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Dopo che nel governo dei tecnici l’unico Ministro...
Dopo che nei governo dei tecnici l'unico Ministro privo di specifiche competenze era stato proprio quello dei beni culturali, quell’Ornaghi che in questi tredici mesi si è guadagnato la medaglia di peggior ministro della storia del Ministero di Spadolini, le attese da parte nostra sull’agenda Monti erano davvero poche.

Ma l’inconsistenza della mezza paginetta dedicata a “L’Italia della bellezza, dell’arte e del turismo” nel documento “Un’Agenda per un impegno comune” , il manifesto politico di Mario Monti, è tale da superare, al ribasso, le già limitate aspettative di partenza.

Anche dalle aporie, in ogni caso, si possono trarre alcune considerazioni. A partire dall’uso del linguaggio che, già in incipit, fa ricorso alla consueta panoplia retorica a proposito di un patrimonio culturale “che non ha eguali al mondo” e che nella visione montiana spazia “dai monumenti alla gastronomia” (sic).

Come pure indicativa è l’elencazione (assai breve) dei risultati del governo ottenuti in questo ambito. Ritorna un grande classico: Pompei. Senonchè il così detto Grande Progetto Pompei, presentato in pompa magna dallo stesso Monti e ben 4 ministri 4, all’inizio di aprile, e non ancora entrato in fase operativa (nessun cantiere avviato), si affida interamente alle risorse della Comunità europea (105 milioni) e rappresenta, sul piano istituzionale e culturale, il fallimento dell’esperimento dell’autonomia del sito archeologico. Tutto è in mano al Ministro per la coesione territoriale Barca e alla società Invitalia, e la Soprintendenza, sottoposta ai controlli di un prefetto, è di fatto commissariata sia sul piano tecnico-scientifico che su quello amministrativo.

Quanto al progetto della Grande Brera, al di là della contestatissima costituzione della Fondazione, poco o nulla si è fatto per risolvere uno dei grandi buchi neri della cultura milanese e italiana e mentre continua il minuetto sul trasloco dell’Accademia, manca ancora un progetto complessivo credibile per la Pinacoteca.
Eppure il ricorso a Fondazioni o al più a “partnership pubblico-privato” sembra essere l’unica ricetta disponibile per “un allargamento dello spettro delle iniziative finanziabili”.

Detto in soldoni: non è neppure pensabile che lo Stato possa investire altre risorse, e quindi non resta che cercare altrove, nel privato. Al Ministero, sembra di capire, potrebbe rimanere giusto il compito di stilare la lista delle “iniziative”, fra cui il finanziatore sarebbe chiamato a scegliere. Come in una lista di nozze.

E questo è tutto, perchè subito a seguire, il documento affronta il tema del turismo, non sorprendentemente letto come una (la sola citata) delle finalità del patrimonio culturale. Anche qui ce la caviamo con qualche suggerimento di sinergie e marketing, ma almeno si accenna ad un Piano strategico per il Turismo e quindi ad un’elaborazione di politica del settore.
Insomma, par di capire, nella visione montiana, “puntare sulla cultura” significa semplicemente trovare in giro un po’ di soldi in più da distribuire a qualche museo o sito dotato di un qualche progetto.

Completamente assente ogni considerazione delle criticità della situazione attuale attraversata dal Ministero e per molti versi vicina al collasso: un numero ogni giorno maggiore fra le le istituzioni culturali, dai musei, anche di grandissimo rilievo, ai siti archeologici, alle biblioteche e agli archivi non riesce più a garantire neppure i servizi essenziali.
Ma soprattutto il Ministero si sta ritirando, non solo per ragioni contingenti legate alle carenze di personale e mezzi, dalle funzioni fondamentali di controllo sul territorio.

Non per caso, probabilmente, il grande assente nel documento programmatico, è il paesaggio: il grande malato d’Italia.
Non una parola sulla pianificazione paesaggistica ormai abbandonata alla deriva regionalistica. L’unica volta in cui compare il termine paesaggio è laddove si chiarisce che “puntare sulla cultura” significa integrare “arte e paesaggio”: quasi fosse un compito ancora da intraprendere. In un paese dove l’opera delle generazioni che ci hanno preceduto ha saputo costruire, nei secoli, una delle più armoniche integrazioni al mondo di arte e paesaggio, appunto.

Se è vero che è ingenuo pretendere analisi approfondite da documenti elettorali, la pochezza di queste righe lascia ugualmente sconcertati. Elementi di superficialità e genericità ricorrono in altri paragrafi del manifesto, ma qui ci troviamo di fronte ad una sorta di estraneità culturale ai principi costituzionali rappresentati nell'art. 9. Nessuno pretendeva soluzioni innovative e articolate o strategie pronte per l’uso: la materia è complessa e la situazione difficilissima. Ma proprio per questo ci saremmo aspettati, appunto, il richiamo alla necessità – urgentissima – di una nuova politica per i beni culturali.

Una politica la cui mancanza, ormai da molti lustri, è causa prima del disastro in cui ci troviamo. Che l’Agenda Monti non ne senta il bisogno, sottolinea senza scampo che, così come è avvenuto per l’ultimo anno, patrimonio culturale e paesaggio sono relegati, in questa visione, ad un ruolo di totale irrilevanza: accessori estetici un po’ (troppo) costosi , utili tutt’al più all’aumento dei flussi turistici.
La presenza latitante di un Ornaghi al Collegio Romano diventa, in questo quadro, del tutto pertinente.

Bologna, 25 dicembre 2012
"L'Agenda Monti":Cambiare l'Italia, riformare l'Europa

, dal Mibac agli enti locali, alle Università, ha ricevuto, finalmente, uno schiaffone: il 27 settembre si è svolta a Roma una giornata di mobilitazione, riflessione, protesta organizzata dall’Associazione Bianchi Bandinelli sul precariato giovanile nell’ambito dei beni culturali.

L'Italia dei Beni Culturali: formazione senza lavoro e lavoro senza formazione, il titolo dell’iniziativa di grande impatto sociale, culturale, emotivo, cui anche eddyburg ha aderito e che ha finalmente acceso i riflettori su quelle migliaia di giovani laureati nell’ambito dei beni culturali, in percentuali altissime specializzati e plurispecializzati costretti a condizioni lavorative troppo spesso sotto il limite della dignità, senza diritti, nè tutele. E’ l’inferno del precariato che sta condannando una o forse due generazioni ad una qualità di vita con pochi confronti in Europa.

Le crisi speculari di Università e Mibac (quest’ultima probabilmente irreversibile), hanno aggravato e accellerato il fenomeno: da un lato l’Università ormai persa in un loop autoreferenziale ha continuato a proporre, nel corso degli ultimi vent’anni, percorsi formativi privi di sbocchi professionali e per di più inadeguati anche sotto il profilo delle competenze richieste in ambito lavorativo: valgano per tutti i famigerati corsi o facoltà in Conservazione in beni culturali, moltiplicatisi soprattutto negli anni ’90. Dall’altro lato, un Ministero sempre più esangue, ormai incapace di mantenere i seppur minimi livelli di gestione del patrimonio culturale, sta procedendo da almeno un lustro alla dismissione delle proprie funzioni in una climax di tentativi maldestri e pasticciati: dai commissariamenti alle fondazioni, ai fantozziani esperimenti di marketing elaborati dalla Direzione alla Valorizzazione.

Eppure, in tale convergenza di disastri, queste migliaia di ragazzi che hanno resistito nel loro impegno, nonostante retribuzioni orarie fra i 5 e i 10 euro lordi, e un reddito annuo che, nella grande maggioranza dei casi non supera i 10.000 euro lordi l’anno (la soglia di povertà secondo l’ISTAT), hanno sostanzialmente garantito, cifre alla mano, il mantenimento di un livello dignitoso alla gestione dei nostri musei, archivi, biblioteche, delle centinaia di interventi di archeologia preventiva o di emergenza.

Il quadro articolato di questa complessa galassia è stato fornito nella giornata della Bianchi Bandinelli dagli stessi giovani precari, di gran lunga i più efficaci, da Federico De Martino a Claudio Gamba a Tsao Cevoli e Salvo Barrano, che con le loro documentatissime relazioni hanno dimostrato, geometrico more, quanto la situazione in questo settore sia da allarme rosso: siamo di fronte ad una vera e propria bomba sociale costituita da ormai decine di migliaia di giovani (e non più tanto giovani, nel frattempo).

A completare, sotto il profilo emotivo, la crudezza dei dati numerici, un gruppo di giovani attori (a loro volta precari) ha recitato i racconti di vita dei precari dei beni culturali.

Purtroppo, la lettura delle storie e testimonianze di lavoro precario ha subito uno spostamento rispetto al programma e per lo stesso motivo un’interessante relazione sulle forme contrattuali è stata brutalmente interrotta per lasciar spazio al sottosegretario dei beni culturali Roberto Cecchi appalesatosi nel frattempo.

Costui, dopo un intervento più consono a chi avesse trascorso la sua vita in tutt’altre faccende affaccendato rispetto al mondo dei beni culturali e dopo aver persino pronunciato il famigerato enunciato “beni culturali come volano dello sviluppo”, con un gesto di arroganza che riuniva in sè il peggio del malcostume politico della prima e seconda repubblica assieme, al termine di un discorsetto in cui – lui, funzionario statale per oltre trent’anni e rappresentante del governo in carica - ha livorosamente ribadito il suo sdegno per tutti coloro che “demonizzano il privato”, se ne è sgattaiolato via, senza attendere un solo minuto, verso il successivo inderogabile impegno.

Ci dica, sottosegretario Cecchi, quali appuntamenti c’erano nella sua agenda, più importanti di ascoltare le ragioni, spietate nella neutrale freddezza delle cifre, struggenti nella rivisitazione teatrale, aggiornatissime e inedite nella loro sistematicità, di coloro che in condizioni, non solo precarie economicamente, ma spesso lesive della dignità professionale e umana contribuiscono in maniera ormai determinante a reggere il sempre più pericolante sistema della tutela del nostro patrimonio culturale?

Forse una svendita pronta cassa all’Abramovich di turno del brand pompeiano (essendo quello del Colosseo ormai indisponibile per i prossimi 15-20 anni)?

Nessuno si aspettava da lei risposte – non le ha sapute dare in trent’anni di carriera ai vertici del Mibac che la collocano di diritto nell’olimpo dei correi dell’attuale disastrosa situazione del ministero - ma il semplice doveroso ascolto, imprescindibile in chi riveste un ruolo che dovrebbe essere di servizio all’intera comunità dei cittadini e in primo luogo di coloro che per quel ministero da lei rappresentato lavorano con una passione persino un po’ incosciente.

Negli astanti, l’educazione ha prevalso sull’indignazione: e questo è stato forse l’unico neo di un’iniziativa che, seppur in altre forme, dovrà continuare.

Perchè se una speranza si è affacciata, in mezzo ai racconti sconsolati, alle riflessioni desolate, ai dati drammatici, mi sembra possa essere letta soprattutto in una nuova consapevolezza di questi giovani, ormai indisponibili a farsi illudere dalle chimere del posto fisso nel Ministero o nell’Università, istituzioni ormai sature e soprattutto bisognose, urgentemente, di una radicale riforma che dovrà essere gestita “dal basso”. Non tanto per pulsioni radicaliste, ma perchè, come è stato ampiamente dimostrato anche l’altro ieri, è in questa fetta della società, ormai sempre più importante dal punto di vista anche numerico, che si trovano le idee più innovative e le energie più (forse le sole) vitali.

Venerdì scorso, 6 luglio, due eventi, fra gli altri, hanno coinvolto il mondo dei beni culturali italiano e il suo Ministero, fautore di entrambi e rappresentato, in uno di questi, ai più alti livelli.

Ebbene, per uno strano caso del destino, essi rappresentano i perfetti antipodi di come possa essere gestito il nostro patrimonio culturale.

Così, mentre a Pechino si inaugurava, in pompa magna e con un’affollata delegazione italiana degno revival della famosa missione cinese di Craxi, una mostra simbolo del degrado scientifico cui sono giunti ormai alcuni dei nostri principali Poli museali, sull’Appia Antica prendeva avvio, fra una folla di cittadini entusiasti, un festival di tre giorni che ha costituito uno dei migliori esempi di valorizzazione del nostro patrimonio che sia stato dato vedere da molti anni a questa parte.

Sull’indecorosa iniziativa pechinese con la quale si è toccata l’ennesima punta al ribasso nella prostituzione dei nostri capolavori rinascimentali, è già stato detto con grande efficacia (v. Montanari, Il Fatto Quotidiano, 6 luglio 2012). Anche se su questo episodio occorrerà ritornare, perchè non paghi della risibilità culturale cui hanno abbassato istituzioni gloriose, i responsabili di quest’impresa l’hanno giustificata facendo ricorso ad un “innovativo” concetto di tutela. Così la nuova vision cui sarà ispirata la politica culturale di questo governo è stata così condensata in un’inaudita dichiarazione dal ministro Ornaghi: “bisogna lanciare operazioni di questo genere, anche correndo qualche rischio” (Corriere della Sera, 7 luglio 2012). Il rischio, ovviamente, è per le opere d’arte, prelevate a casaccio dalle abituali sedi museali e deportate a migliaia di chilometri di distanza, non per illustrare, secondo un progetto culturale, un tema, un evento, un’idea, ma semplicemente per fungere da cornice di lusso ad eventuali accordi economici con i nuovi padroni del mondo.

Lontano non solo molte migliaia di chilometri, ma anni luce in termini di civiltà e intelligenza operativa, nelle stesse ore, il meraviglioso basolato lucidato dai secoli della regina viarum era percorso da una folla via via crescente di cittadini romani e turisti, che partecipavano agli eventi del festival “Dal tramonto all’Appia”, una serie di iniziative che si sono succedute per tre giorni, dal 6 all’8 luglio, lungo la via Appia e alcuni dei suoi monumenti.

Evento cardine è stata la riapertura dopo tempo immemorabile (è stato detto 500 anni) della chiesetta gotica di San Nicola, piccolo edificio compreso un tempo all’interno del castrum Caetani, di fronte al mausoleo di Cecilia Metella. Ora, restaurata con intelligente sobrietà e illuminata splendidamente torna ad essere visitabile, bene pubblico restituito alla collettività, a poche decine di metri da quella proprietà privata che si è impossessata di buona parte del castrum e contro i cui abusi aveva lottato invano anche lo stesso Antonio Cederna (era il 1993).

Già, gli abusi: una piaga che, come dimostra un recentissimo studio curato da Vezio De Lucia, è persino aumentata di intensità (300.000 mc negli ultimi dieci anni), rispetto ai tempi in cui Cederna cominciò a denunciarla (era il 1953), continuando la sua opera di difensore dell’Appia fino alla scomparsa nel 1996. I condoni edilizi hanno solidificato una cancrena di illegalità che l’amministrazione comunale e quella del Parco Regionale hanno sempre tollerato, spesso ostacolando l’opera di tutela svolta in solitudine da alcuni funzionari della Soprintendenza Archeologica di Roma.

Gli stessi, pochissimi, coordinati da Rita Paris, che hanno concepito quest’iniziativa: con risorse risibili (neanche un decimo della spesa di trasporto di un solo quadro “pechinese”), ma in uno slancio di ottimismo e di passione, si è voluto dimostrare come l’Appia possa essere vissuta, nella sua bellezza, passeggiando sui basoli e godendo di proposte culturali concepite per ricordarci la nobiltà e allo stesso tempo le miserie di questo luogo incantato.

Così a Capo di Bove, la sede dell’archivio Cederna, una deliziosa mostra fotografica – Marmo, latte e biancospino – ci mostra aspetti di questa zona inaspettati, che rimandano ad un passato rurale non così lontano nel tempo. E nella stanza accanto si poteva assistere alla proiezione del film di Pasolini, La ricotta, girato nelle campagne che costeggiano l’Appia.

E ancora concerti, di altissimo livello, dal jazz alla musica classica, a quella elettronica, visite guidate al mausoleo di Cecilia Metella, un piccolo film girato per l’occasione che suggestivamente ci ricorda come, fin dai tempi di Napoleone, il sogno di tutti gli uomini di cultura è stato quello di trasformare l’Appia, dal centro di Roma fino ai colli albani in un unico, indimenticabile parco offerto a tutti per la contemplazione e il ristoro dell’anima e del corpo.

Fra i vari momenti culturali, spostandosi da un monumento all’altro, si potevano gustare le specialità proposte dai ristoratori della via Appia che hanno aderito con entusiasmo all’ iniziativa della Soprintendenza, rivelatasi come sempre, in questo luogo, non solo presidio di legalità – quasi l’unico – ma istituzione in grado di suscitare collaborazioni fra pubblico e privato mirate ad una valorizzazione operativa e culturalmente aggiornata.

E in questo caso almeno, uno dei pochissimi nella sgangherata congerie di eventi che il Mibac ha saputo propinarci in questi ultimi anni sotto questa etichetta, si può davvero parlare di valorizzazione, ovvero sia di quella funzione e quelle attività tese, come ci insegna il Codice “a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliori condizioni di utilizzazione e fruizione pubblica del patrimonio stesso”.

Il successo del Festival è stato travolgente: i visitatori, sempre più numerosi ed entusiasti hanno affollato la via, intrattenendosi, mentre il tramonto incupiva le chiome dei pini marittimi, fino a tarda notte, commentando gli eventi, rilevando come, miracolosamente e nonostante tutto, questi spazi possano essere ancora vissuti con tanto piacere collettivo e rimpiangendo la temporaneità di un’occasione come quella.

Così, siamo sicuri che ieri, leggendo il bell’articolo sulla Stampa che riassume, impietosamente, i guai da cui questa strada è afflitta, dagli abusi, al traffico, alle ridicole assegnazioni di fondi per nuove acquisizioni e restauri, qualche cittadino in più abbia pensato che qualcosa bisogna fare per tutelare questo patrimonio preziosissimo e fragile e alleviare la solitudine di chi – Rita Paris - da anni, attraverso un’opera incessante, innovativa e tenace fino alla cocciutaggine la sta difendendo dal degrado, restituendo, centimetro dopo centrimetro, pietra su pietra, nuovi spazi al “godimento di tutti”.

Fra questi nuovi adepti, difficile pensare ai vertici del Mibac, pressochè assenti sia nella fase di organizzazione, che durante il festival.

Ma già, erano tutti a Pechino.

Col consueto stile manageriale dell’uomo del fare Corrado Passera, ministro delle Infrastrutture, ha deciso di chiudere Arcus, la società per lo sviluppo dell’arte, la cultura e lo spettacolo creata nel 2004 con capitale sociale interamente sottoscritto dal Ministero dell'Economia, mentre l’attività derivava dai programmi di indirizzo forniti annualmente dal Ministro per i Beni le Attività Culturali.

Che sia un bene mettere una pietra tombale su uno dei peggiori esperimenti partoriti in campo di gestione culturale, divenuto, da subito, bancomat per regalie clientelari, da sempre oggetto di critiche della Corte dei Conti e più volte al centro di inchieste giudiziarie (cfr. Corrado Zunino su Repubblica di oggi) è fuori di dubbio.

In questi anni pressoché nessuno dei progetti finanziati da Arcus è mai rientrato nella mission della società: originariamente pensata per sostenere, con risorse provenienti dai fondi per le grandi opere, progetti di compensazione proprio sull’impatto che tali opere avrebbero avuto sul paesaggio e il patrimonio culturale, ben presto questi obiettivi si sono stemperati in “progetti importanti e ambiziosi concernenti il mondo dei beni e delle attività culturali, anche nelle sue possibili interrelazioni con le infrastrutture strategiche del Paese” (fonte Arcus).

Da lì, il passo è stato breve verso una deriva di mille iniziative, tutte riconducibili ad un padrino politico, identificabile in primis nei ministri dei beni culturali e delle infrastrutture e nel sottobosco che di volta in volta ruotava loro attorno. Vertice del malcostume, l’assegnazione dei fondi per la ristrutturazione del palazzo di Propaganda Fide, frutto di uno scambio fra l’ex ministro delle Infrastrutture Lunardi e il cardinal Crescenzio Sepe. E oggetto di ulteriore scandalo fu che nel programma delle attività 2010 successivo di qualche mese al terremoto a L’Aquila, alla ricostruzione del patrimonio culturale abruzzese fossero state destinate solo poche briciole, mentre decine di milioni erano assegnati in attività di “valorizzazione”.

Ma che questo passaggio sia ancora una volta stato deciso in altre sedi rispetto a quelle deputate, è sintomatico dell’attuale situazione di irrilevanza politica del Mibac e del suo Ministro pro tempore.

La chiusura di Arcus avrebbe dovuto essere il risultato di un coraggioso e onesto bilancio di questi anni (che invece, italicamente, si preferirà evitare) operato da parte del Mibac e non lo scippo, l’ennesimo, di risorse da parte degli interessi forti che sembrano prevalere nell’attuale governo.

Le ragioni addotte per la chiusura della società sono che Arcus avrebbe ormai esaurito la propria missione: al contrario, semplicemente non l’ha mai perseguita, ma ciò non significa che tale missione fosse sbagliata o inutile, anzi. Di fronte all’arrembante e pervasiva retorica della necessità delle Grandi Opere per la sopravvivenza economica del paese, necessario e urgente sarebbe dotare il Ministero di strumenti per mitigare in maniera non solo superficiale i danni, inevitabili, a paesaggio e patrimonio culturale.

L’alternativa è lavarsi la coscienza con i proclami quali la lettera del trio Passera, Ornaghi, Profumo a commento del così detto “manifesto della cultura” del Sole 24 Ore. Risposta consonante al vuoto e alla banalità con cui si sta cercando di nascondere il delitto perfetto: quello nei confronti dell’art. 9 della nostra Costituzione.

A posteriori, il titolo “Le varianti del gusto” cui inizialmente avevo rimproverato una certa ambiguità, si è rivelato del tutto confacente al carattere alquanto surreale della discussione. Andrea Emiliani e Pier Luigi Cervellati erano chiamati a difendere quell’impianto teorico e metodologico che, consolidatosi nella Carta di Gubbio, ha permesso, a partire dagli anni ’60, la tutela dei centri storici in Italia e, a Bologna, ha guidato le sperimentazioni di risanamento conservativo condotte dallo stesso Cervellati e premiate in tutta Europa.

Nella Carta di Gubbio del 1960, come noto, la città storica era definita come un “organismo urbano unitario cui va riconosciuta la qualità di bene culturale”. Con uno slancio innovativo avvertito per troppo tempo solo dalle avanguardie urbanistiche, il documento sanciva un passaggio di scala dirompente, dal punto di vista teorico: la città storica non più come somma di elementi, seppur numerosissimi e di altissimo valore storico artistico e architettonico, ma come sistema inscindibile, non gerarchicamente scomponibile, conchiuso architettonicamente e allo stesso tempo urbanisticamente vitale perché preservato da modalità di uso adeguate all’importanza monumentale e alle esigenze della conservazione.

Non semplice ampliamento delle tutele ad immobili non architettonicamente “di pregio”, quindi, ma evoluzione di un paradigma: dalla dimensione dell’elenco a quella del sistema, evoluzione in parte accolta dalla legge ponte del 1967.

Come ha esemplarmente sottolineato Leonardo Benevolo (La fine della città, 2011) si è trattato del “contributo più rilevante dell’Italia alla moderna ricerca internazionale”. E come tale, del resto, questa impostazione si è affermata, negli anni, in molti paesi europei, dalla Francia alla Germania, e , da ultimo, è divenuta punto di riferimento anche per i paesi dell’est europeo, a partire dalla Polonia.

A Bologna, aspetto speculare ed inscindibile di questa interpretazione del centro storico è stata da subito l’attenzione alle esigenze abitative delle diverse componenti sociali. L’investimento a tutela del tessuto urbano era correlato, quindi, con grande lucidità politica e lungimiranza urbanistica, alla tutela delle fasce sociali più deboli : il centro storico come sistema non solo urbanistico, ma sociale, da preservare nel suo complesso, perchè perno vitale di una città più armonica e vivibile.

Quel modello, elaborato normativamente nel Piano del Centro Storico di Bologna del 1972, costituisce uno dei momenti più avanzati di quel decennio riformista che dall’inizio degli anni ’60 ha garantito un autentico progresso civile e sociale al paese. In linea con quanto succederà col volgere degli anni ’70 in tutti i campi della società italiana, non stupisce che questo esperimento abbia allora conosciuto ostacoli politici sempre più poderosi e, a partire dagli anni ’80, abbia cominciato ad essere palesemente contraddetto per quanto riguarda gli aspetti sociali. Espulse verso le periferie intere fasce di popolazione come anche le attività artigianali e il commercio di prossimità, il centro storico di Bologna è divenuto un guscio vuoto, colonizzato da banche e grandi catene commerciali, desertificato al calar della sera o preda di una “movida” invasiva e senza regole, fonte di conflitti e degrado.

Di quel modello, seppur svuotato nell’anima, più a lungo ha resistito l’attenzione al tessuto edilizio che, pur con molte smagliature, è perdurata almeno fino alla metà degli anni ’90. Poi, a poco a poco, colori degli edifici, illuminazioni, insegne, dehors, pavimentazioni storiche: l’insieme dell’arredo urbano ha subito una mutazione progressiva, frutto soprattutto di una indifferenza crescente nei confronti della città storica da parte dell’amministrazione comunale e, almeno da un lustro, anche degli organi di tutela, sempre più “possibilisti” e sempre meno attrezzati culturalmente.

