una mobilitazione diffusa nei territori (per esempio in Veneto la Marcia Mondiale per il clima a Padova; in Sicilia una manifestazione NO MUOS a Niscemi; in Piemonte la Marcia No Tav a Torino), il 23 marzo prossimo si terrà una grande Manifestazione Nazionale a Roma in cui confluiranno tutte le lotte territoriali "per rimettere al centro dell’azione la difesa e la messa in sicurezza dei territori, lo stop alle grandi opere inutili e la redistribuzione dei fondi pubblici, sprecati ad oggi per questi progetti, verso le priorità del Paese e del pianeta". (i.b.)


Oggi si tiene un 'assemblea a Venaus, per rafforzare il fronte di chi ha cuore il futuro dei territori e chiede uno stop immediato di tutte le grandi opere inutili e dannose, appuntamento che segue il percorso iniziato a Venezia a settembre. Qui i dettagli delle mobilitazioni. (i.b.)

Prosegue in Val di Susa il percorso nazionale contro le Grandi Opere e le politiche del governo iniziato il 29 settembre a Venezia.

Un’assemblea partecipata da centinaia di persone provenienti da tutto il paese, protagoniste le molteplici lotte territoriali che da nord a sud difendono la vita di chi quei territori li vive e cercano di porre in primo piano la tutela dell’ambiente e la sicurezza dei territori.
Se nei mesi di campagna elettorale abbiamo sentito gli esponenti del “governo del cambiamento” promettere un’inversione di rotta rispetto le politiche delle grandi opere, ad oggi queste affermazioni restano lettera morta.

Solo un anno fa la nostra valle vedeva i boschi bruciare e 6 mesi fa la montagna franare sulle case di molti valsusini, tutto ciò a causa della mancanza di investimenti pubblici per la manutenzione e la messa in sicurezza del territorio. Pochi mesi fa crollava il ponte Morandi a Genova e nei giorni scorsi la Sardegna piangeva morti e distruzione a causa del maltempo. Un film visto troppe volte, dove speculazioni, negligenza ed interessi dei privati la fanno da padrona e le priorità del governo sembrano altre, come l’approvazione del decreto Sicurezza che si traduce in una dichiarazione di guerra ai poveri di questo paese.

Non abbiamo mai delegato la nostra lotta a nessuno e come noi numerosissime lotte territoriali vogliono prendere parola e raccontare quella verità che molti vorrebbero nascondere: non c’è alcun cambiamento, non c’è nessun rispetto per i territori e per chi li vive, non c’è alcuna garanzia per il futuro di tutti e tutte.

Continuiamo ad essere convinti della necessità di proseguire un percorso comune, convocando un’assemblea nazionale il 17 novembre in Val di Susa, a Venaus, per rafforzare il fronte di chi ha cuore il futuro dei territori e chiede uno stop immediato di tutte le grandi opere inutili e dannose. Il giorno successivo costruiremo un’iniziativa di lotta sul territorio alla quale invitiamo tutti e tutte a partecipare!

Dalla Conferenza dei Territori riunitasi a Firenze il 6-7 ottobre giunge l’invito ad una mobilitazione diffusa sui tutti i territori l’8 dicembre, data storica per il nostro movimento e dal 2010 celebrato dal 2010 come la Giornata Internazionale contro le Grandi Opere Inutili e Imposte. L’assemblea del 17 novembre sarà l’occasione per coordinarci e rilanciare con forza questa mobilitazione su tutto il territorio nazionale!

Quest’ulteriore tappa di un cammino comune si auspica possa moltiplicare i momenti di confronto sul territorio e portare nei prossimi mesi ad una manifestazione nazionale a Roma contro le Grandi Opere, per la giustizia ambientale e i beni comuni.

Lo ricordiamo, casomai ce ne fosse ancora bisogno, che non esistono “governi amici” e che la difesa del futuro è nelle nostre mani.

Ci vediamo in Val di Susa il 17 novembre!

Qui il link alla pagina NOTAVINFO.

Proseguono le mobilitazioni ambientaliste iniziate a Venezia il 29 settembre. L'8 dicembre Assemblea e Marcia Mondiale per il clima a Padova. Eddyburg aderisce! Qui appello e riferimenti agli eventi. (i.b.)


Invito per tutti i comitati al "Siamo Ancora in tempo" meeting del Veneto. Per continuare il percorso iniziato con la grande assemblea nazionale di Venezia dello scorso 29 settembre.


Programma

Sala Diego Valeri, Via Valeri, Padova. Assemblea aperta per confrontarci sulla necessità di organizzare una mobilitazione regionale contro le grandi opere e per la giustizia ambientale. L'orario sarà comunicato al più presto.

A seguire: Marcia Mondiale per il Clima, corteo per le vie di Padova.

Appello

L'ultimo rapporto IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) afferma che abbiamo poco più di una decina di anni per contenere l'aumento della temperatura mondiale entro 1.5° e mantenere gli effetti del riscaldamento già in corso entro livelli gestibili; diventa quindi sempre più importante spingere verso un nuovo sistema di sviluppo basato su fonti alternative e rinnovabili.

Raccogliamo l'invito dei collettivi dei cittadini francesi per il clima a una mobilitazione internazionale durante i negozionati sui cambiamenti climatici COP24 che si terranno in Polonia dal 3 al 14 Dicembre. L'8 Dicembre è una giornata globale di mobilitazione per dire che siamo ancora in tempo a cambiare rotta e facciamo nostra l'indizione declinandola rispetto le contraddizioni del nostro territorio.

Il Veneto è la nuova terra dei fuochi: avvelenamento delle acque da Pfas; devastazione e sventramento dei nostri territori con la costruzione di nuove autostrade e super strade, come Valdastico e Pedemontana; il passaggio delle Grandi Navi a Venezia e nella laguna, un’offesa all’ambiente, al paesaggio, al delicatissimo ecosistema lagunare; una terra colpita da fenomeni meteorologici estremi che interrogano la tenuta di un territorio martoriato da un modello di sviluppo dissennato e piegato al profitto; valore di pm10 ed altre polveri sottili nell’aria nella nostra pianura tra i più alti in Europa e nel mondo.

Dalle montagne, alle colline, al mare della nostra regione non c’è angolo che non sia devastato dalla logica del guadagno per pochi, del denaro, della merce!

Abbiamo di fronte vecchi e nuovi predatori dei beni comuni, dell’acqua, dell’aria e della terra. Multinazionali senza scrupoli, come la Miteni di Trissino, principale responsabile dell’avvelenamento della seconda più grande falda acquifera in Europa e di un rischio per la salute presente e futura di circa 800 mila persone, oppure la famiglia Benetton, proprietaria al 90% delle concessioni autostradali (vedi Genova). Questi soggetti hanno mano libera da parte delle istituzioni politico-amministrative locali e regionali, sono parimenti responsabili, ma la politica ancor di più, poiché dovrebbe tutelare gli interessi e la qualità della vita dell’intera comunità e non quelli dei privati e delle lobby affaristiche.

Cos’è cambiato dall’ormai famigerato Giancarlo Galan, governatore del Veneto per molti anni, tristemente famoso per lo scandalo Mose, all’attuale amministrazione di Luca Zaia? Stessi attori, stessi metodi, stesso complice silenzio ed altrettanto complice assenso rispetto al criminale biocidio della nostra terra, devastazione ambientale e danni spesso irreversibili per la salute di migliaia di cittadini.

La logica delle grandi opere, appalti e concessioni dal “pubblico” al “privato”, è di per sé criminogena, produce corruzione e malaffare: un mostruoso intreccio politico-economico le cui conseguenze ricadono sulla vita e riproduzione dell’intera comunità.

Fermiamo la colossale macchina che produce distruzione e morte.

In Veneto esistono molte realtà, comitati, associazioni, movimenti, cittadini consapevoli che si auto-organizzano al di fuori di partiti ed istituzioni per difendere i beni comuni: partono, come è naturale, da situazioni territoriali e problemi locali e specifici.

La scommessa deve essere quella di trovare elementi comuni pur nelle differenze, di riunire tutte queste espressioni conflittuali, grandi o piccole che siano, in un grande fronte di lotta condiviso e aumentare con l’unità la nostra forza e potenza di agire su chi comanda e governa i nostri territori.

Uniamo la pluralità delle voci in un unico grande coro che gridi con forza sotto il palazzo della regione Veneto: «Ora basta! Non c’è più tempo! Stop biocidio!»

Verso la costruzione di una mobilitazione regionale di tutti i comitati e movimenti per la difesa dell’ambiente, della salute, del territorio!

Giù le mani dai beni comuni!

Basta con i predatori delle nostre vite!

Siamo ancora in tempo!

Promosso da:
Comitato Zero Pfas Padova
Comitato NO Grandi Navi Venezia
Comitato No Dal Molin Vicenza
Comitato No Pedemontana Treviso
Comunità Salviamo la Val d'Astico

Per aderire manda un messaggio sulla pagina FB Siamo Ancora In Tempo - Veneto.


Riferimenti
Si moltiplicano e si estendendo i movimenti popolari per la difesa dell'ambiente ed è sempre più acuta la consapevolezza dell'assenza di una sintesi politica capace di coniugare il contrasto alla crisi con la proposta di un modello alternativo. Qui un articolo di Ilaria Boniburini e Edoardo Salzano con i link ai passati incontri e che illustra i prossimi appuntamenti

attuarelacostituzione.it, 30 ottobre 2018. Le ragioni per cui niente vieta al governo attuale di fermare la costruzione dell'oleodotto e dichiarare "nulli" i contratti per l'attuazione TAP. (i.b.)

In ordine alla cosiddetta questione TAP è da dire, innanzitutto, che il costo dei danni ambientali, alla salute, nonché alla sicurezza pubblica che produrrà l’attuazione di detto progetto superano di gran lunga l’eventuale somma di circa 35 miliardi prevista da una stima governativa sulle eventuali richieste di risarcimento.

