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Una politica di spazi condivisi della mobilità e degli ambiti pubblici in rete, alla base delle politiche urbane, privilegiando il ruolo del sistema dei flussi rispetto a volumi e funzioni. La Repubblica Milano, 27 aprile 2014, (f.b.)

Piazzale Loreto cambierà volto. Da slargo informe e invaso dal traffico diventerà una vera piazza più legata alla città. Con attraversamenti pedonali, senza togliere troppo spazio alle auto. E il mezzanino del metrò che potrebbe diventare open air. È il futuro che il Comune sta immaginando per ricucire lo storico rondò e luogo simbolico al resto della città. In particolare a viale Monza e a via Padova. Un piano che si sta studiando ora, che prenderà forma dopo l’Expo, per riequilibrare i flussi in un piazzale che oggi, al 56 per cento, è occupato dal traffico automobilistico e per un quarto è considerata terra di nessuno. Per l’urbanista del Politecnico Gabriele Pasqui «piazzale Loreto da linea Maginot deve tornare a essere uno spazio pubblico».

È l’ultimo tassello di un piano con cui si stanno rimodellando molte piazze cittadine all’insegna della vivibilità. La giunta punta a riscoprire le piazze, è il mantra. E così piazza XXV Aprile, con la nuova Gae Aulenti, entrambe pedonali, sono già entrate nelle abitudini dei milanesi. Piazza Castello, di fatto, è già stata liberata dai motori. In piazza XXIV Maggio, poi, sono in corso i lavori per renderla semipedonale, in vista di Expo. Trasformazioni urbanistiche in centro, ma anche fuori: in piazza Leonardo da Vinci da un anno non transitano più motori davanti alla storica sede del Politecnico. E la prossima missione dell’amministrazione, tra un anno, sarà ripensare piazzale Maciachini, oggi solo snodo viabilistico e poco luogo di socialità.

Da slargo informe e caotico a piazza urbana viva e vissuta dalla città. Con più spazi e attraversamenti pedonali, senza togliere troppo spazio alle auto visto lo snodo, strategico, nello scacchiere degli spostamenti cittadini. E un mezzanino del metrò che potrebbe diventare a cielo aperto. È il futuro che il Comune sta immaginando per piazzale Loreto. Obiettivo: ricucire lo storico rondò al resto della città. Uno dei progetti del più ampio “piano piazze” che l’amministrazione sta realizzando. Il progetto è di rendere piazzale Loreto meno “autocentrico”, sganciandolo dalle necessità del traffico secondo l’impostazione classica degli anni Sessanta: auto sopra, metropolitana sotto, pedoni attorno, livelli tutti sganciati. Si cambia filosofia. Questo è il sogno di Palazzo Marino per uno degli incroci più affollati, che è stato tribunale partigiano, luogo simbolo nella storia di Milano.

Ci stanno lavorando gli esperti dell’Amat (Agenzia mobilità ambiente territorio, società del Comune) assieme a un team di consulenti di Mobility in chain. Oggi il 56 per cento del piazzale è occupato dal traffico automobilistico, il 25 per cento è considerato terra di nessuno e il 19 per cento, di fatto i marciapiedi intorno al rondò, ha una vocazione pedonale. La missione è garantire più o meno gli stessi flussi di traffico (49 per cento), assicurano i tecnici, ridisegnandoli. Ma raddoppiare gli spazi pedonali e abbattere al 5 per cento la porzione di piazza inutilizzata. Già due anni fa, d’estate, si era tentato un esperimento. Sul modello della newyorkese Columbus Circle: una rotatoria «obbligata», con l’interruzione della linea continua che unisce corso Buenos Aires a viale Monza attraversando la piazza.

Il nuovo progetto, ancora in divenire e da realizzare dopo l’Expo — anche perché servono almeno dieci milioni, tutti da trovare — , potrebbe mantenere questa impostazione. Oppure, è ancora da decidere, contemplare ancora l’attraversamento delle auto da un capo all’altro ma creando spicchi pedonali tra via Padova e via Costa e da viale Monza a viale Brianza. «Il progetto nasce per ridare centralità alla mobilità pedonale — spiega Federico Parolotto di Mobility in chain — oggi lo spazio centrale non è attraversabile, non è fruibile: il pedone passa o sotto usando il metrò oppure deve circumnavigare la piazza. Per questo l’idea è di rendere pubblici e senz’auto alcuni spazi a ridosso degli edifici per garantirne una migliore fruibilità».

Nel piano, c’è anche l’idea di aprire il mezzanino del metrò, magari con delle vetrate, per dare respiro al piazzale. Un progetto che ha anche una valenza sociale, secondo l’amministrazione: ricomporre la frattura con le vie intorno, specie via Padova e viale Monza. «Un’iniziativa su cui inizieremo a lavorare seriamente dopo l’Expo — spiega l’assessore alla Mobilità, Pierfrancesco Maran — per recuperare una delle piazze che abbiamo lasciato diventare uno svincolo: il nostro non è solo un progetto di mobilità ma un lavoro urbanistico, e anche sociologico».

Più spazio alle persone, quindi. Per riappropriarsi di pezzi di città. Loreto sarà solo l’ultimo passo del processo che la giunta arancione ha avviato in città. L’esempio che secondo molti osservatori è più riuscito, in questo senso, è quello già terminato in piazza XXV Aprile, dove si è creato un asse naturale con piazza Gae Aulenti, a Porta Nuova, ormai entrato nelle abitudini di passeggio e passaggio dei milanesi. Dopo anni di ritardo nella consegna di un par- cheggio sotterraneo che ha fatto dannare il quartiere, oggi quella piazza è tornata viva. Una rivoluzione sta trasformando anche piazza Castello, già di fatto pedonale nelle strade intorno alla fortezza, anche se l’ufficialità si avrà con l’inaugurazione nel weekend del 10-11 maggio. Un esperimento, anche questo, per rianimare l’area con eventi e all’insegna della mobilità sostenibile, del basso impatto ambientale, della vivibilità. Accadrà, parzialmente, qualcosa di simile anche in piazza XXIV Maggio: è qui che, nel più ampio progetto di riqualificazione della Darsena in chiave Expo, si sta lavorando per rendere semipedonale la piazza sotto l’arco neoclassico del Cagnola. Zero auto al centro, solo mezzi pubblici e taxi, e uno spicchio d’acqua del Ticinello che verrà riscoperto per abbellire la piazza.

Riconcepire gli snodi cruciali della città. In centro anche piazza Sant’Ambrogio sta per riaprire al pubblico, senz’auto e con una nuova pavimentazione, dopo quasi dieci anni di palizzate per il contestato progetto di box sotto la basilica. E il Comune, in piazza Missori, vorrebbe creare un’ampia aiuola verde al centro, anche se non tutti i residenti sono d’accordo.

Fuori dal centro si è intrapresa una strada simile, l’anno scorso, anche in piazza Leonardo da Vinci, davanti al Politecnico. Stop ai motori davanti all’ingresso della sede storica dell’università, con il Comune pronto a condividere il progetto di un «campus sostenibile» di Politecnico e Statale, che punta ad alleggerire il quartiere dal traffico: aree pedonali, zone 30 e mobilità dolce nell’area intorno all’università, tra le vie Celoria, Ponzio e Bonardi. Una grande isola ambientale che nei prossimi mesi dovrebbe vedere la luce. Infine, dopo Loreto, la prossima sfida fuori dal centro sarà dare una nuova forma ai flussi di traffico di piazzale Maciachini. Altro snodo percepito quasi “ostile” e staccato, da ricollegare, anche socialmente, al resto della città

“È una linea Maginot che si può trasformare in cerniera urbana” (intervista a Gabriele Pasqui)
«OGGI piazzale Loreto funziona come snodo viabilistico ma non come spazio pubblico». Per Gabriele Pasqui, direttore del dipartimento di Architettura e Studi urbani al Politecnico, il progetto del Comune di «metterci mano è un’idea molto interessante ».

Pasqui, che ruolo devono svolgere le piazze oggi?«La piazza deve smettere di essere solo un luogo di passaggio e deve tornare a essere un luogo di socialità. Un’agorà. Più un punto di incontro, come in passato. Certo, senza esagerare».

Quali sono i rischi?«Nel caso di piazzale Loreto, non si possono sconvolgere troppo i flussi di traffico, altrimenti si rischia di bloccare tutto. Ma abbattere questa sorta di linea Maginot che si è creata negli anni è un’ottima idea».

Come si deve fare?«Deve diventare un luogo di cucitura urbana. Vanno creati ambiti che siano fruibili non solo alle auto. Quindi un recupero della pedonalità, verso la quale negli anni, a ogni progetto, ci sono state alzate di scudi, come in via Dante, ma poi se n’è apprezzato il valore».

Sono trasformazioni che hanno impatti sui cittadini?«Non ho mai pensato che un progetto per quanto bello determini i comportamenti, ma credo che ripensare gli spazi possa permettere alle persone di reinventarne usi diversi».

Cambiamenti così possono anche avere una sorta di valenza sociale, come nel caso di piazzale Loreto verso via Padova e viale Monza?«Una maggiore permeabilità tra corso Buenos Aires e le grandi vie che partono verso l’esterno non credo che di per sé garantisca integrazione sociale, ma è un modo per interconnettere spazi oggi separati. O percepiti tali».

Ma più spazi pedonali è l’unico modo per ridare dignità a una piazza?«Sedute, panchine, la possibilità di un incontro a un ritmo più lento, ripresa di urbanità. E il ridisegno dello spazio pubblico che già esiste, magari su giardini poco usati perché ostili».

Ci sono altri progetti in questo senso che ricorda in città?«In corso di realizzazione o appena realizzati sì. Come molti punti lungo la circonvallazione delle mura, da piazza XXIV Maggio a piazza XXV Aprile, snodi che sono diventati già anche potenziali luoghi di socialità».

Ci sono altri snodi viabilistici “ostili” in città?«Piazzale Maciachini, ma anche piazzale Lotto. Ambiti già socializzanti in sé, snodi di trasporto pubblico e privato. Ma dove come uso dello spazio si potrebbe lavorare molto per renderli meno slarghi e più piazze».

Una piccola rassegna di progetti di riqualificazione urbana partecipativi dal basso, tutt'altra cosa rispetto a quelli variamente gestiti da animatori professionisti. Corriere della Sera Milano, 20 aprile 2014 (f.b.)

Nella Grande Milano non trova posto la distinzione tra centro e periferia e ogni zona ha «opportunità pari alle altre» ha dichiarato l’assessore alla Cultura, Filippo del Corno. Tuttavia, l’impressione è diversa: man mano che ci si allontana dal Duomo sono sempre di più le aree dove regnano disagio, miseria, marginalità. Eppure è proprio qui — tra muri imbrattati, sporcizia nei parchi e nelle strade, scarso rispetto per le regole e apatia da parte di molti — che le periferie stanno trovando una loro identità allegra e forte. Perché più che altrove si è fatto largo qualcosa di nuovo: una «magia» collettiva che rigenera il territorio e dà vita ad una Milano diversa.

«Davanti al degrado — spiega l’esperto di politiche urbane Paolo Cottino — la riqualificazione degli edifici da sola non basta a migliorare la vivibilità: gli abitanti devono fortemente volere le trasformazioni, attivarle e poi partecipare al rinnovamento, altrimenti non accade nulla». In diverse aree, come Giambellino e Ponte Lambro, l’impulso iniziale è arrivato dei Laboratori di quartiere. Altre volte sono stati comitati, scuole, associazioni a muoversi per primi. Gente che ha imparato a riunirsi in rete. Per fare e per chiedere. Ed è così che cambia la cultura: a colpi di solidarietà e voglia di agire.

Quasi un miracolo, per esempio, la rinascita del parco all’ex-sieroterapico, grande area dismessa tra i due Navigli: «Sta diventando un’enorme oasi naturalistica in città — spiega Stefano Guadagni del Comitato Segantini — con orti condivisi, nuove piante, animali da proteggere». Un entusiasmo che ha contagiato Italia Nostra, Lipu, Verdisegni e Naba. E ora il progetto è portato avanti con il Comune di Milano.

Allievi del Politecnico insieme con Tempo riuso e Baia del re onlus hanno riprogettato il mercato coperto al quartiere Stadera rilanciandolo come auspicabile luogo d’integrazione tra culture, in un contesto difficile. Gli allievi della media Rinascita sono arrivati in centro armati di vernici e rulli e con l’Associazione antigraffiti hanno ripulito i muri alle Officine Ansaldo. E gli inquilini della via Rilke, pieno degrado, hanno inaugurato nella portineria del civico 6 uno sportello d’ascolto che sta già dando frutti. Perché le idee di chi inventa nuovi usi per spazi abbandonati sono importanti.

Ancora: al Giambellino, piazza Odazio è risorta insieme con la sua Casetta verde con iniziative culturali legate alla tradizione e decine di associazioni capitanate da Dynamoscopio. Lo stesso è accaduto alla piazzetta del Murunasc, a Baggio, dove Share radio, che registra in uno scantinato, dà voce alle periferie e il microfono a giovani volontari che si rimboccano le maniche impegnati in palinsesti, interviste e dirette anche video. «La conoscenza del territorio alimenta il senso civico che insegna a dare valore alla città, dunque a rispettarla» spiega Filippo Gavazzeni ideatore di Milanofuoriclasse.it che ha radunato 30 studenti, l’Amsa e le Gev - Guardie ecologiche volontarie e in una mattina di passione ha tirato a lucido largo dei Gelsomini, al Lorenteggio.

Gente, questa, che forse senza rendersene conto neppure, o comunque senza chiedere nulla in cambio, abbatte nel bilancio di Milano il costo enorme di chi, apatico, si rassegna o, peggio, distrugge, offrendo la ricchezza di chi invece ripara e progetta intorno alle potenzialità del territorio che vive.

In una specie di promozione immobiliare travestita da articolo di giornale, si sdogana esplicitamente in Italia il modello della gated community, segregazionista sottilmente razzista e completamente antiurbana. Corriere della Sera Milano, 5 aprile 2014, postilla (f.b.)

Ha una sola lancetta, quella che scandisce le ore, l’orologio del XII secolo che ancora oggi segna il tempo sul campanile di Borgo Vione, a Basiglio. «È un gioiello alto-medievale con un meccanismo infallibile – spiega Nicola Vedani -. I monaci cistercensi che costruirono cascina Vione non avevano certo bisogno di misurare i minuti. Ecco, è questa visione diversa del tempo e della vita che vogliamo offrire ai nuovi abitanti». Vedani, 43 anni, imprenditore, fa parte dell’omonima famiglia a capo del gruppo siderurgico Intals-Somet che dal 2010 sta portando avanti il recupero di questa ex grangia dei monaci cistercensi di Chiaravalle trasformata nella prima gated community italiana.

E davvero, quando si supera il lungo muro di cinta sorvegliato 24 ore su 24 dagli occhi di 35 videocamere e dai sensori antintrusione e si varca il cancello della «nuova» Vione, si ha come l’impressione che il tempo prenda un’altra direzione. Qui è tutto pulito, ordinato: il caos di Milano sembra lontanissimo, ma è a soli 20 minuti. Non circolano automobili, anche se in realtà ci sono, nascoste in un parcheggio sotterraneo multicolore. Si sente persino la musica di un pianoforte che, tutte le mattine, si diffonde ovunque tra le ville e gli appartamenti. Proviene dalla chiesetta di San Bernardo e non c’è il pianista. Come in film, la tastiera si anima e il piano suona da solo.

Borgo Vione, uno degli ingressi alla corte centrale - foto F. Bottini

A maggio partiranno i lavori per la realizzazione del secondo lotto che prevede il recupero conservativo di altri tre edifici storici . Per ora, abitano nell’ex borgo medievale circondato dal verde 35 famiglie. Australiani, inglesi, portoghesi: sono soprattutto stranieri, manager e professionisti che vogliono vedere crescere i loro figli in un ambiente protetto e sicuro. È la garanzia di tutte le gated community : si entra solo se invitati. I bambini sono liberi di giocare ovunque: qui si conoscono tutti. «Non a caso i nuovi arrivati dicono di sentirsi in un resort.