Infine, nel 2009, con l’adozione del RUE (Regolamento Urbano Edilizio), l’ultimo argine viene rimosso: l’assoluta maggioranza degli edifici del centro storico è classificata nella categoria di “interesse documentale”, e ciò significa che su di essi “si opera con le modalità progettuali e le tecniche operative del restauro applicate solo alle parti di pregio storico-culturale o testimoniale, individuate come tali dal progettista sulla base di opportune verifiche e approfondimenti conoscitivi. Gli interventi edilizi ammessi sono: manutenzione ordinaria, manutenzione straordinaria, risanamento conservativo, ristrutturazione edilizia”. E addirittura la demolizione “è assimilata a intervento di manutenzione straordinaria”.

Non solo il centro storico non è più considerato come un organismo unitario, ma addirittura ogni singolo edificio può essere smembrato in una serie di parti di differente valore. Fine della storia.

Le conseguenze non hanno tardato a verificarsi: immobili di impianto settecentesco demoliti, in pieno centro storico, durante la scorsa canicola estiva nell’indifferenza di una città ormai assuefatta, distratta, inconsapevole.

Ironia, prevedibile, della storia, le giustificazioni “ideologiche” che puntualmente vengono ora portate a soccorso del new deal felsineo, ripetono stancamente gli stessi vetusti stilemi che avevano caratterizzato la discussione sull’esperimento Cervellati quasi quarant’anni fa e che, in questo paese di stanca memoria, vengono riciclate senza troppi aggiornamenti: una città “congelata” secondo un principio “storicista” (termine connotato ovviamente in senso negativo), secondo il quale non è concesso all’architetto contemporaneo di lasciare il proprio segno ed è inibita ogni innovazione.

E non è un caso che tali posizioni si dispieghino quasi esclusivamente nell’ambito estetico e si coniughino ad un’indifferenza quasi assoluta nei confronti degli aspetti sociali del fenomeno urbano: si continua a ignorare che problema prioritario, anzi “il” problema delle nostre città è la mancanza di edilizia sociale, di qualità accettabile e in quantità tale da soddisfare una domanda sempre più pressante, a causa di un ampliamento sempre più marcato (immigrazione, crisi economica) di una fascia di popolazione a reddito ormai insufficiente per accedere all’attuale mercato della casa.

In tale contesto, la discussione di qualche settimana fa, ben poteva essere collocata nell’ambito delle esercitazioni surreali.

Con le posizioni di chi, come Cervellati ed Emiliani, riafferma, con ineguagliata passione e lucidità critica nei confronti dei fenomeni odierni, la validità di un modello interpretativo del centro storico si confronta, insomma, uno sguardo corto, incapace di misurarsi con i problemi complessi dei contemporanei sistemi urbani all’interno dei quali, i centri storici (percentuali aggiornate al 2011 e riferite all’Emilia Romagna) costituiscono a malapena il 5% dell’intero territorio urbanizzato.

Ciò significa, nel buon senso delle cifre, che il 95% delle città in cui viviamo sono altro dal centro storico e ben più bisognoso, questo 95%, di interventi di riqualificazione, a partire da architetture di qualità.

Per incapacità di visione organica, certamente, per una sorta di tranquillizzante arretramento concettuale, forse, ma anche, non sempre inconsapevolmente, sotto le pressioni ideologiche che interpretano le esigenze della rendita immobiliare (troppo appetibili, sotto questo profilo, le aree dei centri storici), si continua a rimuovere quello che fu uno dei pochi “scarti” verso la modernità operati dalla nostra cultura, in grado di proporre una lettura del fenomeno urbano più complessa ed organica.

Così, ennesimo sintomo del provincialismo che caratterizza il nostro dibattito culturale, continuiamo a rimettere in discussione acquisizioni altrove ormai consolidate – la tutela dei centri storici – ignorandone per di più gli aspetti tuttora vitali, quelli che Antonio Cederna aveva magistralmente enunciati nella sua premessa a “I vandali in casa”: la complementarietà della città storica e di quella moderna, necessarie l’una all’altra, con modalità interagenti (dalla mobilità alla dislocazione dei servizi), tali da assicurare la tutela dell’una e lo sviluppo dell’altra e, in tal modo, la qualità dell’organismo urbano nel suo complesso.

E non è un caso che il modello bolognese della buona urbanistica sia stato caratterizzato non solo dalle sperimentazioni di risanamento conservativo, ma dal fatto che contestualmente, accanto al centro storico, furono costruiti quartieri periferici architettonicamente dignitosi e rispettosi degli standards.

Nella città che era riuscita a realizzare, in anticipo sull’Europa, una diversa visione della città, imperniata sul rispetto della storia e della dignità dell’abitare, isolate risultano ormai le voci di chi, ostinatamente, continua ad interrogarsi sulla necessità urbanistica ed estetica di un cubetto di lego bianco spuntato in poche settimane in una via del centro.

La vicenda dell’affresco vasariano in Palazzo Vecchio su cui anche eddyburg si è soffermata nelle ultime settimane dello scorso anno, si presta perfettamente ad esemplificare lo stato del nostro sistema di tutela e delle politiche dei beni culturali oggi in Italia. Non solo pessimo, ma tendente al farsesco.

Come noto, l’affresco di Giorgio Vasari che ricopre la parete orientale del Salone dei Cinquecento in Palazzo vecchio è stato sottoposto ad alcuni sondaggi alla ricerca di una precedente opera di Leonardo, la mitica rappresentazione della battaglia di Anghiari. L’ideatore del progetto che prevedeva i sondaggi e l’investigazione della parete alla ricerca di un’intercapedine al di là della quale si troverebbe l’affresco leonardesco, è un ingegnere italiano, Maurizio Seracini, collegato con l’Università di San Diego in California: che, dopo anni di tentativi, trovatosi uno sponsor nel National Geographic, ha ottenuto i permessi necessari non solo dal sindaco Renzi – il Comune è proprietario dell’opera - ma anche dalla soprintendente, Cristina Acidini.

Peccato che quest’ultimo passaggio sia stato contestato attraverso una coraggiosa presa di posizione di una funzionaria dell’Opificio delle Pietre dure, istituzione cui era stato richiesto il parere di competenza sulla possibilità di operare i sondaggi senza danno per l’affresco del Vasari. Cecilia Frosinini, responsabile del dipartimento delle pitture a fresco all’interno dell’Opificio, assieme all’ISCR di Roma, la massima istituzione nazionale in tema di restauro, ha espresso una circostanziata critica non solo sulla potenziale pericolosità dei sondaggi a danno dell’affresco, ma sull’intero progetto in questione i cui presupposti scientifici non sono mai stati illustrati pubblicamente e compiutamente.

Ma le preoccupazioni circostanziate di un tecnico di lunga e provata competenza, rilanciate con vigore da Tomaso Montanari in un articolo del 30 novembre, non sono bastate neppure a richiedere, come un elementare atteggiamento prudenziale avrebbe richiesto, un supplemento di verifica. Agli inizi di dicembre sono stati avviati i sondaggi ed è a questo punto, il 5 dicembre, che, mentre Italia Nostra, tramite un esposto alla Procura della Repubblica, sollevava il problema dell’integrità all’affresco vasariano, un contemporaneo appello per l’interruzione delle operazioni potenzialmente invasive, lanciato da un gruppo di storici dell’arte e intellettuali al sindaco e alla soprintendente ha raccolto in pochissime ore molte e qualificatissime adesioni di studiosi di storia dell’arte e di restauro.

Il 6 dicembre, senza nessuna conferma ufficiale, le operazioni di ricerca sono state interrotte e, contemporaneamente, il sindaco ha iniziato una vivace campagna di denigrazione nei confronti dei firmatari dell’appello, da lui, novello Ulisse, accusati di scarso amore per la ricerca e la verità scientifica. La procura, come atto dovuto, ha proceduto ad un sopralluogo sul cantiere di cui si attendono gli esiti.

Nello stallo determinatosi nei giorni successivi, mentre l’appello continuava a registrare un incessante flusso di adesioni, la soprintendente, nella sua doppia veste di responsabile del Polo museale fiorentino e, ad interim, dell’Opificio delle Pietre dure, non ha ritenuto necessarie spiegazioni o commenti ai firmatari dell’appello.

Nel frattempo il materiale prelevato nei sondaggi effettuati è stato inviato per le analisi ad un laboratorio di provincia e sui risultati “secretati” (sic!) dal National Geographic detentore dell’esclusiva, lo scoppiettante sindaco non ha mancato di alludere ad anticipazioni relative a clamorosi risultati.

Infine, dopo settimane di incredibile silenzio, il 23 dicembre la Soprintendente si è finalmente espressa con una lettera a mezzo stampa, affrontando – con molte contraddizioni – solo il tema della pericolosità dei sondaggi. La dichiarazione, sulle cui ambiguità ci sarà sicuramente modo di ritornare, rappresenta ad oggi l’ultimo atto ufficiale della vicenda.

Ad oggi, dunque, mentre i ponteggi serviti per le operazioni ancora ingombrano il Salone dei Cinquecento, ciò che sappiamo di quest’impresa è registrabile esclusivamente sotto l’etichetta “scoop mediatico”. Nessuno di coloro che dovrebbero farlo per ruolo istituzionale ha mai illustrato le premesse scientifiche di quest’operazione. La totale mancanza di trasparenza sulla sua genesi si sposa pericolosamente con la carenza (per usare un eufemismo) di un curriculum specifico dell’ideatore del progetto a ineliminabile, preventiva garanzia della fondatezza del progetto stesso.

Si tratta di lacune non giustificabili non solo nel campo della storia dell’arte, ma della ricerca scientifica tout court, inammissibili, poi, di fronte al potenziale livello di invasività delle operazioni che hanno interessato l’affresco vasariano, pericolo ipotizzato da chi, al contrario, per ruolo e competenza, aveva tutte le credenziali per poterlo fare.

L’episodio va ben al di là di una querelle interna e specialistica fra storici dell’arte. E non perché vi sia coinvolto quel blockbuster mediatico che è Leonardo, ma perché sottolinea spietatamente il degrado cui sono giunte le nostre politiche dei beni culturali.

Dell’uso mercantile del nostro patrimonio usato in maniera spregiudicata anche in questo caso si è scritto con lucidità, ma tale deriva rischia di essere micidiale quando viene ad innestarsi, come a Firenze (ma non solo) in un deserto culturale: da troppi anni la città dei Medici è priva di una programmazione di livello almeno nazionale e si limita ad uno sfruttamento del proprio patrimonio artistico asfittico e privo di una visione di lungo respiro tanto da ricordare il caustico aforisma di Joyce quando di Roma affermava che “fa pensare a quel giovanotto che vive mostrando il cadavere della nonna ai turisti”.

E’ una situazione che caratterizza ormai troppe realtà italiane: oltre a Firenze e Roma, appunto, Venezia, Milano, Napoli, Palermo… pare insomma che al di là di singoli sempre più isolati episodi, la “valorizzazione” del nostro patrimonio culturale sia ormai declinata solo in funzione di un turismo predatorio. E i cui protagonisti sono a loro volta predati, vittime di un’offerta sempre più scadente e da troppo tempo non aggiornata.

Non si tratta solo dell’ormai endemica mancanza di risorse: le troppe iniziative inconsistenti che ancora si succedono (tanto per rimanere a Firenze, si pensi alla dispendiosa vacuità di un evento come Florens), non sono negative solo perché rappresentano uno spreco di risorse, ma perché “inquinano” un contesto e lo vampirizzano e, sostituendosi ad un’offerta culturale degna di questo nome, diseducano, annegando in un’opaca palude di mostre e mostriciattole, eventi e convegni usa e getta (dove facce e argomenti hanno ormai raggiunto un grado di assoluta ripetitività) la possibilità di costruire politiche e azioni non effimere e capaci di ripensare il nostro patrimonio in termini innovativi e conservativi assieme.

Non è un ossimoro, ma una sfida di evoluzione e ripensamento in cui occorre investire tutte le energie possibili: negli ultimi tempi, con una pericolosa accelerazione nell’ultimo biennio, al contrario, a questo ruolo si è costantemente sottratta la principale istituzione di tutela del patrimonio.

Il nostro Ministero dei beni culturali ha dunque urgentissima necessità di rifondare una politica aggiornata e in grado di contrastare culturalmente l’assalto al patrimonio e al paesaggio in atto nel nostro paese. Si tratta di un’operazione né immediata, né semplice, né spendibile in termini mediatici e non ci sono ricette sicure, ma di sicuro deve possedere caratteristiche di trasparenza e, soprattutto, ripristinare spietatamente e senza deroghe, criteri di competenza: gli unici strumenti efficaci in una navigazione che rischia di essere tempestosa.

E’ tutto ciò che è mancato in questa vicenda del “gratta e Vinci”, ed è per opporsi a questo che decine e decine di studiosi di tutto il mondo – e quanto competenti! – hanno espresso il loro dissenso. Non era, per molti di loro e per ragioni diverse, un atto scontato: anche in questo risiede l’esemplarità dell’iniziativa e assieme la necessità di trasformarla, al di là delle contingenze del singolo episodio, in un’occasione di ripensamento profondo dell’uso del nostro patrimonio. Collettivo e collaborativo: a questo mira ad esempio la richiesta dei promotori di istituire un Comitato di esperti che possa discutere, in piena trasparenza, del progetto e del destino di uno dei luoghi simbolo del Rinascimento.

E al “giovane” Renzi, paladino di quest’impresa, consigliamo nel frattempo di rivedere un film ormai decrepito per i suoi standard (1984), Non ci resta che piangere, laddove gli improbabili e cialtroneschi ingegneri simulati dagli irresistibili Benigni e Troisi incontrano un Leonardo da Vinci dapprima perplesso e poi in grado, lui, di inventarsi il primo treno della storia.

Gli auguriamo naturalmente un ampio successo nella sua attività di governo: a tutti è noto quanto bisogno abbiano il nostro patrimonio culturale e il nostro paesaggio di una politica finalmente adeguata alla loro straordinaria importanza.

Mentre il ministro sarà oggi in visita al sito archeologico campano, comincerà il suo percorso parlamentare il decreto legge 31 marzo 2011 , n. 34 contenente, fra l’altro, disposizioni urgenti in favore della cultura.

Ed è sull’articolo 2 di tale decreto, quello dedicato ai provvedimenti in favore di Pompei, che desideriamo attirare l’attenzione del ministro.

Al contrario di quanto autorevolmente affermato sui media e in sede governativa, nel decreto non vi sono per Pompei risorse economiche aggiuntive certe: non un euro proviene dalle casse ministeriali in più dei fondi normalmente in dotazione alla Soprintendenza autonoma di Napoli e Pompei. E non solo ci si affida all’ipotesi di eventuali risorse messe a disposizione dalla Regione Campania (in condizioni finanziarie non esattamente floride), ma il comma 8 prefigura addirittura trasferimenti di fondi fra Soprintendenze. Peccato che in passato tali trasferimenti abbiano piuttosto seguito un percorso al contrario, abbiano cioè comportato il passaggio di risorse finanziarie dalla Soprintendenza pompeiana (d’altro canto di gran lunga la più ricca) ad altre in maggiori difficoltà.

Riequilibri e aggiustamenti non sono peraltro riprovevoli in sè, soprattutto nella disastrata situazione economica in cui versa il Mibac, ma è a dir poco contraddittorio che in un decreto che dovrebbe stanziare risorse aggiuntive si prevedano storni che non potranno che essere in una sola direzione.

Ancora, per quanto riguarda le risorse in termine di personale, del tutto avventate ci sembrano, rispetto al dettato del decreto, le cifre pur autorevolmente avallate di 30 archeologi e 40 operai da ssumere ex novo: i 900.000 euro peraltro già nella disponibilità del Mibac consentiranno un massimo di 25-30 assunzioni complessive (e si tratta, beninteso, di uno sforzo non esiguo).

Ma ben più grave, sotto il profilo della legittimità, appare il comma 6 che consente interventi - di qualunque natura - in deroga agli strumenti di pianificazione urbanistica e rappresenta quindi l’ennesima, ingiustificabile sanatoria a priori.

In un territorio quale quello campano gravato da decenni di abusivismo che hanno degradato uno dei paesaggi fra i più celebrati al mondo si vuole quindi consentire l’ennesimo strappo alle regole, peraltro senza alcuna reale necessità legata alle esigenze di conservazione e tutela in senso ampio dell’area archeologica.

Affinchè questo nuovo corso che si preannuncia finalmente per Pompei proceda con quella trasparenza necessaria all’importanza della posta in gioco, occorre fare chiarezza sulle risorse disponibili, e dare in via esclusiva alla Soprintendenza Archeologica la gestione di quel programma di manutenzione programmata che, come ci risulta, la stessa Soprintendenza aveva peraltro già elaborato in anni recenti.

La conservazione programmata quindi è la strada maestra, quella pratica che seppur sbandierata come recente acquisizione , ben prima di ora e a ben altro livello di competenza lo stesso ministero aveva saputo concepire: il lungimirante e straordinario Piano Umbria di Giovanni Urbani, vera pietra miliare della storia della tutela, risale al 1974.

Archiviata doverosamente la disastrosa stagione dei commissariamenti (ma lo stesso si deve fare, da subito, per l’area archeologica centrale di Roma e per L’Aquila) nessuna scorciatoia amministrativa è riproponibile, ma piuttosto si deve mirare ad una collaborazione allargata con professionalità di consolidata esperienza (archeologi, architetti e restauratori di sicura competenza pompeiana) quali peraltro abbondano fra gli studiosi stranieri . Pompei torni ad essere il nostro biglietto da visita: un laboratorio internazionale così come avveniva fin dagli anni Sessanta del secolo scorso.

Un cantiere di restauro a cielo aperto accessibile ai visitatori (non quello finto e perciò fallimentare della Casa dei Casti Amanti) come pratica di valorizzazione ben più efficace dei ricorrenti e risibili progetti in stile “Disneyland peplum”, inequivocabile sintomo di provincialismo culturale.

Senza rifare per l’ennesima volta operazioni di documentazione e rilievo già compiuti in passato anche recente, disponibili e tutt’al più aggiornabili con costi limitati. E senza distorcenti aspettative nelle salvifiche virtù della tecnologia (dalle nuvole di punti alle ricostruzioni in 3D) che se non inserite e rigidamente verificate all’interno di una pianificazione di attività complessiva, finiscono inevitabilmente per produrre disastrosi risultati quanto a rapporto costi/benefici.

Ma la prima azione che invitiamo il ministro a intraprendere con decisione è, senza ombra di dubbio, il ripristino della legalità: a partire dalla più ferma opposizione ad ogni iniziativa di condono e a provvedimenti che a qualsiasi titolo consentano operazioni in deroga alle norme vigenti.

La rinascita di Pompei non può che essere fondata su di un sistema di regole certe e trasparenti; in tal senso il sito archeologico deve essere l’esempio di quel ritorno ad una corretta pratica di governo del territorio che costituisce il primo e più efficace strumento per la difesa del nostro paesaggio e del nostro patrimonio culturale.

Il testo costituisce una versione rielaborata di un comunicato predisposto dall'autrice per Italia Nostra

Che Sandro Bondi non concorresse al titolo di “Miglior Ministro dei Beni Culturali”, ci era noto da tempo. Per molti mesi dal suo insediamento gli osservatori e gli operatori del mondo dei beni culturali e quanti semplicemente hanno a cuore le sorti del nostro patrimonio hanno stigmatizzato la sua assenza: Bondi troppo impegnato sul versante partitico ha per lungo tempo dedicato al proprio Ministero un’attenzione distratta, casuale e spesso puramente ideologica tanto da abbandonare il nostro patrimonio, in più di un oscuro passaggio, nelle mani della “cricca”. Clamoroso il caso del commissariamento per i Grandi Uffizi a Firenze, mentre le procure sono ora al lavoro sul Petruzzelli di Bari, sulla ricostruzione all’Aquila e su quella gestione commissariale di Pompei che ogni giorno di più, consegna alle cronache nuovi esempi di finanza allegra.

In questa latitanza, spiccano, per caratterizzazione “ideologica” appunto, i provvedimenti di reale tutela, poche medaglie al valore ma ripetutamente sbandierate: ma se il Pincio, non appena transitato sotto l’amministrazione Alemanno è stato doverosamente salvato dallo sventramento, non altrettanto è successo a Milano, dove il ministro non ha minimamente contrastato lo scempio inaudito del parcheggio di Sant’Ambrogio fortemente voluto dall’amministrazione Moratti.

Nella mancanza complessiva di una visione culturale, se non proprio di una politica, unico esempio di direttiva è stato rappresentato dall’accentuazione esasperata delle pratiche di valorizzazione, culminate con la nomina di apposito manager e codazzo annesso di pubblicitari che in nome del marketing in un anno e mezzo di attività hanno saputo produrre, fra continue fanfare mediatiche, solo qualche bislacca campagna promozionale per rendere ancor più appetibili i monumenti icona del nostro patrimonio già oppressi da una pressione antropica che non ha mancato di provocare i primi segnali di cedimento (v. per tutti il Colosseo e i suoi problemi di degrado).

Alla stessa visione pubblicistica (essendo il marketing vero e proprio comunque collocato su un altro livello di complessità), è ben presto risultata ispirata anche la pratica dei commissariamenti dei principali siti e monumenti nazionali, attraverso la quale si è tentato uno smembramento del patrimonio fra beni di serie A, economicamente fruttuosi e beni di serie B (il 90% dell’immenso patrimonio culturale italiano) non monetizzabili e quindi abbandonati, dopo i ripetuti tagli di bilancio, ad un incerto destino. Il caso degli Uffizi e gli eventi recentissimi di Pompei rappresentano gli esiti, dolorosi e internazionalmente conosciuti di questa “sperimentazione”.

I commissariamenti hanno costituito peraltro l’iniziativa più fragorosa, ma non l’unica di un disegno di dismissione complessiva del sistema delle tutele, che si è incarnato in una serie di provvedimenti, meno clamorosi ma ancor più devastanti, tesi a ridurre e imbrigliare il ruolo delle Soprintendenze in materia di tutela del paesaggio. Proprio in questo settore cruciale a salvaguardia non solo del nostro patrimonio culturale, ma del tessuto delicatissimo del nostro territorio, Sandro Bondi ha di fatto accettato di confinare il proprio Ministero in un ruolo di totale irrilevanza politica e di sudditanza acritica nei confronti dei Ministeri dell’Economia e delle Infrastrutture. Dal piano casa al federalismo demaniale, dalle “semplificazioni” amministrative – autorizzazione paesaggistica e Scia – alle così dette linee guida sugli impianti di energie rinnovabili, con accelerazione crescente negli ultimi mesi, i già fragili organismi della tutela sono stati investiti da una serie di provvedimenti ambigui, spesso tra loro contraddittori e tutti però ispirati alla politica del laissez faire e della facilitazione dell’iniziativa privata a qualsiasi progetto applicata.

Già in passato avevamo denunciato, a partire dal Primo rapporto nazionale sulla pianificazione paesaggistica, questa deriva anticostituzionale che, complice il Ministro, tendeva a sovvertire la primazia dell’art. 9, rispetto ad altri interessi che non fossero quello pubblico, il principio guida che da Benedetto Croce a Concetto Marchesi, ha ispirato i legislatori e i padri costituenti.

Ripetute e ormai rituali affermazioni di “disponibilità” alle esigenze del progresso comunque inteso da parte della dirigenza Mibac, documenti ufficiali di imbarazzante livello culturale in cui alla tutela vengono sostituite le “buone maniere” fino a giungere a quest’ultima esplicita dichiarazione dello stesso Bondi. Coi toni ormai consueti di acrimonia e arrogante furore con i quali si rivolge a chiunque si permetta critiche al suo operato (l’episodio delle dimissioni di Salvatore Settis segnò, da questo punto di vista, una svolta verso una deriva da minculpop sempre più pesantemente applicata da allora in poi) il Ministro, in uno sbracamento culturale totalmente esplicito, identifica la propria mission nella facilitazione coute que coute della funzione infrastrutturale ed edilizia del territorio che non deve essere ostacolata da “ritardi” derivanti da fastidiosi reperti.

E’ la versione riveduta e corretta come neppure i più tendenziosi fautori della libera impresa avrebbero potuto sperare, di un art. 41 cui è stato assoggettato l’art.9, ridotto al ruolo di accessorio esornativo.

L’uomo sbagliato, dunque, al posto sbagliato: dopo queste ultime dichiarazioni non c’è altra possibilità di salvezza per il nostro patrimonio che le dimissioni di Sandro Bondi.

Per questo eddyburg si unisce all’appello a Napolitano promosso da Assotecnici e invita tutti i suoi lettori a firmarlo.

Per firmare l'appello Per Pompei e la cultura

L’ormai consueta, autoencomiastica conferenza stampa con la partecipazione, fra gli altri, del ministro Bondi e del sindaco di Roma Alemanno, ha annunciato urbi et orbi, mercoledì 28 luglio, l’imminente pubblicazione del bando di gara per sponsorizzazioni private finalizzate al restauro del Colosseo.