Inoltre è da tener presente, come giustamente ha rilevato l’attuale governo, che la responsabilità della firma dell’accordo intergovernativo tra Grecia, Albania e Italia ricade tutta sul governo che all’epoca firmò l’accordo stesso e che, di conseguenza, la legge di ratifica che ha esposto l’Italia a subire i danni scaturenti da quell’accordo è sicuramente incostituzionale.

Ne consegue che l’attuale governo non può porsi nel solco della illegittimità costituzionale tracciata dai governi precedenti ed è quindi nell’impossibilità giuridica di adempiere alle obbligazioni da quei governi assunte, si tratta del classico caso della impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile all’attuale debitore (articolo 1218 del Codice Civile). Il Governo, dunque, ha un solo dovere da adempiere: vietare l’esecuzione di questo scellerato progetto.

D’altro canto si ricordi che esistono rimedi sul piano giurisdizionale. Infatti i Comitati legittimati ad agire in giudizio possono chiedere al Giudice ordinario di dichiarare “nulli”, ai sensi dell’articolo 1418 del codice civile, i contratti relativi all’attuazione del TAP, in quanto contrari alle norme imperative di cui all’art. 41 della Costituzione, secondo il quale “iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”, e di cui all’art. 32 della Costituzione che, come è noto, tutela il diritto fondamentale alla salute e all’ambiente salubre.

I Comitati dovrebbero altresì chiedere al Giudice la rimessione della legge di ratifica alla Corte costituzionale per il suo annullamento, nonché un provvedimento urgente per la sospensione dei lavori.

Concludiamo chiedendo all’attuale governo di porsi dalla parte della Costituzione e non dei nostri governanti che hanno distrutto l’Italia uniformandosi al sistema economico predatorio del neoliberismo imperante. Se cinque stelle e lega hanno avuto uno strepitoso risultato elettorale è perché i cittadini vogliono un governo che faccia gli interessi del Popolo e non dei cosiddetti poteri forti.

Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

linkiesta.it. 2 Novembre 2018. Nella Legge di Bilancio non c'è nulla a sostegno della qualità dell'ambiente e cura dei territori, ancora una volta si trascura il pianeta su cui viviamo e in questi giorni abbiamo visto quanto questo sia importante.

Zero assoluto. Non c’è nulla nella Legge di Bilancio, che riguarda provvedimenti, investimenti, scelte di carattere ambientali, nemmeno il proverbiale contentino. Non un sostegno all’economia circolare, non un incentivo all’uso di energie rinnovabili, non un piano per la riqualificazione energetica degli edifici pubblici e privati che sprecano energia, non un cambio di fiscalità che premi, almeno un po’, chi inquina meno e punisca chi inquina di più (vedi il pacchetto di proposte di Legambiente) , non un investimento contro il dissesto idrogeologico e in favore dell’adeguamento di città e territori al cambiamento climatico, minaccia reale molto più del terrorismo islamico o degli eurocrati cattivi.

E possiamo fare pure finta che sia un caso il maltempo che ha fatto quattordici morti nel giro di poche settimane, devastando l’Italia dalla Sardegna alle Alpi, passando per Roma e Milano. Che non c’entri nulla con quelli che ormai i climatologi come il francese Wolfgang Cramer chiamano “eventi mediterranei”, dalle violentissime canicole estive che distruggono i raccolti e ammazzano le persone fisicamente più vulnerabili, alle tempeste di vento e pioggia che abbiamo imparato a conoscere. Possiamo fare pure finta di non sapere che il 2018 è stato il quarto anno più caldo mai misurato, che agosto è stato il mese più caldo mai registrato in Europa, e che i mesi seguenti, tempeste tropicali a parte, non hanno fatto eccezione. E già che ci siamo, facciamo finta non sia uscito il rapporto Ipcc - 91 autori, 6000 referenze scientifiche - che ci ha detto che abbiamo dodici anni al massimo per fare qualcosa. Facciamo finta finché vogliamo, fino a che non ci siamo noi sui ponti che crollano, sulle montagne che smottano, sotto gli alberi che cadono, costretti a bollire l’acqua per berla, come sta accadendo sulle Alpi tra Trento e Belluno, nel 2018.

Possiamo far finta pure che non ci fossero aspettative diverse, già che ci siamo. Che Luigi Di Maio, ad esempio, non avesse parlato in campagna elettorale di investimenti ambientali ad alto moltiplicatore per far ripartire l’economia. Che lo stesso Movimento Cinque Stelle non fosse porta bandiera, giuste o sbagliate che fossero, di tutta una serie di istanze ambientaliste NoTav, NoTap, NoIlva puntualmente sconfitte - o in procinto di esserlo: vediamo che succederà con la Tav - una volta al governo. Che lo stesso governo non abbia sanato trent’anni di abusi edilizi a Ischia, nel decreto relativo al crollo del ponte Morandi, a Genova, su proposta del Movimento stesso.

E dire che la domanda c’è, eccome. Che come racconta il rapporto Green Italy curato ogni anno da fondazione Symbola e della quale è stata recentemente presentata l’edizione 2018, in Italia ci sono 345mila imprese italiane che negli ultimi cinque anni hanno investo in prodotti e tecnologie green per ridurre l’impatto ambientale, risparmiare energia e contenere le emissioni. In pratica un’azienda italiana su quattro, il 24,9% dell’intera imprenditoria extra-agricola. Forse esagera, Ermete Realacci, quando dice che siamo «una superpotenza dell’economia circolare», ma forse ci farebbe anche comodo che qualcuno tra quelli che ci governano cominciasse, almeno in potenza, a considerarci davvero come tali.

Male non gli farebbe, peraltro, visto il boom che stanno avendo i partiti ambientalisti in Europa, coi verdi tedeschi ormai stabilmente seconda forza della politica tedesca, tanto quanto quelli olandesi, coi verdi austriaci che hanno eletto il presidente della repubblica, coi verdi francesi anch’essi in crescita, sopra il 10% secondo alcuni tra gli ultimi sondaggi.

E magari farebbe bene pure a un’opposizione in cerca di identità, che ben si è guardata dal porre qualsivoglia tematica ambientale nelle proprie critiche alla manovra. E che magari, in una piattaforma politica prossima ventura, potrebbe fare dell’ambiente, della lotta al cambiamento climatico, degli investimenti per l’efficienza energetica e della promozione di un’economia davvero circolare le proprie bandiere per il prossimo futuro. Del resto, tasse, immigrati e sussidi se li sono già presi gli altri, no?

Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

Si moltiplicano e si estendendo i movimenti popolari per la difesa dell'ambiente ed è sempre più acuta la consapevolezza dell'assenza di una sintesi politica capace di coniugare il contrasto alla crisi con la proposta di un modello alternativo. Qui le date e gli appelli.

Il 30 settembre scorso si è tenuta a Venezia un Assemblea nazionale dei comitati ambientali per fare il punto sulle grandi opere inutili e le nefaste ripercussioni che il modello di sviluppo, basato sulla crescita infinita e sull'unico obiettivo dell'incremento del profitto, sta avendo sui territori.

Con un appello alla giustizia ambientale si sono convocati tutte le realtà di resistenza alle devastazioni e alle violazioni ambientali e non solo, per cercare un percorso comune. Da Taranto alla Val di Susa si sono ritrovati all'assemblea più di trecento persone in rappresentanza di 56 comitati e movimenti, dai No Tap ai No Pfas, da Trivelle Zero a Stop Biocidio, dai No Tav a No Grandi Navi, che hanno ospitato l'incontro e lanciato questo percorso. E' emerso un'inequivocabile dissenso nei confronti del governo non solo contro le grandi opere, ma anche nei confronti del crescente inquinamento dell'aria e dell'acqua, delle privatizzazioni di beni comuni, della dipendenza energetica dal fossile che consente l'intensivo trivellamento e l'investimento sul gas. Qui il link al comunicato sottoscritto dai partecipanti.

ll 6-7 ottobre a Firenze si è tenuta la Conferenza dei territori – Viva l’Italia, l’Italia che resiste, il secondo incontro di questo percorso verso una mobilitazione comune. Qui i link agli interventi e al verbale della conferenza.

A seguito di questi incontri i principali comitati e i movimenti ambientalisti hanno deciso di incontrarsi di nuovo il 17-18 novembre 2018 a Venaus in Val di Susa, per un' Assemblea Nazionale e proseguire il dialogo e l'organizzazione di un fronte comune contro le Grandi Opere e per la Giustizia Ambientale. Qui l'appello e i dettagli.
Per l' 8 dicembre, una data storica per il movimento No Tav, è in programma una mobilitazione diffusa sui tutti i territori.

Queste ulteriori tappe hanno l'obiettivo di moltiplicare il confronto e la condivisione delle lotte e portare nei prossimi mesi ad una manifestazione nazionale a Roma contro le Grandi Opere, per la giustizia ambientale e la difesa dei beni comuni.

Rinnovabili.it, 16 ottobre 2018. Solo fermando lo sfruttamento delle risorse fossili si potrà limitare le emissioni di CO2 e avere ancora qualche possibilità di evitare le preannunciate catastrofi ambientali. Qui una proposta concreta per l'Italia. (i.b.)

Il Coordinamento Nazionale No Triv ha inviato al Ministero dello Sviluppo Economico il Pacchetto Volontà, un documento che racchiude nove proposte di interventi normativi finalizzati alla decarbonizzazione del sistema Italia.