L’atmosfera è quella», spiega il direttore del complesso Luca Baffoni. E anche gli ingredienti: ludoteca comune con wi fi e pc, barbecue in un’area dedicata, giardino d’inverno dove a breve, accanto alla vasca all’aperto in cui i bimbi vanno a giocare, spunterà un’area relax con idromassaggio. La lingua «franca», parlata persino dai bambini, è ovviamente l’inglese. Complessivamente il piano di recupero prevede 130 tra loft, ville e appartamenti su una superficie di 100.000 mq. Il costo al metro quadrato va dai 3.300 euro in su.

postillaPer fortuna a suo tempo avevamo già stigmatizzato questa operazione immobiliare esplicitamente reazionaria, dove si invitavano in buona sostanza i bianchi ariani stufi di mescolarsi al resto del mondo nella metropoli multiculturale, a rifugiarsi in una specie di medioevo da cartolina dietro un fossato d'epoca restaurato ad hoc con acqua calda e fredda corrente. Il rinvio, per non ripetere ancora le medesime cose, è quindi a Immersi nel verde e nella paranoia. Del resto lo sdoganamento di concetti praticamente tabù non è cosa nuova, quando riguarda interessi economici sul territorio, l'abbiamo visto con lo sprawl autostradale transustanziato in Città Infinita, o con la Gentrification usata oggi spesso, spudoratamente, come sinonimo di riqualificazione urbana (f.b.)

Il metodo grandi opere, autoritario e con decisioni prese lontano dal confronto con cittadini e bisogni, al confronto con una società matura e la ricerca di strategie diverse. Per ora, in un vicolo cieco: esiste un approccio progressista diverso dal No?

La recente bocciatura e sospensione del progetto delle Vie d’Acqua previsto nell’ambito della realizzazione delle opere connesse al sito Expo2015, merita qualche riflessione di approfondimento.
Oggi, chi volesse esercitarsi nell’assemblaggio e nell’analisi di una rassegna stampa dedicata all’argomento, potrebbe trarre la conclusione che si tratti di un intervento “predestinato al fallimento” e maturato in un generale clima di perplessità e scetticismo. In realtà le cose non stanno proprio in questo modo e le numerose prese di posizione delle ultime settimane che utilizzano definizioni come quella di “flop annunciato”, “occasione perduta” e via discorrendo sono, nella migliore delle ipotesi, tardive e ininfluenti. Ma andiamo con ordine, cercando di ricostruire le modalità e le ragioni di questo insuccesso.

La vicenda ha inizio con la predisposizione del Dossier di candidatura al B.I.E.; l’amministrazione comunale (all’epoca presieduta dal sindaco Moratti) aveva presentato un Masterplan, dai contenuti assimilabili ad un ex tempore elaborato da una “consulta di architetti” appositamente istituita, nel quale era stato inserito un canale denominato “Via d’Acqua” che dalla Darsena di Porta Genova, punto di congiunzione dei Navigli milanesi, andava a connettersi con la periferia nord ovest di Milano in corrispondenza delle aree interessate dal sito espositivo.

La connessione idraulica, presentata con caratteristiche di un nuovo canale navigabile e corredata da interventi e progetti di ricomposizione paesistico-ambientale del quadrante “Città-Expo-Canale Villoresi-Naviglio Grande” è stata da subito accolta favorevolmente da un’opinione pubblica sensibile al tema e che ha visto in questo tipo di iniziativa un primo step e uno strumento per rivitalizzare connessioni, usi e manutenzione del complesso sistema delle acque che caratterizza l’area metropolitana milanese e che ha le sue direttrici di forza nei Navigli storici.

A seguito dell’aggiudicazione della manifestazione, la società di scopo (Expo S.p.A.) alla quale è stato affidato il mandato di sviluppare la realizzazione del sito e delle opere connesse ha avviato le fasi di progettazione dell’intervento. Probabilmente, in funzione del precisarsi di alcune scelte tecnologiche in ordine ai caratteri edilizi e impiantistici del sito e a qualche ragionamento in più sulla morfologia del contesto territoriale (dato che “l’acqua da sola non va in salita”), l’impostazione e lo sviluppo progettuale hanno mutato l’orientamento iniziale, generando due distinte “vie d’Acqua”.
La prima, Lotto1 - Via d’Acqua Nord, a cui è stato affidato il compito di assicurare il fabbisogno idrico del sito Expo mediante una derivazione che parte dal Canale Villoresi, storico vettore irriguo che taglia orizzontalmente l’area metropolitana milanese e che si attesta a nord sul limite tra il pianalto ferrettizzato e la pianura irrigua.

La seconda, Lotto 2 - Vie d’Acqua Sud, che dal sito Expo si congiunge con il Naviglio Grande in corrispondenza della Darsena, con la funzione di smaltire i volumi d’acqua in uscita, con un tracciato che attraversa una serie di quartieri residenziali e alcuni parchi urbani. In sostanza, questa configurazione comporta la realizzazione di circa 12 km. di condotte idrauliche, di cui circa il 40% in sotterraneo, con sezioni e portate (2mc/sec) assimilabili ad un adduttore di medio-piccole dimensioni. Gli interventi sul vettore idraulico sono corredati dalla presenza di una dorsale ciclopedonale che si sviluppa per una quindicina di chilometri, e da alcune strutture edilizie (passerelle, affiancamenti a cavalcavia, sovrappassi). Gli interventi di “ricomposizione paesaggistica” sono limitati alle parti di tracciato in sovrapposizione con i parchi urbani esistenti. Costo stimato, 100.000.000 di €.

Evidente, che stiamo parlando di un brusco cambiamento di rotta rispetto ai propositi e alle aspettative iniziali. E interessante sottolineare che, nonostante l’evoluzione del processo di definizione e avanzamento della progettazione portasse verso una direzione con esiti molto distanti rispetto alle suggestioni prospettate alla Commissione della B.I.E., la roboante espressione “vie d’Acqua” è stata ostinatamente mantenuta dall’Amministrazione comunale, nel frattempo presieduta da nuovo sindaco Pisapia, e dalla società Expo sia negli atti ufficiali che nella comunicazione e sulla stampa.

Così come è opportuno chiarire che questo tipo di aggiornamenti dell’impostazione progettuale non sono stati pubblicizzati come sarebbe stato opportuno e doveroso, consolidando nell’opinione pubblica le aspettative e una erronea consapevolezza dell’imminente realizzazione di una nuova vera e propria Via d’Acqua. Opinione pubblica che del resto aveva confermato i propri orientamenti attraverso lo svolgimento di un partecipato referendum consultivo (2011) il cui esito aveva determinato l’impegno verso la riqualificazione della Darsena e il sistema dei Navigli storici.

Nonostante un contesto caratterizzato da una complessiva scarsità di informazioni sull’andamento del progetto, nel 2012 cominciano a levarsi voci critiche e pareri molto negativi.

Significativo è il parere espresso dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici (dicembre 2012) che muove pesanti critiche sia dal punto di vista procedurale che di merito tecnico. Tra gli aspetti di tipo procedurale i rilievi più significativi riguardano una generale lacunosità del livello progettuale, la mancanza di uno studio di impatto ambientale e del relativo svolgimento della procedura di V.I.A. (o quantomeno di uno screening), una scarna documentazione a supporto dell’intervento dal punto di vista del regime idraulico e, infine una “compatibilità urbanistica” tutta basata su dichiarazioni di principio e di intenti e non documentata da una puntuale verifica.Sul versante del merito tecnico viene sottolineata la “non corrispondenza” tra la denominazione del progetto e le sue caratteristiche e lamentata l’assenza di riscontri dal punto di vista del contenuto rispetto ai dichiarati obiettivi di ricomposizione del paesaggio urbano del quadrante Città-Expo-Canale Villoresi-Naviglio Grande.

Un secondo parere fortemente critico è della “Consulta Milanese per l’attuazione dei 5 referendum consultivi sull’ambiente” (quelli del 2011) che ne richiedeva addirittura l’eliminazione riprendendo argomentazioni analoghe a quello del C.S.L.P.

Da registrare anche le prese di posizione di alcune associazioni ambientaliste quali Italia Nostra e Milanosimuove. Quest’ultima promotrice nel giugno 2013 di un esposto alla Corte dei Conti per l’avvio di una indagine conoscitiva, ritenendo ingiustificati gli impegni di spesa programmati in relazione ai fini effettivi del progetto.

Questi pareri, di cui uno vincolante, non hanno comunque condizionato o prodotto interferenze rispetto all’operato della società Expo che comunque ha avviato e svolto la procedura di gara per l’assegnazione degli appalti tra la primavera e l’estate del 2013. Quindi possiamo affermare che fino all’estate del 2013 il progetto e la realizzazione delle Vie d’Acqua avevano il vento in poppa, tutt’altro che indebolite e fiacche.

Cosa è accaduto dall’estate ad oggi? Molto semplicemente l’acquisizione delle aree da espropriare, la posa delle recinzioni dei cantieri e l’arrivo delle ruspe hanno evidenziato la lacunosità dei contenuti, le leggerezze e la sommatoria degli impatti locali di questo progetto, sollecitando da parte dei residenti dei quartieri del quadrante nord ovest una coriacea e organizzata reazione.

In sintesi, il vaso di Pandora è stato scoperchiato.Chi è abituato a vivere con poche risorse non concepisce lo spreco. Pertanto, gli abitanti di questi quartieri periferici con una matrice popolare, per lo più realizzati molto velocemente negli anni 60-70 e che hanno visto conseguire un ancora insufficiente sistema di servizi, parchi, verde e arredo urbano solo negli ultimi due decenni, hanno ritenuto inaccettabile vedere che queste risorse venissero in qualche modo brutalizzate da un intervento che “non parlava” con gli investimenti così faticosamente conquistati e realizzati.

Una reazione comprensibile quindi, dato che alcune delle aree verdi che danno vita a parchi urbani e parchi dei quartiere interessati dall’attraversamento del manufatto idraulico, come il Parco Pertini, il Parco di Trenno e il Parco delle Cave rappresentano luoghi faticosamente acquisiti dalla cittadinanza, sia negli usi che nella tutela, rispetto alla presenza fenomeni di degrado ambientale e sociale e pertanto divenuti importanti elementi di caratterizzazione identitaria.Molto consapevolmente e con argomentazioni ragionevoli, questi residenti si sono chiesti il senso di un così consistente utilizzo di risorse, non solo in termini economici ma anche in termini sociali e di affaticamento del sistema urbano, per il conseguimento di obiettivi così modesti, probabilmente raggiungibili con mezzi diversi e un corretto utilizzo dell’esistente, a partire proprio dalla rete irrigua.

La relazione che l’amministrazione comunale ed Expo hanno stabilito con i diversi Comitati NoCanal non è stata particolarmente efficace dal punto di vista dell’ascolto ed è passata per una prima fase di stigmatizzazione del dissenso per poi successivamente riconoscere, attraverso un confronto aspro, l’esistenza di criticità significative per la fattibilità dell’intervento.

Attualmente, il progetto è temporaneamente sospeso. Non è ancora chiaro se questa sospensione rappresenta il preludio ad un abbandono definitivo o se Expo si muoverà verso una radicale revisione dei tracciati, delle modalità realizzative e degli spazi da impegnare. Il sindaco Pisapia ha dichiarato di considerare la vicenda “una grande occasione perduta”. Probabilmente anche molti milanesi la definirebbero nello stesso modo ma magari da una visuale molto diversa.

«Dagli anni Novanta la città e l’hinterland stanno subendo un cambiamento epocale, spinto da deregulation e appetiti speculativi. Rispetto al quale l’attuale giunta non è riuscita a segnare una netta inversione di rotta. Il banco di prova sarà la gestione del post Expo nell’interesse collettivo».
Il primo di una serie di articoli che il giornale ha programmato per comprendere qual'è il risultato d'un trentennio di neoliberalismo in salsa italiana nelle nostre città. Il manifesto, 6 aprile 2014
Milano, che come molte grandi città del mondo occidentale ha subìto dagli Anni Novanta un cambiamento epocale tuttora in corso, sotto la spinta di un mutamento del modello produttivo caratterizzato dall’abbandono delle collocazioni urbane delle grandi fabbriche, delle infrastrutture di trasporto e distribuzione delle merci e delle grandi attrezzature istituzionali (caserme, mercati generali, fiere, ecc.) sostituite da residenze, uffici e grandi centri commerciali, ha da tempo ed ampiamente utilizzato tutte le possibilità consentite dagli strumenti di pianificazione negoziata (Accordi di Programma con la Regione e altri enti pubblici e privati, Programmi Integrati di Intervento per lo più proposti da privati) introdotti dal 1992 in poi, per imprimere nelle grandi trasformazioni urbane derivanti dal riutilizzo di aree dismesse dall’uso produttivo o da servizi tecnologici ampie modifiche di destinazione funzionale e quantità edificatorie rispetto alle previsioni del proprio Piano Regolatore, fissandole arbitrariamente sulla base delle convenienze economiche derivanti ai futuri realizzatori immobiliari dal prezzo della rendita fondiaria attesa dalla proprietà dell’area, anziché da un ragionamento di congruenza ad un progetto urbanistico di città civilmente pensata.

Questo quadro di derelogazione normativo-legislativa e di crescente aggressività dell’iniziativa immobiliare, passata dal circuito fondiario-edilizio a quello della grande finanza che la salda alla fase di riorganizzazione produttiva, ha caratterizzato la cosiddetta politica del “Rinascimento Urbano” perseguita dalle Giunte Albertini/Lupi (1997-2006), prima, e Moratti/Masseroli (2006-2011), poi, che ha costellato tutte le aree dismesse della città di tipologie edilizie estremamente concentrate in altezza e in molti casi con quantità doppie o triple di quelle programmate in precedenza e che, quindi, hanno reso ridicolmente insufficiente il 50% a verde, spesso sbandierato come grande conquista

In questa visione, ogni tentativo di porre limiti ed indirizzi ai criteri di riutilizzo di queste aree sulla base di interessi generali degli utenti delle città è stato considerato un’indebita intromissione nelle “magnifiche sorti e progressive” che le forze economiche e finanziarie stavano attuando con la trasformazione delle città, e per la quale ritenevano propria legittima prerogativa non solo proporre quantità e funzioni secondo una propria valutazione delle opportunità di mercato di volta in volta stimate e una docile adattabilità alle loro eventuali fluttuazioni, ma anche quella di fornirne una conformazione progettuale e di immagine che, ovviamente, nella loro visione atteneva più al carattere della riconoscibilità del marchio o della pubblicità aziendale, che non a quello dei caratteri insediativi o della tradizione culturale del contesto urbano in cui si collocava l’intervento.

Una fase rispetto alla quale l’attuale Giunta Pisapia/De Cesaris non è riuscita a segnare una netta inversione di rotta, subendo passivamente l’attuazione dei progetti già avviati sulle principali aree di trasformazione urbana (ex Fiera Citylife, Centro Direzionale/Porta Nuova/Garibaldi/Repubblica), e in prospettiva sugli scali ferroviari dismessi, sulle ex caserme, sul riuso delle aree dopo l’EXPO 2015, limitandosi a ridimensionare, ancorché sensibilmente, le quantità edificatorie del Piano di Governo del Territorio (PGT) adottato dalla precedente Giunta di centro-destra, senza però riuscire a cambiarne il carattere liberista e privo di indirizzi strategici, impressogli anche da una dirigenza tecnica avvezza ad essere succube degli interessi privati, quando non apertamente collusa, e che non si è avuto la forza e la volontà di avvicendare.

D’altra parte, sotto l’incontenibile appetito di oneri urbanizzativi per tamponare le contingenti esigenze di bilancio, del tutto analogamente si stanno orientando molte amministrazioni comunali dell’hinterland, tra cui l’amministrazione di Sesto San Giovanni, storicamente di sinistra, che nel riuso delle aree dell’ex acciaieria Falck, aderisce a un progetto di Renzo Piano proposto dalla proprietà dell’area con indici edificatori, tipologie e funzioni pressoché identiche a quelle avallate dalle Giunte di centro-destra a Milano.