Che i doverosi e non più rinviabili lavori di restauro all’anfiteatro flavio siano in procinto di essere avviati è senz’altro una buona notizia. E la magniloquente fanfara mediatica allestita per annunciare – si noti bene – il semplice ricorso ad una sponsorizzazione per un’operazione di manutenzione irrinunciabile e per di più giunta con grave ritardo (si ricordi il crollo avvenuto agli intonaci il 9 maggio scorso) si allinea allo stile governativo in grado di spacciare per innovativo “modello” di gestione il tentativo di ricorrere sic et simpliciter ai soldi privati. Il polverone autoincensatorio è però in questo caso talmente smaccato da dissolversi con grande rapidità: in realtà i nuovi mecenati saranno chiamati semplicemente a coprire il vergognoso stato di sistematica sottrazione di pubbliche risorse in cui versa il ministero deputato alla tutela del nostro patrimonio culturale.

Tutta l’operazione rivela fra l’altro, ancora una volta, l’inutilità della gestione commissariale che si è limitata, nell’occasione, ad un ruolo di passacarte, visto che il progetto scientifico è a cura della Soprintendenza, mentre per il bando si sono scomodati oltre all’ufficio legale del ministero, niente meno che università Bocconi di Milano, Autorità di Vigilanza sui contratti pubblici e Avvocatura dello Stato (Avvenire e Messaggero, 28 luglio 2010).

In questi termini, come è chiarissimo, si tratta di una non-notizia: la pratica delle sponsorizzazioni, anche molto generose, finalizzate al restauro di monumenti pubblici, esiste da sempre, mentre la vera, drammatica notizia, risiede nelle condizioni di degrado in cui continua a versare non solo il Colosseo, ma tutta l’area circostante: a trent’anni di distanza dalle denunce di Antonio Cederna ben poco è stato fatto, e quel poco, ricordiamolo, si deve all’opera di Luigi Petroselli, protagonista politico di un’indimenticata stagione di recupero del ruolo culturale dell’area archeologica centrale.

Il nostro monumento – icona continua ad essere sfruttato per gli usi più impropri (i così detti e ormai imprescindibili “eventi”) come la famosa gallina dalle uova d’oro, tanto è vero che con candore lo stesso sindaco Alemanno ha sottolineato l’urgenza dei restauri dal momento che l’immagine dell’anfiteatro sarà il logo trainante per il lancio della candidatura della Capitale come sede delle Olimpiadi 2020. E vedremo se gli eventuali munifici mecenati, alla fine dei conti, saranno davvero così “eleganti” (sic, la Repubblica, 29 luglio 2010) da non pretendere, in cambio dei contributi elargiti, ben più di un richiamo a margine dei biglietti di entrata.

Con il consueto rimando sine die ad un futuro progetto dai vaghi contorni, poi, nella conferenza stampa di mercoledì scorso, è stato affrontato il problema della viabilità, vero nodo irrisolto di tutta l’area che si pretende di calmierare con soluzioni palliative, aggirando costantemente il ganglio rappresentato da via dei Fori Imperiali e dalla necessità della sua pedonalizzazione (e, a seguire, rimozione...). Soltanto attraverso una drastica riduzione del traffico veicolare, le operazioni di restauro che si stanno per intraprendere avranno una ragionevole sostenibilità nel tempo.

Ma per una reale salvaguardia del nostro monumento più famoso a tali imprescindibili operazioni urbanistiche andrebbe associata una gestione che, come recitano le nostre leggi, anteponesse le ragioni della tutela a quelle di uno sfruttamento, quello a fini turistici, responsabile, al pari dell’inquinamento da traffico, di una pressione antropica sempre più accentuata e lesiva per l’integrità del monumento stesso.

Obiettivo contraddittorio, però, con gli strepitosi successi, in termini di aumento dei visitatori, che a poche ore di distanza, sono stati sbandierati, in congrua conferenza stampa e collaudata eleganza comunicativa (“è passata ‘a nuttata”: vedere, per credere, la locandina pubblicitaria sul sito Mibac con la storpiatura del ritratto di Antonello), dal Direttore alla Valorizzazione cav. Resca, propugnatore del nuovo assioma in stile Auditel, secondo il quale il livello culturale si misura in termini di quantità di incassi.

Perfettamente allineato, a conclusione della kermesse pro sponsorizzazione dei restauri, il commissario alle aree archeologiche di Roma e Ostia, Roberto Cecchi, ha annunciato trionfalmente l’apertura dell’anfiteatro flavio anche nelle ore notturne: venghino, signori, venghino.

Nel balletto di ipocrisie che nasconde ferocissimi scontri di potere all’interno del governo sulla manovra finanziaria in discussione in queste ore, spicca quest’oggi la “protesta” di Bondi sui tagli indiscriminati alla cultura.

E già, perché a tutti – in maniera bipartisan - una presa di posizione critica da parte di un ministro da sempre appiattito fino al masochismo sulle decisioni del governo è apparsa novità da sottolineare a riprova delle storture della manovra stessa.

Eppure, quando due anni fa la scure di Tremonti si abbattè, pesantissima, sul bilancio del suo Ministero, Bondi difese l’operato del governo sostenendo l’inefficienza ministeriale nella gestione delle risorse e sbandierandone come prova lampante l’elevato ammontare dei residui passivi. In quella occasione ad economisti anche non di parte fu facile smontare la versione del ministro: la realtà a tutti nota è che nessun governo di alcun colore politico ha mai investito seriamente sul nostro patrimonio culturale e il Ministero è da sempre mantenuto in una sorta di bagnomaria che gli permette solo di sopravvivere.

Ma è altrettanto vero che in questi ultimi due anni è stata messa in atto, consenziente il Ministro, una vera e propria strategia di asfissia progressiva e sempre più accelerata.

Pensionamenti anticipati, girandola di trasferimenti, sostituzione, nei ruoli di maggiore ruolo decisionale sul territorio come le Direzioni regionali, di personale amministrativo al posto di tecnici del settore, e, soprattutto, quella politica dei commissariamenti sotto l’egida della Protezione Civile che ha interessato via via le Soprintendenze e poli museali principali e i cui meccanismi distorti solo le inchieste giudiziarie sono riuscite a bloccare.

Mentre per quanto riguarda il paesaggio gli organi politici del ministero hanno posto in atto, da un anno a questa parte, una sistematica operazione di depotenziamento dell’intero sistema delle tutele sul quale torneremo a breve, sul piano politico, è giunta pressoché a compimento l’espulsione progressiva di tutte le voci di dissenso, avviata in grande stile con le clamorose dimissioni di Salvatore Settis da Presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali, trasformato poi, in pochi mesi, in un organismo tanto consenziente sul piano politico quanto ininfluente su quello culturale.

Anche in questa occasione, del resto, le dichiarazioni del Ministro sono in realtà molto più coerenti di quel che non possa apparire ad una prima lettura: nulla Bondi ha detto sull’ulteriore taglio del 10% al bilancio del Mibac previsto dalla manovra. Briciole in termini assoluti, ma ad un organismo sottoposto, come detto, ad una dieta draconiana, se gli si sottrae anche il tozzo di pane secco, se ne decreta di fatto la soppressione.

E nel comunicato di precisazione diramato in giornata, Bondi ribadisce anche, sulla stessa linea, la necessità di quella “riforma” degli enti lirici che ha scatenato proteste a livello internazionale.

Il dissenso del Ministro riguarda invece la soppressione dei finanziamenti statali ad una lunga serie di istituzioni culturali del più vario tipo che, inaspettatamente, egli si trova a difendere, almeno in parte, rivendicando – unico caso nel suo mandato – la competenza del proprio Ministero a decidere sui tagli.

Su eddyburg abbiamo pubblicato da subito le molte ragioni che si oppongono, in linea di principio, ad ulteriori tagli su enti di ricerca, ma adesso leggetevi la lista delle istituzioni cui verrebbero (condizionale d’obbligo) sottratti i fondi statali. Sfido chiunque a non riconoscere fra quelle che, a seconda delle proprie competenze, ci sono maggiormente note, alcuni (molti) carrozzoni polverosi e da anni sonnecchianti in iniziative di basso profilo: uno o due convegni l’anno in amene località, una pubblicazione patinata e poco altro.

Si tratta, in molti casi, di istituzioni dalla storia gloriosa, a volte pluricentenaria, ma che da alcuni decenni ormai vegetano in un’assoluta irrilevanza culturale (sul tema, sempre su eddyburg).

Eppure sono sopravissute sempre alle minacce che periodicamente i governi, preferibilmente di centro destra, scagliano contro i famosi “enti inutili”: spauracchio demagogicamente agitato ad ogni manovra finanziaria. La ragione, tutta italica, della loro sopravvivenza risiede nel fatto che molte di queste istituzioni si sono di fatto trasformate in comode sinecure per amici, sodali e congiunti.

Anche la sinistra, e qui vengo al punto centrale della questione, ha favorito questo andazzo, sicura di mantenere, garantendo elemosine di Stato a questi rifugi per intellettuali a riposo e per il loro corteggio, sacche di consenso spendibili alla bisogna. In molti casi questo calcolo di bassa cucina si è rivelato pure sbagliato, poiché, come noto, al cambio della guardia, i vari responsabili, direttori, presidenti, ecc. si sono in larga parte allineati al padrone di turno, al grido di “la cultura (archeologia, geografia o storia che fosse) non è di destra, né di sinistra”.

Appunto. Ciò che un governo realmente consapevole dell’importanza della ricerca e della cultura quale strumento strategico di progresso sociale e anche economico di un paese avrebbe dovuto fare, sarebbe stato quello, internazionalmente affermato, di costituire un sistema di controlli e verifiche periodiche e realmente autonome sull’attività di tali enti, in modo da premiarne quelli (non molti, ma pure presenti nella black list tremontiana) di reale eccellenza, facendo anzi confluire su questi le poche risorse disponibili.

Perché un’altra delle ipocrisie che si celano dietro questa operazione è quella di sottolineare l’esiguità delle elargizioni statali a riprova della loro ininfluenza in termini di risparmio complessivo delle risorse. Va detto, piuttosto, che la ricerca di alto livello ha dei costi non comprimibili al di sotto di una certa soglia e che, per converso, la scarsità di risorse cui sono costrette tante di queste istituzioni diviene prova evidente della miserevole incidenza culturale raggiungibile dalle loro attività.

Così, invece di contribuire a consolidare, con una politica di finanziamenti culturali trasparente e fondata sul merito, le istituzioni di ricerca di eccellenza che, nonostante tutto, sopravvivono nel nostro paese, la sinistra può annoverare anche questa colpa: nella bagarre che già si è scatenata sulla lista nera, vi sarà un arrembaggio giocato esclusivamente su prove di forza di bassa politica e dal calderone nel quale tutti sono appiattiti, saranno salvati non i migliori, ma quelli legati ad interessi o anche solo conoscenze di maggior potere.

Amaramente pertinenti appaiono le considerazioni di Barbara Spinelli nell’odierno editoriale: “Quello che urge da noi non sono sacrifici, ma un’autentica disintossicazione […] Si tratta di uscire dallo show, di entrare nella realtà, di vederla. Si tratta di rompere con gli usi e costumi vigenti dietro le comunità transennate”.

Si accettano scommesse sul finale di partita.

C’era una volta una Regione simbolo del buon governo, dove l’efficacia dell’attività amministrativa si sposava con l’etica dell’operare politico. Eravamo negli anni ’70 e il modello delle amministrazioni “rosse” raccontava al mondo anche di un modo diverso di intendere il governo del territorio. Fra queste un ruolo guida lo assunse la regione Emilia Romagna capace, in quegli anni, di costruire, sulla base di un’ampia condivisione popolare, un sistema di governo che si affidava, nel metodo, ad una ricognizione approfondita del proprio territorio e negli strumenti, alla pianificazione su area vasta: i risultati di rilievo non mancarono, dalla creazione del Parco del Delta del Po, all’elaborazione di uno dei primi e più efficaci piani paesaggistici regionali elaborato in adeguamento alla legge Galasso. Nel 1986 il PTPR dell’Emilia Romagna rappresentò certamente un punto di innovazione e di avanzamento della cultura ambientalista in Italia e come tale fu ampiamente apprezzato, fra gli altri, da Antonio Cederna, anche perchè costituì il risultato concepito, coordinato ed elaborato dalle strutture interne di un'amministrazione pubblica.

Molta acqua è passata sotto i ponti, mano mano che la tensione ideale dei primi anni si allentava, contestualmente il carattere esemplare dell’esperienza emiliano romagnola andava diminuendo. Al pari di altre amministrazioni regionali, gli ultimi lustri hanno sancito una rinuncia sempre più marcata, sul piano politico e su quello amministrativo dalle funzioni di programmazione e pianificazione su area vasta. Progressivamente si è sempre più diffusa la delega di tali funzioni in campo urbanistico a livello provinciale e comunale con tutti i fenomeni di svendita del paesaggio per finalità di cassa economale che questo meccanismo ha comportato. L’ultima legge sul governo del territorio (n.6 del 6 luglio 2009) sancisce di fatto questo passaggio, inglobando, quale naturale corollario, il recepimento a livello regionale, del famigerato piano casa. Intendiamoci, come eddyburg sta documentando, esistono versioni largamente peggiori di tale provvedimento che in talune declinazioni regionali è stato pensato come un vero e proprio condono mascherato, ma a chi ricorda il dibattito culturale e politico che accompagnò l’elaborazione del PPTR, oltre 20 anni fa, appare dolorosamente evidente la rinuncia ad un’operazione di strategia territoriale su area vasta e quindi a ripensare il proprio territorio in termini complessivi non collegati esclusivamente a modelli di sviluppo culturalmente arcaici ed economicamente poco innovativi.

In compenso, gli ultimi mesi della legislatura che si conclude in queste ore sono stati caratterizzati dalla pubblicizzazione di un Piano Territoriale di ben altra natura: il PTR, non piano urbanistico, ma pomposamente definito “come l’atto più rilevante della Regione, la sua visione strategica”, è a tutt’oggi un documento persino imbarazzante sul piano dell’elaborazione politica ed amministrativa: oltre all’immancabile (e stucchevole) panoplia lessicale di termini quali competitività, economia della conoscenza, sviluppo sostenibile e valorizzazione, l’immagine della regione viene definita quasi solo per contrasto, a rimarcare, in perfetto stile leghista, le differenze, soprattutto economiche, in positivo rispetto ad altre aree del paese e l’unico obiettivo che emerge da una cortina fumogena e spesso contradditoria di affermazioni è quello dell’”attrattività territoriale”, bramata nelle sue conseguenze economiche, ma piuttosto vaga nei contenuti .

L’ancora più recente legge sul paesaggio (n.23 del 30 novembre 2009) senza affrontare minimamente il problema dell’adeguamento della pianificazione regionale vigente al Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio, rappresenta, rispetto agli anni ’80 un deciso arretramento culturale, a partire dalla sciatteria linguistica che la connota e che non riesce a nascondere la totale mancanza di qualsiasi elemento se non proprio prescrittivo, financo definitorio rispetto alle azioni chiaramente identificate dal Codice (in particolare all’art. 143) quali elementi fondanti della copianificazione paesaggistica. A tal punto il testo di legge elude qualsiasi funzione pianificatoria da non prevedere la redazione di alcuna cartografia: torna alla mente il fulminante parallelo di Luigi Piccinato che definiva un piano senza carte come “calligrafia orale”.

Naturalmente questo decisivo abbassamento a livello di qualità normativa, ha ampio riscontro con quello che sta succedendo sul territorio: il fenomeno dello sprawl urbano dilaga così come il degrado complessivo del paesaggio dovuto anche alla costruzione delle tante infrastrutture che attraversano la regione (dall’alta velocità ai passanti autostradali), mentre sono state recentemente riviste anche alcune delle norme cardine sulle quali il PTPR degli anni ’80 aveva cercato di fondare un’inversione di tendenza rispetto al massacro urbanistico che aveva ridotto la costa romagnola, nei decenni precedenti, a un’ininterrotta città lineare di grottesca qualità architettonica, distruggendo per sempre decine e decine di chilometri di dune e pinete. E si moltiplicano i vulnera inferti al contesto monumentale di centri storici fino ad ora studiati e tutelati come in poche altre situazioni italiane e in molti centri, a partire da Bologna, disastrosa appare la situazione del traffico. Certo, c’è di peggio in Italia, il territorio dell’Emilia Romagna non ha conosciuto, se non in piccola parte, fenomeni di devastazione come il Nord-Est o l’abusivismo diffuso che come un cancro dilania vaste aree del Meridione.

Ma il “meno peggio” non è buona politica e, in tempi come questi, la rinuncia a divenire un esempio alternativo di governo del territorio, a sperimentare pratiche di contenimento del consumo di suolo, dello sprawl, di infrastrutture invasive la cui utilità si rivela soprattutto sul piano della speculazione edilizia , ad affrontare in maniera radicale e complessiva il problema della mobilità in una delle regioni più inquinate d’Europa è ammissione di incapacità politica con gravi conseguenze sul piano sociale. L’appiattimento di fatto ad un modello, quello del cemento, come motore principale dello sviluppo economico si è coniugato poi con una sempre maggiore opacità delle decisioni politiche e non ha mancato di produrre degenerazioni pericolosissime se è vero, come purtroppo risulta anche dalle recentissime cronache giudiziarie, che l’Emilia è terreno privilegiato di infiltrazioni camorristiche. I soldi dei Casalesi, insomma, alimentano la speculazione edilizia dei principali centri abitati sulla via Emilia, a partire dalla conurbazione Modena- Reggio Emilia, sulla quale si stanno concentrando gli interessi delle cosche, copiosamente alimentati da liquidità inesauribili.

Tali operazioni speculative, un tempo marginali, sono purtroppo ora avallate, quando non elaborate direttamente, dalle amministrazioni pubbliche comunali sulle quali l’ente regionale non esercita alcuna forma di controllo né a priori, né a posteriori: non siamo più da tempo un’isola felice, ma occorre scuotersi dal torpore in fretta, a partire dal prossimo governo regionale che si insedierà fra qualche settimana, per non diventare qualcosa di molto peggio e perché quell’unità d’Italia che ci apprestiamo a festeggiare, non sia nei fatti soprattutto il frutto di una condivisione di interessi illeciti.

L’articolo costituisce la rielaborazione del testo uscito sul Bollettino Italia Nostra, n. 449, 2009.

Nelle scorse settimane erano ripetutamente circolate voci sul possibile inserimento, all’interno del così detto decreto mille proroghe, provvedimento approvato in via definitiva ieri, dell’ennesimo rinvio dei termini di entrata in vigore dell’art.146 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio. Si tratta dell’articolo che assegna fra l’altro (comma 5) al parere del Soprintendente un carattere non solo obbligatorio, ma vincolante nel merito, in materia di autorizzazioni paesaggistiche. Non solo: agli organi preposti alla tutela paesaggistica viene assegnata una competenza consultiva interna al procedimento, vale a dire che il parere del Soprintendente interviene nel pieno della procedura di autorizzazione e non più, come è accaduto fino al 31 dicembre 2009, in un momento successivo con un potere di annullamento limitato ai motivi di legittimità degli atti e risultato nel tempo di assai scarsa efficacia sul piano della tutela.

Il carattere vincolante delle Soprintendenze, come stabilito dal Codice, è destinato a restare in vigore fino al momento in cui i piani paesaggistici e, a cascata, gli strumenti urbanistici, saranno adeguati alle prescrizioni del Codice stesso e in particolare alla disciplina dell’art.143, ovvero sia nel momento in cui, terminata l’elaborazione congiunta da parte di Stato e Regioni di piani paesaggistici improntati a pratiche di governo più aggiornate del proprio territorio si sarebbe potuta avviare una fase di tutela attiva da alcuni auspicata come superamento di un regime meramente vincolistico.

L’entrata in vigore del 146 è stata a lungo contrastata, in particolare dagli enti locali che ne hanno ottenuto il rinvio, rispetto ai termini sanciti dal Codice, fino alla fine del dicembre scorso: la cessazione del regime transitorio, il 1° gennaio di quest’anno, non ha mancato di sollevare preoccupazioni, soprattutto nel mondo dell’imprenditoria, anche se nel frattempo appare giunto alle ultime battute (Consiglio di Stato) l’iter di approvazione di un regolamento predisposto dal Mibac sullo snellimento dell’autorizzazione in caso di interventi edilizi di lieve entità.

E non sono mancate le perplessità di parte opposta, determinate dalla constatazione delle oggettive difficoltà strutturali in cui operano le Soprintendenze, chiamate per di più, con questa innovazione legislativa, ad un impegnativo cambio di passo operativo, ma soprattutto culturale.

Uguale situazione di impasse sembra peraltro caratterizzare la struttura organizzativa regionale che, dal 1° gennaio, si troverebbe a dover affrontare la decadenza delle deleghe agli enti locali dei procedimenti autorizzativi.

Delega fino a questo momento generalizzata, ma che il Codice prescrive debba cadere nel caso in cui le Regioni non abbiano provveduto a verificare il possesso, da parte dei soggetti delegati, “dei requisiti di organizzazione e di competenza tecnico-scientifica” (art. 159): requisiti stabiliti sempre all’art. 146.

Tale riscontro, in molte Regioni ancora non completato, praticamente in tutte, a quanto risulta, non ha condotto ad un adeguamento alle norme prescritte, tanto che si è parlato di una media di un comune su tre non più in regola per il rilascio delle autorizzazioni (Il Sole 24 Ore, Norme e Tributi, 4 gennaio 2010) e la situazione di incertezza creatasi ha ribadito l’ormai conclamata desuetudine degli enti regionali alle pratiche di governo del paesaggio. A tutt’oggi non risulta, d’altro canto, che il Ministero abbia fatto alcunchè per pretendere l’osservanza di quella decadenza, né tantomeno l’annullamento delle autorizzazioni rilasciate nel frattempo da organi privi di titolarità.

Questa situazione di inadempienze generalizzate si innesta sulla vicenda della copianificazione: l’operazione cardine cui erano chiamati Stato e Regioni assieme per ridefinire, secondo gli obiettivi stabiliti dal Codice (e prima ancora dalla Costituzione) i destini del nostro territorio e che, al di là di qualche boutade mediatica di talune Regioni, a due anni dall’approvazione del codice stesso, appare ancora ben lontana dall’aver conseguito risultati territorialmente significativi. Nessun piano paesaggistico che possa fregiarsi di questo nome ai sensi del Codice è stato approvato e per la maggioranza delle Regioni questo è un obiettivo ancora lontanissimo.

In questa opaca vicenda in cui le responsabilità politiche sono equanimemente ripartite fra centro e periferia potrebbe non risultare, quindi, così stravagante la pulsione ad un nuovo rinvio dell’entrata in vigore dell’art. 146, tesa a garantire un’operatività di routine che in tempi di mediocrità amministrativa appare l’unico standard perseguibile.

Ma nell’esortazione che la Commissione Ambiente della Camera ha espresso lo scorso 18 febbraio 2010 in sede di parere al decreto mille proroghe e che propugna la reintroduzione della proroga, vi è molto di peggio: tale proroga, infatti, è finalizzata non al superamento delle inadempienze che abbiamo fin qui elencato, bensì, molto più radicalmente, perché “consentirebbe di procedere ad una modifica complessiva del citato articolo 146 del codice dei beni culturali e del paesaggio” e gli onorevoli membri della Commissione specificano anche in che senso: per “restituire agli enti locali le competenze in materia di rilascio dell'autorizzazione paesaggistica” e quindi in sostanza per disattivare completamente uno dei dispositivi peculiari della normativa paesaggistica.

Il cerchio si chiude ed appare finalmente chiaro l’obiettivo reale del minuetto ipocrita di reciproche inadempienze e inadeguatezze che si sta svolgendo da alcuni anni a questa parte ai danni del nostro paesaggio: annullare quel disegno di costruzione corale di un modello di tutela del paesaggio incardinato su un sistema di regole reciprocamente riconosciute perché collegialmente elaborate.

Il Codice comincia ad essere rimesso in discussione ancor prima di aver trovato, per quanto riguarda la parte paesaggistica, reale applicazione.

La suggestione indicata dall’VIII Commissione della Camera (e quindi bipartisan), pur non avendo trovato concreta attuazione per i ristretti tempi che vincolavano l’approvazione del decreto mille proroghe, appare di gravità eccezionale per l’atteggiamento di sostanziale smentita dei principi del Codice che sottointende.

Un bene collettivo, il nostro paesaggio, sulla carta tutelato secondo normative aggiornate e rigorose, il Codice, appare nuovamente in balia di pratiche politiche compromissorie ispirate ad un deciso arretramento culturale: occorre tornare a mobilitarsi non solo per scongiurare quanto suggerito dalla Commissione parlamentare, ma per pretendere un deciso rilancio dell’azione di copianificazione paesaggistica.

I due articoli (la Repubblica e il Tempo 2.XII.2009) sulle minacce incombenti sull’agro romano riportati nella nostra rassegna stampa, di contenuto e tenore molto simile, segnalano nella loro ripetitività la convergenza di interessi che si sta minacciosamente addensando sugli ultimi lacerti non edificati di quel territorio. Certo gli accenti sono diversi: più smaccatamente orientati a sostenere le ragioni della lobby di riferimento – quella dei palazzinari – per quanto riguarda il Tempo, ove si definisce “sospiro di sollievo per la città”, la possibilità della decadenza dei vincoli e “uomo nero” chiunque osi proporre provvedimenti di tutela. Di tono più “neutrale” la Repubblica che si spinge a riportare, a corollario delle posizioni politiche, il dissenso di Legambiente sull’operazione complessiva.