Un pacchetto di misure finalizzate all’accelerazione di quel processo di decarbonizzazione del sistema Italia, che si impone tra le priorità dell’azione di governo. Il Coordinamento Nazionale No Triv riparte alla riscossa e mette a disposizione del Governo e di tutte le forze parlamentari il Pacchetto Volontà, un documento contenente 9 misure di carattere normativo proposte da No Triv per accelerare il processo di decarbonizzazione dell’Italia. Un processo che secondo il Coordinamento dovrebbe essere “tempestivo e risoluto”, considerate anche le conclusioni cui è pervenuto l’IPCC nel rapporto diffuso pochi giorni fa, per difendere i territori e i diritti dei cittadini. In una lettera inviata al Ministero dello Sviluppo Economico, il Presidente del Coordinamento Nazionale No Triv, Francesco Masi, parla di “un fare virtuoso, fattivo e stringente” che dovrebbe essere messo in atto e ricorda le devastazioni ambientali che hanno subito negli anni i territori e le popolazioni: “Il pensiero – scrive Masi nella lettera – corre ai territori e alle popolazioni da decenni vittime di sistematiche campagne di saccheggio e di devastazione ambientale; si pensi, ad esempio, alla Basilicata”.

Nello specifico, le nove misure propongono: l’approvazione di una moratoria riguardante attività di ricerca, coltivazione e stoccaggio ulteriori rispetto a quelle oggetto di titoli già concessi, sia in mare sia sulla terraferma; il ripristino della Previsione del Piano delle Aree, abolito dal Governo Renzi con la Legge di Stabilità 2016 (“Il Piano delle Aree – si legge nel Pacchetto – avrebbe dovuto funzionare da strumento di regolazione, programmazione, razionalizzazione delle attività estrattive nel nostro Paese, ma non ha mai visto la luce. La sua stessa previsione è stata infatti abrogata dal Parlamento in base a un emendamento alla Legge di Stabilità 2016”); il ripristino dello strumento dell’intesa in senso forte tra Stato e Regioni (“Sul piano normativo – si riporta dal documento – si è generata una situazione di dubbia legittimità costituzionale, che sottrae di fatto agli Enti Locali un fondamentale strumento di esercizio e tutela delle prerogative democratiche a garanzia delle ragioni dei territori. Oggi l’Esecutivo dispone infatti del potere di superare l’opposizione delle Regioni, concedendo a suo piacimento la relativa “autorizzazione unica”); l’abrogazione della norma che consente di prorogare i termini temporali delle concessioni petrolifere giunte a scadenza; il rispetto della volontà della maggioranza dei votanti in occasione del referendum No Triv; l’approvazione di un nuovo disciplinare-tipo rispettoso delle prerogative delle Regioni; una revisione delle norme sulla VIA(Valutazione di Impatto Ambientale); nuovi criteri di valutazione per la nomina dei componenti della Commissione Nazionale VIA, allo scopo di prevenire e stroncare il sistema che favorisce il transito nelle varie commissioni ministeriali (Mise e Minambiente) di figure provenienti da società direttamente e indirettamente interessate allo sviluppo delle attività Oil&Gas in Italia, e non solo; infine il varo di un piano di decommissioning degli impianti estrattivi non più produttivi/non eroganti, comprensivo di bonifiche ambientali, che, secondo il Coordinamento No Triv “avrebbe anche una positiva ricaduta sul piano degli investimenti e del mantenimento degli attuali livelli nazionali in un settore in cui il nostro Paese è in grado far valere know-how esclusivo ed eccellenti capacità operative”.

Le misure contenute nel Pacchetto Volontà sono state in parte anticipate in un dossier che è già stato inviato al Ministero dell’Ambiente e che sarà oggetto di discussione in un incontro che ci sarà il prossimo 21 ottobre a Brindisi Montagna (Potenza), con una delegazione di parlamentari eletti in Basilicata.
Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

the submarine, 8 ottobre 2018. Il M5s ha sostenuto in campagna elettorale molte lotte ambientaliste e si è detto contrario alla devastazione dei territori e agli interessi mafiosi. Dopo sei mesi di governo, si può confermare che si trattava di mera propaganda. (i.b.)



Da quando è al governo, il Movimento 5 Stelle — fino a poco tempo fa schierato in prima linea per la difesa dell’ambiente — ha smesso progressivamente di parlare di tematiche ambientali.

Questo sarebbe il governo del cambiamento, secondo chi è al governo. Il cambiamento che in tutto il mondo è più percettibile da chiunque, però, è quello climatico. Ieri l’IPCC ha pubblicato uno studio da cui emerge che la situazione del clima è più grave di quanto previsto: anche se tutti i partecipanti agli accordi di Parigi rispettassero gli impegni presi, probabilmente non si riuscirebbe a limitare in modo decisivo fenomeni catastrofici. Se prima si pensava che esondazioni, aumento del livello del mare e strage di coralli e pesci si sarebbero verificati col raggiungimento di due gradi centigradi di riscaldamento rispetto all’era preindustriale, il nuovo studio certifica che si verificheranno anche con un aumento di un grado e mezzo. Che è molto difficile da evitare.

Nel nostro paese dovrebbe esserci qualcosa di diverso, però, che dovrebbe far vedere un minimo di speranza in fondo al tunnel: per la prima volta un partito che tra i suoi primi punti identificativi ha sempre avuto la tutela dell’ambiente, il Movimento 5 stelle. Addirittura, le cinque stelle nel simbolo del partito dovrebbero rappresentare la tutela dell’acqua pubblica, della mobilità sostenibile, dello sviluppo, della connettività e dell’ambiente. Ma questa è archeologia politica: la simbologia risale agli albori del partito.
Cosa sta facendo per la tutela dell’ambiente il Movimento 5 stelle, ora che è alla guida del paese?

Poco più di niente: non quanto ci si aspetterebbe da un partito che si era mostrato così schierato sui temi ambientali. Ha fatto di più durante la scorsa legislatura, quando ad esempio ha firmato con LeU una legge per la sostituzione dell’amianto e incentivo al fotovoltaico, o una legge sugli ecoreati firmata con il Pd. Ci sono una serie di cose che dovrebbero essere all’ordine del giorno ora che il partito è al governo, e che invece stanno venendo ignorate, rimandate, o affrontate in modo incompleto, in molti casi in aperto spregio di cose dette o scritte dagli esponenti del movimento negli scorsi anni. Vediamone qualcuna.

No carbon tax
In un post del blog di Beppe Grillo del 4 luglio del 2017, si proponeva una “revisione organica delle imposte sussidi procedendo alle eliminazioni di quelle risultate non efficaci per la tutela ambientale e conseguente introduzione di misure che, attualmente, ancora mancano nel nostro ordinamento. Ad esempio la carbon tax.” [la pagina del blog è stata rimossa. ndr]

La carbon tax è uno dei metodi più efficaci per agire sul consumo di energie non rinnovabili, e come avevamo spiegato questo giugno, sarebbe il momento di implementarla anche in Italia. Al momento però il governo non sembra avere la minima intenzione di implementarla, essendo a quanto pare più orientato sulla flat tax del suo alleato Salvini.

No chiusura trivelle
In una recente visita a Potenza, Di Maio è stato contradditorio. Prima ha dichiarato di non essere favorevole a un’eccessiva espansione di “sterminati” campi dedicati all’energia eolica e fotovoltaica. Poi di non volere dare priorità al petrolio che “minaccia la salute dei lucani.” Però poi ha anche sostenuto di essere “pragmatico” e che non firmerà concessioni per trivelle a meno che non ci sia un ritorno anche per i cittadini della Basilicata. Insomma, darà le concessioni per nuove trivelle. Tutto questo dopo che il Movimento è stato in prima linea per il referendum antitrivelle sulla riviera adriatica, e anche nella stessa Basilicata.

No eliminazione sussidi combustibili fossili
L’Italia spende ogni anno 16 miliardi in sussidi diretti e indiretti ai combustibili fossili. La loro eliminazione è tra gli obiettivi degli accordi di Parigi. Al momento non sembra essere però tra le priorità del governo. Nel dicembre del 2017, era apparso in proposito un articolo sul blog di Beppe Grillo.

Questi tre sono forse gli argomenti più macroscopici sui quali il governo si è mostrato reticente. Ma ce ne sono altri, che pur essendo meno importanti o gravi, meritano comunque una citazione, e che dovrebbero essere all’ordine del giorno di un partito che vorrebbe garantire in modo così cristallino la difesa dell’ambiente.
Cose di cui il Movimento 5 Stelle non parla nemmeno più:
No inizio procedure partecipate per decidere localizzazione costruzione impianti rinnovabili — manca un piano dell’energia rinnovabile nazionale.
No sussidi a industrie rinnovabili.
No finanziamento su tecnologie di accumulo energia.
No incentivi a impianti rinnovabili domestici.
No piano installazione impianti rinnovabili in piccole isole.
No incentivi edifici basso impatto energetico e geotermia a bassa entalpia.
No piano per la transizione del Sud Italia a fotovoltaico.
No dibattito sul building integrated fotovoltaico.
No stretta elettrificazione su industrie, ad esempio sull’ILVA.
No piano di protezione degli habitat della biodiversità marina.
No piano sostituzione distribuzione combustibili fossili automobili con infrastruttura elettrica.
No piano eliminazione automobili a combustibili fossili.
No piano trasformazione ambiente urbano da auto a trasporti pubbico+bici.
No piano mobilità ciclabile nazionale.
No piano potenziamento ed estensione ferrovie.
No piano trasmigrazione trasporto merci da gomma a ferrovie.
No piano sostituzione grandi navi con elettriche.
No piano utilizzo biocombustibili negli aerei che partono da aeroporti italiani.
No stretta contro deforestazione, anzi.
No normativa per la tutela del suolo.
No regolamentazione contro overfishing.
No stretta su inquinamento climalterante.
No stretta su inquinamento climalterante marino.
No normativa regolamentazione e virtuosismo ambientale della filiera del cibo biologico .
No legge contro cementificazione.
No ricerca per studiare effetti cambiamento climatico sul paese – anzi, chiusura di Italiasicura.
No incentivo al dibattito pubblico in tv sul cambiamento climatico.

A questo articolo ha collaborato Tommaso Sansone.

Tratto dalla pagina qui raggiungibile

Re:common, 25 settembre 2018. Recensione e radio intervista all'inchiesta di Marina Forti sull'impatto ambientale dell'industrializzazione del "miracolo italiano". Come allo sviluppo economico siano stati sacrificati la terra, l'acqua, l'aria e la salute dei lavoratori. (i.b).

