Galleria sotto vetro per almeno sette mesi. Dopo anni di annunci partiranno mercoledì prossimo i lavori per il restauro della pavimentazione del Salotto. Ma i milanesi e i turisti potranno seguire tutte le fasi di lavorazione perché si procederà per sezioni e le singole aree d’intervento saranno delimitate di volta in volta da protezioni verticali trasparenti e da passerelle orizzontali sempre in plexiglass. Il tutto, promette il Comune, si svolgerà senza penalizzare i commercianti (dovrebbe essere garantita quasi sempre la possibilità di mantenere i tavolini all’esterno) e il passeggio. «Compatibilmente con la tempistica richiesta dalle diverse fasi di lavorazione — si legge nella relazione tecnica degli architetti Silvia Volpi e Pasquale Mariani Orlandi — l’intervento sarà eseguito senza danneggiare il normale svolgimento delle attività commerciali» .
Per velocizzare il più possibile i tempi dell’intervento (che comincerà mercoledì con le campionature) in alcune aree, per esempio sul passaggio centrale e all’Ottagono, si lavorerà giorno e notte. E il cantiere partirà in contemporanea lungo i bracci lato piazza Duomo e lato Scala. Finito questo intervento toccherà al tratto su Ugo Foscolo e a quello verso Silvio Pellico. Restaurati anche i bracci laterali sarà quindi la volta dell’Ottagono e dei portici settentrionali di piazza Duomo. In coda i portici meridionali. Obiettivo: restituire alla città la Galleria scintillante entro 210 giorni. Per l’intervento, di cui si parla da anni, Palazzo Marino ha previsto una spesa di 1.970.000 euro. Soddisfatto del traguardo raggiunto l’assessore alle Infrastrutture e ai Lavori Pubblici, Bruno Simini: «Siamo intervenuti e stiamo intervenendo in molti ambiti in cui i milanesi vivono— sottolinea —.
Ora è il momento di occuparsi anche dello spazio per eccellenza in cui i milanesi "ospitano"i cittadini di tutto il mondo. Un luogo emblematico della città che finalmente tornerà a brillare» . La pavimentazione del Salotto di Milano verrà ripulita con mole, spazzole e saponi, per poi essere rinforzata e stuccata nei punti più malridotti. Le tessere del mosaico ormai irrecuperabili saranno sostituite e al termine del restyling sono previste ben quattro levigature, oltre alla lucidatura finale e al passaggio con olio e prodotti idrorepellenti. Anche i lucernari centrali verranno rimessi a nuovo. Scrivono ancora gli architetti nella relazione: «L’intervento sarà volto alla conservazione dei materiali e delle tracce storiche che su di esse il tempo ha impresso non trascurando la sicurezza e l’incolumità degli utenti» .
Per tutto il cantiere si farà base in via Ugo Foscolo. Il restauro della pavimentazione non è però che un aspetto della nuova vita immaginata dal Comune per la Galleria. Il progetto di Palazzo Marino punta verso uno sviluppo anche verticale, cioè sui piani superiori, e per arrivarci la giunta ha già approvato alcune delibere di indirizzo. La prima ristrutturazione sarà quella dell’ala che guarda su via Foscolo, per una superficie lorda di circa 5 mila metri quadrati: da McDonald’s (al fast food non verrà rinnovato il contratto d’affitto) ai palazzi in parte ancora abitati. Verso questo obiettivo si procede a piccoli passi, uniformando le scadenze d’affitto. Ieri la giunta comunale ha messo un altro tassello, approvando una delibera relativa a un immobile di via Silvio Pellico con destinazione commerciale, rinnovando la concessione con un nuovo canone, allo scopo di rendere più redditivi gli spazi.
Milano è una Metropoli che supera di gran lunga il suo perimetro amministrativo. È il motore della regione urbana con la più alta produttività in Italia: in un’area che unisce diversi territori provinciali, si concentra il 14%della popolazione italiana e quasi il 20%del prodotto interno lordo del Paese. Chi lavora o studia a Milano— nella parte più densamente abitata e connessa dell’intera regione urbana — sa bene che a fronte di non pochi svantaggi, inquinamento e traffico in testa, esistono convincenti opportunità di lavoro. Al punto da spingere molti italiani e immigrati a cercar casa dentro o attorno ai suoi confini.
Milano è una di quelle città a cui le grandi trasformazioni in atto— globalizzazione e nuove tecnologie che creano e distruggono posti di lavoro — assegnano una responsabilità importante: ricavare il massimo beneficio dalla vicinanza fisica tra le persone. Come spiega bene Edward Glaeser nel suo recente libro «The Triumph of the City» , l’uomo è una specie sociale: apprendiamo e mettiamo a frutto ciò che impariamo grazie al poter vivere e lavorare «vicino» a persone che hanno talento, qualità, competenze. Glaeser è un economista e sostiene con forza la tesi dei vantaggi dell’ «agglomerazione» : le imprese e gli individui sono più produttivi quando scelgono di stare vicini in aree molto dense.
È questa prossimità fisica che rende più facile la circolazione delle idee e la nascita delle scoperte e delle innovazioni. Negli Stati Uniti il 18%del prodotto nazionale viene dalle tre maggiori aree metropolitane. Saranno le grandi città, e Milano in Italia, a trainare il resto dell’economia fuori dalla recessione? Per interpretare bene questo ruolo, le grandi città e i loro amministratori hanno di fronte due sfide importanti: aumentare la densità con un’offerta di buone abitazioni a basso costo— senza perdere di vista il complesso equilibrio con la bellezza architettonica e la qualità della vita in comune — e prestare una attenzione smisurata alla qualità della scuola e del sistema universitario locale: è qui che nasce quel capitale umano che rende poi così attraente il processo di apprendimento dagli altri attorno a noi.
Due sfide che a Milano si materializzano da una parte nelle scelte sull’urbanistica e sullo sviluppo economico locale— pensiamo al modo non scontato in cui verrà applicato o rivisto il piano di governo del territorio approvato dalla giunta comunale — e dall’altra nelle scelte su come rilanciare il sistema dell’istruzione— pensiamo al ruolo della scuola pubblica o agli investimenti delle Università locali nella ricerca. Si tratta di terreni importanti su cui misurare le idee dei candidati sindaci alle amministrative del 15 maggio. Non dobbiamo aver paura di una Milano più densamente abitata, ma di una città che non sa più trasformare le forze dell’agglomerazione, lo stare vicini, in una crescita della produttività, della qualità dell’istruzione e delle opportunità che essa sa offrire.
Ha ragione, il professor Giovanni Padula, soprattutto in due punti del suo articolo: quando all’inizio ci ricorda come “Milano è una Metropoli che supera di gran lunga il suo perimetro amministrativo”, e poi quando verso la metà del pezzo osserva che Edward Glaeser è un economista. Si può partire da qui, e prendere per comodità ad esempio il capitolo del citato Triumph of the City proposto qualche mese fa sulle pagine di Mall: Il grattacielo salvezza della città. dove il pur colto professore di Harvard discettando qui e là sul tema delle densità urbane, dalla Chicago di fine ‘800, attraverso la classica Manhattan fino alle megalopoli asiatiche di oggi, dimostra orgogliosamente di ignorare qualunque atomo di disciplina urbanistica, perché ostacola inutilmente il libero dispiegarsi del sacro ciclo domanda-offerta. Il che andrebbe benissimo se poi non pretendesse appunto (è il senso del libro) di esprimere giudizi generali sulla città dai sumeri alle archistar del terzo millennio.
Ad esempio sviluppando interi paragrafi sulle meraviglie della domanda e offerta in rapporto alle densità, col calo dei prezzi, ma senza curarsi di distinguere fra destinazioni residenziali, terziarie, spazi pieni, spazi vuoti, insomma senza curarsi di distinguere fra una città e una operazione finanziaria: del resto, a lui la città interessa proprio ed esclusivamente da quel punto di vista.
E basta leggere il capitolo di Triumph of the City dedicato a Milano (e relativi riferimenti bibliografici) per rendersi conto che Glaeser esprime giudizi globali secondo un criterio a dir poco induttivo: lunghi cicli storici di sviluppo, letti prevalentemente se non esclusivamente nella prospettiva dei vincitori, nel caso specifico operatori finanziari, della moda, del design. Non certo degli abitanti, e neppure di tutti gli operatori economici che da lì se ne sono scappati a gambe levate da lunga pezza. E arriviamo alla questione urbanistica.
Milano, anche la Milano di Glaeser e Padula, è una regione metropolitana: come hanno osservato fino alla noia TUTTI gli osservatori della pianificazione territoriale e urbanistica recente (ovvero dagli anni ’80 della contrattazione privatistica al Pgt attuale) spicca fra le enormi lacune proprio lo stare chiusi a chiave dentro i confini comunali, salvo varie chiacchiere e distintivi: dalla “T rovesciata” della Grande Milano subappaltata ai grandi operatori, ai quasi involontariamente umoristici primi paragrafi del nuovo Documento di Piano , dove spicca fra i riferimenti teorici l’inconsistente modello della “città infinita”, elaborato su commissione da gente che di territorio non ne capisce nulla, e solo per vendere ai gonzi l’ennesima autostrada.
In definitiva: che ci azzecca l’urbanistica, il Pgt, con il bacino socioeconomico metropolitano e la città postmoderna, delle economie della conoscenza, cantata da Glaeser? Questo il professor Padula non ce lo spiega, a meno che tutto non trovi poi la sua bella ricomposizione nelle varie cittadelle della ricerca finanziate dagli speculatori su aree libere, che però dentro al Piano diventano “zero consumo di nuovo suolo”. Non vorremmo che economia della conoscenza sia economizzare appunto sulle cose che si vogliono sapere (f.b.)
Settimane cruciali per il futuro di Milano come capitale europea della ricerca e delle cure mediche. In gioco c’è la costruzione dei due mega poli scientifici previsti, inizialmente, entro l’Expo 2015, con investimenti da capogiro. Progetti ambiziosi, studiati per rafforzare il primato sanitario della Lombardia. Uno è il Centro europeo di ricerca biomedica avanzata (Cerba), voluto dallo scienziato Umberto Veronesi e destinato a sorgere su terreni del Parco Sud messi a disposizione dal costruttore Salvatore Ligresti. L’altro è la Città della Salute: sponsorizzato dal Pirellone, il progetto prevede il trasferimento dell’Istituto dei tumori e del neurologico Besta nelle aree a nord-ovest di Milano di fianco all’ospedale Sacco. Realizzarli entrambi oggi sembra un’impresa titanica. La crisi economica impone spese sempre più oculate.
Uno dei due, allora, è di troppo? È la domanda che circola anche al Pirellone, pronto a rivedere, se necessario, programmi e strategie. La questione si pone per i criteri di scelta che la Regione da sempre dichiara di seguire: la razionalizzazione delle risorse economiche e l’esaltazione della ricerca scientifica. Obiettivi che adesso rischiano di rivelarsi incompatibili con la nascita di due colossi sanitari simili. È il derby degli ospedali di Milano La partita è da miliardi di euro. Per il Cerba sono necessari un miliardo e 226 milioni, finanziati interamente da privati. Per la Città della Salute non bastano 520 milioni, di cui 228 messi dalla Regione, 40 dallo Stato e i 250 rimanenti da coprire con il project financing.
È la formula di finanziamento che prevede l’investimento di privati che recupereranno i soldi con la gestione dei servizi (come posteggi, mense e pulizie) e, soprattutto, con un canone di disponibilità a carico del Pirellone. Conti superati. Le ultime stime fanno lievitare la cifra a 680 milioni. I business plan del Cerba risalgono al 2004. L’idea dell’unione del Sacco con l’Istituto dei Tumori e il Besta prende forma nel 2006. Ma, da allora, sono cambiate molte cose. Una imprevista doccia fredda per il Pirellone arriva con i tagli del ministro dell’Economia Giulio Tremonti nella seconda metà del 2008: il governo toglie dal decreto fiscale i fondi Inail per la ricerca, con il conseguente blocco di un finanziamento da 380 milioni destinato alla Città della Salute.
È solo l’inizio. I ritardi nella tabella di marcia del Cerba finiscono col fare sovrapporre la sua realizzazione con quella del polo scientifico di Vialba, con il rischio di doversi contendere gli investitori di peso. Il tutto mentre il Pirellone deve fronteggiare altri tagli: dal 31 maggio 2010 sono fermi, sempre al ministero dell’Economia, quasi 500 milioni di euro destinati a 85 interventi di edilizia sanitaria. Ancora. Per la Regione si apre anche un nuovo fronte di investimenti con il salvataggio del centro di ricerche di Nerviano, che già nell’aprile 2009 aveva reso necessario un rifinanziamento di 30 milioni da parte di UniCredit (a fronte di garanzie patrimoniali).
E il San Raffaele, sommerso da un debito di 900 milioni di euro, complica ulteriormente gli scenari. Di qui i dubbi sull’opportunità di realizzare (subito) entrambi i poli scientifici: del resto, già in un documento presentato il 28 giugno 2004 durante un incontro in Mediobanca, il neurologico Besta era destinato ad annettersi al Cerba. Immaginare un esperimento di convivenza tra pubblico e privato, con la realizzazione di un’unica Città della Salute non è dunque un’ipotesi campata per aria. Ma, eventualmente, dove sarà? I dubbi si rincorrono soprattutto dopo l’ultimo via libera di Palazzo Marino, venerdì scorso, al Cerba. Ora suoi cantieri possono iniziare. Bisogna decidere il da farsi. E il tempo stringe.
Estratto da: Comune di Milano, PII Cerba, Relazione Tecnica Illustrativa, gennaio 2011, pp. 14-15)
Sulla base del Piano Regolatore Generale del Comune di Milano vigente (approvato il 26 febbraio 1980 e successive modifiche) l’ambito considerato risultava compreso in parte in Zona Omogenea F/E – aree a destinazione d’uso SI_VI con attività agricole adiacenti alla Zona di espansione residenziale C.14.11, la via Ripamonti, la Zona Omogenea B2 14.9 e le rogge Cascina Ambrosiana e Barbara, con destinazione funzionale VA – aree comprese nei parchi pubblici e territoriali, destinate alla formazione di parchi pubblici (art. 41 delle NTA) e in esse è consentito l’esercizio dell’attività agricola, sempreché non contrasti con specifici usi pubblici del piano particolareggiato del Parco per le singole aree. Le aree rimanenti ricadono in parte in Zona omogenea B1 (aree a ridosso delle Zone di espansione residenziale C 14.11 e C 14.9) con destinazione funzionale a VC – zone per spazi pubblici a parco, per il gioco e lo sport a livello comunale, di cui rispettivamente agli artt. 17 (comma 1.2), 19 e 38 delle medesime NTA. A conclusione sono riconoscibili le indicazioni grafiche di percorsi ciclopedonali lungo il fontanile Tua (dismesso) e la roggia Inferno (anche Cavo Danese).
La pubblicazione dell’Accordo di Programma ha prodotto l’efficacia dello stralcio a Piano di Cintura Urbana e poiché sono state introdotte nuove funzioni rispetto a quelle di cui all’allegato A del PTC del Parco Agricolo Sud Milano, la Giunta Regionale con delibera n. 9311 del 22 aprile 2009 ha approvato lo stralcio al parco di Cintura Urbana con effetto di Variante al PTC di Parco Sud Milano e di PRG.
La variante costituisce pertanto un adeguamento della strumentazione urbanistica sia di livello comunale che di livello sovracomunale e permette al soggetto giuridico di legittimare la comune volontà degli enti coinvolti nell’Accordo di Programma al raggiungimento dei seguenti obiettivi:
- migliorare l’offerta sanitaria e lo sviluppo dell’attività di ricerca;
- aumentare l’efficienza/riduzione dei costi grazie alla condivisione di servizi clinici, tecnologici, di supporto alla ricerca;
- creare un programma di formazione universitaria su modelli già diffusi all’estero;
- beneficiare dell’interazione tra ricercatori attivi operanti all’interno di uno stesso centro con aree contigue con la possibilità di usufruire di una comune piattaforma tecnologica all’avanguardia e di confronto diretto tra casi clinici in aree terapeutiche diverse;
- migliorare l’interazione diretta con la ricerca, perseguendo protocolli di cura all’avanguardia;
- dare la possibilità di beneficiare di terapie innovative personalizzate secondo le caratteristiche genetiche.
[…] Pertanto la variante al PRG destina l’intera area a zona SI-H e cioè zona per attrezzature pubbliche di interesse generale di livello intercomunale di carattere ospedaliero.
Corriere della Sera ed. Milano, 16 aprile 2011
Via libera al Cerba: cantiere aperto entro l’estate
Ultimo atto in Comune, entro l’estate via ai lavori per il Cerba. La giunta ha approvato ieri il programma integrato di intervento del Polo della scienza e della salute che nascerà a sud della città. I cantieri per la realizzazione del Centro europeo di ricerca biomedica avanzata potrebbero partire già a luglio, al più tardi a settembre. «— e un progetto eccezionale per la città e per il sistema sanitario a livello nazionale— commenta l’assessore allo Sviluppo del Territorio, Carlo Masseroli— Tra l’altro è un progetto assolutamente bipartisan, anche perché il progettista scelto dal gruppo Ligresti è l’attuale capolista del Pd, Stefano Boeri» .
Il costo dell’intervento, che riguarda appunto un’area del costruttore Salvatore Ligresti, è di un miliardo e 226 milioni. L’area interessata, limitrofa all’Istituto Europeo di Oncologia, è di 620 mila metri quadrati, oltre la metà dei quali diventeranno un parco pubblico. Nel dettaglio il piano approvato prevede un minimo di 263 mila metri quadri per istituti clinici, di ricerca, laboratori di analisi, edifici universitari e di formazione professionale; un massimo di 7000 metri quadrati per attività commerciali e un massimo di 40 mila metri quadrati per residenze temporanee. Per quanto riguarda il Centro, sono previsti 45 mila ricoveri all’anno, 800 mila visite ambulatoriali, un accesso di 19 mila persone al giorno e 5 mila operatori, con la garanzia di nuovi posti di lavoro e di un indotto economico sulla città e non solo. Sul fronte ricerca, il Cerba ha l’ambizione di dare spazio a 500 scienziati.
Nota: tra le cose curiose di questo inopportuno office park suburbano a orientamento automobilistico, il numero dei posti macchina, 6.200, esattamente uno ogni mille metri quadrati di superficie complessiva; molto di quanto si poteva dire a proposito dell'inadeguatezza dell'operazione "bi-partisan" l'abbiamo scritto parecchio tempo fa; qui anche un' antologia di opinioni varie; scaricabile di seguito la carta con l'intera area e le destinazioni del PII (f.b.)
Molti hanno già provato l’ebbrezza di sciare in città, ma soltanto durante le vacanze di Natale, nel "villaggio" che il Comune da anni allestisce al Sempione. Ma d’ora in poi, si potrà cimentarsi con la discesa su materiale sintetico tutto l’anno. Estate compresa. E, magari, muovere proprio a Milano i primi passi con gli sci ai piedi. Perché Palazzo Marino vuole creare una struttura permanente dedicata agli sport invernali, che sfrutterà una pendenza naturale del Parco Lambro: un pendio che si trova vicino all’ingresso di via Feltre. È qui che nascerà un "villaggio" con tanto di scuola di sci aperta tutta la settimana e una baita in stile montano per il ristoro. Solo il primo punto, però, di un progetto più vasto per trasformare gli spazi verdi in «palestre a cielo aperte» dedicate a diversi sport: dalla mountain bike all’arrampicata.
È stata la giunta comunale di ieri ad approvare il bando di gara (che rimarrà aperto 45 giorni) che servirà a trovare l’associazione che si occuperà dell’allestimento della pista. Con i lavori per la costruzione che dovrebbero già partire nei prossimi mesi. Non prima, però, che la struttura abbia avuto tutte le autorizzazioni necessarie. Compresa quella paesaggistica. In tutto, verrà concesso l’utilizzo di uno spazio di circa 4mila metri quadrati perché venga attrezzato. Sulla pista si potrà sciare, scendere utilizzando lo snow board e anche speciali gommoni. Nelle linee di indirizzo del bando (che prevedono offerte al rialzo), non c’è un tempo preciso di concessione.
Il Comune, però, vuole rendere la struttura permanente e chi si offrirà di fare l’investimento (calcolato in più di 500mila euro), potrà avere lo spazio in affidamento fino a 19 anni. Tra i requisiti richiesti dall’amministrazione necessari anche per decretare «l’interesse pubblico» dell’iniziativa: il vincitore dovrà garantire corsi a prezzi agevolati per determinate categorie "sociali", organizzare attività con le scuole e campus estivi. «Questo è anche un modo per far vivere di più i parchi - dice l’assessore allo Sport uscente Alan Rizzi - e garantire un presidio del territorio».
Il secondo passo per attrezzare i parchi con strutture sportive, sarà trasformare la montagnetta di San Siro. Il Comune sta cercando infatti lo sponsor per creare una pista dedicata alla mountain bike. E si spera di riuscire a trovarlo nelle prossime settimane, prima della fine del mandato.
«In progetto - spiega ancora Rizzi - c’è anche un percorso estivo per i runner e, d’inverno, potrebbero essere organizzati anche sul Monte Stella sport invernali».
probabilmente le opposizioni più decise a questo genere di cretinata (perché di cretinata allo stato puro si tratta) verranno da chi ha una idea poetica e un po’ veterorurale del verde, del bel tempo andato delle cascine e compagnia bella. Per quanto mi riguarda, sono assolutamente convinto che la città debba fare la città, con le mille luci e tutto il resto, lasciando certe atmosfere alla campagna, quella vera intendo, che a Milano comincia a malapena nella seconda cintura metropolitana. Ma mantenendo al proprio interno tutti gli elementi di qualità abitativa che da sempre ne fanno un grande elemento di attrazione non solo per speculare, ma anche per vivere: fra questi elementi di qualità c’è il verde dei parchi urbani, che come capisce qualunque idiota purché in buona fede sono altra cosa rispetto ai luna park e dintorni.