In ambedue gli articoli, l’obiettivo prevalente è evidentemente solo quello di riferire una querelle politica che sta producendo alleanze trasversali: centrodestra e centrosinistra uniti nell’intento di scongiurare gli aborriti vincoli paesaggistici, da ambedue gli schieramenti considerati null’altro che inammissibili lacciuoli al libero esplicarsi del sacrosanto diritto alla cementificazione e quindi insostenibile freno allo sviluppo da tutti invocato.

I problemi urbanistici e di salvaguardia del paesaggio che questo martoriato territorio presenta e su cui eddyburg ha più volte puntato la sua attenzione, divengono quindi non più “il” tema della discussione, uno dei più importanti per il destino dell’agro romano nel suo complesso e per la qualità di vita dei cittadini non solo romani, ma uno dei tanti terreni di scontro/accomodamento sui quali si gioca la partita elettorale e la guerriglia dei riposizionamenti del sottobosco politico capitolino.

Illuminante, da questo punto di vista, la posizione di colui che rappresenta, assieme al Ministro, la vision politica del Mibac: il sottosegretario Giro. Costui, lungi dal sostenere le ragioni dei funzionari che, cercando di contrastare le fortissime pressioni economiche esterne, null’altro svolgono se non il proprio compito di difensori di un bene comune prezioso come il nostro paesaggio, contrasta gli attacchi ai vincoli solo in quanto provengono da avversa parte politica ed anzi si spinge a negare quasi con indignazione il sospetto dell’emanazione di un ulteriore provvedimento di tutela.

Leggendo le cronache riportate, torna alla mente una analogia con quanto sta accadendo in questi giorni sul piano politico nazionale: i boatos di avvisi di garanzia al premier, negati a mezzo stampa dai procuratori chiamati in causa.

Ecco, allo stesso modo, in questi articoli i vincoli di tutela sono di fatto equiparati a provvedimenti infamanti e lesivi dei prevalenti interessi economici: nessun dubbio è sollevato, da tutti gli attori e decisori politici di qualunque parte coinvolti, neanche sull’opportunità di un ripensamento del destino dell’agro romano.

Il costante riferimento dei politici in questione agli “imprenditori” quale unica categoria di riferimento cui render ragione del proprio operato di rappresentanti eletti dai cittadini e l’equiparazione del Mibac ad uno dei tanti portatori di interessi (e non certo di quelli prevalenti), completano il quadro desolante di un’inversione ormai esplicitata anche a livello mediatico: agli interessi economici, anche se di pochi, anche quando non democraticamente discussi, anche quando in contrasto con gli interessi della maggioranza dei cittadini, occorre sempre e in ogni caso fare strada.

Scommettiamo?

Allo scadere dei termini per l’approvazione definitiva, un Direttore Generale di moderna flessibilità e sensibile alle esigenze della qualità architettonica contemporanea, consentirà ad “ammorbidire” consistentemente i vincoli già posti su Laurentina e Ardeatina.

Fra i traguardi di cui potrà gloriarsi l'attuale governo, da venerdì scorso rientra anche la dichiarazione dello stato di emergenza per l'area archeologica di Pompei. E' la prima volta in tutta la storia d'Italia che un tale provvedimento viene decretato per un sito culturale e, in mancanza di recenti straordinari accadimenti che abbiano interessato l'area (nessun terremoto, nessuna eruzione dal 79 a questi giorni, ci risulta), stupisce che di una decisione tanto clamorosa si sia reso autore il ministro Bondi, da molti accreditato, fino a tempi recenti, di una certa moderazione nei toni, improntati per lo più ad una curiale genericità dei contenuti.

Nelle dichiarazioni riportate sui giornali del 5 luglio scorso il ministro ringrazia uno degli organi di informazione nazionale, il Corriere della Sera, per avergli segnalato la gravità della situazione per quanto riguarda il sito campano: e d'accordo che il quotidiano milanese ha ormai assunto il carattere di house organ governativo, ma davvero i flussi informativi del Ministero Beni Culturali sono ridotti così male da aver lasciato nell'ignoranza di una situazione a dir poco annosa addirittura lo stesso Ministro? Sì, perchè se c'è un elemento che contraddistingue le vicende pompeiane è la loro totale, disperante, mancanza di eccezionalità: caratteristica essenziale di ogni stato di emergenza, almeno fino all'avvento dell'attuale legislatura.

Come ogni lettore, anche distratto, di cronache culturali sa bene, gli scavi di Pompei sono attanagliati da una crisi strisciante per quanto riguarda le condizioni di fruibilità del sito in termini di servizi, corrette regole di accesso, manutenzione, che si protrae da anni e che è il risultato perverso di concomitanti fattori a partire dall'atteggiamento arrogante della potentissima lobby dei custodi, sindacalizzata con modalità di rara protervia clientelare e che da sempre condiziona pesantemente il corretto svolgimento delle modalità di accesso e fruizione del sito stesso, rafforzata da una asfittica situazione contestuale di economia parassitaria, e connotata da contiguità ricorrenti con settori malavitosi - e sappiamo bene in Campania questo cosa significhi – e latitanze, o addirittura connivenze funeste da parte di esponenti dell'amministrazione locale e nazionale. Si tratta di una situazione ormai incancrenita nel tempo, quasi inestricabile in questo come in altri ambiti sociali di questi territori.

Con l'arrivo di Pietro Giovanni Guzzo, qualche lustro fa, alla guida della Soprintendenza di Pompei, uomo al di sopra di ogni sospetto e studioso di riconosciuta competenza, a molti sembrò che in quella situazione fosse il massimo cui si potesse aspirare. E certo i risultati positivi non sono mancati, soprattutto sul piano scientifico, ma l'azione del Soprintendente frenata da molti convergenti ostacoli interni ed esterni non è riuscita ad imprimere quella svolta decisiva, possibile, come si è capito da tempo, solo in presenza di una volontà politica di cambiamento fermissima, continuata nel tempo e sostenuta dai più alti livelli governativi: circostanze mai verificatesi almeno da trent'anni a questa parte.

In questo contesto, quindi, la dichiarazione dello stato di emergenza appare semplicemente una scorciatoia di sicuro impatto mediatico e di risibile efficacia in re.

Eppure moltissimi e bypartisan si sono levati i consensi all'iniziativa, in nome di una coralmente auspicata svolta contro il degrado della zona: tra i fautori più entusiasti anche quel sindaco di Pompei che, con assoluto sprezzo della coerenza etica è, nel suo ruolo professionale di avvocato, difensore ufficiale dei fratelli Italiano, proprietari del famosissimo ristorante abusivamente costruito e abusivamente gestito per anni all'interno degli scavi, per rimuovere il quale la Soprintendenza ha ingaggiato una lunghissima battaglia legale.

Di fronte a questi atteggiamenti si è facili profeti nell'affermare che la “militarizzazione” di Pompei non servirà a riportare l'area in un alveo di piena legalità e di rispetto delle regole, a meno di non essere accompagnata da mutamenti non solo radicali, ma soprattutto frutto di un progetto politico-culturale meditato e perseguito con continuità negli anni a venire, progetto che, al momento, non è dato riconoscere.

A meno che come tali non si vogliano definire i proclami di un altro dei grandi sostenitori dell'azione del Ministro, l'agguerritissimo assessore campano al turismo e beni culturali Claudio Velardi che, sottolineando un'assoluta condivisione politica col governo nazionale, va ripetendo da settimane la sua soluzione ai mali di Pompei: indovinereste mai? In perfetto allineamento con il collega siculo Antinoro, ma soprattutto con lo Zeitgeist che percorre paese e parlamento, la magica pozione risanatrice consiste nell'affidamento della gestione del sito vesuviano ai privati, gli unici in grado di innalzare la “produttività” (sic!) di Pompei. Perchè sia chiaro che per il neoesponente della giunta Bassolino, il problema determinato dalle carenze, dal degrado, dai disservizi non è quello di limitare fortemente e per più aspetti, la completa fruizione dell'area monumentale e di minare la salvaguardia del patrimonio culturale nel suo complesso, ma casomai di impedire che il numero dei turisti-consumatori aumenti, con qualsiasi mezzo, a qualsiasi costo.

Di fronte a questi obiettivi la decisione del ministro assume un diverso, più inquietante significato.

Come per altre iniziative analoghe che si sono susseguite in queste settimane, il sospetto forte è che si tratti di decisioni destinate soprattutto a ribadire quell'aura di decisionismo pragmatico con cui il governo attuale intende connotare la propria azione politica e aumentare, grazie a qualche coup de théatre a basso costo, il consenso popolare. Ma dietro la fin troppo smaccata e devota mimesi del Ministro nei confronti del suo capo (“farò per Pompei come Berlusconi ha fatto per Napoli”, Corriere della Sera del 5 luglio) si intravede dell'altro: nell'ipocrisia della reiterata (ma accortamente delimitata all'ambito scientifico) fiducia espressa da Bondi al suo funzionario si nasconde una trappola che va al di là dell'episodio specifico. Se si riteneva che l'azione di Guzzo fosse stata carente, il Soprintendente andava rimosso e sostituito, in caso contrario andava semmai aiutato, nella sua opera, in maniera concreta e politicamente esplicita. Con la nomina di un commissario chiamato a gestire lo stato di emergenza, al contrario, il Soprintendente, funzionario operante in nome dello Stato, sarà messo sotto tutela, le sue prerogative limitate e decisamente circoscritte a vantaggio di un emissario nominato dal governo. Sarà di fatto compromessa la sua auctoritas di tecnico super partes, non perchè neutrale esecutore di volontà governative, ma perchè difensore di un bene comune la cui salvaguardia è posta costituzionalmente al di sopra delle alternanze politiche di schieramento. In questo modo viene sovvertita una regola fondamentale della vita democratica che pone chi, per competenza tecnica e scientifica ricosciuta tramite pubblici processi di verifica, è posto a custode di un patrimonio collettivo nell'esclusivo servizio delle leggi dello Stato e al di sopra delle volontà di chi è espressione di interessi di parte. Sta accadendo a Pompei, ma non solo: nel suo bellissimo articolo sulla metamorfosi della democrazia italiana di qualche giorno fa, Giuseppe D'Avanzo scriveva: “l’obiettivo primario e dichiarato di Berlusconi è la riduzione di poteri plurali e diffusi”. Lo scopo finale di questo attacco, nella vicenda qui presa a commento è chiaramente espresso, con perfetto gioco di squadra, negli entusiasmi neoliberisti di un esponente dell'”opposizione”: la svendita del nostro patrimonio culturale e del bene pubblico più in generale a vantaggio del privato.

Di fronte alle trasformazioni disneyane prefigurate da Velardi &C (v. Corriere del Mezzogiorno del 5 luglio) c'è da temere davvero che quasi duemila anni fa il Vesuvio non sia stato il liquidatore più spietato.

Articolo 9

La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.

Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.

Articolo 114

La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato.

Delle molte o poche disillusioni alle quali l’attuale governo ci ha costretto sinora, ci pare che questa dell’Albero del Programma, sia da ascrivere ai peccati veniali.

Che la riforma del Titolo V abbia costretto il sistema istituzionale ad una continua fibrillazione è stato affermato in moltissime occasioni, anche su eddyburg.

Allo stesso modo più volte, sulla stessa linea di Salvatore Settis, è stata sottolineata l’artificiosità della scissione fra tutela e valorizzazione, frutto di quelle modifiche, e le conseguenze in termini di conflitto che in mancanza di linee di confine certe tra competenze centrali e regionali e ancor più di una definizione dei livelli essenziali di qualità della valorizzazione si sono puntualmente verificate.

Ancora, che il sistema locale sia costituito da realtà fra loro profondamente differenziate, che in taluni casi stentano a trovare, non solo nel settore culturale, livelli di autonomia del tutto accettabili, è evidenza che non merita ulteriori sottolineature.

Ciò detto, ci pare che nell’articolo di Settis si tenda ad accreditare una visione dell’orizzonte regionale come del vero, grande nemico da combattere. In realtà questa contrapposizione strisciante Stato/Regioni è il tarlo che mina l’efficacia di governo della Repubblica, nel suo complesso, estenuando in una conflittualità protratta i soggetti pubblici competenti, a diverso titolo, impegnati da ormai troppo tempo in una sterile rivendicazione di attribuzioni e di ruoli.

L’oggetto della tutela e della valorizzazione è unico – il nostro patrimonio culturale e paesaggistico – e la sua vastità e complessità richiedono al contrario una cooperazione progettuale e operativa di tutti gli operatori pubblici coinvolti, che sola può contrastare l’endemica scarsità di risorse da sempre assegnate ad un settore che, al di là delle tuttora ripetute e altisonanti affermazioni di principio, è caratterizzato da politiche di costante marginalizzazione.

Se allo Stato va garantito, così come costituzionalmente prescritto, il ruolo di “alta garanzia” in grado di assicurare “l’esercizio unitario delle funzioni”, tale unitarietà sarebbe da perseguire non tanto attraverso un esercizio di funzioni centralistico (peraltro sempre più velleitario nell’attuale situazione organizzativa), ma attraverso un sistema generale di garanzie legislative e soprattutto elaborando, a livello centrale (ma magari in maniera condivisa, prima garanzia di efficace e durevole applicabilità…), una unitarietà di regole e metodologie, di procedure e codici di comportamento e di indirizzo scientificamente mirati che, soli, possono decretare una reale omogeneità di obiettivi e di risultati. E organizzando, sul territorio, un sistema costante di monitoraggio e di verifica del raggiungimento di tali risultati.

Le Regioni non hanno dato sempre prove brillanti, ma è pur vero che laddove, come nel settore dei beni librari, la delega delle funzioni di tutela è ormai pratica consolidata da oltre trent’anni, il risultato complessivo non ci pare descrivibile come uno scenario alla Fahrenheit 451. E, tanto per riferirci al casus per eccellenza attualmente additato come esempio della lascivia governativa regionale, a Monticchiello le Soprintendenze competenti nulla avevano eccepito sui progetti edilizi, in nessuna fase del percorso amministrativo, regolarmente attivato e perseguito in perfetta concordia Stato –Regione fino alle denunce, a posteriori, da parte, non di pubblici funzionari, ma di privati cittadini.

La troppo spesso rimpianta l. 1089/1939 si fondava su premesse istituzionali ampiamente mutate già dal 1970. Ma non è solo l’impianto istituzionale ad essere, nel frattempo, totalmente cambiato, l’evoluzione concettuale intervenuta del termine “bene culturale” ha condotto ad una dilatazione dell’insieme del patrimonio, aumentato a dismisura sia in termini quantitativi che di interrelazione e di contestualizzazione. E via via più articolata e stretta si è fatta l’interdipendenza tra gli interventi in materia e le restanti politiche pubbliche. Così è il concetto stesso della tutela che oggi deve confrontarsi con esigenze ben più complesse di una semplice “gestione della conservazione” quali erano quelle cui si ispirava quell’impianto legislativo.

Oggi, in un momento che vede il territorio di nuovo al centro degli interessi economici e politici, altre esigenze si affacciano, prima fra tutte la fruizione di massa, da controllare, da contrastare spesso, ma con mezzi più efficaci delle armi ormai insufficienti dei vincoli.

E’ una sfida a cui la Repubblica, nel suo complesso, è chiamata a rispondere con modalità nuove e spirito unitario, per perseguire non solo una tutela reale del proprio patrimonio, ma per raggiungere quell’obiettivo costituzionale che, proprio lo stesso Settis, a volte ha ricordato citando l’allora Presidente della Repubblica. Carlo Azeglio Ciampi, ad esemplare commento dell’articolo 9 della Costituzione ne ha spesso ribadito il ruolo di principio fondamentale della nostra comunità, sottolineando, con grande incisività, che ‘la tutela, dunque, dev’essere concepita non in senso di passiva protezione, ma in senso attivo e cioè in funzione della cultura dei cittadini, deve rendere questo patrimonio fruibile a tutti’ (discorso ai benemeriti della Repubblica, 5 maggio 2003).

Domani è Natale. L’albero di casa Guermandi troneggia già da alcuni giorni in un trionfo di addobbi, di luminarie e di colori (detesto gli alberi monocromi, inconfutabile sintomo di sciatteria spirituale ed estetica): un po’ più ricco del precedente con i decori e i ricordi derivati dai viaggi dell’anno, da Boston a Berlino, da Cipro a Parigi; fedeli ad un rito rassicurante e apotropaico nella sua intangibilità, il 13 dicembre abbiamo appeso per prima la decorazione eponima – sonora da qualche anno a questa parte – e da ultimo il puntale. Un solo rametto è stato tenuto spoglio per appendervi il ricordo del viaggio che sta per iniziare, dopodomani.

Il nostro presepe, al contrario, è opus in fieri: per alcune settimane si arricchisce e si modifica di giorno in giorno, perché la scenografia è complessa e tutt’altro che statica, i meccanismi vanno sorvegliati (fra mulini, ninfei, succedersi astrale e artigiani laboriosissimi abbiamo un ingorgo elettrico da blackout ricorrente), ciascuno di noi aderisce ad una diversa scuola di pensiero prospettica e quest'anno c’è chi si è inguaiato con piani di fuga barocchi un po’ megalomani e di periclitante solidità. E infine, come da copione, l’ultimo corteo arriverà a destinazione solo il giorno dell’Epifania, a compimento fugacissimo, ma solenne dell’opera nel momento stesso in cui sta per essere nuovamente distrutta. Metafora teatrale del destino comune a molte imprese umane.

Fra i riti immutabili e insopprimibili di stagione vi è ovviamente quello dei bilanci: anche se pochi mesi non sono una distanza sufficiente per discernere, nel magma confuso delle tante vicende che si sono sovrapposte, gli elementi di snodo da quelli di sfondo, i passaggi fondanti dalle scorie; come di consueto in questa mescolanza difficile da interpretare si accavallano, con gerarchie fallaci e ancora contraddittorie, luci e ombre, disillusioni e speranze, qualche faticosa vittoria, qualche irritazione bruciante, un po' di amarezza e alcuni episodi piacevoli. Questo tempo sospeso fra rimpianti e ricordi è comunque privilegiato per una epoché dedicata ad una prima memoria improvvisata, ma molto partecipe.

L'orizzonte mondiale non appare granchè rasserenato rispetto ad un anno fa: il fallimento della politica americana ha aperto soprattutto nel Medio Oriente una situazione di conflitto endemico da cui, a breve, non si intravedono vie d’uscita. Il mondo arabo si è radicalizzato, in Palestina, in Iran, in tutto il Medio Oriente, incapsulando lo stato d'Israele in uno spazio sempre più islamizzato e ostile. La guerra è perduta in Iraq, sta naufragando in Afghanistan dove somiglia sempre più al disastroso intervento sovietico. Tutta la politica americana appare ora, più che mai, come il risultato di scarsa conoscenza, visione strategica distorta e ricordi storici annebbiati e confusi, mentre la minaccia terroristica, lungi dall'essere compressa, si è dilatata su innumerevoli fronti. Al posto dello state-building, obiettivo dichiarato delle azioni militari, vi sono ora una serie di Stati disastrati. Comincia a farsi strada, a più livelli, l’idea che la soluzione a questa empasse lacerante potrà venire solo attraverso un ribaltamento delle modalità politiche di gestione della crisi post 11 settembre: sarebbe allora il caso di ripensare agli appelli, fra gli altri, di Judith Butler che invitava ad elaborare quel passaggio cruciale in termini di fragilità e di interdipendenza piuttosto che di forza e di vendetta.

La crisi attuale ci ribadisce, una volta di più, che il modello occidentale che sembrava essere universale, appare sempre meno capace di governare il mondo.

Fra le contraddizioni di questo modello, assieme all’America, si dibatte l’Europa, chiamata a confrontarsi con sfide simili, ma non uguali: a partire da una identità definita ancora solo da frontiere e confini, in cui è ambigua l'affermazione dei diritti fondamentali, e che si mostra incerta nel fronteggiare le decisive questioni della guerra globale permanente e il perdurante deficit di partecipazione democratica. Un’Europa che rimuove il convitato di pietra di un processo costituente interrotto e nella quale le forze politiche, di qualunque schieramento, sembrano rincorrersi sul terreno della paranoia securitaria e sullo sperimentalismo ondivago nelle politiche sociali.

Per uscire da queste secche, molto è il cammino da compiere, a partire dalla definizione di una politica dell'immigrazione non più asservita all'utilizzo dei flussi migratori per flessibilizzare e precarizzare l'economia e quindi della costruzione di uno spazio in cui possa essere possibile aumentare il tasso di civilizzazione dell'economia.

Il compito che attende gli europei è quello di reinventare la democrazia e i diritti delle persone e dei popoli dopo lo Stato nazionale. E di fondare l'interdipendenza derivata dalla globalizzazione sull'etica del limite delle risorse, allargando il campo dei diritti non solo alle attuali, ma anche alle future generazioni.

E ancora, l'Europa come attore politico dello scenario mondiale potrà avere un ruolo decisivo solo se riuscirà a superare un concetto di multiculturalismo che si risolve in un pluralismo delle identità e che riproduce e alimenta la fissazione identitaria. Come ci ha insegnato Amartya Sen, il mondo globalizzato non è una federazione di religioni e civiltà e non è vero che le culture si muovano compattamente l'una contro l'altra: lo spazio culturale e sociale in cui agiamo è molto più complesso e ognuno di noi avrà sempre più patrie mentali e spirituali.

A partire da questo, sarà possibile creare legami e alleanze trasversali su battaglie che siamo chiamati a combattere con il numero più ampio di compagni di strada: la questione energetica, quella ecologica, la povertà del mondo che ci entra in casa, i sistemi di welfare spiazzati, l'insicurezza del reddito, il futuro incerto delle giovani generazioni, il ritorno della guerra come risposta a ciò che viene visto come il caos post guerra-fredda.

L’Europa potrà operare un duraturo ed efficace contrasto contro i modelli oggi imperanti di potenza e di forza economica solo se fondata sui pilastri dello stato di diritto e dello stato sociale, della cultura e della memoria.

Senza dimenticarsi mai, che, come ci ricordava George Steiner, ci sono solo duecento metri tra il giardino di Goethe e la porta di Buchenwald.

In quest'anno che declina i temi della biopolitica hanno conosciuto momenti di scontro asprissimo e mai come adesso abbiamo riconosciuto la lezione di Michel Foucault che già trent'anni fa asseriva come la vita sia divenuta, nel mondo moderno, un oggetto di potere determinato dal passaggio dal potere di dare la morte e lasciar vivere, al potere di far vivere e lasciare morire. Fra le ultime angoscianti immagini dell'anno, quelle dello sguardo severo di Welby ci hanno costretto a prendere atto del corto circuito palese nelle prerogative costituzionali dei nostri stati di diritto occidentali che impongono la protezione della vita anche contro il diritto del vivente, della sua volontà, della sua dignità. In questo scontro la Chiesa cattolica, attribuendosi un ruolo di legislatore etico universale, pretende di fatto un'esclusiva, quasi che l'etica del vivere e del morire (ma anche del convivere e della famiglia) appartenesse di diritto alla gerarchie ecclesiastiche. L'ingerenza religiosa sempre più massiccia, che tende a trasformare il messaggio cristiano in un prontuario di comportamenti politici, si inserisce nei vuoti della prassi democratica, soprattutto in Italia, dove il potere temporale del Vaticano e quello politico dello Stato non fanno che annodarsi sempre più, lontani ancora dal comprendere che è solo la laicità che può presiedere anche le ragioni del sacro.

Tale interferenza, d'altro canto, è conseguenza anch'essa di quell'arroccamento che già temevano un anno fa e che si è fatto via via più tangibile, più asfissiante: papa Ratzinger, in questa preoccupante ostilità al mondo contemporaneo e alla modernità, sta perseguendo una chiusura del cattolicesimo in un orizzonte culturale e sociale sempre più limitato. A partire dal discorso di Ratisbona, il dialogo fra religioni è ammesso solo se concepite come due integralismi che si fronteggiano e non si contaminano. Nell'attuale visione vaticana il dialogo appare quindi possibile solo a partire da una identità rafforzata, quando è invece sempre più chiaro che solo mettendo in discussione le proprie certezze identitarie si può avere un reale scambio.

Le grandi domande sulla vita e sulla morte richiedono nuove risposte o meglio di saper imparare da chi queste risposte le ha date e le dà nella pratica quotidiana della solidarietà e della pietas. Come le donne ribelli e autonome di Volver, il film dell'anno che ci è rimasto nel cuore, che vivono la loro vita complicata e faticosa, attraversata da eventi terribili, ma sanno trovare le risposte ai grandi problemi della vita: la malattia e il dolore, la morte, la violenza. E al male di vivere che sono costrette a subire, ma da cui non rimangono schiacciate, trovano una via d'uscita nella solidarietà complice e affettuosa con cui si muovono nei cortili interni delle loro case, ombrosi e quieti, dai giardinaggi asimmetrici e casuali, dove non entrano né gli uomini, marginali e inutili, nè il vento della Mancha, invadente e ossessivo, e dove la disarmonia esterna trova una sua ricomposizione.

Quanto al quadro politico italiano, esso ci appare a sua volta non privo di elementi di perplessità: la vittoria di aprile è stata presto assorbita da comportamenti che non abbiamo sempre condiviso. Le avvisaglie già c'erano, a partire dai meccanismi di utilizzo della legge elettorale usata per assecondare le profonde pulsioni conservatrici e autoreferenziali degli apparati di governo dei partiti e sono state spesso confermate da decisioni e iniziative seguite in apertura di legislatura.