Mala Terra, scritto dalla giornalista Marina Forti e pubblicato da Laterza, è un libro prezioso, fondamentale, imprescindibile per capire quali sono i pesantissimi strascichi lasciati dal processo di industralizzazione condotto nel secolo scorso nel nostro Paese. Soprattutto spiega alla perfezione come si stia gestendo, molto male, questo pesante lascito.

Grazie a una minuziosa ricostruzione storica e una costante presenza sul campo, uno stile asciutto e incisivo, Forti ci racconta di territori martoriati, comunità che non si arrendono, di una classe imprenditoriale sempre pronta a “socializzare” problemi e difficoltà e di istituzioni spesso assenti, a volte maldestre, non di rado complici.
Sulla scorta di un’esperienza decennale in giro per il mondo anche come inviata del Manifesto, per il quale ha curato a lungo la rubrica Terra Terra, l’autrice riesce a trattare con la giusta sensibilità alcuni passaggi fondamentali della recente storia italiana, in primis il ruolo chiave svolto dal comparto chimico, considerato per anni la panacea di tutti i mali e una fonte inesauribile di posti di lavoro.
Mala Terra è così un susseguirsi di storie ben conosciute, come il dramma di Taranto o la saga infinita di Porto Marghera, di altre scomparse troppo presto nei media nazionali, come i casi di Bagnoli o Portoscuso, o di altre ancora di cui si sa pochissimo, per non dire nulla, perché hanno avuto un po’ di eco solo sui quotidiani a tiratura locale, come la vicenda Caffaro a Brescia.
Certo, nell’età dell’oro dell’industria italiana questi luoghi erano una sorta di oasi felici, come Colleferro, la città-fabbrica della Valle del Sacco, dove la classe operaia locale aveva raggiunto un discreto benessere anche perché tutto era pensato in funzione della produzione aziendale. Non va dimenticato che, per esempio, per il petrolchimico di Priolo sono spariti agrumeti di gran pregio o che a Bagnoli un’embrionale vocazione turistica è stata cancellata dallo sviluppo industriale che ha lasciato solamente macerie.
Per molto tempo i lavoratori sono rimasti beatamente ignari dei rischi per la salute legati a quanto maneggiavano o respiravano in fabbrica. Ma già nella seconda metà degli anni Settanta per molti dei casi esaminati nel libro si iniziò a capire quali erano le conseguenze dell’avere a che fare con sostanze come Pcb o diossine, mercurio o solventi clorurati. E che lo smaltimento di quelle sostanze era e sarebbe sempre stato un grosso problema. Si sono sfiorate immense tragedie. A Porto Marghera, quando un incendio è arrivato a 20 metri da un deposito dove c’erano 12 tonnellate del letale fosgene, si è sfiorata una nuova Bhopal.
Sono stati commessi errori sistemici: alla fine del loro ciclo queste industrie assicuravano pochi posti di lavoro, eppure nessuno ha pensato a pianificare un giusto processo di riconversione, come accaduto con esiti più o meno positivi in altri paesi. Meglio spremere il più possibile l’esistente, senza uno straccio di visione di medio e lungo termine.
Il tutto “scordandosi” poi delle bonifiche, che invece chiedono a gran voce i mille comitati, associazioni e organizzazioni nate nei territori dove si continua a morire e a soffrire per uno sviluppo industriale fuori controllo. Per ripulire l’Italia servirebbero almeno 30 miliardi di euro. Tanti soldi che avrebbero dovuto in buona parte sborsare le compagnie private, che troppo spesso si sono guardate bene dal riparare i danni causati dal profitto a ogni costo.
Tratto dalla pagina qui raggiungibile.
Qui l'intervista all'autrice su radio articolo 1.

Il 6-7 ottobre a Firenze la seconda tappa degli incontri nazionali dei comitati ambientalisti, pronti a scendere in campo in un fronte unico contro il governo attuale, le grandi opere, e la deriva distruttiva del modello di sviluppo neoliberista. Con riferimenti (i.b.)

Conferenza dei territori – Viva l’italia, l’italia che resiste
Firenze, 6-7 ottobre 2018

Il degrado ambientale dei territori è crescente, la vivibilità presente e futura dei residenti è visibilmente minacciata. Le soluzioni, note da anni, sono la cura e il risanamento dei territori, la pianificazione degli investimenti delle infrastrutture, la prevenzione per evitare i danni provocati da ogni evento naturale o derivante da opere infrastrutturali.

La drastica riduzione delle riserve di materie prime e fonti energetiche, evidenziata dal raggiunto picco del petrolio convenzionale, impone di ripensare alla radice il sistema dei trasporti e delle infrastrutture,così come le trasformazioni edilizie ed urbanistiche del territorio e delle città.

Siamo convinti che la mobilitazione dei cittadini sia indispensabile per affermare dal basso le iniziative per contrastare questa deriva distruttiva quasi sempre descritta come conseguenza inevitabile del “progresso” e/o delle “catastrofi naturali”.

Cura, risanamento e messa in sicurezza del territorio hanno bisogno di nuove ‘geografie mentali’ e progettuali costruite dal basso e insieme agli abitanti, capaci di considerare il territorio come ecosistema complesso e vitale, arrestandone la morte ambientale, ecologica ed in fin dei conti economica.

Le associazioni e i movimenti che si oppongono contro le Grandi Opere Inutili e Imposte – riconosciuti come soggetto politico, e quindi fortemente contrastati - hanno indicato da tempo che per il raggiungimento degli obiettivi per la difesa e il risanamento dei territori è indispensabile che i Governi e ogni altra istituzione preposta ad assumere decisioni diano ascolto ai cittadini ed esaminino i loro argomenti, come richiesto dalla Convenzione di Århus, che è legge dello Stato.

Il Comitato No Tunnel TAV e il Movimento No TAV promuovono la Conferenza dei Territori del 6-7 ottobre 2018, un evento al quale contribuiranno le associazioni e i movimenti che lottano da anni contro le GOII – Grandi Opere Inutili e Imposte, con l’obiettivo di:

Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

Riferimenti
Sul programma e obiettivi dell'assemblea nazionale che si terrà a Firenze il 6-7 ottobre si veda il sito di notavfirenze. In merito a questo percorso si consiglia l'articolo scritto per eddyburg di Paolo Baldeschi "Politica e grandi opere inutili".
Sulla precedente assemblea a Venezia del 29 settembre 2018, la prima tappa di questo percorso, si legga il "Report assemblea nazionale contro le grandi opere e per la giustizia ambientale".

Sul sito Nograndinavi l'appello dell'assemblea di Venezia del 30 settembre con l'elenco dei comitati e movimenti che hanno aderito.

Nena-news, 13 settembre 2018. Il gasdotto East Med, che correrà sotto il mediterraneo e che approderà in Italia, potrebbe avere un nuovo protagonista, Israele, che si giocherà questa carta per avere un ruolo ancor più centrale nella politica internazionale. (i.b.)

«In questi giorni si sta svolgendo a Salonicco l’83esimo International Trade Fair. Il 9 settembre si è svolto un incontro tra i Ministri ‎dell’Energia di Grecia, Israele, Bulgaria, Serbia e Stati Uniti per discutere della possibile ‎espansione nei Balcani del gasdotto sottomarino East Med»

La scoperta di enormi giacimenti di gas vicino le coste di Haifa ha trasformato Israele in uno dei principali produttori di gas di tutto il Mediterraneo, aumentando ulteriormente il suo peso politico nella regione. La strategia israeliana sembra essere quella di rendere l’Europa più ‎dipendente nel settore energetico e di creare nuove alleanze con i, possibili, futuri membri ‎balcanici.‎

In questi giorni si sta svolgendo a Salonicco l’83esimo International Trade Fair (8-16 Settembre), ‎considerato tra i più importanti eventi fieristici di tutto il Sud-Est Europa. Il tema principale di ‎quest’anno è quello dell’energia, con la partecipazione degli Stati Uniti in veste di “Paese ospite ‎d’onore”. Tra gli eventi in programma si è svolto, il 9 settembre, un incontro tra i Ministri ‎dell’Energia di Grecia, Israele, Bulgaria, Serbia e Stati Uniti per discutere della possibile ‎espansione nei Balcani del gasdotto sottomarino East Med. Sia il Ministro bulgaro Temenuzhka ‎Petkova che quello serbo Aleksandar Antić hanno sottolineato l’importanza del progetto che ‎garantirebbe loro un ruolo centrale nel mercato dell’energia nella regione balcanica. ‎

Nello specifico, Antić ha messo in risalto come la Serbia manchi di infrastrutture energetiche e come ‎l’attuale offerta di gas proveniente dal Mar Caspio non riesca a soddisfare pienamente la domanda ‎interna, accogliendo con grande entusiasmo il nuovo progetto East Med. La Bulgaria punta ad ‎allentare la sua dipendenza, pressoché totale, dal gas russo prodotto da Gazprom che fornisce circa il ‎‎90% del fabbisogno annuale del paese. Dal canto suo il Ministro israeliano Yuval Steinitz ha ‎garantito che lo sviluppo dei giacimenti di gas offshore israeliani renderanno Israele un ‎fornitore affidabile. L’incontro è avvenuto alla presenza del Sottosegretario all’Energia degli Stati ‎Uniti Mark Menezes a dimostrazione dell’importanza strategica del nuovo gasdotto per il ‎protagonismo statunitense nell’area.‎

