La premessa perché lo spazio aperto urbano possa configurarsi (non solo su una teorica mappa) come una rete e una infrastruttura, è la conoscenza. La Repubblica Milano, 17 ottobre 2015, postilla (f.b.)
Dare suggerimenti pratici. Ma anche fare rete e agevolare la vita di chi vuole il suo pezzo di terra da coltivare ma non sa bene se può farlo e come farlo. Nasce in Comune l’ufficio Orti, con esperti del settore Verde pronti a rispondere al milanese che vuole dedicarsi alla zappa urbana. Il responsabile della nuova iniziativa è un funzionario dal pollice molto verde che si chiama, nomen omen, BortoloFurloni.
I contadini urbani sono un fenomeno in forte crescita in città. In particolare in questo momento c’è una forte domanda da parte di privati che vogliono trasformare parte del proprio terreno agricolo, appunto, in un fazzoletto da zappare e irrigare. Il punto è che la maggior parte di questi terreni si trova nel Parco agricolo Sud, dal Forlanini al parco delle Risaie e serve comunque un via libera da parte dell’ente parco per poter avviare la pratica. L’ufficio ad hoc creato dal Comune nasce anche per agevolare i cittadini in questa pratica. «Noi facciamo da facilitatori con gli aspiranti contadini — spiega Furloni — e puntiamo anche a far emergere tutti gli appezzamenti coltivati che sono sommersi». In città sono 2.500 gli orti che Palazzo Marino ha mappato. E sono di vario genere.
Ci sono le coltivazioni delle zone assegnate in base al reddito, che crescono ogni anno e per i quali l’amministrazione sta pensando a nuovi criteri per aprire di più ai giovani e ai disoccupati. Ci sono poi quelli nelle scuole, con i nonni di quartiere che se ne prendono cura d’estate: l’anno scorso nella sola zona 5 ne sono nati 20 grazie all’idea del signor Menasce, un pensionato anche consigliere di Zona che ha messo insieme tutor di istituti di agraria, sponsor privati come Brico e Danone, Fondazione Cariplo e il Comune per creare un modello che funziona. Sono in crescita anche gli orti condivisi, strumento di coesione sociale ma anche di lavoro, come nel caso dell’Orto comunitario Niguarda, dove lavora da tre mesi un ragazzo del Mali da poco arrivato in Italia. Ci sono poi gli orti nelle cascine, come a Cascina Sant’Ambrogio, ravvivato dai ragazzi dell’associazione Cascinet con mercatini e feste. E poi ci sono gli orti spontanei, dove cittadini coltivano da anni pezzi di terra abbandonati che l’amministrazione ora punta a far emergere. E l’ufficio (oggi solo telefonico 02/88454127 ma presto con un sito e una mail) servirà anche a questo.
Essendo l’orto riconosciuto nel Piano di governo del territorio come un servizio stanno per essere approvati i criteri con i quali un privato può convenzionare i propri orti con l’amministrazione, prevedendone una quota a tariffe sociali. L’assessore al Verde, Chiara Bisconti: «Così riconosciamo la forte domanda di ritorno alla coltivazione della terra che sentiamo nella nostra città, soprattutto da chi prova piacere a ritrovare rapporto diretto con la terra e il cibo che consuma, anche alla luce della Food Policy appena promossa dal Comune. L’ufficio promuoverà azioni dirette per nuovi orti, ma sarà anche a disposizione per risolvere i problemi. Coltivare un orto — aggiunge — serve a riscoprire la città e i concittadini».
postilla
Forse non si coglie sul serio la potenzialità di questa anagrafe degli orti, se non si torna un istante sull'idea di rete urbana degli spazi aperti, coltivati o non coltivati che siano, e del ruolo che può svolgere in quelle per ora benintenzionate ma abbastanza fumose strategie di sostenibilità e riduzione degli impatti. Hanno un peso non trascurabile, e se si quanto pesano, quantitativamente e qualitativamente, queste superfici sull'insieme della produzione alimentare locale a chilometro zero? La rete che formano è solo virtuale, di rapporti potenziali fra soggetti, oppure si configura chiaramente un sistema fisico tangibile, il cui ruolo può diventare complementarmente chiave in un futuro di maggiore sfruttamento a scopi infrastrutturali degli spazi aperti? Sono solo due delle tantissime domande a cui questo tutto sommato piccolo progetto può rispondere, se riuscirà a decollare dall'attuale fase di «telefono amico del pensionato coltivatore», a quella urbano sociale di infrastruttura verde propriamente detta (f.b.)
Dopo alcune generazioni sembra vedere la luce almeno l'inizio di una riqualificazione urbana fondamentale per gli effetti su tutta l'area metropolitana e i suoi assetti futuri. La Repubblica Milano, 23 settembre 2015
La giunta di Palazzo Marino dà il via libera all’accordo con Regione e Ferrovie dello Stato per la riqualificazione degli scali dismessi. Una città nella città che si estende complessivamente per un milione e 250mila metri quadrati. Sono sette le aree (da Lambrate a Porta Genova, da Farini a Romana) destinate a cambiare volto. «Questo - dice l’assessore all’Urbanistica Alessandro Balducci - è uno dei più grandi progetti di rigenerazione urbana presentati a Milano e in Italia da molti anni», che permetterà di ricucire parti della città «senza il consumo di suolo». Della superficie a disposizione, 525mila metri quadrati saranno destinati a verde, con 10 chilometri di piste ciclabili e pedonali. Si potrà costruire fino a un massimo di 674mila metri quadrati (meno del milione previsto nel precedente Piano di governo del territorio) e le nuove strutture includeranno 2.600 appartamenti di edilizia residenziale sociale. E poi negozi, case di lusso, attività produttive e servizi. In base all’intesa, 50 milioni di euro serviranno per fare interventi ferroviari, migliorare la rete e il collegamento con la zona metropolitana. Nelle zona di Lambrate, Rogoredo e Greco-Breda la funzione principale sarà soprattutto quella di edilizia sociale, mentre a Porta Genova, in considerazione della posizione, la priorità è data a funzioni legate a moda e design. A San Cristoforo un parco attrezzato.
Sono una città nella città che si estende per un milione e 250mila metri quadrati. Le ultime grande aree da ridisegnare insieme alle caserme. Sette scali ferroviari dismessi o che lo diventeranno presto, che abbracciano tutta Milano e sono destinati a trasformarsi in altrettanti nuovi quartieri con case, negozi, uffici, parchi. Perché è questo quello che prevede l’accordo di programma a tre (oltre al proprietario delle aree, Ferrovie dello Stato, l’altro protagonista è la Regione) che la giunta di Palazzo Marino ha approvato. Un primo via libera a quello che l’assessore all’Urbanistica Alessandro Balducci definisce «uno dei più grandi progetti di rigenerazione urbana presentati a Milano e in Italia da molti anni», che verrà realizzato «senza consumare suolo, attraverso il riuso e la riqualificazione di parti importanti del territorio con verde, servizi ed edilizia sociale». È così che riparte l’operazione scali. Dopo un primo tentativo fatto nel 2007 dalla giunta Moratti. E un nuovo percorso avviato dall’amministrazione Pisapia.
Adesso, dopo quasi quattro anni di lavoro seguiti dalla ex vicesindaco Ada Lucia De Cesaris, si arriva a un accordo. Prossimo passaggio: l’approvazione di Palazzo Lombardia. Poi inizierà la fase dei progetti che prevederanno anche concorsi. Una partita gigantesca che permetterà, secondo il Comune, di ricucire pezzi di città tagliati dai binari e di avere diversi benefici. Oltre ai cosiddetti oneri di urbanizzazione che verranno incassati da Palazzo Marino (le stime parlano di 130 milioni), 50 milioni saranno investiti da Fs per migliorare il sistema ferroviario e il collegamento metropolitano. Una cifra a cui si aggiungerà il 50 per cento delle pluslavenze delle dismissioni, 60 milioni per interventi di riqualificazione della zona attorno a Farini e 20 per Porta Romana. Su quel milione e 200mila metri quadrati si potrà costruire fino a un massimo di 674mila metri quadrati (il precedente Pgt ne prevedeva un milione); di questi 156mila saranno destinati a edilizia sociale con 2.600 alloggi a basso costo. E poi 590mila metri quadrati di spazi pubblici, di cui 525mila di verde e dieci chilometri di piste ciclabili e pedonali.
Al posto dei binari un mix di verde, case di lusso e low cost
Da sola, vale quasi la metà di tutte le aree che dovranno cambiare volto: oltre 500mila metri quadrati di binari abbandonati diventati sempre più strategici perché si snodano lì, all’ombra dei grattacieli di Porta Nuova. Ed è questo il futuro che potrebbe essere immaginato per lo Scalo Farini: un quartiere da far crescere anche puntando al cielo per garantire quel parco che si dovrà estendere per almeno la metà della superficie. Un altro skyline. E poi case di lusso, uffici, vetrine. Perché se un progetto preciso ancora non c’è e saranno il mercato e gli investitori a delineare il destino di questa zona, le linee guida dettate dal Pgt ci sono. E sono altrettanto precise. È lì che si potrà realizzare il mix di funzioni urbanistiche più completo tra tutte quelle possibili. Quello che accadrà anche per un altro pezzo di città sempre più centrale come lo Scalo Romana. Un’altra area in attesa di un futuro composito, con altre residenze, altri uffici, altri negozi. Che anche la vicinanza con l’arte della Fondazione Prada, però, potrebbe influenzare.
Sono tutti diversi, gli scali da riprogettare. E ognuno, ancora prima che gli architetti comincino a tradurre in disegni ed edifici i piani, ha una propria vocazione. C’è chi ha già scritto nella sua storia e nella parte di città che occupa il proprio destino. Come San Cristoforo che, con l’arrivo della metropolitana 4 sarà sempre più collegato: diventerà un parco attrezzato, ancora più unito ai Navigli. In questa parte non si costruirà. Per zone come Lambrate, Rogoredo e Greco-Breda, invece, la maggior parte delle nuove strutture saranno case di edilizia sociale e solo una percentuale minima si trasformerà in negozi e servizi per i nuovi quartieri. Un altro viaggio, si cambia scenario. Perché per Porta Genova è il ponte che oggi divide la stazione dalla Zona Tortona a fare la differenza: impossibile non prevedere un prolungamento naturale di quel polo della creatività e spazi - tra le poche case possibili - per la moda e il design. Con un effetto traino ulteriore. Perché tutti, dall’amministrazione agli esperti di Fs, concordano: l’apertura tra le mura abbandonate del Mercato metropolitano è riuscita a imprimere una spinta sulla strada già tracciata. Solo il nuovo acquirente dell’area, però, potrà decidere se locali e food truck potranno rimanere.
È un’operazione gigantesca, quella di trasformazione degli scali. Solo la parte immobiliare e quei 500mila metri quadrati di nuove costruzioni (al netto delle case low cost) secondo alcuni operatori del settore potrebbe valere 500 milioni di euro: quasi mille euro a metro quadrato. Non solo. Qualsiasi forma prenderanno Farini e Romana, nei quartieri dovranno essere progettate opere di “cucitura” con il resto della città e di riqualificazione dell’aspetto paesaggistico. Con un sogno che è stato accarezzato in passato e chis-sà se mai diventerà realtà: utilizzare parte dei binari tra Romana e San Cristoforo per fare una strada verde in stile High Line di New York. Un’oasi da riempire di vita e attività culturali, magari.
Comune e Regione, però, hanno individuato con Ferrovie anche le priorità per il trasporto ferroviario di tutta l’area metropolitana. I treni che non passeranno più da Porta Genova, ad esempio, prevedono alcuni passaggi già previsti dal progetto di raddoppio della linea Milano- Mortara e nuove fermate (i fondi sono extra rispetto ai 50 milioni dell’accordo) a Tibaldi e Romana. Anche la stazione di San Cristoforo sarà riqualificata e unita alla linea 4 del metrò. Qui si immaginano sottopassi e percorsi di accesso ai quartieri a Sud del Naviglio. Perché alcune stazioni, appunto, non saranno totalmente dismesse. Continueranno a funzionare in forma ridotta, liberando gli spazi. Accadrà anche a Greco, ad esempio. Altre tappe, invece, verranno create per altrettanti nuovi pezzi di Milano. Un esempio? Nascerà una fermata tra Certosa e Rho-Fiera per servire gli abitanti di Cascina Merlata e soprattutto i futuri frequentatori dell’area di Expo una volta che i padiglioni verranno abbattuti.
“Il futuro di Farini una seconda Porta Nuova” (intervista al dirigente Ferrovie)
Dice che per ripensare quelle aree, che rappresentano anche i pezzi più «pregiati del loro portafoglio», si sono mossi da tempo. E l’interesse del mercato, soprattutto per zone come Scalo Farini e Porta Romana c’è. Con un valore aggiunto: Milano. «Soprattutto in questo momento operazioni simili su Milano vengono guardate con un’attenzione sempre maggiore sia in Italia sia all’estero», spiega Carlo De Vito, l’amministratore delegato di Fs Sistemi Urbani, la società di Ferrovie che si occupa della valorizzazione del patrimonio immobiliare del gruppo.
Lei segue da anni questa partita. Quali sono i tempi di un’operazione del genere?
«All’inizio del 2016 l’accordo sarà effettivo e potremo partire con i primi masterplan per le aree più importanti come Farini, Romana e Genova. È un percorso che proseguirà in parallelo con la ricerca dei partner e dei futuri sviluppatori immobiliari. Tutto il prossimo anno sarà dedicato ai piani di intervento urbanistico e alla scelta di chi dovrà realizzarli. In ogni caso parliamo di un processo che guarda a un’orizzonte che supera i prossimi dieci anni».
Che cosa accadrà a questi pezzi di città?«Pensiamo a modelli diversi a seconda delle aree. Per quelle più piccole cercheremo di venderle direttamente, per quelle più grandi potrebbero essere create nuove società di sviluppo o i terreni con i relativi diritti edificatori potrebbero essere affidati a un fondo. Adesso dovranno essere i nostri Cda a decidere. Per la parte di housing sociale, invece, e in particolare per Rogoredo, Lambrate e Greco, utilizzeremo un accordo con Cassa depositi e prestiti che può garantirci finanziamenti e condizioni particolari».
Chi potrebbe prendere in mano e gestire la nascita di un nuovo quartiere così vasto come Farini?
«Abbiamo presentato in anticipo le operazioni al mercato e posso assicurarle che l’interesse di investitori italiani e internazionali è consistente e non solo di facciata. Parliamo di realtà europee, ma anche americane, orientali e australiane».
A differenza di altri scali, lì il futuro non è stato ancora disegnato: che cosa potrebbe diventare?«Sarà l’operazione più completa, quella con le maggiori costruzioni. Abbiamo preferito non prevedere niente di preciso per parlarne con i futuri operatori e per seguire le ultime tendenze del mercato. È una zona importante, collegata sia a Porta Nuova e alla stazione Garibaldi sia alla parte residenziale di via Valtellina. Potremmo prevedere un vero mix, che comprenda abitazioni, uffici, servizi e verde. Se ci saranno grattacieli? Sicuramente si può pensare a uno sviluppo verticale come ideale continuazione di piazza Gae Aulenti».
Quali sono le priorità che seguirete come gruppo Fs?«Trasformare queste aree con l’impegno che abbiamo assunto, abbastanza gravoso, di potenziare il sistema ferroviario della città. E sfruttare bene questi asset per tradurli in risorse finanziarie importanti per il gruppo».
Piccolo caso da manuale di tutela della greenbelt: l'organismo (unico sul mercato sinora) sovracomunale fa il suo mestiere, ma senza poter proporre nulla. La Repubblica Milano, 10 settembre 2015, postilla (f.b.)