Molti hanno commentato in maniera un po’ scontata e convenzionale che le scelte in corso a Milano e nell’hinterland segneranno il destino urbanistico dell’area metropolitana per i prossimi venti-trent’anni: non si sono resi conto, tuttavia, di accreditare con ciò una verità paradossale. Infatti, con una scelta per vero discutibile e di dubbia legittimità, la legge urbanistica regionale del 2005 ha deciso di utilizzare in Lombardia solo una pianificazione urbanistica di durata quinquennale, senza più alcun orizzonte strategico di medio-lungo periodo, e quindi le previsioni dei PGT di Milano ed hinterland cesseranno di avere effetto verso il 2016-2018, giusto all’indomani della conclusione del mitizzato evento di Expo 2015.

E’ forse per questo che attorno alle aree di Expo 2015 gli appetiti speculativi sull’uso finale dell’area (che se resa edificabile potrebbe rendere alla proprietà circa 700 milioni di Euro, dopo essere stata acquisita da Fondazione Fiera a prezzi agricoli per circa 60 milioni di Euro e rivenduta alla newco regionale Arexpo a 200 Milioni di Euro) e che hanno aleggiato a lungo nella sotterranea contesa tra i potentati di CL, della Lega e delle Coop, tornano oggi a rispuntare.

Per quanto grande possa essere il potere di convincimento/condizionamento di una Regione Lombardia persistentemente amministrata dal centro-destra (Formigoni, poi Maroni), nell’ Accordo di programma sull’evento Expo 2015 la decisione sull’uso finale delle aree dopo l’evento resta in capo al Comune di Milano, che, dopo aver scelto la linea minimalista di riduzione del danno nell’approvazione del PGT, ora dovrà finalmente esprimersi sull’opzione strategica del mantenimento ad uso pubblico permanente di quell’area o della sua spartizione tra gli appetiti bi-partizan della sussidiarietà cooperativistico-edilizia.

Un banco di prova concreto per verificare, al di là di divisioni ideologiche e schieramenti strumentali, dove risieda la volontà reale delle forze politiche e dei programmi amministrativi di farsi difensori civici dell’interesse collettivo della città.

Infatti, se non si vuole ridurre la discussione sull’assetto urbano che si vuol ottenere a mero pettegolezzo sulle personali preferenze estetiche di questo o quel pubblico amministratore, di questo o di quell’architetto di grido, occorre avere il coraggio di rivendicare alle scelte dell’amministrazione pubblica la responsabilità che una collettività si assume nei confronti della conformazione urbana di cui intende dotarsi, Un tempo l'urbanistica progressista vedeva nel contenimento della rendita fondiaria non solo la possibilità di destinare nuove risorse ad usi più produttivi e socialmente più utili, ma anche di rivendicare una democrazia nelle decisioni su quel bene primariamente pubblico e collettivo che è l’uso della città, del territorio, dell’ambiente.

Oggi, in questa frenesia di privatismo che nei consigli comunali sembra coinvolgere sia la maggioranze che le opposizioni, nemmeno le idee sono più in libera disponibilità, come accadrebbe in una pianificazione promossa da proposte dall’Ente pubblico. Esse, invece, tendono ad appartenere privatamente a qualcuno. Il Comune e i cittadini sono, cioè, liberi di discutere solo le impostazioni progettuali e insediative dell’acquirente con cui il proprietario delle aree ha stretto un contratto, di chi – col più caro prezzo pagato – si è comprato anche il diritto di essere padrone delle idee della città e suo interlocutore unico.

Finalmente oltre la fase ideologica e lo stallo, cambia pelle e sostanza uno dei progetti simbolo della metropoli ingiusta dei berlusconidi. Corriere della Sera Milano, 1 febbraio 2014

Fase due. Il futuro di Santa Giulia è disegnato sulle carte di sir Norman Foster, vincolato alla bonifica dei terreni ex Montedison e appeso a una trattativa finanziaria che si trascina da oltre un anno tra la proprietà Risanamento e la sgr Idea Fimit. Il punto di ripartenza della maxi operazione immobiliare è indicato nella nuova proposta di masterplan depositata a Palazzo Marino il 22 gennaio: «È il primo passaggio di un lungo percorso di confronto con gli uffici comunali», dicono dal gruppo Zunino, cioè l’atto formale che introduce gli approfondimenti tecnici e gli accordi di programma. L’orizzonte temporale è piuttosto lungo: serviranno almeno otto-dieci anni, nella migliore delle ipotesi, per completare la trasformazione di 450 mila metri quadri di città al margine Sud-Est di Milano, l’enorme pianura (attualmente sotto sequestro giudiziario) definita come zona Nord di Santa Giulia. La porzione Sud è stata realizzata, dopo un lunghissimo travaglio legale, economico e amministrativo, sulle ceneri delle acciaierie Redaelli.

I primi progetti sono stati presentati nel 2004 e dieci anno dopo il lavoro è a finito per metà. Nel settore Sud si è insediata Sky (il terzo palazzo è in cantiere), è stato costruito un quartiere residenziale per 1.800 famiglie e, un pezzo per volta, sono stati liberati dalle scorie e inaugurati l’asilo, la promenade pedonale e il giardino Trapezio. Il blocco Nord è fermo al decennio scorso, una bomba ecologica da disinnescare e uno scandalo tutt’ora sotto indagine. Il nuovo masterplan tratteggia lo scenario di sviluppo successivo al necessario intervento di bonifica ambientale. Le linee guida sono scritte: «Milano Santa Giulia sarà un “quartiere aperto”», non il villaggio «esclusivo» immaginato all’origine dell’investimento. Lo studio dell’archistar Norman Foster ha spalmato le volumetrie, abbassato le altezze dei palazzi (da otto-nove a cinque-sei piani) e inserito una trama di piazze pedonali, negozi e «punti d’interesse» nella futura geografia di questo lembo di città: il Museo Tecnologico e dell’Innovazione per Bambini (spin off del polo «Leonardo da Vinci» di via San Vittore), un’arena sportiva, biblioteca e mediateca, un cinema multisala (forse) e un supermercato Esselunga. Il parco di 330 mila metri quadrati sarà «l’elemento di congiunzione» con i quartieri Rogoredo e Bonfadini-Ungheria. Per sintetizzare il cambio di filosofia: archiviata la suggestione della Santa Giulia elitaria, la versione è stata aggiornata in stile familiare -pop. Più «innovazione e benessere», meno lusso. Spirito social e sostenibilità ambientale (già certificata dal protocollo Leed).

Questo schema dovrebbe venire approvato entro la fine del 2014. Spiega il vicesindaco e assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris: «Il procedimento di bonifica è già cominciato, ora valuteremo con attenzione — assieme ai cittadini e all’impresa — i parametri su volumetrie e servizi. Una prima conferenza di servizi potrebbe essere riunita a marzo. Le problematiche sono complesse: lavoriamo a ritmi spediti, ma con grande cautela». Quando potrebbero partire gli scavi di bonifica? «Se il privato si dimostrerà collaborativo, potremo procedere velocemente».

Il settore Sud è abitato fin dal 2009. Gli appartamenti sono quasi tutti occupati, c’è la farmacia, sono frequentati i bar-ristoranti ai piedi dei condomini, qualche vetrina è libera o promette l’arrivo di un’attività. Nel lato addossato alla ferrovia, tra via Pizzolpasso e Monte Penice, cresce il complesso Sky e aspetta i cantieri la zona destinata all’Hotel Nh. Stefano Bianco è il portavoce del comitato dei residenti: «L’avvio dell’istruttoria sulla zona Nord è un segnale positivo — riflette —. Ci auguriamo che l’operazione Santa Giulia venga portata avanti concretamente nei tempi previsti».

Entra nel vivo la scissione dell'atomo di Umberto Veronesi, tra le due componenti della ricerca scientifica e della speculazione edilizia: riuscirà l'esperimento? La Repubblica Milano, 15 gennaio 2014 (f.b.)

Comune e Fondazione Cerba ricominciano a trattare per salvare il Cerba, il Centro europeo di ricerca biomedica avanzata. Dopo la decisione di Palazzo Marino, il 18 dicembre, di non concedere un’ulteriore proroga alla firma degli atti integrativi all’Accordo di programma (con conseguente rischio di far decadere il piano), ieri durante una seduta della commissione Urbanistica le parti hanno avviato le prove d’intesa. Il vice sindaco Ada Lucia De Cesaris ha messo sul piatto la proposta del Comune: la revisione del progetto iniziale, con la riduzione dell’impatto urbanistico sul Parco e lo spostamento di parte delle costruzioni in un’altra zona, esterna all’area agricola.

Un’ipotesi che non dispiace alla Fondazione: «Siamo disposti a rivedere il progetto — spiega il direttore generale Maurizio Mauri — La parte del Cerba inerente alla ricerca e all’attività clinica deve essere necessariamente realizzata accanto allo Ieo, nel Parco agricolo Sud. Il resto, però, può anche essere costruito altrove: noi non vogliamo fare alcuna speculazione edilizia, ma solo portare avanti un disegno scientifico».

L’ipotesi sarebbe quella di spostare le “funzioni ancillari” del Cerba (le case per studenti e ricercatori in arrivo dall’estero, i magazzini, le aule per la didattica) in un’altra zona: si potrebbero utilizzare, si ragiona in Comune, alcune di quelle aree dismesse o edificabili che appartengono al pacchetto del fallimento Ligresti, ma si trovano dall’altro lato di via Ripamonti, fuori dal Parco agricolo Sud. Su cui, così, l’impatto potrebbe diminuire anche di un terzo. «Siamo pronti a partire su nuove basi purché sia chiaro l’iter urbanistico — sottolinea De Cesaris — Il Cerba si può fare benissimo con un lavoro di contemperazione. Ci si mette tutti di buona volontà e lo si fa in modo trasparente, con un accordo alla luce del sole e non pasticciato». Uno scenario che la Fondazione non esclude, anche se mette il paletto dei tempi: «Tutto dovrà essere risolto entro un anno, non di più», puntualizza Mauri.

Un compromesso, insomma. Che potrebbe essere formalizzato nelle prossime settimane, con l’avvio di un nuovo tavolo tra Palazzo Marino, Fondazione e Visconti srl, la società costituitadalla banche creditrici di Ligresti per presentare il concordato (che ancora attende l’omologazione) e rilevare il Cerba. Resta il nodo dei ricorsi al Tar, presentati contro il Comune dalla Fondazione e dalla curatela Ligresti, e su cui il Tribunale si esprimerà il 23 gennaio. Se la Fondazione si dice disposta a ritirarlo qualorale trattative dovessero riprendere ufficialmente, quello presentato dalla curatela per ora rimane in piedi. Anche perché è proprio con i curatori fallimentari (che il 27 dicembre hanno scritto al sindaco Pisapia, invocando un ripensamento per evitare che il concordato salti) che i rapporti sono più tesi: «La curatela finora non si è dimostrata disponibile ad arrivare a un compromesso — dice De Cesaris — In questi mesi abbiamo proposto diverse proposte di modifica al piano originale, ma l’accordo non è mai stato raggiunto: se ci avessero seguito, non saremmo a questo punto».

II contenimento del consumo di suolo non comporta solo l'inedificabilità dei suoli attualmente ancora liberi e la densificazione indiscriminata delle aree già urbanizzate. Richiede anche un'utilizzazione ragionevole del già costruito , 11 gennaio 2014, con postilla (f.b.)

È vuota da più di quindici anni: un monumento alle città abbandonate, la Torre Galfa, tanto che un anno e mezzo fa il collettivo Macao l’aveva scelta come prima sede per una breve ma intensa occupazione abusiva. Ora il grattacielo di via Galvani passa dalle mani del gruppo Fondiaria-Sai a quelle del gruppo Unipol (che ha acquistato il gruppo di Ligresti nel 2012), che sta iniziando a studiare un progetto di riqualificazione del Comune. Obiettivo: trovare investitori anche internazionali per poter partire con i lavori di recupero nel corso di quest’anno.

È soddisfatta l’assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris per un accordo che va nella direzione delle politiche di recupero del costruito fissate anche dal nuovo regolamento edilizio: «Abbiamo avviato un processo condiviso con Unipol per definire il progetto migliore per la riqualificazione della Torre Galfa, che potrà tornare ad essere un elemento di qualità per la città, mi auguro che possa essere d’esempio per gli altri proprietari di edifici abbandonati». Il progetto di riqualificazione e valorizzazione, che riguarderà non solo la torre, ma anche lo spazio urbano circostante, è nella fase iniziale (Unipol ha preso possesso del grattacielo da poco). Non è un caso, forse, che la notizia dell’accordo sia arrivata ieri: perché per oggi alle 14 Macao ha in programma un “laboratorio itinerante” che parte dalla Torre Galfa e arriva nell’edificio attualmente occupato, l’ex macello di viale Molise.

postilla

L'occupazione da parte di un gruppo di artisti del grattacielo griffato anni '60 in pieno centro a Milano, lasciato strumentalmente vuoto dal gruppo Ligresti a marcire, aveva fatto sensazione in tutto il paese: si denunciava esplicitamente tutta l'ideologia della cosiddetta eccellenza e sviluppo del territorio in salsa ciellino-formigoniana. Mentre una massa enorme di metri cubi disponibili a uffici veniva lasciata a far muffa, a duecento metri da un nodo di trasporti come la Stazione Centrale, un isolato più in là si scaraventava inopinatamente sul quartiere una specie di piramide di Cheope fortemente voluta dall'onnipotente governatore, e ancora poco distante crescevano gli altri parti delle fantasie di archistar e immobiliaristi d'assalto. Oggi, la sola idea di far qualcosa di minimamente ragionevole con quel grattacielo, contemporaneo al più noto Pirelli e allineato sulla medesima via Galvani angolo Fara (da cui il nome GalFa), può anche indicare una inversione di rotta. Certo non basta, ma come si dice aiuta. Su questo sito a vedi anche Torre GalFa e la responsabilità sociale dell'immobiliarista, di Diego Corrado e Gaetano Nicosia, ripreso da Arcipelago Milano (f.b.)

Intervistato da Giampiero Rossi, l'oncologo ci rivela un vero e proprio miracolo di Natale: la scissione del nucleo del suo progetto, fra Scienza e Metri Cubi. Forse è la volta buona per la città. Corriere della Sera Milano, 5 gennaio 2014, con postilla (f.b.)

Sono passate poco più di due settimane dallo strappo tra Palazzo Marino e la Fondazione Cerba. E, in particolare, tra il vicesindaco Ada Lucia De Cesaris e il fondatore dello Ieo Umberto Veronesi. «Non riesco proprio a capire», diceva il 18 dicembre scorso al Corriere della Sera lo stesso Veronesi, «è davvero strano avere un sindaco contrario a un’opera di scienza, di civiltà, di avanzamento culturale...». Partita chiusa? Molti hanno pensato di sì, la sera in cui la vice di Pisapia ha rifiutato la proroga della convenzione che teneva in vita il progetto Cerba sui terreni del fallimento del gruppo Ligresti, a sud della città. Invece, durante le feste ci sono stati contatti diretti tra il sindaco e Veronesi e adesso, alle parole di distensione del vicesindaco nell’intervista di ieri, risponde il padre dell’oncologia italiana con messaggi altrettanto distensivi.

Professor Veronesi, ha letto le parole di ieri del vicesindaco De Cesaris?
«Sì, ho letto e dico che anch’io sono molto favorevole a riprendere il discorso su basi nuove. Dobbiamo tenere conto anche delle esigenze del Comune».

Prima di Natale sembrava tutto finito, lei era molto amareggiato. Cosa è successo in queste due settimane?
«È vero. Ho capovolto alcune mie posizioni, anche perché in effetti allora ero molto deluso all’idea che potesse sfumare questa grande opportunità per Milano. È successo che in questi giorni ho avuto un lungo dialogo con il sindaco Pisapia, che si è confermato una persona di vedute ampie, che mi ha spiegato le esigenze dell’amministrazione comunale».

E quali sono?
«Innanzitutto noi abbiamo già ridotto notevolmente le volumetrie del progetto iniziale, dopodiché si tratta di ragionare sui terreni nella stessa area ma più a ridosso di via Ripamonti, dove l’impatto ambientale è più ridotto. In pratica si ripropone il problema che avevamo già incontrato vent’anni fa con lo Ieo: dal momento che sorgeva nell’area agricola, quindi doveva essere vicino a via Ripamonti e architettonicamente compatibile, e infatti assomiglia a una grande cascina».