Nel dicembre dello scorso anno Italia, Cipro, Grecia e Israele avevano firmato un Memorandum ‎d’intesa per la creazione di una joint venture, Ig Poseidon, tra Edison e la società greca Depa per la ‎costruzione dell’Eastern Mediterranean pipeline (EastMed), un gasdotto sottomarino che ‎trasporterà verso l’Italia il gas prodotto dalle enormi riserve recentemente scoperte a Cipro e in ‎Israele, nel cosiddetto “Leviathan field” a circa 130 chilometri dalla costa di Haifa. In occasione del ‎summit di dicembre, il Ministro Steinitz ha voluto tranquillizzare i partner mettendo in risalto come ‎la costruzione sottomarina del gasdotto riduca al minimo la possibilità di atti di sabotaggio. Il valore ‎complessivo dell’investimento è stimato in oltre 6 miliardi di euro e una volta concluso, nel 2025, ‎sarà in grado di trasportare fino a 16 miliardi di metri cubi di gas all’anno su una rete di circa 2 mila ‎km.‎

Dal punto di vista politico questo progetto persegue almeno tre obiettivi principali. Il primo è ‎quello di espandere il mercato energetico dell’Unione Europea riducendo così la sua dipendenza ‎dalla Russia. L’allargamento di East Med verso Serbia e Bulgaria, i due principali importatori di gas ‎russo nella regione, serve proprio a questo. Non a caso l’UE ha incluso il progetto nella lista dei ‎progetti di interesse comune in quanto incrementa la sicurezza e la diversificazione delle forniture.‎

Il secondo obiettivo è quello di accrescere il peso di Israele nel sempre più importante settore ‎dell’approvvigionamento energetico considerato tra i più profittevoli nel prossimo futuro. In questo ‎modo Israele si garantirebbe, contemporaneamente, un notevole vantaggio rispetto ai competitors ‎mediorientali e una sempre maggiore dipendenza energetica dei palestinesi. Infine, l’inclusione di ‎Serbia e Bulgaria servirà a evitare l’isolamento di Tel Aviv attraverso la creazione di nuovi ‎partenariati commerciali, in un momento delicato per i rapporti tra Israele e la comunità ‎internazionale.‎

Non è la prima volta che Israele stringe accordi nel settore energetico con i paesi dei Balcani. ‎Ne è dimostrazione l’avvio dei lavori per la costruzione di un impianto eolico a Kovačica, città a 60 ‎km a Nord di Belgrado. Il progetto, dal valore di 190 milioni, è stato finanziato dalla società ‎israeliana Enlight Renewable Energies, dall’agenzia di credito tedesca Erste Group Bank AG, ‎dall’Erste Bank Serbia e dalla Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo. La stessa società ‎israeliana ha inoltre acquisito, nel 2016, il 90% del progetto di costruzione dell’impianto eolico di ‎Lukovac, nelle vicinanze di Spalato, per un totale di circa 7,5 milioni di euro. Infine, nel marzo di ‎quest’anno, ha annunciato l’acquisto dei diritti per la costruzione di un impianto eolico in Kosovo. ‎

Nei prossimi anni Tel Aviv giocherà un ruolo centrale nella fornitura di energia per l’Europa e ‎questo potrebbe portare a ulteriori consistenti investimenti anche nella regione balcanica che in ‎futuro non troppo lontano, secondo le intenzioni dell’UE, dovrebbe essere integrata nel mercato ‎unico. I paesi dei Balcani sono alla continua ricerca di investimenti esteri per migliorare le proprie ‎performance economiche e sopperire alla mancanza di capitali. Israele, in questo campo, potrebbe ‎essere quindi un importante alleato.

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Internazionale, 6 agosto 2018. Si continua a sottovalutare il cambiamento climatico e le ripercussioni che questo avrà su risorse fondamentali come acqua e cibo. Dovremmo mirare a una riduzione drastica delle emissioni, ma andiamo avanti come se nulla fosse. Aspettiamo un miracolo o contiamo sul poterci comprare acqua, cibo ed energia a qualsiasi prezzo? (i.b.)

Nell’emisfero nord è un’estate apocalittica: incendi fuori controllo in tutto il circolo polare artico (per non parlare di California e Grecia), ondate di calore di varie settimane con temperature record, acquazzoni torrenziali e inondazioni bibliche. Eh già, si tratta di proprio di cambiamenti climatici.

Non è assurdo essere spaventati, poiché le estati saranno sempre peggiori nei prossimi dieci anni, e molto peggiori nei dieci anni successivi. Dei tagli drastici e immediati alle emissioni di gas serra oggi potrebbero evitare che le estati degli anni quaranta del duemila siano anche peggiori, ma non potrebbero comunque fare molto per alleviare la crescente sofferenza dei prossimi vent’anni. Buona parte di queste emissioni si trova già nell’atmosfera.

E la verità è che non assisteremo ad alcun “taglio drastico e immediato delle emissioni di gas serra” nel prossimo futuro. Le cose peggioreranno, e di molto, prima di migliorare, se mai miglioreranno. Ed è quindi probabilmente venuto il momento di porsi l’ovvia domanda: come andranno a finire le cose?

Sistematica sottovalutazione
La peggiore delle ipotesi non è l’unica ipotesi, e neppure la più probabile, ma potrebbe essere utile capire a che punto la situazione potrebbe diventare grave se ci lasceremo sfuggire tutte le scappatoie possibili nel nostro cammino verso l’inferno. Vorrei a questo punto citare un’intervista che ho realizzato dieci anni fa con il dottor Dennis Bushnell, scienziato capo del centro studi Langley della Nasa. Quel che ha detto vale ancora oggi.

Bushnell parlava degli “effetti di retroazione” (lo scioglimento del permafrost, il riscaldamento degli oceani, le grandi emissioni di diossido di carbone e di metano). Dal momento che non possono essere pienamente inclusi nei modelli informatici del clima, simili fenomeni portano a una sistematica sottovalutazione dei riscaldamenti futuri, diceva. Prima di venire al dunque.

“Se prendiamo in considerazione tutti questi effetti di retroazione, le stime prevedono che entro il 2100, invece di un aumento tra i due e i sei gradi (nella temperatura media globale), è possibile un aumento compreso tra i sei e i 12 gradi. Un simile cambiamento delle temperature modificherebbe l’andamento di circolazione degli oceani e li renderebbe in buona parte anossici, molto poveri d’ossigeno, il che poi farebbe proliferare i batteri che producono solfati d’idrogeno. Il loro aumento provocherebbe l’assottigliamento dello strato di ozono, rendendo difficile la respirazione. Questo avverrebbe entro il 2100”.

Un mondo senza ossigeno
Dennis Bushnell si riferiva al “modello oceanico di Canfield”, che oggi è seriamente sospettato di essere la causa di quattro delle cinque grandi estinzioni di massa. Tutti sono al corrente dell’enorme asteroide che ha colpito il golfo del Messico 65 milioni di anni fa, portando all’estinzione dei dinosauri. Meno persone sanno che non c’è alcuna traccia d’impatto con un asteroide nelle altre quattro “grandi morie”, avvenute rispettivamente 444, 360, 251 e 200 milioni di anni fa. Cosa è accaduto in questi casi?

Uno degli elementi comuni è che il pianeta era all’epoca insolitamente caldo, ma il vero motivo era l’anossia degli oceani profondi. Non c’era ossigeno e quindi nessuna forma vivente che utilizza ossigeno. Quando gli oceani sono molto caldi, si interrompe il capovolgimento meridionale della circolazione atlantica (come la corrente del Golfo), che porta negli abissi grandi quantità di acqua di superficie ricca di ossigeno, e gli oceani si si dividono in uno strato di superficie con ossigeno e in uno strato anossico nelle profondità.

Ma lì esistevano già forme viventi: solfobatteri che solitamente si nascondono nelle fessure, lontano dall’ossigeno che li distruggerebbe. In un oceano anossico, escono fuori e si moltiplicano per poi, con le giuste condizioni, risalire in superficie e uccidere tutta le forme di vita marine che vivono d’ossigeno.

Ma non solo: l’acido solfidrico, un prodotto di scarto del loro metabolismo, sale nell’atmosfera, distrugge lo strato d’ozono, e si diffonde sulla Terra dove distrugge a sua volta buona parte delle forme di vita. Questo è accaduto non una bensì almeno quattro volte in passato.

In teoria, riscaldando il pianeta stiamo creando le giuste condizioni perché questo accada di nuovo, ma in pratica le probabilità non sono così alte. Non ci sono stati eventi di “Canfield” negli ultimi duecento milioni di anni e, tanto per cominciare, quando sulla Terra si sono verificate in passato estinzioni di massa la temperatura era molto più alta.

Anche se eviteremo questo destino, potremmo essere comunque ben avviati verso una nuova strage, anche di essere umani. Il cibo è l’elemento chiave: mano a mano che il caldo rallenterà la produttività e trasformerà in deserti intere regioni, è ipotizzabile che ci saranno carestie di massa, anche se una vera e propria estinzione appare improbabile. C’è ancora una possibilità che reagiamo abbastanza velocemente da arrestare tutto questo molto prima che si verifichi una vera e propria carneficina. Quando ci si occupa del futuro, si può fare affidamento solo sulle probabilità, e anche queste sono molto scivolose.

La situazione è già abbastanza fosca. Le notizie sono cattive, naturalmente, ma quando il gioco si fa molto serio, è bene sapere qual è la posta in gioco.

(Traduzione di Federico Ferrone)


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Effimera, 27 luglio 2018. Questa recensione, è un utile introduzione al concetto di antropocene, una prospettiva utile e interessante per comprendere, interpretare e agire sul rapporto tra essere umano e natura. (i.b.)

Non è facile pubblicare un libro sull’Antropocene. Questo per due motivi: in primo luogo, in pochissimi luoghi (e questa piattaforma è uno di questi) si discute attivamente di questo tema (e in generale della crisi ecologica), che rimane quindi ai margini del dibattito politico-etico (sopratutto italiano); in secondo luogo, il concetto stesso è pervaso da una vaghezza che a tratti sfiora l’inconsistenza che lascia sconfortato chi prova ad avvicinarsi al tema per capirne qualcosa di più. Antropocene vuole dire una molteplicità di cose; è possibile parlarne in una molteplicità di sensi; spesso le critiche e le discussioni che vertono su questo concetto si strutturano intorno a specifiche concezioni dell’Antropocene che ne lasciano completamente da parte altri significati, altrettanto sensati (se non altrettanto comuni). Pubblicare un testo che ha come titolo Nell’Antropocene è dunque già di per sé azione meritoria, non fosse altro perché è un ammirevole tentativo di introdurre una parte del pubblico di lettori al problema.