Lo stop è definitivo. E perché l’operazione possa ripartire, sarà necessario che venga presentato un nuovo progetto, in sostituzione di quello firmato dall’archistar Mario Botta, pensato per occupare 132mila metri quadrati oggi destinati alle coltivazioni. Il Parco agricolo Sud dice no a Giorgio Squinzi, numero uno di Confindustria: l’imprenditore aveva progettato di spostare tra il verde del parco gli uffici e la sede principale della Mapei spa, la società specializzata nella produzione di materiali chimici per l’edilizia di cui è amministratore unico. A mettere il veto, con una delibera votata all’unanimità, è stato però ieri il Consiglio direttivo del Parco, espressione della Città metropolitana guidata da Giuliano Pisapia. Il Consiglio conta undici membri, di cui quattro della Città (tra cui il presidente Michela Palestra). E poi un componente per Palazzo Marino, uno per le associazioni ambientaliste e uno per gli agricoltori, e poi i sindaci di Opera, Cusago, Peschiera Borromeo e Pieve Emanuele.
Il progetto della Mapei risale a un anno fa, ed era stato approvato – due settimane prima della scadenza del mandato – dall’ex Provincia di Guido Podestà. Prevedeva la costruzione della nuova sede della società su tredici ettari dentro il parco, di cui una decina da edificare. Il no di ieri, che segue un primo orientamento espresso a luglio, impedisce la firma dell’accordo di programma, richiesto dal Comune di Mediglia nel cui territorio sarebbe ricaduta la nuova costruzione. Motivo, il fatto che «la proposta contrasta con tutti i livelli di pianificazione territoriale esistenti, e con la vocazione agricola e rurale del Parco Sud».
Non solo un no al cemento, quindi, ma soprattutto «alla realizzazione di un sito industriale all’interno di un’area agricola – spiega Michela Palestra, incaricata da Pisapia di presiedere il Consiglio direttivo, e sindaco di Arese – in aperto contrasto con la ragion d’essere del parco stesso, che è quella di tutelare l’agricoltura». A far valutare negativamente l’operazione, anche l’idea della Mapei di non assumere per il momento nuovi lavoratori, con ricadute positive in termini occupazionali sul territorio. Ma di limitarsi soltanto a usarli per riorganizzare le sue attuali risorse, nonostante la costruzione dei nuovi spazi. E adesso? «Il ruolo del Parco era quello di valutare la proposta così com’era – dice Palestra – . Se ci saranno delle riformulazioni al progetto, le valuteremo se ancora di nostra competenza». Tradotto: se ne potrà riparlare qualora il gruppo di Squinzi presenti un nuovo progetto. Con un impatto minore, se non nullo, sul Parco Sud.
postilla
Riassumendo: c'è un comune che pensando come spesso accade solo ai fatti propri gestisce (o meglio si fa gestire) la proposta di un grande operatore economico, davvero grande come il Mr. Vinavil Giorgio Squinzi al momento al vertice di Confindustria, con la griffe dell'archistar Mario Botta. Se guardiamo una mappa della zona, dal punto di vista comunale c'è una superficie del tutto residuale di fianco a un nucleo frazionale, di cui quell'intervento architettonicamente qualificato sarebbe una specie di logico completamento, tra margini oggi sfrangiati e una strada di collegamento intercomunale di una certa importanza. Ma se usciamo dalla microprospettiva municipale, vediamo che quella remota frazione lo è soltanto se osservata dalla sede del municipio titolare, visto che si infila a cuneo dentro altre circoscrizioni amministrative per nulla remote, tagliate da una quasi autostrada, e con un massiccio nastro a destinazione produttiva: perché non cercare di insediare il progetto di Mario Botta, con le adeguate modifiche, dentro quel consolidato (e attrezzato) contesto? Facile: perché all'impresa interessava anche speculare sui valori dei terreni, e aveva trovato un sindaco disponibile. Meno facile, è immaginare quale ruolo potrebbe avere una Città Metropolitana meno sospesa nel nulla, ad esempio con poteri urbanistici e di trattativa diversi da quelli di un ente parco, che non può andare molto oltre il si o il no. Per adesso accontentiamoci della tutela, ma proviamo a non dimenticare che esiste anche una cosa detta sviluppo, che andrebbe promosso e governato, alla dimensione adeguata come si ripete da parecchi lustri (f.b.)
Dal campo al piatto non è solo un fortunato slogan per forme agricole più urbane e sostenibili, ma anche un metodo diretto e sicuro per tutelare gli spazi aperti rendendo più consapevole la società locale. La Repubblica Milano, 12 agosto 2015, postilla (f.b.)
Tutto esaurito. È il riso a chilometro zero di Milano, prodotto nelle 65 cascine della città. E dallo scorso aprile in arrivo direttamente dai produttori agli scaffali della grande distribuzione, grazie a all’intesa siglata tra il consorzio Dam Distretto agricolo milanese) e il gruppo Esselunga. L’accordo, promosso da Palazzo Marino, è stato realizzato nell’ambito della valorizzazione del territorio rurale urbano (sono oltre 2.900 gli ettari di terra coltivata in città, dei quali circa 630 quelli coltivati a riso) e prevede che le tre varietà di riso milanese (Arborio, Carnaroli e Sant’Andrea: a questi prodotti si sono poi aggiunte anche le forniture di zucchine e fiori di zucca) arrivino direttamente dai campi delle aziende agricole milanesi ai supermercati di Milano, Monza Brianza e Pavia.
La prima fornitura di riso era di 500 quintali: inizialmente prevista per un intero anno, in quattro mesi è finita. «Il Comune - assicura l’assessore all’Urbanistica e agricoltura, Alessandro Balducci - continuerà a impegnarsi per la promozione dell’agricoltura milanese, che sempre più si dimostra un’occasione fondamentale di sviluppo e di tutela del territorio urbano ». «Si tratta di un progetto - aggiunge il presidente del Consorzio Dam, Andrea Falappi - nato per la promozione dell’agricoltura cittadina, all’insegna della filiera corta e dei consumi a chilometro zero, si sta rivelando anche un successo di mercato. E Milano si conferma una metropoli rurale a tutti gli effetti».
postilla
Ci sono due modi per leggere questo interessante processo di risensibilizzazione degli abitanti rispetto ai propri spazi agricoli: quello della «metropoli rurale» come la chiama pro domo sua il rappresentante dei coltivatori, e quello di un senso rinnovato dell'agricoltura urbana e del verde che diventa a tutti gli effetti infrastruttura portante della città. Preferiamo di gran lunga questa seconda prospettiva, che è tra l'altro il medesimo genere di sensibilizzazione che in Gran Bretagna viene operato almeno dai tempi delle prime leggi nazionali sulla greenbelt, col risultato di tutelarla efficacemente anche contro le più subdole politiche di urbanizzazione, come quelle che fanno leva sull'emergenza abitativa. Quando il rapporto di una società locale con il suo verde è così diretto che si porta in tavola ogni giorno, non c'è speculazione che tenga: la greenbelt è un accessorio di casa propria, intoccabile (f.b.)
Gli operatori privati iniziano con il dovuto anticipo a mettere in campo strategie territoriali di area vasta, mentre la politica metropolitana annaspa e i cittadini non ci capiscono nulla. Corriere della Sera Milano, 26 luglio 2015, postilla (f.b.)
La Sea presenta al sindaco Giuliano Pisapia un progetto che trasformerebbe l’Idroscalo in una sorta di Central Park milanese. Un rilancio in vista della ristrutturazione di Linate e, soprattutto dell’arrivo della linea 4 della metropolitana. Chi ha avuto modo di vederlo ne è rimasto colpito: il rendering, cioè la rappresentazione grafica del progetto di come potrà diventare l’Idroscalo si presenta davvero bene. Chi non ha dubbi è Pietro Modiano, presidente di Sea — la società aeroportuale milanese a cui fanno capo gli scali di Linate e Malpensa — che ha trovato modo di presentarlo al sindaco di Milano, Giuliano Pisapia.
postilla
In attesa di rientrare anche noi comuni mortali nel novero degli eletti, di « Chi ha avuto modo di vederlo – il progetto, e - ne è rimasto colpito», possiamo solo sottolineare l’assurdità, in parte sottolineata anche dall’articolo, di interessi particolari che si muovono alla coerente scala metropolitana, mentre sia le amministrazioni che i cittadini continuano, con varie motivazioni e colpe specifiche, a guardare coi paraocchi di confini municipali e non solo. Così si scopre che quanto già cantato da Jannacci cinquant’anni fa come zona periferica di Milano continua ad apparire lontana e misteriosa landa, che con un rendering (sic) qualcuno può tranquillamente trasformare in Central Park, termine che a Milano suona a dir poco sinistro se si ricorda che a usarlo fu il famigerato sindaco Albertini a proposito di un praticello spelacchiato e semiprivatizzato in mezzo all’orgia di metri cubi detta City Life. L’Idroscalo è invece un magnifico parco, che si inserisce in una fascia intermedia fra zone aeroportuali, altre zone compromesse da un confuso sviluppo suburbano (i tre grossi cul-de-sac residenziali all’americana contigui ma disposti su tre comuni diversi e gli office park Mondadori e IBM), e importanti superfici oggi agricole e a cave, il cui governo è indubbiamente strategico se si vuole evitare la saldatura autostradale e suburbana definitiva del nord metropolitano. E invece ci ritroviamo con un rendering, per giunta sconosciuto e visibile solo a qualche gruppo di privilegiati. Che diavolo sarà quel Central Park? Un Luna Park? L’ennesima trasformazione urbana con la scusa delle «strutture per il tempo libero attrezzate»? Vorremmo saperlo, ma a quanto pare le terze file della politica a cui è stato dato l’onere del «governo metropolitano» non possono o magari non vogliono dircelo (f.b.)
«Fondazione Fiera sceglie il progetto Arena Milan per il riuso del suo edificio al Portello: uno stadio che si candida sapendo già che non potrà avere le autorizzazioni di sicurezza ad insediarsi se non con deroghe "ad ipsum"»
La direttrice di nord-ovest dell'area milanese, alla cui estrema propaggine è sita l'area dove oggi è in corso l'edificazione delle attrezzature espositive di EXPO 2015, ha rappresentato lungamente un tema strategico irrisolto dell'assetto urbano e metropolitano milanese che ha provocato inconvenienti via via più gravi sia dal punto di vista viabilistico sia da quello di un corretto assetto insediativo e di immagine progettuale e, quindi, è stato nel tempo al centro di molte riflessioni e proposte da parte della miglior intelligenza urbanistica milanese (Corso Sempione nell’800, progetti di Nuova Fiera e Milano Verde negli anni ’30 e progetti di riassetto dell'area della vecchia Fiera negli anni ’40-50 del Novecento), che ha costantemente indicato l'opportunità di un decentramento delle funzioni direzionali troppo fittamente addensate nel reticolo storico originario. Riflessioni e proposte per lo più rimaste allo stato di progetti inattuati, data la persistente indisponibilità di Fiera di Milano ad essere ricollocata altrove, sino a metà degli anni '90, quando la permanenza di Fiera di Milano sull'area dell'ex Piazza d'Armi, dove si era insediata nel 1922, venne infine giudicata non ulteriormente tollerabile sia per i disagi viabilistici sempre più gravi tanto per i visitatori quanto per gli abitanti del quartiere circostante sia per la necessità di rinnovo e ampliamento delle proprie strutture edilizie e si maturò la decisione di realizzare un nuovo polo extraurbano verso nord-ovest al confine tra i Comuni di Rho, Pero e Milano, lasciando come pesante eredità il lungo edificio di viale Scarampo e l'abnorme edificazione in densità ed altezza di Citylife.
Le spinte delle aspettative immobiliaristiche delle proprietà fondiarie (soprattutto Fondazione Fiera, che dopo aver realizzato un enorme surplus immobiliare con Citylife e averlo reinvestito nelle aree di Arexpo, preme oggi per un altrettanto lucroso guadagno con la trasformazione a stadio calcistico privato della parte più a nord dell'edifico di viale Scarampo e con la vendita ai privati delle aree del dopo Expo 2015) devono invece essere governate ed indirizzate da uno schema insediativo che preveda la destinazione ad usi non edificatori (verde, tempo libero, ) delle aree poste lungo la direttrice tra il vecchio recinto in dismissione e le nuove polarità metropolitano-regionali, concentrando là le funzioni di ricerca, direzionalità innovativa e spettacoli sportivi e musicali di massa, che usufruirebbero degli adeguamenti infrastrutturali posti in atto per i nuovi insediamenti esterni di Fiera e di Expo 2015.
La Presidente del Milan, Barbara Berlusconi, recentemente ha manifestato il proposito di realizzare un nuovo stadio privato con capienza per 40.000 persone, proprio accanto alla sede sociale della squadra, nel bel mezzo del quartiere ex Fiera, già tormentato dalla realizzazione del progetto Citylife, con un milione di metri cubi accatastati nelle tre mega torri (da 180 230 metri di altezza) di Isozaki, Hadid e Libeskind. Il sindaco Pisapia e la vice-sindaco e assessore all'urbanistica De Cesaris sembrano interessati a valutare la proposta, che vede coinvolti Fondazione Fiera, che metterebbe così a frutto l'area, demolendo parte dello "Steccone" di Mario Bellini improvvidamente realizzato a fine anni '80 e in disuso, Emirates Airlines che metterebbe i soldi come sponsorizzazione, e il Milan che metterebbe in scena le attrazioni calcistiche. Federico Oliva, ex presidente dell'INU, si è dichiarato favorevole alla realizzazione dello stadio del Milan, perché costituirebbe «un elemento di centralizzazione in senso moderno con una parte di negozi e spazi aperti al pubblico dove la gente può andare a trascorrere la giornata».
I comitati cittadini chiedono invece che il Comune si pronunci affinché il nuovo stadio venga realizzato sulle ampie aree del dopo Expo e che l'edificio di Fondazione Fiera in demolizione lasci spazio libero al quartiere per riequilibrare la sovrassaturazione causata da Citylife.
Senza uno strumento di indirizzo progettuale unitario oggi si rischia nuovamente di disperdere in una serie di localizzazioni a caso le potenzialità offerte dal nuovo polo fieristico, dal riuso dell'insediamento di Expo 2015 e dai connessi adeguamenti infrastrutturali in atto, che invece potrebbero concorrere alla costituzione di un vero e proprio nuovo Centro Direzionale metropolitano-regionale, a lungo invocato proprio lungo la direttrice di nord-ovest dai più consapevoli ragionamenti delle cultura urbanistica milanese (dal Piano AR del 1947 al Documento Direttore del PGT 2000 di Luigi Mazza).
Nella foto: in primo piano il nuovo stadio (progetto Arup) con a fianco la sede sociale del Milan (progetto Gino Valle), al centro la parte residua dello "Steccone " di Bellini, sullo sfondo la torre di Isozaki in costruzione, in attesa delle altre due.
1981: esce nelle sale cinematografiche Fuga da New York, vero e proprio manifesto ideologico della crisi urbana, montata progressivamente negli anni della fuga del ceto medio verso il suburbio, della segregazione e ulteriore impoverimento di chi restava, del crollo della fiscalità locale sino alla minaccia di definitiva bancarotta. Nel momento in cui i ragazzini di tutto il mondo iniziano a entusiasmarsi per l’avventura metropolitana di Snake Plissken dentro una Manhattan immaginaria trasformata in penitenziario a cielo aperto, però, quelle atmosfere cupe nella realtà stanno già iniziando a diradarsi, grazie soprattutto a una serie di iniziative locali di investimento nell’edilizia e riqualificazione, posti di lavoro, servizi e sicurezza. Tra i simboli più vistosi di questa ancora solo annunciata rinascita, l’imbonimento di una ampia striscia di terreni lungo la sponda dell’Hudson, per predisporre gli spazi della futura Battery Park City, i cui lavori di costruzione cominciano nello stesso 1981 in cui esce nelle sale il cupo Fuga da New York.