Dunque si tratta di spostare di poco la sede del futuro Cerba?
«Vorrà dire che non staremo in mezzo a un parco ma ai margini. L’importante è salvaguardare il principio del progetto, che resta solido. Noi chiediamo che vengano mantenute le tre aree — oncologia, cardiologia e neuroscienze — e che tutte possano fare capo a un grande centro di ricerca biomolecolare e uno di tecnologie biomediche avanzate. Perché il Cerba deve avere la capacità di diventare il punto di riferimento europeo, sovranazionale come il Nih negli Stati Uniti».

Quindi è tornato ottimista, professore, il Cerba si farà?
«Io credo di sì, che anche il Comune lo voglia fare. La vicesindaco De Cesaris è una donna forte, inflessibile, ci siamo scontrati, ma le riconosco di essere una persona intelligente. Quindi non è difficile trovare un punto di incontro. Presto torneremo tutti attorno a un tavolo».

postilla

Pare davvero di vederlo, il sindaco Pisapia, mentre spiega al professore nuclearista Veronesi le analogie fra la scissione dell'atomo e quella del Cerba: separando le due componenti della Ricerca di livello europeo, e del Metro cubo speculativo ad elevato impatto ambientale (che sinora apparivano inscindibili), si liberano energie straordinarie, in grado di creare occupazione qualificata e avanzamenti del sapere, più e meglio di quanto immaginato sinora sotto la cappa di piombo degli immobiliaristi nascosti dietro la scusa del polo sanitario. Poi naturalmente, come già accaduto e ancora accade ad esempio per certi progetti Expo, ci si può pestare le corna sulla qualità dei progetti, ma nessuno potrà più nemmeno per scherzo etichettare Nemici della Scienza quelli che provano a difendere la relativa integrità della greenbelt agricola milanese, e un metodo di decisione urbanistica degno di un paese civile deberlusconizzato (f.b.)
Nota: su questo sito sono decisamente troppi gli articoli riferiti al progetto Cerba, per poter ipotizzare qui anche indicativamente qualche link specifico. Il suggerimento è di inserire la parola chiave nella finestra del motore interno in alto a destra

Qualche breve considerazione generale sul fallimento del progetto Cerba di Umberto Veronesi a Milano, e sulle prospettive future di una città metropolitana al passo coi tempi, e non con le esigenze di qualche gruppo finanziario speculativo

Nell'ultima valanga di dichiarazioni arroventate, dopo la bocciatura del progetto di Centro Ricerche Biomediche Avanzate, si confonde sicuramente nel clamore quella sottotono dell'ex candidato alla presidenza della regione Lombardia, Umberto Ambrosoli, e della vicesindaco con delega all'urbanistica, De Cesaris: cerchiamo un'altra area? Non trova tantissima eco, e per forza, dato che implacabilmente mette in primo piano il vero oggetto del contendere di tutta la faccenda, ovvero una ennesima, grossa speculazione edilizia, finanziaria e chissà cosa sul groppone dei cittadini, della qualità ambientale, dello sviluppo metropolitano, pudicamente nascosta dietro la semitrasparente tendina del solito progetto sostenibile per autodefinizione, di green hospital, e naturalmente dell'ego di Umberto Veronesi, all'interno del quale ogni contraddizione urbanistica, giudiziaria, sociale, scientifica, sanitaria e via dicendo, deve per destino ineluttabile trovare ricomposizione. E invece no.

E invece: cerchiamo un'altra area? Si riparte esattamente dalle osservazioni di chi, giusto all'inizio della vicenda, non si sognava neppure di metter becco negli obiettivi scientifici, occupazionali, socio-sanitari di questo green hospital, e neppure a ben vedere nemmeno del suo estendersi su tutti quegli ettari. Anche se di solito il risultato urbanistico di certe autoreferenziali megalomanie mediche (quei baracconi fabbriche di traffico degrado esclusione e di disagio dentro e fuori che sono la maggior parte dei nostri ospedali) non è gran che, accettiamo pure in parte questa relativa invasione di campo. Ma: perché proprio lì? Non c'è un altro posto?

Visto che ci si appella all'Europa, al globo terracqueo intero per salvare la Scienza con la S maiuscola, per rilanciare il ruolo dell'area metropolitana sul versante dell'economia della conoscenza, magari si potrebbe attingere al medesimo contesto anche qualche spunto sul versante della pianificazione territoriale, e senza passare necessariamente attraverso il filtro tuttologico del professor Veronesi, che sicuramente (l'ha già fatto con le scorie nucleari, con gli Ogm all'Expo eccetera) vorrebbe impartire all'umanità tutta lezioni magistrali di planning. Se guardiamo a tutto il mondo, scopriamo che le migliori tendenze e i migliori auspici per lo sviluppo urbano, occupazionale, di riqualificazione sostenibile, ruotano attorno a un paio di principi: contenimento sino all'opzione zero del consumo di superfici greenfield, e coinvolgimento delle imprese di alto profilo tecnologico, scientifico e organizzativo nel recupero di aree brownfield, dove intervenire per progetti integrati che massimizzino il riuso di infrastrutture esistenti e ricostruiscano sistemi di quartiere multifunzione.

Solo per fare un piccolo esempio: pare del tutto campato per aria straparlare di mobilità dolce e integrazione spaziale, se alla prima occasione (e che occasione, sul versante occupazionale e competitivo) ci si siede passivamente sul modello insediativo suburbano automobilistico, salvo promettere come si fa in buona sostanza sempre da una cinquantina d'anni, grandi futuri investimenti in costose metropolitane. Intervenire su aree già urbanizzate, tendenzialmente centrali, consente il riuso e rilancio di infrastrutture esistenti, la modernizzazione di altre, un effetto domino positivo su zone confinanti. E ogni metro di recupero brownfield corrisponde a parecchi metri di greenfield risparmiato.

Il professor Umberto Veronesi, nelle sue varie e multiformi espressioni dichiarazioni, pubblicazioni, sostiene la superiorità della dieta vegetariana, e forse non gli sarà sfuggito neppure il moderno movimento che tende a legare in qualche modo alimentazione, salute, territorio, ambiente. Senza entrare in dettagli, vale però la pena ricordare che nei modelli di sviluppo urbano (quelli per intenderci su cui si discute da un paio di secoli, non le trovate dell'altro ieri tutte da verificare) c'è il sistema delle interposizioni agricole e naturali ai processi di espansione urbana e artificializzazione degli spazi. In gergo si chiamano queste fasce di separazione greenbelt, green wedge, green buffer, e a seconda dei contesti svolgono un ruolo di superfici agricole, a parco, o più recentemente di infrastrutture verdi ovvero sfruttamento anche ingegneristico di funzioni naturali nel metabolismo urbano. Lì si possono concentrare anche le produzioni di alimenti destinati alla rete di distribuzione locale, che come ancora insegnano le esperienze internazionali risultano più sani, sostenibili, socialmente utili.

Il Cerba, piazzato nel bel mezzo della greenbelt milanese, con l'unico evidente motivo di stare accanto all'esistente Istituto Oncologico Europeo del professor Veronesi, era in aperta contraddizione con tutto quanto riassunto sopra. Le vicende legali del gruppo Ligresti, proprietario delle aree, le modifiche successive del progetto urbanistico piuttosto banalizzanti, ne hanno anche messo in luce non pochi risvolti del tutto strumentali a cose che con la Scienza, la Salute, lo sviluppo locale, hanno pochissimo o nulla a che fare. E, lasciando ovviamente alla magistratura il compito di far chiarezza e giustizia su questi risvolti, si può concludere invitando tutti, Veronesi incluso, a considerarli proprio dei risvolti, sgradevoli ma secondari. E a rilanciare l'inascoltato, sinora, appello di tutti gli oppositori. Oppositori non della Scienza, della Salute e che altro, ma oppositori di loro strumentalizzazioni indebite a nascondere squallide speculazioni sulla pelle dei cittadini e della città. Allora: cerchiamo un'altra area?

Poscritto. Pare che Veronesi voglia indire addirittura un referendum cittadino a sostegno della propria idea (e implicitamente degli interessi che l'hanno sostenuta sinora). Abbastanza facile immaginare quali sarebbero le argomentazioni di questo referendum, spiegato più o meno nei termini: tu cittadino sei favorevole o contrario alla lotta contro il cancro? Il che confermerebbe se necessario l'idea maturata lungo tutto l'arco della vicenda, che il principale ostacolo al Centro Ricerche Avanzate sta nell'ingombrante presenza del suo sponsor, il professore Veronesi (f.b.)

Intervistato da Giampiero Rossi sul fallimento del Cerba nel Parco Sud, il professore da par suo si lancia in una serie di considerazioni paradossali: che saranno mai un po' sterpaglie (sic) paragonate alla ricerca, fatta dove dico io? Corriere della Sera Milano, 19 dicembre 2013 (f.b.)

«È strano, davvero strano, avere un sindaco contrario a un’opera di scienza, di civiltà, di avanzamento culturale... Ma noi andremo avanti, troveremo il modo per realizzare comunque il Cerba».

Il professor Umberto Veronesi, il “padre” del progetto Cerba, assicura di non essere arrabbiato. Anzi di essere «tranquillissimo». Ma le sue parole lasciano intendere chiaramente il disappunto nei confronti della decisione del Comune di Milano.
Lei non trova che le motivazioni per congelare il progetto del Cerba abbiano fondamento?

«Se devo dire la verità, io non riesco proprio a capire. Anche perché è una posizione che il Comune ha assunto soltanto di recente. Tutti i sindaci precedenti sono stati favorevoli. E anche lo stesso Pisapia lo era fino a sei mesi fa... No, proprio non capisco».

Ma oltre alle implicazioni giudiziarie, i terreni interessati dal progetto sorgono nel Parco Sud...
«Sulla carta. Ma andiamo a vederlo: quello non è davvero un parco. Si tratta di terreni brulli, pieni di sterpaglie e immondizie. Noi, piuttosto, abbiamo in progetto di trasformarlo in un vero parco, piantando 20 mila alberi nella tradizione dei cosiddetti green hospital».

Ma secondo lei che lo ha pensato, se non si fa il Cerba cosa perde Milano?
«Perde uno dei più grandi progetti di questo inizio secolo. Un punto di riferimento per l’intera ricerca europea, perché nel nostro continente la scienza medica è ancora molto frammentata, diffusa, non ha un coordinamento e armonizzazione, come negli Stati Uniti. In futuro quel ruolo di spinta e regia toccherà al Cerba».

Professore, lei continua a essere certo di realizzarlo?
«Noi siamo pronti a partire, siamo arrivati fin qui e andremo avanti».

E come?
«Certo, ora è un problema, ma se convinciamo il Parco Sud a darci un pezzo di terreno...».

Nota: in questa cartella dedicata a Milano, sono decine e decine i contributi che raccontano le vicende del CERBA di Veronesi; ho provato su Millennio Urbano a circostanziare un po' di più, e anche contestualizzare in un quadro internazionale, questo disprezzo per l'ambiente, e in fondo la salute (f.b.)

Si avvicina, almeno così pare e speriamo, il definitivo accantonamento – anche se per motivi che avremmo preferito diversi - del progettone Ligresti-Veronesi in mezzo al Parco Sud. La Repubblica Milano, 18 dicembre 2013, postilla (f.b.)

La richiesta della Procura è arrivata qualche giorno prima che il Collegio di vigilanza, previsto per oggi pomeriggio, fosse convocato. E adesso questo passaggio rischia di compromettere ulteriormente la vicenda già tormentata del Cerba. I magistrati milanesi hanno chiesto a Palazzo Marino una serie di atti amministrativi correlati al progetto del Centro europeo di ricerca biomedica avanzata, nell’ambito del procedimento penale che verte sul fallimento delle due immobiliari del gruppo Ligresti, ImCo e Sinergia, proprietarie dei terreni su cui il polo scientifico dovrebbe sorgere. Una novità, questa, che potrebbe contribuire a confermare i dubbi degli enti locali, e in particolare di Palazzo Marino, sull’ipotesi di andare avanti con il progetto. E di dare l’ok alla richiesta, presentata dalla società Visconti srl, di avere un’ulteriore proroga per firmare gli atti integrativi all’Accordo di programma, necessari per permettere al progetto di restare in vita.

I pm che indagano sul crac hanno chiesto a Palazzo Marino i documenti che ripercorrono tutto l’iter amministrativo del Cerba. Ovvero, i verbali dei Collegi di vigilanza che si sono svolti finora, le proposte di integrazione all’Accordo di programma fatte nei mesi scorsi da Visconti srl (la società costituita dalle banche creditrici di Ligresti per presentare il concordato e rilevare il progetto), le richieste di proroga alla diffida inviata dal Comune nella primavera del 2013, e il provvedimento di sospensionedella diffida stessa firmato da Palazzo Marino a giugno.

La vicenda del Cerba inizia nel 2007, con la firma di un Accordo di programma tra Comune, Regione, Provincia e Fondazione Cerba. Nel 2012, il crac di ImCo e Sinergia, le immobiliari di Ligresti proprietarie dei terreni, si è rivelato il primo grande ostacolo all’operazione: in seguito al fallimento, il Comune la scorsa primavera ha inviato alla Fondazione una diffida (scadenza: 30 giugno) con la quale venivano concessi 90 giorni per regolarizzare la situazione e procedere alla firma di alcune integrazioni all’Accordo di programma.

La diffida prima dell’estate è stata prorogata di sei mesi (scadenza, 31 dicembre) in attesa dell’approvazione del concordato. La richiesta della Procura rischia però di complicare ulteriormente l’operazione. Tanto che i dubbi sull’esito del Collegio di vigilanza di oggi, decisivo per permettere al progetto di proseguire, sono diversi. Al centro della discussione, la richiesta di un’ulteriore proroga alla diffida presentata da Visconti srl, e alcune modifiche al progetto originale, quali la trasformazione del giardino previsto attorno al polo scientifico in parco agricolo. E la costruzione per unità di intervento, per diluire il pagamento degli oneri di urbanizzazione.

postilla

Implicito, nel linguaggio e nei temi dell'articolo, un giudizio complessivo riguardo all'operazione: niente progresso della scienza, aggiustamento minore nel modello di espansione urbana, insediamento di grande qualità architettonica fiore all'occhiello della metropoli europea. Solo, come su questo sito è stato ribadito infinite volte, miserabile speculazione sulla pelle dei cittadini e del loro diritto a un ambiente equilibrato, di cui l'archistar e lo scienziato rappresentavano solo la (consapevole, rassegnata) foglia di fico. Unico vero rimpianto, al solito, che a cavare le castagne dal fuoco debba essere la magistratura, e non altri controlli di merito, come quelli sul modello di crescita urbana e la sua coerenza, che a prima vista avrebbero dovuto entrare in campo con maggior evidenza da subito. Che serva almeno come monito per il futuro (f.b.)

In una lettera testimonianza dalle ultime sacche agricole metropolitane devastate dall'Expo, gli impatti reali dell'evento mediatico, e qualche seria questione. Corriere della Sera Milano, 10 dicembre 2013, postilla (f.b.)

Abito in una cascina confinante con l'area Expo. Ho visto distruggere l'agricoltura e le cascine della zona. A noi hanno tolto un grande campo dove sino a poco tempo fa pascolavano le vacche Jersey.

Ma l'ultima “caramella” è stata l'esproprio dei fontanili. Scavati ai tempi di Ludovico il Moro ora saranno usati per il tubo trasportatore di acqua che alimenterà le vie fluviali. Sopra poi passerà una via ciclabile. Il nostro fontanile è ricchissimo di flora spontanea e rifugio di volpi, scoiattoli, gallinelle d'acqua e varietà ampia di uccelli, dai barbagianni a cinciallegre, pettirossi e uccelli in transito.