Per i parchi divertimenti ci sono tante localizzazioni che la postmodernità ci mette a disposizione, ad esempio le superfici dismesse, magari nell’arco di tempo in cui si pensa a cosa farne e/o si aspettano gli investimenti dei soliti salvatori della patria. Così invece dei cantieri eterni, inaugurati con taglio di nastro e poi lasciati alle erbacce per lustri, ci sarebbero dei begli impianti stile Dubai per sciare d’estate o fare windsurf in mutande a Natale. Ma che questa roba debba stare sopra i pochi prati che rendono la vita degna di essere vissuta anche in periferia (e senza la seconda casa al mare o in montagna) proprio NO. In termini tecnici queste cose si chiamano cazzate. In termini politici speculazione e circoscrizione di incapace, ovvero trattare il cittadino elettore come una falena, attirata dalle luci e poi folgorata … strappandogli da sotto il sedere il poco che aveva. (f.b.)
Qualche breve richiamo alle vicende urbanistiche milanesi del passato per chiarire in quale contesto si inserisce il nuovo PGT.
Il nuovo PGT sostituisce il PRG adottato nel 1976 e approvato nel 1980, che a sua volta sostituiva quello del 1953, modificato nel corso degli anni da numerose varianti e violazioni. Si trattava di un piano allineato, sia pure tardivamente con i principi riformisti degli anni 70: le aree urbane intercluse ancora libere destinate a verde e a servizi, nuove espansioni molto limitate, e addirittura un eccesso tardo industrialista: confermate in blocco tutte le aree industriali, le grandi e persino le piccole e addirittura le piccolissime. Il grimaldello delle osservazioni accolte eliminerà questa civetteria con una normetta che consente la trasformazione terziaria delle aree industriali. Erga omnes e casualmente, senza riferimenti alle prospettive del singolo impianto produttivo o allo specifico contesto urbanistico. Il processo di trasformazione delle aree industriali si avvia dunque, con buona pace del piano tardo operaista, nel più casuale ordine sparso.
Il PRG del 1980 vive quattro anni.
Nel 1984 Milano, avendo ottenuto di usufruire della quasi totalità degli investimenti regionali per i trasporti per potenziare il proprio sistema del ferro, radiocentrico e passante (raddoppi, triplicazioni o quadruplicamenti delle radiali ferroviarie prossime, passante ferroviario urbano e linea 3 della MM, transitante, come la linea 1, per piazza Duomo) annuncia, tramite un testo privo di valore formale, il “Documento direttore del progetto Passante” , l’intenzione non già di sfruttare le nuove infrastrutture per soddisfare il fabbisogno pregresso (un saldo pendolare giornaliero di 260.000 lavoratori) come pudicamente affermato dal Piano regionale dei trasporti, ma, al contrario di volerle utilizzare per accrescere l’attrattività terziaria di Milano. In particolare attraverso la trasformazione urbanistica delle aree lungo il Passante ( Certosa, Bovisa, Farini, Garibaldi Repubblica, Porta Vittoria, Rogoredo, etc ) ma anche di altre aree, come ad esempio l’ex stabilimento Alfa Romeo del Portello destinato all’ampliamento della Fiera. Tutto ciò sarà fatto senza più ricorrere a studi generali di PRG, ma “ a la carte”, grazie a progetti d’area promossi dagli operatori, che il Comune ratificherà mediante singole varianti parziali al PRG. La prima e più grande di queste varianti sarà addirittura fuori dal tracciato del passante e priva di metropolitana e si chiama Pirelli Bicocca. Ma il cavallo non beve quanto si era sperato e così Bicocca, nata e progettata come Tecnocity, polo della ricerca tecnologica, si trasforma in Nettare residenziale di Milano. Insomma, mattone. Seguiranno, più o meno, tutti gli altri progetti, molti dei quali cambieranno forma e natura strada facendo, come ad esempio quello della Fiera, in relazione all’apertura del nuovo polo di Rho Pero, e quello di Isola –Garibaldi –Repubblica, ora noto come Porta Nuova, soprattutto in relazione a discutibili sconfitte amministrativo – giudiziarie della parte pubblica. In pratica molti progetti sono a tuttora incompiuti e molte costruzioni sono invendute. Ordine di grandezza della volumetria convenzionale messa in gioco, oltre 12 milioni di mc. Gestione di questa fase da parte di amministrazioni di sinistra fino a tangentopoli, poi della Lega e infine del centro destra.
Milano non è Roma. Ha solo 1,3 milioni di abitanti ma è il centro di un’area metropolitana di 5,2 milioni di abitanti, composta da più di 400 comuni. E attorno ad essa, soprattutto a nord e ad est non ci sono campi colline e pascoli ma altri grandi sistemi urbani, alcuni addirittura di una dimensione prossima o superiore al milione di abitanti, come Bergamo e Brescia.
Nel 1995 la Provincia di Milano (amministrazione di centro sinistra), preoccupata della condizione di crescente congestione ed inefficienza dell’area, pur in assenza della legge regionale attuativa della legge nazionale 142 del 1990, avvia la formazione del Piano territoriale di coordinamento. Il Piano, presentato nel 1999, è ispirato ad una strategia di policentrismo discontinuo, finalizzato a contenere l’ipertrofia del nucleo centrale, a garantire la tutela delle cinture e dei corridoi verdi fin dentro la città, e a rafforzare le specificità dello sviluppo locale, alimentato dal trasporto pubblico soprattutto su ferro e di superficie, esteso nell’hinterland. Milano esprime con asprezza la propria contrarietà. Il voto riporta al governo della Provincia il centro destra, che subito revoca il piano e ne approva, nel 2003, uno del tutto diverso, totalmente privo di elementi ordinatori e vincolanti. Dopo cinque anni una nuova amministrazione di centro sinistra fallisce nel tentativo di rivedere il piano fantasma del 2003, fino ad un nuova vittoria, nel 2009, del centro destra, che per ora continua a navigare con il “piano” del 2003. Tutto bene dunque: nessuno disturba le ambizioni del comune di Milano.
La Regione del presidente Formigoni fornisce aiuti potenti. Nel 1999 introducendo la super DIA per qualsiasi tipo di intervento, e generalizzando l’uso dei Piani integrati di intervento (PII), di fatto privati, in variante ai piani regolatori - strumento del quale Milano si avvarrà immediatamente e largamente per varare nuovi progetti urbani. Nel 2005 sostituendo il PRG con l’oscura trilogia dei documenti costitutivi del Piano di governo del territorio (PGT), che i comuni si auto approvano. E poi disapplicando il DM 2/4/68. E infine togliendo alla Provincia tutti i poteri, tranne un confuso apporto di copianificazione nella individuazione delle aree agricole strategiche. Il tutto anche grazie alla decisiva, curiosa distrazione di consiglieri dell’opposizione al momento dell’approvazione della legge. Le ambizioni di Milano hanno finalmente di fronte una strada completamente spianata, in barba alle leggi urbanistiche italiane.
Il PGT approvato nel 2011 interviene apparentemente soprattutto sugli ATU - ATPG (ambiti di trasformazione urbana): scali ferroviari e stazioni, caserme, il carcere e altre aree pubbliche e private. Si tratta in tutto di circa 8 milioni di mq di superficie territoriale, che generano diritti edificatori per circa 5 milioni di mq di superficie lorda di pavimento (slp) e sui quali potranno realizzarsi circa 6 milioni di metri quadrati di slp, pari a circa 20 milioni di metri cubi di volume convenzionale. Il volume reale vuoto per pieno sarà più del doppio, circa 48 milioni di metri cubi, come mostrano le statistiche comunali sull’attività edilizia del passato.
Ma questa è, dicevamo, solo l’apparenza. In realtà tutta la città viene sottoposta ad un violento processo di densificazione. Una invenzione normativa molto creativa stabilisce, ad esempio, che tutti i “servizi”, pubblici e privati di qualunque natura non consumano diritti edificatori e che le relative aree generano, come se fossero libere, nuovi diritti edificatori, che possono arrivare fino a 1 mq di slp ogni mq di superficie territoriale. Così come viene attribuito un indice di edificabilità di 0,5 mq per mq di superficie, da sfruttare con il meccanismo del trasferimento dei diritti edificatori, sulle aree private destinate alle nuove previsioni puntuali di verde e infrastrutture di mobilità.
Le aree a servizi sopra indicate sono complessivamente 22,5 milioni di mq e possono generare fino a 22 milioni di mq di nuova slp. Pari a 72,6 milioni di metri cubi convenzionali e dunque a circa 176 milioni di mc vuoto per pieno! In particolare le aree occupate da servizi religiosi potranno non soltanto densificarsi al proprio interno ma anche esportare, secondo il principio della cosiddetta perequazione, diritti edificatori nuovi di pacca su qualsiasi area urbana. Insomma l’Ospedale di Niguarda può costruirsi 313.000 mq di slp residenziale, terziaria o commerciale, mentre il Duomo di Milano genera nuovi diritti edificatori esportabili, residenziali, terziari o commerciali per 10.000 mq di slp. Da non credere.
E ancora, le aree del parco sud sono in una situazione di attesa precaria fino a che una non meglio precisata autorità competente stabilisca se siano aree agricole strategiche oppure se siano invece lasciate libere di salire sulla esilarante giostra della perequazione.
E infine i Pii sono sempre pronti a colpire: per legge regionale gli indici di piano non sono giuridicamente vincolanti, e il Pii li potrà sempre aumentare in qualsiasi misura.
Lo scenario disegnato dal PGT solleva inevitabilmente almeno tre domande fondamentali. Ha un senso economico un piano di questa natura? Come cambierà la qualità della città? Come sarà servita in termini di mobilità?
Il dimensionamento.
Le concessioni edilizie rilasciate a Milano, per tutte le destinazioni d’uso esclusi i servizi, misurate in termini di superficie lorda di pavimento sono state, tra il 2000 e il 2007 mediamente di 390.359 mq/anno. Si tratta, come è ben noto, di un ritmo temporaneamente elevato, a cui hanno fatto seguito quantità molto rilevanti di non finito e soprattutto di non venduto, il che determinerà probabilmente una contrazione dei permessi di costruire negli anni successivi.
I cinque milioni di metri quadri generati dagli ATU-ATPG rappresentano dunque da soli una provvista di aree edificabili sufficiente ad alimentare circa venti anni di domanda. Se a queste aree aggiungiamo i diritti edificatori generati dalle aree a servizi ( 22 milioni i metri quadri di slp ) si raggiungono valori di capacità insediativa ragguagliabili alla produzione edilizia di settant’anni. Il piano non programma dunque attività edilizie in una prospettiva di realismo economico: bensì genera un marea di “future” immobiliari che saranno esigibili solo a lungo o a lunghissimo termine. Tutto questo è spiegabile solo dando per acquisito un rapporto ormai totalmente organico tra amministratori e sistema immobiliare. Quel che non è facile prevedere sono le conseguenze economico finanziarie di questo inedito scenario.
Qualcuno potrebbe sperare in una spontanea riduzione dei prezzi immobiliari. Ma le case realmente in vendita non scendono più che tanto di prezzo, soprattutto a causa degli oneri finanziari accumulati in anni di stand-by all’ufficio vendite. E a causa del sostegno fornito da una politica dei trasporti (sulla quale ci soffermeremo tra poco) che continua ad innalzare il divario tra il livello di servizio nella città e quello nell’hinterland. Di sicuro c’è che cresce la bolla del comparto immobiliare, distraendo sempre più operatori dagli investimenti in altri campi dell’economia meno aleatori e futuribili.
La qualità urbana è la vera vittima sacrificale del PGT. E’ sufficiente dare un’occhiata a volo radente al progetto Porta Nuova, che ha schiacciato con i suoi grattacieli il vecchio romantico quartiere dell’Isola Garibaldi, oppure scattare una fotografia tra le gru e i mastodonti che ancora stanno crescendo per avere l’immediata sensazione fisica di una città che non si piace e non si ama.
I nuovi quartieri inventati dal PGT non saranno da meno. Stephenson, non dispone ancora di un planivolumetrico. Ma basta allineare il cubetti della volumetria convenzionale ( indice volumetrico territoriale convenzionale 9,14 mc/mq, ma probabile indice volumetrico territoriale fisico effettivo, vuoto per pieno più che doppio: 22 metri cubi per mq !) per avere l’immagine della Milano futura voluta dal piano.
Il meccanismo della cosiddetta perequazione consente di prelevare diritti volumetrici dalle periferie e di trasferirli liberamente nelle aree più centrali, di valore molto maggiore. Un centro iperdenso è dunque l’inevitabile e voluto esito del piano.
Le occasioni ultime e irripetibili fornite dalle grandi penetrazioni urbane degli impianti ferroviari vengono bruciate e sacrificate, destinandole in buona misura all’edificazione e a giardinetti poco più che condominiali, invece di sfruttarle come ultima occasione per dotare una città brutta e asfittica di qualche lembo di natura. Cosa potrebbe diventare invece una di queste aree lo possiamo comprendere guardando il progetto di due bravi neolaureati su Farini-Bovisa.
Gli standard urbanistici residenziali che, raggiungendo in passato i 44 mq ogni 100 metri cubi di costruzione avevano regalato a Milano, nella breve stagione del dopo tangentopoli, qualche episodio di trasformazione urbanistica molto civile, oggi si riducono il più delle volte a 12 mq ogni 100 metri cubi, ed anche quel poco può eventualmente essere monetizzato invece che realizzato. Il terziario non ha più alcun obbligo di standard urbanistici, e l’industria nemmeno.
Le sola area considerata dal punto di vista della, sia pur debolissima, tutela del patrimonio storico architettonico è il centro. I nuclei di antica formazione della periferia sono sottovalutati o ignorati.
In qualunque punto del territorio il mix funzionale è a libera scelta del singolo operatore: residenza, terziario, attività produttive, e, come già detto, se si vuole, servizi privati e pubblici senza computarne le superfici. I fabbisogni arretrati, spesso paurosi, di parcheggi, non scalfiscono la libertà privata di gravare con nuovi sovraccarichi in qualsiasi punto della città.
Quote di edilizia sociale, se realizzate, incrementano le possibilità edificatorie private: ma manca qualsiasi definizione dell’edilizia sociale, che può dunque ridursi ad offrire vantaggi economici del tutto marginali, pur consentendo comunque di conseguire l’incremento premiale dell’indice di edificazione privato.
La mobilità.
Il piano è privo di un organico progetto della mobilità, rinviato al futuro piano di settore. La profusione di opere ipotizzate nel PGT non è giustificata da previsioni seriamente fondate sulle risorse disponibili per realizzarle. E’ comunque impressionante l’accrescimento del divario di infrastrutturazione tra città e hinterland. Nell’hinterland qualche rado prolungamento. In città invece quarta e quinta linea di metropolitana, eventuale secondo passante ferroviario da scegliersi tra alternative di tracciato non ancora sciolte e poi 6 nuove cosiddette linee di forza ( presumibilmente altre metropolitane) rigorosamente dentro le mura del municipio. I milanes arius g’han de rangias. Non si ragionava così nemmeno negli anni 60.
Ma visto che le risorse per le metropolitane sono più che incerte meglio tenersi buona la vecchia cara alternativa autostradale a pedaggio, facendola diventare urbana. Un tunnel a pagamento in project financing che collega l’Expo a Linate. La prospettiva certa per la città è più traffico in assoluto, da sommarsi probabilmente alla continuazione del trend storico di peggioramento del taglio modale pubblico/privato. Con l’aria fuori legge per la quale paghiamo salate multe all’Unione Europea.
Abbiamo detto Linate? Ma non era stata la causa del fallimento di Malpensa, hub del nord Italia? Grandissima è la confusione sotto il cielo.
Questo è quel che c’è nel piano. Poi c’è tutto quel manca.
L’hinterland, dove vivono quattro milioni di veri milanesi è completamente ignorato. Anche sotto questo profilo, non si usava così nemmeno negli anni 60 o 70. Allora Milano poteva dedicare uno sguardo benevolo alle periferie popolari che si andavano ingrossando immaginando di avvicinarle ed integrarle e talvolta concedendo anche qualcosa di sostanziale, come una linea metropolitana che arrivava quasi all’Adda. Oggi siamo invece nella torva era della guerra tra municipi per la sopravvivenza e per il potere. I metri cubi sono l’uno e l’altro a condizione di tenerseli stretti dentro i confini, e che i cittadini li sopportino.
Nessun modello territoriale pensato, e la peggiore malformazione territoriale di fatto: la somma esplosiva di super concentrazione al centro e libero sprawl nell’hinterland.
Questo è il Pgt: l’espressione estrema del municipalismo solitario di Milano, postmoderno e neomedievale.
Il piano è appena approvato e non ancora pubblicato. Il piano sarà, spero, confutato giuridicamente, e colgo questa occasione per segnalare fin d’ora a Italia Nostra, che ha avuto il grande merito di sollevare in termini generali, con la forza di questo convegno, il tema della mercificazione della città, l’occasione di confronto culturale, politico e giuridico che penso si aprirà in occasione di questa confutazione. A Milano si vota in maggio e certamente il risultato elettorale potrebbe permettere di tentare di rimettere in discussione l’impostazione del piano, pur con tutte le difficoltà dovute ai diritti acquisiti che non mancheranno certo di essere rivendicati dagli interessati.
Ma il punto vero è che questo piano è il frutto terminale e velenoso della divaricazione crescente tra la geografia reale e quella del potere. Area metropolitana sempre più vasta e sempre meno governata e potere sempre più concentrato e incontrollato dentro la cinta daziaria di Milano. Superare questa contraddizione, divenuta lacerante a Milano ma presente ed acuta anche in altre città italiane, mentre le città europee sono riuscite a strutturare sempre più efficacemente la propria pianificazione d’area vasta, vuol dire mettere mano alla formazione della città metropolitana. Se il nuovo sindaco di Milano saprà compiere il passo decisivo in questa direzione si potrà sperare non solo di liquidare l’orribile Pgt ma di aprire una stagione nella quale, finalmente le risorse ambientali, culturali ed economiche di tutta l’area possano essere utilizzate in vista di un vantaggio comune di sistema a più grande scala.
Auguriamoci che, sia pure con mezzo secolo di ritardo, Milano riesca a riagganciare lo standard di pensiero delle metropoli europee.
Si è sempre saputo poco della storia dei due cappelli, piccolo ma non secondario capitolo di uno dei più grandi affari immobiliari milanesi degli ultimi anni. L’affare è quello dei terreni dell’Expo, a Nord Ovest di Milano. I due cappelli appartengono a Guido Podestà: il capello da presidente della Provincia di Milano e poi quello da socio dei Cabassi. Cioè la storica famiglia di immobiliaristi proprietaria di una grossa fetta dei terreni dove sorgerà l’Esposizione Universale. A loro fa capo anche il 40%del capitale di una holding della famiglia Podestà. «Tutto trasparente» , per l’uomo politico del Pdl. Terreni e miliardi Sarà la Provincia insieme al Comune di Milano e alla Regione Lombardia a decidere la modalità (acquisto, newco, comodato d’uso) con cui acquisire dai privati la grande area dove si farà l’Expo 2015.
Questa settimana potrebbe essere decisiva.
Qualche numero: terreni per 1,1 milioni di metri quadrati (un quarto dei Cabassi, circa metà della Fiera di Milano), 1,7 miliardi di investimenti per il sito espositivo, oltre 10 miliardi per le infrastrutture di accesso. Per i terreni l’ipotesi oggi più probabile è quella del comodato d’uso, opzione preferita da Letizia Moratti e Podestà. È anche l’ipotesi più gradita ai Cabassi che dal 2007 a oggi hanno sempre mantenuto una posizione coerente: siamo sviluppatori, quindi preferiamo il comodato, ma discutiamo tutto purché ci sia chiarezza. Con il comodato i terreni vengono presi in prestito e poi restituiti a fine Expo con il cambio di destinazione da agricola a residenziale. A fronte della crescita esponenziale del valore, ai privati viene chiesto di contribuire alle infrastrutture con 75 milioni.
I due Podestà
È in questo mix di interessi pubblici e privati che si inseriscono i «due» Podestà: l’amministratore della res publica e l’imprenditore legato strettamente ai Cabassi. Anzi per anni quasi aggrappato ai soldi che gli immobiliaristi milanesi hanno investito nella sua holding di famiglia, di cui sono creditori (secondo patti riservati) e garanti con le banche. Se da una parte Podestà ha un peso nella decisione sui terreni Expo, dall’altra i Cabassi hanno avuto un ruolo fondamentale per la sopravvivenza della sua holding. Ma da qui a sospettare presunti do ut des ce ne passa. È una fotografia, con molti dettagli che mancavano. Architetto, 64 anni, ex numero uno dell’Edilnord da cui partì la fortuna del Cavaliere, per 15 anni parlamentare Ue, scuola berlusconiana doc, Podestà saprà certamente separare gli interessi propri da quelli pubblici.
La «paghetta»
Al vertice della Pedemontana, intanto, ha messo un uomo di fiducia, Salvatore Lombardo, 56 anni, architetto. È amministratore delegato della società, controllata dalla Provincia, che gestisce 5 miliardi per il collegamento stradale Bergamo-Malpensa. Un business enorme che richiede la dedizione totale del manager di punta. Poi però si scopre che Lombardo è rimasto a libro paga della famiglia Podestà: prende 1.200 euro al mese per amministrare la Generale di Costruzioni («Generale» ), di cui è presidente. Incrocio nella holding Ecco, è proprio qui che si incrociano gli interessi dei Podestà e dei Cabassi. Di suo il presidente della Provincia possiede appena il 3,78%del capitale, ma è la seconda moglie, Noevia Zanella, con cui c’è una perfetta simbiosi, ad avere la maggioranza assoluta (54%).