Il senso di delusione nei confronti del governo attuale è tema di sondaggi e analisi quotidiane e si sintetizza nell'assioma del ‘cambiamento senza svolte’. E’ stato sottolineato da più voci che se Berlusconi è stato sconfitto, non altrettanto appare il berlusconismo inteso come degenerazione della democrazia, primato degli interessi privati, disprezzo delle norme e delle regole. Il populismo solleticato dal passato governo che adotta i codici dei media, semplifica i temi e banalizza il messaggio, non è svanito, ma anzi appare come un sottofondo ricorrente, come una minaccia che serpeggia nel profondo della nostra società, pronta a riapparire in maniera dirompente. Esso va di pari passo con l'essiccamento degli spazi della rappresentanza, di un sempre debole civismo democratico e del declino dell'etica della responsabilità politica.

Il corpo sociale italiano appare suddiviso secondo un modello familistico-corporativo in lobby, comitati, gruppi di interesse, associazioni, ognuna delle quali spasmodicamente presa dai suoi interessi settoriali e dal mantenimento di una rendita di posizione ed indifferente ai problemi della corruzione, della trasparenza e della fine dello stato. Le tasse continuano ad essere percepite non come il prezzo della cittadinanza, necessario a garantire servizi e tutele, ma come un vessatorio balzello. Zagrebelsky ha parlato di un paese diviso non fra destra e sinistra, tra laici e credenti, ma piuttosto tra coloro che sanno interessarsi solo al presente e coloro che sanno concepirlo come premessa di un avvenire comune. Il paese appare bloccato non tanto sul piano economico, quanto su quello sociale: blocco della mobilità di classe, inefficienza della formazione scolastica e universitaria, ricambio generazionale lentissimo, autoriproduzione delle élites: fenomeni tutti che rimandano ad un deficit politico. E' quindi soprattutto la politica, la nostra politica a dover proporre quelle mediazioni capaci di diffondere un senso del generale nei soggetti sociali, trasformandoli da soggetti passivi ed indifferenti ai problemi comuni, in soggetti attivi e dissenzienti, a far riemergere, in contrapposizione all'interesse esclusivo nel particulare che esclude e non include e che si traduce pressochè sempre nell'interesse del più forte, la necessità di tutelare il bene pubblico, cioè di tutto quello che il singolo non può tutelare da solo e diviene quindi compito della res publica salvaguardare. E assieme combattere la precarietà, la nuova precarietà che genera nuove paure e insicurezze e si traduce spesso, troppo spesso, in egoismo sociale e xenofobia. Come scrive Baumann: “Le persone spaventate a morte da una misteriosa, inesplicabile precarietà dei loro destini e dalle nebbie globali che nascondono alla vista la loro prospettiva, cercano disperatamente i colpevoli delle loro tribolazioni e delle prove cui sono sottoposti. Le trovano, non sorprende, sotto il lampione più vicino, nel solo punto obbligatoriamente illuminato dalle forze della legge e dell'ordine”.

Per lasciarci alle spalle questa opaca sensazione mista di delusione e smarrimento, abbiamo bisogno di nuove idee e di nuove armi culturali e di tutte le risorse del nostro campo: anche per questo dobbiamo reagire ad una logica di contrapposizione fra riformisti e radicali che non può che condurre ad un sistema di veti reciproci fra blocchi contrapposti e dobbiamo piuttosto tendere ad una radicalità di obiettivi perseguita con riformismo di metodi. E anche la discussione sul futuro partito democratico ci piacerebbe che ci dicesse qualcosa non su problemi di ingegneria partitica, ma sulle scelte fondanti, a partire da quella fra l'accettazione dell'egemonia del mercato, calmierata da un risarcimento dei danni sociali più macroscopici o il ristabilimento, in qualche modo, dell'egemonia della politica sull'economia.

Le scelte da compiere nei prossimi anni, nei prossimi mesi, nell'anno che verrà, sono di grande portata: investono le tematiche genetiche, le fonti di energia, la tutela dei beni comuni, la ridefinizione del concetto di cittadinanza e riguardano non più solo noi, ma per la prima volta con questa urgenza, le generazioni future: si tratta di un percorso difficilissimo, che al momento attuale appare addirittura improbo.

Però ieri, ascoltando qui a Bologna il nostro premier attorniato, per i tradizionali auguri natalizi, dagli amici e concittadini, il suo discorso, così scopertamente non mediatico, dall'oratoria così poco carismatica, ci è apparso però così pacatamente intriso di passione civile e di una visione sociale così onesta e condivisibile da rinnovargli, lì per lì, la fiducia e il consenso. Almeno fino al prossimo anno.

Forse non è molto più che una sensazione coadiuvata da un pignoletto birichino, ma va comunque rinforzata con un’analisi non prevenuta dell'attuale contesto politico e sociale, di rara difficoltà, come anche degli elementi positivi che pure esistono: fra gli auguri più belli di ieri, quelli di una giovane meridionale, da anni a Bologna per impieghi precari che, grazie alle disposizioni della vituperatissima finanziaria, avrà fra pochi mesi un lavoro a tempo indeterminato: “Grazie, presidente, di avermi regalato il futuro”.

Non è pochissimo, e su questo si può costruire.

Per quanto ci riguarda più direttamente, all'affossamento della legge Lupi registrato come un'indubitabile vittoria ad inizio d'anno, fa da corona la recentissima presentazione, in Parlamento, della legge di eddyburg sul governo del territorio che rappresenta il contributo collettivo di eddyburg alla discussione per una nuova normativa in materia urbanistica; discussione che si sta aprendo in queste settimane e nella quale si percepisce, da parte di esponenti del centrosinistra, qualche elemento di continuità con le politiche della precedente legislatura sul quale occorrerà vigilare. Ancora fra i segnali positivi di questa seconda parte dell'anno, potremmo riconoscere un'indubitabile ripresa del dibattito su questi argomenti che si accompagna ad un aumento progressivo della partecipazione sui temi urbani e del territorio registrata anche a livello demoscopico. E la così detta battaglia di Monticchiello, pur con qualche distorsione mediatica, ha avuto il pregio di focalizzare l'attenzione su aree del nostro territorio, quelle rurali, sulle quali si stanno concentrando operazioni speculative di ampiezza tale da sconvolgere, nel loro assieme e in breve tempo, assetti territoriali dati per scontati.

Ulteriore sintomo di una ripresa di interesse anche a livello non solo nazionale, può essere riconosciuto nella Biennale veneziana di Architettura che pur con qualche svarione, non poche dimenticanze e qualche semplificazione, ha indagato, con questa edizione, il tema della città e i suoi paradossi fra coesione sociale ed esclusione, ricchezza urbana e intensa miseria, luogo dell’interazione per eccellenza e, storicamente, del rinnovamento politico. L'indagine del gruppo di lavoro, coordinato da Richard Burdett, ha sottolineato la necessità di concentrare l'azione politica sulla costruzione di città socialmente più compromesse e morfologicamente più leggibili, città,

per dirla con Benjamin, 'porose', nelle quali le comunità si intersechino, anche nel conflitto. Va detto che questa lettura ci pare però insufficiente se applicata alle grandi megalopoli terzomondiali, ormai vicine ad un punto di rottura del rapporto tra urbanizzazione e possibilità di sviluppo: per le masse di inurbati diseredati, di cui ci parla, ad esempio, Mike Davis, le città rischiano di essere solo enormi bacini di raccolta di una povertà globale in espansione.

A ribadire la complessità del fenomeno urbano, nella Biennale ha trovato invece posto la ricerca di Philipp Oswalt sulle shrinking cities, le città in contrazione che stanno cioè subendo un drenaggio di popolazione. Fra queste, molte quelle segnalate sul nostro territorio, caratterizzate da fenomeni di spopolamento e dismissioni prodotti da un'accelerazione del processo di rifunzionalizzazione economica, per affrontare i quali occorrerà adottare strategie non solo urbanistiche, ma soprattutto politiche, nuove.

E infine noi di eddyburg: siamo qui, pur con qualche acciacco dovuto ad un anno vissuto pericolosamente – comme d'habitude – ma con qualche risultato raggiunto, a partire, come ricordato, dalla legge di eddyburg: solo l'inizio di un cammino che prevediamo assai complesso e non privo di insidie e che ci vedrà, come al solito, in prima linea. Per noi, in realtà, discussione e analisi sono gli strumenti quotidiani con i quali interveniamo, spesso suscitandolo, nel dibattito nazionale sulle vicende urbanistiche, sulla tutela del paesaggio e dei beni culturali, a partire dalla difesa del nuovo Codice che, pur certamente perfettibile, appare però uno strumento da sostenere soprattutto in rapporto alla montante marea di normative regionali lacunose quando non decisamente discutibili. Ci sono valide eccezioni: il piano paesaggistico della Sardegna, fortemente voluto da Renato Soru, che si colloca sulla linea interpretativa del Codice.

Assieme alle analisi, agli appelli, alle iniziative sul territorio fra le quali la scuola estiva, consolidatasi con successo in questo secondo anno di attività, questo è stato anche un anno di memorie di eventi e persone. A partire dal decimo anniversario della scomparsa di Antonio Cederna che eddyburg ha affettuosamente ricordato attraverso i suoi scritti e molti interventi di compagni di viaggio reali e ideali: a ribadire il filo di continuità che, come ho scritto in questa sede, vorremmo che ci legasse a questa figura, alle sue idee, alle sue battaglie, molte delle quali ancora da combattere. In quest'anno di ricordi ci siamo molto interrogati sulla sua attualità, da taluni sprezzantemente negata anche in recenti occasioni commemorative. E certo il 'metodo Cederna', questa sua reiterazione documentatissima e quasi ossessiva su alcune grandi questioni, sempre quelle, non appare poi molto 'attuale' in tempi di disinvolto assorbimento e rapida digestione di temi e problemi, di svagata memoria e di postmodernità liquida e flessibile che tutto rimescola e annulla. E però quei temi non sono scomparsi perchè non più attuali, ma sono stati semplicemente rimossi, occultati perchè ingombanti dal punto di vista politico e culturale. Per riemergere, in tempi recenti e recentissimi, nella loro urgenza irrisolta: il consumo di suolo, lo sprawl urbano, le periferie, la tutela delle coste. O ipocritamente travestiti: la risistemazione dell'area archeologica centrale a Roma come riproposizione edulcorata del progetto Fori, o nell'emergenza delle infinite battaglie tuttora in atto: la tutela dell'Appia Antica per la quale eddyburg, nelle scorse settimane, ha speso la sua voce.

Il 20 settembre a eddyburg è stato assegnato, dalla provincia di Roma, uno dei premi Cederna 2006; ripercorrendo a ritroso le pagine del sito di questo anno che si conclude tra poco, ci sembra proprio di essercelo meritato: l'azione di documentazione, di denuncia, di segnalazione, di analisi è stata costante, anche se a volte in affanno. Lacune, omissioni, forse qualche forzatura la mettiamo in conto, ma già si annunciano mutamenti, evoluzioni, ampliamenti, pur nelle renitenze di chi scrive. Adesso, comunque, è tempo di pensare al molto che si è fatto al meglio che si poteva, e di guardare avanti, al moltissimo che si potrà fare.

O meglio in alto, come questo pastore della meraviglia, ultimo recentissimo acquisto napoletano per il mio presepe, che, allargando le braccia, guarda in su, estatico, verso la cometa e rapito dall'incanto di tanta bellezza, vi si abbandona.

“Chi non si aspetta l'inaspettato non troverà la verità”. Eraclito

Buon Natale.

Bologna, 24 dicembre 2006

“Giacimenti culturali”: indimenticata locuzione di qualche lustro fa respinta con sdegno dal mondo culturale tutto, in quanto scopertamente portatrice di una logica mercantilistica. Eravamo nei tardi anni ’80. A quegli stessi anni, non a caso è da far risalire l’esplosione del fenomeno delle esposizioni temporanee, per il quale si è arrivati a parlare di ‘mostrite’, a sottolinearne il carattere vagamente patologico dovuto alla proliferazione invasiva che ha man mano assunto. Quei processi di spettacolarizzazione finalizzati alla costruzione di eventi costruiti, per lo più, sui soliti noti eternamente esposti (da Caravaggio agli impressionisti o Picasso) conoscono attualmente una nuova stagione di fasti. Il sospetto, sempre più rafforzato, è che questa spropositata offerta di iniziative e manifestazioni dall’etichetta culturale, sempre più dilatate nel tempo, più ricche di offerte, più mediaticamente rilanciate e promosse abbia una finalità quasi esclusivamente “acchiappaturisti”: il nostro patrimonio è quindi utilizzato come magnete turistico in grado di raggiungere l’agognato obiettivo del “tutto esaurito”. Nessuno si azzarda più a proporre la bieca equazione beni culturali come petrolio, ma con ipocrita slittamento lessicale il combustibile fossile ha lasciato il posto a termini ben più glamour e politically correct quali “volano”, “risorsa”, “occasione di sviluppo”, “attrattore”, “asset dello sviluppo economico”.

Questa tendenza si coniuga perfettamente con quanto è successo, al passaggio del testimone governativo, al Ministero competente per i Beni Culturali, al quale le competenze sullo Sport, senza troppi rimpianti, sono state sostituite con quelle relative al Turismo, un compagno di strada apparentemente più consono, ma potenzialmente assai più pericoloso. Liaison quasi inevitabile, questa, e già adombrata nelle ripetute statistiche degli ultimi anni che confermano per l’Italia una buona tenuta, a livello mondiale, solo nel settore del turismo culturale, laddove in altri comparti dello stesso ambito la nostra offerta soffre ormai la concorrenza di molti altri paesi.

Che il turismo, ormai da alcuni anni prima industria a livello mondiale, sia uno dei settori prevalenti verso il quale si stanno reindirizzando molte economie europee e del bacino del Mediterraneo è un dato di fatto. E non è più tempo per puristi: la legittimità e opportunità di un uso turistico del nostro patrimonio culturale non può essere messa in discussione. Il problema è piuttosto di governare un fenomeno con strumenti più efficaci di quelli finora proposti, considerate le caratteristiche quantitativamente espansive che lo connotano. Come tutte le risorse fragili e irriproducibili, il bene culturale non può essere sottoposto ad uno sfruttamento che non sia monitorato costantemente e passibile di interdizione, qualora le condizioni di conservazione del bene stesso non ne consentissero più l’uso, o lo permettessero solo in condizioni limitate o di particolare protezione. Eppure l’uso a fini turistici del nostro patrimonio culturale è tuttora caratterizzato da elementi di improvvisazione e superficialità di analisi che tendono ad appiattirsi su di uno sfruttamento acritico, non programmato della nostra risorsa più importante, considerandola già “pronta per l’uso”.

In un’ottica di sostenibilità ambientale il settore turistico non differisce, quanto ad approccio, da qualsiasi altra attività ed è stato dimostrato come sia erroneo considerarlo una sorta di settore produttivo “light” - la così detta ‘industria bianca” - di minore impatto sull’ambiente rispetto ad altre; al contrario l’industria turistica quanto più si sviluppa in un luogo, tanto più consuma le risorse ambientali e culturali sulle quali poggia la sua fortuna economica. Suoi effetti collaterali ormai noti sono, oltre al depauperamento del patrimonio dovuto alla pressione antropica, la cementificazione e la speculazione da invasione di seconde case, il collasso di mobilità e, in generale, un’impronta ecologica pesantissima.

Dietro le città turistiche, le folle transumanti delle notti bianche e dei mille eventi che si riproducono per clonazione e senza alcuna innovazione, è in agguato la dissipazione del nostro “petrolio”, la congestione dei nostri centri storici e lo stravolgimento dell’intero territorio. Firenze e Venezia già da tempo conoscono i problemi dell’essere divenute città monoculturali le cui economie si reggono solo sul turismo: primo fra tutti lo snaturamento dei loro centri storici ormai trasformati in parchi a tema ad esclusivo consumo turistico. In questa direzione pare avviata Roma stessa, a proposito della quale non passa giorno senza che non ci vengano sbandierati nuovi record economico-turistici (maggiore crescita del PIL a livello nazionale, percentuale di presenze turistiche prossima a Parigi). Dietro i toni entusiastici che accompagnano il modello espansivo capitolino pare però mancare una strategia che invece miri ad un riequilibrio complessivo degli assetti sociali: così la rincorsa ad una visibilità fondata sulle quantità e indifferente ai contenuti (almeno a giudicare dal livello complessivo delle offerte), porta a lustrare le eccellenze (e allora mostre, inaugurazioni, feste) per il turista e a nascondere o rimuovere le sgradevoli, imbarazzanti disarmonie (mobilità, periferie, emergenza casa) con cui si confronta il cittadino.

Come e più di Roma, Napoli. Delle ipocrisie mediatiche e le distorsioni che questi meccanismi stanno innescando nelle nostre città, la metropoli partenopea sembra condensare in sé un paradigma completo. Una città che non ha risolto alcuno dei problemi strutturali che storicamente la caratterizzano e che anzi in questi ultimi mesi continua a restare sotto i riflettori per il ripetersi dei fenomeni criminosi e per l’emergenza rifiuti; metropoli in evidente declino sociale ed economico, estranea dalle produzioni immateriali tipiche delle città postindustriali, Napoli sta cercando un difficile rilancio come “normale città d’arte”. Allo sfruttamento turistico del suo patrimonio culturale è da alcuni anni indirizzato lo sforzo più cospicuo dell’amministrazione. Ma qui, ancor più che a Roma, questo sforzo appare come il frutto di una politica metropolitana incapace di innovazione e di invenzione. Da questa estate percorsi protetti sono stati predisposti dai pubblici amministratori affinché i turisti possano degustare le bellezze artistiche della città senza fare i conti con il degrado che continua ad attanagliarla: escamotage velleitario che consacra un fenomeno inquietante di suddivisione della città in aree privilegiate. E il riflesso di questa maniera sgangherata di arrivare ad una città a vocazione prevalentemente turistica è più che mai evidente nelle operazioni connesse alla promozione privilegiata dell’arte contemporanea. A imitazione di quanto sta avvenendo in molte città europee, oltre ai percorsi ‘classici’ legati alla celebrazione del patrimonio monumentale del centro storico,nel giro di pochi anni sono stati inaugurati ben due spazi espositivi vocati alla contemporaneità, il Madre e il PAN, il secondo dei quali, già in affanno con una media di dieci visitatori giornalieri, appare ancora totalmente privo di una programmazione di largo respiro. Da alcuni anni si susseguono poi le installazioni in spazi privilegiati quali Piazza Plebiscito e le mostre monografiche dedicate ai grandi nomi dello star system artistico al Museo Archeologico e a Capodimonte. Sedi nelle quali l’osticità e sovente la sgradevolezza dell’opera d’arte contemporanea sono opportunamente calmierate dal “dialogo con l’antico” o, nel caso di Piazza Plebiscito, dall’inserimento in una sorta di spazio contemplativo ormai definitivamente musealizzato.

Esempio culminante, per molti aspetti, della distorsione banalizzante cui l’arte contemporanea può essere sottoposta quando interpretata come momento di seduzione estetica o peggio come momento promozionale e politico-celebrativo, è rappresentato dalla cosiddetta metropolitana dell’arte. Pluricelebrata da una costante campagna mediatica, consiste nella presenza di opere di artisti contemporanei, alcuni dei quali di livello internazionale, negli spazi interni ed esterni di alcune stazioni - quelle centrali - della metropolitana tuttora in costruzione.

Nessuno nega la validità di talune opere d’arte inserite (ma già sul livello scarsamente significativo di altre occorrerebbe interrogarsi): ma tale valenza è spesso appiattita se non annullata dalla collocazione non solo antigerarchica, ma avalutativa e direi addirittura acognitiva della scelta espositiva. Al contrario di quanto avviene negli esiti più riusciti di public art, in questo caso la scissione dal contesto espositivo tradizionale ha purtroppo conservato le connotazioni negative della musealizzazione, intesa come macchina di riproduzione del consenso estetico. Il museo non è però solo una collezione di opere - altrimenti è un magazzino - ma attraverso i rimandi fra opera e opera diviene un vero e proprio strumento cognitivo e così la mostra ha un senso proprio perché estremizza e coagula attorno ad un tema una serie di oggetti prescelti a dimostrazione di un’ipotesi di ricerca precisa. Nelle stazioni napoletane ciascuna è concepita come un insieme di oggetti di contemplazione a sé stante, ma anche all’interno di uno stesso spazio le opere sono semplicemente giustapposte e spesso il loro inserimento non riesce a far scattare quella restituzione di senso tale che il contesto e il testo ne siano arricchiti e non depotenziati. Questa aporia espressiva deriva dal fatto che le installazioni solo in pochi casi possono davvero essere definite site specific nel senso che la critica più avvertita attribuisce al termine: il loro significato non si forma in relazione alle sue condizioni di cornice e raramente queste sembrano possedere una reale intimità di legame col luogo, ‘incorporano’ cioè il contesto di esibizione.

Senza ripensare, ad esempio, alle complesse elaborazioni museologiche che sottostanno agli allestimenti di una Tate Modern, prescindere da tutto questo costringe ad oscurare parte preponderante dei meccanismi e dei significati che presiedono al processo artistico. A commento del caso napoletano allora ritornano alla mente le definizioni di un viaggiatore disincantato e tendenzialmente diffidente nei confronti di musei e città belle quale Giorgio Manganelli era: le “cooperative di capolavori”, i “lager di squisitezze” i “parcheggi della nostra anima di gusto colto e raffinato”, non più strumento per leggere il reale e la sua complessità, bensì pubblicizzazione di se stessi e di una concezione da politica autocelebrativa dell’opera d’arte.

Quanto poi alla apodittica affermazione, più volte ripetuta, che questi interventi così come altri episodi di installazioni di arte contemporanea in altre aree pubbliche producano effetti significativamente positivi sul tessuto sociale della città e fungano da vere e proprie operazioni di trasformazione urbana, oltre che smentita dalla violenza del reale, pare improntata ad una concezione provinciale che ha trascurato i noti e ormai pluristudiati problemi dell’”indifferenza” con cui si scontra la public art soprattutto se concepita, come in questo caso, come segno di attardato mecenatismo da parte del regista politico di questa operazione (il ‘governatore’ Antonio Bassolino) e come disegno pedagogico imposto (il ‘museo obbligatorio’ di Achille Bonito Oliva, regista culturale). Che con queste opere si regali un momento non trascurabile di osservazione estetica è di per sé positivo, ma per innescare vere e proprie operazioni di riqualificazione urbana occorrono interventi culturali di ben altro impatto, oltre che inseriti in un programma comunicativo ed educativo specifico e prolungato.

Ulteriore elemento che contribuisce a svelare la valenza prevalentemente turistica dell’operazione è costituito dalla collocazione delle opere: presenti solo nelle stazioni centrali, contribuiscono all’abbellimento e alla lucidatura estenuante solo dei luoghi –vetrina del centro storico: quale maggiore sfida concettuale e sociale sarebbe stata collocare un Sol LeWitt o un Jannis Kounellis non a Piazza Dante, ma a Scampia. L’utente privilegiato della metropolitana dell’arte come del Madre, come di Piazza Plebiscito e di gran parte del centro storico è quindi il turista, non il cittadino:attraverso la seduzione puramente visiva dell’arte di fatto si sancisce la trasformazione della città da spazio per i cittadini a quinta scenografica per i turisti.

Come stupirsi allora che il grandioso e pluriannunciato sistema infrastrutturale da alcuni lustri in fieri nel sistema metropolitano partenopeo, lungi dall’apportare significativi miglioramenti in quella che è una delle aere più congestionate del territorio nazionale e in mancanza di dirompenti risultati - quali ci si aspetterebbe soprattutto a fronte di altrettanto dirompenti risorse economiche utilizzate e di tempi ormai dilatati - rilanci in continuazione in termini di grandiosità artistica? Ormai nel catalogo dei progettisti delle stazioni napoletane la panoplia delle archistars internazionali è pressochè completa: da Siza a Rogers, da Fuksas a Botta e via elencando. In effetti pare proprio che questa metropolitana così bella finora abbia tutt’al più scalfito quella che rimane una delle emergenze cittadine (Napoli al 95° posto su 103°, nella classifica Aci-Eurispes sui livelli di mobilità, ultima delle grandi metropoli) tanto da far richiedere al sindaco i poteri speciali e la dichiarazione dello stato di emergenza per traffico e viabilità.

Una città non è più moderna per l’inserimento di opere contemporanee, anzi queste divengono un’operazione passatista se introdotte con finalità puramente estetiche o estetizzanti e svuotate di quella carica dirompente che spesso le pervade.

E’ questo un modo alquanto povero, dal punto di vista culturale, di intendere l’arte, quasi fosse un lusso, una fuga in avanti con la quale una città dai mille problemi si pavoneggia.Al contrario l’arte contemporanea non è un lusso, ma anzi, nella sua forma migliore una modalità comunicativa in grado di sovvertire le gabbie del quotidiano, la vera arte è sovversiva in quanto ci costringe ad uno sguardo diverso sul reale, lo reinterpreta, lo ridefinisce e ci aiuta a comprenderlo e a superarlo. Negli episodi della metropolitana, al contrario, l’impressione è di un addomesticamento, di una banalizzazione dell’opera artistica e del suo significato. Nella vulva di Kapoor progettata come accesso alla futura stazione di Montesantangelo non c’è sovversione, ma solo scandalo, peraltro già così pubblicizzato in anteprima da aver perso ormai quel carattere dirompente che connota la grande arte.