Sono rassegnata, ma Expo ha martoriato e distrutto una zona agricola fiorente. I miei pensieri sono quelli di una donna anziana che abita questa azienda agricola da quando fu costruita nel 1942, e non hanno nessun valore commerciale, sono solo constatazioni personali.

postilla
Constatazioni personali, come conclude la signora Virginia Oliva, che però mettono in campo direttamente e tangibilmente il senso, locale e globale, del grande evento che sarebbe dedicato al tema “Nutrire il Pianeta”. Si è discusso (anche con toni piuttosto grotteschi, come nel caso del contraddittorio Umberto Veronesi-Oscar Farinetti) dell'alternativa fra una Expo targata Ogm e una segnata dalle pratiche biologiche e sostenibili. Il che corrisponde per molti versi in modo quasi esatto, almeno nella situazione attuale e del prevedibile futuro, a un modello territoriale da un lato legato alla città compatta tradizionale, che nella sua espansione respinge le zone rurali sempre più lontano, contando sul sistema agro-industriale per gli approvvigionamenti; dall'altro ai sistemi di infrastrutture verdi, rinaturalizzazione della città, convivenza fra natura e artificio ad esempio con l'agricoltura urbana, ma non solo. Anche al netto di un sistema ereditato da scelte precedenti, onestamente non appare chiaro se la triste obliterazione del paesaggio rimpianto dalla signora Oliva avvenga nella prospettiva dell'una, o dell'altra strategia. Probabilmente non lo sanno neppure i grandi decisori strategici, ma farebbero meglio a iniziare a chiederselo. I "fontanili" di cui al titolo della lettera, sono le caratteristiche fonti di acqua risorgiva padane utilizzate per l'irrigazione (f.b.)

Trovato un equilibrio, imperfetto ma tutto sommato ragionevole, fra esigenze ambientali, urbanistiche, di equilibrio metropolitano e riorganizzazione aziendale, per un progetto controverso che si trascina da anni. Corriere della Sera Milano, 4 dicembre 2013, postilla (f.b.)

«Finalmente oggi si parte. Vogliamo trasformare un luogo abbandonato in un luogo di vita». Il presidente della Regione Roberto Maroni annuncia così il simbolico avvio dei lavori per la realizzazione della Città della Salute di Sesto San Giovanni. Tra gli imponenti ruderi di quel che resta dell’area delle acciaierie Falck, il governatore ha voluto riunire per una cerimonia ufficiale i protagonisti dell’operazione: l’autore del grande progetto, l’architetto Renzo Piano, il sindaco di Sesto Monica Chittò, i vertici del Besta e dell’Istituto dei tumori, cioè le due strutture ospedaliere che qui troveranno una nuova sede.

A loro e alle centinaia di invitati, Maroni ha ribadito che i tempi previsti saranno rispettati. Prima si procederà con la bonifica, poi partirà la costruzione che dovrà garantire l’apertura della nuova struttura nel 2019. «Entro fine anno ci aspettiamo il decreto del governo — dice il governatore —. Ho sentito stamattina il ministro Orlando e mi ha garantito che arriverà». Poi ricorda che «entro il 2018», prima della fine del suo mandato, intende aumentare «dall’attuale 1,6% del Pil al 3%» gli investimenti della Lombardia per la ricerca. E si concede una battuta: «Visto che la Città della Salute aprirà nel 2019, per vederla funzionare mi toccherà fare un secondo mandato...». E a proposito della fondamentale opera di bonifica del terreno sottolinea: «Una novità tutta lombarda, è il coinvolgimento del privato nella realizzazione di un’opera pubblica. I privati entrano in queste cose se c’è un ritorno dell’investimento, non per beneficenza. Noi siamo riusciti, qui, a trovare un sistema che darà vita a un polo di eccellenza europeo nella sanità, coinvolgendo i privati, lasciando a loro il loro ritorno sull’investimento ma per fini pubblici. Questo è il modello speciale di Sesto che oggi inauguriamo».

Per la realizzazione di quest’opera, la Regione ha stanziato 330 dei 450 milioni di euro complessivi, necessari per il progetto. Altri 40 milioni sono in conto al ministero della Salute e 80 milioni anticipati dal concessionario privato dei terreni. E proprio sul significato simbolico di quella fetta di territorio di un milione e 400 mila metri quadrati si sofferma il sindaco di Sesto San Giovanni: «Questo è un luogo storico del lavoro e dell’innovazione — dice Monica Chittò a proposito dell’enorme ex acciaieria — l’area Falck è da sempre importante non soltanto per noi di Sesto, ma per tutta l’Italia. Qui gli operai hanno dato vita agli scioperi del 1943». Quindi dedica la giornata di festa a Giuseppe Granelli, partigiano e operaio simbolo della Falck, morto pochi giorni prima. E a mezzogiorno in punto suona ancora la sirena che sanciva la fine del turno di migliaia di lavoratori.

Soddisfatti i presidenti dell’Istituto dei tumori, Giuseppe De Leo, e del Besta, Alberto Guglielmo, che sottolineano come i livelli di eccellenza scientifica possano trovare ulteriore impulso dalla nuova e più funzionale sede comune. Come sarà? «La città che era diventata fabbrica tornerà a essere città», riassume con una suggestione Renzo Piano, che, con proiezioni di planimetrie e foto aeree, spiega i dettagli del progetto, prima al pubblico istituzionale e poi agli studenti del Politecnico: sottolinea che ci saranno 10 mila alberi, «perché qui il verde attecchisce che è una meraviglia», ci saranno pannelli solari, pozzi geotermici ed edifici a basso consumo energetico, residenze e attività terziarie che porteranno «la città nell’ospedale».

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Se c'è un possibile, ulteriore commento a una vicenda che questo sito eddyburg.it ha seguito (forse seguirà ancora) nei suoi più o meno virtuosi o surreali passaggi, è che per una volta pare che il pubblico trionfi sul privato. Almeno se confrontiamo lo sbocco provvisorio del progetto di Città della Salute con quello, del tutto complementare/concorrente promosso dalla cordata Umberto Veronesi Salvatore Ligresti ecc. per un Centro Europeo di Ricerche Biomediche Avanzate. Se non altro la Città della Salute pubblica col suo a volte patetico itinerare da una localizzazione all'altra, da una strategia all'altra, dall'ipotesi greenfield, a quella brownfield (fortunatamente scelta), all'opzione zero di una riorganizzazione solo aziendale e non urbanistica, si è svolta in modo relativamente trasparente. La scelta finale in pratica pare una specie di compromesso abbastanza leggibile fra le vere esigenze di rafforzamento della ricerca avanzata in un polo di livello europeo, e altre strategie sia di riequilibrio metropolitano, che di bonifica ambientale grazie alle risorse così messe in campo. Mentre dall'altra parte, il Cerba ha evidenziato e continua a evidenziare la pura strumentalità del polo scientifico sanitario a un'operazione immobiliarista, ambientalmente discutibile, e senza alcuna sinergia con altri aspetti. Aspettando le successive evoluzioni di entrambi i progetti, naturalmente (f.b.)

Usare nostalgia e tradizione per promuovere obiettivi di innovazione? Pare questa, la prospettiva di ricucitura percettiva di un quartiere. Corriere della Sera Milano, 20 novembre 2013, postilla (f.b.)

Dieci itinerari per scoprire la vecchia Greco, borgo con una storia antica, che il rilevato ferroviario spezzò in due negli anni Venti, ma oggi ritrova la propria identità, grazie all’azione decisa dei cittadini. Le «Social walking» sono passeggiate serali che l’associazione 4 tunnel organizza ogni lunedì sera. La voce narrante, che svela tratti inediti di questo angolo di città, è quella di Gianni Banfi, lo «storico» di Greco. Ed è così che in una sera umida e piovosa, zigzagando da via Cavalcanti a via Venini, con il naso all’insù ad ammirare facciate di palazzi decorati in stile Art Noveau, Liberty e Decò, si arriva a piazza Morbegno, dove s’affaccia l’edificio del Terragni, esponente della corrente razionalista del Ventennio, che è meta ogni giorno di visita di turisti giapponesi.

Mentre sull’altro lato del Rilevato ferroviario, si organizza per giovedì sera un incontro per la riqualificazione della via Gluck, che sabato sarà anche oggetto di un maquillage mirato, di qua dal rilevato i residenti riscoprono il quartiere che contende a Gorla l’appellativo di Piccola Parigi. Il primo itinerario parte dal Museo della Shoah. Un altro conduce alla Casa del Glicine di via Tresseno, l’itinerario ‘arancio’ ci accompagna lungo el «vie del silenzio» di via Venini. «Un tempo si chiamava via Libertà - spiega Banfi -. Qui, da Ferrante Aporti a viale Monza c’era la Greco Urbana, del commercio e della residenza, di là la Greco ‘capoluogo’ agricola e poi sede di industrie piccole e grandi, fino alla Pirelli, con la sede del Comune, la chiesetta, la cinquecentesca cascina Conti. Greco era un comune rosso, socialista, che aveva assorbito una quantità di persone qui immigrate da tutta Italia. Il fascismo cambiò nome a tutte le strade».

I protagonisti insistono a sottolineare il valore culturale delle passeggiate: «Vogliamo ripopolare le nostre strade, abitarle, ma prima di tutto occorre conoscerle - spiega Irma Surico, di 4tunnel-. Vogliamo anche vedere ciò che non va, parlarci, e questo è un modo per collaborare a migliorare la qualità della vita». Bella la piccola Greco, che al tempo dei Savoia si chiamava Segnano. Tante le ipotesi a che si debba quel nome, Greco. «Forse alla direzione del vento (il grecale) che spira a Nord-Est dove il borgo nacque. Novant’anni dopo essere stato declassato a quartiere di periferia, oggi Greco ritrova la sua identità.

postillaQualche settimana fa, a Milano si discuteva dei motivi non strettamente culturali e psicologici dell'incidente con tre morti di via Famagosta, in un quartiere tagliato a metà da un'arteria automobilistica di grande scorrimento che di fatto trasformava in due universi incomunicanti i due lati della strada. Anche giustamente, molti commentatori preferivano invece privilegiare proprio questi aspetti soggettivi e psicologici: il problema non era tanto l'impatto urbano dell'infrastruttura, ma il modo di percepirla e usarla, individuale e collettivo. Per molti versi si può dire che l'Associazione 4 Tunnel, coerentemente al proprio nome (sono i passaggi sotto il rilevato ferroviario, unici trait-d'union fra i due lati del quartiere Greco) stia tentando di aggredire il problema su entrambi i fronti. Usando la nostalgia del bel tempo che fu per recuperare un'idea unitaria di quartiere, brutalmente tagliato dalla mannaia ferroviaria della Stazione Centrale. Usando invece idee assai moderne di recupero degli spazi dismessi, per ricucire fisicamente il tessuto urbano. Un processo certamente da seguire, sperando che questa azione su due fronti sia consapevolmente perseguita, ovvero che l'obiettivo non si limiti a discutibili patchwork di idee di salvaguardia locale come quella, giustamente un po' contestata, della via Gluck di celentaniana memoria (f.b.) QUI il sito dell'Associazione, per capirne di più

Considerazioni di un addetto ai lavori sull'imminente riforma degli enti locali, orientate a un moderato ottimismo. Corriere della Sera Milano, 17 novembre 2013, postilla (f.b.)

A 23 anni dalla loro istituzione per legge e a 12 dal loro inserimento nella Costituzione, sembra che adesso le Città metropolitane stiano davvero per nascere cogliendo, salvo pochi addetti ai lavori, un po’ tutti di sorpresa. Carlo Tognoli, intervenendo nei giorni scorsi su questo tema, ha affermato che «se non c’è condivisione e rapidità nelle decisioni … tutto rischia di rimanere com’è adesso».
Come mai, dopo anni di attese e rinvii, oggi è possibile, oltre che urgente, procedere in questa fondamentale opera di riforma istituzionale? Perché con il decreto legge sulla spending review del governo Monti, quello che abolisce le Province, la questione di cosa mettere al loro posto è tornata di stringente attualità. Con una novità, però, che spiega perché sia forse questo il momento buono. Mentre in precedenza le città metropolitane erano calate dall’alto ed erano praticamente fatte «con lo stampino», ossia tutte uguali fra di loro, ora debbono nascere dal basso e possono essere fatte «su misura» dai diretti interessati. Quindi si può procedere. È evidente che si tratta di una sfida importantissima per la politica locale. Dal 1 gennaio 2014 il Sindaco di Milano subentrerà infatti al Presidente della Provincia e verrà chiamato a presiedere la Conferenza dei sindaci cui spetta di scrivere lo Statuto della Città metropolitana, ossia di dire «che cosa» sia, quali obiettivi si proponga e «come» dovrà funzionare per raggiungerli. Un compito da padri costituenti.

A cosa deve servire, infatti, la città metropolitana? Innanzi tutto a «reinventarsi» il ruolo dei Comuni nell’era della contrazione della spesa pubblica, a rinnovare il rapporto tra cittadini e istituzioni, a fornire servizi più efficienti a costi più contenuti , ad estendere ed intensificare quella qualità urbana che è uno dei fattori fondamentali per lo sviluppo dell’economia contemporanea ed infine, ma non per ultimo evidentemente, a ritrovare l’anima profonda della città. Milano non è una megalopoli né vuole diventarlo adesso, trasformandosi in una specie di super Comune. Essa è piuttosto il «cuore» e anche il «cervello» di un arcipelago funzionalmente integrato e densamente popolato, punteggiato di città e comuni che ne costituiscono, per così dire, le «isole». «Isole» dotate di ampia autonomia e di radicati e profondi sentimenti di appartenenza locale. Solo tenendo conto di questi sentimenti Milano può costruire qualcosa di solido e duraturo.

Come diceva Carlo Cattaneo, le città si sono storicamente evolute seguendo due vie: la via etrusca, «federativa e molteplice», «vivaio di città generatrici di città», e la via romana, tendente ad ingigantire un’unica città «che il suo stesso incremento doveva snaturare». Accingendosi ad imboccare una nuova strada, Milano farebbe bene a ricordarsi di questo suo illustre cittadino.

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Anche al netto dalla vaga sensazione che queste considerazioni come spesso accade siano rivolte più che altro a qualche “suocera” che deve intendere, più che a noi “nuore” lettrici, conforta in qualche modo notare come il puro approccio contabile alla riforma degli enti locali e istituzione delle Città Metropolitane non occupi tutto lo spettro del dibattito politico, ma serva prevalentemente come strumento di azione e consenso. Per quali fini possiamo solo supporre, come implicitamente provavano a ipotizzare in vario modo anche gli interventi alla Scuola Estiva di Eddyburg di quest'anno, dedicata all'argomento (f.b.)

Ritorna sotto non troppo mentite spoglie, il progettone di Ligresti/Veronesi, fiore avvelenato all'occhiello del centrodestra ereditato dal centrosinistra. La Repubblica Milano, 13 novembre 2013, postilla (f.b.)

La dead line è il 31 dicembre. Una data entro la quale «Visconti srl presenterà sicuramente al Comune il progetto per l’area Cerba», ha assicurato Manfredi Catella, amministratore delegato di Hines Italia, la società che si è assunta l’onere di sviluppare l’opera. E di far diventare realtà il “Centro europeo di ricerca biomedica avanzata” nel Parco Sud tanto sognato da Umberto Veronesi. Si riaccendono i riflettori sul Cerba: dopo il braccio di ferro a giugno tra Palazzo Marino e i curatori fallimentari dei terreni di Ligresti — chiesero di costruire un centro commerciale, il Comune disse no — ieri il numero uno di Hines ha annunciato che il piano per il polo scientifico è in via di definizione e che sarà presentato entro l’anno. Con alcune modifiche: il progetto, prima unitario, «ora è stato suddiviso per lotti, che coincideranno con i singoli istituti », ha spiegato Catella. L’obiettivo sarebbe quello di suddividere l’opera in “porzioni”, in modo da dilazionare i 92 milioni di euro di oneri di urbanizzazione che devono essere versati a Palazzo Marino per permettere alle ruspe di mettersi al lavoro.

L’Accordo di programma per la realizzazione del Cerba nei terreni di Ligresti accanto allo Ieo è stato firmato nel 2007. La strada - un’opera da 1,3 miliardi di euro, con 300mila metri quadri di edificazione e altrettanti di parco - è stata però sin da subito accidentata, soprattutto a causa del crac nel 2012 di Imco e Sinergia, le due immobiliari proprietarie dei terreni. Il 7 ottobre Visconti srl (società costituita ad hoc dalle banche creditrici di Ligresti, con Unicredit capofila) ha presentato al Tribunale il concordato per Imco: la proposta venerdì scorso ha incassato l’ok del comitato dei creditori, e adesso attende l’approvazione del giudice. Il concordato prevede che i terreni di Imco (tra cui quelli del Cerba) confluiscano in un fondo che sarà gestito da Hines Italia, a cui è stato affidato il compito di sviluppare il progetto.