I Cabassi però hanno in mano un assai influente 40%della Generale attraverso la loro Brioschi Sviluppo Immobiliare, quotata in Borsa. Sotto l’ombrello della holding dei Podestà c’è la partecipazione in una società che gestisce una residenza per anziani (Heliopolis) e l’immobiliare proprietaria dei muri. Ma la struttura, afferma il numero uno della Provincia, è stata venduta due settimane fa. «Sono tranquillo: abbiamo agito in modo trasparente» . Però, ad eccezione di una dichiarazione a Telelombardia in campagna elettorale, Podestà non ha mai parlato di questo rapporto d’affari. «Nessun altro — dice— ha mai chiesto chiarimenti, che io ricordi» . La biografia sul sito della Provincia non dedica nemmeno una riga alle aziende di famiglia.
Il patto con i Cabassi
Con i Cabassi era stato siglato un patto parasociale, ossia un contratto (riservato) che regola le relazioni economiche tra i due soci. Secondo il bilancio 2010, la Generale ha un debito di 3,5 milioni con la Brioschi e su quei soldi paga un tasso fisso del 6%annuo. Poi è molto indebitata con Montepaschi per il finanziamento (35 milioni) che servì a comprare l’immobile delle Residenze Heliopolis. Mps ha in pegno le quote societarie. Ma c’è anche la stampella dei Cabassi che per la loro quota-parte hanno rilasciato una fideiussione da 14 milioni a favore di Mps. Senza complicare troppo: i bilanci sono in profondo rosso da anni e nel 2011 è scattato l’allarme del patrimonio netto negativo. Cioè i soci avrebbero dovuto tirar fuori qualche milione di euro per coprire il buco. Ma la vendita dell’immobile, secondo Podestà, ha chiuso il debito e risolto i problemi patrimoniali. Per i Cabassi non è stato comunque un buon investimento. I terreni dell’Expo, invece, potrebbero esserlo. Podestà continua ad avere due cappelli, che tiene separati. Fino a prova contraria.
«Nessuno si arrischierà a dire che la libertà d’azione dei singoli proprietari privati conduca al miglior risultato desiderabile: i piani generali o parziali devono essere fatti dall’autorità comunale». A pronunciare queste parole, nel 1906, non era un sovversivo comunista, ma un liberale che insegnava economia politica al Politecnico di Milano e alla Bocconi (di cui sarà Rettore dal 1930 al 1934). Ulisse Gobbi, questo il suo nome, era fermamente convinto che «la buona sistemazione del proprio territorio è il primo compito del Comune, a cui esso deve provvedere con tutte le sue forze». Ne è passata di acqua sotto i ponti. A più di un secolo di distanza, sciogliere le briglia al branco selvaggio della speculazione è divenuta la missione di chi gestisce la cosa pubblica. Evidentemente per costoro l’immagine dei volumi riversati sulla città e sulla campagna dalla cornucopia immobiliarista annulla ogni preoccupazione per la qualità degli aggregati insediativi e della vita che sono destinati ad accogliere. Basta fare un giro dalle parti di Citylife o di Porta Nuova per avere un assaggio di quello che la staffetta Albertini-Moratti (Formigoni benedicente) ha preparato per Milano: devastazione, bruttezza, arroganza, invivibilità.
Il nostro professore di economia politica si preoccupava che «attività, intelligenze, capitali» rimanessero disponibili per sostenere quelle intraprese «che giovano ad accrescere il benessere del Paese». Poiché, poi, «l’aumento di valore del terreno edilizio costituisce un guadagno che non è il compenso di nessuna opera utile», bensì il frutto per lo più di investimenti compiuti dalla collettività in infrastrutture e servizi, è bene, sosteneva Gobbi, che la rendita torni alla casse pubbliche. Da qui la sua proposta di una sistematica politica demaniale, condotta estendendo il principio di pubblica utilità introdotto in Italia dalla legge 25 giugno 1865 (esproprio per esecuzione dei piani regolatori) e ampliato dalla legge 31 maggio 1903 (case popolari).
Il mattone e nulla più. Quella che viene sbandierata come la formula in grado di assicurare lo sviluppo è in realtà la via maestra che conduce dritto a due esiti catastrofici: la crisi finanziaria della pubblica amministrazione, e la perdita di competitività economica del Paese. La gran massa di denaro (dei risparmiatori) che Intesa Sanpaolo e Unicredit immobilizzano per soccorrere i vari Zunino e Ligresti viene tolta a quegli impieghi di cui la Lombardia e l’Italia avrebbero quanto mai bisogno: formazione, ricerca e modernizzazione dell’apparato produttivo.
La vicenda dei terreni destinati a ospitare l’Expo 2015 è a suo modo esemplare. Si sceglie di localizzare la manifestazione in una vasta area di proprietà privata, si mette a punto un progetto e un correlato programma di interventi infrastrutturali. Risultato: la proprietà dell’area si ritrova nella condizione di pretendere un considerevole aumento di valore senza aver fatto alcun investimento. A questo punto tra gli amministratori di scatena una guerra di lobby, tra chi vuole acquistare l’area a caro prezzo e chi vuole ripagarne l’uso in comodato con concessione di volumetrie. Comunque la si rigiri, la conclusine della vicenda è quella di un considerevole trasferimento di denaro dal pubblico al privato. Un’amministrazione che avesse avuto a cuore il bene pubblico avrebbe acquistato preventivamente i terreni a prezzi agricoli (mettendo in concorrenza diverse aree) così da togliere di mezzo gli appetiti redditieri in un’impresa che si propone di misurarsi con ben altra fame.
"Piano urbanistico, tutto da rifare"
Via al ricorso dell´opposizione
di Teresa Monestiroli
L’avevano promesso il giorno dopo l’approvazione da parte del consiglio comunale del Piano di governo del territorio: «Faremo ricorso al Tar contro un provvedimento che riteniamo illegittimo». L’hanno fatto, depositando la richiesta di valutare una decisione che è stata presa in maniera «lesiva del diritto-dovere dei consiglieri di decidere sulle osservazioni al Pgt», negando la possibilità di discutere (e votare) una a una tutte le richieste di modifica presentate dai cittadini.
Due mesi dopo il via libera del documento che rivoluziona le regole urbanistiche della città si riapre così lo scontro tra maggioranza e opposizione. Con 14 consiglieri di centrosinistra (su 24) che firmano un ricorso lungo trenta pagine per denunciare le irregolarità con cui il piano, secondo loro, ha raggiunto l’approvazione finale. Tutto ruota, ancora una volta, sulla decisione della maggioranza di accorpare le 4.765 osservazioni in 8 gruppi tematici considerati, dai ricorrenti, «non omogenei» perché affiancavano osservazioni «prive di qualunque attinenza» le une con le altre, ma unificate solo dal fatto di essere state poste sotto la stessa etichetta. Un tema su cui, nei giorni caldi in cui il provvedimento era all’esame dell’aula, i partiti si sono più volte scontrati. Ma che il centrodestra ha superato imponendo a colpi di voti la propria decisione. «Avremmo preferito risolvere la questione in aula attraverso il dibattito politico - spiega Patrizia Quartieri, consigliere di Rifondazione comunista - ma non è stato possibile. La maggioranza ci ha imposto la sua modalità e ora ci tocca dimostrare le nostre ragioni attraverso la giustizia amministrativa».
Il Tar, i ricorrenti ne sono certi, «darà torto al centrodestra». Per questo si è deciso di andare direttamente alla sentenza di merito senza chiedere la sospensiva come normalmente avviene. Il rischio, dicono quelli dell’opposizione, è che il tribunale respinga la richiesta di congelare il provvedimento fino alla discussione del merito, dal momento che ancora non è stato pubblicato e che non entrerà in vigore prima di luglio. «Un ritardo che si giustifica solo con il timore delle stessa giunta Moratti di ricorsi al Tar da parte dei cittadini - commenta Pierfrancesco Majorino, capogruppo del Pd - Per questo sfidiamo l’assessore all’Urbanistica Carlo Masseroli a pubblicare il piano il più presto possibile». Fino ad allora, infatti, né le associazioni né i singoli potranno rivolgersi alla giustizia amministrativa.
Per ora, quindi, l’hanno fatto solo i rappresentati del consiglio comunale. Il ricorso, che ripercorre dettagliatamente le ultime concitate sedute riportando dichiarazioni dei consiglieri e sentenze del Tar che darebbero loro ragione, vuole dimostrare come la decisione di raccogliere 4.765 osservazioni in otto gruppi sia stata illegittima. Per sostenere maggiormente la loro tesi, i ricorrenti citano l’ultima discussione in aula quando, di fronte al gruppo di osservazioni denominato "varie ed eventuali", il capogruppo del Pdl Giulio Gallera chiese uno smembramento in quattro sottogruppi ritenuti a loro volta omogenei. «È evidente che il gruppo "varie" raccoglieva tutte le osservazioni che non rientravano in nessuna delle altre sette categorie - spiegano i consiglieri - Come potevano essere omogenee fra loro?». «È chiaro che il Pgt va riscritto da capo - commenta Basilio Rizzo della lista Fo - e quando vinceremo le elezioni così sarà. In particolare bisognerà rivedere le regole di edificazione all’interno del Parco Sud, lo spostamento delle volumetrie in luoghi già affollati come il centro storico, e l’edilizia popolare».
La road map della rivoluzione
di Alessia Gallione
La rivoluzione dell’urbanistica partirà a luglio. Ancora tre mesi e poi il vecchio Piano regolatore andrà in pensione per lasciare spazio alle nuove regole del Pgt. Perché la marcia di Palazzo Marino continua. Nonostante i ricorsi. Ed è da allora, quando il documento che ridisegnerà la Milano dei prossimi vent’anni diventerà legge, che potranno partire anche le grandi manovre sulle 26 aree che traineranno la trasformazione. A cominciare dagli ex scali. Da Farini a Porta Romana: più di un milione di metri quadrati di binari dimessi, che Ferrovie metterà sul mercato.
Gli uffici del Comune sono al lavoro. Con un obiettivo: concludere tutte le pratiche entro fine giugno per far sì che il Pgt venga pubblicato sul Bollettino ufficiale della Regione all’inizio di luglio. Solo allora entrerà in vigore. Anche se per costruttori e Comune ci sarà bisogno di una fase di rodaggio: non solo a causa di un mercato del mattone in crisi, ma perché c’è ancora qualche tassello che manca. Un esempio su tutti: la possibilità di scambiare le volumetrie potrà decollare realmente da settembre in poi. Il Comune è sicuro di poter presentare il "registro pubblico" in cui verranno annotati tutti i movimenti dei metri cubi a luglio, ma l’Agenzia (Palazzo Marino avrà in mano il 51 per cento del controllo) che farà incontrare domanda e offerta deve essere ancora creata. L’assessore allo Sviluppo del territorio Carlo Masseroli vuole far approvare subito la delibera di giunta che la istituirà. Ma soltanto il prossimo consiglio comunale la potrà votare.
Eccola, la road map del Pgt disegnata da Palazzo Marino. Un percorso già avviato all’interno della macchina comunale che sta subendo una riorganizzazione complessiva, tra informatica e nuove norme da studiare. Masseroli è convinto che il Piano «inizierà a muoversi dai piccoli interventi e ci sarà un gran fermento dal punto di vista dei servizi». Chi dimostrerà di realizzare qualcosa per la città, infatti - la lista è lunga: dai centri sportivi ai negozi storici fino ai laboratori artigiani - potrà costruire senza consumare volumetrie e mettere quei metri cubi sul mercato. Eppure, anche sul fronte dei grandi interventi potrebbe muoversi presto qualcosa.
Il Pgt ha disegnato 26 aree destinate a trasformarsi in nuovi quartieri: è lì che nei prossimi decenni potranno calare 18 milioni di metri cubi di nuove case e uffici. In questa mappa i più "maturi" sono i sette scali ferroviari: da Farini a Porta Romana, da Porta Genova a Rogoredo, si tratta di un milione e 300mila metri quadrati di spazio e di 3 milione di metri cubi di possibili costruzioni. Aree d’oro, che Ferrovie dello Stato è pronta a mettere all’asta entro l’anno. A dare l’annuncio è stato lo stesso Carlo De Vito, amministratore delegato di Fs Sistemi urbani: «Adesso che è stato approvato il Pgt siamo pronti. Entro l’anno partiranno i primi bandi». Il più appetibile è Farini, dove le demolizioni sono iniziate e si potranno realizzare 650mila metri quadrati di volumetrie insieme a un grande parco.
«Ma per sviluppare interventi così imponenti - ragiona il presidente dei costruttori, Claudio De Albertis - dovranno nascere alleanze trasversali tra operatori, fondi, istituti di credito. Nessuno, in questo momento di crisi, potrebbe affrontarli da solo». Oltre agli scali ferroviari, Masseroli si augura che possano concretizzarsi presto anche i disegni sull’area di Bovisa (in teoria una cittadella della ricerca scientifica) e lo scambio dei volumi al Parco Sud, sulle aree di Salvatore Ligresti: accettando di costruire su un pezzo dell’Ortomercato, il verde potrebbe diventare proprietà del Comune.
Ma a luglio quali potrebbero essere i primi effetti concreti? L’aspetto immediato dovrebbe riguardare gli edifici già costruiti. Quando il Piano sarà legge, cambiare le destinazioni d’uso sarà più semplice. Il primo esempio lo ha fatto Masseroli: le due torri ex Fs di Garibaldi accoglieranno uffici non pubblici. La vicenda della casa in stile Batman del figlio del sindaco, poi, ha riportato all’attenzione i loft ricavati in ex spazi industriali diventati abitazioni senza permessi. Almeno 5mila, secondo le stime degli uffici comunali, per i quali si potrà chiedere il passaggio da commerciale o industriale a residenziale. A patto, però, di pagare oneri e di dimostrare di essere in regola con le bonifiche.
A Milano, città della moda e del design (così ci ripetono da lustri e tocca crederci per forza, bloccati negli ingorghi delle settimane dello stile, del mobile ecc.) si vive nella fede assoluta per la creatività spontanea e selvaggia. Uno si sveglia la mattina, beve il caffè, tira un bel respiro profondo e zac! esce fisiologica l’idea vincente della giornata. Vincente soprattutto sui giornali, di solito, dato che la città pare sempre più cosparsa di sconfitti nei vari campi in cui si è applicato il metodo, dall’ambiente, alla casa, ai trasporti, alle politiche urbane in generale. Ecco, è proprio quello che pare scomparso dall’orizzonte, il problema delle politiche urbane: sono ancora in vita, magari sepolte dalla valanga di sparate creative e elettorali? Parrebbe proprio di no, ma non si sa mai.
Perché le politiche urbane, da non confondere con la discrezionalità politica dell’amministrazione in carica o di quella virtuale dell’opposizione, sono proprio il contenitore di riferimento che manca, a Milano e in tante altre città. Le sole vicende legate a pedonalizzazioni, mezzi pubblici, mobilità ciclabile e relative integrazioni sono ad esempio lì a dimostrarlo. Mentre invece nei posti dove il problema lo si è affrontato, da destra a sinistra in alto e in basso, non si parte dal progetto, ma dal programma, inteso come pochi obiettivi chiari e verificabili (le emissioni, i consumi energetici o simili) e poi a scendere coi piani di settore e infine i progetti attuativi. Le piste ciclabili, le rotaie del tram, la pedonalizzazione di un tratto di via del centro e la congestion tax, in sé e per sé, sono solo fiori all’occhiello, destinati ad appassire in fretta se stanno appuntati sul nulla.
Tempo fa in un'intervista l’assessore all’urbanistica milanese Masseroli raccontava ai giornali la sua idea di mobilità ciclabile. E in teoria già poteva accendersi qualche speranza, visto che appunto si trattava del delegato a un aspetto di primissimo piano del metabolismo della città, ovvero le grandi trasformazioni urbane e infrastrutturali. Ma c’era qualcosa che non quadrava, almeno a prima vista, quando l’assessore spiegava come lo spazio fosse poco, e toccasse condividerlo …. fra pedoni e ciclisti! Prego? E le auto? Quelle cosette di lamiera che in movimento o ferme occupano gran parte dello spazio cosiddetto pubblico della città? Loro non devono condividere nulla? Si devono ritagliare piste ciclabili nei pochi spazi in cui la pedonalità non è proprio confinata a una striscia di un metro scarso rasente gli edifici?
Non è tutto. Se si parla di politiche urbane, è perché salta all’occhio di chiunque come il modo di muoversi si intrecci con tempi e funzioni, localizzazione di servizi, stili di vita medi. E quindi solo per restare a un ipotetico cittadino pedalante è quantomeno fantascientifico pensare alla sua giornata come a una specie di cortocircuito casa-ufficio attraverso il nastro conduttore della pista ciclabile, più o meno ritagliata dal marciapiede, o immersa nel verde a cinque minuti dal centro. Perché nemmeno nelle caricature fantozziane più estreme esistono personaggi del genere. Perché “casa” e “ufficio” ovvero origine e destinazione, oltre l’iper-uranio dei ragionamenti assessorili non sono cubicoli sospesi nello spazio interstellare, ma cose complesse, dotate di interfaccia altrettanto complessi: dove sistemare la bici, se e come caricarla eventualmente sui mezzi pubblici, come fruire di alcuni servizi essenziali (i negozi, eventuali ripari dalle intemperie ecc.) lungo il percorso.
Adesso, in un’altra intervista estemporanea, nell’ormai classico stile delle dichiarazioni da fashion designer nuova stagione, l’assessore (vedi l’articolo di Teresa Monestiroli riportato di seguito) parla di “patto sociale” o di “cambiamento di mentalità” ovvero paradossalmente continua imperterrito a ragionare in una logica di progetto, delegando le politiche urbane, il coordinamento, la visione di insieme, alla buona volontà dei singoli. I quali si dovrebbero con un colpo di bacchetta magica scordare come fino a ieri si negava addirittura l’esistenza di una idea generale, salvo il magico risultato della ricomposizione dei comportamenti individuali grazie alla Provvidenza. Beati credenti!
A New York, che non è il paradiso ma sicuramente un posto un po’ più normale di altri, la mobilità pedonale, ciclabile, sui mezzi pubblici, non sta inserita nello spazio interstellare, ma nel piano strategico del sindaco chiamato PLANYC2030 dove gli obiettivi sono ambientali, sanitari, socioeconomici, di localizzazione delle attività economiche ecc. Poi ci sono i commissioners delegati “di settore”, come ad esempio le due signore di ferro Amanda Burden all’urbanistica e la fascinosa Janette Sadik-Kahn alla mobilità. Che oltre ai fiori all’occhiello come il parco centrale sulla ex sopraelevata ferroviaria, la pedonalizzazione di una fetta di Broadway, il piano generale per il waterfront, ragionano e operano con riferimento agli obiettivi strategici.
Poi, siccome siamo sulla terra e non in un telefilm, ci sono anche scontri e polemiche. Sulle piste ciclabili abitanti inferociti ricordano all’amministrazione che we’re not in Copenhagen! ma nessuno si sentirà mai dire che l’errore è della sua mamma, che l’ha fatto nascere con la mentalità sbagliata.
la Repubblica ed. Milano, 2 aprile 2011
Raggi, cerchi, micropiste ma l’ok al piano bici è rinviato causa elezioni
di Teresa Monestiroli
Più che una rivoluzione della viabilità sarà «una riforma culturale», perché la prima cosa che bisogna cambiare, dice Carlo Masseroli, assessore all’Urbanistica, è «la mentalità dei cittadini». È a partire da questo presupposto, e dal dato di fatto che nelle casse del Comune non ci sono i soldi per realizzare grandi opere infrastrutturali, che il padre del Piano di governo del territorio ha ideato un piano di indirizzo per potenziare le piste ciclabili in città e stimolare l’uso della bici.
«A Milano ci sono 600 auto ogni 1000 abitanti - spiega l’assessore - Più del doppio delle grandi città europee. Dobbiamo fare i conti con questa realtà se vogliamo trovare una strategia vincente». Soprattutto dopo aver constatato che il sogno promesso dal sindaco cinque anni fa di raddoppiare i chilometri di piste - da 85 a 190 entro il 2015 - è ancora lontano e che le resistenze della politica - centrodestra in testa - nei confronti delle due ruote hanno più volte frenato i progetti. Ecco allora che l’assessore studia il piano B. Una rete di percorsi ciclabili misti composto da tratti di piste esistenti e tratti di "viabilità promiscua" tra auto e bici, o tra pedoni e bici, che andrà a toccare tutta la città. Una mappa ancora in via di preparazione ma che sta già suscitando dubbi all’interno della maggioranza, tanto che le due delibere già firmate da Masseroli sono state rinviate a un futuro prossimo, probabilmente dopo le elezioni. «Sono solo state rimandate perché erano poco chiare» è la risposta ufficiale dei colleghi di giunta.
L’idea è realizzare tre cerchi concentrici (la prima circonvallazione, la 90-91 e i parchi esterni) e una serie di raggi che dal centro portano all’esterno mettendo insieme le piste già pronte con percorsi ricavati tracciando una striscia sull’asfalto, oppure trasformando i controviali in "zone a 30 all’ora" dove auto e bici convivono. Ma anche microcollegamenti tra un raggio e l’altro utilizzando, dove è possibile, i marciapiedi. La prima sperimentazione, in viale Padova, partirà lunedì. «La delibera per fare una prova anche sui controviali è già pronta - spiega l’assessore - Partiremo da viale Romagna e, se funzionerà, estenderemo il modello a tutti i controviali». Un terzo passo sarà individuare percorsi sui marciapiedi: e in questo verranno coinvolti anche i cittadini attraverso questionari inviati a casa, quartiere per quartiere.