Chi voglia leggere il libro di Gianfranco Pellegrino e Marcello di Paola si troverà un valido strumento introduttivo ad una serie di posizioni relative all’Antropocene, o meglio, che intendono questo “tempo della fine” (o dell’inizio) in sensi anche opposti. Questo compito introduttivo e didascalico è svolto dagli autori nella prima parte del testo, che riporta dunque, dopo aver spiegato in breve il significato del termine da un punto di vista più legato alle scienze del clima e della Terra, nel breve spazio di un’ottantina di pagine, le posizioni degli ecomodernisti, dei catastrofisti, dei difensori del Capitalocene, e dei naturalisti, per riprendere il lessico dei due studiosi. Emerge già in queste pagine l’idea degli autori a proposito dell’Antropocene. Esso è il tempo della “natura” ibrida, e cioè dello spazio di mescolanza tra natura e cultura, natura ed artificio, che si espande al Globo intero. Tale idea trova la sua esplicazione migliore nella lunga seconda parte, quella che gli autori dedicano all’etica, dove ha luogo una dettagliata e, a parere di chi scrive, originalissima analisi delle posizioni etiche che si possono assumere riguardo al rapporto tra uomo e natura. Ripercorrendo moltissime posizione, assunte ed assumibili, gli autori vanno alla ricerca di qualcosa che non sia antropocentrico, cioè che non faccia identificare il valore a partire dalla centralità dell’umano, ritenendo in questo modo di poter valorizzare il mondodell’Antropocene al di là del valore che attribuiamo o meno all’umano. Se il loro tentativo è senza dubbio interessante, vorrei però sottolineare che esiste tutta una parte dell’antropologia contemporanea (penso in particolare a Viveiros de Castro, ma anche a Philippe Descola) che ha identificato forse non morali, ma deleuzianamente-spinozianamente etiche, ovvero forme di vita che si costruiscono nella maniera più ecologica immaginabile proprio a partire dall’umanizzazione dell’universo. De Castro, in Esiste un mondo a venire descrive proprio queste società radicalmente antropomorfiche e proprio per questo non antropocentriche. Per questi amerindi, tutto ciò che esiste nel cosmo vede se stesso come umano.

In ogni caso, i nostri autori giungono ad affermare che l’unico modo per costruire quest’etica non antropocentrica che vanno ricercando è la valorizzazione della contingenza, tanto più presente nell’Antropocene, in forza dell’esistenza pervasiva di ibridi, di composizioni che nella loro assoluta contingenza e quindi fragilità sono da salvaguardare. Come le saline di Priolo o le tubature della Chevron al largo della California, elementi originariamente distruttivi di ecosistemi ma che poi hanno dato a loro volta vita a ricchissimi ecosistemi, brulicanti di vita, composizioni dell’Antropocene. Oppure, utilizzando un termine caro ai due studiosi: monumenti del rapporto tra uomo e natura. L’oggetto prodotto da tale ibridazione ha valore in sé, poiché nella sua contingenza è il datum da salvaguardare, che è che potrebbe non essere più. A questi ibridi si rivolge la proposta etica di Pellegrino e di Di Paola.

Mi pare ci sia un problema in questo tipo di prospettiva. Se la chiave di volta dell’argomentazione sta nella valorizzazione della contingenza in quanto tale, l’Antropocene non è forse il luogo ed il tempo in cui l’interezza delle composizioni naturali (oloceniche) si mostrano nella loro fragilità? La sesta estinzione di massa, in fondo, mostra la contingenza e la accidentalità del leone, del gorilla di montagna e dell’abete dei Nèbrodi. Non che gli autori non se ne rendano conto; solo, non si capisce bene perché questo non dovrebbe portare ad una difesa di tutto l’esistente in quanto tale, proprio perché è contingente. Come si concilia, insomma, questa posizione, con l’idea, spesso difesa dai due autori, che non si tratti di difendere spazi di natura wild o con ogni forma di esistenza in generale? D’altro lato, questo tipo di posizione, e questo è tanto più chiaro dagli esempi che abbiamo evidenziato (sono esempi riportati esplicitamente dai due autori), rischia di divenire, a posteriori, giustificativa di ogni forma di ibridazione. In fin dei conti, la Chevron devastò l’ambiente naturale in cui impiantò le sue tubature. Quale azione poteva essere meno raccomandabile di quella? Eppure, essa ha portato alla nascita di un ecosistema specifico, in quanto tale certamente da salvaguardare. Ma se la posizione diviene quella della valorizzazione di ogni possibile contingenza, non si rischia di avvallare simili azioni in forza della possibile nascita di composizioni così brulicanti di vita? Pare che la potenza del vivente di adattarsi e di proliferare anche dove alcuni umani fanno di tutto per eliminare la vita possa divenire l’arma giustificativa di una costruzione infinita, di un’azione senza limiti perché comunque portatrice di vita. Un’oscillazione, insomma, come sarà chiaro, tra due opposti, forse speculari: da un lato, la difesa di ogni elemento in quanto tale perché contingente, dall’altro il disinteresse verso ogni datum in quanto comunque superabile da nuove forme di contingenza. Non dico certo che questa sia la posizione dei due autori: mi chiedo solo se non possano verificarsi impasse di questo tipo quando si ponga al fulcro di tutto quello che è senza dubbio un valore fondamentale in un ragionamento che voglia mettere al centro l’ecologia, e cioè la contingenza.

Nella terza ed ultima parte gli autori passano alla politica, per tirare ancora in ballo il vecchio Deleuze. In prima battuta riconoscono la crisi della politica liberal-democratica di fronte alle sfide tipiche dell’Antropocene ed in generale della crisi ecologica, identificando diversi punti di caduta della difficoltà degli stati occidentali ad occuparsi di questa nostra crisi: responsabilità democratica, legittimità democratica, neutralità liberale. Senza l’ambizione di proporre soluzioni definitive a questa sfaccettata crisi Di Paola e Pellegrino propongono quello che secondo loro è un primo passaggio verso una “cittadinanza attiva” all’interno dell’Antropocene. Essi, ritenendo che, al fondo, grande spazio nella storia delle democrazie liberali abbia il “progresso morale” dei cittadini, i quali, se trasformati moralmente, possono imporre l’agenda ad una politica che per definizione segue i loro interessi manifesti e rivendicati, immaginano una “repubblica dei giardini”, nella quale un primissimo passo possa essere l’implementazione di quelle pratiche di orti urbani e di coltivazione interna agli spazi urbani (luoghi principe di quella dimensione ibrida da essi identificata come fondante l’Antropocene) che possano dare luogo ad un rinnovato interesse verso i temi ambientali. Una nuova forma di “cittadinanza attiva”, dunque, valida al tempo dell’Antropocene.

In questa ultima parte mi pare emergano con più forza alcune difficoltà inerenti all’approccio ed al tipo di “campo di azione” all’interno del quale il libro è pensato, nonché altri punti indubbiamente validi. Senza dubbio (e su questo è presente nel testo una valida critica a Bruno Latour) l’Antropocene impedisce di pensare la politica nella forma liberale, anche per i motivi identificati dagli autori. E’ quindi necessario porsi le domande che gli autori si pongono sul superamento di alcuni luoghi comuni delle liberal-democrazie. Allo stesso tempo, è certo che una politica all’interno dell’Antropocene non possa prescindere da una forma di etica, proprio nel senso di una forma di vita differente da quella generalmente moderna che (secondo una categorizzazione molto ampia e forse da rivedere nella sua genericità) ha abitato gli ultimi secoli. Torneremo su questo in conclusione.

D’altra parte, se i due autori rimangono pienamente interni alla prospettiva delle democrazie liberali e dello Stato (sottolineando, a mio parere con acutezza, che non può esistere una politica dell’Antropocene che non coniughi locale e globale), in queste pagine essi parlano di resilienza contro conservazione propendendo per la prima, in virtù di quel paradigma dell’ibrido che abbiamo visto in precedenza. E’ noto come il concetto di resilienzasia quanto di più problematico possa esserci da un punto di vista ecologico e come esso, unito a quello di adattamento sia alla base di tutti i discorsi ecomodernisti in primo luogo e di quelli legati alla green economy (per una critica approfondita di queste forme concettuali si veda il testo di Romain Felli, La grande adaptation, Seuil, 2016 ). Sembra proprio, in questi ultimi passaggi, che quell’oscillazione che abbiamo visto poco sopra tenda pericolosamente verso un giustificazionismo della trasformazione e della costruzione infinita. Abbiamo la prova che questo composizionismo ha un rischio teorico, certo non inevitabile, di non poco conto: quello di divenire politicamente e concettualmente poco servibile per identificare una qualsivoglia (anche relativa, modulabile) forma del limite, concetto che, appunto, non sembra piacere molto ai due autori, che rifiutano senza remore tutto il discorso relativo alla decrescita. D’altronde, i due autori sono chiari nel sottolineare che non si può ridurre la crisi ecologica alla dinamica capitalistica, nonché che ogni discorso che voglia fare seriamente i conti con la crisi ecologica non possa che essere di fatto pro-capitalistico, cioè, dicono Di Paola e Pellegrino, perché gli investimenti per politiche energetiche alternative non possono che derivare da investimenti, le cui risorse sono estraibili solo attraverso un’opera di convincimento dei capitalisti stessi, con i quali quindi è necessario venire a patti. (p. 217) Non esattamente un’idea conflittuale di politica, possiamo dire. La politica non è un rapporto di forza, è un’operazione di convincimento. Da questo punto di vista, la “politica dell’Antropocene” non pare così diversa dalla politica tipica della Terza Via degli anni ’90.