Di qui, le modifiche che si vorrebbe apportare al progetto prima di far partire i lavori: oltre alla dilazione sugli oneri, l’ipotesi sarebbe quella di realizzare attorno al polo non un parco attrezzato (come previsto cinque anni fa) bensì agricolo, per risparmiare sulla manutenzione. L’ideazione dell’ipotesi è stata affidata allo studio Gregotti, che starebbe anche valutando i cambiamenti da fare al progetto immobiliare (firmato dallo studio Boeri) qualora la realizzazione per lotti ricevesse l’ok. Già, perché tutte le modifiche al piano originale oltre a dipendere dall’approvazione del concordato, devono incassare l’ok di Comune, Regione e Provincia, che nel 2007 hanno firmato l’Accordo di programma. Ed è proprio su questo che, ancora una volta, il Cerba rischia di arenarsi: il 5 novembre Visconti srl ha inviato a una lettera alle istituzioni per illustrare il concordato e chiedere il «sollecito riavvio delle procedure di revisione dell’Accordo». Dal Comune però arriva cautela: «Non abbiamo ricevuto ancora nessuna proposta e, per questo, non credo sia corretto commentare queste ipotesi di modifica se non negli ambiti competenti — dice l’assessore all’Urbanistica Ada Lucia De Cesaris — . In ogni caso, se queste indiscrezioni fossero confermate, ricordiamo che alcune tra queste proposte erano già state bocciate a giugno »

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Pare tristemente indicativo che in una delle città dove più pervicacemente si è perseguita la famigerata logica dei diritti edificatori, creati ad hoc e poi traslocati qui e là a seconda delle esigenze e vantaggi di chi conta, a nessuno sia mai venuto in mente che anche un progettone come il Cerba (sempre che si confermi la legittimità del piano) potrebbe virtuosamente seguire il percorso originario di questa pratica. Ovvero, come ci ha spiegato su questo sito Cristina Gibelli, di uso proprio e corretto dello strumento, a tutela di superfici del tutto inadatte alla trasformazione urbana, trasferendo i volumi altrove. E la greenbelt del Parco Sud è esattamente uno di questi posti inadatti, indipendentemente dallo sponsor scientifico, dai costruttori coinvolti, dallo studio di progettazione incaricato (f.b.)

L'archistar – intervistato da Teresa Monestiroli - sviluppa a modo suo il tema della densità, da molti anche coerentemente accoppiato a quello della sostenibilità: lui fa il suo mestiere, e noi? La Repubblica Milano, 6 novembre 2013, postilla (f.b.)

«Se Milano vuole crescere in maniera intelligente, deve farlo sviluppandosi su se stessa, in altezza. Le grandi città hanno solo due strade per crescere: espandersi in orizzontale o salire in verticale. La seconda è l’unica sostenibile ». Cesar Pelli, architetto argentino trapiantato negli Stati Uniti che a Milano firma per Hines il masterplan di Porta Nuova e la torre di Unicredit, apre oggi il ciclo di incontri “MI/arch” organizzato dal Politecnico in occasione dei suoi 150 anni. La sua lezione (in Triennale alle 18) partirà dal progetto di Porta Nuova per estendere la riflessione su Milano, città che l’architetto ultraottantenne famoso per le torri costruite in tutto il mondo (tra cui le Petronas Tower in Malaysia) ama in particolare, «perché sembra molto vivibile. Firenze e Venezia sono sicuramente più interessanti da visitare per un turista, ma se dovessi vivere in Italia non avrei dubbi: sceglierei Milano, unica città del XXI secolo».

Si riferisce ai grandi progetti di trasformazione urbana degli ultimi anni?«Da quando frequento Milano per il progetto di Porta Nuova ho visto la città cambiare in meglio, soprattutto le aree intorno a Garibaldi. Questo è un sintomo di grande vitalità».

Eppure gli interventi urbanistici più importanti, da Porta Nuova a Citylife, hanno sollevato diverse polemiche, generando un acceso dibattito sull’opportunità di costruire grattacieli a Milano.«Essere contrari ai grattacieli significa essere contrari alla crescita. Perché una città che si sviluppa in orizzontale è una città che mangia il territorio circostanze, che ruba aree verdi alla collettività, che costruisce nuove infrastrutture, che aumenta le auto in circolazione. La crescita in verticale è più sostenibile: l’ascensore è il mezzo di trasporto più ecologico che esista».

Anche la sua Unicredit Tower, simbolo della nuova Milano, ha diviso la città. Nonostante sia diventata in fretta parte del tessuto urbano, alcuni critici l’hanno definita “un esempio di manierismo tardomodernistico”.«La sua forma è funzionale alla piazza sottostante. Ho sempre pensato che fosse più importante la parte pubblica di quella privata. In questo caso sono tre edifici che salgono insieme, in maniera circolare, per creare uno spazio pubblico al centro, pensati per delinearlo e in un certo senso difenderlo. Ho aggiunto la spirale per rendere l’edificio un riferimento visibile da ogni punto della città. Quello che amo di più di questa torre è che segna il territorio».

D’altronde è il grattacielo più alto di Milano.«Non è un grattacielo, almeno non secondo la mia accezione, che ammetto non essere condivisa da molti. Un grattacielo è un edificio molto specifico. Prima di tutto deve essere molto più alto degli edifici che lo circondano, poi ha bisogno di avere una linea verticale molto definita, una sorta di retta immaginaria che collega la terra al cielo, che mi piace chiamare “axis mundi”. Il Chrysler di New York è un esempio molto chiaro di questo modello, così come le Petronas Tower. Un vero grattacielo non sarebbe stato appropriato per Porta Nuova».

Perché?«Quello che abbiamo voluto creare non è un punto, ma un piano urbanistico che si connettesse con la città esistente. Avrei potuto concentrare tutte le volumetrie dei tre edifici in una torre sola, più alta, ma non sarebbe stato efficace per il tipo di progetto che stavamo realizzando. Quello che abbiamo creato è molto più fresco e innovativo di un grattacielo».

Fra qualche anno Milano avrà altre tre torri a Citylife firmate da Libeskind, Hadid e Isozaki. Ha visto i progetti? Che cosa ne pensa?«Sono scenografiche, icone dalle forme inusuali pensate soprattutto per finire sui giornali».

Che cosa manca a Milano per essere una grande città europea?«Soprattutto gli spazi all’aperto. Ci sono piazze bellissime usate solamente come luoghi di attraversamento dove nessuno si ferma. Eppure la velocità con cui Milano si è appropriata di piazza Gae Aulenti dimostra la voglia di avere spazi all’aperto da vivere».

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Non è affatto curioso che sia proprio uno di quelli troppo spesso accusati di essere i “colpevoli” di certo degrado urbano, ne denunci uno degli aspetti più vistosi: la carenza e scarsa qualità degli spazi pubblici. Piuttosto è l'accusa contro gli archistar a sbagliare bersaglio: manca un'idea di città forte e condivisa, e la si delega vuoi a questi abili evocatori di immaginario, vuoi ad altri evocatori di mitici passati, tradizioni, sempre sfumati nei toni della nostalgia. Entrambe, idee che poi trovano pochi riscontri nella realtà, da costruirsi invece giorno per giorno, anche ponendone le basi in strategie di lungo periodo. Per esempio, la Milano che tanto piace a Cesar Pelli, quella del quartiere su cui lui e il suo studio hanno avvitato alcuni edifici e spazi (non è vero che abbiano progettato un quartiere, quella è strategia di comunicazione), non si stacca molto dal modello novecentesco in cui il rapporto fra densità e spazio aperto è scandito esclusivamente dalle grandi arterie stradali, anche se nel caso specifico esse vengono molto costosamente scavalcate da verde e percorsi. Ma non è certo scopando la città autocentrica sotto questo mega-tappeto, che si risolve il problema. E neppure delegando qualunque responsabilità alla discrezione di progettisti e costruttori: non è il loro mestiere (f.b.)

Aree ex pubbliche e plusvalore fondiario per la città dei cittadini o per la città della rendita (privata). Ladecisione è aperta, ed è affidata alla politica: quella buona o quella cattiva?Corriere della sera, ed. Milano. 30 ottobre 2013

Entro Natale accordo sugli scali ferroviari dismessi, oppurequel milione e 200 mila metri quadri di terreno tornerà ad avere il valore di«zero euro», come detta il Pgt. La trattativa tra Comune, Regione e Ferroviedello Stato è a una svolta. Rimane solo un nodo da sciogliere - cioè doveinvestire i 50 milioni di plusvalenze (la prima tranche), derivanti dallavalorizzazione e vendita delle aree che l'accordo di programma rende per dueterzi edificabili -, e una data, il 31 dicembre come termine ultimo che ilComune s'è dato per chiudere la partita.

A otto anni dall'avvio dell'accordo di programma, interrottonel 2010 con l'amministrazione Moratti, in sede di controdeduzioni al Pgt, eripreso in mano dall'assessora all'Urbanistica Ada Lucia De Cesaris, prendecorpo un piano che potrebbe veramente cambiare il destino di sette grandi areecittadine - Farini, Greco, Lambrate, Porta Romana, Rogoredo, Porta Genova, SanCristoforo -, ricucire quartieri divisi, cancellare zone di degrado eabbandono.
Nel pacchetto non c'è solo un capitolo che parla di bonificadei suoli e riqualificazione ambientale, c'è anche un'offerta abitativa dihousing sociale con affitti calmierati che Cassa Depositi e Prestiti - scesa incampo da qualche mese — si propone di realizzare: 2.600 alloggi in una(Lambrate), massimo tre localizzazioni. C'è un oceano verde grande mezzomilione di metri quadrati: una sorta di Central Park spalmato in città. E c'èanche un parco lineare di 100 mila metri quadrati a San Cristoforo, tale dacollegare la zona Navigli con il comune di Corsico. Ci sarà, certamente,cemento nelle due più grandi aree dismesse, gli scali Farini e Porta Romana. Mail cosiddetto «carico urbanistico», la superficie edificabile, crolla del 33per cento rispetto alla versione dell'accordo ante Pgt.
Ieri la bozza di accordo di programma, limata da oltre unanno di trattative a tre, è stata illustrata dalla vicesindaco alla CommissioneUrbanistica, dando il via ad un acceso dibattito. Contrario il grillino MattiaCalise che ha ricordato «le promesse elettorali del centrosinistra» e l'esitodei referendum cittadini («Daremo battaglia per ogni singolo scalo e metro diterra tolto al verde»). Determinato il presidente di Commissione, RobertoBiscardini: «Dobbiamo vincolare i soldi che FS incasseranno come plusvalenzedalla vendita delle aree, perché siano riversati su Milano, per lo sviluppodelle infrastrutture, dei trasporti. Non mi fido di FS, penso debbano averemaggiore attenzione alla città e all'interesse pubblico».
Dalle plusvalenze potrebbe nascere un secondo Passanteferroviario, ma anche nuove stazioni in città. Non è escluso che la Regionechieda treni nuovi per i suoi pendolari. Ma neppure che FS pensi di investire,invece, in alta velocità. Un solo nodo da sciogliere ma decisivo, dunque.
Se non si dovesse chiudere l'accordo? «Faremo altreriflessioni», chiarisce sorridendo la vicesindaco. Il valore delle immense areedegli scali dismessi però, potrebbe precipitare, come da Pgt.E pensare che l'accordo, nel 2010, era saltato, perché in FS«contavano di avere un 33 per cento in più di metri quadrati edificabili».Chissà che il vecchio adagio «Chi troppo vuole nulla stringe» sia allora fonted'ispirazione. «Non siamo disponibili a cedere di un millimetro — conclude DeCesaris —. Siamo convinti che il patrimonio di FS appartenga a tutti icittadini, anche se per una scellerata legge dello Stato è consideratopatrimonio privato».

Infiniti colpi di coda dell'urbanistica privatizzata inaugurata dall'attuale ministro Lupi tanti anni fa, i quartieri del Documento di Inquadramento sono una truffa e un disastro. La Repubblica Milano, 7 ottobre 2013

È diventato un pezzo di città fantasma, il quartiere Adriano. I problemi riguardano in particolare le aree di proprietà di un operatore privato, che non ha mai risposto agli ultimatum del Comune. Adesso, per risolvere una situazione di «pericolo sanitario e di sicurezza sociale», Palazzo Marino passa alle maniere forti. Per la prima volta, userà i poteri sostitutivi per bonificare i terreni e realizzare il parco promesso. E ha avviato un procedimento di “requisizione”, che andrà condiviso con la prefettura, per entrare in possesso dei terreni, ripulirli e terminare le opere.

Dopo quasi due anni di ultimatum, il Comune passa alle maniere forti per riportare alla «normalità» il quartiere Adriano. Lì, su quella distesa di terra ai confini con Sesto San Giovanni dove un tempo sorgevano gli impianti della Magneti Marelli, i residenti sono rimasti intrappolati tra l’isolamento, l’insicurezza e il degrado. Un’eredità pesante, quella che si è trovata a gestire la giunta Pisapia. In particolare sulle aree di proprietà del gruppo immobiliare Pasini, che sono diventate un pezzo di città fantasma. «Superati i problemi di Santa Giulia è questa l’emergenza », dice la vicesindaco con delega all’Urbanistica, Ada Lucia De Cesaris.

La società che avrebbe dovuto realizzare case e servizi non ha mai riposto agli appelli di Palazzo Marino e per la zona, ormai, l’abbandono si è trasformato in una situazione di «grave pericolo igienico e sanitario e di sicurezza sociale ». Per questo, dopo aver cercato di tamponare con interventi per forza di cose parziali, l’amministrazione ha deciso di passare all’azione. Con due gesti estremi, che compierà per la prima volta. Il Comune utilizzerà i poteri che ha a disposizione per sostituirsi all’operatore e, così, bonificare direttamente i terreni e realizzare il parco promesso. E, soprattutto, ha già fatto partire quello che tecnicamente si chiama “procedimento di requisizione” e che, adesso, dovrà essere condiviso con la prefettura. In pratica, vuole entrare in possesso dell’area Pasini per terminare le opere di urbanizzazione, ripulire, mettere in sicurezza. E, successivamente, magari, trovare un altro operatore per completare ciò che mancherà all’appello.

Vogliono tornare alla vita, gli abitanti del quartiere Adriano. Tra raccolte di firme e un presidio che un gruppo di residenti farà oggi di fronte a Palazzo Marino. Il Comune ha già convocato un’assemblea pubblica per il 18 ed è lì che Ada Lucia De Cesaris spiegherà alle famiglie i piani dell’amministrazione. «Sicuramente — dice la vicesindaco — si tratta di una situazione di grave difficoltà. Purtroppo abbiamo ereditato i problemi creati da piani scellerati approvati in passato senza pensare alla loro sostenibilità. Stiamo lavorando da tempo e abbiamo già fatto moltissimo, ma continueremo a fare tutto ciò che sarà necessario perché questa zona torni alla normalità e il quartiere abbia finalmente i servizi di cui ha bisogno».

È una storia infinita, quella del quartiere Adriano. Iniziata nel 2005 con due diversi piani urbanistici: “Adriano Marelli” e “Adriano-Cascina San Giuseppe”. Sul primo disegno è calata la crisi, ma il Comune sostiene di essere riuscito a fare passi in avanti: «Entro la fine del mese, sull’area Gefim — spiega De Cesaris — sarà completato il parco, sono partiti i lavori per la materna e il nido, sono state risolte le criticità per il progetto della nuova Esselunga ed è stato definito quello per la piscina. A questo aggiungiamo altri interventi fatti sulla viabilità e i mezzi pubblici». Manca ancora la scuola media, ma Palazzo Marino sta discutendo con la Regione per realizzarla al posto di case che Aler avrebbe dovuto fare per il mercato “libero”. È sull’altra porzione, che le risposte non sono arrivate. Qualcosa ha fatto la giunta in emergenza: qualche spezzone di strada asfaltato, vie finora anonime hanno avuto un nome, qualche pulizia del verde.