Il progetto, quindi, avrebbe minimo impatto sulla città - toglierebbe pochissimi posti auto - e sul portafoglio del Comune. Ma come convincere i milanesi a rispettare i percorsi promiscui, se già oggi le poche piste ciclabili esistenti sono spesso invase dalle auto? «Quello che ci vuole è un patto sociale fra cittadini - dice Masseroli - È una scommessa, ma sono convinto che quando le piste inizieranno a essere usate gli automobilisti avranno più rispetto».
Per gli ambientalisti, però, oltre al patto ci vuole la sanzione. «Se non si spendono soldi per le infrastrutture - osserva Damiano Di Simine, presidente di Legambiente Lombardia - bisogna attuare una seria politica di regolamentazione della sosta che, prima di rendere i marciapiedi ciclabili, li faccia tornare pedonali. Una drastica azione contro le doppie file e il parcheggio selvaggio, e magari anche l’eliminazione del posteggio su un lato della via per introdurre piste ciclabili anche in strade a senso unico».
Expo, il fantasma delle opere
di Carlo Petrini
Di che orto stiamo parlando? È con una certa sorpresa che ho accolto le parole dell’ad dell’Expo 2015 di Milano, Giuseppe Sala, che ha dichiarato non vendibili e con scarso appeal gli orti previsti nel master plan, rinunciando così a metterli in atto.
Gli architetti avevano fatto un buon lavoro. Intanto, ieri, la signora Moratti ha tenuto un discorso al Consiglio Comunale milanese da cui si potrebbe evincere che non è successo niente. Sembrerebbe tutto verde, tutto pulito. Ma non si capisce se ci crede veramente o è stato soltanto uno spot elettorale. Per parlare di queste cose bisogna avere cognizione di causa e le categorie culturali giuste. Come fa la Moratti a dichiarare che l’agricoltura milanese è «moderna, intensiva, diversificata e rispettosa dell’ambiente»? Non si rende conto che sono quattro elementi in contraddizione o come minimo incompatibili tra di loro?
Se ci fossero persone con un minimo d’idea del mondo in cui vivono, saprebbero che l’elemento centrale della nutrizione in questo momento, a livello internazionale, è il ritorno alla terra. Tutti discutono di come realizzare una produzione sufficiente e non deleteria per gli equilibri ambientali, eminenti professori sostengono che la prossima bolla a scoppiare sarà quella agricola, proliferano i farmers’ markets. Gli orti nascono ovunque, nelle scuole, nelle città, in tanti piccoli appezzamenti privati che prima avevano soltanto scopo ornamentale. Sono la vera tecnologia del futuro, nel Nord come nel Sud del mondo. Li hanno fatti alla Casa Bianca, Londra ne vuol realizzare 2012 entro il 2012, l’anno delle Olimpiadi. Li stiamo anche aiutando a costruire in Africa grazie alla ricerca di fondi di Slow Food, e questi cambiano la vita a intere comunità.
Il mondo evoluto tecnologicamente, dagli Stati Uniti in giù, guarda con grande attenzione a questi fenomeni: non ci sono più dubbi che rappresentino ciò con cui avremo a che fare nei prossimi decenni, e invece a Milano ci dicono che all’Expo vogliono fare il supermarket del futuro. Mentre pensano questa cosa pensano una cosa già vecchia. Quando lo realizzeranno tra quattro anni (se lo realizzeranno, visto come stanno andando le cose in materia di Expo) faranno una cosa vecchia. Rischiamo di farci ridere dietro dal mondo intero.
Sono deluso e sono anche un po’ indignato, perché sta passando l’idea che i contadini di oggi siano fermi a secoli fa. Non è vero, nelle campagne del mondo s’inventa, si crea, si fa vera cultura post-moderna. Pensare che l’umanità abbia a cuore soltanto la futura visione del supermercato è offensivo per miliardi di contadini, nonché un errore madornale. Com’è un errore andare a spiegare a queste persone come devono vivere e lavorare grazie ai progetti di cooperazione che cita la Moratti, importando una visione tecnologica occidentale che non ha futuro e può fare danni irreparabili nel Sud del mondo.
Prendo atto che l’Expo sta rinunciando a diventare ciò che dovrebbe essere: un grande momento di cultura mondiale, in cui presentare i problemi e proporre le soluzioni sul tema "Nutrire il Pianeta, energie per la vita". Prendo atto che non rinunciamo ai vecchi paradigmi che ci hanno portato a questa situazione planetaria così critica e non voglio pensare male (e nemmeno citare Andreotti). Tuttavia la questione dei terreni del sito mi pare scottante: non c’è la volontà di salvare un terreno agricolo e restituirlo integro e valorizzato alla città dopo l’evento. Mantenerlo tale, senza cambiare destinazione d’uso sarebbe uno degli atti politici più grandi e lungimiranti che si possano fare per Milano, ma c’è invece la chiara volontà di assecondare l’interesse di pochi, concedendo l’edificabilità dei terreni.
Non sono attrattivi gli orti? Allora forse abbiamo capito bene cos’è attrattivo per chi sta coltivando un orto molto meno verde di quelli previsti dal master plan: un orticello che non ho ancora capito con che coraggio stiamo proponendo al mondo. Il quale, va ricordato, ci sta guardando e ci guarderà sempre più attentamente man mano che ci avviciniamo al 2015.
Tre anni fa Milano si è aggiudicata la Esposizione Universale del 2015. Ma i lavori non sono mai partiti e ora la città rischia un flop mondiale
di Alessia Gallione e Roberto Rho
Tre anni. Millenovantadue giorni. Ventiseimilatrecento ore. Milano vuole organizzare una grande festa internazionale: convoca 130 Paesi, manda 20 milioni di inviti, programma di investire 1.750 milioni (più annessi e connessi). Ma tanto tempo non è bastato neppure per acquisire la disponibilità dei terreni su cui tenere l’evento, ricevere le delegazioni dei Paesi ospiti, accogliere i visitatori. Chiunque abbia organizzato perlomeno una festa di compleanno per i propri figli sa che prima di spedire i cartoncini d’invito dev’essersi assicurata l’agibilità del locale dove piazzare il buffet e far esibire clown e musicanti. Milano no.
Ha messo in piedi il progetto per l’Expo 2015, si è aggiudicata la vittoria - esattamente tre anni orsono, il 31 marzo 2008 a Parigi - nella sfida a due con la turca Smirne, ma ancora oggi non ha alcuna certezza sulle aree - quelle adiacenti la Fiera di Rho-Pero - su cui intende svolgere la manifestazione.
Perché quelle aree, qualcosa più di 1 milione di metri quadrati di terreni incolti, accatastati come agricoli, sono per oltre metà (520mila metri quadrati) di proprietà della Fondazione Fiera di Milano, per un quarto (260mila metri quadrati) del gruppo Cabassi e solo per la parte rimanente di proprietà pubblica: Poste Italiane e i Comuni di Milano e di Rho. E i terreni non sono l’unica cosa che manca. Mancano i soldi, e tanti. Di quei 1.746 milioni necessari per allestire il sito (molte altre centinaia di milioni sono previste per le infrastrutture e altri 1.280 milioni per l’organizzazione dell’evento), quasi metà (833 milioni) toccano al governo. E anche se Giulio Tremonti apre i rubinetti sempre malvolentieri, l’amministratore delegato di Expo, Giuseppe Sala, è sicuro che da quel fronte non arriveranno problemi insormontabili. Ce ne sono e soprattutto ce ne saranno sul fronte degli enti locali: Comune e Regione devono mettere 218 milioni a testa, la Provincia e la Camera di Commercio 109 ciascuna.
Il Comune deve finanziare la società Expo ma anche pagare le opere (due linee di metropolitana e varie altre minori) che ha inserito nel dossier di candidatura. Ben difficilmente - a maggior ragione in un’epoca di vacche magrissime - riuscirà a sostenere tutte le spese previste. Chi certamente non ha i soldi, lo ha già detto e ripetuto, è la Provincia guidata dal berlusconiano Guido Podestà. E neppure la Camera di commercio, che fin qui si è nascosta dietro un cavillo statutario che le impedisce di spendere quattrini per infrastrutture che non siano strettamente legate alle proprie attività, pare disposta a mettere soldi sul piatto. Infine, i privati: 260 milioni sono attesi da pubblicità e sponsorizzazioni. Ma è una stima pre-crisi e nessuno sa se, chi e quanto sarà disposto a spendere.
Dunque, a 1.495 giorni dalla data dell’inaugurazione l’Expo non ha i terreni su cui costruire l’infrastruttura espositiva e non ha i soldi per allestirla. Per Letizia Moratti, artefice della vittoria di Parigi, sindaco di Milano da cinque anni e commissario con poteri straordinari, l’Expo è come la centrale atomica di Fukushima: una bomba nucleare fuori controllo. È in campagna elettorale, ed è costretta a ostentare tranquillità e sicurezza, come ha fatto anche ieri davanti al Consiglio comunale. «Entreremo nella storia», ha detto, ripetendo alla noia che sarà un’Expo ancora più verde del previsto e che non ci sono ritardi né rebus irrisolvibili.
La verità è un’altra: la "Milano del fare", che era cinque anni fa ed è ancora oggi il suo slogan elettorale, rischia una catastrofe internazionale sotto il profilo dell’immagine. In tre anni la Moratti ha messo insieme una sequela di inefficienze, cambi di manager e litigi, tutti in casa centrodestra e quasi tutti con il condomino Formigoni. Ancora oggi sono avvitati in una querelle estenuante su quale sia la formula migliore per acquisire i terreni di Rho-Pero: dopo mille oscillazioni tra il comodato d’uso (i privati "prestano" i terreni, li riavranno nel dopo-Expo con il valore aggiunto del cambio di destinazione d’uso che consente di costruire a piacimento) e la "newco" (società mista pubblico-privata nella quale i soci pubblici mettono i quattrini e i privati i terreni), oggi il barometro si è spostato decisamente sull’ipotesi dell’acquisto tout court.
Regione e Comune girano una cifra compresa tra 100 e 140 milioni a Fondazione Fiera e Cabassi e acquisiscono la proprietà delle aree, le usano per l’Expo e dopo il 2015 raccolgono il plusvalore generato dall’edificabilità di quei terreni, oggi agricoli. Operazione complessa, tutta da costruire, sulla quale la Corte dei Conti e forse anche qualche magistrato potrebbero avere da ridire: è lecito che enti pubblici acquistino terreni agricoli inglobando nel prezzo d’acquisto un cambio di destinazione d’uso futuro (che loro stessi si propongono di fare)? E che quegli stessi terreni vengano poi rivenduti come edificabili o direttamente sfruttati dagli stessi enti pubblici per la prevedibile speculazione edilizia?
Già, perché comunque vadano le cose, che siano i privati a mantenere la titolarità di quei terreni o i soci pubblici ad acquisirla, la speculazione è il perno su cui ruotano l’affare dell’Expo e, di conseguenza, le guerre di potere e le polemiche di questi 1.092 giorni. Al momento è tutto fermo: si attende per il 5 aprile una relazione dell’Agenzia del territorio che dovrà stimare il valore dei terreni e delle infrastrutture che li renderanno fruibili. Ma tutti prevedono che la relazione non scioglierà nessuno dei nodi e allora Moratti e Formigoni riprenderanno a litigare. Una finta soluzione - com’è accaduto nell’autunno scorso - sarà raffazzonata in vista dell’incontro con il Bureau International di Parigi il 19 aprile. Poi si tornerà a litigare.
Intanto il tempo corre: non avendo la proprietà dei terreni, la società Expo 2015 non ha potuto neppure entrarci. Con due conseguenze: il manager Giuseppe Sala, che ad aprile avrebbe dovuto lanciare la prima gara da 90 milioni per la rimozione delle interferenze (la ripulitura dei terreni), l’ha già spostata a giugno. Prima di ottobre non si muoveranno le ruspe. Secondo: il concept dell’Expo è - o forse sarebbe meglio dire "era" - un immenso orto planetario in cui ognuno dei Paesi dovrebbe presentare coltivazioni proprie e idee per l’agroalimentare. Ma senza la disponibilità dei terreni, il lavoro (che richiede anni) non può neppure cominciare.
Il problema potrebbe essere superato dal cambio in corsa della filosofia dell’Expo, annunciato nei giorni scorsi dal management. «Troppo verde non si vende», ha detto in sostanza Sala, prefigurando una sterzata in direzione delle nuove tecnologie che nessuno ha ben compreso e che, secondo Carlo Petrini e Stefano Boeri, gli ideatori dell’orto globale, è un clamoroso errore. Di più: per Boeri «una manovra che occulta la reale intenzione di rimpiazzare i campi coltivati con padiglioni facilmente smontabili e sostituibili con nuove costruzioni. Cemento, cioé valore aggiunto per i proprietari delle aree». E si torna al rischio speculazione, che in tre anni di caos è l’unica vera costante.
Milano, in piena campagna elettorale, assiste attonita a uno spettacolo che sono in molti a considerare indecente. Giuliano Pisapia, candidato del centrosinistra, fatica a far sentire la sua voce nel frastuono della propaganda, che ogni giorno annuncia successi roboanti, come - ultimo ieri - l’adesione della Cambogia all’Expo. Si chiede, Pisapia, se dopo tre anni di scempio il supercommissario Moratti non debba essere, lei sì, commissariata. Il sindaco non fa una piega: «L’Expo ha bisogno di continuità». Cioè di lei stessa. Tutti intorno sorridono. Il suo partito, il Pdl, chiede una relazione sulla vicenda. Formigoni ha l’aria sorniona di chi controlla l’unica cassaforte ancora munita, quella della Regione. Tremonti, vero manovratore dei cordoni della borsa, considera l’Expo una fastidiosa incombenza. E Berlusconi? Raccontano che, ai dirigenti del suo partito che gli chiedevano come affrontare la vicenda, abbia risposto lapidario: «Passiamo ad altro».
Spero di aver già chiarito altrove la mia perplessità, sia quella ovvia sulle scelte di modificare il progetto originario (che considero piuttosto meschine e di basso profilo), sia sulle polemiche, che paiono concentrarsi sul solo aspetto della “cementificazione”, a cui forse andrebbe affiancato un maggiore sostegno alla posizione invece ben espressa e sostenuta da Petrini.
E proprio sull’intervento di quest’ultimo vorrei brevemente intervenire, provando a rispondere alla questione centrale posta, in particolare quando si dice che “sta passando l’idea che i contadini di oggi siano fermi a secoli fa”. È certamente quanto pensano i ragionieri (con tutto il rispetto per i veri professionisti della contabilità) autori della proposta di supermarket e/o stand gastronomici al posto dell’orto e delle serre, che sarebbe più “moderno” e vendibile. Ma non corrisponde naturalmente alla realtà.
Il concetto però andrebbe ribadito anche a chi, in un modo o nell’altro e peraltro con ottime intenzioni, non riesce a schiodarsi esattamente da questa leggenda metropolitana del contadino dalle mani callose e oneste, diciamo pure un po’ pirla, che posa in camicia a scacchi e cappello di paglia davanti a un tramonto agreste. Di un mondo fatto a immagine di cartolina, più simile a certa iconografia piccolo borghese dell’arcadia suburbana che a qualunque realtà. E che sotto sotto comunica (magari anche ai potenziali investitori messi in fuga dall’orto ma affascinati dai carrelli del supermarket) una gran voglia di tornarsene, alla fine del meritato relax campagnolo, nel mondo vero, dove si fanno le cose utili, e si guadagna abbastanza da potersi concedere anche quelle vacanze cartolina.
Città e campagna, invece, sono entrambe cose serie, modernissime, tangibili, degne di rispetto. Da trattare come tali. Sempre (f.b.)
MILANO— L’orto non rende. «Non si può vendere l’Expo solo come un orto botanico planetario» : l’ad Giuseppe Sala dà la svolta culturale all’impostazione dell’Expo 2015. Doveva essere il festival delle colture di tutto il mondo, nella visione iniziale pensata dagli architetti coordinati dall’urbanista Stefano Boeri. Ma in corso d’opera, «parlando con il Bureau International des Expositions e con i Paesi invitati a partecipare», ci si è resi conto che quell’immagine non avrebbe richiamato l’attenzione che Milano vuole invece suscitare nel 2015. «Un’Expo verde e con tendoni leggeri— conferma Sala — troppo proiettata solo nella direzione agricola, non trova consenso in chi dovrà investire per Expo» .
L’annuncio arriva nel bel mezzo di una seduta di commissione consiliare convocata per fare il punto sulla situazione di Expo. Infatti, ci sono questioni importanti ancora aperte: dalla titolarità delle aree su cui sorgerà l’evento (ancora oggi di proprietà della Fondazione Fiera e della famiglia Cabassi) ai conflitti interni ai soci, ad esempio. Ma le affermazioni di Sala scatenano l’opposizione: «Se volete fare una colata di cemento invece del parco tematico di cui si parla nel dossier di registrazione, dobbiamo ridiscutere tutto» , tuona il capogruppo del pd, Pierfrancesco Majorino. Sala smentisce e replica: «Gli spazi dedicati alle serre, ai climi temperati e alla collina Mediterraneo ci sono e restano inalterate le cubature» , assicura. E aggiunge che «per convincere un visitatore a venire a Milano dobbiamo dargli qualcosa di più e unico che le serre, per quanto suggestive» . Il tema scelto da Milano, («Nutrire il pianeta, energia per la vita» ) sembra piacere molto: «Infatti non è mai accaduto che a 50 mesi dall’inaugurazione già 13 Paesi abbiano dato la loro adesione» , insiste Sala.
Ma serve uno spunto nuovo: «Vorremmo poter mostrare cose uniche, come un padiglione dedicato al supermarket del futuro, o a luoghi che spieghino cosa e come mangeremo tra vent’anni e così via» . Boeri, che è anche capolista del Pd per le prossime amministrative, difende il lavoro fatto: «Il nostro era un progetto avanzato, meno costoso di un Expo tradizionale, fatto di capannoni e padiglioni, e capace di lasciare in eredità a Milano il più moderno parco agroalimentare europeo, in grado di attirare investimenti, produrre ricerca e ospitare un grande salone dell’alimentazione in contatto con la fiera di Rho Pero e il mondo della ristorazione milanese» . E poi: «Resta piuttosto il sospetto che una revisione "tecnologica"dell’orto botanico nasconda in realtà l’intenzione di realizzare un Expo con più volumi costruiti, cedendo così, una volta di più, alle aspettative dei privati proprietari dell’area» . Sala è categorico: «Le volumetrie dei padiglioni sono addirittura diminuite rispetto al concept plan di Boeri e degli altri architetti.
Il sito conserva integralmente le sue caratteristiche di vivibilità e grande equilibrio ambientale e paesaggistico. Restano infatti inalterati sia il progetto delle serre che quello degli agrosistemi. Dal punto di vista della sostenibilità stiamo quindi confermando tutti gli impegni previsti» . L’ultimo dato è che «da tutto il mondo, come dalle categorie produttive italiane, ci giungono quotidianamente sollecitazioni per realizzare un’esposizione universale sulle frontiere della tecnologia, della ricerca e del futuro» . E l’europarlamentare Carlo Fidanza assicura che «non c’è nessun ripensamento rispetto all’idea originaria, ma certamente ora dobbiamo rendere attraente il "prodotto Expo"per i Paesi e le imprese, coniugando verde e serre con la tecnologia e il futuro» . Serve una svolta, quindi.
La Repubblica
La Moratti si infila nel tunnel
di Teresa Monestiroli
Per Letizia Moratti il tunnel Expo-Linate è «un progetto utile e importante perché toglierà auto dalla superficie». Quindi si procede spediti verso l´approvazione della delibera in giunta prima della fine del mandato. «Una provocazione» per Basilio Rizzo della lista Fo, vista la decisione di vincolare l´opera alla discussione del Piano urbano della mobilità. «Un regalo ai privati» per Pierfrancesco Majorino del Pd.
Un´OPERA «utile e importante». Sono queste le parole con cui il sindaco definisce «tutto quello che toglie il traffico dalle strade». Compresa la maxigalleria Expo-Linate il cui progetto potrebbe arrivare in giunta prima del voto. «Il tunnel è simile alle metropolitane - afferma la Moratti - Le linee 4 e 5 faranno calare il traffico in superficie del 14 per cento. Tutto quello che favorisce la riduzione delle auto in città deve essere visto positivamente, come del resto hanno fatto le grandi capitali europee».
Si procede, dunque, e l´indirizzo politico non è cambiato. Nonostante il consiglio comunale abbia vincolato l´infrastruttura al nuovo Pum, il Piano urbano della mobilità, che verrà discusso dopo le elezioni, Palazzo Marino spinge perché la delibera sul tunnel venga approvata entro la fine del mandato. «È una provocazione - commenta Basilio Rizzo, consigliere della Lista Fo - Quando si trattava di approvare il Piano di governo del territorio la maggioranza assicurava che del tunnel non si sarebbe più parlato fino alla definizione del Pum, ora che il Pgt è passato scopriamo che i lavori procedono».
E speditamente, visto che ieri il Comune ha inviato una sostanziale approvazione al piano di fattibilità di Condotte, il colosso delle gallerie entrato nel gruppo dei privati che dovrebbero realizzare il tunnel in project financing. Una lettera che chiede alcuni cambiamenti tecnici, a cui la società è pronta a rispondere nel giro di pochi giorni. A quel punto Palazzo Marino sarà pronto per il passaggio in giunta e per l´avvio di una gara «senza pregiudizio patrimoniale» dove si specifica che l´opera è subordinata al voto del consiglio comunale.
Il progetto definitivo, presentato dai privati, prevede una galleria di 12,7 chilometri che collega l´aeroporto con l´autostrada dei Laghi, con 8 uscite intermedie in città, la cui realizzazione costerà 2,6 miliardi. Secondo i calcoli di Condotte sarà possibile consegnare i primi 7,5 chilometri, da Expo a Garibaldi, entro il 2015 se i lavori di scavo partiranno entro fine 2011. Nel piano di fattibilità viene anche indicato l´impatto che il tunnel avrà sulla città: 57.100 auto al giorno nel 2020 quando dovrebbe essere completata l´intera tratta, 22 milioni di ore l´anno risparmiate dagli automobilisti e 74 milioni di chilometri in meno percorsi. La società prevede di rientrare dei costi con una concessione di 60 anni e un pedaggio di 60-70 centesimi al chilometro.