![]() |
Quartiere Porta Nuova, 9 luglio 2015 - Foto F. Bottini |
![]() |
Quartiere Porta Nuova, 9 luglio 2015 - Foto F. Bottini |
![]() |
Quartiere Porta Nuova, 9 luglio 2015 - Foto F. Bottini |
Deve essere stata questa relativa convergenza di temi, dalla rinascita del ruolo delle città, alla rinascita locale di un quartiere di Milano, al ruolo alimentare ed ecologico dell’agricoltura, a spingere le fondazioni Catella e Trussardi, insieme a Confagricoltura, alla riproposizione paro paro, identica in ogni particolare, del Wheatfield originale newyorchese tanto tempo dopo e in un contesto tanto diverso. Contesto diverso che forse avrebbe dovuto essere meglio considerato, come osservava preventivamente Ermanno Olmi bocciando l’idea con quella frase di Mogol-Battisti: «Che ne sai tu di un campo di grano?» usata in modo ironico. Perché a Milano, inutile dirlo, i campi di grano evocano la simbologia mussoliniana ed epoche non troppo allegre, altro che rinascita. Ma ormai tra i grattacieli griffati erano spuntati i germogli verdi come la speranza, e c’era pure la speranza che qualcosa di buono potesse nascere in termini di temi da evocare e paesaggio da costruire.
Ma qualche settimana dopo le bionde messi apparivano tutt’altro che bionde, una piuttosto miserevole distesa di erbacce, del tipo che non si vede certo nei campi giusto in periferia a Milano, dove i cunei dei Parco Sud arrivano a lambire i quartieri. E tra le pareti a specchio e i boschi verticali di Porta Nuova, alle erbacce (per via dell’assenza virtuosa di diserbanti, spiegavano gli esperti) non si mescolavano però neppure papaveri e fiordalisi, con un risultato visivo a dir poco mesto. E arriviamo così alla grande giornata del raccolto: grande mica tanto, visto che si è trattato in buona sostanza di qualche macchina agricola, rotoballe che citavano la campagna padana inopinatamente intra moenia, e un pugno di presenzialisti e curiosi in buona fede affollati attorno a un chiosco che distribuiva i simbolici «semi da spargere». Se qualcosa si voleva simboleggiare, a occhio e croce si trattava di un simbolo parecchio vintage, ma non per via del richiamo all’iniziativa americana del 1982: il ricordo correva automaticamente ad altri anni ’80, quelli da bere, dalle cui ceneri in fondo è nato come araba fenice il quartiere Porta Nuova. Tra poco si svolgerà all’ombra dei medesimi volumi griffati la festa dei Democratici: sarà un tentativo di permeare di cultura diversa quegli spazi il cui senso appare ancora strascico del passato, oppure una entusiasta poco accorta dichiarazione di appartenenza?
Qui su eddyburg, le citate riflessioni sarcastiche di Ermanno Olmi, «Che ne sai tu di un campo di grano?»; su La Città Conquistatrice, a proposito del campo di Agnes Denes, qualche nota in più sul ruolo ecologico, alimentare, simbolico dell'agricoltura urbana, che ovviamente «non serve solo a mangiare»
Un operatore economico delinea chiari scenari – del resto abbastanza evidenti e prevedibili - di mutamento sociale del turismo, con una figura di city user di massa a cui non corrispondono spazi e servizi. Corriere della Sera Milano, 8 luglio 2015, postilla (f.b.)
Magari un turista non spende quanto un uomo d’affari, se non altro perché non viaggia in nota spese. Ma il fatto che cerchi soluzioni più economiche non significa che egli sia un fantasma: «La verità è che Milano sta cambiando, da città (soprattutto) del business a meta turistica di massa. Era un fenomeno già iniziato, ma Expo ha contribuito a farlo esplodere e non finirà con Expo: gli operatori, dai ristoranti agli alberghi e dai negozi ai servizi, dovranno imparare a tenerne conto. È questa per loro la nuova sfida da raccogliere». Claudio Artusi, coordinatore di ExpoinCittà e dei circa 40 mila eventi che ne riempiono il palinsesto, ripete all’infinito di non voler polemizzare con le associazioni di ristoratori e alberghi secondo cui l’Expo avrebbe portato a Milano in termini di ricavi meno manna di quella annunciata.
«Però anche noi — dice — abbiamo i nostri numeri oltre che i nostri osservatori. E descrivono una città tutt’altro che vuota o spenta. Anzi». Artusi cita diversi segni che a suo avviso fanno prova e l’ultimo è di ieri: l’ingresso di Easyjet, il colosso dei voli low cost che solo negli ultimi anni ha portato a Milano 40 milioni di persone, tra i partner ufficiali di ExpoinCittà. «E il fatto che abbia deciso di entrarci a oltre due mesi dall’apertura di Expo — dice Artusi — significa che quella di Easyjet non è una scommessa al buio ma il frutto di una osservazione meditata». «È la naturale conseguenza — spiega il direttore generale della compagnia, Frances Ouseley — dell’importanza che Milano ha per noi e del fatto che Malpensa è la nostra più grande base dell’Europa continentale».
E aggiunge: «Nel periodo di ExpoinCittà il nostro investimento su Milano
crescerà in misura superiore alla media dell’industria, con l’obiettivo di trasportare oltre 4 milioni di persone». In particolare, tra maggio e la fine dell’esposizione universale, Easyjet ha aumentato il proprio investimento del 5 per cento mettendo sul piatto 4 milioni e mezzo di posti per volare a Milano da oltre 50 aeroporti. «Inoltre — prosegue il manager — promuoveremo gli eventi ExpoinCittà tra gli oltre 25 milioni di passeggeri che voleranno con noi da oggi a ottobre». Quanto alla diminuzione dei ricavi denunciata da alcune categorie, Artusi non si mette a negarla ma la considera un indicatore parziale: «Basta andare alla Darsena o al Mercato Metropolitano dietro Porta Genova non solo per avere la percezione di un successo ma anche per intuire le nuove strutture di accoglienza richieste da un turismo di massa o toccare con mano la sharing economy, un nuovo modo di condividere alcuni servizi a cominciare dalle case in affitto. Come tutti i cambiamenti anche questo può comportare entusiasmo da una parte e timori dall’altra. Ma è una grande opportunità e bisogna coglierla».
postilla
In una città dove tutto ancora (dal dibattito aperto sul nuovo stadio, alle grandi trasformazioni pregresse dei quartieri, alla polarizzazione di Expo) pare svilupparsi sostanzialmente nel segno degli spazi specializzati e delle «eccellenze», pare in effetti essere calato il sipario su ciò che in evidenza non striscia affatto ma avanza impetuoso, ovvero la domanda di mixed-use: quello vero, non quello via via teorizzato da chi mescola quel che gli pare per motivi del tutto propri di valorizzazione. Non ci dovrebbe essere alcuna sorpresa, se ogni tanto i piccoli invisibili soggetti, concentrandosi in un solo luogo in un solo momento (è accaduto e accade nella recuperata Darsena) fanno rischiare il tracollo al metabolismo metropolitano. Accade, solo, che all’azione pervasiva di questa frammentata domanda non corrisponde l’adeguamento della risposta: tanti piccoli soggetti esprimono bisogni di servizi, trasporti, accoglienza minima o integrata, e invece la città, con la parziale eccezione di alcuni aspetti della mobilità, continua a rispondere vuoi con mega-concentrazioni e specializzazioni, vuoi delegando al virtuoso fai-da-te privato. Che, come insegnano ad esempio certe città universitarie nazionali, sui tempi non troppo lunghi porta a rischiare un collasso di sistema. E viene sempre più il sospetto che gli entusiasti promotori dello scoperchiamento dei Navigli, che sognano abbastanza esplicitamente una specie di Venezia in centro a Milano, non abbiano mai letto una riga sullo spopolamento della città lagunare, sui guai del turismo mordi e fuggi, sul degrado urbano e i disagi. Prevenire è meglio che curare, se ci si accorge in tempo di un piccolo malessere invece di inseguire massimi sistemi (f.b.)
Due articoli indipendenti sottolineano alcuni aspetti, contraddittori soprattutto rispetto alla percezione di come si evolve un quartiere nel tempo, fra sostituzione sociale e laborioso mantenimento di una certa complessità urbana, del tipo che piace poco agli immobiliaristi. Corriere della Sera Milano, 2 luglio 2015, postilla (f.b.)
L’ECONOMIA DELLA CONVIVENZA
di Nicola Saldutti
Ci sono delle trasformazioni e dei fenomeni che dicono molto di più di una città. Della sua vitalità. Della sua capacità di cambiare. È quello che, in qualche modo, sta accadendo nella cosiddetta Chinatown. Perché è pur vero che i milanesi rappresentano ancora l’80 per cento degli abitanti del quartiere. Un perimetro racchiuso tra le strade che vanno da via Canonica a Via Sarpi, a via Procaccini. Che in questi anni è cambiato più di quanto la stessa città si sia accorta. Se si dovesse raffigurare con un’immagine-simbolo, per definirla, si dovrebbe pensare ai cartoni che racchiudono l’enorme quantità di merci in transito e in vendita. Eppure anche qui le cose stanno cambiando. Come raccontava ieri l’inchiesta di Alessandra Coppola e Marco Del Corona, il mercato all’ingrosso è sceso di quasi un quinto. E c’è un altro dato che dimostra il cambiamento: se per i negozi con vetrine sono i cinesi ad avere la maggioranza (512 su 790), gli italiani sono saliti da 188 a 278 esercizi commerciali. Come dire: la trasformazione e la coabitazione (talvolta complicata) sta mettendo in moto nuovi equilibri, nuovi imprenditori. Perché la zona, diventata a traffico limitato nel 2008 e poi pedonale nel 2011, sta cominciando a cogliere anche i frutti della grande trasformazione urbana legata alla Torre Unicredit e alla zona Garibaldi e a Porta Volta. In attesa della libreria Feltrinelli di piazzale Baiamonti.
Come dire: i carrellini che trasportano merci continuano ad attraversare le strade, ma le vetrine cominciano, in qualche caso, ad assomigliare a negozi più accoglienti. Un sintomo viene anche dalle quotazioni del mercato immobiliare: la discesa qui è stata meno forte proprio perché la presenza di studi di architettura, di centri di produzione televisivi, di società di servizi continua ad essere un pezzo rilevante del quartiere. Potremmo definirla un’economia sempre più mista, insomma. Certo, le tensioni non mancano ma la curiosità del resto della città per questo quartiere (non solo per l’acquisto delle cover dei telefonini a buon mercato) dice di una zona che probabilmente si giocherà soprattutto con le seconde generazioni. E la scuola di via Giusti è in un certo senso la palestra di questo cambiamento permanente. Che comincia nelle classi.
Ps. Nel giorno del Capodanno cinese alla presenza del sindaco, Giuliano Pisapia, piazza Gramsci era piena. La prova che la convivenza è necessaria e possibile.
I CINESI ABBANDONANO IL PROGETTO DEI PORTALI: «COSÌ SONO INUTILI»
di Alessandra Coppola e Marco del Corona
L’idea dei «paifang» si smonta prima ancora che i portali siano costruiti alle estremità di via Sarpi. Li aveva proposti la comunità cinese, alcune associazioni di residenti avevano opposto una raccolta di firme e un progetto alternativo di archi verdi. Al consiglio di Zona 1, infine, il 1° aprile si era ipotizzato un compromesso: sì alle strutture tradizionali d’accesso a Chinatown, purché siano provvisorie.
Vale la pena investire 100 mila euro (almeno) per una costruzione che dopo Expo, quindi già a novembre, andrà demolita? I commercianti del quartiere, la vecchia generazione assieme ai ragazzi cresciuti qui che avevano lanciato la proposta, hanno valutato troppo alto il rischio. «Saremmo stati noi, con gli altri, a finanziare il progetto — spiega Francesco Wu, presidente dell’Unione imprenditori Italia-Cina — ma per così poco tempo è un costo consistente. Ci spiace che il Comune non abbia avuto il coraggio di portare avanti l’iniziativa, indipendentemente da Expo, sul modello di grandi città come Londra o Amsterdam. Non sarebbe stato un ghetto. Il paifang è una porta di benvenuto: aperta, non chiusa. Ma questo aspetto non è stato colto. Abbiamo desistito».
Soddisfatto Pier Franco Lionetto, presidente dell’Associazione ViviSarpi che s’era schierata contro l’iniziativa cinese: «Bene un quartiere multietnico — spiega — ma perché limitarlo con la definizione di Chinatown? Sarebbe stato sì ghettizzante». La preoccupazione di ViviSarpi continua a essere «il degrado del quartiere». Lionetto ha letto con attenzione l’inchiesta pubblicata ieri sul Corriere sul vistoso calo dei grossisti nella zona: «Dato interessante, che posso confermare con l’osservazione. Faccio però sinceramente fatica a contare su via Bramante 18 negozi italiani, però è vero che alcuni grossisti hanno chiuso». Restano aperti, aggiunge, «molti magazzini e depositi», che con il carico e scarico creano i maggiori problemi ai residenti: «Forse punti di appoggio dopo la chiusura. Strano, però, che resistano con questi affitti...».
Lavorare a Chinatown, infatti, è diventato per i commercianti cinesi (già alle prese con un euro troppo debole nei confronti del renminbi, la valuta di Pechino), una sfida contabile quotidiana. Il costo e gli affitti dei negozi sono ai limiti della sostenibilità: 90 metri quadri a uso commerciale valgono ormai sul milione di euro, prendere in locazione 45 metri costa 5 mila euro al mese. Questo significa che molti si accontentano di margini di guadagno risicati. Matteo ha in via Bramante un negozio di abiti per bambini, la tipologia «che rende meglio», sorride. È lui a spiegare i calcoli suoi e dei colleghi: «L’85% del prezzo di vendita di un prodotto all’ingrosso made in China se ne va in costi, il ricarico è del 15%. Alla fine ci si accontenta di un profitto netto del 10% o anche di meno, mentre un italiano non scenderebbe sotto il 20% o massimo 15%». Non è stato sempre così. «Gli anni d’oro sono stati il 2005-2006». Un’altra era.
postilla
Probabilmente, chi ha anche solo di sfuggita seguito qualche processo di gentrification (o diformazione di quartiere etnico nel percorso opposto di sostituzione sociale) hagià riconosciuto la contraddizione dei due articoli indipendenti pubblicati sudue pagine diverse della medesima cronaca locale. Il primo in sostanza inneggiaal classico processo di pesante trasformazione urbanistica con interventiedilizi importanti, dal famoso quartiere di Porta Nuova delle archistar ai suoicerchi concentrici verso le zone confinanti. Il secondo cita una semplice scheggiadi quello che avrebbe voluto essere il coronamento di una specie diauto-ghettizzazione, non priva di identici per quanto particolari effetti dirivalutazione immobiliare, e relativa espulsione. Quindi da un lato la gentrificationclassica, quella che allarga gli effetti fino a determinare sprawl nell’areametropolitana (inclusi i progetti di «decentramento» pilotato delle attivitàcommerciali all’ingrosso), dall’altro la mancata «cinesizzazione», simbolica omeno, del distretto, che mantiene invece una corposa diversificazione, e dovepare impossibile applicare il folkloristico «brand». Tutto sommato, ne esce unaimmagine di vitalità, per quanto contraddittoria, che meriterebbe forse ilsostegno di più consapevoli e durature politiche urbane, in parte già in atto,e magari estese oltre quel perimetro angusto della sola Chinatown, che pare oggipiù una scivolosa trappola mentale che un vero e proprio definito quartiere (f.b.)