Ma non basta. Rimangono i ruderi di cantieri lasciati a metà, una cascina che è già stata occupata; gli abitanti devono camminare lungo percorsi sterrati e non illuminati, zone non presidiate sono diventate discariche. È per questo che si è passati a quelle due misure straordinarie. «Ci prenderemo la responsabilità di far partire le bonifiche entro l’anno e realizzare il parco entro la fine del 2014», annuncia la vicesindaco. Toccherà a Palazzo Marino andare fino in fondo. Così come per quella procedura di “requisizione” che dovrà curare la grande incompiuta urbanistica.

Nota: impossibile riassumere in una postilla le riflessioni che suscita questa ennesima dimostrazione di fallimento (almeno per i cittadini) della stagione urbanistica liberista-ciellina-tangentizia, ho provato a sviluppare qualche breve ragionamento sul sito Millennio Urbano a cui collaboro da qualche tempo; sul sito eddyburg, già dalla pubblicazione del documento Ricostruire la Grande Milano, che dava sanzione ufficiale alla stagione della deregulation, si sono succedute critiche puntuali e sistematiche sul metodo e il merito delle specifiche scelte. A partire da questo ampio commento di Edoardo Salzano (f.b.)

Una questione per nulla patetica e di guerra fra poveri, nell'uso dello spazio urbano, solleva problemi generali e attuali. La Repubblica Milano, 2 settembre 2013, postilla (f.b.)

Da una parte, i novanta anziani di Quarto Oggiaro che coltivano gli orti in via Lessona. Dall’altra, gli anziani di Novate in attesa che lì sia costruito un ospizio. La contesa per quei 1.800 metri quadrati di terreno si trascina da decenni. Ora Novate, proprietaria dell’area dal 1992, ha mandato ai milanesi lo sfratto: entro il 30 settembre dovranno lasciare gli orti per fare posto al cantiere della casa di riposo. Ma gli “ortisti” non ci stanno.

Alcuni degli anziani che entro fine mese dovranno sloggiare hanno più di 90 anni. A differenza della grande maggioranza degli orti milanesi — che nascono come abusivi, occupati nel primo Dopoguerra da famiglie pugliesi — in via Lessona la presenza agricola è nata in modo regolare. A partire dagli anni Sessanta, e fino al 1992, la grande maggioranza dei coltivatori ha pagato un affitto all’ente del Comune di Milano che ai tempi era proprietario dell’area. In quell’anno Palazzo Marino cedette ai vicini di Novate la proprietà del terreno, nonostante si trovi dal lato milanese dell’autostrada. «Dal 1992 al 2006 il Comune di Novate nemmeno si è preoccupato di registrare al catasto la proprietà del terreno — racconta Lorenzo Croce, presidente dell’associazione ambientalista Aidaa — quando ha deciso di entrarne in possesso, dopo 14 anni dalla cessione, si è messo a fare la guerra agli ortisti, definendoli abusivi. Tutto questo è assurdo esbagliato».

Ora Novate rivuole il suo terreno. Nonostante ancora non siano stati fatti i necessari carotaggi, i tecnici comunali hanno il forte sospetto che il sottosuolo richiederà una pesante bonifica prima dell’apertura del cantiere: sotto gli orti, infatti, si trova una vecchia cava, con ogni probabilità riempita di macerie dopo la seconda guerra mondiale. Scavando le fondamenta, sarà necessario bonificare. E bonifica significa due cose: costi elevati e tempi lunghi. «È evidente che il cantiere per edificare la casa di riposo non partirà a breve — dice Croce — per questo, non ha senso cacciare gli anziani prima del dovuto. Si lascino in pace, e intanto si trovi una soluzione alternativa». Essendo gli anziani ortisti quasi tutti milanesi, il Comune di Milano ha offerto loro appezzamenti alternativi, ma senza dare garanzie sulle dimensioni e soprattutto sulla collocazione, con il rischio che si possano trovare a chilometri di distanza. Gli ortisti, fra cui ci sono diversi vecchi partigiani della val d’Ossola, si dicono pronti a «resistere fino all’ultimo».

postilla
Emergono almeno tre questioni, che si possono riassumere anche se certo non esaurire in tre punti: 1) la destinazione d'uso a orti urbani non può più essere lasciata al caso per caso, ma rientrare in una strategia urbanistico-ambientale-sociale di lungo periodo; non sta né in cielo né in terra che un elemento base costitutivo del quartiere come il verde collettivo, tanto più essenziale quanto più autogestito e non gravante sulle casse comunali, sia alla mercé di decisioni discrezionali e private; 2) non sta neppure né in cielo né in terra che le strategie sullo spazio pubblico di quartiere (o più in generale quelle sullo spazio urbano inteso come rete) si sviluppino al chiuso di segrete e competenti stanze, rovesciando poi sulla cittadinanza le proprie deliberazioni, e aprendosi al massimo ex post al confronto, specie in un ambito così essenziale come le infrastrutture verdi, in cui gli orti si inseriscono: quell'area è coerente o meno rispetto alla logica di rete continua? Infine 3) il “cattivo” della favola altro non è che il Comune di Novate, ovvero non un'entità extraterrestre, ma la circoscrizione amministrativa i cui confini stanno un paio di isolati più a ovest dei quegli orti; probabilmente di cose del genere dovrebbe anche tenerne conto, la nostra politica, nel delineare le competenze della Città Metropolitana, che notoriamente si estende anche oltre le sale consiliari, e arriva ad esempio proprio a lambire gli orti, le case di riposo, e gli anziani che sono costretti a farsi inutilmente guerra (f.b.)

Alla vigilia dei probabili accordi fra Comune e Difesa, una riflessione alta sul ruolo di un patrimonio pubblico, che a uso pubblico dovrebbe sostanzialmente servire, in tutte le città. La Repubblica Milano, 19 agosto 2013 (f.b.)

Le caserme abbandonate non sono come le aree industriali dismesse. Sono spazi pubblici destinati alla servitù militare che ora tornano nella disponibilità dei cittadini. Non è una differenza da poco. Prima di tutto perché il loro futuro può essere deciso con una libertà molto maggiore, non essendoci in gioco interessi privati e quindi, giocoforza, la necessità di mediarli con l’interesse pubblico. In secondo luogo perché, a differenza che per le vecchie fabbriche, le vecchie caserme sono un territorio vergine, tutto da esplorare per la comunità civica. Chi ha avuto la fortuna di partecipare, nell’inverno 2011, all’anteprima di Piano city alla caserma di via Mascheroni sa a cosa si allude: un momento magico, una piccola città nella città dove il tempo si è fermato, spazi immensi e carichi di suggestione, infiniti sotterranei con gli archivi di generazioni di reclute.

Un ambiente nascosto alla città per decenni che ritrova una vita nuova attraverso la musica, che per una sera diventa padrona di un campo una volta occupato da ordini, divise, armi, sofferenze. Leggendo i nomi sconosciuti di questi luoghi risalta ancora di più questa distanza: Milano ha tollerato la presenza di infrastrutture militari sul suo territorio ma, a differenza di altre città — si pensi a Torino o a La Spezia — non ne è mai rimasta condizionata o prigioniera. Sara stato per via delle cannonate di Bava Beccaris al popolo affamato, o semplicemente perché questa è la città del 25 aprile partigiano.

Ma non c’è dubbio che Milano non sia mai stata prona alle divise o incline alla retorica militare. Anche per questo l’occasione di ripensare questi luoghi, di immaginarne altri usi e destinazioni è straordinariamente importante. Per la giunta Pisapia può rappresentare una grande scommessa anche nella modalità di approccio alla loro ridestinazione. Quale occasione migliore di sperimentare la via di una progettazione condivisa e partecipata? Per esempio immaginando una raccolta pubblica di idee e proposte per la grande area verde della Piazza d’armi ex Santa Barbara. O recuperando progetti di grande impatto, come l’idea dell’orto planetario lanciata, e poi abbandonata per Expo 2015, magari coinvolgendo il forum delle culture e delle comunità straniere.

E ancora: visto che il complesso militare delle vie Monti, Mascheroni e Pagano dovrebbe diventare la nuova sede dell’Accademia di Brera, perché non testare la possibilità di destinare parte di quegli enormi spazi a un villaggio per giovani artisti? A una specie di grande atelier che richiami talenti e intelligenze creative da tutto il mondo? O destinare una di queste strutture, naturalmente trasformata, a quel grande museo del «saper fare» l’automobile di cui Milano è stata capitale con l’Alfa, la Bianchi, l’Innocenti, l’Iso Rivolta, le carrozzerie Touring, Zagato, Castagna?

La possibilità di programmare un nuovo destino per edifici, complessi e spazi di centinaia di migliaia di metri quadri in aree centrali di Milano, senza vincoli dettati da interessi immobiliari (o principalmente dettati da questi) rappresenta un’opportunità probabilmente unica. Certo, è giusto immaginare che parte di queste risorse sia destinata all’edilizia popolare. Ma sarebbe un grave errore limitarsi a questo e non cogliere la grande occasione di indicare insieme ai cittadini un percorso verso una città più creativa, più aperta, più libera. Più desiderabile.

Non è solo una novità commerciale o tecnologica, l'arrivo del mercato nel settore dell'auto urbana condivisa, vuol davvero dire potenzialmente molto per la città. La Repubblica Milano, 4 agosto 2013, postilla (f.b.)

Si apre la concorrenza per il car sharing. Il Comune ha esaminato e accolto il piano con cui i tedeschi di Car2go sbarcheranno in città con una flotta di Smart per usi brevi e parcheggi in libertà sulle strisce blu. Autorizzazione accordata. E così il debutto delle nuove auto in affitto è previsto probabilmente già giovedì prossimo, al più tardi dopo Ferragosto. Le macchine sono già pronte.

I tedeschi di Car2go (gruppo Daimler-Mercedes) sono stati i primi (e anche gli unici, per ora) a rispondere all’avviso pubblico con cui Palazzo Marino da un mese sta aprendo il mercato dell’auto in affitto anche ad operatori privati, portando così un po’ di concorrenza in casa Atm che finora ha avuto il monopolio del servizio con 135 vetture e circa 5.400 abbonati a GuidaMi. I tedeschi già presenti in 12 città europee, l’ultima Vienna, e nove tra Canada e Stati Uniti, hanno presentato la manifestazione di interesse che il Comune, venerdì, ha accolto. Quindi, solo il tempo dei passaggi burocratici e si parte.

Se si riuscirà già da giovedì prossimo: è su questa data che l’azienda sta ragionando. E solo se il completamento dell’iter burocratico rallenterà i tempi, si lascerà passare la metà del mese per il debutto. Le miniauto benzina Euro 5 sono già parcheggiate nei depositi della Mercedes in città. Immatricolate, targate e pronte. Saranno disponibili su strada e non nelle aree sosta. Si inizierà con 150, per la prima fase del debutto, ma a regime si salirà a 450, alcune già attrezzate per i disabili. Iscriversi costerà 19 euro (online ma anche in alcuni concessionari Mercedes in città), mentre la tariffa di noleggio al minuto sarà di 29 centesimi, inclusa di assicurazione, sosta, Iva e ticket di Area C. Si prenoterà soprattutto via cellulare. L’applicazione sarà operativa sugli smartphone: visualizzerà l’auto disponibile più vicina.

Tra le novità, il fatto che l’auto non dovrà essere riconsegnata nel punto esatto dove la si preleverà — il principale limite contestato dagli utenti a Guida-Mi — ma dove si desidera sulle strisce blu. One way, dicono gli addetti ai lavori: l’operatore paga difatti un forfait al Comune per garantire questa chance all’utente, circa 1.100 euro all’anno per ciascuna Smart. Per queste auto sarà vietato invece il passaggio sulle corsie preferenziali, concesso invece ad Atm. Dalle stime comunali sono circa 15mila i potenziali utilizzatori di car sharing a Milano. Ma Car2go punta in realtà più in alto, almeno al doppio. L’intenzione è di raggiungere i 30mila utenti all’anno registrati a Vienna in pochi mesi. Per il debutto, i tedeschi assicurano una squadra di tutor già istruiti, attivi in giro per la città a dirigere il servizio e dotati di palmari. Per il primissimo periodo sperimentale, potrebbero anche regalare minuti di traffico gratuito ai milanesi per far conoscere il loro servizio.

Si vedrà nei prossimi mesi se, come emerso anche durante il convegno per operatori fatto dal Comune nei mesi scorsi, ci saranno altri operatori interessati a contendersi il mercato milanese. Come i tedeschi di DriveNow, gli americani di Zip Car già sbarcati in Europa e pure i francesi di Autolib’, anche se questi ultimi meno nell’immediato perché si tratta di un servizio solo elettrico e, prima, servirebbero milioni di interventi infrastrutturali per le ricariche delle auto.

postilla
Il primo segnale di rottura è una cosuccia che l'articolo soltanto accenna: il servizio è gentilmente offerto dal signor Mercedes. Non per dire di griffe prestigiosa, ma per sottolineare il passaggio da fabbrica a erogatore di servizi integrati, che finalmente sbarca a anche tangibile da noi: demotorizzazione non significa fatalmente famiglie piangenti perché il papà è stato lasciato a casa dalla catena di montaggio. Mal che vada, lui ha riciclato la sua professionalità nella rete di manutenzione diffusa sul territori, o la mamma sta nell'amministrazione dei servizi informativi locali. Insomma il paese a scimmiottare il peggio di Detroit è solo un incubo, almeno per chi lega comparto auto e sistema della proprietà privata. Poi ci sono gli aspetti urbani e di mercato, con l'innovazione del poter lasciare la macchinina nei parcheggi: vuol dire rivolgersi a una clientela vera, a un'utenza metropolitana concreta e vasta, non al mondo circoscritto e rigido degli spostamenti pendolari regolari (con ritiro e consegna nel medesimo punto). In definitiva, si scarica potenzialmente una grossa pressione sulle arterie cittadine: meno mezzi privati circolanti, meno auto ferme in un parcheggio a far nulla per 23 ore su 24, più possibilità di aree a circolazione mista regolamentata pedonale ciclabile e di veicoli a motore a bassa velocità, ovvero più spinta (e di mercato, non del decisionismo astratto pubblico in fondo poco amato da tutti) per le politiche del Piano per la Mobilità Urbana Sostenibile. Che si attua notoriamente sommando e coordinando progetti, anche privatissimi come questo (f.b.)

Mentre nella confusione più totale e con un dibattito al ribasso sta nascendo la nuova entità amministrativa sovracomunale, Arcipelagomilano riprende un chiarissimo testo dello scomparso maestro di discipline territoriali, con riferimento al caso dell'area metropolitana padana (f.b.)

1) Lo dico per onor di firma, anche se so che non si potranno cambiare le cose: il termine di città-metropolitana è l’ennesimo fuorviante ossimoro prodotto dal burocratese. La forma metropolitana è un tipo d’insediamento nuovo e diverso da quello urbano o cittadino.
Come Norman Gras ha scritto una volta, “la grande città, la città eccezionale … si è sviluppata lentamente verso la metropoli economica” (Gras, 1922, p. 181), ma la metropoli economica è appunto un nuovo spazio fisico, non facilmente determinabile e senza particolari segni ai confini: nella città si entra, mentre nella metropoli si arriva. E spesso non riusciamo bene a cogliere la caratteristica della nuova forma urbana. Nel migliore dei casi, quando se ne parla, la s’immagina come un’area del tutto autonoma dalla città, commettendo un grave errore, sottolineato con forza da Deyan Sudjic che critica vivacemente questa immagine errata. “Immaginate – scrive Sudjic – il campo di forza attorno a un cavo dell’alta tensione, scoppiettante di energia e lì lì per scaricare un lampo a 20.000 volts in uno qualsiasi dei punti della sua lunghezza, e avrete un’idea della natura della città contemporanea”. (Sudjic, 1993: p.334). Il richiamo di Sudjic all’energia elettrica offre un felice accostamento per un raccordo con il tema delle nuove tecnologie.