A Napoli, come in altre realtà, è mancato quasi completamente, come a tratti comincia ad essere denunciato, un processo di elaborazione culturale intorno al senso dell’arte e al rapporto fra arte e politica. Questo fallimento appare in tutta la sua evidenza quasi grottesca, adesso che anche le aree monumentali privilegiate, ripulite non tanto per i cittadini, ma per i nuovi consumatori quali sono i turisti, sono investite da nuove violenze e da nuovi disagi di antica origine che erompono dai vicoli dei rioni e da periferie allucinate.

Non è un esito scontato: altre realtà stanno a dimostrare la possibilità di percorsi diversi. In Italia Torino su tutte (dove, fra l’altro, in tempi assai ridotti è stata costruita la metropolitana tecnologicamente più avanzata d’Italia) è ormai la città più vivace sul piano della contemporaneità. Il circuito culturale dell’arte contemporanea disegnato in anni di attenta programmazione, si ispira a soluzioni ben più organiche e strutturalmente convincenti, collegando fra di loro una serie di istituzioni i cui palinsesti espositivi si rimandano l’un l’altro e privilegiando manifestazioni non estemporanee, ma di alto livello e consolidata organizzazione. L’understatement sabaudo ha favorito l’uso di strategie culturali capaci anche di sacrificare tattiche mirate al perseguimento di visibilità politica a favore di un impianto culturale mirato a costruire e non solo ad abbellire.

E’ a partire da queste esperienze, che dobbiamo in ogni caso ripensare le regole, proporre nuovi modelli affinchè le percentuali di crescita economica di alcune delle nostre città turistiche siano il risultato di un premeditato modello di sviluppo capace di restituire sul medio-lungo periodo un miglioramento percepibile e maggioritario della nostra qualità della vita.

Perché la cultura non resti un bisogno privato, soggettivo, quasi voluttuario, senza alcun valore collettivo, ma divenga un patrimonio comune, una risorsa che deve rendere non tanto in termini di profitto o di visibilità del politico di turno, ma di benessere sociale.

Perché il turismo culturale sia davvero una conquista sociale, una nuova opportunità cognitiva, un’espansione delle esperienze di ciascuno.

Perché il turista torni ad essere un viaggiatore o almeno non sia solo un consumatore.

Il testo è pubblicato su IBC, rivista dell'Istituto de Bni Culturali dell'Emilia-Romagna, XIV, 2006, 4

Sono tornata sull’Appia Antica, al termine di una arroventata giornata romana. Un po’ per caso, un po’ per desiderio.

Mentre gli ombrelli dei pini incupivano, la Regina Viarum ha di nuovo dispiegato il suo fascino davvero inesauribile, quello che la fece prescegliere, quale inarrivabile quinta seduttiva, da Roberto Rossellini per l’ingresso in Roma al fianco di Ingrid Bergman appena sbarcata, per lui, dall’America (era il 1949).

Mio obiettivo era la visita alla nuova sede del centro di documentazione dedicato ad Antonio Cederna, finalmente alloggiato in quella che era la sua strada. Quasi una sorta di pellegrinaggio in un luogo da lui così amato, tanto da essere definito, fin dai tempi del Mondo, “appiomane”, luogo percorso e ripercorso, studiato e annotato in ogni metro, strappato lembo a lembo, dalla forza delle sue parole e dei suoi interventi, alla speculazione e al degrado.

In queste settimane, in preparazione di un volume di saggi che l’Istituto Beni Culturali intende dedicargli, i suoi scritti mi hanno accompagnato soprattutto durante gli spostamenti; letture in ordine sparso, senza criterio e senza metodo, riprese in più tempi e in situazioni diverse: in viaggio sui treni, ad alcune riunioni (molto noiose), durante le attese degli aeroporti, ai tavolini del Gambrinus (molto scomodi), a cala Garibaldi.

La produzione letteraria di Cederna, costituita per lo più da articoli su quotidiani e settimanali, poteva ben prestarsi ad un esercizio così frammentario. Eppure rileggendo quelle pagine, assieme al disagio crescente spesso provocato da certe descrizioni, risultato certo dell’efficacia della sua prosa, ma ancor più dell’ineluttabilità e dell’evidenza, così attuale e così scomoda, di certe conclusioni e di molte previsioni, uno dei caratteri che mi hanno più colpito è che l’opera di Cederna, pur procedendo per episodi circoscritti - per carattere editoriale e diversificazione di soggetti - possiede una propria straordinaria organicità tanto da risultare persino monolitica quanto a coerenza ideologica.

Cederna tende, fin dalla prima fase della sua attività, a inquadrare gli episodi che descrive, i fenomeni che analizza, in un orizzonte più vasto, per risalire alle cause, certo, e perché possiede una concezione sistemica del territorio e dei suoi problemi. Il territorio è quindi un sistema complesso e fragile in quanto tale, perché in esso ogni elemento che vi viene alterato ne scompone tutto l’equilibrio come nel più delicato degli ecosistemi. E di conseguenza i centri storici sono da interpretare non come insieme di monumenti eccellenti, ma nell’insieme del loro tessuto connettivo, come articolazione organica, complesso contesto di strade e palazzi e così i beni culturali non come emergenze isolate, ma inseriti nel problema più complesso delle città e del paesaggio.

Allo stesso modo Cederna contesta, come arretrata e dannosa, la visione della natura come paesaggio, a sua volta inteso come sommatoria di panorami e quindi quasi esclusivamente interpretato nelle valenze estetiche. Possiede, è stato detto, una visione strategica dell’urbanistica nella quale individua lo strumento privilegiato per il governo del territorio.

Questi elementi si coniugano del resto all’evidenza della sua attualità, tante volte proclamata e raramente interpretata, forse perchè fastidioso sintomo della nostra cattiva coscienza di cittadini distratti e della nostra pigrizia intellettuale. Ma Cederna non è attuale solo perché molte delle sue battaglie sono purtroppo ancora aperte, perché molte delle sue accuse e delle sue descrizioni potrebbero essere riproposte tal quali a 20, 30 40 anni di distanza, lo è ancor più proprio nella capacità di inquadrare i tanti episodi e fenomeni, per lo più negativi, riportandoli sempre ad una analisi complessiva e a ragioni strutturali con le quali ci ritroviamo a fare i conti ancor oggi.

E bisogna leggerle, le date di questi articoli in cui sulla stampa periodica e quotidiana Cederna veniva componendo il suo ritratto - Iliade e Odissea assieme - dell’Italia del dopoguerra, del boom economico, di tangentopoli.

Fra i primi a capire, con assoluta tempestività di analisi, che le arretratezze delle nostre città in campo urbanistico sono il perverso effetto della costante difesa della rendita fondiaria a livello politico – legislativo; in anticipo su tutti, a livello di comunicazione di massa, diffuse concetti come quello della irriproducibilità e fragilità del suolo. E in controtendenza con il provincialismo che caratterizzava la nostra stampa (e la nostra cultura) pose da subito grande attenzione alle esperienze più avanzate, in campo urbanistico, di ambito europeo - Amsterdam, Stoccolma, Copenaghen, Zurigo - a più riprese additate come modelli a cui ispirarsi.

Né apocalittico, né integrato, Cederna, come è stato ricordato in questi giorni, non fu mai solo un critico e un oppositore del mutamento, ma studioso in grado di proporre anche soluzioni operativamente efficaci e concretamente realizzabili (il parco dell’Appia, la proposta di legge per Roma Capitale). E i suoi scritti di sintesi si concludono quasi sempre con un’agenda propositiva, in cui il primo punto è invariabilmente dedicato alla necessità di censire, studiare, documentare: conoscere di più per fare meglio. La sua azione sempre combattiva e dispensatrice di idee, di iniziative, di alternative non è quella di un semplice conservatore: è per lo sviluppo guidato dalla mano pubblica, per una città moderna ispirata ai criteri dell’urbanistica di stampo nordico che vive accanto alla città storica e per questo ne permette la conservazione nella maniera migliore e più congrua per uno sviluppo ordinato e vitale delle proprie funzioni e in cui la qualità della vita sia garantita a livelli decorosi per tutti.

Proverbiale la sua pignoleria nella documentazione e nell’elaborazione scritta (7 ore a cartella, il minimo prescritto per ottenere un risultato decente) e l’attenzione che si percepisce per il materiale iconografico, non accessorio, ma parte integrante delle sue analisi.

Nel 1949 comincia la collaborazione al Mondo sulle cui pagine prende a denunciare, fra l’altro, l’urbanizzazione selvaggia che si scatena negli anni delle ricostruzioni postbelliche. L’attività di Cederna, così come è stato messo in rilievo da Francesco Erbani, è perfettamente complementare all’ideologia progressista e laica del periodico di Pannunzio, che in quegli anni veniva denunciando le arretratezze culturali della classe politica e di quella accademica quando non la loro acquiescenza agli interessi privati più retrivi ed aggressivi e i guasti di un capitalismo distorto che si poneva al riparo dal rischio d’impresa rifugiandosi nella passività della rendita immobiliare e fondiaria o nella corruzione.

Intanto nasce Italia Nostra (è il 1955) e Cederna ne è tra i fondatori e sarà sempre uno dei soci più attivi: per Italia Nostra, negli anni, scriverà alcune delle sue sintesi più efficaci e di assoluto rilievo storico.

Nel 1956 esce la prima raccolta degli articoli pubblicati sul Mondo, I vandali in casa: dove ritroviamo le tesi di fondo incessantemente ripercorse e riproposte nell’arco di oltre quarant’anni: quelle per una pianificazione come metodo imprescindibile e garanzia di trasparenza e democraticità; per la tutela della natura e del territorio nel suo complesso perché bene “non reintegrabile”; il nesso di complementarietà fra antico e moderno per cui, per salvare l’antico, bisogna saper costruire il moderno secondo i criteri di un’urbanistica modernamente intesa. L’incipit dei Vandali in casa è una chiamata alle armi a partire da una separazione netta fra chi è vandalo e chi non lo è. Cederna si propone di organizzare contro i distruttori del bello una vera e propria ‘persecuzione metodica e intollerante’. E inizia una delle battaglie di fondo che caratterizzerà la sua attività nel tempo: quella per la diffusione di una cultura, urbanistica e non, più moderna e per l’incremento di una sensibilità più attenta e profondamente motivata per i temi della tutela dei beni culturali e, in sostanza, per l’allargamento, nell’opinione pubblica, del sentimento di riappropriazione del patrimonio collettivo di città e paesaggio.

Ma nell’introduzione ai Vandali è anche l’esposizione di uno dei suoi temi privilegiati: la conservazione integrale dei centri storici, premessa obbligata alla loro tutela: la città è cultura, “civiltà stessa del vivere e del costruire”. Da questi assunti trovano linfa, ad esempio, le straordinarie vittorie contro gli sventramenti capitolini di via Vittoria.

Nella furia accusatoria Cederna non fa sconti a nessuno: gerarchie ecclesiastiche, organi di tutela deboli e neghittosi, amministrazioni pubbliche (quella capitolina in primis), classe politica e accademica nel loro complesso, fra cui spiccano, per ignoranza e boria, gli architetti.

Ma oltre che per la solidità e la novità dei contenuti, la polemica cederniana si distingue e si distinguerà sempre per la cifra stilistica che la connota e che ne costituisce elemento di efficacia e riconoscibilità immediato. Nella sua prosa di carattere oratorio e dall’aggettivazione incalzante, i toni variano dall’indignazione all’ironia più acuminata, al sarcasmo vero e proprio: in certi casi Cederna predispone, con le sue descrizioni, quasi una scenografia di una commedia all’italiana di stampo monicelliano, quando non si apparenta alle disarmonie inquietanti di Hieronymus Bosch.

Nei suoi scritti egli dà sfoggio di un uso sapiente degli strumenti retorici finalizzati a dar voce ad uno sdegno in cui l’icasticità della scrittura riproduce la forza emotiva che anima i contenuti. Quelli dell’ironia: tropoi, metalessi, domande retoriche, antifrasi e quelli dell’invettiva: anafore, iperboli, amplificazioni e accumulazioni caotiche, enumerazioni e climax in progressione semantica. E nella reiterazione non esiste quasi mai ripetizione pedissequa, fra un testo e il successivo: Cederna aggiunge sempre qualcosa, approfondisce un’analisi, incrementa i dati documentali, colora di nuovi aspetti la descrizione di un evento, di una situazione, ne definisce più in profondità le conseguenze, ne amplia i paralleli e i confronti. E potremmo in fondo riconoscervi anche in questo caso, l’uso, per così dire espanso, della figura retorica della “commoratio”: l’indugio ripetitivo sulle idee comunicate finalizzato al loro arricchimento concettuale. Certo i concetti ritornano, e Cederna stesso ammetteva, con civetteria provocatoria: “Scrivo da sempre lo stesso identico articolo, finchè le cose non cambieranno continuerò imperterrito a scrivere le stesse cose”, ma il ricorrere dei concetti è una sorta di necessità reiterativa dovuta al loro carattere episodico, ma ancor di più all’intento pedagogico che lo anima.

Parafrasare Cederna è una sfida linguistica piuttosto frustante, perché si finisce piuttosto per ricopiarlo, arrendendosi all’evidenza che meglio di così quel fenomeno, evento, meccanismo, luogo non poteva essere descritto o definito. L’Italia è, di volta in volta, ‘paese a termine’, ‘espressione topografica delle manovre della speculazione e della rapina privata’, ‘crosta repellente di cemento e asfalto’. E la ‘città a macchia d’olio’ costituisce la prima definizione italiana di sprawl urbano. Gli sventramenti urbani sono come i clisteri per i medici di Molière, gli obelischi di via della Conciliazione come vecchi candelieri su un comò di campagna. L’assimilazione del Colosseo ad uno spartitraffico è di Cederna, in Mirabilia Urbis. I beni culturali sono vacche sacre: intangibili, ma indesiderati; crosta Adriatica è la riviera romagnola. Espressioni che abbiamo usato tutti, prima o poi, tanto efficaci e lapidarie da diventare insostituibili.

E così le sue unità di misura costruite per evidenziare l’enormità di eventi, progetti e situazioni e la gravità delle loro conseguenze: l’albergo Hilton come misura di ecomostri e lottizzazioni in genere: due sigarette la spesa annuale dello Stato per abitante destinata alle indagini geologiche; mezzo foglio di carta protocollo la dotazione di verde per ogni cittadino romano fra il ’45 e il ’60.

All’inizio degli anni sessanta Cederna diviene strenuo sostenitore del disegno di legge urbanistica Sullo (è il 1962) di cui sottolinea la novità e la capacità di riallineamento con le più progredite normative e prassi europee, riconoscendone anche il merito di aver inserito, per la prima volta, la tutela del paesaggio e dei centri storici all’interno della pianificazione urbanistica.

Nel frattempo continua a dedicare molta parte della sua attività giornalistica e non, a Roma, da lui amatissima, pur non essendone la città d’origine e pur così lontana dalla sua impostazione culturale ispirata ad un’etica severa, ma senza moralismi. E a Roma è dedicata la seconda raccolta: Mirabilia Urbis (è il 1965). In essa scopriamo fin da subito l’analista di spietata acribia di documenti ministeriali, il narratore satirico di interminabili sedute comunali capitoline e il ritrattista di feroce sarcasmo di personaggi politici o accademici: valga per tutti l’insuperabile descrizione del “sindaco nero” Cioccetti.

In Mirabilia Urbis è la cronaca sempre più dolente dello stravolgimento del piano urbanistico del 1957, ‘il piano degli urbanisti’, elaborato da tecnici competenti e che avrebbe potuto ridare una dignità di pianificazione ad una città preda della speculazione e dell’anarchia edilizia postbellica. Su quel fallimento si innesta la decomposizione urbanistica di Roma ed il definitivo assalto speculativo dei grandi costruttori oltre che l’ammasso delle periferie più tetre e degradate di Europa (le borgate di pasoliniana memoria).

La raffinata sovracopertina einaudiana anticipa il testo dei risvolti e nel volume la sequenza fotografica iniziale sintetizza visivamente, con tecnica panoramica precinematografica, l’assunto di fondo dell’insieme testuale: la degradazione della capitale in cui si è già realizzato, nel 1965, lo stravolgimento ironicamente preannunciato nel titolo. E Cederna denuncia anche il totale disinteresse dell’amministrazione nei confronti del problema del verde urbano, la svendita dei parchi delle ville patrizie, lo scempio della costruzione dell’Hilton. E continua la battaglia per l’ Appia.

Agli esempi romani sono infine dedicati i primi Mirabilia Urbis: sorta di vademecum turistici al contrario, di guide rosse dello sfacelo e del degrado che Cederna andrà compilando, nel tempo, col puntiglio del topografo (Appia Antica, Campi Flegrei, Palermo, la penisola sorrentina), segnalando abusi, incurie, rovine.

Con l’arrivo al Corriere, durante gli anni di Giulia Maria Crespi (dal 1967 al 1982), il suo raggio d’azione si allarga, anche perché nel frattempo è divenuto il vero e proprio collettore di denunce, segnalazioni, proposte che gli provengono da ogni parte d’Italia, il punto di riferimento di quella opinione pubblica ‘qualificata’ (adesso la chiameremmo ‘società civile’) che va cominciando a formarsi anche per merito della sua attività.

Palermo, Venezia, Firenze, Lucca, Selinunte, Bologna, la situazione dei parchi naturali, delle coste, dei musei. Vere e proprie pagine di storia urbanistica di esemplare documentazione sono gli articoli inchiesta su Napoli del 1973 (Napoli, città omicida).

La Distruzione della natura in Italia, raccolta a tematica più dichiaratamente ambientalista, è del 1975 (dieci anni prima della Galasso): Cederna, che ironizza sugli ecologisti e guarda con sospetto al termine ‘paesaggio’, vi antepone la sintesi ‘Lo sfacelo del Bel Paese’ in cui si scaglia contro il paese delle eterne emergenze, delle calamità che ‘naturali’ sono solo per ipocrita convenzione, che scopre l’urbanistica solo dopo il crollo di Agrigento e la geologia dopo l’alluvione di Firenze. In quelle pagine bacchetta anche i padri costituenti perché disinteressati, nella stesura dell’art. 11, al problema della conservazione della natura, nelle sue implicazioni urbanistiche e sociali; denuncia ancora “la privatizzazione sistematica del suolo nazionale in nome della rendita parassitaria e della rapina privata”, il rifiuto delle politiche di piano in ogni settore e la rincorsa, da parte di una classe di governo miope e ottusa, ad un profitto facile e immediato per lo più a vantaggio del privato. Quale rimedio vi contrappone – ancora e sempre – la pianificazione urbanistica come regola suprema di governo del territorio e la conservazione della natura come obiettivo primario di ogni società civile. Talune considerazioni paiono persino anticipare temi degli studiosi della postmodernità (Rifkin in particolare).

A seguire un’analisi senza sconti dei parchi nazionali dell’epoca e della loro gestione, la denuncia della cementificazione delle coste ridotte, per chilometri e chilometri, a informi “città lineari”, del dilagare insensato dei porti turistici e degli impianti di risalita e infine, un tema a lui caro, il verde urbano, ridotto nelle nostre ‘città omicide’ a percentuali da prefisso telefonico. Evidenzia, ancora una volta in anticipo su tutti, i danni della ‘valorizzazione (termine che non gli piace) turistica’ in Costa Smeralda, del turismo elitario e di rapina che non regala che briciole all’economia locale e si trasforma in una forma di colonizzazione (fra i tanti rimpianti che ci ha lasciato, vi sarebbe anche la descrizione cederniana della categoria antropologica dei Briatore).

E non manca l’attenzione alle implicazioni economiche: è più vantaggioso risanare, conservare che costruire ex-novo, è più economico prevenire, studiare, che fronteggiare i danni del dissesto idrogeologico. Il recupero dei centri storici creerà nuovi posti di lavoro in quantità maggiore e più qualificati rispetto alla nuova edilizia.

Intanto si schiera a sostegno delle iniziative bolognesi di Sarti e Cervellati per il recupero dell’edilizia abitativa in centro storico e nella battaglia - vittoriosa - contro la cementificazione della piana di Castello a Firenze. Sua l’idea, assieme a Paolo Ravenna, dell’addizione verde di Ferrara che porterà al restauro delle mura cittadine.

Accusatore implacabile del carattere retrogrado e passatista della nostra archeologia della prima metà del ‘900: un coacervo di eruditi incapaci di ergersi a difensori dell’antico contro la montante speculazione e assertori di una concezione retriva e nazionalista della romanità di impronta spesso scopertamente fascista. Per questo lui, archeologo, si scaglia, fin dai primi interventi, contro i retori della archeologia e dell’antichità (summa delle sue battaglie il volume monografico del 1979, Mussolini urbanista).

Al volgere del decennio partecipa all’elaborazione del progetto Fori che lo vedrà impegnato, quale protagonista, accanto ad Argan prima e a Petroselli poi e a un drappello di urbanisti e intellettuali, nel sostegno del più innovativo progetto urbanistico che Roma abbia conosciuto nell’ultimo secolo, connesso topograficamente e ideologicamente alla creazione del Parco dell’Appia Antica, battaglia che continua dopo il successo (temporaneo) del decreto Mancini di destinazione a parco di 2500 ettari di campagna dell’Appia (è il 1965). Nel progetto Fori, al contrario di altri intellettuali, Cederna vede l’archeologia - quella stratigrafica, ‘progressista’, che ereditando la lezione di Bianchi Bandinelli, prende piede in Italia a partire dai tardi anni sessanta e si raccoglie soprattutto attorno alla rivista I Dialoghi di Archeologia - come mezzo per perseguire una finalità urbanistica e come parte di un ragionamento sull’insieme dell’assetto urbano. Il progetto costituirà uno dei punti cardine della proposta di legge per Roma Capitale presentata da Cederna nel 1989 in veste di deputato della Sinistra indipendente: in esso ci si misurava non solo con una visione nuova di Roma, ma la forma urbis diviene l’immagine di una rinnovata ideologia del governo della città.

Più difficili gli anni di Repubblica (è il 1983), più complicati, frastagliati i rapporti. Come lo stesso Cederna rileva ormai nell’amarissima introduzione a Brandelli d’Italia, l’ultima raccolta (è il 1991), l’attenzione della stampa quotidiana è spasmodicamente tesa alla notizia intesa come evento, catastrofe, disastro. Al contrario Cederna disprezza il “culto maniacale della notizia”, il giornalismo per lui è sempre stato “battaglia costante, continua, tempestiva e preventiva”, non semplice registrazione e al più deplorazione di un tragico evento. La continuità della sua denuncia, lo slancio che vi immette avevano fatto dei suoi articoli delle vere e proprie campagne stampa. Negli anni del Corriere in specie, Cederna riesce ad imporre un livello di attenzione per questi problemi impensabile per la stampa odierna, non solo quella quotidiana (nel 1972, in 5 giorni 3 articoli sui centri storici e il caso bolognese ). Adesso, negli ultimi anni, lui, urbanista ad honorem, comincia a scontrarsi con il muro di opacità nei confronti dei problemi dell’urbanistica e si deve adeguare ad un sistema mediatico ormai incapace di proporre visioni e analisi complessive e dove è finito il giornalismo d’inchiesta, ma ci si limita a richiamare solo gli eventi spettacolari e mediaticamente spendibili, relegando per lo più i temi urbanistici alle cronache locali.

Persino il linguaggio muta, l’ironia sarcastica e che si esaltava nell’aggettivazione a volte feroce e nell’accumulo definitorio in crescendo, lascia il posto ad una amarezza dolente e senza sorriso, come si avverte nei commenti di Brandelli d’Italia.

“Conosciamo i giornalisti, si stancano presto”: così la previsione di un funzionario della P.I., riportata da Cederna stesso, sulle polemiche da lui innescate a proposito del degrado della regina viarum sul Mondo (è il 1953). Oltre 140 gli articoli che scriverà sull’Appia in quarant’anni di infinita battaglia. Censita in ogni metro, ogni centimetro, come quando (L’Appia in polvere) Cederna compila da perfetto archeologo il puntiglioso catalogo dei frammenti archeologici abusivamente impiegati a decorazione del muro di cinta della villa di una nota attrice, al civico 223. Sull’Appia seppe mantenere alta l’attenzione fin dai primi anni ’50, quando più arrembante era l’assalto della speculazione, fino alle prime, contrastate vittorie e all’istituzione del Parco Regionale (è il 1988). Ancora oggi si succedono sull’Appia gli episodi di degrado, mentre ancora intatte - anche in presenza di ordini di demolizione - permangono alcune delle costruzioni abusive contro cui egli si battè. Solo il 5% del Parco dell’Appia è di proprietà pubblica e continua lo stillicidio delle costruzioni abusive che ha tratto nuova lena dal condono del 2003. A questo le risibili risorse della soprintendenza poco possono opporre. Però quando Cederna cominciò la sua battaglia l’Appia era sentita come terreno privilegiato per l’urbanizzazione di alto livello, mentre ora, nella coscienza dei romani, è ormai vissuta come il Parco dell’Appia: patrimonio della città e dei suoi cittadini.

‘Cederna non ha vinto. Non poteva vincere’. Così scrisse nel suo necrologio Nello Ajello (è il 1996). Certo nello scorrere di una contabilità spicciola tante sono state le sconfitte e, per propria natura, più rumorose delle vittorie e se la sensibilità della cultura nei confronti delle distruzioni dei singoli monumenti e dei beni culturali nel loro complesso è sicuramente aumentata, in altri campi le sue battaglie sono ancora apertissime.