Certo che, se la cosa vale secondo un certo percorso, deve automaticamente valere anche per la direzione opposta: si incrina lievemente qualcosa nella soggettività, nella sensibilità personale, e cominciano ad apparire grosse crepe anche in alcuni solidi «grandi principi condivisi» che sin qui hanno dominato senza discussioni. Con l’automobile, lo sappiamo, si è plasmato non solo il territorio, ma si sono costruiti sedimentati interessi, e aspettative di enormi dimensioni. Quando si incrina il legame fra personale e politico, per così dire, quegli interessi barcollano, sbattono la coda, si agitano convulsi senza ben capire cosa accade. Succede spudoratamente, davanti agli occhi di tutto il mondo, a Expo 2015, dove la filosofia automobilistica trasformata in fede integralista, aveva indotto un certo calcolo di standard: tot visitatori previsti, tot piazzole a parcheggio negli spazi di corrispondenza del sito. Tutto perfetto, salvo che quella perfezione dipendeva da un immaginario appunto incrinato, pur pietrificato in leggi, norme, convenzioni. Il cosiddetto anello debole della catena, il singolo utente, ha deciso che no, lui quel prodotto non lo compra, non lo gradisce: a vedere Expo lui ci va con la metropolitana, comodissima, e pure assai più ecologica.
Panico tra i leghisti e interessi correlati, perché quello standard era stato calcolato diversamente, e se ne aspettavano gli automatici frutti economici come quando si vende un appartamento in centro: tot metri quadri, tot soldi. Ma se l’appartamento in centro è stato studiato, poniamo, per una famiglia di quindici persone alte in media un metro e mezzo, si intuisce la divaricazione col mercato. Allo stesso modo gli ettari di piazzali asfaltati dei parcheggi erano stati concepiti e realizzati sui comportamenti medi, poniamo, di un villettaro padano elettore leghista, quello che non esce di casa se non in auto, anche per portare il cane a pisciare lontano dal giardino domestico.
Il visitatore medio, globale o locale che sia, di un evento comunque di un certo valore ambientale, magari ragiona in modo diverso, magari non è proprio di quel tipo, e infatti da mesi i piazzali a parcheggio sono deserti, mentre traboccano i mezzi pubblici. E cosa fa, il nostro operatore pubblico-privato che aveva investito in un comparto momentaneamente morto e sepolto? Facile, da un certo punto di vista: vuole convincere ad ogni costo quei signori a smetterla, di prendere la metropolitana, e comportarsi ammodo salendo educatamente in auto, e parcheggiando nell’apposita comoda piazzola, magari a Arese, ex tempio della produzione automobilistica che si vuole riciclare in museo dell’automobile, tanto per cambiare. E questo passaggio «virtuoso» dal mezzo pubblico al mezzo privato viene lubrificato con soldi pubblici, regalando un biglietto gratis di Expo a chi ci va in automobile.
Megastruttura di un secolo fa, nata da logica ingegneristica extraurbana, e in crisi di ruolo da decenni, fa riflettere sulla megalomania di altri impropri progetti di urbanizzazione. Corriere della Sera Milano, 3 giugno 2015, postilla (f.b.)
Via al maquillage dei Rilevati ferroviari, involucro dei Magazzini Raccordati. Opera da cinque milioni di euro, non più rinviabile. Grandi Stazioni preme sull’acceleratore ed entro l’estate, con lo scorporo dell’attività di retail, selezionerà i progetti degli investitori stranieri intenzionati allo sviluppo dei 66 mila metri quadrati. Comincia a giorni il maquillage dei Rilevati ferroviari. Superati i problemi tecnici per l’occupazione del suolo pubblico, Grandi Stazioni si prepara a dare il via ad un intervento che si configura come un restauro conservativo del manufatto.
I due chilometri di infrastruttura, che sorgono alle spalle della Stazione Centrale e portano i binari ferroviari fuori città, non sono mai stati oggetto di manutenzione. E i segni del tempo e dell’incuria sono più che mai visibili. I ferri che ne costituiscono l’ossatura, arrugginiti a causa delle infiltrazioni d’acqua, in molti punti si sono gonfiati fino a causare l’esplosione di quella copertura di conglomerato cementizio, che gli artigiani del tempo lavorarono trasformando in finto marmo e pietra.
Il recupero delle facciate dei Rilevati, sul fronte di via Ferrante Aporti e di via Sammartini, ha un costo stimato in 5 milioni di euro. Ed è solo l’inizio di una trasformazione ben più imponente. Entro luglio, infatti, la società che ha affidato allo studio Giugiaro lo studio di massima dello sviluppo del Rilevato attraverso il recupero dei Magazzini Generali, una vera e propria città nascosta, chiusi quindici anni or sono e abbandonati, esaminerà le proposte di investitori intenzionati ad acquisire quote dell’attività retail di Grandi Stazioni che sarà scorporata per consentirne lo sviluppo. I Rilevati con gli ex Magazzini Raccordati, lo ricordiamo, furono inaugurati nel 1914.
Il dossier preparato dal manager Paolo Gallo, già ex numero uno di Acea, ha acceso l’interesse soprattutto oltreconfine. E sono diversi gli operatori, a cominciare dal Blackstone Group — società finanziaria statunitense specializzata nei settori di private equity, investimenti immobiliari, hedge funds, ristrutturazione di aziende e gestione di fusioni e acquisizioni — e dai francesi Klépierre, gli specialisti europei dei centri commerciali, alla compagnia franco olandese Unibal Rodamco, di cui si attendono le proposte. Entro luglio. Da settembre partirà il confronto, promesso in un’assemblea pubblica dall’ad Gallo e ora confermata, con il Comune e le associazioni di cittadini da tempo mobilitati per il recupero dei Rilevati e dei quartieri che sullo stesso s’affacciano.
Realizzare l’imponente ristrutturazione non solo dei Magazzini Raccordati (33 mila metri quadrati) ma di una porzione altrettanto vasta di corpi di fabbrica che si sviluppano alle spalle della Stazione ha un costo stimato in 50 milioni di euro. Soldi che dovranno arrivare in parte proprio dall’ingresso dei fondi di investimento privati. Il cronoprogramma del restyling della Centrale ad oggi è stato rispettato. A cominciare dalle strutture in vetro e acciaio collocate nell’ampio spazio monumentale, la Galleria delle Carrozze, che collega le piazze IV Novembre e Luigi di Savoia. Ora tocca all’involucro esterno. Infine, entro l’anno l’aggiudicazione al privato che diventerà il partner dell’operazione di sviluppo.
È noto il progetto di Grandi Stazioni che sarà scissa in tre diverse società, Gs Retail, Gs Rail e Gs Real Estate, alle quali saranno conferiti rispettivamente gli asset commerciali, le attività infrastrutturali e alcuni immobili adiacenti alle stazioni. Oggi Grandi Stazioni è una società partecipata al 60% da FS al 40% da Eurostazioni (veicolo finanziario che mette insieme Pirelli, Caltagirone e Benetton con le ferrovie transalpine di Sncf), e ha trasformato e gestisce le quattordici principali stazioni della penisola. La gara internazionale per individuare il futuro acquirente della parte retail sarà lanciata prima dell’estate e chiusa entro fine anno, come ha confermato l’ad di Ferrovie, Michele Mario Elia.
Ad accrescere l’interesse dei grandi fondi di investimento è quel progetto che suddivide il Rilevato in sette corpi di fabbrica e la destinazione di ogni blocco ad una diversa attività — dal food market su via Sammartini al centro commerciale con ristoranti e caffè. «È importante — dice la vicesindaco Ada Lucia De Cesaris — che comincino a dimostrare di fare un lavoro di pulizia, perché anche un intervento di decoro è già una risposta importante al quartiere e ai cittadini. Ci auguriamo che si impegnino a dare le gambe al progetto che va quanto prima reso operativo, affinché quel luogo straordinario possa tornare ad essere vissuto come un luogo di qualità».
Ancora oggi praticamente non passa giorno senza che qualche architetto non presentiqui e là la sua «audace idea» di megastruttura che mescola mobilità econtenitori di residenza, produzione, servizi, sul modello del Piano di Algeridi le Corbusier, o del precedente americano Roadtown di Edgar Chambless. Ecco,forse basterebbe la complessità e sviluppo nel tempo di questa mega-digestioneurbana di una infrastruttura ingegneristica del genere, a dare il senso diquanto possano essere azzardate, o quantomeno mal poste, quelle ideeprogettuali. Il rilevato ferroviario nasce in modo evidentementeautoreferenziale, ma altrettanto evidentemente sulla traccia dei progetti diinsediamento lineare novecenteschi. Basta però un primo accenno del processo diurbanizzazione che queste macrostrutture deliberatamente inducono, per metternein crisi ruolo e impianto, trasformandole in una enorme terra di nessuno.Perché il processo di degrado che porta a questo «restyling» si può proprioriassumere così: la presenza assurda in città di un manufatto estraneo allacittà, e che dura quantomeno dalle periferie cantate nel Ragazzo della ViaGluck, via che sta giusto allo sbocco dei tunnel. Seguire l’evolversi dellalunga digestione forse è un modo per riflettere anche su altre, analoghemegastrutture che prima o poi presenteranno il conto (f.b.)
Con tutte le particolarità di una visione specifica e professionale, anche il gruppo responsabile dell’idea di Orto Planetario stronca la «filosofia» BIE dell’evento, del supermercato globale La Repubblica Milano, 19 maggio 2015
Ancora insieme, come all’inizio dell’avventura. Quando Jacques Herzog, l’architetto che con il suo studio Herzog & De Meuron ha firmato progetti in tutto mondo, e Carlo Petrini, il maestro del gusto e del legame con la terra e la sapienza contadina, vennero chiamati per “inventarsi” una nuova Expo. Entrambi, nel tempo, hanno preso le distanze dall’evento. Ma le loro strade sono tornate a incrociarsi anche con quelle dell’Esposizione. Lo hanno fatto nel padiglione di Slow Food, che Herzog ha plasmato realizzando in qualche modo il suo piano originario per tutte le strutture dei Paesi. Un sogno che non si è realizzato. Lì, insieme al commissario Giuseppe Sala, oggi inaugureranno lo spazio. Ripartendo dal valore della biodiversità.
Lei è uno degli architetti che ha firmato il primo masterplan di Expo: riconosce ancora le sue idee nel progetto?
«Il nostro masterplan era basato su due elementi. Il primo: l’estrema semplicità del concept urbanistico, un giardino planetario strutturato come la griglia di un’antica città romana, con il cardo e il decumano come riferimenti spaziali per tutti i padiglioni e gli eventi. Il secondo: una visione per riuscire a reinventare il concetto di Esposizione mondiale: invece di avere forme individuali, i padiglioni dei Paesi avrebbero dovuto essere strutture temporanee standardizzate. Avrebbero dovuto differenziarsi attraverso i contenuti, non attraverso queste ridicole capriole architettoniche che si possono trovare in qualsiasi rivista di design. La prima parte è stata realizzata, perché il cardo e il decumano sono la spina dorsale urbanistica, ma la seconda no. Questo significa che la vera visione dietro il nostro masterplan, il ripensamento radicale di Expo, non è stata portata a compimento».
Nel 2011 ha deciso di lasciare Expo. Perché?
«Abbiamo lasciato proprio perché a questa idea radicale non è stata data un’opportunità. Le Esposizioni sono un format datato e piuttosto noioso, la loro innovazione culturale, tecnica e politica è scaduta con la fine della modernità, intorno al 1960. Da quel momento sono diventate puro intrattenimento e uno spreco di soldi e risorse. Ma il tema di questa Expo che ruota attorno a come nutrire il pianeta era davvero una fantastica opportunità per rompere le regole e innovare il concetto stesso di Esposizione mondiale: ogni Paese partecipante avrebbe avuto uno stesso “peso” e sarebbe stato percepito solo attraverso il proprio contributo alla sfida di produrre cibo in modo sostenibile a livello mondiale».
Il suo giudizio sugli organizzatori?
«Non vogliamo accusare gli organizzatori e i progettisti di Expo per questa occasione mancata, semplicemente perché non abbiamo ancora capito perché e chi ha bloccato questa iniziativa. La politica? Gli interessi commerciali? Onestamente, non lo so. Le forze dietro la routine sono state ovviamente più forti dell’energia necessaria a lavorare in una direzione contraria».
Pensa che questa Expo sia differente da quelle del passato?
«Probabilmente no».
Fin dall’inizio ha detto che l’incontro con Carlo Petrini è stato l’unico momento ispiratore sul versante dei contenuti. È per questo che ha deciso di disegnare il padiglione di Slow Food?
«Sì, Carlo Petrini è un uomo molto interessante, un ispiratore. Inoltre, è in grado di mettere il gusto del cibo come concetto base della sua filosofia, cosa che apprezzo molto. Slow Food è ovviamente in forte conflitto con le grosse compagnie dell’agroalimentare. Io non sono per niente ideologico su questo argomento, ma è uno degli interessanti potenziali di questa Expo: avere la possibilità di discutere differenti concetti controversi della produzione agricola. Carlo Petrini e Slow Food ci hanno chiesto di progettare il loro spazio. Abbiamo accettato perché ci piaceva il contenuto, la loro volontà di riutilizzare la struttura. Abbiamo potuto realizzare quel genere di padiglione prefabbricato e standardizzato che in origine avevamo pianificato per tutti i Paesi e i partecipanti di Expo».
Vedi anche La trappola filosofica di Expo Theme Park
«Se non riuscite a dormire di notte per quello strano rumore che sale dalla strada, sappiate che è solo il fruscio del vostri soldi aspirati lontano». Così qualche anno fa il presidente di una associazione commercianti americana riassumeva a modo suo uno dei tanti impatti negativi dell’insediamento di un gigante big-box nel suo territorio. L’efficace per quanto assai parziale metafora, evidentemente un po’ troppo appesa per ovvi motivi alla corda del portafoglio e agli istinti localisti, coglieva però molto bene l’effetto risucchio-svuotamento da sempre caratteristico dell’insediamento commerciale suburbano, almeno sin da quando si era perfezionato il modello architettonico-urbanistico e il relativo modus operandi (di cui quel modello fisico è solo una delle tante conseguenze), che presiede le strategie degli operatori. Non è certo un caso se, quasi subito e contemporaneamente, circa a metà del XX secolo, il cosiddetto inventore dello shopping mall introverso moderno, l’architetto Victor Gruen, cercava in un articolatissimo saggio sulla Harvard Business Review di uscire dalla trappola in cui in pratica si era cacciato da solo, proponendo di spostare il medesimo metodo alle aree urbane, che ne sarebbero così state beneficiate non solo riequilibrando i conti col suburbio, ma anche innestando virtuosi processi di riqualificazione. Il povero Gruen con tutta la sua innocente boria da progettista demiurgo di era razionalista, ma allevato da sempre nel vivaio degli interessi commerciali, non aveva proprio capito il suo vero contributo allo scatenamento del mostro-aspiratutto territoriale.
Il parco a tema fiera della pappatoria moderna
Venendo ai nostri giorni, in effetti pare adesso un po’ esagerato stupirsi per l’effetto risucchio, e di proporzioni piuttosto giganti, che sta avendo il sito Expo, sia sul tessuto socioeconomico della regione urbana milanese, sia sui temi fondativi dell’evento. Per provare strumentalmente una lettura «alla Gruen» proviamo a riassumere in poche battute la vicenda del piano urbanistico e tematico. In principio era l’Orto Planetario, proposto dal gruppo internazionale di architetti-urbanisti e in sostanza anche dal comitato scientifico, che avrebbe dato un senso coerente sia di contenitore all’area scelta e necessariamente dedicata agli eventi centrali (questo è da sempre il modus operandi delle esposizioni universali), sia di fatto qualificando il resto dell’area metropolitana, con le sue varie eccellenze ambientali e di produzione-proposta alimentare. In pratica pur accettando come era inevitabile le infinite spinte di interessi particolari che si focalizzano su un evento del genere, quel fare dell’area un puro contenitore di spunti culturali, magari marginalmente guarnito di servizi commerciali e non all’utenza, provava molto seriamente a evitare l’effetto aspirapolvere. Che invece, con le scelte piuttosto ottuse e speculatrici messe in campo sin dall’inizio e con premeditazione ultraconservatrice, sia da parte delle autorità locali di centrodestra che da parte del BIE («un orto di melanzane non interessa a nessuno» così riassumevano i giornali le dichiarazioni di un alto esponente), ha finito per prevalere. Oggi, come osserva anche da molto lontano certa attenta stampa internazionale, l’effetto lustrini e insegne sfavillanti tipico dei centri commerciali e dei parchi tematici suburbani, con le scelte architettoniche e urbanistiche messe in campo scatta inevitabile.