Infatti, di pari passo con la diffusione della motorizzazione privata, lo sviluppo delle tecnologie dell’informazione ha dato una spinta decisiva alla formazione della nuova città. Da un lato cambiando l’organizzazione del lavoro che si deistituzionalizza e distribuisce nello spazio, secondo un modello, ormai largamente noto, che va sotto il nome di economia post-fordista. Dall’altro per i cambiamenti indotti dalle “macchine per l’abitare”: in parte si è trattato di un processo simile a ciò che è avvenuto in fabbrica, con l’avvento di macchine “time and labour saving“, cioè strumenti che servono a far risparmiare lavoro e tempo, soprattutto alle donne.

Ora però questo tempo viene impiegato da beni “time consuming“, tutte quelle macchine che servono a consumare il tempo liberato e di cui noi ci riempiamo progressivamente la casa. Primo tra tutte il più grande mangiatore di tempo che è la televisione, ma anche l’alta fedeltà, le macchine fotografiche e il calcolatore e così via. Le abitazioni diventano più comode, ma contemporaneamente richiedono più spazio e a parità di reddito lo spazio maggiore si trova più lontano dai centri tradizionali. Così una nuova città, indistinta, confusa, temuta e poco conosciuta, cresce attorno al nucleo tradizionale delle città industriali, s’intrufola negli interstizi lasciati liberi dalla deindustrializzazione, li penetra (Zwischenstadt, la “città nel mezzo”, che io chiamo la “città-oltre”) e li modifica, esattamente come circa mille anni orsono la città medievale è sorta attorno ai castelli feudali in disuso, li ha inglobati e vi si è sostituita dando vita alle città che rappresentano il modello urbano europeo originale, che oggi deve fronteggiare la nuova città diffusa, disordinata e disarmonica ma “scoppiettante di energia”.

Va da sé che questo scoppiettio è costoso, tra l’altro, proprio in termini di consumo energetico. E, ancora una volta, la nuova struttura sociale non è irrilevante per la morfologia fisica: se si guarda l’area di Milano si può vedere che l’area metropolitana non è affatto una “più grande Milano”, ma una nuova struttura urbana in forte interazione funzionale con la tradizionale città comunale.

2) Pertanto dire “città metropolitana” è analiticamente sbagliato e indica il fatto che chi ha elaborato questo termine non era al corrente della vasta letteratura che a partire dagli anni ’20 del secolo scorso. Il “mentecatto burocrate”, come lo chiama De Finetti, uccide l’elaborazione teorica, anche quella internazionalmente consolidata.

Possiamo naturalmente liberarci del problema con una scrollatina di spalle: al fondo si tratta solo di parole, basta intendersi. Ma le parole hanno un peso che va di là dalle nostre intenzioni, e nell’ArcipelagoMilano di settimana scorsa sollevavo proprio il problema dell’uso smodato delle parole con argomentazioni che non sto a riprender qui, ma che sono molto calzanti per questo tema. In particolare si dovrebbe stare particolarmente attenti per una procedura che anno dopo anno ha accumulato una quasi inaudita mole d’insuccessi (costosi). Alla radice degli insuccessi sta la profonda e colpevole ignoranza dimostrata dalla cultura pubblica italiana in un periodo cruciale delle trasformazioni insediative nel nostro paese.

Negli anni in cui la trasformazione metropolitana si mangiava il territorio di mezzo paese e le città venivano dissolte nelle “terre sconfinate” del periurbano, la cultura pubblica di questo paese si baloccava con l’idea balzana di un ritorno alla campagna. Mentre le grandi trasformazioni urbane investivano la società italiana con diverse successive ondate, nel grande ciclo di espansione capitalistica del secondo dopoguerra, fino alla crisi globale del primo decennio del XXI secolo – i cicli intermedi hanno introdotto pause e distorsioni, ma l’espansione urbana non si è mai arrestata – la cultura pubblica del paese ha interpretato le trasformazioni in corso usando vecchi modelli di origine tardo-romantica sostanzialmente riferibili alla coppia toennesiana di Gemeinschaft (comunità) vs Gesellschaft (società), elaborata per i fenomeni di trasformazione sociale e territoriale di un secolo prima.

3) Considerazioni anche più negative si dovrebbero fare per il termine “provincia metropolitana”.
Nel testo Dimensione metropolitana che ho curato per il CSS, Ettore Rotelli fa un illuminante racconto dei fallimenti della legislazione, ordinaria e costituzionale, sulle aree metropolitane, in un percorso abbastanza lungo che può essere a posteriori datato al Convegno di Limbiate del 1957. Il risultato di ulteriori inani agitazioni è che il fenomeno urbano più nuovo viene incasellato in uno schema amministrativo tanto vecchio da essere anche in via di eliminazione: non sapendo più che pesci pigliare facciamo coincidere la metropoli con la provincia. Mi è stato obiettato che le province possono essere rivedute; ma l’area metropolitana di Milano, che in tutte le elaborazioni dalla metà degli anni ’50 in poi (Kingsley Davis) ricomprende zone come il verbano – cusio – ossola e il novarese, secondo il criterio della provincia-metropoli continuano a far parte di una diversa regione. Che cale al “burocrate istituzionale” il fatto che persino per il dialetto queste aree siano entro la koiné milanese? Le regioni non si toccano e mai la provincia metropolitana ne potrà inglobare, delle porzioni, anche se il loro tubi di scappamento scaricano ogni giorno a Milano.

4) Oggi poi, dopo mezzo secolo d’insuccessi è inevitabile che persino l’oggetto che si vuole pianificare si sia ulteriormente modificato.
Parlare oggi di “area metropolitana” (città o provincia metropolitana) rimanda a un concetto, quello delle DUS (Daily Urban Systems) o FUR (Functional Urban Regions) che viene anch’esso messo in discussione dell’evoluzione, soprattutto dei sistemi di regolazione dei flussi. Non sono le città che fanno le reti, sono le reti che fanno le città, mentre i grandi insediamenti commerciali, che una volta erano alle periferie delle città oggi diventano poli di nuovi insediamenti urbani. L’aspetto più rilevante della realtà urbana contemporanea riguarda i cambiamenti nella morfologia fisica e sociale delle città intervenuti nel corso del XX secolo. Risulta ormai evidente che, in ogni parte del mondo, la città tradizionale e la “metropoli di prima generazione” (i), che hanno caratterizzato la vita urbana nella porzione centrale del secolo scorso, hanno ceduto il passo a un tipo del tutto diverso di morfologia urbana, che sta producendo una serie di quelle che i rapporti ufficiali delle Nazioni Unite chiamano Grandi Regioni Urbane (MUR. Mega Urban Regions) in cui forme diverse d’insediamenti umani si mescolano inestricabilmente, fino a costituire un’entità urbana nuova, ma non ancora ben definita, di cui sono state date numerose definizioni o etichettature che non sto a riprendere per non confondere inutilmente il discorso.

Per ragioni analitiche che accenno qui sotto, ho suggerito di chiamare questa nuova entità la meta-città(ii). Nel triplice senso che questa entità è andata al di là (meta) – e persino ben al di là – della classica morfologia fisica della “metropoli di prima generazione” che ha dominato il XX secolo con il suo core e suoi rings (polo e fasce concentriche); al di là (meta) del controllo amministrativo tradizionale di enti locali sul territorio e al di là (meta) del tradizionale riferimento sociologico agli abitanti, con lo sviluppo delle “metropoli di seconda (e terza) generazione” sempre più dipendenti dalle popolazioni transeunti. (Vedi il mio “Lo que el viento se llevò. Espacios publicos en la metropolis de tercera generaciòn” in Monica Degen, Marisol Garcia (eds) La metaciudad: Barcelona, Transformaciòn de una metròpolis, Anthropos, Editorial, Barcelona 2008; pp. 29-44).

Questo mutamento ha dato luogo a notevoli fraintendimenti, non solo da parte della pubblicistica popolare, sempre pronta a impadronirsi anche del minimo sospetto di un’apocalisse, ma anche della letteratura scientifica che dagli anni ottanta del XX secolo in poi non ha perso occasione per decretare la fine della città (iii). A parte la stridente contraddizione d’ipotesi sulla fine della città nel periodo di massima urbanizzazione della storia dell’umanità, è chiaro che la città non è finita, ma si è trasformata in una nuova forma urbana che oggi sempre più passa dal modello definito dalle varie Central Place Theories del XX secolo a modelli tendenzialmente lineari di Zwischenstadt. Il fenomeno può essere rappresentato con molti esempi ma è particolarmente evidente nel corridoio emiliano dove fino al 1999 si poteva ancora parlare di un arcipelago di aree metropolitane distinte, ma già nel 2001 si era trasformato in corridoio continuo, come è avvenuto in molte altre situazioni, rendendo ancora più problematico il lego della costruzione di una unità governabile (non di governo) partendo dai tasselli delle istituzioni esistenti. Che dire per esempio di un’area metropolitana milanese senza Monza, oppure di Firenze senza Prato? Si rafforza sempre più il dubbio che le componenti elementari del Lego istituzionale non siano più quelle giuste.

5) E ancora, dopo mezzo secolo di insuccessi, è perfettamente legittimo il sospetto che si stiano pestando nel mortaio degli oggetti sbagliati, per esempio pietre invece che mandorle, o aria fritta invece di concetti rigorosi, e che forse occorra ripensare radicalmente questo concetto.
In particolare io mi sono convinto di due fatti, che mi sembra difficile contestare, e che se accertati hanno conseguenze rilevanti sul piano operativo. Intendiamoci bene, io non sono un planner né un esperto di questioni istituzionali e amministrative, non faccio parte di alcuna commissione incaricata di disegnare questa o quell’area metropolitana. Da tempo però mi occupo del fenomeno metropolitano partendo dallo studio del nuovo fenomeno insediativo, della comprensione delle dinamiche sociali (lato sensu) che lo caratterizzano e delle sue tendenze evolutive. Avendo decisamente affermato ormai più di un quarto di secolo addietro che l’identificazione di una “area naturale” (spiegherò più sotto come si debba intendersi questo antico termine) come il nuovo insediamento con un bacino elettorale non avrebbe portato a nulla, penso oggi che le ragioni teoriche su cui si basava questa esatta previsione ne escono rafforzate e possono aver la pretesa di suggerire qualche riflessione a chi invece il compito di disegnare un modello di governo per le nuove forme insediative ce l’ha.

a) La non coincidenza tra definizione di area e la identificazione di un bacino elettorale.
Fin dalle prime vicende PIM (Piano Intercomunale Milanese) questo è stato l’ostacolo insuperabile, e comunque insuperato, per la identificazione di un’area metropolitana. E non deve sorprendere, ogni definizione di un confine, un limite, è al tempo stesso inclusiva ed esclusiva: (Giano) il dio bifronte dei confini è probabilmente la più antica divinità romana, laziale e italica ed è per questo che Ianuarius, Gennaio, è il primo mese dopo il solstizio invernale in un numero elevatissimo di lingue. Si può fare diversamente? Cioè si può scegliere di scindere la definizione di una area di governo (diciamo di competenza amministrativa e istituzionale) dalla individuazione fisica della nuova forma insediativa? Naturalmente sì, è stata la scelta americana, ha funzionato passabilmente bene per più di mezzo secolo e non si vede perché non si debba fare altrettanto.

L’area metropolitana è un’area funzionale, cioè riflette una realtà dinamica, con conseguenze reali, soprattutto in campo ambientale in senso lato, ma ovviamente con tutti i risvolti di finanza pubblica che vi sono connessi. Ma soprattutto un’”area naturale”, non nel senso che può esser definita in base a tratti fisici (mari, laghi, fiumi, rilievi, che pure hanno il loro peso), ma nel senso che si tratta di aree che non necessariamente coincidono con definizioni amministrative, rispetto alle quali hanno minore fissità, anche se tra area amministrativa e area naturale non esiste una contrapposizione assoluta, perché i confini amministrativi producono essi stessi effetti “naturali” ovvero economici, insediativi e sociali di tipo spontaneo.

La dominanza metropolitana, come molti ali fenomeni insediativi è relativamente indipendente dalle gabbie amministrative che disegnano il territorio istituzionale. Il fine da raggiungere non è un più rigido ingabbiamento, ma la possibilità di determinare aree di governo, a ragion veduta delle caratteristiche economiche, funzionali e sociologiche, e delle dinamiche relative. Ciò non è possibile se l’area metropolitana coincide con un bacino elettorale reale o presunto, come il PIM che il Ministro Togni non volle perché avrebbe chiaramente incluso un elettorato a maggioranza di sinistra. Se invece noi avessimo a disposizione uno strumento conoscitivo puntuale, aggiornabile via via senza interferire sui bacini elettorali, poi potremmo molto più liberamente e puntualmente definire delle aree elettorali e di governo con le appropriate (o anche no) negoziazioni ma senza che ci siano ragioni di distorsione delle aree funzionali.

b) La non identificazione della nuova forma con un modello “central place”
Questo aspetto è molto più complesso da risolvere e per questo merita che ci si lavori sopra sia intellettualmente che operativamente: si tratta infatti di una operazione strategica e cruciale, si sbaglia se si continua a ragionare su modelli obsoleti di aggregazione a partire dal comune centrale, anche se il nuovo modello presenta ovvie difficoltà di operazionalizzazione. Detto brutalmente chi governa l’area metropolitana non può essere il Sindaco metropolitano (così come dobbiamo smetterla di blaterare sul Sindaco d’Italia. Il sindaco è un ruolo tipicamente municipale, non regge una scala diversa, come dimostra con assoluta evidenza la lunga storia di sindaci eccellenti falliti alla loro prova in ruoli nazionali): l’autorità metropolitana (iiii) non può sostituire i sindaci ma deve affiancarsi a essi, per questo l’area metropolitana non può essere una “città più grande” non lo è e non può diventarlo, ma deve avere un ruolo complementare e non aggiuntivo o sostitutivo.

Per dare un esempio concreto, se invece di giocare con il Lego dei comuni, delle provincie ed eventualmente delle regioni, destinato a produrre conflitti veti, che finora sono stati paralizzanti, si puntasse a individuare per ogni area metropolitana un’area di governo delle accessibilità, e quindi non solo trasporti e flussi fisici nello spazio, ma anche funzioni coordinate nel tempo (e nei tempi) si sarebbero risolti i due terzi o i quattro quinti del problema della definizione dell’area, senza toccare ambiti elettorali che possono essere collocati dentro il quadro delle accessibilità. Non è facile, ma anche il modello tradizionale di area metropolitana ha richiesto una lunga gestazione teorica prima da dare i suoi frutti, non possiamo pensare di arrivare a una identificazione della nuova forma insediativa al di là della metropoli con strumenti approssimativi, ma neppure possiamo illuderci di risolvere i problemi dell’oggi con le strutture concettuali dell’ieri. In cui, perdipiù, non hanno funzionato.

(i) Per questa terminologia vedi il mio Metropoli, Il Mulino, Bologna 1993, Cap.III, passim.
(ii) Uso il termine con un significato analitico diverso da quello che gli viene dato da F. Ascher cui devo tuttavia riconoscere una primogenitura del termine che mi era sfuggita. Ringrazio Jean Paul Hubert del DRAST per la segnalazione. Una buona approssimazione del concetto che userò qui è il termine di Zwischenstadt la città tra le città (vedi Thomas Sieverts, Cities Without Cities. An Interpretation of the Zwischenstadt, Routledge, London, 2003 (Vieweg, 1997). La commissione europea ha ricostruito questa città tra le città calcolando le aree del pianeta che si trovano in prossimità di centri urbani.
(iii) Per una rassegna delle teorie della de-urbanizzazione vedi il mio già citato Metropoli (1993), Cap.II. Più di recente il tema è stato ripreso anche da un autore solitamente bene informato ed equilibrato come Leonardo Benevolo, La fine della città, Laterza, Roma 2011.
(iiii) Sulla continuità urbana e la discontinuità metropolitana vedi il mio recente “Città. La vendetta del territorio e la modernità sottratta. L’urbanizzazione e l’unità d’Italia” in Il Politico, Numero speciale su “L’Italia che cambia, 1861-2011“, curato da Silvio Beretta e Carla Ge Rondi, 2011, a. LXXXVI, n.3 pp.129-164.

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