«È un regalo ai costruttori - commenta Pierfrancesco Majorino, capogruppo del Pd a Palazzo Marino - Non servirà a togliere traffico delle strade ma, al contrario, riverserà le auto in centro. Con noi al governo non si farà mai». Contrari anche gli ambientalisti, con Franco Beccari di Legambiente che dice: «È irresponsabile pensare di sconvolgere Milano per portare migliaia di auto in città. Come può il sindaco dichiarare di volere più verde e allo stesso tempo programmare un´opera che per ripagarsi avrà bisogno di nuovo traffico a pagamento?». A favore invece il centrodestra, con il consigliere Pdl Marco Osnato che spiega: «Il tunnel non farà aumentare il traffico: gli automobilisti che lo utilizzeranno avrebbero comunque attraversato Milano, ma in superficie».
La Repubblica
Un buco nero sputa-traffico da cui è meglio tenersi alla larga
di Ivan Berni
Il sabba di fine legislatura della giunta Moratti non finisce di stupire. Dopo aver reclutato fra i supporter l´assessore rinnegato Croci, padre dell´Ecopass - ma abrogando l´Ecopass, al tempo stesso, dal programma dei prossimi cinque anni - ora è la volta dei progetti-zombie. La giunta, infatti, è pronta a resuscitare il progetto folle del tunnel sotterraneo Linate-Rho, che ieri il sindaco ha definito «utile e importante». Si tratta di quella incredibile galleria sputa-traffico lunga tredici chilometri che dovrebbe collegare un aeroporto in stato di (quasi) dismissione come quello di Linate all´area dell´Expo e della Fiera di Pero-Rho.
Un´opera faraonica, dal costo stellare di 2,5 miliardi di euro, per gran parte sovrapposta a linee del metrò e a linee ferroviarie in esercizio, riservata al traffico privato. Una colossale sciocchezza dal punto di vista della mobilità urbana, in totale contrasto con tutte le politiche di decongestionamento del traffico privato delle aree metropolitane praticate a livello europeo e per giunta assolutamente velleitaria dal punto di vista finanziario.
Secondo i calcoli resi pubblici dai promotori, per remunerare l´investimento - tutto di operatori privati - il tunnel dovrebbe infatti ingoiare almeno cinquantamila veicoli al giorno per un pedaggio di 70 centesimi a chilometro, vale a dire circa 9 euro per l´intero percorso. Giusto per fare due conti, un business plan che porterebbe a ricavi annuali dell´ordine di 120 milioni di euro. In altre parole, una infrastruttura che richiederebbe almeno un quarto di secolo per ripagare l´investimento e divenire remunerativa e che, nel frattempo, condizionerebbe qualsiasi politica di tutela dell´ambiente e della mobilità.
Perché va da sé che nessun privato al mondo sarebbe così pazzo da investire una simile massa finanziaria correndo il rischio di veder ridotti i propri ricavi. Ad esempio perché le amministrazioni pubbliche potrebbero introdurre il ticket d´ingresso alle auto private su tutto il territorio metropolitano. Oppure per effetto di altre misure di protezione ambientale, come la pedonalizzazione di vie, piazza e quartieri dove sono previsti gli svincoli di entrata e uscita del tunnel, che si prevede abbia almeno due corsie di marcia e un calibro "autostradale".
Si potrebbe continuare a lungo, nell´elenco dei motivi di buon senso e anche di banale rispetto della logica che sconsigliano di intraprendere una simile avventura. Contro il tunnel degli orrori, del resto, le opposizioni non a caso hanno fatto muro in consiglio comunale, ottenendo - almeno così sembrava - che lo sciagurato progetto venisse stralciato dall´agenda di questa legislatura. Tutto inutile, par di capire, di fronte all´urgenza di rispondere alle sollecitazioni della società Condotte, uno dei promoter, che al Comune ha spiegato che se non si parte oggi con la procedura d´appalto non si riusciranno a fare in tempo per l´Expo nemmeno i quattro chilometri di galleria fra via Lancetti e Rho, la tratta peraltro più insensata dell´intero percorso del tunnel.
Ma la cosa che più irrita è che se la giunta Moratti uscente approverà il via libera, la patata bollente ricadrà sul prossimo consiglio comunale nonché sulla prossima giunta, chiamati a quel punto a ratificare o - si spera - a smentire e smontare la decisione presa oggi. Insomma, una giunta che non ha avuto il coraggio di mettere la faccia su una scelta illogica, ambientalmente ed economicamente insostenibile, lo fa oggi di soppiatto, lasciando a chi verrà la rogna di gestirla. Il tunnel è la metafora del bilancio e del futuro dell´amministrazione Moratti: un buco nero. Da cui tenersi alla larga.
La Repubblica
"Inutile e folle sventrare la città è un regalo del sindaco ai privati"
intervista a Stefano Boeri, di Stefano Rossi
Stefano Boeri, architetto e capolista del Pd alle prossime elezioni comunali, che opinione ha del tunnel Expo-Linate?
«Non dovrebbe nemmeno essere preso in considerazione. La città non ha ancora il Piano urbano della mobilità, perciò non esiste un ragionamento di sistema nel quale inquadrare il tunnel».
Ma l´opera in sé si giustifica?
«Milano non ne ha bisogno. Il suo sistema di tangenziali funziona e per una, la est, è previsto un raddoppio. Il tunnel, al contrario, attira il traffico in città. Una scelta controcorrente con le politiche adottate in tutte le città moderne, che fermano le auto ai parcheggi di interscambio con il trasporto pubblico».
Letizia Moratti ha detto ieri che "tutti gli strumenti che tolgono le auto dalla strada sono utili e importanti".
«Beh, il tunnel non lo fa. Non intercetta le principali direttrici di entrata a Milano, vale a dire le autostrade da Bologna, Genova e Venezia, se non quest´ultima, ma con un lungo tragitto per arrivarci. È accessibile solo per chi arriva da Torino e dall´Autolaghi. Qual è allora lo scopo? Collegare Linate alla città? Se è così, si costruisca piuttosto la metropolitana, che oltretutto costa meno dei 2,5 miliardi della galleria».
Il tunnel è fatto in project financing. Sempre che i privati non chiedano poi un intervento pubblico.
«Appunto. È probabilissimo che la mano pubblica ci debba mettere dei soldi lo stesso. E ad ogni modo, grandi opere che incidono nel tessuto urbano presentano sempre spese connesse di infrastrutturazione, come i raccordi. Le rampe di una galleria che corre 50 metri sottoterra richiedono uno sventramento pazzesco, in una città che da otto anni soffre per le voragini del piano parcheggi dell´ex sindaco Albertini».
In una parola il tunnel Expo-Linate è...?
«Una follia».
Perché la Moratti crede in questa follia?
«Non me faccio una ragione, se non con spiegazioni estreme che mettono paura».
Quali?
«Il tunnel è avulso da qualunque logica urbanistica, economica e ambientale, non è nel programma elettorale del centrodestra, è stato tolto dal Pgt, il Piano di governo del territorio. Non ne parlava più nessuno, eppure il sindaco lo ripropone con forza a fine mandato, con il consiglio agli sgoccioli dei lavori ordinari. Viene da pensare che la Moratti sia eterodiretta».
Spieghi meglio.
«Se sommiamo l´urgenza sul tunnel al fatto che Expo è a rischio perché i proprietari delle aree tengono sotto scacco la città e il Paese, si ha l´impressione di un territorio governato da interessi privati. Ci sono due grandi progetti, uno buono e uno cattivo, ma nessuno dei due è deciso dalla politica sulla base di motivazioni urbanistiche. È questo che mi spaventa».
Il tunnel, insomma, si limiterà a incrementare il valore delle aree che attraversa?
«Banalmente, sì. Una valorizzazione legata esclusivamente all´uso del mezzo privato. Se con l´auto si arriva in centro in 15 minuti, anziché in 25, il vantaggio per i proprietari immobiliari è evidente».
Che cosa può succedere?
«Se il tunnel viene legato a Expo potrebbe sottostare ai poteri speciali del sindaco e mancherà una approfondita discussione in consiglio comunale sulla mobilità complessiva. Il tunnel è la morte di Ecopass e della sua evoluzione in congestion charge. Vorrei sapere cosa ne pensi l´ex assessore Edoardo Croci, ispiratore di Ecopass e promotore dei referendum ambientali, tornato di recente a fianco del sindaco».
Investimenti astronomici e una consiliatura in scadenza. Il tunnel non è già sul binario morto?
«Pareva già così quando fu tolto dal Pgt, eppure questa ostinazione fa dubitare. Ne abbiamo già viste di opere pubbliche che hanno soddisfatto determinati interessi solo per il fatto di avere aperto i cantieri, senza necessità di venire completate».
Corriere della Sera
Verde e housing sociale a Cascina Merlata La Moratti: il tunnel, un’opera importante
di Armando Stella
Un tempo fu parco agricolo, oggi è una landa di periferia. Diventerà il villaggio della Milano 2015: il villaggio Expo. La «rigenerazione» di Cascina Merlata è il primo sviluppo urbanistico legato all’Esposizione. Il masterplan ridisegna oltre 520 mila metri quadri al confine nord-ovest, tra l’A4, il cimitero e la ferrovia: palazzi da 9 a 23 piani, 3.800 appartamenti per 8 mila abitanti, housing sociale e affitti calmierati, e poi un hotel, un centro commerciale, uffici, 200 mila metri quadri di verde, alberi, piazze pedonali, scuole, asili, 6 chilometri di piste ciclabili, un frutteto, campi da tennis e piscine. L’accordo di programma sarà ratificato a breve dal consiglio comunale. I cantieri apriranno tra fine 2011 e inizio 2012:
«Realizzeremo il 90%delle opere in tre anni» , promette Alessandro Pasquarelli, ad dell’immobiliare EuroMilano e di Cascina Merlata spa. «Un nuovo habitat metropolitano sotto il segno dell’ecosostenibilità» , recita il claim del progetto. Ieri, il lancio in grande stile: cinema Odeon e presentazione 3D. La spina dorsale della cittadella è un parco lineare su cui si aprono molte isole residenziali, il prezzo degli alloggi varierà tra 1.980 e 2.500 euro e più al metro, il «mix abitativo» avvicinerà giovani, coppie, fasce deboli.
«È un nuovo modo di inquadrare la città— sottolinea il sindaco Letizia Moratti —. Mai più quartieri ghetto» . Il piano d’intervento, chiosa Pasquarelli, «dimostra che i canoni sociali si possono applicare, a Milano. Ci stiamo lavorando con Fondazione Cariplo e la Cassa Depositi e Prestiti» . Una passarella pedonale sospesa collega il villaggio al sito Expo. È un cordone ombelicale. I due poli nascono insieme. E comunicano. I 323 mila metri quadri di nuovi edifici, nel 2015, ospiteranno i duemila operatori della manifestazione e solo alla chiusura saranno messi sul mercato.
«Cascina Merlata — commenta l’assessore comunale all’Urbanistica Carlo Masseroli— certifica la buona alleanza tra interesse pubblico e privato stabilita dal Pgt» . Può essere «un bel progetto» , concede il capogruppo pd Piefrancesco Majorino, ma solo a patto che «si facciano le cose in modo trasparente. Cascina Merlata non c’entra niente col Pgt, questo è il suo pregio maggiore» . Gli architetti Paolo Caputo e Antonio Citterio, vincitori del concorso di progettazione, firmano il masterplan di riqualificazione: «È uno spazio aperto, inclusivo, da vivere. Non è un recinto» . Intanto, rispunta l’ipotesi del super tunnel di 11,5 chilometri che scorre la città dal sito Expo all’aeroporto di Linate: «Tutto quello che toglie traffico in superficie penso che possa essere visto come un progetto utile e importante» , sostiene la Moratti. La delibera potrebbe approdare in giunta entro la fine del mandato, consentendo l’avvio entro l’anno degli scavi per la galleria.
Il progetto del tunnel Linate-Expo procede spedito verso il via libera della giunta, che potrebbe arrivare addirittura prima della fine della legislatura. Nonostante la decisione del consiglio comunale di vincolare l’opera al nuovo Piano urbano della mobilità (ancora tutto da scrivere), dopo l’approvazione del Piano di governo del territorio (dove rientra nel capitolo sulle infrastrutture) il progetto della maxigalleria sotterranea ha subito un’accelerata. Il tempo stringe e i privati fanno pressione perché il Comune sciolga la riserva al più presto, in modo da bandire la gara d’appalto entro questa primavera e iniziare i lavori di scavo a fine anno. Solo così, scrive la società Condotte nel piano di fattibilità presentato al direttore generale di Palazzo Marino prima di Natale, si potrà arrivare in tempo per l’Esposizione del 2015 con i primi quattro chilometri di galleria da Garibaldi a Cascina Merlata.
I tecnici sono al lavoro da settimane e ieri, in un vertice tra Comune e privati, il progetto è stato sbloccato. Almeno a parole. L’amministrazione ha accolto con favore la proposta di Condotte (pronta a imbarcare nella partita Impregilo, visto che Torno è fallita) e chiede solo alcune modifiche tecniche. Cambiamenti che ieri il rappresentante di Condotte ha già spiegato di essere in grado di mettere in pratica senza problemi. Quindi, se tutto filerà liscio - e in vista non c’è alcun freno politico che possa mandare all’aria il cronoprogramma - entro un paio di settimane i privati riceveranno la lettera ufficiale con l’interesse del Comune. Poi, a metà aprile, la delibera approderà in giunta per l’ok politico al progetto.
Un via libera che dovrà essere confermato anche dal consiglio comunale, a questo punto non prima di settembre visto che fra una settimana l’assemblea si scioglierà e nei mesi di aprile e maggio potrà riunirsi sono per discutere provvedimenti urgenti. È chiaro che se il consiglio dovesse bocciare il progetto il parere della giunta non conterà più nulla.
Arriverà il benestare della politica? Al momento non sembrano esserci ostacoli visto che sia il sindaco sia gli assessori coinvolti - Carlo Masseroli (Urbanistica) e Bruno Simini (Lavori pubblici) - hanno più volte espresso parere positivo per la mastodontica opera che verrebbe interamente finanziata dai privati (costerà 2 miliardi e mezzo) e che, una volta realizzata, porterà sotto terra 110mila auto al giorno.
Eppure approvare un intervento così imponente a un mese dalle elezioni potrebbe risultate rischioso. Quindi non è da escludere l’ipotesi di una frenata improvvisa all’ultimo momento per rinviare la questione alla prossima giunta. Il sindaco Moratti non fa alcun accenno al tunnel nel suo programma elettorale. I privati però insistono: «Le infrastrutture non hanno colore politico - commenta un rappresentante di Condotte - O servono o non servono. Milano deve rispondere solo a questa domanda: se la risposta è sì, più tempo si perde a decidere più tardi si arriva alla consegna del tunnel. Expo è vicino e la galleria, assieme alla M4, potrebbe essere uno degli accessi principali ai padiglioni». L’occasione «è d’oro», e arrivati a questo punto un rinvio potrebbe anche voler dire cancellare del tutto il progetto dalla Milano del futuro. Cosa, tra l’altro, che il centrosinistra ha già promesso di fare in caso di vittoria.
postilla
lo spiega perfettamente anche l’articolo, senza bisogno di particolari giri di parole: il tunnel serve a chi lo costruisce, eventualmente agli interessi di chi intende “valorizzare” immobili esistenti e non lungo il corridoio coinvolto, e per nulla alla città e al territorio.
A meno che per servizio non si intenda risucchiare una enorme quantità di risorse e aspettative verso un progettone anni ’50-’60 che ignora allegramente tutto il dibattito attuale sulla città sostenibile, la mobilità integrata, e ci ributta in sostanza a un modello urbano tipo la Milano di Piero Portaluppi-Cesare Albertini, quella che già nel dibattito sul Prg degli anni ’50 gli osservatori attenti definivano minacciosa e mastodontica. Una grossa bestia insomma, come chi ispira e sostiene certe decisioni, micidiali per tutto tranne il conto in banca dei soliti noti (f.b.)
Assomiglia a una corsa a ostacoli l'Expo. Non appena si profila l'ultimazione delle fasi preliminari e la macchina sta per entrare nello stadio delle realizzazioni, ecco affacciarsi l'intoppo. Anche oggi l'iniziativa va sui giornali per le polemiche tra i protagonisti e le fibrillazioni partitico-istituzionali, non grazie ai progetti per i quali è stata pensata. Il clima preelettorale, poi, gioca la sua parte nel provocare forzature e nel distogliere l'attenzione dagli argomenti che invece dovrebbero mobilitare tutta la città.
Il Bureau di Parigi ha affidato a Milano l'evento del 2015 facendo proprio un sentire ormai diffuso in ogni angolo della terra e cioè il proposito di dare avvio a una stagione che accenda i riflettori del mondo industrializzato e dei Paesi in via di sviluppo su un argomento sul quale l'umanità gioca il futuro: «Nutrire il pianeta, energia per la vita» . Invece sta accadendo qualcosa di incomprensibile per chi guarda da fuori la città e il nostro Paese, del quale proprio Milano continua a rivendicare di essere forza propulsiva.
Il contrasto è stridente. Da una parte stanno le apprensioni per la catastrofe del Giappone, che ha messo il mondo davanti ai rischi dell'approvvigionamento energetico, e le inquietudini indotte dalle conseguenze del «risorgimento arabo» (come l'ha chiamato il presidente Napolitano) in ordine al petrolio e al bisogno di lavoro e di cibo di popolazioni dove le giovani generazioni sono la stragrande maggioranza. Dall'altra parte sta Milano, in cui Comune e Regione sembrano usare lingue diverse, la Provincia mostra cautela, la Camera di commercio preme, lo Stato traccheggia. E tutti insieme si frenano l'un l'altro e disattendono i tre obiettivi dell'Expo: educazione, innovazione, cooperazione.
Che la coperta delle disponibilità economiche sia corta non può essere un alibi. Le risorse, proprio se scarse, sono legate allo slancio ideale e alla conseguente capacità di stabilire priorità e obiettivi generali di bene comune, di puntare al massimo coinvolgimento di organizzazioni, persone, enti, mezzi, proprio mostrando che, se si va tutti in modo trasparente verso una direzione concordata, si innescano circoli virtuosi e si dissipano le eventuali zone grigie che le inazioni potrebbero indurre. Si può ottenere di più di quanto ciascuno ci ha messo, quando il risultato è collettivo. È una questione di crederci, di saper sacrificare gli interessi degli organismi che si rappresentano in nome di vantaggi che vanno oltre steccati e visioni particolari, di cercare i punti di mediazioni invece delle occasioni di scontro.
Insomma: è una questione di «volontà politica» e questa non è proprietà dei partiti e delle istituzioni che essi governano al momento, ma dovrebbe essere espressione d'un moto generale, della «polis» , della città intera, delle forze vive, responsabili, vogliose di futuro. Sarebbe un autogol clamoroso di Milano e del Paese se anche di fronte alle scadenze impellenti dell'Expo dovessero prevalere gli egoismi e venisse approfondito il fossato tra politica e società civile. C'è da chiedersi sino a quando città, forze produttive, rappresentanze sociali e culturali, giovani reggeranno lo stress istituzionale in atto, destabilizzante per l'oggi e pieno di insicurezze per il domani.
A un attento osservatore negli anni 70 Milano sembrava si stesse trasformando in una città di lavandai, nuova attività cui pareva dedicarsi la media e piccola borghesia milanese: tutti i sottotetti delle nuove costruzioni erano una fila di lavanderie con ampio stenditoio in corrispondenza degli appartamenti dell’ultimo piano. Il regolamento edilizio lo permetteva, dunque come perdere l’occasione per avviare piccole attività imprenditoriali?
Date le dimensioni, non erano solo il sostitutivo di uno stendibiancheria pieghevole. Ma non erano nemmeno lavanderie e stenditoi, era una delle stagioni dell’abusivismo edilizio milanese di massa: divennero tutte camere da letto con bagno. Poi con le Dia (Dichiarazioni di inizio attività – modifiche senza esplicita concessione) se ne videro delle belle e lo stesso accadde con la legge del 2001 sui sottotetti: la stagione di mansarda selvaggia. Le norme furono interpretate nei modi più stravaganti, a cavallo dell’abuso.
Insomma, se vogliamo dare un nome ai fenomeni possiamo dire che l’"abusopoli" alla milanese, mai grave come in altre parti del Paese, c’è sempre stata. Ma l’innata virtù ambrosiana, la parsimonia, fu un freno agli eccessi: abusare sì ma con moderazione. Oggi anche questa moderazione è scomparsa e il caso di Gabriele Moratti ne è l’esempio: probabilmente si tratta di abuso d’abuso. Ormai abbiamo messo da parte l’inutile pretesa che chi governa e i suoi famigli siano tenuti a dare il buon esempio, dobbiamo aspettarci di tutto, cullati solo dalla speranza che i loro abusi saltino fuori per merito, si fa per dire, dei compagni di merenda. Laura Sala, moglie di Mario Chiesa, portò il marito in Tribunale perché lesinava sugli alimenti.
Stefania Ariosto dette una mano alla giustizia in un quadro di relazioni sentimentali tra sua sorella e l’avvocato Previti e tra lei stessa e l’avvocato Dotti. L’ultima, Cinzia Cracchi, mise nei pasticci il sindaco di Bologna. Gabriele Moratti è balzato agli onori della cronaca per non aver pagato il suo architetto. Sua madre, nostro sindaco, invoca trasparenza. Personalmente le chiederei qualcosa di più: conoscenza delle leggi e saper vedere.