Il prevalere della rendita fondiaria è ancora un tarlo che mina nel profondo non solo la nostra economia, condannandola in un limbo di arretratezza, ma anche una più sana dinamica sociale e financo democratica. E molto Cederna si preoccuperebbe di questa liaison dangereuse che oggi collega i nostri beni culturali al turismo in un abbraccio soffocante e in cui riaffiora, al di sotto della nuova patina garantista, la nefasta equazione beni culturali come petrolio di una indimenticata, ma non indimenticabile stagione politica e culturale che egli combattè aspramente.

Però la diffusione di una più matura consapevolezza culturale della fragilità del nostro patrimonio e del nostro territorio è da annoverare come uno dei risultati più importanti e duraturi della sua attività. Cederna in fondo rappresenta, ante litteram, uno dei migliori esponenti di quella società civile che egli stesso contribuisce a creare e che pur faticosamente si affaccia sulla scena politica e culturale italiana, società civile intesa come insieme di cittadini che credono che perché l’Italia possa divenire un paese moderno e progredito occorre che ciascuno dia il proprio contributo.

Anche grazie a lui, certi scempi non sono più possibili e molto Cederna si sarebbe rallegrato dell’abbattimento del Fuenti (tre asterischi nella sua guida rossa al contrario).

E infine ci piace pensare che avrebbe apprezzato la legge di eddyburg che ribadisce principi da lui tanto difesi e che egli elenca, nell’introduzione di Brandelli d’Italia: “mettere fine all’espansione, alla crescita indiscriminata delle città, e puntare ogni risorsa sulla loro riqualificazione- trasformazione qualitativa: quindi risanamento conservativo dei centri storici […] e ristrutturazione delle periferie costruite nell’ultimo mezzo secolo […].Tutela rigorosa delle aree “irrinunciabili” agricole e verdi, per creare sistemi e cinture verdi. Conservazione delle aree ancora libere nei centri e nelle periferie e destinazione a fini pubblici degli immobili che vengono dimessi, a cominciare da quelli militari”.

Ed eddyburg, in fondo, se avrà il coraggio di evolvere è lo strumento e insieme la comunità che, per consonanza ideologica e continuità d’intervento, si presta più compiutamente a raccogliere il testimone e ad essere l’erede di tante sue battaglie, alcune delle quali già hanno trovato ospitalità proprio sulle pagine virtuali del sito.

Un altro antitaliano, Giorgio Bocca, ha scritto qualche giorno fa: “l’educazione generale della specie è una leggerissima patina sopra una ribollente millenaria bestialità”. Credo che Cederna, in questa sua lunga inesausta battaglia contro la barbarie, nella quale ogni conquista è faticosissima e immediatamente reversibile e ogni sconfitta rimarginabile solo a carissimo prezzo, coltivasse in sottofondo proprio questa consapevolezza. Causa prima di quella malinconia di fondo che traspare in filigrana in tutti i suoi scritti, ma mai pretesto per desistere, perchè lui, come noi, sapeva anche che non c’è alternativa e, come l’amatissimo Shakespeare, che “come arrivano lontano i raggi di una piccola candela, così splende una nobile azione in un mondo malvagio”.

Bologna, 27 agosto 2006

La proposta di legge di eddyburg sui principi di pianificazione del territorio è stata presentata e consegnata ufficialmente ai nostri rappresentanti parlamentari qualche giorno fa, il 28 giugno: atto iniziale di un cammino istituzionale che ci auguriamo non troppo dilatato nel tempo e contemporaneamente suggello di una prima intensa fase di elaborazione.

L’irreale clima artico della Sala delle Colonne della Camera dei Deputati è stato tuttavia mitigato dalla intensa partecipazione dei presenti, e dalla appassionata adesione registrata in tutti gli interventi le cui argomentazioni, nella loro ricchezza e profondità, hanno ancor meglio definito il contesto politico, sociale e istituzionale dal quale la proposta trae origine.

Gli autori della legge hanno più volte evidenziato su questo sito e in altre sedi quelli che sono i principi ispiratori e i numerosi elementi innovativi che caratterizzano il testo. Alle loro considerazioni, molto meglio argomentate, si rimanda in toto: le poche righe di questo commento derivano piuttosto dal desiderio di sottolineare alcune coincidenze temporali più o meno apparentemente casuali, ma spesso chiamiamo ‘caso’ ciò che i limiti della nostra intelligenza non riescono a decifrare.

Quasi ovvia risulta la prima coincidenza, legata alla genesi della legge stessa, la cui prima, ancor allusiva menzione compare nell’ eddytoriale n.87 del 12 aprile 2006, con il quale eddyburg celebrava la soffertissima vittoria elettorale.

Proprio nei mesi, nelle settimane che avevano preceduto quella data era stata avviata l’elaborazione vera e propria della legge stessa, sulla base di precedenti materiali: quando non appena sconfitta l’ipotesi prefigurata dalla legge Lupi, l’auspicio di una nuova stagione politica e culturale sembrava farsi sempre più concreto e con esso la possibilità di un’inversione di tendenza anche per quanto riguardava i temi del governo del territorio.

Come era scritto in quell’eddytoriale, appariva essenziale che il nuovo governo non si limitasse a nascondere i detriti del berlusconismo sotto il tappeto o peggio cercasse di inglobarne gli aspetti meno scopertamente eversivi e antidemocratici, ma si dedicasse, in primissima battuta, alla ricostruzione del sistema delle regole, smantellate o svilite da un quinquennio di decostruzione dello Stato e del pubblico.

In questa direzione la proposta di legge si poneva come un primo, concreto contributo. Ai cavalieri che fecero l’impresa (Berdini, De Lucia, Salzano, Scano, Storto, Tamburini) altri se ne sono aggiunti nel cammino. La stessa scrivente ne è stata coinvolta, in modo del tutto tangenziale, poco più che da lettrice partecipe o meglio da vicino di casa che aggiunge e sposta qualche virgola dal regolamento condominiale, un po’ indispettito perché si è sentito accessorio e marginale (ma noi dei beni culturali soffriamo da sempre della sindrome del parente povero).

Però ne rivendico la scelta del logo che la accompagna: i tre porcellini che costruiscono la loro casa di mattoni, rifugio finalmente solido e sicuro contro gli attacchi del famelico lupo Ezechiele, sempre pronto a tutto distruggere nella sua avidità insaziabile. Casa di mattoni/principi, la legge, destinati a fornire in primo luogo una barriera contro speculazione edilizia, degrado abitativo e rendita parassitaria.

Della prima versione, poi rielaborata, ho molto amato la lapidarietà del primo articolo, che recitava: “il territorio e le sue risorse sono patrimonio comune non negoziabile”. In questa icasticità programmatica che continua a costituire, anche nelle redazioni successive, lo stile del testo nel suo complesso, si voleva affermare che il principio della proprietà collettiva e condivisa del bene territorio non può, mai, essere oggetto di ‘negotium’.

A partire da tale principio cardine, gli altri a seguire: il rilancio della cultura della pianificazione come metodo di gestione del territorio e al contempo la sua titolarità pubblica, la necessità del contenimento del consumo di suolo, il diritto alla città e all’abitare, della partecipazione sociale ai processi pianificatori, figlia di un processo di trasparenza decisionale e di diffusione non effimera delle informazioni e molto altro ancora, come altri hanno meglio spiegato.

Ma il cambio di passo culturale e politico è evidente anche nel riallineamento complessivo che l’articolato opera su più fronti (consumo di suolo, recepimento delle normative Vas, partecipazione) alle direttive più aggiornate ed evolute che in sede comunitaria caratterizzano le tematiche del governo del territorio. Finalmente, dopo il provincialismo oscurantista della passata stagione politica, torniamo in Europa.

Del tutto casuale invece, sembrerebbe la seconda coincidenza temporale: la legge di eddyburg è stata presentata alle forze politiche dell’attuale maggioranza a pochi giorni dallo svolgimento del referendum sulla nostra Costituzione, dagli esiti così inaspettatamente perentori.

Il dibattito culturalmente più avveduto che ha accompagnato la campagna referendaria a favore del ‘no’ ha più volte sottolineato il valore ancora attualissimo della nostra Carta che, lungi dall’essere superata e passatista, si ispira a principi di inalterata modernità e, piuttosto, non ha ancora trovato una compiuta, consolidata attuazione nella legislazione successiva e nella pratica politica e sociale di questi decenni. Testo a forte connotazione ideologica, la nostra Costituzione è ispirata alla visione di un assetto istituzionale capace non solo di rappresentare, ma addirittura di guidare il mutamento sociale sulla base di intransigenti presupposti di uguaglianza e garanzia democratica.

Come ci ha lucidamente raccontato Mario Tronti, nel faticoso, incompiuto cammino in sessantanni di storia repubblicana, l’attuazione della nostra Carta ha conosciuto fasi alterne: a un primo arresto negli anni Cinquanta, è succeduto un periodo di ripresa, negli anni Sessanta, epoca di reale evoluzione sociale del paese. Negli anni Ottanta il nuovo momento di crisi: l’asse del discorso si sposta dalla rappresentanza alla governabilità e parte l’onda del revisionismo costituzionale che nel decennio successivo sfiora la crisi costituzionale, quando al governo arrivano forze anti e post-costituzionali e l’ossessione diviene quella di ridefinire l’assetto dei poteri. Percorso che appare del tutto parallelo allo svolgimento delle vicende urbanistiche italiane del dopoguerra, così come è raccontato in alcuni testi che gli autori della proposta di legge ben conoscono…

Anche alla luce di queste considerazioni, la legge di eddyburg si colloca in assoluta continuità con la nostra Carta Costituzionale, legge di principi anch’essa, nella quale si intendono indicare i fondamenti normativi di strumenti più aggiornati ed efficaci per il perseguimento di diritti vecchi e nuovi. Nell’articolo 4 si parla, appunto, di diritto alla città e all’abitare, quale nuova espressione dell’allargamento della sfera della dignità umana: diritto universale quant’altri mai e mai sufficientemente perseguito (addirittura il testo dell’articolo contiene un’inaspettata- anche se temo inconsapevole – citazione lacaniana in puro stile Zizek, laddove si parla di “godimento” delle risorse del territorio…).

Un’ultima coincidenza, infine, minimale: il giorno prima della presentazione romana è stato pubblicato per i tipi della BUR un piccolo prezioso libretto che contiene le riflessioni, tenute in una serie di lezioni magistrali svolte a Bologna, da parte di alcuni studiosi (Zagrebelsky e Canfora fra gli altri) a partire da alcuni famosissimi testi classici. Tema del ciclo di interventi: la legge sovrana – nomos basileus. Nel suo commento a Tertulliano, Luciano Canfora sottolinea la modernità del testo antico che per la prima volta prefigura l’idea che da nuovi bisogni nascono nuovi diritti, e dai nuovi diritti, nuove leggi. Dal canto suo Gustavo Zagrebelsky, rileggendo uno dei testi canone della nostra civiltà, l’Antigone, cita, fra gli altri, l’Euripide delle Supplici: “quando le leggi sono poste per iscritto, il povero e il ricco hanno pari giustizia, e il debole può ribattere a chi è potente, se viene offeso”.

In fondo, se qualche critico accuserà la legge di eddyburg di ispirarsi a vecchi principi, avrà colto nel segno più di quanto immagini…

Molto ho contestato, al suo autore, l’uso reiterato del termine ‘valore’in uno degli ultimi eddytoriali, ripescando a memoria dalle lucidissime lezioni sulla laicità di Carlo Galli: “chi parla di valori cerca qualcuno a cui rompere la testa. Il termine ‘valore’ è polemogeno”.

Sarà perché nelle ultime settimane è rimbombato con troppa assiduità sulle cronache nazionali soprattutto per le continue esortazioni di un autorevole transtiberino e locali, per la ripresa dell’offensiva sulla legalità da parte di Cofferati, con la quale il nostro sindaco ha finalmente riconquistato le prime pagine nazionali. Nelle ultime settimane, con nuovo vigore dopo i clamori autunnali, ormai ogni giorno si succedono i suoi diktat e si rincorrono amplificati sulle cronache di una città ormai avviata ad un sonnacchioso destino di paesone provinciale a cui non si rassegna. Divieti, sgomberi, chiusure di centri sociali e di nuovo quel vessillo agitato a suggellare un nuovo rinascimento (sic!) urbano: la legalità.

La legalità come valore in sé, dunque: trasversale, nè di destra, nè di sinistra.

La questione, che aveva fatto irruzione nel dibattito politico nazionale alcuni mesi prima delle elezioni, non meriterebbe una ripresa, se non fosse che dietro questo vessillo ideologico si sono accasati settori ormai maggioritari del centro sinistra e la partita in gioco non appare in realtà limitata ai problemi di sicurezza urbana.

Negli episodi bolognesi i poveri, gli emarginati o semplicemente coloro che propongono un uso diverso delle strutture urbane sono colpiti in quanto illegali: di una illegalità palese e a volte provocante che in ampie aree sociali ha creato un consenso diffuso al richiamo alla legalità come valore non discutibile. Anche qui, come in molte situazioni a livello globale, dietro l’apparente neutralità ideale vi è una sostanziale scelta sociale. Che consiste nel tentativo di circoscrizione, di espulsione, in una parola di rimozione, della società marginalizzata. Di quelle figure sociali che Zygmunt Baumann ha definito come gli ‘scarti umani’ prodotti in misura sempre più ampia dalla globalizzazione economica e da un modello di ordine sociale sempre più selettivo. Consegnati (ma non sempre, ma non tutti) alla comprensione della carità, ma di fatto estranei alla rappresentanza politica. Si tratta, qui a Bologna come ormai in tante città del civilissimo Occidente, del tentativo del tutto velleitario, ma tenacemente perseguito, di governare su base locale un fenomeno globale. Con modalità scopertamente repressive, ma non solo: a Bologna come nella maggioranza delle nostre città alcune fasce sociali vengono tagliate fuori dai contatti con la città tramite specifiche politiche immobiliari (la ‘riqualificazione speculativa’, è stata chiamata), ma a Bologna, diversamente che altrove, le zone ‘illegittime’ non sono solo relegate alla periferia. Anche per peculiari caratteristiche urbanistico architettoniche (i portici) e per la presenza di un Ateneo ancora in massima parte collocato intra moenia, il centro della città dapprima esautorato progressivamente dalle funzioni amministrative e abitative è ora invaso, soprattutto in talune aree o periodi del giorno, dall’onda di ritorno della marginalità. E l’unica soluzione proposta dagli organi di governo per opporsi al ‘degrado’ consiste in provvedimenti repressivi, nell’apertura di nuovi esercizi commerciali e nella programmata trasformazione del centro storico in un luna park della cultura, uno degli esempi di quella che Wenders chiamava ‘confetteria urbana’.

Nello stesso orizzonte semantico si collocano d’altronde le ultime notizie riportate con neutralità cronachistica sugli organi di stampa: a Napoli percorsi protetti per i turisti sono stati predisposti dai pubblici amministratori, a ribadire una suddivisione fra la città di serie A, sicura, pulita, ordinata ed esteticamente apprezzabile e una di serie B, dove a chi è costretto ad abitare o a lavorare, tutto può succedere. Si porta qui alle estreme conseguenze un fenomeno al contempo sinistro e velleitario di suddivisione della città in aree privilegiate che già aveva trovato espressione negli episodi della ‘metropolitana per l’arte’ coi quali, attraverso la seduzione puramente visiva dell’arte, il valore del bello, appunto, di fatto si sanciva esteticamente la fine della città, trasformata da spazio per i cittadini a quinta scenografica per i turisti. E in cui il diritto alla sicurezza è garantito solo ad una categoria di cittadini, o meglio di consumatori (e che altro sono i turisti se non i consumisti per eccellenza?).

Davvero le città di quarzo di Mike Davis non sono poi così lontane.

Città dove l’ineguaglianza, insomma, è sancita da chi le governa in nome della legalità.

Senza riprendere posizioni già espresse a suo tempo in questo sito, basti ricordare come qualche mese fa, Gustavo Zagrebelsky così concludeva una autocritica per aver isolato, in un precedente intervento, la legalità nel mondo del diritto positivo: “il primo compito di chi agisce per la Costituzione è per l’appunto di trascendere l’artificio per trasformarlo in forza culturale, vivente nella natura della società”. Il problema non è l’affermazione astratta di un principio (di un valore), ma la costruzione di una pratica capace di adeguare il diritto alla realtà. Così mentre i valori tendono ad essere statici, decisi una volta per tutte, la legge, storicamente determinata, in quanto tale può e deve evolversi perché la legalità aspiri alla legittimità.

Eppure in questa tensione fra legge e diritto vasti settori della così detta sinistra stentano a trovare soluzioni che non siano palliative, quando non apertamente repressive dell’area della marginalità che si va allargando e, ormai troppo spesso, si pongono al contrario al servizio di una legalizzazione progressiva dei meccanismi dell’emarginazione: nelle città come sul lavoro.

In una recentissima intervista alla Stampa, Walter Veltroni ha ribadito la correttezza di impostazione e la necessità della legge Biagi. Talune delle forme contrattuali sancite dalla legge 30, fino a pochi anni fa, erano illegali per uno dei diritti del lavoro più avanzati al mondo: non possiamo più permettercelo, ci viene detto. Con ciò ribadendo non solo l’idea che sia tramontata per sempre l’epoca dello stato sociale, ma con essa anche l’idea che i soggetti collettivi abbiano la capacità di limitare in qualche modo lo sviluppo storico-sociale anonimo e impersonale e di guidarlo nella direzione desiderata.

La flessibilità è un termine ingannevole (come quello della sicurezza): significa prima di tutto inflessibilità del capitale a negoziare e a fare compromessi. Come ci ha insegnato ormai trent’anni fa Richard Sennett, l’uomo flessibile è solo più fragile e meno consapevole, più incapace di rivendicare i propri diritti. Perchè la soluzione proposta, anche in questo caso, sta in un arretramento sul piano dei diritti. E la lotta per i diritti è lastricata di illegalità.

Nelle città, come sul lavoro si sta giocando, adesso, una partita non tanto a favore o contro la legalità, la flessibilità, la sicurezza, la competitività ma per restringere o allargare (mantenere) gli spazi di democrazia reale.

E occorrerà ribadire agli smemorati, impauriti rappresentanti della nostra parte politica che democrazia e liberalismo non sono affatto sistemi equivalenti come acutamente sottolineava, già negli anni ’30, Carl Schmitt poiché la prima è un’ideologia di eguaglianza e l’altro della differenza. Se la sinistra non è solo un modo di osservare il reale ‘ideologicamente’ cioè con falsa coscienza, ma un diverso sguardo sul mondo, il cui obiettivo finale è l’uguaglianza conseguita attraverso il progressivo allargamento della sfera dei diritti, allora questo sguardo è per sua natura fazioso, non neutrale, perché critico. E culturalmente agguerrito, molto più di quello che è accaduto sinora, perché se questa è una prospettiva di lungo periodo bisogna cominciare da adesso non solo ad opporre una resistenza, ma a costruire proposte alternative credibili anche nel breve-medio termine.

Quello che è in ballo è la capacità della nostra rappresentanza politica di affrontare gli sconquassi del mondo e proporre soluzioni diverse.

Anche per quanto riguarda l’urbanistica.

Certo l’alterità del caso europeo, come ribadiva De Lucia in una recente intervista, è evidente rispetto alle forme inquietanti di urbanizzazione, ad esempio del sud–est asiatico, ma se ci limiteremo a tutelare le nostre città con divieti, espulsioni e CPT non faremo che riaffermare la nostra marginalità culturale anche di fronte alla comprensione dei fenomeni urbani (e per che cosa poi, per l’estetica dei nostri centri storici?). Anche l’urbanistica ha bisogno di una nuova stagione di impegno politico se vuole rendere credibile e perseguibile la pratica democratica della pianificazione pubblica come mezzo per il raggiungimento dell’uguaglianza.

Altrimenti all’affermazione che comunque “l’aria delle città rende liberi” si potrà continuare a contrapporre la famosa risposta di Lenin: “Libertà sì, ma per chi? E per fare cosa?”

Pletorico, generico, troppo o troppo poco sbilanciato su certe posizioni: comunque lo si consideri il programma dell’unione è divenuto nelle ultime settimane oggetto di commenti infiniti. Limitatamente allo specifico ambito (i beni culturali) cui è riservata questa nota, non mi annovero fra i detrattori ad oltranza, soprattutto perché preferisco piuttosto una sospensione di giudizio in considerazione del carattere del tutto prevalente di opportunismo elettoralistico che occorre riconoscere al documento e che nell’hinc et nunc della nostra situazione politica era inevitabile. Durante l’elaborazione, consigli e suggerimenti gli estensori del programma ne hanno ricevuti moltissimi, a partire dall’opuscoletto dell’onorevole Melandri (recensito più dell’ultima opera di Saramago).

Fin dalla prima lettura, poi, le critiche hanno preso di mira la genericità dei contenuti, per la verità non particolarmente eclatanti per novità di proposizione (ma non è tempo per coups de théatre e alcune linee guida ben argomentate e ispirate ad una visione complessiva chiaramente delineata, sarebbero state più che sufficienti). Si poteva pretendere di più? Sicuramente, ma è anche vero che c’è tempo per migliorare e proprio in questa direzione e con le cautele sopra richiamate, qualche spunto di lettura per favorire la discussione su eddyburg, proviamo a lanciarlo.

Esercizio di esegesi semiologica prima che semantica, ricollegato all’assunto che una parte del senso si nasconde nel non detto del testo, ovvero, come direbbe Derrida, nei vuoti tra le parole, nei significati sottintesi ai segni, nei silenzi. Ma prima del testo, il contesto. A partire dalla collocazione: in fondo (ma concediamogli il beneficio del “last, but not least” o, più verosimilmente, del ‘beati gli ultimi perchè saranno i primi’...), come a rispettare una gerarchia mentale della politica ormai trasversalmente radicata. A ‘La ricchezza della cultura’ nel suo complesso vengono riservate una decina di paginette, mentre al patrimonio culturale, nello specifico, 3: in tanta sintesi, inevitabili le critiche di lacune e omissioni (e invero per lo meno trascurati, per usare un eufemismo, appaiono interi settori e istituzioni culturali, biblioteche e archivi, tanto per non far nomi).

Rattrista poi la pigrizia intellettuale leggibile nella riproposizione dell’accorpamento beni culturali – spettacolo – sport introdotta da Veltroni e destinata a rimanere, in tutti questi anni, una giustapposizione incapace di apportare alcuna sinergia significativa. E stucchevole per non dire indigesta soprattutto a chi opera nel settore, la retorica del ‘riportare la cultura (genericamente intesa) al centro del quadrante del Paese’ (pag. 269). Che si operi verso un’inversione di tendenza rispetto all’attuale governo è evidentemente più che auspicabile, ma per agire in senso risolutamente alternativo occorrono un chiaro progetto complessivo d’insieme e una definizione altrettanto certa delle risorse da mettere in campo: probabilmente troppo da richiedere ad uno strumento come questo improntato, forse un po’ troppo scopertamente, sull’ottica pubblicitaria del tutto subito e ‘a gratis’. Però il rischio è che se da un lato si rinnega a gran voce la logica mercantilistica dell’equazione ‘beni culturali come petrolio’, dall’altro affermare che ‘la cultura è una fonte unica e irripetibile di sviluppo economico’ e ‘porta evidenti benefici all’industria del tempo libero e del turismo’ (pag. 269) appare tutt’al più un esercizio di eleganza verbale.

Per quanto riguarda la parte introduttiva in ambito culturale, d’altronde, il nesso chiave appare quel ‘distretto culturale’ di troppo evidente conio da ‘distretto produttivo’ per non indurre in cattivi pensieri. E del resto cosa significhi questo new deal della bellezza per citare il testo della Melandri, ce lo spiega molto bene lo stesso ex-ministro: ‘un grande progetto per rendere il tu rismo una carta vincente e unica’ (Panorama, 2 marzo 2006). Concediamo quindi che vi sia, nel nostro schieramento, un ondeggiamento ancora da chiarire fra visione economicista e visione costituzionalista, nel senso ineccepibilmente fornito in una sentenza della Corte Costituzionale (151/1986), laddove non solo si sancisce che il valore estetico culturale non può essere ‘subordinato ad altri valori, ivi compresi quelli economici’, ma addirittura deve poter ‘influire profondamente sull’ordine economico-sociale’.

Intendiamoci, come ci esorta l’ex ministro Melandri, non è il momento di fare gli schizzinosi o i puristi, insomma quelli per cui l’arte è al di fuori di qualsiasi meccanismo economico. E del resto, che il nostro patrimonio sia comunque letto come funzionale allo sviluppo del settore turistico anche dai nostri auspicabilmente futuri governanti, ci pare affermazione di tale scontata evidenza da non poter essere rimessa in discussione: basterebbe però, allora, interrogarsi caso mai su quale modello di turismo si voglia puntare, avendo ben chiaro il lapalissiano assunto che se è il nostro patrimonio culturale e paesaggistico – irriproducibile ed irrisarcibile - il motore primo del nostro successo turistico, il meno che si possa fare è salvaguardarlo al meglio, affinchè frutti il più a lungo possibile.