Si possono identificare due problemi in queste posizioni, in un libro che comunque conserva intatta la sua validità analitica ed il suo interesse (nonché la sua originalità). Il primo lo definirei di natura politica. Da questo punto di vista sembra che per i due autori la “politica dell’Antropocene” non possa partire che in una cornice che è quella della cittadinanza attiva, in cui i cittadini prenderanno coscienza (ma c’è davvero il tempo per aspettare tanto, nell’Antropocene?) della necessità di conservare l’ibrido e faranno leva sui loro rappresentanti perché rispettino le loro richieste, a questo punto “ecologiche”. Non pare, va detto, una grande soluzione (per quanto i due autori relativizzino sempre la portata delle loro proposte). Il problema mi pare, in parte, legato alla modalità con cui i due autori concepiscono l’istituzione. Secondo loro, le istituzioni sono sostanzialmente quelle già esistenti e al massimo le loro idee a proposito di “nuove istituzioni” sono quelle di tavoli di studio dei problemi delle generazioni future o ministeri specifici. Non c’è traccia né delle discussioni su neo-municipalismo ed ecologia, né di quel pensiero dell’istituzione che sta nascendo in giro per il mondo. E’ forse il concetto di comune che manca in questo tipo di approcci. Naturalmente, però, parlare di comune, anche e sopratutto in senso ecologico, significa immediatamente prendere come punto di attacco il capitalismo. Se si parlasse di comune a proposito dell’Antropocene, non per forza si darebbe tutta la “colpa” dell’Antropocene al capitale; ma certamente se ne vedrebbe l’uscita in una critica radicale del capitalismo. Non ci si potrebbe certo rammaricare, come fanno di due autori, del fatto che spesso i movimenti ecologisti si fondono e si intersecano con quelli che criticano il capitalismo come sistema di sfruttamento. E dunque è ancora il comune che si affaccia qui alla prova della politica e del legame possibile tra ecologia e politica. E che si affaccia in una duplice veste, politico-etica (ma non nel senso che i due autori danno a quest’ultima parola): il comune sarebbe un’istituzione ma anche (anzi, proprio per questo) una forma di vita, un’etica (ma nel senso di Spinoza, e non di Kant), dunque immediatamente politica. Non si tratterebbe di convincersi per convincere, ma di divenire altri.

Il secondo problema, è di natura direi più filosofico-teorica. Come si è ripetutamente detto, il fulcro della proposta dei due autori sta nel riconoscimento della natura ibrida dell’Antropocene e nel conseguente obbligo morale di riconoscere la contingenza degli ibridi dell’Antropocene. Abbiamo visto i possibili problemi che questa posizione può suscitare, come l’oggettiva oscillazione verso il paradigma della resilienza che si trova alla fine del testo. Si tratta forse, da parte di chi scrive, di una fissazione, ma non si potrebbe identificare il problema proprio in questo modo di declinare il tema dell’ibridazione? E cioè, pensare la composizione come indefinitamente data a partire dall’incontro dell’infinità degli elementi che popolano il mondo (umani e non-umani), tutti interni alla natura e quindi tutti “natural-culturali” non porta forse a non dare gli strumenti per pensare un relativo limite, un confine modulabile, di questa composizione? In fondo, parlare di Antropocene, oltre che parlare di ibridi, non vuol dire anche parlare di ciò che non si può continuamente costruire?Forse il punto è proprio questo. Tracciare una linea si può fare solo se ci si ricorda che la contingenza di cui tanto e giustamente parlano i due autori, è davvero propria di tutto l’universo, almeno nelle sue forme specifiche (altri avrebbe detto, dei suoi modi). E dunque anche di quei particolari ecosistemi e vite che devono essere colte nella loro specificità, e non all’interno di un quadro che parli di una generica potenza della vita, in quanto tale sempre ibridabile e sempre in grado di adattarsi alle tubature della Chevron. Si tratta forse, e questo non nega certo una prospettiva che valorizza l’ibrido ma prova a completarla, di smettere di concentrarsi sempre sulla composizione indefinita, che non pone limiti alla costruzione, ma di pensare l’Antropocene a partire da quella parte incostruttibile della Terrache è forse la vera bandiera di chi combatte in una Valle, in un campo di ulivi, o in una foresta Amazzonica. Non certo una Terra originariamente data, non certo la wilderness: ma quello spazio di gioco tra Dato e Azione, tra Attivo e Passivo, tra un mondo con le sue regole e la sua autonomia e un essere umano parte di questo mondo, su cui ed in cui solo può darsi costruzione (inevitabilmente necessaria ed anche positiva, come lo è la tecnica). E senza il quale spazio, non potrà più esserci, in futuro, alcuna costruzione.

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La terra trema, 20 luglio 2018. Le riflessioni di un pescatore-urbanista a proposito delle nefaste conseguenze dell'attuale modello di sviluppo, predatorio e estrattivista, sul Mediterraneo.

Il Mediterraneo odierno è un mare geologicamente molto giovane, figlio della “crisi di salinità” del Messiniano, quando si chiuse il collegamento con l’Atlantico tramite lo Stretto di Gibilterra, che si riaprì definitivamente cinque milioni di anni fa a seguito di eventi sismici. Esso bagna ventitrè Stati con circa 450 milioni di abitanti.

Il significato etimologico del nome deriva dalla parola latina Mediterraneus, che significa in mezzo alle terre.
L’antichità del Mediterraneo è datata seimila anni, quando nei territori costieri si diffusero agricoltura e allevamento e cominciarono a fiorire le prime civiltà. Da quella Cretese Minoica ai Fenici fondatori di Cartagine. Dai Greci, con le loro propaggini siciliane e nel Sud Italia (la Magna Grecia), all’Impero Romano e poi Bisanzio sede di intensi scambi commerciali con l’oriente. Dagli Arabi musulmani che raggiunsero le coste spagnole alle Repubbliche marinare italiane di Venezia, Pisa, Amalfi e Genova che rinvigorirono la presenza cristiana nel vicino Oriente fino al XII secolo. E poi ancora, gli Aragonesi, i Turchi Ottomani e il declino derivante dalla scoperta dell’America e dalla perdita di peso da parte sia di Venezia che della Spagna a scapito, sempre in oriente, degli Ottomani. La Sicilia in oltre seimila anni ha avuto oltre quindici dominazioni e il mare Mediterraneo era l’autostrada su cui viaggiavano, si scontravano e poi si incontravano popoli, culture, storie, economie, abitudini alimentari ed alimenti stessi, dapprima diversi, poi patrimonio comune e di interscambio.

Nel lungo periodo del Medioevo, per più di mille anni, il Mediterraneo, luogo di conflitti ma anche di scambi e di incontro è stato sede del fiorire della lingua Sabir, altrimenti detta lingua franca-mediterranea, un peculiare linguaggio parlato in tutti i porti del Mediterraneo, un misto di italiano, francese, spagnolo ed arabo diventato indispensabile per chi lavorava sul mare o con il mare, che fossero pescatori o naviganti, commercianti o soldati. E nel 1830 viene pubblicato un dizionario di questa lingua del mare.

Da noi, in tempi recenti e contemporanei, i pescatori del Golfo vivevano e vivono in maggioranza nei borghi marinari delle lave etnee: Ognina, Acitrezza, Santa Maria La Scala, Pozzillo, Stazzo, Riposto. Gli altri, i rimanenti, erano e sono gli abitanti della Civita e della Sciara, i due quartieri catanesi che cingendolo come una cintura custodiscono il grande porto di Catania, divisi l’uno dall’altro dalla Piscaria, il mercato storico di Catania.

Nelle marinerie del Golfo di Catania e delle Lave Etnee, le varie comunità di pescatori praticavano da sempre alcuni mestieri e si specializzavano in altri.
Ognina e Catania, nel dopoguerra, si specializzavano nella pesca con il cianciolo a lampara e mantenevano a fatica quella della menaide (per la masculina da magghia).
Acitrezza si concentrava nella pesca del pesce spada. Santa Maria La Scala, Pozzillo, Stazzo e Riposto nella pesca dell’alalunga e del pesce spada.
In tutte le marinerie il resto della piccola pesca artigianale praticava anche la pesca con il tremaglio, il palangaro, le nasse e stagionalmente con altri sistemi di pesca storicamente praticate per pescare singole specie ittiche.

La genesi dell’attuale pesca prende avvio con la fine della Seconda Guerra Mondiale quando, con l’avvento del motore diesel, si passò dalla pesca removelica e quella meccanica. Da questo processo di “industrializzazione” nasce un rapido e, successivamente, feroce sviluppo. Si passa dalla pesca del territorio costiero e dei grandi saperi marinari a quello degli orizzonti marini illimitati e del sopravvento della tecnologia sempre più invasiva ed eticamente insostenibile. Il paesaggio costiero Etneo, dagli anni Ottanta, passa da una variopinta biodiversità “marinara” e biologica ad una specializzazione sempre più monotematica del mestiere del pescatore. Dalla stagionalità polivalente del piccolo pescatore costiero a quella sempre più unica e lunga del pescatore “mediterraneo”. Dalle barche in legno di piccolo tonnellaggio, ai grandi pescherecci di venti, trenta metri, a quelli grandissimi in ferro. E i grandi e grandissimi pescherecci sono quelli che, più di tutti, hanno distrutto e stanno continuando a distruggere importanti risorse ittiche quali il pescespada, il tonno, parte del pesce azzurro (alici, sarde e sgombro) e tutte le specie ittiche demersali vittime della pesca a strascico, specie nei fondali entro i cinquanta metri ed entro le tre miglia.