In uno dei recenti video apologetici sul suo canale digitale la vediamo mentre inaugura un parcheggio sotterraneo. Durante la visita si ferma dinanzi a un box con la serranda aperta: dentro un signore mentre piacevolmente passa il suo tempo in quello che ha trasformato in una via di mezzo tra un locale hobby e un salottino.
Lo sguardo del sindaco e il suo commento sono compiaciuti e incoraggianti. Non mi risulta che rientrata in Comune abbia mandato i vigili a fare un sopralluogo e a contestare l’abuso in materia di destinazione d’uso e salubrità degli ambienti: siamo in campagna elettorale e tale la madre tale il figlio.
Sul caso Gabriele Moratti poi, quanto alle parole dell’assessore Masseroli sulle salvifiche virtù del nuovo Pgt che non ammetterà più simili abusi, vorrei solo ricordare che nessuna buona legge sostituisce l’onestà, impedisce l’abuso o mitiga l’arroganza naturale dei potenti.
Milano, la crisi viene da lontano. Il Pil locale scende a causa della crisi degli ultimi anni, e questo è inevitabile. Diminuisce però anche la sua incidenza sul Pil nazionale. La città rimane la locomotiva dell´economia italiana ma arranca un po´. E il confronto con la media delle città euro (quelle assimilabili a Milano: Amsterdam, Barcellona, Lione e Monaco) è ancora più negativo. I dati. Per Bankitalia il Pil di Milano e provincia nel ´94 pesava per il 10,1% del Pil nazionale. Nel 2009 la quota è scesa al 9,5. Nello stesso periodo il Pil pro capite milanese è cresciuto dell´1%, contro il più 28 delle città Euro (dati dell´istituto di ricerca indipendente Bak Basel). Queste stesse città sono andate in pareggio fra il 2004 e 2009, ammortizzando il peso della crisi.
Milano, invece, ha accusato pesantemente la recessione, con un Pil che nel 2009 era 12 punti sotto quello del 2004. Ancora: fra il 1995 e il 2000 la crescita di Milano è stata superiore a quella di tutte le altre province lombarde, fra il 2000 e il 2005 è stata inferiore a tutte.
Non può essere solo un problema di ridistribuzione, essendo pur vero che in 25 anni un milione e mezzo di residenti si sono trasformati in pendolari e consumano altrove ciò che producono qua. I numeri sul Pil «rattristano», sostiene in un articolo sul settimanale online Arcipelago Milano, Edoardo Ugolini, manager finanziario già in Banca Intesa, coautore di uno studio per il quale «Milano si è, per così dire, italianizzata. Non sta facendo meglio di un Paese sonnacchioso». La tesi è che al modello di sviluppo industriale non ne sia stato sostituito uno altrettanto efficiente. Il terziario non è bastato a rimpiazzare le fabbriche e la città ha preferito affidarsi allo sviluppo immobiliare. Scorciatoia inutile, perché il mattone distribuisce la ricchezza prodotta a una platea ristretta, che va dal costruttore al manovale. E non aiuta nelle congiunture negative.
La risposta poteva essere l´Ict, l´Information and communication technology ma negli anni ‘90 «i salotti buoni dell´economia hanno respinto quei giovanotti dai modi informali, rifiutando il ricambio generazionale», racconta Adrio De Carolis, oggi 43enne. De Carolis nel 1999 cedette a peso d´oro la sua Datanord Multimedia a Bipop. Vendita a suo tempo non poco discussa, ma quella storia rende l´idea: l´Ict poteva essere il futuro, fu soprattutto una grande bolla speculativa. Eppure per De Carolis si deve ripartire da lì, dall´Ict, «per recuperare l´anima produttiva della città».
Un altro imprenditore, Luca Beltrami Gadola, direttore di Arcipelago Milano, esamina le conseguenze di questo impasse: «Si amplia la forbice sociale, i ricchi sono sempre meno e, sempre più ricchi e globalizzati, perdono interesse per la città».
Intanto il tasso di disoccupazione milanese è superiore di un punto percentuale a quello lombardo. Cala lo skill ratio, cioè la scolarizzazione (lauree e diplomi) della forza lavoro, che per le qualifiche medio-alte incontra più difficoltà nel trovare un impiego. Qui ci sono 200.000 studenti universitari ma diminuiscono i brevetti. Onorio Rosati, segretario della Camera del Lavoro, è preoccupato: «I dati del Pil certificano che Milano ha tenuto sul versante della capacità produttiva e in un quindicennio aperto dalla globalizzazione e chiuso dalla crisi non era scontato. È vero però che questa crisi è di sistema. È sbagliato delegare il rilancio solo ad Expo, che non lascerà nulla di definitivo. Pensiamo magari alla green economy, ad accordi territoriali per inserire i neolaureati nelle imprese».
L´economista Pietro Ferri redige il rapporto trimestrale di Unioncamere sull´economia lombarda: «Fermo restando che i dati macroeconomici a livello di area metropolitana vanno presi con precauzione, quanto ad attendibilità, il ritardo di Milano rispetto ad altri Paesi è visibile. Le infrastrutture sono indietro, lo sviluppo informatico e tecnologico è bloccato. Basta guardare al mancato coordinamento fra enti locali sulle misure antismog per rendersi conto che qualcosa non va».
«Mai trattare una perdita di quote di Pil come una crisi - avverte un altro economista, Giacomo Vaciago - queste cifre non dicono che Milano è più povera ma che altrove (Veneto, Emilia, Marche) si cresce di più. Da tempo sostengo che cresce chi lo vuole fortemente, come Trento che ospita il primo centro europeo di ricerca di Microsoft, o Parma. Milano ha rinunciato a volerlo davvero. La crescita te la devi meritare, nessuno te la regala».
E quindi, professore? «E quindi la Moratti cosa fa? Un po´ di edilizia. Cominci piuttosto dall´efficienza di una buona amministrazione. Andiamo sul sito dei Comuni lombardi a verificare quante domande e pratiche si possono sbrigare online da casa, senza code agli sportelli. L´inquinamento da traffico è la prova più evidente di quanto poco si possa usare il computer, perché si costringe la gente a muoversi di persona. Il computer è trasparente, rende più difficili furbizie e favori. Tecnologia ed efficienza della pubblica amministrazione permettono di attrarre investimenti dall´estero, quelli che oggi ci mancano».
Che cosa potrà dire il centrosinistra su Expo 2015 in campagna elettorale? Che ne stanno pensando l’uomo della strada e la casalinga di Voghera? Credo che a quest’ultima domanda sia abbastanza facile rispondere: dopo le tante figuracce che stiamo facendo all’estero, anche quella di far naufragare l’Expo sarebbe la goccia che fa traboccare il vaso, una figuraccia per l’Italia ma soprattutto per noi milanesi. Non credo che pensino ad altro, perché sulle varie panzane del tipo «un’occasione da non perdere» piuttosto che «una grande occasione per Milano» hanno già capito che l’occasione sarà per pochi e che il codazzo di grane tra malagestio, arroganze, incapacità e favoritismi sarà inevitabile.
La questione delle aree, ancora irrisolta, e le ultime cronache cittadine sono l’infinita telenovela dell’amministrazione ambrosiana di centro destra e l’Expo ne sarà solo una puntata. Il giorno della primavera 2008 in cui il Bie designò Milano e l’Italia a ospitare Expo, si poteva immaginare quel che ne è seguito? Forse sì, visto che il secondo governo Prodi era già caduto – per farlo cadere ci misero del loro molti di quelli che ora si sbracciano per cacciare Berlusconi – ed era facile immaginare che i subdoli nemici di Expo fin dalla prima ora – la Lega con Bossi e Tremonti – sarebbero sbarcati a Roma.
Da qui non tutti ma molti di mali di Expo, forse i più gravi. Come spesso le accade la sinistra è in difficoltà: il precedente caso sulla "sicurezza" è esemplare ma sparare a palle incatenate contro Expo vorrebbe dire offrire all’avversario il facile argomento di essere vittima della sindrome da opposizione preconcetta e di non volere il "bene" della città e dei milanesi. Può non essere così. Che cosa chiedono l’uomo della strada e la casalinga di Voghera? Chiedono di non fare figuracce, e la sinistra deve essere con loro: quello che si deve dire è che non è pensabile che a gestire un’operazione tanto complessa e difficile ci siano dei dilettanti allo sbaraglio come ormai hanno capito anche i sassi.
Già si è visto e si continuano a vedere solo una serie di manovre di potere coperte dai fuochi di artificio mediatici per distrarre la gente e celare l’incapacità di risolvere i problemi. Non per nulla prima di andarsene e sedersi di nuovo negli scranni della Camera e far finta di credere alle balle su Ruby, Lucio Stanca blindò i suoi collaboratori minacciando severe sanzioni per chi avesse svelato cosa si facesse nelle stanze di Expo 2015 Spa e ancor peggio negli Uffici di piano dove si sviluppa il progetto: il tutto doveva essere considerato alla sorta di un segreto aziendale.
La posizione della sinistra deve essere chiara: l’idea forte dell’Expo era convincente e il governo Prodi la sostenne con tutte le forze; il suo snaturamento a favore di una riduzione ad affare immobiliare va impedito; il lascito di Expo alla città va garantito progettando sin da adesso i futuri usi e assicurando per gli stessi le coperture finanziarie prevedibili e necessarie; d’ora in avanti ogni sviluppo progettuale e ogni scelta deve essere comunicata, trasparente e condivisa realmente dalla "città" che non è sinonimo di "maggioranza del consiglio comunale". Se non ci sono queste condizioni a tutela del buon nome di Milano bisogna dire e ripetere: Expo sì ma con questa gente no.
Mezzo milione di nuovi abitanti e una volumetria di 35 milioni di metri cubi. Sono numeri da far paura a chiunque abbia buon senso. Sarà il mercato a smentire la pantagruelica tavola imbandita dall’assessore Masseroli. I convitati hanno già la pancia gonfia d’invenduto e di sfitto: una bolla immobiliare che la Regione Lombardia nel 2009 quantifica in 325.000 vani residenziali non occupati per la Provincia di Milano. E che nel capoluogo ambrosiano arriva a oltre il 10 per cento del patrimonio immobiliare.
Ma a fare più paura è la mancanza di un progetto che sappia guidare la traduzione di quei numeri in disegno urbano. Si parla nel Pgt della necessità di una «regia pubblica consapevole». Ma il sovvertimento delle regole del buon costruire che il Piano mette in campo rende la prospettiva impraticabile. Manca una task force in grado di gestire gli attori, armonizzandone l’azione nell’interesse pubblico. Ma mancano ancor prima le idee guida. Se poi dovessimo stare alle simulazioni esemplificative, quanto di civile resiste in questa città appare fortemente minacciato.
Il pubblico cura l’albero, il privato ne gode i frutti: questa in sintesi l’impostazione del Pgt. Ma nella città albero e frutto sono inscindibili. Il frutto non è la rendita, bensì le attività, le relazioni, gli edifici e i luoghi. E la qualità dei luoghi è un bene collettivo: dove si assicurano risorse per il vivere, sicurezza, relazioni civili, bellezza. Dove si radicano le vite e si costituiscono le identità. Una Milano devastata dall’assalto immobiliarista è una città che ci degrada tutti. Che ci abitua al brutto. Che ci umilia con l’interesse di pochi che si impone su quello dei più.
Una Défense in via Stephenson? Non hanno insegnato nulla i centri direzionali che la sera diventano deserti e insicuri? Senza contare il resto: la mobilità indotta, i costi elevati di trasporto, il tempo di vita depredato. Ma si sa: spostare folli volumetrie in quel postaccio segregato dalle infrastrutture significa tenere in vita un morto: le torri ligrestiane in fregio alle autostrade che il mercato, tanto venerato, non ha mai degnato di attenzione.
L’attribuzione di diritti volumetrici alle aree agricole? Farà del male alla campagna e alla città. Per secoli l’agricoltura ha dato vita a un paesaggio agrario che suscitava la meraviglia dei visitatori stranieri. L’agricoltura, aggiornata, deve tornare ad essere un lavoro redditizio per chi la pratica; ma deve anche tornare a prendersi cura del paesaggio, ricevendo dalla collettività un sostegno mirato a questo fine. Non c’è alcun bisogno che le aree del Parco Sud diventino di proprietà pubblica. Quei diritti improvvidamente inventati rovesceranno sul corpo urbano un potenziale edificatorio che ha tutte le caratteristiche di un assalto.
Avremo una città disgregata e disarticolata. Quando invece si tratterebbe di rafforzare il policentrismo urbano (un’idea che era già di Leonardo, quanto proponeva di imperniare l’espansione di Milano su 10 fulcri vitali, uno per ogni settore urbano). Punti di forza di un riassetto policentrico potrebbero essere le aree dismesse e gli scali ferroviari. Ma questo comporta la capacità di sospingervi le attività che fanno città e di infondere bellezza ai luoghi. Una regia, appunto.
Nel modo in cui sono state liquidate le 4.765 osservazioni al Pgt c’è tutta la concezione della democrazia di chi oggi governa Milano e il Paese. Si è persa un’occasione preziosa per costruire cittadinanza: per far crescere la coscienza collettiva su quel bene prezioso che è la città.
Il futuro delle aree ex Falck è condensato in un plastico vista mare. Ieri Renzo Piano nel suo studio affacciato sulla spiaggia di Vesima, riviera genovese, ha illustrato il progetto appena depositato nel Comune di Sesto San Giovanni, presente il sindaco Giorgio Oldrini e l’immobiliarista Davide Bizzi, promotore del megainvestimento. «Trasparenza, trasparenza» ripete l’architetto, come tema dominante di un progetto che— se l’iter amministrativo andrà avanti — impegnerà i protagonisti per dodici anni. Trasparenza «nel fare, perché in questa operazione non ci sono segreti e zone opache» dice Piano e anche in senso molto letterale perché il progetto prevede un grande impiego di vetro (e di acciaio in onore alla memoria dei luoghi).
Trasparenti saranno — per i primi quattro piani— le dodici torri (alte fra i 70 e gli 80 metri, a sezione quadrata di 25 metri per lato) di residenza libera, raggruppate intorno al serbatoio dell’acqua e non più diffuse nell’area, tanto trasparenti da prevedere negli appartamenti anche un «giardino d’inverno» . Trasparente sarà in parte la stazione ferroviaria a ponte che scavalcherà i binari e che dovrebbe essere il primo cantiere aperto. «Abbiamo raggiunto l’accordo con le Ferrovie— dice Bizzi — anche se la firma formale non c’è ancora: noi acquistiamo le aree Fs pagandole in parte con la costruzione della nuova stazione che consegneremo chiavi in mano» .
Tempi previsti: cantieri aperti nel 2012, primo lotto in consegna il 2015, «in tempo per l’Expo» borbotta il sindaco. Il primo lotto comprende la stazione, residenze convenzionate nelle immediate vicinanze, il mercato coperto nell’area Omec, quattro torri, tutto seguendo una diagonale che porta all’edificio del T5, infine le residenze convenzionate e interventi di urbanizzazione nella zona di San Giorgio. Il tutto, fra residenze di diversa tipologia, servizi e spazi commerciali, per 300 mila metri quadri, circa un terzo del piano completo. Piano generale che si distribuisce così: il 60 per cento residenze (600 mila mq), 100 mila mq attività produttive (indicativamente nel T5, nel settore dell'energia), 33 mila mq ricettivi (un albergo), 116 mila mq commercio e servizi, un plesso scolastico e una piscina nell’area laminatoio, una biblioteca nella torre fumi, un campus in stile universitario nel Bliss, mentre per il T3 si pensa a un uso flessibile dedicato all’arte e alla musica, ma non a un museo che implica costi fissi di gestione.
Intorno, un parco pubblico: «piantare alberi, lo sapete— dice Piano — è la mia passione» . E aggiunge con appena una punta di polemica «quando me lo lasciano fare» Quali alberi scegliere, per caratterizzare quest’area? «I lambri o gelsi» suggerisce il sindaco. Botanici esperti sono già al lavoro. «Vorrei — dice Piano —. che il più presto possibile l’area fosse almeno in parte visitabile, aperta alla gente» . Bisogna procedere alle bonifiche, Brizzi accenna a una prossima gara di mercato per affidare i lavori. Quanto agli edifici di archeologia industriale, spiega l’architetto, «non si possono umiliare costruendoci sopra, inglobandoli: l’idea è invece esaltare al massimo le strutture e quegli spazi, quasi mitici, e lavorare al loro interno» . Su tutto una visione d’insieme: «Questa — dice Piano — non è periferia, questa è nuova urbanità, la periferia è una questione psicologica più che fisica: qui siamo a sei chilometri dal Duomo» .
Dai palazzinari ai grattacielari: l' evoluzione della specie si compie a Milano con il Piano di Governo del Territorio (PGT) della giunta di Letizia Moratti, che secondo l' apocalittica ma non peregrina previsione del sociologo Guido Martinotti trasformerà l' ex capitale morale nella brechtiana città di Mahagonny, un luogo dove tutto è permesso grazie al denaro. In questo caso l' obiettivo è di moltiplicare il denaro e salvare così i bilanci di alcuni immobiliaristi, in testa il solito Salvatore Ligresti, e dei banchieri che lautamente li hanno finanziati. Un sistema che finché dura si autoalimenta. La specie del palazzinaro prospera a Roma negli anni Settanta e viene esportata a Milano nientemeno che da Silvio Berlusconi il quale, da par suo, delle palazzine non si accontenta e costruisce intere città satellite. Altri tempi. Ora è tempo di "densificazione". Archiviata la palazzina, il nuovo mantra è il grattacielo. Oltre a quelli appena costruiti, tra cui svetta il nuovo Pirellone che celebra per l' eternità il potere del presidente Roberto Formigoni, e quelli di prossima edificazione a City Life nell' area dell' ex Fiera. Con il nuovo PGT in fase di approvazione in una maratona in consiglio comunale prima dello scioglimento, si edificheranno 35 milioni di metri cubi: masceranno circa 100 nuove torri, o addirittura, come valuta l' ambientalista Michele Sacerdoti, 341 Pirelloni; 24 quartieri disegnano la nuova mappa urbanistica, ma soprattutto quella del potere finanziario, cui la politica è sottomessa.
Tra i protagonisti, come sempre fin dai tempi di Craxi e della Milano da bere, spicca Ligresti che, oberato da 2,2 miliardi di debiti, invece di portare i libri in tribunale, sarà salvato da una parolina magica del Piano: "Perequazione". Il meccanismo è semplice. Prendiamo l' area vincolata del Parco sud: le si attribuiscono indici di edificabilità, ma per salvare il verde Ligresti non potrà costruirvi. Per salvare lui, invece, i diritti volumetrici voleranno da una parte all' altra della città e atterreranno in centro, valorizzando altre aree ligrestiane. Milano ha perso nel corso degli anni quasi mezzo milione di abitanti e l' assessore all' Urbanistica ciellino Carlo Masseroli con questo PGT vuole finalmente "ridensificarla". Al punto che Milly Moratti, consigliera di opposizione e cognata di Letizia, calcola che il tasso di densità potrebbe crescere da 7 a 12 mila abitanti per chilometro quadrato. Potrebbe, perché in realtà decine di migliaia di metri quadrati sono desolatamente vuoti e difficilmente le cubature in arrivo nei prossimi anni troveranno nuove anime per occuparle. Quella che va sotto il nome di edilizia sociale, infatti, è in gran parte edilizia convenzionata, cioè a prezzi di mercato solo leggermente scontati. A chi servono case? Ai giovani, ai bassi redditi e agli immigrati, che non si vede come a quei prezzi potranno "densificare" Milano, come Masseroli pretende. Più probabile l' incubo di una Mahagonny desertificata. Ma Letizia Moratti, con un piano che di fatto non impedisce nulla e consente tutto, fa felici i banchieri e la nuova stirpe dei grattacielari, quella che veramente comanda a Milano.
la Repubblica ed. nazionale
Grattacieli e nuovi quartieri scontro sulla Milano del futuro
di Alessia Gallione, Teresa Monestiroli
MILANO - È il libro mastro che dovrà trasformare la Milano dei prossimi vent’anni. Una rivoluzione per l’urbanistica. Che permetterà di cambiare il volto a interi pezzi di città, trasformati in nuovi quartieri per migliaia di abitanti: dagli scali ferroviari dismessi alle centralissime caserme. Fino a zone oggi periferiche come via Stephenson. È lì, su quel triangolo ai confini nord-ovest, che il nuovo Piano di governo del territorio disegna una foresta di 50 grattacieli di uffici: una Défense alla meneghina che, grazie alla vicinanza con il futuro sito dell’Expo, cancellerà capannoni e campi rom.
«Il provvedimento più importante del mandato», per dirla con il sindaco Letizia Moratti. Che il centrodestra è riuscito ad approvare ieri, a pochi mesi dalle elezioni e a dieci giorni dalla scadenza tassativa. Tra la rivolta di associazioni come Libertà e Giustizia e Legambiente, della società civile e del centrosinistra pronto a fare ricorso al Tar contro un provvedimento «illegittimo». Ma che permette già adesso di leggere le vicende di una città, dove i signori del mattone comandano da sempre.
È una cartolina spedita dalla Milano del 2030, quella scritta dal Pgt. Uno strumento atteso da 30 anni, che prevede di far crescere la città fino a 1 milione e 700mila abitanti: quasi mezzo milione in più. Era il 1980 quando venne approvata l’ultima variante al Piano regolatore degli anni Cinquanta. Un’altra epoca. Il Piano di Letizia Moratti e dall’assessore all’Urbanistica Carlo Masseroli promette di aumentare il verde e i trasporti, 30mila case a prezzi calmierati, la tutela dei 42 milioni di metri quadrati del Parco Sud da sempre al centro degli appetiti degli immobiliaristi, Salvatore Ligresti in testa. Per realizzare verde e trasporti servono però 14 miliardi di euro e all’appello ne mancano 9,6.