«Ascoltate il fruscio del temi Expo che vengono risucchiati lontano»
Ultimo piccolo ma significativo simbolo, di questa logica concentratrice micidiale imperante da retailtainment suburbano postmoderno, la decisione dell’ente di prolungare gli orari serali di apertura visto l’enorme successo delle attrazioni «secondarie» commerciali e spettacolari. Vivamente contestato dalle amministrazioni locali che ovviamente rappresentano gli interessi di tutte le altre attività analoghe, ovvero quelle che avevano considerato e considerano Expo e il suo sito dedicato alla stregua di un «volano», magari da manovrare a piacere. Per intenderci, un po’ come se Disneyland si facesse condizionare nelle sue scelte di fondo dall’associazione titolari di chioschi di bibite accampati tra i parcheggi, sempre che ne siano ammessi. Diciamo che stanti come stanno le cose, la posizione degli oppositori è analoga a quella dei preti e dei conservatori in genere, quando ritengono che le aperture domenicali dei negozi rubino clientela alle loro iniziative religiose o familiari tradizionali, e si lanciano in disquisizioni piuttosto ridicole sulla sacralità della festa (poi massicciamente smentite dalle preferenze della stragrande maggioranza della popolazione, che ha poco senso liquidare come ipnotizzata da compulsivo consumismo). Posto che questo è il pasticcio, sia funzionale che tematico, perché la stessa cosa vale anche per il dibattito sull’alimentazione del pianeta e la produzione agricola globale, ridotti a una specie di angolo o chiosco specializzato dentro il grande baraccone, va detto che esistono almeno due percorsi per provare almeno a esorcizzare il rischio peggiore.
Il parco a tema diffuso
Il primo passo sta proprio nel riconoscere che non aver davvero considerato – prima e poi – le vere potenzialità del progetto Orto Planetario, sia per il sito in sé che per le tematiche dell’evento, ha condotto quasi fatalmente alla situazione attuale. Che riproduce per filo e per segno le infinite vicende locali/globali della grande distribuzione-erogazione di servizi extraurbana, finendo per polarizzare spazi, polemiche, e mettendo in luce una spesso patetica guerra tra poveri, mentre i grandi interessi si fregano le mani disinteressandosi dei territori che stanno prosciugando. Una volta compreso questo errore di polarizzazione, che dovrebbe quantomeno indurre a riconsiderare anche in positivo tutto il successo mediatico del divertimentificio, sempre che si possa almeno un po’ integrare in quanto veicolo di divulgazione dei temi centrali, si tratterebbe di recuperare il metodo sotteso all’idea originaria, che considerava quel luogo, insieme all’idea dell’alimentazione globale, solo e coerentemente in funzione strumentale. Ovvero, scavalcata concettualmente la logica monofunzionale specializzata del polo di qualsivoglia eccellenza, per quanto apparentemente auspicabile, e recuperando il vero respiro almeno «locale» dell’idea di integrazione, seguire la logica strategica di chi per il dopo Expo prova a indicare qualcosa che va al di là dell’ennesima cittadella tematica (che su un altro piano riprodurrebbe risucchi analoghi). Ovvero, invece di un progettone pubblico-privato per valorizzare quel rettangolo tra le autostrade dove ora si celebra la fiera della pappatoria e della movida notturna internazional-popolare, svuotando di senso territorio e dibattito, un piano di scala metropolitana che pure senza schivare la questione di quelle aree ricomponga il complesso mosaico delle evoluzioni in atto. Senza negare che ci sono degli interessi belli grossi in campo e in gioco, ma mettendo sul tavolo delle trasformazioni e delle aspettative anche quella collettività, composta non dimentichiamolo anche dagli operatori piccoli, medi e grandi non monopolisti, sempre evocata oggi solo come pubblico pagante.
Riferimenti
Oliver Wainwrigh, Expo 2015: what does Milan gain by hosting this bloated global extravaganza? The Guardian, 12 maggio 2015. Le citate riflessioni vintage di Victor Gruen, piuttosto interessanti per conto loro, disponibili in italiano, nella sezione Antologia de la Città Conquistatrice, Il metodo del centro commerciale nella riqualificazione urbana (1954)
«Ecco come la redazione di Milano in Movimento ha concluso la diretta sulla manifestazione del Primo Maggio». Comune-info, 1 maggio 2015 (m.p.r.)
Abbiamo iniziato la giornata raccontando una piazza che si riempiva di 50mila persone, di spezzoni pieni di gente e colori che hanno portato per le strade della città capitale della crisi le ragioni del proprio no a Expo e al modello di sviluppo che Expo mette in vetrina.
Il modello della deroga ai diritti di tutti per tutelare gli affari di pochi, il modello dei soldi pubblici finiti nelle tasche delle banche, degli speculatori, delle mafie che si aggiudicano gli appalti e finanziano il sistema, che sono parte integrante di un sistema al quale da tempo opponiamo le ragioni di un no che è fatto di contenuti, di costruzione di reti e percorsi di lotta.
Expo è stato, è e sarà per i prossimi 6 mesi la sperimentazione avanzata di quanto di peggio questo modello si sviluppo produce: nasconde dietro a un logo colorato e a un claim accattivante il finanziamento delle peggiori speculazioni, la cementificazione di ampie aree un tempo agricole a ridosso della metropoli, l’utilizzo di lavoratori sottopagati, stagisti, volontari (!), che devono lavorare in fretta perchè la grande macchina è in ritardo e lo spettacolo deve andare avanti, sacrificando i diritti, la sicurezza, le vite di fasce di popolazione che già stanno pagando duramente la crisi e la disoccupazione, la mancanza case, di lavoro e di un welfare davvero universale.
Expo finge di parlare di alimentazione sana e cibo per tutti e poi costruisce partnership con i peggiori divoratori del pianeta, con le multinazionali dell’agroindustria, le catene di cibo spazzatura, i peggiori responsabili delle disuguaglianze del Pianeta. Parla di aiutare i Paesi poveri e fortifica chi sfrutta le materie prime e i territori delle aree povere del mondo, depredando popoli e natura, salvo poi cercare di respingerli quando bussano ai nostri confini affrontando viaggi nei quali forse moriranno, perchè quel forse è tutta la speranza che gli abbiamo lasciato.
I media mainstream alimentano da mesi un immaginario di scontri e devastazioni a tutela della passerella di vip e politici piazzati nella vetrina dell’inaugurazione a chiacchierare di solidarietà abbuffandosi a spese dei soldi pubblici e dei beni comuni che diventano affari di pochi.
Noi crediamo nella contestazione, nel conflitto, nella radicalità dei contenuti e delle pratiche associati all’intelligenza, alla costruzione di consenso intorno ai contenuti. Crediamo nel conflitto agito da tanti e tante, nella costruzione quotidiana di pratiche alternative nel modo di vivere, intessere relazioni, fare politica nel territorio e nel mondo globale, costruire economie alternative e sostenibili.
Ci siamo trovati costretti, nostro malgrado, a raccontare un corteo che, bisogna che siamo sinceri, non avremmo voluto così. E ci vedremo costretti a raccontare di spazi di agibilità che si chiudono, di fermi, arresti e repressione, e questo frenerà la riflessione fra gli attori del movimento e farà sì che non ci esprimeremo, perchè di fronte alla repressione poi smettiamo anche di ragionare in nome della giusta solidarietà a chi viene colpito.
Noi crediamo però che qualche ragionamento dobbiamo pure farcelo. Perchè anni di lavoro sui contenuti, di condivisione e di lotte oggi sono stati letteralmente spazzati via dalla scena pubblica, e se la stampa e la comunicazione mainstream hanno gioco facile a far vedere colonne di fumo nero che si alzano nel cielo della città e roghi di auto e negozi, e vetrine tirate giù, beh, qualcuno ‘sto lavoro di demonizzazione glielo ha reso davvero facile, e non abbiamo davvero niente da guadagnare dal totale isolamento nel quale ci ritroveremo, da domani, a fare politica nella nostra città.
E non ci interessano i commenti dei politici di turno o delle personalità dello stato, ci interessa la distanza che con questo immaginario scaviamo fra il corpo militante e la gente comune, fra chi ogni giorno mette il suo tempo e la sua fatica al servizio della costruzione di percorsi condivisi che ambiscono a diventare maggioritari e quel pezzo di cittadinanza che continuerà a pagare il prezzo della crisi, abbandonata dalla politica istituzionale e che tuttavia non capisce il senso di certe pratiche ed è sempre più lontana dal nostro mondo.
Abbiamo ripetuto all’infinito che la politica delle alte sfere non ha niente a che fare con la vita vera delle persone in carne e ossa e continuiamo a non essere capaci di costruire la connessione sentimentale con quei pezzi del Paese e della società che dobbiamo invece imparare a capire e coinvolgere nelle battaglie che o sono di massa o sono condannate all’irrilevanza.
Non c’è riflessione a caldo che possa affrontare questi temi in modo approfondito e ampio, ma non possiamo chiudere questa diretta in un modo che sia diverso dall’esprimere la necessità di una riflessione sulle ambizioni, sulle pratiche e sugli immaginari, che già qualche tempo fa abbiamo provato a stimolare con un editoriale che aveva dato l’avvio a qualche ragionamento, e che dentro la redazione è tema di dibattito molto sentito.
Torneremo presto su questo tema con una riflessione più articolata, per oggi siamo davvero esausti, e chiudiamo qui.
Il giorno dopo i riot di Milano, il "movimento" si interroga su come gestire una delle fasi più delicate degli ultimi anni. Con la consapevolezza che d'ora in avanti bisognerà ragionare su come gestire la piazza senza trascurare il nodo del consenso». Il manifesto, 3 maggio 2015
Toc toc, c’è nessuno? Silenzio. Il giorno dopo tutto tace, tutti tacciono. Ha bisogno di tempi più lunghi la metabolizzazione di una bella botta che costringe tutti ad un’autocritica senza peli sulla lingua per cercare di rimettersi in piedi. La riflessione collettiva è appena cominciata, ma ancora solo a microfoni spenti. Comprensibile. Anche se un po’ stupisce questo silenzio visto che le “cose” attorno cui il “movimento” si trova costretto a ragionare erano già state ampiamente previste. Da tutti, nel dettaglio. Rispettiamo i tempi un po’ troppo analogici delle liturgie assembleari.
Dopo il primo vero “riot” della modernità che ha sconvolto la giornata inaugurale dell’Expo - piaccia o meno anche queste pratiche di piazza rientrano nelle sgradevolezze della globalizzazione - sul tavolo rimangono alcuni nodi da sciogliere piuttosto ingarbugliati. Per il cosiddetto “movimento”, naturalmente, ma anche per coloro che a caldo non sanno andare oltre la prevedibile indignazione di rito, un altro modo per non interrogarsi sul problema reale con cui prima o poi bisognerà fare i conti (quella che si autoproclama l’altra Milano, in testa il sindaco Giuliano Pisapia, oggi si ritrova in piazza Cadorna per ripulire la città sfregiata). Gli altri, quelli che non possono accontentarsi dell’analisi “sono tutti delinquenti”, sono invece costretti a fare uno sforzo in più. Operazione non facile per chi è direttamente coinvolto nella gestione della MayDay, dove qualcosa evidentemente non ha funzionato come doveva.
In sintesi. Il cosiddetto “blocco nero” era dentro il corteo (uno degli spezzoni più numerosi) in mezzo agli spezzoni più “ragionevoli”. La piazza milanese - come nessun’altra piazza antagonista - non ha avuto e non ha la forza politica e “militare” per limitarne la presenza. Il conflitto sempre più aspro espresso ieri, a tratti disperato e senza prospettive, sta diventando la cifra di ogni manifestazione “contro”. Ad Amburgo, Francoforte, Bruxelles, adesso anche Milano: benvenuti in Europa. Dunque, si può convivere con leggerezza con chi non accetta mediazioni e scende in piazza solo per spaccare tutto? Evidentemente no, ma sul che fare è ancora buio pesto per gli antagonisti che contestano il modello Expo. Di sicuro, a leccarsi le ferite, è rimasto un “movimento” che rischia di non avere più spazi di agibilità per lungo tempo. Ma il problema del consenso prima o poi bisognerà affrontarlo, anche perché mai come in questo momento tutti sono contro - si fa per generalizzare - quei cattivi dei “centri sociali”. Chi invece abbozza analisi non scontate che rischiano di essere tacciate di “fiancheggiamento” al blocco nero (ce ne sono) oggi non ha la forza di uscire allo scoperto. Prima o poi potrebbe arrivare la buriana: ieri 15 persone sono state portate in questura, e i cinque arrestati rischiano fino a quindici anni di carcere per “devastazione”.
I primi a ragionare “nero su bianco” (il comunicato) sono i più coraggiosi nell’analisi. Con toni e accenti diversi tra loro. Prendiamo l’area di Infoaut, il punto di vista più articolato. Il corteo del primo maggio, scrivono, «è la prima grande protesta contro Renzi e il suo modello di sviluppo, e così verrà ricordata». Sulla questione che più indigna, “il metodo”, questo il ragionamento: «Spaccare utilitarie o vetrine a caso è un gesto idiota che ha senso soltanto per chi assume come referente del suo agire politico il proprio micro-milieu ombelicale». Ma il punto è: «Con quel modo di stare in piazza bisogna fare i conti e nessuna struttura organizzata è in grado di esercitare una forza di controllo». Il che significa: «Quella rabbia, quella composizione, quei soggetti sono affare nostro e vogliamo averci a che fare, con tutte le difficoltà del caso. Chi se ne tira fuori - per calcolo, paura o presunta superiorità politico-morale - sta tracciando un solco tra gli alfabetizzati della politica e gli impoveriti ed arrabbiati». Il nodo del “consenso”, esiste, scrive Infoaut, ma non porsi il problema di come dare un senso a quella rabbia è un grosso errore. Non solo per il movimento.
Militant.blog vuole precisare che non c’è un corteo buono e uno cattivo, anche se la rabbia del primo maggio non è stata espressa nel migliore dei modi. Il problema, scrivono, «non è lo scontro e la devastazione» ma «è come creare consenso attorno a pratiche conflittuali». Ripartire da qui è il punto, «tornando a fare politica, cioè costruendo un discorso conflittuale che vada di pari passo al sentire comune della classe. Senza accelerazioni inutili o altrettanto inutili attendismi». Sul sito di Milanoinmovimento (una delle realtà più “dentro” alla costruzione della MayDay) si legge un primo abbozzo di autocritica: non avrebbero voluto un corteo così. Il timore è che arresti e repressione impediscano anche di ragionare, perché «anni di lavoro sui contenuti oggi sono stati letteralmente spazzati dalla scena pubblica». Il punto è che «continuiamo a non essere capaci di costruire connessione sentimentale con quei pezzi del paese e della società che dobbiamo invece imparare a capire e coinvolgere nelle battaglie che o sono massa o sono condannate all’irrilevanza». Vero. Le riflessioni dunque sono appena cominciate, la Rete No Expo deve ancora esprimersi e probabilmente lo farà dopo l’assemblea di oggi pomeriggio. Ma a poche ore dal disastro sembra che qualcosa stia già ricominciando a muoversi.