I grandi predatori dei nostri mari, negli ultimi quarant’anni hanno nomi precisi: lo strascico, specie quello sottocosta come avviene nel Golfo di Catania. Questa tipologia di pesca produce oltre l’80% del pescato in rigetti a mare perché sottotaglia e invendibile; rete a ciancioli con lampare, che avviene soprattutto in autunno e inverno quando il pesce azzurro è ancora piccolo e sottotaglia; le spadare, anche se ormai sono state abolite; a reti volanti, costituite da grandi reti a strascico trainate da due pescherecci che pescano il pesce azzurro; tonnare volanti a circuizione, un tempo libere da limiti di pesca oggi con quote molto più limitate di cattura, restano in attività tredici nobili lobby, salernitane (con dieci natanti) e siciliane (con tre natanti) al servizio di multinazionali per il mercato giapponese del tonno rosso. Forse il Ministero sta pensando di aumentarle di altre quattro unità, dopo averne fatte dismettere una trentina con un bel corrispettivo economico, pagato dalla collettività, appena dieci anni fa. Cancellate, invece, le poche storiche tonnare fisse esistenti.

A tutto questo dobbiamo aggiungere un’insensata gestione delle risorse giovanili di sarde e alici, il cosiddetto “bianchetto” o “neonato”, che fino a quattro anni fa è stato permesso di pescare, sia a natanti con autorizzazione che a moltissimi non autorizzati e perciò illegali. Questa volta sono piccole imbarcazioni, anch’esse dotate di potenti ecoscandagli, tutte localizzate nella regioni costiere del Sud Italia. Quella che potremmo indicare come “la strage degli innocenti”.

Tutta questa è storia dei pregi e dei difetti della pesca catanese e siciliana, ma anche di molte altre marinerie italiane, dove spesso le stesse istituzioni locali e nazionali preposte al governo e alla sicurezza del settore, hanno strizzato l’occhio ad interessi corporativi e settoriali, mancando nel loro ruolo istituzionale super partes ed omettendo i necessari controlli dovuti.

Insomma, il modello che si è affermato e che sostanzialmente continua ad essere perpetrato è tutto improntato alla soddisfazione immediata ed egoistica del bisogno individuale e/o di piccolo gruppo con la cancellazione assoluta di una prospettiva di equa distribuzione delle risorse e a una loro gestione che guarda al mantenimento futuro della risorsa ittica. E la risorsa ittica, specie quella pelagica e migratoria è un “bene comune universale” patrimonio dell’umanità.

In tal senso sono state decisive le politiche di implementazione che i fondi, inizialmente nazionali e poi quelli europei, hanno dato al sostegno del settore, dove l’idea di uno sviluppo illimitato durerà fino alla fine degli anni Novanta. Non c’è stata la consapevolezza, spesso in malafede, che le risorse ittiche, come tutte le risorse naturali, fossero limitate e quindi suscettibili di politiche di salvaguardia. E questo non solo in alcune fasce di pescatori, ma anche e direi soprattutto nelle istituzioni di governo del settore. è mancata la volontà di gestire il settore in maniera integrata, dando gli indirizzi e le regole giuste per governare un mondo complesso quale è quello dell’interazione tra l’uomo e il mare, nel senso più ampio che questa interazione può significare.

Sembrerò un nostalgico del mondo che fu, ma l’unica via che oggi ci può fare ritornare ad una pesca compatibile e rispettosa dei cicli biologici del pesce è il modello della piccola pesca costiera che i nostri padri praticavano ancora negli anni Sessanta. Lì per millenni, attraverso la trasmissione orale e quotidiana dei saperi, attraverso l’esperienza di ogni notte e di ogni giorno, il piccolo pescatore costiero diventava architetto del mare, costruendosi un atlante della memoria diveniva al tempo stesso meteorologo, biologo, astronomo, geografo ed economo del suo stesso destino. E qui “le mani e l’acqua salata”, diventano simbolo ed emblema di un mestiere limpido, trasparente e dolcemente pesante. Ma estremamente “Bello”. Le mani sono il mezzo che guida l’azione quando si cala e si tira la rete, quando si smaglia l’alice, una ad una e poi quando si salano le stesse alici che diventano acciughe. L’acqua salata è quella che, nel freddo inverno marino, ti sbuffa in faccia dall’impatto della barca con le onde agitate e ti gela le dita quando tiri la rete e smagli il pesce. Ma le mani sono dell’uomo e l’acqua salata dell’universo mondo, in un incontro ancestrale.

E di questo mondo fu degno interprete mio padre Carmelo. A ottantasei anni, lui che da quando aveva undici anni andava per mare, diceva così: «il nostro mestiere è ancora il più bello e affascinante fra quelli che si praticano nel Golfo di Catania. Perchè è un mestiere dove veramente le nostre conoscenze, quello che abbiamo imparato e che ci hanno trasmesso le generazioni di pescatori prima di noi, restano punti di riferimento di cui non si può fare a meno. Per chi usa la menaide (piccola rete per pescare le alici, “le masculine” come le chiamiamo nel catanese – n.d.a.) sono i cicli naturali di vita del pesce, in questo caso della masculina, a guidare il tempo delle attività di pesca. E più che l’ecoscandaglio contano e bisogna conoscere i venti, le correnti marine, i diversi fondali. Per fare una grande pescata di masculina è importante sapersi regolare con l’apparizione di alcune stelle nell’orizzonte durante le notti di primavera e d’estate, interpretare i movimenti della luna, cogliere i momenti giusti all’alba o al tramonto. Tutte queste cose non s’imparano sui manuali ma ogni giorno o notte che sia, di anno in anno. Così noi, piccoli pescatori costieri, ci costruiamo un libro della memoria che poi ci serve per il lavoro quotidiano e nel corso della vita».

Gaetano, detto Tano, Urzì, pescatore da generazioni, racconta di una scelta di vita drastica e faticosa, ma colma di felice poesia in una degustazione dei prodotti della tradizione marinara, con sott’oli e salati lavorati artigianalmente.

La Cooperativa del Golfo, porta avanti una lunga tradizione marinara che si svolge prevalentemente nel Golfo di Catania che va da Capo Mulini, sotto Acireale, a Capo Santa Croce in Provincia di Siracusa, con Pescherecci operanti nel pieno rispetto delle norme di tutela ambientale e con l’obiettivo di valorizzare il pescato locale, eseguono una rigorosa selezione del pesce fresco di volta in volta disponibile nelle diverse stagioni.


Tratto dalla pagina qui raggiungibile.

Acquabenecomune.org, 17 luglio 2018. Altro attacco alla acqua come bene comune. Nonostante le promesse di escludere dall'accordo i servizi idrosanitari e il trattamento delle acque reflue, nel CETA è inclusa l'acqua, aprendo questa risorsa alle multinazionali (i.b.)

In questi giorni vengono riportate diverse mistificazioni da alcuni organi di stampa in merito al CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement), il trattato di liberalizzazione del commercio tra Canada e Europa, già entrato a settembre scorso in applicazione provvisoria, per cui ci sembra opportuno ribadire che questo mette a rischio le risorse di acqua dolce e i servizi idrici su ambedue le sponde dell'Atlantico.

Infatti, alcune disposizioni di questo trattato pongono serie minacce all'acqua come risorsa naturale e ne favoriscono la definitiva mercificazione.

Innanzitutto, intendiamo ribadire che l'acqua è inclusa nel CETA a dispetto di tutte le promesse che questa sarebbe stata esclusa dalle trattative e nonostante il parere del Parlamento Europeo espresso nella risoluzione dell'8 settembre 2015 a seguito dell'Iniziativa dei Cittadini Europei Right2Water (2014/2239 (INI), no. 22), in cui il Parlamento “richiede alla Commissione di escludere in via permanente i servizi idrosanitari e il trattamento/smaltimento delle acque reflue dalle regole del mercato interno e da qualsiasi trattato commerciale”.

Le clausole dell'Art. 1.9 del CETA potrebbero portare ad una ulteriore mercificazione dell'acqua e ad un accaparramento da parte delle multinazionali. L'articolo afferma: “Se una delle parti permette l'utilizzo commerciale di una specifica risorsa idrica, ciò verrà fatto in conformità al presente accordo”, senza definire cosa si intende per “utilizzo commerciale” o “risorsa idrica”. Nel caso di “utilizzo commerciale” i diritti sull'acqua sono soggetti alle regole del CETA sul commercio e gli investimenti.

Le riserve all'Accesso al Mercato ed al Trattamento Nazionale adottate per i servizi di “raccolta, trattamento e distribuzione dell'acqua” non sono sufficienti a garantire una completa protezione. Sarebbe stato necessario introdurre le riserve sulla Nazione Maggiormente Favorita e sui Requisiti sui Livelli di Prestazione.

La cooperazione regolatoria e la protezione degli investimenti blinderebbero la privatizzazione dei servizi idrici e renderebbero impossibile ai governi di richiedere di ricondurre i servizi idrici sotto gestione pubblica, tendenza che sta crescendo in Europa.

Il CETA potrebbe limitare la capacità operativa delle aziende pubbliche in quanto i diritti sull'acqua sono trattati come investimenti e le riserve non coprono tutte le attuali e future attività che gli operatori pubblici devono espletare in accordo alla legislazione nazionale

Nel CETA è assente un approccio basato sul principio di precauzione, che è un componente inerente alla legislazione UE. La cooperazione regolatoria potrebbe potenzialmente restringere lo spazio politico degli stati membri della UE. Ciò potrebbe avere grosse ripercussioni sulla salute, l'ambiente e la tutela delle risorse idriche.

Il CETA ignora la natura unitaria del ciclo dell'acqua, la limitatezza delle risorse idriche del pianeta e la natura multifunzionale dell'acqua negli ecosistemi.

L'Unione Europea e lo Stato Italiano devono considerare l'acqua come un bene comune, e l'accesso all'acqua ed ai servizi idrosanitari come un diritto umano.

Per queste ragioni chiediamo al Governo Italiano e al Parlamento di non ratificare il CETA e di approvare subito la legge per l'acqua pubblica nella versione aggiornata e depositata nella scorsa legislatura dall'intergruppo parlamentare per “l'acqua bene comune”.

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