Ecco il "volto sostenibile" di un Pgt che non dovrebbe «consumare nuovo territorio», ma far crescere Milano recuperando aree degradate come sette scali ferroviari, cinque caserme del demanio, zone del Comune e private. Ma è proprio su quei 7 milioni di metri quadrati messi in gioco, che il Pgt aprirà le porte al cemento. E agli affari. In tutto, soltanto sulle 26 zone destinate a diventare altrettanti nuovi quartieri, caleranno 18 milioni di metri cubi di costruzioni. L’equivalente di 160 grattacieli Pirelli con i suoi 127 metri di altezza. Tra i fasci di binari da smantellare, alcuni sono centralissimi come una fetta della stazione Cadorna, dove si potrà edificare fino a 100mila metri quadrati, o Porta Genova da riconvertire in distretto del design.
All’ex scalo Farini il modello è Manhattan con un Central Park che occupa il 60 per cento dell’area e una selva di grattacieli equivalenti a 19 Pirelli. Ma nel Piano che cancella le destinazioni d’uso in tutta la città e lancia la possibilità di spostare da una parte all’altra di Milano le volumetrie, non tutte le zone sono uguali. In alcune (come a Stephenson) si potrà costruire di più: sarà il Comune a decidere dove. Tra le caserme da riconvertire c’è lo spazio della Perrucchetti, che alternerà case (i Pirelloni sono 27) e spazi sportivi. In periferia, invece, nella zona sud-est di Porto di Mare, traballa il progetto di realizzare una Cittadella della giustizia con tribunale e carcere. Il resto, come sempre, lo faranno gli interessi del mercato e il tempo..
la Repubblica ed. Milano
Grattacieli e nuovi quartieri scontro sulla Milano del futuro
intervista a Vittorio Gregotti, di Maurizio Bono
«No, non sta proprio in piedi, è un grande equivoco a partire dal nome: intanto non è un "piano", perché il suo scopo è proprio ridurre la programmazione al minimo. E tantomeno ha qualcosa a che fare con il "territorio", riguardando solo l’area comunale di Milano, il che è un’assurdità palese in una città piccola e così legata al suo hinterland...». Vittorio Gregotti, architetto di fama internazionale con mezzo secolo di progettazione alle spalle, nell’immediato futuro una città satellite a Shanghai e un saggio su Architettura e postmetropoli per Einaudi, è anche l’ultimo architetto che a Milano ha disegnato e visto vivere un quartiere intero, Bicocca. «Capirà bene, perciò, che non sono di quei teorici del non costruire nulla, costruire è il mio mestiere». Ma il Pgt, che da anni agita il dibattito politico e urbanistico milanese e ha finito per passare col colpo di mano che ha cassato 4700 osservazioni, non gli va giù: «Sono stato al recente incontro di Libertà e Giustizia sul tema e condivido tutte le obiezioni che ho sentito. Ora l’opposizione farà i ricorsi, certo, ma è un uno scempio».
Pensa alle conseguenze? Immagina una Milano peggiore?
«Mah, è impossibile perfino immaginarla nei dettagli, tanto sono strampalate le premesse. Per dire, l’aumento di 400 mila anime quando dagli anni Settanta i residenti fuggono per i prezzi troppo alti in città e niente fa pensare che caleranno inducendoli a tornare. Poi l’idea che ad attirarli sarà un 35 per cento di case costruite da cooperative, quando il problema urgente è la lista di 25mile famiglie in attesa di case popolari, che ovviamente non hanno i soldi per pagare il tipo di "basso costo" previsto dal Pgt. E per finire i servizi, che si tenta di affidare tutti ai privati, e che a partire dai trasporti sono già insufficienti sulla carta».
Insomma, non funzionerà: allora perché tanto allarme?
«Perché il Pgt dovrebbe durare 5 anni e avere effetti fino al 2030, e nel tempo una programmazione è indispensabile. Invece sono riusciti a non prevedere nel Pgt neppure l’Expo: quello andrà per conto suo. Vede, lo sfondo generale è che tutte le città sono in crisi, da Parigi al Cairo a Shanghai, e con loro purtroppo buona parte della cultura urbanistica. La ragione è che è sempre più difficile capire qual è il bene collettivo da perseguire, e ancor di più in Italia dove il disastro della politica dà ben poche linee guida. Ma servono perlomeno ipotesi responsabili che si confrontino con la realtà. Poi si possono cambiare, correggere, ridiscutere. Invece qui di idee non ce n’è. Tranne una».
Cioè?
«La "perequazione", funziona così: chi ha diritto a costruire così poco che non gli converrebbe farlo, può renderlo conveniente trasferendo i diritti altrove. Ma i diritti di edificabilità li distribuisce proprio il Pgt, sui terreni "periurbani" in gran parte di proprietà degli immobiliaristi, prima a indice zero. In pratica regala valore: anche senza un mattone sopra quegli indici cominceranno a rendere in finanziamenti bancari. Se da tempo è un sospetto fondato che il Pgt sia soprattutto al servizio della proprietà immobiliare, diventerà certezza. Il vecchio Marx lo definirebbe capitalismo monetario globalizzato».
Torniamo a Milano. Come siamo finiti in questo vicolo cieco?
«Anche l’opposizione ha le sue colpe. Tre anni fa ho avuto una discussione con l’assessore Masseroli e lui, con una certa brutalità che lo contraddistingue, è stato chiaro nel dire che voleva la deregolazione, fino all’eliminazione delle destinazioni d’uso. L’errore dell’opposizione è di non aver mai pensato un anti-piano».
Da dove cominciare? I vecchi piani regolatori, ne avrà fatto esperienza a Bicocca, funzionavano male e a suon di deroghe.
«Eccome. Però erano frutto di un’elaborazione seria, anche di urbanisti di valore. E c’erano buone idee nel nuovo Piano regolatore in discussione a Roma prima del cambio di giunta, ora lettera morta. Alla Bicocca, invece, ho avuto la fortuna di un primo committente, Leopoldo Pirelli, che ha accettato la condizione di non fare un quartiere dormitorio, e l’idea che si potesse solo inserendovi funzioni forti: l’università, che dà buoni risultati, ma anche il teatro, che certo poteva andare meglio. Poi per fortuna altri servizi sono arrivati, con molto ritardo».
Col Pgt sarebbe andata peggio? Certe funzioni sono indicate anche lì, per le aree dismesse.
«E non è affatto scontato che debbano andare proprio lì, e non magari dove servirebbero e mancano. Ma nelle mille pagine del documento ci sono anche contributi interessanti. Solo che restano lì, senza conseguenze, in un canovaccio abbastanza elastico da consentire tutte le eccezioni e non prevedere nessuna regola. La regola vera diventa che ciascuno nell’area assegnata fa il proprio interesse come meglio può: il modello è Citylife, pezzi giustapposti senza criterio, e lì si sa che la gara non l’hanno vinta i grandi architetti, ma i maggiori offerenti».
Corriere della Seraed. nazionale
Il piano di Milano e la scelta sociale
di Ugo Savoia
Ci sono voluti quattro anni per confezionare il vestito che Milano indosserà per decenni. Quarantotto mesi di polemiche e accuse incrociate. Ma alla fine la giunta Moratti è riuscita a portare a casa il Piano di governo del territorio, lo strumento urbanistico che fornirà le linee guida per i prossimi vent’anni: che cosa, quanto e dove si potrà costruire da oggi al 2030. Proprio in quell’anno, secondo le previsioni del piano, la popolazione milanese avrà raggiunto quota un milione e 700 mila.
Va da sé che alla comprensibile soddisfazione della maggioranza — era dal 1980 che la città non si dotava di uno strumento di programmazione urbanistica— fanno da contraltare le durissime critiche delle opposizioni, che parlano apertamente di provvedimento illegittimo, approvato in spregio alle osservazioni dei cittadini, e del rischio che nei prossimi vent’anni Milano venga sommersa da volumetrie equivalenti a quasi duecento grattacieli Pirelli.
In attesa di vedere, già dal futuro più immediato, chi avrà ragione, vale la pena di sottolineare che, rispetto a trent’anni fa, del nuovo piano colpisce soprattutto la flessibilità totale, con l’abbattimento di tutti i vincoli previsti dalla legge precedente, il vero elemento di rottura (e di critica) assieme alla Borsa delle volumetrie, cioè la possibilità per chi possiede un immobile di trasferire in un’altra zona della città i diritti edificatori che gli vengono riconosciuti in quanto proprietario. Una flessibilità che ribalta i principii stessi che dal dopoguerra facevano scuola in campo urbanistico specialmente nelle grandi città: non si può fare (quasi) nulla, poi si vedrà con le varianti. Quindi il nuovo Pgt non proibisce a priori, come succedeva in passato, ma valuta a posteriori l’effettiva esistenza di un interesse per la collettività.
Esistono certamente zone vincolate, ma la filosofia di fondo sembra essere quel «vietato vietare» di tempi lontani, questa volta applicato all’edilizia, e accompagnato, come contrappeso, da consistenti interventi in materia di housing sociale: decine di migliaia di alloggi costruiti nell’ambito dei progetti di riqualificazione di intere aree della città (per esempio gli ex scali ferroviari) messi sul mercato a prezzi si spera vantaggiosi per favorire in particolare i giovani nell’acquisto della prima casa, tassello fondamentale per il «ripopolamento» della città che il provedimento mette in preventivo. Ora si tratta di aspettare, auspicando che la flessibilità non si trasformi in un «liberi tutti» edilizio di cui Milano sicuramente non sentiva il bisogno.
Corriere della Sera ed. Milano
La forma della città
di Alberico Barbiano di Belgiojoso
Il Piano di governo del territorio è stato approvato, anche se con modalità un po’ particolari. Vuole essere innovativo, enunciando flessibilità e trasformabilità: occorre però vedere se adempirà anche al compito, che spetta all’amministrazione comunale, di regolare lo sviluppo della città, e organizzare fra di loro le diverse componenti, fisiche e procedurali. Molte questioni cominciano ora. È stata lasciata molta discrezionalità alla fase di gestione. Milano ha delle caratteristiche di insieme, dei valori e delle risorse; come preservarli e difenderli, e innestare efficacemente su di essi l’innovazione, affinché si generi qualità urbana?
Non basta fare gli urbanisti o gli architetti, occorre ragionare e operare in termini particolari, di progettazione urbana, per individuare le caratteristiche che contano, presenze storiche e paesaggio, ma anche le effettive possibilità di uso della città, le attività e le attrezzature, le centralità e le gravitazioni, i caratteri urbani delle diverse parti, i «riferimenti collettivi» ; che presentano diversi tipi di interesse, non solo visivo, ma anche per la loro storia, per la loro funzione, per l’ «immagine» culturale e il significato che hanno per gli abitanti e per le tante categorie di visitatori che Milano vanta; e occorre saper operare sui «meccanismi urbani» , per scegliere azioni adeguate al risultato che si vuole, e per indirizzare in quel senso gli operatori da cui quel risultato in gran parte dipende.
Molte scelte del Pgt, ed ora della sua gestione, incideranno fortemente sulla realtà della città, e potranno innescare situazioni molto positive, ma potranno distruggerne altre invece importanti. E a Milano si sono già ampiamente espresse idee e aspettative, sui giornali, nei convegni, nella letteratura, sulle funzioni, sui valori urbani, e sui caratteri da adottare come riferimento per i progetti e per i piani; e ciò deve prevalere su quanto può venire fuori dalle sole azioni incrociate degli operatori, dalla semplice utilizzazione di strumenti e indici. Ad esempio, nel campo delle presenze storiche, nel centro e in altre aree di sicuro interesse culturale, il Pgt ha dato delle prescrizioni, ma in altri punti, a certe condizioni, concede deroghe che vanificano quelle indicazioni. Per le prime, è necessaria maggiore determinazione; è inutile conservare se si consentono cambiamenti che modificano l’immagine; non serve alla conservazione e dà costrizioni inutili alla innovazione.
E quelle deroghe costituiscono veri e propri «smontaggi» delle scelte di partenza. Nella gestione andrà il più possibile evitato che una ottusa utilizzazione di quelle procedure (convenzioni, piani attuativi) cancelli quelle strategie. Ciò modificherebbe l’intera previsione, che invece è un sostegno per il Piano generale, ed è stata approvata con le procedure di insieme e deve restare vincolante.
E con la perequazione, che consente ai privati di usare i loro diritti volumetrici in altre aree, ora non prevedibili, e non risultanti da una scelta di insieme, può succedere di contraddire la impostazione del Piano generale. Occorre dire che in certi punti le volumetrie create dalla perequazione non possano andare. Non possiamo rischiare di «disfare» l'immagine della città; dobbiamo anzi decidere come farne una città bella. Raramente i grandi progetti hanno generato la qualità urbana che enunciavano.
Molto di più si può fare conoscendo le diverse realtà, nel centro e nelle periferie, e calibrando su di esse gli interventi. Un processo di Piano si trova comunque a operare su componenti che devono restare più vincolanti, e su altre più libere. Con i piani regolatori tradizionali era più facile controllare criteri e risultati, e le varianti permettevano gli aggiustaggi nel tempo senza perdere il controllo. Con il sistema più «dinamico» del Pgt occorre gestire un sistema complesso, e avere idee più chiare sia sugli obiettivi che sui risultati che si vogliono. Benvenuto il nuovo procedimento, ma attenzione a usare anche gli strumenti più sofisticati che sono necessari per la gestione del tutto; il che è possibile, mentre il «lasciar tutto libero» ha senza dubbio effetti negativi (non tutti prevedibili) sulla città, che peraltro già presenta diversi problemi da risolvere e molte situazioni da migliorare.
Corriere della Sera ed. Milano
Approvato il Pgt: «Decisione storica Milano sarà più verde e attraente»
di Rossella Verga
Dopo trent’anni il vecchio piano regolatore va in pensione e lascia il posto al nuovo piano di governo del territorio che spazza via i vincoli urbanistici in nome di una città «flessibile» . Il documento, che allarga lo sguardo fino alla Milano del 2030, è stato approvato dal consiglio comunale (con i soli voti della maggioranza) dopo un iter lunghissimo e infinite polemiche: 34 i «sì» compreso quello del sindaco, Letizia Moratti, che si è presentata in aula puntuale per l’appello e ha permesso con la sua presenza il raggiungimento del quorum (31 consiglieri) per cominciare la seduta. Il centrosinistra al momento del voto ha lasciato l’aula per protesta e per tutto il consiglio ha esposto sui banchi i cartelli: «Non finisce qui» .
Già la prossima settimana saranno pronti i ricorsi. Due i voti contrari, quello di Barbara Ciabò (Fli) e di Carlo Montalbetti (Api). Mentre il Terzo Polo si è spaccato in tre: accanto al «no» della Ciabò, il voto favorevole di Pasquale Salvatore dell’Udc («Per coerenza con il mandato istituzionale» , ha spiegato) e l’astensione del presidente del consiglio comunale, Manfredi Palmeri. «Non è giusto il percorso intrapreso — ha sostenuto invece la Ciabò— Non si possono prendere in giro i cittadini così: non è etico» . Un applauso ha dato il benvenuto al Pgt davanti all’assessore allo Sviluppo del territorio, Carlo Masseroli, visibilmente commosso.
«E’ finito il tempo di parlare del piano — ha detto — ed è già iniziato il tempo del lavoro per farlo diventare realtà» . Masseroli, che ha citato Bloomberg e Cameron, ha definito il Pgt una «riforma liberale» . Che porterà, ha ricordato, «30 mila alloggi in housing sociale, 22 parchi, servizi diffusi per la città, la circle line, l’agricoltura in città e altro ancora» . L’assessore ha ringraziato anche i 1.200 cittadini che hanno depositato le osservazioni. «Ho detto e ripeto — ha aggiunto — che sono meno dello 0,1 per cento dei residenti di Milano. Non per sminuire il loro lavoro ma per fare i conti fino in fondo con la realtà» . Non è mancato un attacco alle opposizioni che hanno annunciato ricorso: «Trovo che sia un segno di debolezza politica— ha osservato— e sono sicuro che chi dovrà eventualmente giudicare saprà leggere la ragionevolezza del nostro lavoro» .
Il sindaco ha preso la parola in aula solo per ringraziare l’assemblea per il lavoro svolto («anche i consiglieri d’opposizione» , ha precisato), l’assessore, alcuni esponenti di maggioranza, gli uffici e il segretario generale ed è incappata in una piccola gaffe dimenticando il presidente Manfredi, salvo poi riprendere la parola per riparare. Chiusi i lavori ha sottolineato in una conferenza stampa che con il Pgt avremo «una Milano più aperta e più attrattiva» . «Il nuovo piano urbanistico — ha aggiunto — porterà più verde, più servizi e più infrastrutture di trasporto pubblico. Ci darà una città dove vivere bene, in classe A, dove ci saranno più efficienza energetica e bollette meno care» .
E sui ricorsi: «La politica deve dare risposte politiche — si è limitata a dire— e non ricorrere alla magistratura» . Soddisfatto il capogruppo del Pdl, Giulio Gallera, che ha ribadito la legittimità del metodo adottato per la discussione delle osservazioni. «La sorte ha messo sul nostro cammino— ha affermato— l’opportunità di riscrivere le regole di sviluppo della città» . Contenta la Lega: «Grazie a noi dimezzato il cemento e ora Milano riparte» , commenta Matteo Salvini. Per il via libera al provvedimento più importante del mandato, costato all’amministrazione 48 mesi di lavoro, è arrivato a Palazzo Marino lo stato maggiore del Pdl locale: il neocoordinatore regionale, Mario Mantovani, e il segretario cittadino, Luigi Casero.
In tribuna anche alcuni cittadini firmatari delle osservazioni respinte, che hanno commentato il voto con un «Buu» . Plauso invece da Assolombarda: «Grande soddisfazione dei nostri imprenditori per l’approvazione, un passo importante» ha fatto sapere il presidente, Alberto Meomartini. E dopo l’approvazione, il sindaco ha voluto festeggiare con la maggioranza al Bar Zucca, in Galleria: «E’ un momento storico — ha sottolineato — e non potevamo che scegliere un locale storico per il brindisi» .
Il centrosinistra: un atto illegittimo, subito il ricorso
Gli avvocati sono al lavoro e i ricorsi potrebbero essere presentati già la prossima settimana. «Noi abbiamo diritto specifico — spiega Basilio Rizzo, della lista Fo— perché è stata violata la funzione dei consiglieri» . Rizzo spera che si arrivi a un «ricorso unitario» dell’opposizione, ma non sarà così.
Il verde Enrico Fedrighini si chiama subito fuori: «Sfera politica e giudiziaria devono rimanere separate, specie in questo caso— chiarisce— Perché l’errore compiuto, tutto politico, è stato quello di subire tempi dettati da una legge regionale sbagliata» .
Anche Carlo Montalbetti (Api) non firmerà il ricorso. «Credo che questa sia una battaglia politica— concorda— e che debba continuare nella prossima amministrazione con tutte le armi» . Montalbetti immagina che comunque i ricorsi fioccheranno: dagli operatori e dalla società civile» .
Mentre il Pd riconferma che si opporrà, ma sta decidendo in quale sede: «Valuteremo quelle più opportune— precisa il capogruppo, Pierfrancesco Majorino — Stiamo vedendo se è più efficace il Tar, il Capo dello Stato o altro» .
Ricorso sarà, in ogni caso. Nel frattempo, ieri davanti a Palazzo Marino, i capigruppo dell’opposizione hanno consegnato 5 scatole di osservazioni (in tutto 4.765) al candidato sindaco Giuliano Pisapia. «Sono i contributi dei milanesi al Pgt cancellati con un gesto autoritario» , ha ribadito Majorino. «Un atto simbolico ma anche un passaggio di consegne importante— ha aggiunto Pisapia, per il quale quello approvato è un «Pgt scritto sull’acqua» — Questo diventa un impegno della mia candidatura e di quando sarò sindaco di Milano per far sì che il nuovo piano tenga conto delle indicazioni dei cittadini» .
La battaglia contro la decisione della maggioranza di accorpare le osservazioni in 8 gruppi è proseguita in aula. «Trattate con burocratica insofferenza le osservazioni di tanti cittadini — ha accusato Rizzo— E nella modalità siete stati molto male consigliati. Oggi pensate di avercela fatta, ma sapete benissimo che ci sarà un secondo tempo» . «Il centrodestra ha cancellato le osservazioni— ha attaccato Majorino — perché altrimenti non avrebbe avuto la forza numerica e politica per entrare nel merito delle numerose riflessioni giunte da cittadini, associazioni, enti» . Duro anche l’onorevole Pierluigi Mantini, dell’Udc: «Illegittimo il metodo dell’accorpamento forzoso, il Pgt non garantisce i diritti» .
Costruire la città su se stessa senza consumare suolo - pilastro del Piano di governo del territorio - significa riempire i (pochi) buchi della città consolidata e riqualificare le aree dismesse e spesso abbandonate al degrado. Aree che un giorno potrebbero ospitare 18 milioni di metri cubi di costruito su 6 milioni di metri quadrati di superficie, pari a 144 nuovi Pirelloni: 26 quartieri ex novo che offriranno alloggi a 100mila persone, oltre a 5 milioni di metri quadrati di verde, nuovi servizi e infrastrutture.
Sono i cosiddetti "ambiti di trasformazione urbana": fazzoletti di terra più o meno grandi e sparpagliati per la città dove l´amministrazione ha deciso di concentrare la maggior parte delle volumetrie che il nuovo piano regolatore produrrà. Sette scali ferroviari chiusi di proprietà delle Ferrovie, cinque caserme del demanio e alcune zone di proprietà comunale (Porto di Mare) o privata (via Stephenson) che da anni aspettano un piano di riqualificazione. Una grande opportunità di rinascita per la città, ma anche un possibile business per chi ha fatto del mattone la gallina dalle uova d´oro. Perché oltre all´housing sociale obbligatorio (di media il 35 per cento del costruito dovrà essere destinato a residenza a prezzi calmierati) e alla percentuale di verde stabilita dal Comune, gli immobiliaristi potranno realizzare interi nuovi quartieri. Come? Impossibile dirlo oggi perché il Pgt fissa solo le quantità.