La violenza criminale e demenziale di chi ieri ha sfasciato Milano rendono ancora più difficile esprimere il senso di rigetto che ingenera l'immane baraccone dell'Expo. I fiumi di retorica alimentati da presidenti, ex presidenti, sindaci, ex sindaci, giornalisti sono imbarazzanti almeno quanto il pessimo gusto della cerimonia d'apertura, o la patetica trovata dell'inno nazionale modificato.
«Chi agisce ricorrendo ad una violenza fine a se stessa, distrugge in primo luogo la politica, il diritto di manifestare pacificamente, mette in un angolo i movimenti che vogliono esprimere - anche in piazza - un’altra visione del mondo». Il manifesto, 3 maggio 2015
Che senso ha incenerire la giusta lotta per il diritto al cibo con una raffica di molotov? Come si possono contrastare la povertà e la fame nel mondo, se si danneggiano negozi, se si incendiano le auto di cittadini incolpevoli, se si mette in campo solo una anarchica voglia di distruzione? Cosa significa manifestare indossando una maschera antigas?
Ha ragione il sindaco di Milano, Pisapia, a definire imbecilli questi travestiti di nero che si divertono a fare i cattivi. A volto coperto. Tuttavia non basta qualche aggettivo per catalogare dei comportamenti sconsiderati. Perché chi agisce ricorrendo ad una violenza fine a se stessa, distrugge in primo luogo la politica, il diritto di manifestare pacificamente, mette in un angolo i movimenti che vogliono esprimere — anche in piazza — un’altra visione del mondo.
Gli effetti del vandalismo anti-Expo del primo maggio non sono solo quelli che abbiamo visto nelle immagini tv. Ce ne sono altri, meno evidenti. Eppure molto concreti. Perché secondo il prevedibile copione, la legittima protesta e la contestazione della rassegna universale sono state offuscate proprio dal fumo nero che si è levato dai tanti focolai di incendio provocati dai piromani di professione.
Questi cosiddetti black bloc conoscono bene le regole della comunicazione, sanno benissimo che il sensazionalismo delle loro azioni viene usato per ignorare i comportamenti, pacifici, altrui. E questo ruolo non gli va più concesso: i movimenti devono essere i primi a sentirsi danneggiati per quanto è accaduto. E comportarsi di conseguenza, prendendo le distanze e difendendosi da chi ha nulla a che fare con la politica.
L’Expo può essere e deve essere criticato. Perché non risolverà i problemi degli affamati della Terra. Perché l’economia mondiale non può restare nelle mani delle multinazionali che, come dice Vandana Shiva, pensano soprattutto a nutrire se stesse, non certo il Pianeta. Perché come accade con i grandi eventi, sempre molto costosi, difficilmente sedimenterà qualcosa che durerà nel tempo. Perché bisogna essere davvero ottimisti per credere che risolleverà il nostro Pil di qualche decimale. Perché una delle “vocazioni” del paese, il turismo, non si alimenta con le manifestazioni a termine ma con una strategia e investimenti di ampio respiro.
La violenza ha messo in un angolo anche l’altro Primo Maggio, quello più autentico e storico: la festa del lavoro che non c’è. La messa a soqquadro di Milano ha fatto passare in secondo piano la protesta sindacale contro il governo e i suoi fallaci e patetici proclami sulle magnifiche e progressive sorti del Jobs Act. E ha messo in sordina il forte messaggio lanciato da un luogo simbolico dell’accoglienza agli immigrati in fuga da guerre, disperazione, fame. Forse Pozzallo, piccolo paese siciliano, rappresentava il vero contraltare all’abusata retorica del presidente del Consiglio all’inaugurazione dell’Expo.
Tutto questo è stato “bruciato” da chi ama distruggere le cose e anche le idee e le opinioni costruite faticosamente. E soprattutto quelle dietro le quali si nascondono. Perché agiscono insinuandosi e confondendosi nei cortei, nei movimenti. Ai quali diamo un modesto consiglio: la prossima volta si scenda in piazza con un efficiente servizio d’ordine. Un tempo si organizzavano come strumento di autodifesa. In primo luogo dalla polizia che, stavolta, ha fatto un’opera di contenimento, evitando di provocare uno scontro generalizzato che avrebbe avuto ben altre conseguenze. Adesso i servizi d’ordine devono servire anche per distinguersi da chi pensa che ferire il centro di una città sia la soluzione. Ma una presenza organizzata in piazza non si improvvisa, richiede una coesione politica e sociale che manca sia nei movimenti che nella sinistra di alternativa.
Pare chiudersi con un bilancio piuttosto positivo la vicenda iniziata tempo fa con la spettacolare occupazione del grattacielo lasciato in rovina da Ligresti. La Repubblica Milano, 30 aprile 2015, postilla
TREDICI piani di hotel e altri diciotto di appartamenti. Dopo sedici anni di abbandono la torre Galfa torna a vivere. Il gruppo Unipol Sai, insieme al Comune di Milano, ha presentato ieri il progetto di riqualificazione per il “grattacielo fantasma” alto 103 metri, nell’area fra il Pirellone e Palazzo Lombardia, disegnato nel 1956 dall’architetto Melchiorre Bega. Un investimento da 100 milioni di euro per recuperare i 31 piani lasciati al degrado degli inizi del Duemila e farli tornare a essere uno degli edifici simbolo dello skyline della città.
«L’incuria e l’abbandono ne avevano deturpato l’immagine, snaturandone il suo alto valore architettonico – ha detto Gian Luca Santi, direttore generale Immobiliare di Unipol Sai, proprietaria dell’immobile – . Il nostro obiettivo era riqualificarlo senza alterare la sua identità. Pensiamo di essere arrivati a una proposta valida, con un intervento di qualità con le tecnologie più avanzate anche dal punto di vista energetico». I lavori dovrebbero partire all’inizio del 2016 e la consegna è prevista entro la fine del 2017. Il nuovo progetto è curato dall’architetto Patrice Kanahm: dal piano meno uno fino al dodicesimo gli spazi saranno occupati da un nuovo albergo del gruppo Melià.
Quelli più alti avranno invece una destinazione residenziale con servizi dedicati ai futuri inquilini. E quindi aree fitness, un ristorante e box per le auto. Il tutto verrà realizzato conservando l’immagine della torre così come era stata disegnata da Bega, assicurano. «Ma con un nuovo involucro ad alta efficienza energetica – spiega Kanah - . È il primo restauro di un edificio contemporaneo, una grande sfida tecnica per restituirlo alla memoria della città, valorizzando le peculiarità originarie come la facciata a vetrata continua ». Sul retro che dà su via Campanini nascerà una nuova struttura in cristallo, una sorta di spina dorsale dove verranno posizionati tutti gli impianti, le scale di sicurezza e gli ascensori ultra veloci.
La torre si trova fra via Galvani e via Fara (il nome Galfa deriva dalle loro iniziali) e ha una superficie di circa 27mila metri quadrati. Era il 1956 quando l’imprenditore Attilio Monti chiese a Bega di progettare un grattacielo da trasformare nella sede degli uffici della sua società petrolifera Sarom. Un edificio che diventa realtà a un passo dall’area dove Gio Ponti, negli stessi anni, tirava su i 127 metri del Pirellone. Innovativo per l’epoca, con la sua struttura in cemento armato senza pilastri e ricoperto da vetri. Nel 1980 viene acquistato Banca popolare di Milano, che lo lascia definitivamente abbandona nel 2001 e lo cede nel 2006 al gruppo Fonsai, allora di proprietà della famiglia Ligresti, acquistato da Unipol nel 2012.
Uno scheletro vuoto per anni, che sempre nel 2012 viene occupato per dieci giorni dal gruppo di artisti del collettivo Macao per mettere al centro la questione degli spazi abbandonati di Milano. «La torre Galfa era diventato uno dei simboli dell’abbandono – ha detto il vicesindaco e assessore all’Urbanistica, Ada Lucia De Cesaris – .Questo progetto si inserisce nel lavoro dell’amministrazione per la rigenerazione e la riqualificazione del patrimonio esistente. È un progetto di grande delicatezza, di restauro e di continuità con tutta l’area, compatibile con il parere della zona. Penso che tutti saranno contenti».
postilla
Può piacere o no la destinazione d’uso di quei volumi, può piacere o no –esteticamente, intendo - il tipo di architettura da centri direzionali di metà ‘900, ma la vera assurdità da cui era nata la spettacolare occupazione del gruppo Macao qualche anno fa pare davvero superata, e con tutti i limiti del caso in modo positivo. C’è un edificio alto, in una zona dove tutti gli edifici sono alti (stiamo accanto al Pirellone, al nuovo Formigone, nonché al quartiere Porta Nuova, distanze di qualche decina, centinaio di metri al massimo), dove si incrociano linee multiple di trasporto collettivo, e non c’è neppure realizzazione di nuovi volumi, solo recupero di quelli esistenti. Certo, starà poi ad altre decisioni, prime fra tutte quelle sui trasporti e la gestione del traffico, a far sì che questo episodio edilizio si trasformi anche in qualità urbana, ma un piccolo passo avanti è innegabile. E certamente nel caso specifico, con una localizzazione del genere, le classiche battute che vedono sempre e comunque il male assoluto nel metro cubo (come chi parlava di “consumo di suolo” per il quartiere adiacente) paiono fuori luogo. Ma il pur benintenzionato benaltrismo avrà certamente da dire anche a questo proposito (f.b.)
Appare evidente che certe trasformazioni funzionali urbane, per quanto apparentemente immateriali e temporanee, finiscano per distorcere la qualità dell’abitare, e meritino una riflessione innovativa. La Repubblica Milano, 19 aprile 2015, postilla (f.b.)
Una fiumana di gente in via Tortona è il Quarto Stato di Pellizza Da Volpedo ma un secolo dopo. Ha fame e divora panini e pavé infilandosi in ogni passaggio aperto dal design tra le vetrine e i cortili. Qui dove del resto è stato inaugurato contaminando gli altri quartieri, il Fuorisalone è entrato ormai ovunque impossessandosi dell’anima di ogni spazio disponibile. Prima il Superstudio e poi, come un virus, alimentari, parrucchieri, bar. C’è un piccolo drone bianco a due ruote che sfida i piedi dei passanti saltando, roteando, cercando attenzione. Qualcuno inevitabilmente lo pesta ma il ragazzo in maglietta nera che lo manovra in disparte da un tablet non si agita. Il robottino è indistruttibile e ha il talento del voyeur. Trasmette sullo schermo del pilota, il 28enne Andrea Cancellieri, le immagini in alta definizione della folla che lo sovrasta. «Non è un gioco, collaboro per il secondo anno con un’agenzia di eventi e quest’anno lavoriamo per un produttore americano di droni che ha affittato lo spazio qui di fronte».
Anche un passatempo può essere una professione nell’indotto di una settimana che in tutto il mondo è ormai considerata il vero Carnevale ambrosiano. Una festa prima ancora che una fiera. Gi Zu Kim, 21enne cinese da un anno a Milano, studentessa della Naba con monolocale sui Navigli, è appoggiata a un muro in zona Brera, distratta dallo schermo del cellulare mentre cerca di capire cosa andare a vedere dopo. «Non avevo compreso la città fino a quando l’anno scorso non è iniziata la Design Week, pensavo fosse un luogo perfetto per studiarci e pessimo per viverci, voglio dire, non è Barcellona. Poi mi sono fatta trascinare nelle zone dai compagni di corso milanesi, qui in Brera, oppure a Lambrate, e ne ho scoperto la bellezza fuori dagli schemi, brutale».
Proprio Lambrate, la vecchia periferia operaia, continua ad essere il distretto dove i colori di questi giorni risaltano di più, come il vestito verde e i capelli rossi della 24enne artista Marlies Van Putten, olandese. «Mai stata a Milano, fantastica la reazione della gente. Proponiamo un lavoro di scultura che invita all’interazione, temevamo fosse difficile, faticoso e invece tutti vogliono mettersi alla prova. Non mi era mai capitato». Poco lontano, sempre in via Ventura, Anselm Dahl, architetto danese con raffinato look finto amish, è in pausa panino. «È il terzo anno per me ma temo qualcosa sia cambiato. Ho sempre affittato casa qui vicino a cifre ragionevoli, quest’anno invece rischiavo di non trovare posto e sto spendendo tantissimo per una stanza che non definirei esosa». Tra Salone e Expo, gli ultimi dati dicono che l’offerta di affitti brevi sia salita del 70%, mentre la domanda del 25%, con prezzi di 160 euro al giorno per le case vicine ai quartieri del Fuorisalone, oltre i 350 euro per gli appartamenti di lusso in centro. Non è un caso che Airbnb sia stato, a Palazzo Crespi, il generoso sponsor di una delle migliori installazioni.
Durante il Fuorisalone Milano si candida forse a diventare una specie di Venezia, una città piena di turisti ma deserta di milanesi. Rimane però straordinaria la capacità del design di ridare vita a luoghi morti o dimenticati durante il resto dell’anno. Il miglior esempio sono i bagni Cobianchi di Galleria Vittorio Emanuele. Elita, che li gestirà anche durante Expo, li ha resuscitati, infilando all’ombra del Duomo uno spazio off. Mercatino, bar, concerti, after party. Lorenzo Covello, 27enne milanese uscito dal Politecnico, modifica qui sotto felpe e tshirt con una vecchia macchina per cucire. Tutti si aspettano dai giovani meraviglie con le stampanti 3D e invece in giro si sono viste molte tecnologie obsolete, persino dei telai. «Non è che abbia girato molto quest’anno e non so se sia una moda. Credo in generale che ogni novità, come le stampanti 3D, generi una reazione contraria. Non è solo una questione di nostalgia, è più un voltarsi alla ricerca delle proprie radici, comunque la ricerca di un appiglio familiare, rassicurante, più vicino alla realtà di un file digitale».
postilla
Spero di usare con sufficiente auto-ironia il temine di pop-up gentrification per definire questo modo di trasformare anche radicalmente gli spazi urbani senza apparentemente cambiare nulla. Perché invece si inducono cambiamenti striscianti, e forse saperlo e rifletterci aiuta, ad esempio usandola, questa pop-up gentrification, e non facendosi usare. Del resto si tratta (la parola chiave Venezia usata nell’articolo dovrebbe far suonare un campanello) di fenomeni del tutto analoghi a quelli dei turismo tradizionale, o se vogliamo della movida, che però nascono da una specifica iniziativa anche pubblica, e dunque con potenzialità inedite.
Schematicamente, ci sono almeno due modi per leggere questo processo di sostituzione sociale temporanea: uno ottimista e uno sospettoso. Quello ottimista vede che non ci sono né grandi concentrazioni finanziarie e di operatori al lavoro, né quella forte compressione costante nel tempo che rendono il processo traumatico. Il quartiere si trasforma perché si stanno evolvendo il territorio, la società, l’economia, e tutto avviene attraverso piccoli gesti, stimolati dal periodico spuntare della punta dell’iceberg costituita dal “mercatino annuale del design internazionale”. L’approccio un po’ più guardingo però, osservando con un briciolo di prospettiva storica in più la cosa, nota che di sicuro sarebbe assai meglio evitare la formazione di “rendite di posizione” che forse avvantaggiano qualcuno, ma non certo la collettività, o la città più in generale. Ovvero, se è possibile organizzativamente trasformare per una settimana un quartiere misto in un distretto “pop-up”, così come si fa con certi esercizi commerciali, forse sarebbe meglio pensare a una rotazione, così da infondere nuova vita là dove essa è necessaria, magari per due o tre stagioni di seguito, e poi passare altrove. Ricordiamoci sempre che la rendita, in tutte le sue forme inclusa quella dell’immagine, ha sempre ostacolato la creatività. Per le attività creative, dovrebbe essere un problema serio (f.b.)