L’assunto che l’assessore all’Urbanistica Carlo Masseroli sbandiera come la grande rivoluzione di Milano è infatti quello della flessibilità o, per dirla con le sue parole, delle «poche regole, ma chiare». Un principio che se per l’amministrazione è il punto di forza del nuovo piano per qualcuno è il suo punto debole. Perché per assicurarsi uno sviluppo equilibrato della città, dicono in molti, c’è bisogno di una regia che governi le trasformazioni, mentre la flessibilità su cui si costruisce l’intero Pgt rischia di diventare una resa alle esigenze del mercato. Ma vediamo, nello specifico, quali saranno i grandi cambiamenti in città che, se le procedure burocratiche non dovessero subire altri intoppi, potrebbero iniziare a concretizzarsi tra il 2020 e il 2025.
[IN CENTRO]
Tre sono gli ambiti di trasformazione che insistono all’interno della cerchia dei Bastioni: la caserma di via Mascheroni dove dovrebbe trasferirsi l’Accademia delle Belle Arti di Brera, una fetta di binari dismessi della stazione Cadorna, dove si potrà edificare fino a 100mila metri quadrati di superficie, e il carcere di San Vittore. Arenato il progetto della Cittadella della giustizia, che prevedeva il trasferimento a Porto di Mare del carcere e degli uffici del Tribunale, è difficile che San Vittore venga spostato. Ma se così fosse, nell’area di 65 mila metri quadrati dovrà nascere un parco di circa 13 mila metri.
[A NORD]
Uno degli ambiti di trasformazione più grandi di Milano è quello che comprende l’ex scalo Farini - qui si potranno costruire fino a un massimo di 650mila metri quadrati (di cui il 20 per cento di housing sociale) e sorgerà un grande parco grande il 65 per cento della superficie totale - e la Bovisa con il progetto del parco scientifico dedicato all’università e alla ricerca in attesa di realizzazione da anni. Sempre a Nord però potrebbero vedere nuove destinazioni d’uso le gallerie abbandonate della stazione Centrale tra via Sammartini e via Ferrante Aporti, le caserme di via Montello e via Messina, l’area di via Litta Modigliani e l’ex scalo di Greco.
[A OVEST]
Sulla direttiva che porta all’Expo - zona che fra qualche anno diventerà strategica - sono due gli ambiti di trasformazione che potrebbero cambiare il volto della periferia. Uno è via Stephenson, dove la maggior parte dei terreni è di proprietà di Salvatore Ligresti. Qui Masseroli ha immaginato una Défense in stile meneghino, con un indice di volumetria a 2,7 (il più alto di tutto il piano) per fare di questo luogo, oggi scollegato da tutto, un quartiere d’affari con 50 grattacieli. L’altro è Cascina Merlata, un’area di oltre un milione di metri quadrati che un domani potrebbe essere ben collegata al centro da una rete di infrastrutture che ne alzerebbero improvvisamente il valore di mercato.
[A SUD-EST]
Al di là dei terreni del Parco Sud su cui sarà vietato costruire ma che produrranno volumetrie da trasferire altrove, la zona a Sud comprende quattro scali ferroviari da ripensare (San Cristoforo, Romana, Rogoredo e Porta Genova) e l’area di Porto di Mare che conta un milione e 200 mila metri quadrati su cui potranno spuntare altri edifici. La parte Est invece vede due importanti ambiti di trasformazione di interesse pubblico: il Forlanini e Cascina Monluè, entrambi con un indice di edificabilità pari a 1.
la Repubblica
Pgt, la rivolta della società civile "La giunta uccide la partecipazione"
di Franco Vanni
Hanno passato mesi a studiare proposte per migliorare il piano del governo del territorio. E ora che la maggioranza di centrodestra a Palazzo Marino ne ha fatto carta straccia con un voto del consiglio comunale, si ribellano. Architetti ed economisti, associazioni e sociologi - in due parole, la società civile - condannano il colpo di spugna della giunta Moratti: «È un’offesa alla democrazia e consente il varo di un Pgt che avrà effetti disastrosi», dicono.
Forse non ci avevano creduto, ma sperato sì. E ora che il gioco è chiaro si arrabbiano. Le associazioni, gli architetti, i sociologi e gli economisti che avevano presentato osservazioni al Pgt, dopo avere saputo che non saranno nemmeno prese in considerazione, si ribellano. Un riassunto del sentimento della società civile - all’indomani del voto con cui la maggioranza in consiglio comunale ha accorpato le 4.765 richieste di modifica al Pgt in otto gruppi da votare entro il 14 febbraio, impedendone la discussione - lo dà l’economista Marco Vitale: «Quello della giunta Moratti è un atto di violenza e ignoranza che uccide la partecipazione in una città che ne avrebbe bisogno - dice - . Passerà un Pgt pensato per favorire alcuni costruttori ma fatto così male che nemmeno loro ne trarranno vantaggio».
Lunedì scorso Repubblica Milano ha pubblicato l’appello di Libertà e Giustizia, che chiedeva al sindaco di inserire nel Pgt «impegni sulla mobilità sostenibile, sulla lotta all’inquinamento, sull’intangibilità del Parco Sud, e la disponibilità di spazi di integrazione sociale». Di fronte al netto rifiuto dell’amministrazione a collaborare, ora prevalgono sconforto e rabbia. Fra i firmatari dell’appello c’è don Gino Rigoldi, fondatore di Comunità Nuova: «L’urbanistica è un tema di cruciale - dice - Milano ha bisogno di case in affitto a prezzi accessibili e di una maggiore vivibilità. Rifiutandosi di ascoltare, la giunta perde una grande occasione». Altra firmataria è l’architetto Gae Aulenti, che sbotta: «Quello della maggioranza è stato un gesto tremendo, raggruppare le proposte significa buttarle via, e non è perdonabile».
Chi si è visto cancellare il lavoro di mesi fatto per studiare proposte costruttive al piano del territorio, si prepara ora alla battaglia legale. «È ovvio che sul Pgt si abbatterà una valanga di ricorsi al Tar - prevede Damiano di Simine, presidente lombardo di Legambiente - questo non sarà il Pgt della città, ma di un assessore. Ed è probabile che alla città non piaccia». Fra le associazioni che hanno lavorato per migliorare, a loro vedere, il Pgt c’è la onlus Italia Nostra. «Il nostro è un esempio di come sono andate le cose - dice la vicepresidente Nadia Volpi - conoscendo la situazione del Bosco in Città abbiamo fatto osservazioni relative a quell’area. Le hanno buttate via e si ritrovano ora un progetto in cui, per dire, nemmeno figurano canali e corsi d’acqua». Stesso stupore dimostra Eugenio Galli, presidente di Ciclobby, altro sottoscrittore dell’appello di Libertà e Giustizia. «Il tema della ciclabilità è del tutto assente dal Pgt - lamenta - eppure il Comune due anni fa ha sottoscritto la Carta di Bruxelles, che prevede impegni per trasformare Milano in una città amica delle due ruote.
Noi lo abbiamo fatto presente, ma con un atto antidemocratico la maggioranza ha fatto piazza pulita del nostro contributo come di tutti gli altri».
Sulla poca democraticità del procedimento scelto da Palazzo Marino incentra la sua critica Ilaria Borletti Buitoni, presidente del Fai: «Ci sono confronti che sono una perdita di tempo per le amministrazioni, ma questo non era il caso - dice - le proposte di miglioramento del Pgt venivano da enti qualificati, e l’ascolto in questi casi è un dovere». È meno diplomatica l’editrice Rosellina Archinto: «Quello della maggioranza è un atteggiamento vergognoso e dittatoriale e il risultato è un piano regolatore che non risolve i problemi di Milano».
la Repubblica
Il futuro di Milano appeso a un aggettivo (e al verdetto del Tar)
di Alessia Gallione
«Omogeneo: dal greco homogenés, della stessa famiglia, razza. Aggettivo: dello stesso genere, specie, natura». Bisogna partire da qui, dalla definizione che lo Zingarelli dà del termine finito al centro dell’ultima battaglia sull’urbanistica, per capire come il Pgt potrebbe crollare al primo ricorso presentato al Tar. Perché nello scontro sul Pgt tutto ha assunto un peso. Anche le parole. Anche quell’aggettivo, che centrodestra e centrosinistra – sentenze dei Tribunali amministrativi e del Consiglio di Stato alla mano – leggono in modo opposto per giudicare la legittimità del voto delle 4.765 osservazioni dei cittadini e dei 2.748 emendamenti dell’opposizione in soli otto temi. Gruppi "omogenei", appunto, per la maggioranza. Che considera il termine come il lasciapassare per approvare entro il 14 febbraio il proprio Piano del territorio. Una forzatura per il centrosinistra, per cui possono essere discusse insieme solo le richieste di modifica di «identico contenuto».
Bisogna partire dal dizionario e dall’ultima scena. Consiglio comunale, venerdì pomeriggio: è con un colpo di mano che, dopo settimane di discussione, la maggioranza decide. Le osservazioni saranno raggruppate in otto temi: ambiti di trasformazione urbana (1.539 osservazioni), perequazione (1.366), housing sociale (71), servizi (606), infrastrutture e mobilità (573), risparmio energetico (65), verde (320), varie (225). Per ogni gruppo le votazioni saranno tre: una sulle richieste accolte, una su quelle parzialmente accolte, l’ultima sulle respinte. Sempre seguendo questa suddivisione, ma con un solo voto, verranno trattati gli emendamenti. Un documento blindato, insomma. Che non potrà più essere modificato. E soprattutto un accorpamento che per il centrosinistra i giudici amministrativi potrebbero considerare illegittimo. Ecco perché.
A regolamentare l’iter è la legge regionale del 2005, che ha segnato il passaggio dai vecchi Piani regolatori ai Piani di governo del territorio. Dice che è il consiglio comunale a decidere sulle osservazioni «apportando agli atti del Pgt le modifiche conseguenti». Sono fissati anche termini precisi e per Milano e la "creatura" dell’assessore all’Urbanistica Carlo Masseroli la deadline è il 14 febbraio. Questo diritto-dovere dell’aula è garantito con le maxi votazioni? È qui che entra in gioco il termine "omogeneo". Proprio per non discutere ore e ore su osservazioni fotocopia, il consiglio di Stato nel 2008 ha ammesso la possibilità di fare accorpamenti.
Paradossalmente, questa stessa sentenza viene usata dal centrodestra e dal centrosinistra per puntellare i rispettivi ragionamenti. Vale la pena leggere il passaggio: «È legittimo il provvedimento con il quale il Comune, in sede di esame delle osservazioni proposte dai privati... raggruppa tutte quelle che presentano un carattere omogeneo, atteso che risponde al principio di economia procedimentale esaminare congiuntamente le osservazioni che, in ragione del loro identico contenuto, possono essere valutate in un unico contesto e definite con una identica motivazione, evitando il defatigante esame ripetitivo di medesime istanze».
È lo stesso consiglio di Stato, quindi, che chiarisce cosa sia omogeneo: le osservazioni con un «identico contenuto». È l’arma vincente che il centrosinistra pensa di avere in mano. Un esempio. Il primo gruppo tratta gli "ambiti di trasformazione": sono i nuovi quartieri, dagli scali ferroviari alle ex caserme, su cui Milano dovrà espandersi. Per il centrodestra va bene che tutte le osservazioni siano raggruppate così. Per il centrosinistra bisognerebbe non solo trattare separatamente le singole zone (scalo Farini, Porta Romana...), ma accorpare quelle che, in una zona, chiedono provvedimenti simili: aumentare il verde, far salire le costruzioni, aggiungere un asilo...
A conforto di questa tesi, portano altre sentenze. A cominciare da quella del Tar che ha considerato illegittima la votazione in blocco delle osservazioni del Comune di Buccinasco. Sostenendo anche come strumenti urbanistici così complessi «richiedono un esame analitico dei singoli punti in cui si esprime il disegno pianificatorio».
Per presentare ricorso bisognerà aspettare che l’aula voti. Ma intanto lo scontro è politico. Basilio Rizzo della lista Fo lancia una proposta: «Perché non si chiede un parere preventivo di chiarimento al Tar o al consiglio di Stato?». Per Milly Moratti: «Questa amministrazione ha chiesto partecipazione e ora ne fa carta straccia. Dobbiamo qualcosa alla gente».
il Fatto quotidiano
La Madunina ricoperta di cemento
di Ferruccio Sansa
Sarà ricordato come il Piano di San Valentino. Al Piano di Governo del Territorio (Pgt) sono appese le sorti della giunta di Letizia Moratti che per sperare in una rielezione deve farlo approvare entro il 14 febbraio. Anche a costo di raccogliere le 4.765 osservazioni dei cittadini (sostenute da 2.748 emendamenti dell’opposizione) in otto grandi gruppi. Un blitz. Così in Consiglio Comunale le osservazioni saranno votate a botte di mille per volta. Soltanto il 7 per cento sono state recepite dalla Giunta. Non c’era altra strada.
“Il tempo stringe e il consiglio ormai è un fantasma. Sembra il Parlamento, svuotato di ogni funzione”, racconta Basilio Rizzo (professore e consigliere della lista per Dario Fo). Spiega: “Manca continuamente il numero legale e gli assenti sono proprio nella maggioranza. Ma il centrodestra è diviso e chi dispone di un voto lo fa valere caro. Ci sono consiglieri ricomparsi in aula dopo aver ottenuto poltrone nelle municipalizzate”, accusa Rizzo. Già, le elezioni comunali, i posti in Consiglio sono ridotti da 60 a 48, l’arma di molti consiglieri per la poltrona è questo voto. L’Expo annaspa, la città ogni giorno si guadagna nuovi record di inquinamento e il sindaco Moratti deve per forza sventolare almeno una bandiera.
“È il provvedimento più importante di questi cinque anni”, ha detto Letizia Moratti. L’ansia di approvare il documento potrebbe, però, essere un boomerang. Della “borghesia milanese” è difficile trovare tracce dopo il ciclone Berlusconi, ma la società civile si ribella, Libertà e Giustizia lancia un appello. Tra i firmatari Gae Aulenti, Umberto Eco, don Gino Rigoldi. E Milly Moratti, consigliera comunale dell’opposizione, che della cognata sindaco non condivide molto. L’appello svela l’osso della questione: il Pgt disegna la mappa urbanistica di Milano, ma anche quelladel potere economico. “Il Pgt permetterà 35 milioni di metri cubi di nuove costruzioni, come 341 Pirelloni”, racconta Michele Sacerdoti, ambientalista candidato alle primarie del centrosinistra. Aggiunge: “Saranno realizzate abitazioni per 400mila nuovi abitanti, ma secondo lo stesso Comune la città fino al 2030 crescerà di 60mila”.
Milly Moratti non usa giri di parole: “Il Pgt segue un mosaico di richieste dei potenti”. Non è d’accordo Carlo Masseroli, assessore all’Urbanistica: “Il concetto di destinazioni d’uso era superato. Lo abbiamo sostituito con poche regole essenziali che favoriscono lo sviluppo della città pubblica”.
Ecco le parole chiave del Pgt: destinazioni d’uso, cooperative e perequazione. La prima rivoluzione, appunto, è quella di cancellare le destinazioni d’uso. Un modo per “favorire lo sviluppo senza ingessarlo”, come dice Masseroli. Oppure il rischio di un far west urbanistico? Rizzo segnala un pericolo: “La scomparsa delle aree produttive, perché tutti preferiscono puntare sulle case”. Anche se restano vuote. Poi c’è la fetta per le cooperative. È certo un caso che l’assessore all’Urbanistica del Comune, Carlo Masseroli, sia un ciellino come il predecessore, Maurizio Lupi (oggi vicepresidente della Camera). Ma che vantaggio avranno le cooperative? Sacerdoti non ha dubbi: “Si dice che il 35 per cento delle costruzioni sono destinate al social housing, ma solo il 5 per cento diventeranno vere case popolari (una quota conquistata dopo una battaglia dell’opposizione, ndr).
“Un buon 20 per cento sarà affidato alle cooperative – bianche e rosse – che magari venderanno a prezzi ridotti, ma comunque a famiglie con un reddito fino a ottantamila euro l’anno”. Il grande regalo alle cooperative, secondo i critici, è nel “Piano dei servizi”: scuole, strutture sanitarie, tanto per dire. Sostiene Sacerdoti: “Il documento si apre con una citazione di don Giussani. Ma il Comune rinuncia ai nuovi servizi che passeranno ai privati”. Alle cooperative dove la Compagnia delle Opere la fa da padrone. Ma la parolina magica del Pgt è “perequazione”. In soldoni: si prende un'area vincolata come il Parco Sud (l’ultimo polmone verde di Milano) e le si attribuiscono indici di edificabilità. Poi si proclamadi voler salvare il verde trasferendo il diritto a costruire nella città che già scoppia.
“Qui non si tratta soltanto di un'operazione immobiliare, ma anche finanziaria, che rimette in piedi i bilanci”, racconta Milly Moratti. Aggiunge: “I diritti di edificazione potranno iscriversi in un’agenzia che favorisce l’incontro tra venditori e compratori, una specie di borsa”. La vera partita del Pgt e del potere è, però, quella meno nota ai cittadini. Il Piano può garantire a Moratti il gradimento della Milano che conta davvero. Imprenditori e banche che investono miliardi nel mattone sono poi gli stessi che siedono nel cda dei principali quotidiani cittadini. Gente che è meglio avere dalla tua parte, come Salvatore Ligresti. Scorrendo i nomi nelle sue società si trova mezza famiglia di Ignazio La Russa che a Roma è ministro della Difesa, ma che a Milano conta davvero. Nel cda di FondiariaSai si trova suo fratello Vincenzo, che siede anche nell’Immobiliare Lombarda. Il figlio di Ignazio, Geronimo, è nel cda della stessa Premafin nel posto del nonno Antonino. Non sono dettagli: il partito di La Russa ha un ruolo importante negli enti pubblici che approvano i progetti delle società di Ligresti.
“Con il nuovo Pgt – sostiene Milly Moratti – la densità degli abitanti passerà da 7mila a 12mila per chilometro quadrato”. Ma a Milano l’orizzonte è già oggi segnato da gru alte centinaia di metri. La Madonnina e il Pirellone sono dei nani se confrontati con i nuovi grattacieli. Alla vecchia Fiera, che secondo l’allora sindaco Gabriele Albertini doveva diventare “il Central Park di Milano”, ecco invece arrivare le tre immense torri di City Life. E non importa se pare difficile trovare chi comprerà.
È soltanto il primo progetto di una lunga serie: l’Expo, poi il megainsediamento di Santa Giulia, impantanato per le note vicissitudini del gruppo Zunino, e ancora Porta Garibaldi, la sede della Regione realizzata a memoria dell’era Formigoni.
Per non parlare del Pir di Salvatore Ligresti (che realizza anche City Life), della nuova sede del Comune, del progetto per l’Isola, fino alle Varesine. Decine di nuovi edifici, milioni di metri cubi, griffati da grandi progettisti: Hadid, Libeskind, Isozaki, Pei, Cobb e lo studio Kohn, Fox e Pedersen.
Costruire, costruire, costruire. Ecco la parola d’ordine oggi a Milano. Perfino, come ha appurato la Procura, se si realizzano interi quartieri su discariche non bonificate. Poi negli asili costruiti sui depositi di mercurio e cloroetilene intanto ci vanno i bambini.
Il forcone contro il mattone L’agricoltore si oppone a don Salvatore
Andrea contro Salvatore. Per capire il grande intreccio del mattone a Milano si può partire da questa storia semplice. Perché Salvatore altri non è che Ligresti, signore del cemento milanese e proprietario della cascina Campazzo dove Andrea Falappi fa l’agricoltore. Da anni Ligresti cerca di sfrattare Falappi per poter recuperare la sua terra e magari costruire. Ma Andrea resiste al Campazzo, difendendosi a colpi di carte bollate, coinvolge centinaia di cittadini. Però è dura: “Non si può vivere così, è un incubo, sempre con la minaccia dello sfratto che ti pende sopra la testa. Questa vita da precari ti consuma”, racconta Andrea. Non è il solo: decine di agricoltori rischiano come lui di dover lasciare la loro cascina a Ligresti.
È la storia incredibile del Parco Sud. Un luogo che pochi conoscono: cascine, campi, filari di pioppi, bestiame, aironi che arrivano a sfiorare i condomini. Una macchia ancora verde di 46.300 ettari sulla mappa grigia della Lombardia. Proprio per questo gli imprenditori immobiliari ci hanno puntato gli occhi addosso. Primofra tutti proprio Ligresti, che di mercato immobiliare ne capisce. E qui spunta il paradosso: il maggiore proprietario agricolo della zona è proprio lui. No, il re del mattone non si è convertito al grano. Ma allora perché? “Ligresti ha cominciato a comprare da anni. Sperava che i vincoli, come spesso accade in Italia, cadessero”, spiega Renato Aquilani, presidente dell’associazione per il Parco Sud.
Adesso arriva la grande occasione: il Pgt della giunta Moratti. E quella parolina magica: perequazione. Il Piano prevede infatti di attribuire un indice di edificabilità al Parco naturale (proprio così). D’un colpo i terreni di Ligresti vedono aumentare esponenzialmente il loro valore. Poi, assicurano in Comune, non si costruirà: i diritti così acquisiti verranno trasferiti in città. Tra cittadini e associazioni, però, molti sono convinti che questo sia soltanto il primo passo verso la resa del Parco Sud al cemento. Intanto Falappi resiste. Ogni anno arriva l’ufficiale giudiziario e se ne torna a casa sconfitto. Ma Ligresti è un uomo che sa aspettare.