Lo sguardo dell’architetto progettista sui nuovi quartieri faticosamente usciti dall’urbanistica del centrodestra ne coglie alcuni aspetti indubitabilmente riusciti, accantonandone però altri, che forse è meglio riprendere. Corriere della Sera Milano, 15 aprile 2015, postilla (f.b.)
Forse ci siamo. Dopo il completamento e l’inaugurazione primaverile (e dunque di buon auspicio) del parco opera d’arte nel vasto recinto del quartiere Isola, forse abbiamo trovato un’idea alternativa, contemporanea, alla città moderna del boom e post-boom. Wheatfield, il campo di grano di 50 mila metri quadrati tra i grattacieli di Porta Nuova, un’opera d’arte ambientale dell’americana Agnes Denes, praticabile all’interno lungo un sentiero sterrato in attesa della mietitura, prevista per metà di luglio, è l’ultimo tassello di un percorso intrapreso da tempo, che oggi ci appare in tutta la sua veemenza estetica. Ci siamo perché la complessità dell’impianto urbano e la ricchezza del paesaggio architettonico fanno da contraltare a un grande spazio naturale che unisce gli episodi fisici di questa imponente realizzazione immobiliare.
![]() |
Il campo di grano piantato a Porta Nuova per Expo (foto F. Bottini) |
Il vecchio quartiere Garibaldi-Isola, un tempo rifugio della mala romantica, si è trasformato, finalmente, ha chiuso i conti con gli infiniti rinvii, con le proposte velleitarie inutilmente avanzate in oltre mezzo secolo: ora è realtà viva, pulsante, aggregante. Via per sempre il ricordo di luna-park arrugginiti e Circhi Americani e largo a grattacieli ambientali, skyline newyorkesi che fanno da corona a memorie della socialità riformista milanese, con tanto di operazione nostalgia, con tanto di mercatini, abilità artigianali e centro socio-culturale.
Ma la sorpresa è che le differenze reggono bene, dialogano, si compenetrano. Berlino, Amsterdam o Marsiglia, ma anche tanta creatività tutta italiana. Sarà la nascita di un «luogo» nuovo? Questo lo sapremo più avanti ma è probabile che tra molte socialità dialettiche, senza pregiudizi (movide notturne, locali alla moda e campi da coltivare a grano), la città finalmente cominci a manifestarsi come fenomeno contemporaneo alla ricerca di una nuova identità originale. Ora non serve cercare paternità multiple, il risultato è molto più importante della somma delle parti. Una specie di percezione sociale condivisa.
Più che un modello apparentemente confuso, può essere definito contraddittorio nel significato più ampio e ricco che possiamo dare al termine. Alla fine un’idea di città la stiamo costruendo e uso volutamente il «noi» perché la città è fatta anche dal godimento della bellezza che può regalare ai suoi consapevoli abitatori, e ogni individuo può partecipare alla crescita e alla salvaguardia di un modello evoluto di comunità.
postilla
Leggendo delle varie reazioni di critici ed ex critici ai risultati “a regime” del primo dei grandi quartieri prodotti dall’urbanistica joint-venture inaugurata da Maurizio Lupi, anche grazie ad alcuni sviluppi (e a Expo) contingenti entrato molto in fretta a far parte dell’immaginario metropolitano, bisogna quantomeno ammettere una cosa: molti dei timori e dei sospetti che circondavano il progetto e i cantieri, paiono evaporati come neve al sole, di fronte alla vera e propria invasione di cittadini nei nuovi spazi, che si sono imposti sia come meta, sia nell’immaginario collettivo, metropolitano e non. Detto questo, ovvero riconosciuto che l’aria della città rende un po’ più liberi anche coloro che liberi non sono proprio, tocca ricordare che quel titolo scelto dall’Autore dell’articolo, “Città Condivisa”, pare proprio fuori luogo per uno spazio urbanisticamente e funzionalmente vetusto, la cui unitarietà è del tutto delegata proprio a questi ottimisti flussi di popolazione, e la cui vitalità interna tuttora inesistente, con gli edifici sconsolatamente vuoti. E non aiutano a ben vedere, né l’impianto automobilistico anni ’60 in epoche di trionfo della mobilità dolce, né quella concentrazione terziaria fantozziana, proprio mentre le nuove forme di telelavoro e indifferenza localizzativa dovrebbero iniziare ad uscire dalle sale dei convegni. Insomma, se la città è dei cittadini, magari non bisognerebbe costringerli ogni volta a riconquistarsela assaltandola coi forconi, magari virtuali, come di fatto succede ancora oggi sotto le curtain wall e cascate di verde griffate di Porta Nuova (f.b.)
Come intuiscono alcuni urbanisti, la cosiddetta crisi delle periferie deriva da distorsioni novecentesche, come quella di avere privilegiato aspetti fisici su alcuni obiettivi sociali che ne avrebbero modificato gli equilibri. La Repubblica Milano, 9 aprile 2015, postilla (f.b.)
Il modello milanese di “scuola aperta” da esportare negli istituti di tutta Italia. Con le aule dove di mattina studiano i bambini messe a disposizione la sera per incontri culturali e cineforum, le palestre che accolgono lezioni di danza e yoga, e le biblioteche che diventano un luogo di studio anche per i più grandi. Sarà ascoltato oggi alla Camera, in commissione Istruzione, Giovanni del Bene, l’ex preside del comprensivo Cadorna ora a capo dell’ufficio “Scuole aperte”, il quartier generale nato l’anno scorso a Palazzo Marino in collaborazione con l’Ufficio scolastico regionale con l’obiettivo di aiutare asili, elementari e medie a organizzarsi per trasformare i propri spazi in luoghi di incontro per la città quando gli alunni non sono in classe.
Un progetto nato nel 2012 che ora potrebbe diventare un esempio da estendere a livello nazionale. A oggi, a Milano, sono una trentina gli istituti coinvolti: oltre alla Cadorna — che ha fatto da apripista per tutti con le sue aule aperte da anni fino a tardi, anche durante le vacanze di Natale, per attività di ogni tipo — ci sono per esempio la Rinnovata Pizzigoni e la Calasanzio, la Casa del Sole e il comprensivo Mameli. «Non esiste un modello unico in questo momento — spiega Del Bene — ma l’obiettivo per tutti è diventare un punto di riferimento per la vita del quartiere». Dietro al progetto, l’assessorato al Benessere e al Tempo libero di Chiara Bisconti in collaborazione con quello all’Istruzione di Francesco Cappelli. «Abbiamo deciso di partire dal basso, andando a studiare quelle scuole che già in città sono sinonimo di apertura quasi permanente, per poi introdurre un cambiamento culturale che renda loro repli- modelli culturali in altri plessi scolastici », spiega la Bisconti in un documento che verrà letto oggi alla Camera. Fra i Comuni che hanno già manifestato interesse per seguire le orme di Milano, quello di Roma.
Per le scuole milanesi, il passo successivo è un “patto territoriale” che coinvolga i presidi delle scuole, i consigli d’istituto, le associazioni del terzo settore, e i Consigli di Zona per stabilire insieme i bisogni del singoli quartieri. «Un attore fondamentale, poi, sono i genitori — precisa Del Bene — che possono costituire associazioni legalmente riconosciute e diventare un partner privilegiato per la promozione di queste attività: in questo modo l’utenza può affiancare la scuola e creare un valore aggiunto, sia come risorsa di carattere materiale, sia come ampliamento dell’offerta formativa». Per coinvolgere gli istituti che ancora non si sono mossi, poi, il Comune pubblicherà a breve un bando che utilizza parte dei fondi ministeriali della legge 285 per la promozione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, per aiutare le scuole elementari e medie ad aprirsi al territorio.
postilla
Come forse qualcuno si ricorderà, le scuole aperte sono una delle idee di punta del programma presentato alle primarie da sindaco di Stefano Boeri, nella cui biografia oltre ai noti progetti da archistar ci sono anche anni da redattore di “Urbanistica”, e certamente un’ottima cultura internazionale sul tema del quartiere. Cultura che in un modo o nell’altro ricorda quanto il concetto di Unità di Vicinato, alla base della conformazione fisica di gran parte delle periferie contemporanee, vede al centro (fisico, funzionale, identitario) proprio la Scuola, intesa non solo come fabbrica part time di istruzione dell’obbligo, ma vero e proprio nodo sociale, attorno al quale ruotano spazi e tempi della città. Era l’idea fondatrice delle teorie di Clarence Perry, e speriamo che possa resuscitare, dopo tanti decenni di abbandono o quasi (f.b.)
Tra i grattacieli fortemente voluti da Maurizio Lupi, venduti alla famiglia reale del Qatar, un progetto di landscape per Expo calato dall'iper-uranio della globalizzazione, e del tutto surreale in una città a cui si vorrebbe far perdere la memoria. Corriere della Sera Milano, 28 marzo 2015, postilla (f.b.)
Spunta a Milano un progetto di «arte ambientale» promossa dall’artista americana Agnes Denes. Titolo: Un campo di grano tra i grattacieli di Porta Nuova. Saranno utilizzati quasi 15.000 metri cubi di terra, 1.250 chili di sementi e circa 5 mila chili di concime (ovviamente chimico e inodore) poiché quello naturale sarebbe disdegnoso per l’inevitabile olezzo. E così, nel giubilo per la novità dell’arte ambientale si trascurano memorie di esperienze fallimentari già compiute.
Estate 1941. L’Italia è in guerra. La propaganda del regime fascista ogni giorno preannunciava imminenti clamorose vittorie e poi, puntualmente, venivano rinviate a un futuro incerto fino a lasciarle dissolversi nel silenzio della dimenticanza. E allora bisognava creare distrazioni per fare da compensazione. Tra le varie trovate una di queste fu il grano fascista. A Milano, prossimi all’autunno, gli operai del Comune cominciarono ad arare tutti gli spazi destinati a giardini e aiuole. Il fronte della guerra era ancora lontano e alla fine di giugno del 1942, puntualmente, anche il grano seminato in città venne a maturazione. Ma, ahimè, al momento del raccolto venne alla luce quel che fino ad allora era rimasto nascosto nel folto delle spighe, che man mano crescevano ne impedivano la vista. Poi con il campo rasato dalla mietitura era comparsa, come scaturita da sottoterra, una inspiegabile presenza di sassi bianchi, opachi come lo sono le cose morte che sfacciatamente si sovrapponevano al brume del terreno.
Certo: i pareri erano diversi. Ognuno diceva la sua. Infine venne la sentenza condivisa da tutti. Quei «sassi» non erano altro che cacche di cane rinsecchite e cementificate dalla lunga stagionatura. Io ne sono stato testimone, avevo dieci anni e ricordo tutto con la lucidità della memoria infantile che a quell’età rimane viva per sempre. E per noi ragazzi quelli furono momenti davvero eccitanti, perché non era più un gioco ma una guerra vera, quella che fanno i grandi e si muore davvero. Quando si gonfia la forma perché la sostanza è debole, si è dalla parte sbagliata. Ho saputo della adesione a Expo da parte di Coca Cola e Mc Donald. Alla faccia della genuinità e sacralità del cibo…
postilla
Fra i tanti, e probabilmente davvero troppi, sintomi di una Expo nata e cresciuta nel segno fortemente ideologizzato di una agricoltura e idea di territorio sostanzialmente inaccettabile e dominata dalla lobby agro-industriale, spicca anche questo assurdo decorativo stupido campo di grano scaraventato sulla città. Olmi con la sua sarcastica citazione di Mogol-Battisti ne rileva uno degli elementi di maggior stridore: Milano è stato uno dei luoghi simbolo della Battaglia del Grano del fascismo, circolano ancora sul social network le vecchie foto delle spighe in Piazza del Duomo: perché non evitare di richiamare così goffamente quelle immagini? Macché: la memoria è nulla, di fronte a decisioni meccaniche per cui si importa a scatola chiusa un progettino, esattamente col medesimo criterio con cui gli edifici che stanno lì attorno vengono da lontanissimi e alieni tavoli di progettazione. Che ci sarebbe voluto, per importare il “format” ma adattarlo al contesto, storico geografico e colturale (una risaia? un orto? Qualcos'altro?). Se questi sono i personaggi che vorrebbero nutrire il pianeta, forse è davvero meglio iniziare a pensare, molto seriamente, a organizzarsi da soli un percorso alternativo, perché quando all'arroganza si unisce in modo tanto spudorato un'allegra imbecillità, non c'è davvero scampo (f.b.)
Molti misteri, ma soprattutto molti affari immobiliari e infinito cemento dietro la verniciatura green del giovane archistar. Altreconomia.info, febbraio 2015
Sono alte 80 e 112 metri le torri che compongono il "Bosco verticale" di Milano, e che due classi di un asilo sono venute ad ammirare in gita in via de Castilla, nel quartiere Isola, a due passi dalla stazione Fs Garibaldi. Dopo le fotografie, i bambini ascoltano la spiegazione dell’insegnante: “Noi il bosco lo abbiamo così” dice lei muovendo il braccio in orizzontale, “loro invece ce l’hanno così” aggiunge, e con la mano traccia una linea su fino all’ultimo piano del grattacielo più alto. Il “Bosco” è un marchio, rafforzato dal riconoscimento di “grattacielo più innovativo del mondo” -l’International Highrise Award- ricevuto nel novembre 2014 e promosso dalla città di Francoforte, dal Museo d’architettura tedesco (DAM) e dalla branca immobiliare della compagnia d’investimento DekaBank. Alla notizia del premio anche l’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, volle unirsi alle celebrazioni del “Bosco” -progettato dallo studio di architettura di Stefano Boeri e sviluppato dalla succursale italiana del colosso immobiliare texano Hines, proprietario dell’intero complesso di residenze e uffici chiamato “Porta Nuova”, come la zona in cui ricade- esprimendo in una nota il suo “vivo compiacimento”.
All’epoca, però, nessuno ha evidenziato il nesso (del tutto legittimo) che legava il finanziatore del titolo -DekaBank- all’operatore immobiliare insignito -Hines, nella persona del suo amministratore delegato Manfredi Catella- e che prende il nome di Coima Srl. Fondata nel 1974 dalla famiglia Catella e presieduta dallo stesso Manfredi, Coima -oltre ad essersi occupata dell’arredo interno degli appartamenti del “Bosco”- è da sempre “specializzata nelle attività di gestione di patrimoni istituzionali e di co-investimento in operazioni immobiliari nel settore terziario e residenziale” per oltre 4 milioni di metri quadrati.
Compresi -come riporta la società sul proprio sito (www.coima.it)- quelli del “cliente” Deka Immobilien Investment (del gruppo DekaBank). Né Hines né Catella hanno voluto rispondere alle domande di Altreconomia, né hanno accettato di mostrare il piano economico e finanziario dell’operazione -irraggiungibile anche attraverso il Comune di Milano- e dei dati di vendita dello stock di uffici (217mila metri quadrati di superficie), residenze (68mila) e spazi commerciali (20mila) distribuiti tra l’area Garibaldi e quelle delle ex Varesine e dell’Isola. Dall’ufficio stampa si limitano a dar conto di un mero dato cumulativo sulle sole torri del “Bosco”, “vendute per oltre il 60%”.
Sono solo alcuni dettagli della rinnovata rincorsa urbana (e mediatica) al “modello verticale”, anche nel nostro Paese. Salvatore Settis, nel libro “Se Venezia muore” (Einaudi, 2014), l’ha misurata nel paragrafo intitolato “La retorica dei grattacieli”: sono 28 gli edifici di grande altezza ultimati tra il 2000 e il 2014 in Italia, poco meno dei 30 realizzati tra il 1932 (il primo è il Torrione Ina del Piacentini a Brescia, 57 metri) e l’inizio del nuovo millennio. “La tendenza a crescere in altezza è datata -ragiona Antonello Boatti, che insegna Urbanistica al Politecnico di Milano-. Poteva ritenersi un’avanguardia ai tempi di Chicago, nei primi del 1900, per tecnologia e tecnica costruttiva. Ma oggi non è che una contorsione estetica di un modello vecchio”.
Chi, ogni anno, conta i grattacieli è il “Council on Tall Buildings and Urban Habitat” di Chicago (www.ctbuh.org). Il 2014 ha battuto ogni record, con 97 edifici oltre i 200 metri d’altezza ultimati, il 60% dei quali solo in Cina (58), seguita dalle Filippine (4) e dal Qatar (4). L’Europa si è “fermata” a 3. Ed è questa nuova geografia dell’altezza a contraddistinguere quella che Settis definisce una pretesa “modernità d’accatto”. “È molto interessante notare come la rinascita e il rilancio del grattacielo non avvenga negli Stati Uniti, dove la forma è nata più di cento anni fa, -spiega Settis- ma in Cina e negli Emirati del Golfo Persico. Cioè in Paesi senza democrazia”.
Stefano Boeri, che abbiamo intervistato al 22esimo piano della torre più alta del “Bosco” affacciato sul “Parco di Porta Nuova” tutt’ora in costruzione e sul palazzo Unicredit di Cesar Pelli (217 metri), è convinto del contrario. Per lui, costruire in altezza è una sfida ineludibile: “Nei prossimi anni noi non ‘potremo’, ‘dovremo’ pensare a città che crescono in altezza, anche perché il tasso di consumo di suolo ha raggiunto livelli insopportabili”. L’appartamento (ancora vuoto) in cui stiamo videoregistrando, però, è sul mercato per un valore di 14mila euro al metro quadrato. Il prezzo medio dei locali in vendita nelle due torri è di 9mila euro. In una città che, stando alla ricerca “L’offerta e il fabbisogno di abitazioni al 2018 nella regione Lombardia” curata nel 2013 dal Dipartimento di architettura e pianificazione (Diap) del Politecnico di Milano, sarà chiamata tra tre anni ad affrontare un fabbisogno abitativo di sola edilizia pubblica residenziale “pura” (non convenzionata) pari a 238mila alloggi (vedi Ae 150). Servono case popolari, insomma, ma la “risposta” del modello verticale milanese ha assunto la forma di 10 alloggi di edilizia “convenzionata” compresi nel programma integrato d’intervento di via Confalonieri, dietro al “Bosco”. Una soluzione che non è accessibile a tutti: “In data 17 dicembre 2013 -si legge infatti nel bando redatto da Hines- il Comune di Milano [...] ha approvato il piano finanziario finale fissando in 3.123,48 euro per metro quadrato il prezzo definitivo medio di prima cessione”.
L’equazione “grattacielo-tutela del suolo” lascia perplesso Paolo Pileri, professore di Pianificazione territoriale ambientale del Politecnico di Milano: “In questo momento le proposte di densificazione non sono ancora in grado di ‘spegnere’ i consumi di suolo che avvengono sui margini dei contesti urbani. Come Dipartimento -prosegue Pileri- ci siamo occupati di 15 Comuni della Brianza, e di parte dell’area metropoliana, accorgendoci che le aree edificabili previste nei piani di governo del territorio, che dipendono dalle previsioni insediative, sono completamente assorbibili già dalle cubature, dai volumi e dalle case che oggi sono sul mercato. La questione centrale quindi è la rigenerazione della città esistente, senza alcuna previsione di nuova volumetria, che andrebbe altrimenti a bloccare quel capitale già immobilizzato”.
Come fosse un derby dell’altezza, allo sviluppo milanese ha risposto anche Torino. Il 20 gennaio 2015 è stato infatti inaugurato il grattacielo di proprietà di Intesa Sanpaolo -che così ha risposto iconicamente a Unicredit-, progettato da Renzo Piano, costato 500 milioni di euro, sorto su un’area che fu delle Ferrovie dello Stato e alto 167,3 metri, poco meno della Mole Antonelliana. Chiamato, in teoria, ad accogliere gli uffici direzionali dell’istituto, l’edificio di Piano “ha interrotto il rapporto visuale e simbolico tra la città e le montagne -è l’opinione di Guido Montanari, che insegna Storia dell’architettura al Politecnico di Torino ed è stato tra le anime del comitato civico No Grat che dal 2005 ha contestato l’operazione immobiliare-. Il grattacielo non è un’innovazione tecnologica, specie se confrontato con la Mole, che è la più alta costruzione in laterizio mai fatta al mondo, sulla quale è andato a incidere”. Convinta del contrario, Intesa Sanpaolo ha deciso di “condividere” il patrimonio scientifico messo da parte in materia di edifici alti, finanziando per l’anno accademico 2013-2014 un master di secondo livello in “Progettazione e costruzione di edifici di grande altezza” del Politecnico di Torino. Il noto architetto Vittorio Gregotti, che nel 1995 disegnò il piano regolatore di Torino, sorride all’ipotesi di un conflitto d’interessi: “Intesa, avendolo commesso, ha interesse a far sì che il ‘peccato’ non diventi più tale ma una condizione condivisa”. Nel comitato scientifico del corso, oltre al “padre” del grattacielo Renzo Piano, sedeva anche il professor Andrea Rolando, del Dipartimento di architettura e studi urbani del Politecnico di Milano, che difende l’iniziativa didattica di Intesa: “La banca attraverso il master ha sicuramente raggiunto un obiettivo in termini di creazione di consenso -riconosce Rolando-, ma l’ha fatto perché fosse un’occasione per alcuni giovani per capire come questo edificio era realizzato e per far sì che venisse disseminata questa conoscenza, divenendo patrimonio di un’istituzione come il Politecnico”. Al centro direzionale di Intesa si affiancherà il nuovo palazzo della Regione Piemonte, ben più alto della Mole (209 metri) e progettato dall’architetto Massimiliano Fuksas.
A Venezia sembra del tutto tramontata l’ipotesi del grattacielo dello stilista Pierre Cardin (Palais Lumiére), che avrebbe dovuto puntare i piedi del suo robusto corpo alto 250 metri nell’area ex industriale di Marghera.
Il viaggio del “modello verticale” riporta a Milano, nello studio dell’architetto Jacopo Muzio, nei pressi dell’Arco della pace. Da una finestra si intravvede la Torre di proprietà di Allianz (207 metri), bandiera dell’operazione immobiliare “City-Life”, a Nord-ovest della città. Dovrebbe chiamarsi “il dritto” ma qui è amichevolmente detta il “materasso”.
“Il modello economico del grattacielo - ragiona Muzio - è quello del maggior sfruttamento possibile dell’area a disposizione, e cioè la massimizzazione del profitto. I prezzi al metro quadro, inoltre, creano il cosidettto fenomeno di ‘gentrificazione’, che avviene quando, mettendo sul mercato appartamenti che hanno una soglia accessibile solamente dal 5% della popolazione cittadina, si fa in modo che tutti gli altri siano portati a cercare casa altrove”. Il contrario del modello di città “come spazio di dialogo e non come fulcro gerarchizzato” che ha in mente Salvatore Settis.
Accanto a uno dei computer nello studio di Muzio c’è una fotografia incorniciata. Ritrae la “resistente” casa verde di via Bellani, rimasta alla base del nuovo palazzo della Regione Lombardia (161,3 metri), sorto su un vero bosco, posto accanto a via Melchiorre Gioia. I raggi del sole riflessi dalle vetrate a doppia pelle del grattacielo voluto fortemente dall’ex governatore Roberto Formigoni ne surriscaldavano le pareti, portando a fusione le tapparelle. Era arrivata la modernità.
Breve storia del rapporto di amore-odio fra una città e i suoi canali, nati in un contesto che era diventato irriconoscibile con la crescita e le trasformazioni. Ma è impossibile davvero tornare indietro. Corriere della Sera Milano, 15 febbraio 2015, postilla (f.b.)
Amati (da Stendhal) e odiati (dal Manzoni). Chiusi per salute pubblica con la «tombinatura» ordinata da Mussolini che innescò reazioni di giubilo (ma anche di critica) in città. Quei Navigli «pericolo sociale per l’attrazione esercitata sui deboli e sui vinti di una grande metropoli, i suicidi», quei Navigli «pericolo pubblico nelle notti invernali, nebbiose, per uomini e vecchi che vi possono precipitare».
Far rivivere il Naviglio di Milano, ovvero scoperchiare quel lungo tratto di «fossa interna» che dal Ponte delle Gabelle e da via San Marco, attraverso via Fatebenefratelli, raggiunge piazza Cavour e via Senato, e poi lungo la circonvallazione interna, arriva in via De Amicis e fino alla Darsena, per ricongiungersi con i grandi canali. Sarebbe come dar corpo a un sogno, anche ai sogni della letteratura, che ha cantato i Navigli attraverso le pagine di Stendhal e di Bacchelli o anche li ha detestati, come il più milanese (e il più italiano) di tutti gli scrittori moderni, Alessandro Manzoni, che in un epigramma antologizzato in un volume a cura di Franco Brevini si era così lamentato di quelle «fogne a cielo aperto»: «Del sole il puro raggio / rotto dall’onda impura / sulle vetuste mura / gibigianando va». In epoca di espansione (e speculazione) edilizia quel romantico canale che soprattutto nei periodi di secca e di caldo portava olezzi e sporcizia non piaceva più alla parte più illuminata della città. Tanto che un altro grande spirito milanese, il riformista socialista Filippo Turati, cantava ironicamente sempre in versi il tombone, anzi il Tumbùn, di San Marco: «Sul gorgo viscido / chiazzato e putrido / sghignazza un cinico raggio di sol… carmami squallidi di vecchi, macabre / parvenze, ruderi / d’umanità». Turati alludeva ai troppi suicidi che la cronaca registrava proprio in quel cantone, all’angolo con il complesso industriale del Corriere della sera di via Solferino.
Fu così che i giornali del 1929 (certo all’epoca non c’era grande libertà di critica) accolsero con articoli di giubilo la decisione del Comune di chiudere la «fossa interna»: «Il Naviglio è un pericolo sociale per l’attrazione esercitata sui deboli e sui vinti di una grande metropoli, i suicidi. È un pericolo pubblico nelle notti invernali, nebbiose, per uomini e vecchi che vi possono precipitare. Del resto nella nuova vita italiana voluta dal fascismo le ragioni di affermazione e miglioramento della razza debbono avere il sopravvento su ogni altra considerazione…». Per un paradosso la chiusura del Naviglio interno mise d’accordo un positivista come Turati, che fu costretto dal regime a fuggire in Francia, con l’irregimentato clinico Baldo Rossi che sul Popolo d’Italia , giornale di Benito Mussolini, plaudì in latino all’impresa: «Salus publica, suprema lex».
Non mancavano comunque voci di dissenso: la protesta del sovrintendente alle belle arti Ettore Modigliani, anche a nome degli «Amici del Naviglio» durò il tempo della breve udienza concessa dal podestà Giuseppe Capitani d’Arzago. Un diktat del ministero mise tutto a tacere. Così in lunghi articoli, per esempio sul Corriere del 19 agosto 1929, si potevano leggere elogi della «città che si rinnova»: «i vecchi milanesi possono testimoniare quanto opportuna sia stata l’opera del piccone»… «c’è una poesia dei ricordi ma ce n’è anche un’altra a saperla intendere, quella del lavoro che si afferma, del vecchio che non sempre scompare, perché spesso si tramuta migliorandosi. E sopra tutto c’è quella della nuova luce, della maggiore aria dell’accresciuta difesa igienica, che le esigenze di una grande città impongono a un certo momento della loro vita, inderogabilmente».
Per esprimere il proprio dissenso l’architetto Luca Beltrami, autore del restauro del Castello Sforzesco, nonché padre della sede del Corriere , dovette chiedere l’ospitalità del fiorentino «Marzocco». La copertura della «fossa interna» costò 27 milioni di lire, oltre ai 20 milioni necessari per realizzare un nuovo canale di scolo. La copertura del Naviglio non resse a lungo all’usura del tempo se già negli anni 60 cominciarono a comparire delle pericolose crepe. Così il Corriere sulle pagine milanesi del 16 settembre poteva annunciare: «La fossa dei navigli sarà riempita di terra con una spesa di 800 milioni». E in una foto pubblicata il 10 febbraio 1968 si vedevano il sindaco Aldo Aniasi e l’ingegnere capo del Comune Antonio Columbo in visita al cantiere sotterraneo. Intanto sempre per motivazioni igieniche e per incompatibilità con la nuova vita di Milano, nel 1963 era stato deciso di chiudere la Darsena («non fa respirare per 40 giorni»), considerata per tonnellaggio delle merci il «sesto porto d’Italia», scriveva l’edizione milanese dell’ Avanti! del 25 luglio.
Le esigenze del traffico erano diventate più urgenti di quelle igieniche, così il 16 ottobre 1970 il Corriere annunciò la scomparsa del Ponte delle Gabelle per collegare con una sopraelevata via Melchiorre Gioia. Addio alle chiuse progettate da Leonardo da Vinci, non restavano che i ricordi letterari come quello spiritoso di Giuseppe Marotta che in «A Milano non fa freddo» si chiedeva: «Batto col piede sull’asfalto di via Francesco Sforza e dico: vecchio Naviglio, ma ci sei davvero qui sotto?». O le rievocazioni di giornalisti cultori della memoria come Leonardo Vergani e Gaetano Afeltra, che in splendidi articoli (da antologia) ricordavano l’ultimo barcone che il 15 marzo 1929 scaricò i rotoli di carta per la stampa del Corriere al Tombone di San Marco e poi «svoltò definitivamente dalla cerchia verso la conca di Viarenna».
postilla
In una breve rassegna degli atteggiamenti cittadini nei confronti dei Navigli ovviamente non poteva starci tutto, ma forse oggi ha più senso citare l'avversione di un conservazionista come Luca Beltrami (l'inventore del Castello Sforzesco “falso antico filologico” che conosciamo oggi) per la tombatura dei canali, e tralasciare invece tutta la serie di progetti ingegneristici accumulata in era industriale, e che in buona sostanza anticipavano l'intervento di trasformazione degli anni '30. Per capire meglio quella copertura, forse per un urbanista sarebbe utile soffermarsi ad esempio sulle pagine di “Ciò Per Amor”, il piano vincitore del concorso 1926-27, firmato da Piero Portaluppi e Marco Semenza, che anticipa di fatto l'idea di città integrata dalle strade e dai veicoli privati dei decenni successivi. Non c'è spazio, in quello schema o nei successivi, per una barriera come quell'anello, scavalcato solo nelle strozzature dei ponti, e che cinge la zona storica dai valori immobiliari più elevati, quella su cui si concentrano gli appetiti anche dei progettisti, e basta farsi una passeggiata per contare gli interventi degli architetti famosi uno accanto all'altro, su una sponda o l'altra dell'ex Cerchia dei Navigli. E tutte queste trasformazioni trovano senso esattamente nel contesto a cui si riferisce quella tombatura, e che dipende dalle medesime evoluzioni recepite dai piani regolatori. Esattamente come nel XIX secolo si pensava di sostituire alle acque un tunnel o un percorso tranviario in trincea, proprio nell'epoca in cui la città si costruiva sulle linee di forza dei binari di mobilità locale o regionale. Insomma, se si volesse davvero scoperchiare la fossa dei Navigli tutto attorno al centro storico, forse invece di guardarsi indietro sospirando, e sognando sciocchi revival antistorici (che lasciamo volentieri alle cartoline o alle rubriche di qualche pubblicazione da anticamera) si dovrebbe prima riflettere sull'idea di città, mobilità, relazioni. Perché agire per comparti non avvantaggia nessuno, e infatti non è mai accaduto, un motivo ci sarà pure (f.b.)