Al di là di queste considerazioni di sapore amarognolo, però, qualche elemento positivo si può recuperare, a partire dalla chiara volontà di ampliamento delle risorse da mettere in campo, così, ad esempio, viene chiaramente espresso (pag.270) l’obiettivo di ricondurre l’impegno finanziario pubblico al livello previsto per il 2001 e quindi dallo 0,5 all’1% del PIL (un po’ poco per riportare la cultura al centro del quadrante del paese, ma indispensabile per restituire quel minimo di ossigeno a strutture ormai asfittiche). Personalmente trovo largamente positivo anche il reiterato accenno (pag. 272) alla necessità di un superamento della dicotomia tutela / valorizzazione che pare prefigurare una revisione della riforma (mai a sufficienza criticata) del titolo V; in questa direzione pare allinearsi anche l’affermazione che propugna ‘l’estensione delle funzioni di tutela a livello di governi territoriali’. Pur in una formulazione resa ambigua dalla forzata sintesi, viene qui ribadita la volontà di superamento di quella contrapposizione stato-regioni che ha caratterizzato in maniera crescente questi ultimi anni in un contenzioso in cui l’unico vero perdente è sicuramente il nostro patrimonio culturale nel suo complesso. Del tutto opportuno, quindi, il tentativo di impedire il replicarsi paranoico di questo corto-circuito perverso per cui, come ha ben sintetizzato Marco Cammelli (‘Diritto Pubblico’, 1, 2002): lo Stato produce regole senza fatti e le regioni producono fatti senza regole. La collaborazione Stato-Regioni non deve essere letta come un vezzo federalista , ma come una scommessa istituzionale obbligata che va guidata, ‘blindata’ attraverso regole e garanzie di alto livello, anche costringendo le regioni a riassumersi quel ruolo di programmazione e coordinamento che negli ultimi lustri hanno troppo spesso preferito delegare ad altri enti locali.

Altrettanto positivamente non può che essere accolto il ritorno al concetto di ‘conservazione preventiva e programmata’ (pag. 272) teorizzato da Giovanni Urbani in anni passati, ma di inalterata attualità.

Per concludere con lo spirito construens che caratterizza eddyburg, provo a mia volta a suggerire alcune indicazioni per il programma che verrà (quello vero), senza pretese di straordinaria invenzione; d’altronde alcuni imprescindibili passaggi sono ormai stati reiterati, da studiosi e operatori del settore, fino alla noia, nella discussione che, pur in maniera frastagliata e disomogenea, si è venuta a creare in tutti questi mesi e che, in questo ambito, ha trovato (complice l’elaborazione prima e gli emendamenti poi al nuovo Codice) nuovo vigore e ricchezza di voci e posizioni (v., per una prima rassegna, www.patrimoniosos.it).

In generale l’asse principale cui vorremmo ispirata la politica culturale del centro-sinistra dovrebbe essere l’erogazione di servizi culturali al cittadino senza fini di lucro perché di interesse pubblico, che incentivino la partecipazione sociale e in grado di ottenere fra le maggiori ricadute positive, oltre a quelle economiche connesse all’attività turistica, altre di non minore importanza sociale, quali il ‘controllo’ della disoccupazione giovanile e dell’esproprio della città ai cittadini.

In questa direzione, prima operazione fra tutte, sarà quella mirata al riequilibrio delle risorse del Ministero, snellendo un centro scarsamente giustificabile nelle sue articolazioni bizantine e potenziando il più possibile strutture e attività sul territorio, anche conferendo ad esse forme di autonomia organizzativa e contabile (a tali fini non trovo inutili, anche se da ripensare, le direzioni regionali, al contrario vivacemente criticate da molta parte della sinistra con motivazioni, a mio parere, non inoppugnabili).

Occorrerà poi imparare a fare delle gerarchie, dei programmi in cui le priorità, condivise fra più attori, siano però chiarissime su tutto il territorio e regione per regione. Uno dei problemi che hanno caratterizzato questi ultimi anni di gestione del patrimonio, dilatato a dismisura dall’ipertrofia che ha conosciuto il corpo centrale del Ministero e le sue direzioni consiste proprio nel rincorrersi, duplicarsi, sovrapporsi di progetti e ricerche del tutto simili per ambito tematico e per finalità, reiterati dalle varie direzioni, spesso in contrapposizione fra di loro e con sperpero di tempi e risorse non più accettabile. Così, sul piano di un allargamento delle risorse, come ha più volte ribadito in particolare, Salvatore Settis (da ultimo in Battaglie senza eroi. I beni culturali tra istituzioni e profitto, Electa, 2005, passim) si dovranno introdurre non più in maniera episodica, ma sistematica, provvedimenti di defiscalizzazione che incentivino le donazioni, mentre assai opportuna potrebbe risultare una revisione della normativa sulle fondazioni bancarie.

Grandi assenti del programma risultano i musei. Fra i più numerosi sul territorio in Europa e nel mondo, fra i meno visitati, fra i meno fruibili, i nostri musei, nella grande maggioranza, non esprimono una visione chiara e palese della propria missione culturale, né della politica culturale che intendono perseguire; mentre note a tutti risultano le scarse capacità progettuali della media delle nostre istituzioni museali. Ora di fronte alla tendenza sempre più dilagante di un loro utilizzo strumentale che, in contrasto con la risaputa scarsità di risorse, tende a sollecitare nuove aperture e faraonici progetti, bisognerà porsi seriamente il problema della funzione culturale e sociale dei nostri musei nel tempo: che senso ha ostinarsi nell’apertura di strutture destinate, in breve volgere d’anni, all’abbandono? Meglio concentrarsi su ciò che può essere recuperato per divenire un servizio (ai cittadini, oltre che ai turisti…), puntando a sistemi più efficaci proprio sul piano culturale prima che economico (nessuna istituzione museale, in nessuna parte del mondo, è in grado di sostenersi esclusivamente con i propri introiti).

Infine, perché davvero, come recita il programma dell’unione, ‘la rinascita culturale divenga strategia per la crescita’ rimane ancora non solo da vincere, ma da combattere la prima di tutte le battaglie: in uno degli ultimi rapporti Censis sull’industria culturale la situazione italiana era così descritta: “i bisogni culturali stentano a trovare una cittadinanza anche a livello istituzionale (…) la soddisfazione dei bisogni culturali primari è demandata alle agenzie educative e scolastiche ma, al di fuori di tale ambito di diritto e di dovere (…), la cultura resta un bisogno privato, soggettivo, quasi voluttuario, senza alcun valore collettivo, un valore esterno all’area della responsabilità sociale”. In più occasioni il nostro Presidente della Repubblica ad esemplare commento dell’articolo 9 della Costituzione, oltre a sottolinearne il carattere assolutamente innovativo rispetto ad altre Costituzioni, ne ha ribadito il ruolo di principio fondamentale della nostra comunità, segnalando, con grande incisività, che ‘la tutela, dunque, dev’essere concepita non in senso di passiva protezione, ma in senso attivo e cioè in funzione della cultura dei cittadini, deve rendere questo patrimonio fruibile a tutti’ (discorso ai benemeriti della Repubblica, 5 maggio 2003).

In questa direzione il lavoro da fare è immenso e appare come una sfida per affrontare la quale serviranno strumenti non comuni. Così, se da un lato occorre acquisire, a partire dal livello politico, una logica della manutenzione continua, imprescindibile base sulla quale fondare tutto il resto occorrerà, però, anche il coraggio di affrontare grandi operazioni culturali. In questo senso non mi ritrovo fra i detrattori (assolutamente prevalenti a sinistra) della società ARCUS: come del resto il programma dell’Unione segnala (pagg. 270 e 273), questo organismo va del tutto riorganizzato, ma un’agenzia che sia in grande di sovrintendere ad opere e progetti di particolare interesse e complessità sul territorio nazionale può avere un’utilità non marginale.

Un esempio a caso? Il progetto fori, buco nero dell’urbanistica capitolina (v. per tutti, su eddyburg, De Lucia) come operazione di rilancio dell’area archeologica forse più famosa al mondo e come volano straordinario di ripensamento della forma non solo urbis ma civitatis.

Un altro Natale è appena trascorso. Da qualche anno non appartengo più alla schiera sempre più folta e depressa dei suoi denigratori. Certo non ne disconosco alcuni caratteri deleteri che ha accentuato a partire dagli ultimi lustri, assumendo sempre più il tono di sagra della retorica intimista e forzata anestesia collettiva e coniugandolo alla frenesia dei consumi. Nei giorni scorsi, come ormai scontato, lo schermo televisivo ci ha bombardato di immagini vicarie di armonie parentali ribadendo il successo ormai dilagante della carol philosophy di importazione d’oltre manica. Al contrario, nell’artefatto binomio Natale-famiglia, il rinnovarsi implacabile della festa si scontra in modo sempre più violento con l’altrettanto implacabile tramonto della famiglia tradizionale, finendo soprattutto con il materializzare i fantasmi e i fallimenti di quest’ultima (esemplare, dal punto di vista iconico, la sequenza del party natalizio inserita dall’ultimo spietato Kubrik di Eyes Wide Shut).

Certo tutto questo e altro ancora, e quindi soprattutto, come scriveva Sherwood Anderson, ‘banco di prova per la capacità di uomini e donne di vivere insieme’. Appunto: tanto vale provarci al meglio.

Del Natale, nel tempo, ho rivalutato alcuni riti, riconoscendo loro soprattutto quel valore propiziatorio di cui tutti noi, in fondo, continuiamo pur sempre ad avere bisogno. I presepi e gli alberi di casa Guermandi si arricchiscono e si complicano di anno in anno (come le nostre vite); da ogni viaggio ciascuno di noi riporta, per implicito compito, qualcosa da appendere all’albero del prossimo Natale, quasi a riassunto dell’anno trascorso. E provo una piacevole, divertita sensazione di familiarità preparando per la loro recita, il 13 dicembre, gli autistici attori del mio presepe, sempre più anarchico per dimensioni, materiali, scuole artigiane (da Betlemme ad Innsbruck, via Napoli).

E poi, amo fare i regali (non solo a Natale, per la verità), e anche se so in partenza che saranno ‘doni a perdere’, senza contropartita. Come sfida dello spirito nel riconoscimento dell’altro, dei suoi desideri, per il piacere dello stupore che leggo negli occhi al momento dello svelamento, come segnale di interesse, di complicità, di affinità, ammiccamento a voglie (o paure) nascoste, ma intuite, come carezza materiale e signum di me, lontana, all’altro.

Riti ancestrali, questi, di paganissima genesi, creati da un’umanità impaurita e succube di fronte al mistero della natura (ma lo tsunami di un anno fa ci ha di colpo ripiegati nello stesso ruolo), per immunizzare i fantasmi del buio e della morte evocati dalle lunghe notti del solstizio invernale: e cos’altro è il Natale - una nascita nel pieno dell’inverno -se non la più folle e irrazionale delle sfide alla morte.

E riti propiziatori, dicevo, che introducono, in modo più favorevole e indulgente, alle meditazioni e ai bilanci di fine anno. Con questo spirito, appunto, provo a raccogliere per eddyburg, in poche righe e molte lacune, alcune considerazioni a commento, parzialissimo e arruffato, di luci ed ombre che come sempre hanno caratterizzato l’anno trascorso e di promesse e dubbi che, come sempre, accompagnano il prossimo che subentra. A livello nazionale le promesse di un cambiamento politico appaiono fondate. Forse non altrettanto la certezza che tale cambiamento dia avvio ad una mutazione profonda, perseguita con radicalità di intenti, solidità d’impianto, ampiezza di visione e strategia di largo respiro. Chè tali elementi e niente di meno richiedono le sfide che ci attendono e che ci ha consegnato, insolute e semmai incancrenite, l’anno appena concluso. Questo tempo appare segnato ancora dai perduranti effetti della catastrofe dell’equilibrio precedente, coi motivi emergenti della biopolitica, del declino quasi inarrestabile degli stati nazionali, del conflitto di classe, delle strutture storiche della rappresentanza che paiono prefigurare un destino triste delle democrazie in un’epoca di disincanto svuotata di passioni.

In Italia, questo governo e il berlusconismo qualche duro colpo l’hanno pur ricevuto a partire dalle urne regionali, ma la lotta sul piano delle regole, dei contenuti, della comunicazione politica è ancora apertissima e al centrosinistra toccherà, semmai, la gestione di una situazione difficile, compromessa, alla quale non si potrà rimediare con semplici misure legislative (che pure occorrono) poiché troppe delle disposizioni varate in questa legislatura (la Bossi-Fini, la Biagi) hanno già modificato la costituzione materiale e formale del paese. E la lotta contro la riforma della nostra Costituzione sarà una delle prime da sostenere, ripartendo, come 60 anni fa, dalla Carta di tutti. Non si tratta, però, solo di procedere all’azzeramento di una riforma subito apparsa come ‘perversa miscela di autoritarismo e caos’ (Ida Dentamaro), perché è forse auspicabile che, per taluni aspetti, si provino a riscrivere, quando inadeguati, i contorni delle norme e a spostare i confini della legalità (detto con veleno felsineo) e degli equilibri sociali che essa crea.

Gli elementi positivi non mancano: la vittoria di Vendola, quella, seppur in cammino, di Rita Borsellino, le battaglie spesso vittoriose di Soru in Sardegna, il popolo composto e motivatissimo quant’altri mai delle primarie del 16 ottobre sono traguardi di ottimismo sui quali costruire. Praticamente affossata la Lupi più per oggettività del calendario che per insorgere delle coscienze politiche (ma eddyburg qualche sassolino negli ingranaggi del meccanismo si può vantare di averlo infilato), anche se sul piano del governo del territorio se è quasi vinta una battaglia, la guerra è ancora tutta da combattere. A partire dallo stravolgimento operato dalla legge di delega ambientale, passando per il Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio nelle sue evoluzioni e involuzioni. Grande attenzione e sforzo di analisi dovrà essere perciò posto (da eddyburg, in primis) soprattutto ai meccanismi che l’interrelazione di questi dispositivi legislativi e altri ancora (a partire dalla finanziaria) giustapponendosi l’uno all’altro, contraddicendosi e creando spazi di ambiguità e arretramento normativo possono innescare.

La questione della casa, inesistente fino a pochi mesi fa nelle agende politiche e nelle ribalte mediatiche, è esplosa in tutta la sua violenza tanto da essere inserita nei leit-motiv del nostro demagogo principe, ma soprattutto (speriamo durevolmente) nei ponderosi programmi del centro sinistra. Qualche osservazione critica nei confronti di questi recenti, dottissimi documenti sfornati nelle ultime settimane da autorevolissimi think tanks all’uopo costituiti dalle molte anime del centro-sinistra, magari si potrà tentare: su gran parte di quello che dicono come non essere d’accordo, per lo più? Largamente condivisibili le analisi, più scivolosamente vaghe le soluzioni proposte. Per ora solo una nota marginale, più da feticista del linguaggio che da cittadino politicamente scafato: carattere comune di questi testi è l’attenzione quasi spasmodica alle ‘infrastrutture’ che però, etimologicamente parlando, dovrebbero costituire il di sotto, l’accanto, il dopo, di una struttura sovrastante e altra il cui disegno, a tutt’oggi, appare ancora piuttosto incompleto. Anche in questa direzione di critica e pungolo nei confronti dei nostri rappresentanti molto ci sarà da fare, da domani, per costringerli a promesse ed asserzioni non ambigue pur se su pochi irrinunciabili snodi.

Avvolto da veleni e strascichi, ma necessario, si è profilato, in questo scorcio d’anno, il crollo inglorioso, come di un castello di carte mal costruito, delle imprese e dei progetti dei ‘furbetti del quartierino’. Così vincenti ed inarrestabili nelle cronache estive e ora confinati nel ruolo di pessimi attori di una pochade di serie B che sta scoperchiando, fra le altre miserie, le ipocrisie della sinistra perbene e della sua voglia troppo frettolosa di partecipare al salotto buono dei poteri forti e che forti sono, almeno per quello che riguarda il panorama italiano, solo in relazione alla debolezza altrui, del nostro sgangherato sistema di garanzie e delle smagliature evidenti del tessuto democratico.

Infine la battaglia del popolo NO-TAV è riuscita a trasformarsi, nelle ultime settimane, da localistica querelle da annoverare fra i soprassalti della sindrome NIMBY a emblema di una lotta contro l’arroganza di uno sviluppo privo di accreditamento teorico non solo dal punto di vista ambientale, ma anche, in questo caso, strettamente economico. Ancor più dei risultati operativi raggiunti (sospensione dei lavori, programmazione della VIA, ecc.), straordinario mi pare proprio questo ribaltamento provocato nella nostra percezione della questione, ottenuto certo con le armi della tenacia, della coesione di un gruppo, ma soprattutto attraverso l’acquisizione democraticamente allargata e la comunicazione efficace di una conoscenza approfondita e quindi di una cultura vera e propria nei confronti dei problemi dibattuti.

Traversando il Tevere, invece, ciò che è successo nello scorso anno, non incoraggia a sperare: la più longeva e sicuramente una delle più lungimiranti diplomazie politiche del mondo, con le decisioni del conclave, si è rifugiata in una scelta di difesa, al grido di ‘serrate i ranghi’, e in questi mesi ha perfezionato, man mano, questo atteggiamento rinunciatario e difensivo nei confronti di qualsiasi apertura al diverso, all’altro: cittadella sempre più asserragliata nella difesa delle proprie posizioni, contro e non accanto, i non cristiani, i barbari. Le ingerenze sempre più articolate e frequenti nel dibattito politico italiano, non sono, in fondo, che l’altro lato della medaglia di una auctoritas tanto più virulenta, quanto più limitata a giocare nel cortile di casa. Interpreto questa involuzione come un signum veramente funesto: non riesco a rallegrarmene come di un segnale propizio, a medio-lungo termine, ad un allargamento dello spazio laico (ma ben venga quest’ultimo come antidoto ai recenti, impropri sbracamenti misticheggianti di tanti dei nostri rappresentanti politici). Perchè anche noi laici – atei e non – continuiamo ad avere bisogno del numero più ampio possibile di compagni di strada per le molte battaglie che ci attendono: prima fra tutte, quella della decostruzione dell’unico modello rimasto, che, come ci ostiniamo a credere, non è l’unico possibile, ma solo quello che la nostra mediocrità è stata sinora in grado di permettere.

In Europa appaiono inevitabilmente destinate a riproporsi le esplosioni di rabbia metropolitana: frettolosamente archiviate, dai più, come jacqueries ‘impolitiche’ (ma ogni rivolta è ‘politica’ in quanto cerca di rompere una condizione sociale di oppressione), esse rimandano, in primo luogo, ai conti mai pagati del colonialismo e postcolonialismo, origine prima, anche se non esclusiva, dei conflitti che caratterizzano le nostre società multiculturali. In questa direzione il cammino della comunità europea appare del tutto incerto. Ancora da interpretare il trauma delle bocciature alla Costituzione: tentativo troppo algido e meccanico di costruzione di una nuova entità sovrastatuale e nata già inadeguata rispetto agli scenari odierni. Anche su questo fronte le battaglie che ci vedranno impegnati iniziano da domani, prima fra tutte, quella contro la direttiva Bolkestein con la quale si cerca di rinchiudere l’agire collettivo dei lavoratori nelle gabbie di ferro dei diritti nazionali, che si tratti di diritti sindacali o di sciopero. Ma anche e soprattutto per il rilancio di una concezione di comunità basata su un’idea di cittadinanza inclusiva e non su valori “originari” e tradizionalisti; per la costruzione di un’Europa aperta alla differenza invece che arroccata sull’identità e che assuma la diplomazia infinita come metodo di confronto sullo scenario mondiale.

Sul piano internazionale, alle ancora troppo numerose crisi umanitarie quasi sempre determinate da situazioni di conflitto endemico in Africa, in Asia e che ci parlano di una situazione di catastrofe sempre più vicina e come sempre negletta quando non incentivata, nelle sue cause, dalle logiche del mondo occidentale, poco di positivo si può davvero credibilmente contrapporre. Ancora misconosciuto, per larga parte, ma vagamente minaccioso, continua ad essere il continente cinese: laboratorio (forse incubo) anche sul piano urbanistico, museografico, della politica culturale. Lontanissima appare, infine, la prosopopea dei portatori di civiltà che ispirava le cronache di un anno fa e va riprendendo fiato e logica il dissenso interno al popolo statunitense, acuito a dismisura dopo l’incresciosa gestione del disastro di New Orléans. Di qualche giorno fa è l’ammissione del comandante in capo delle truppe americane in Iraq: “Qui non vedono l’ora che ce ne andiamo”: pietra tombale tardiva, ma definitiva sulla spazzatura mediatica che ha retto il gioco della volontà di dominio dell’amministrazione U.S.A., della sua brutalità e della sua approssimazione.

Di tutto questo e di molto altro ancora eddyburg è stato osservatore attento e schieratissimo - comme d’habitude – e, in qualche caso, attore, come è immediatamente percepibile a chi riavvolga il ‘nastro’ dei documenti pubblicati nella colonna centrale (centinaia solo in quest’ultimo anno). Quello trascorso è stato un anno importante per eddyburg: si è costituita una redazione (un po’ discontinua per impegno, forse, ma è lo scotto da pagare al volontariato), e attorno sta crescendo l’Associazione degli Amici di Eddyburg. È stata varata la nuova versione del sito, frutto di animate discussioni, più ricca, più razionale, più fruibile (ci auguriamo). E, impresa di non scarso impegno organizzativo, si è tenuta la scuola estiva di eddyburg in Val di Cornia. A eddyburg e ai suoi materiali on-line si rifanno alcune pubblicazioni a stampa quali il testo sulla Controriforma urbanistica e il volume di Lodo Meneghetti. Tante le campagne promosse e sostenute e le iniziative organizzate in giro per l’Italia. Insomma il ‘drappello di urbanisti in solitaria rivolta’ e i loro sodali hanno provocato più di un frisson al dibattito politico in generale e ad una sonnacchiosa quando non indulgente opposizione: come ci ha insegnato Rossana Rossanda ‘affilare la ragione, invece che le spade, resta il nostro mestiere’.

Idee e progetti non mancano e molto si potrebbe ancora fare sul piano di una migliore comunicazione e trasmissione dei contenuti del sito stesso, costruendo per i nostri lettori e amici, una rete di connessioni e rimandi che consentano di sfruttare meglio la vocazione cooperativa dell’ipertesto elettronico e ne dilatino, come direbbe Barthes, le aperture di senso. Anche per questo indispensabili, più che utili, sono i consigli, le critiche, i commenti in genere della comunità che si riconosce attorno ad eddyburg e alle sue battaglie.Uno dei risultati più importanti di questo progetto è forse proprio da leggere nella costituzione di questa comunità reale e virtuale (ma vitalissima pur nei suoi sfuggenti contorni), comunità schieratissima e che pur nella sostanziale condivisione degli elementi di fondo conosce anche contrasti come in ogni relazione vitale.

Artefice assolutamente prioritario (siamo ai ringraziamenti di fine recita…) di ciò che eddyburg è stato anche quest’anno ed ha rappresentato per questa comunità è, nel nostro caso più che mai, il suo direttore. I primi auguri vanno a lui, a eddy e alla sua costante ed inesausta voglia di continuare ad esserci, a discutere, testimoniare, documentare, alla sua capacità di indignarsi, ma anche di stupirsi, propria di chi è giovane nel cuore e grande nel cervello, alla sua saggezza così poco noiosa perchè conquista dell’intelligenza e non acquietarsi anagrafico, e, perché no, alla sua vanità così temperata dall’autoironia (e così giustificata nei contenuti).

Fra gli ultimi e beneauguranti eventi del 2005 vi è stata la nuova sistemazione, all’interno di uno spazio finalmente adeguato per dimensioni e luminosità, della statua di Marco Aurelio, nell’hortus romano riallestito ad ampliamento dei Musei Capitolini. Il 22 dicembre, entrando nell’esedra vetrata che la ospita, comune a tutti noi è stata la meraviglia, il compiacimento per il ritrovarci di fronte a tanta bellezza, così conosciuta eppure nuovamente riconosciuta con autentica emozione. L’imperatore era là, nella sua majestas irraggiungibile, ma completamente addolcita da una serenitas della quale vorremmo che ci facesse partecipi, almeno ad intermittenze. Con un velo di ironia (ma neanche tanta) e con molto affetto, dedico al Marco Aurelio di eddyburg questa opinione auspicabilmente porte-bonheur.

E, subito dopo, a tutti noi, ai nostri furori, alle nostre passioni, alle nostre speranze.

“La speranza ha due bellissimi figli: sdegno per le cose come sono, coraggio per cambiarle”. Sant’Agostino.

Prosit!

Lunedì scorso, 24 ottobre, i fantasmi di una stagione bruciata in fretta e troppo in fretta sepolta sotto il tappeto dell’indifferenza cittadina e della sua voglia di tranquillità, si sono nuovamente affacciati sul crescentone di Piazza Maggiore, qui a Bologna. Il movimento del ’77, tuttora incompreso nella sua genesi e nei bisogni che esprimeva, è stato, in realtà, un preludio straordinariamente anticipatore - e molto più creativo - degli attuali movimenti (dai disobbedienti ai no-global).Gli indiani metropolitani hanno capito prima di tutti e anticipato essi stessi alcune trasformazioni delle società e della politica italiana: l’irrompere dei media nella comunicazione politica, divenuta essa stessa politica tout court e il conseguente sgretolarsi della pratica politica come esercizio della rappresentanza. Non credo che il parallelo possa essere condotto oltre la prima suggestione, ma quello che non avevamo capito allora, illudendoci troppo in fretta di poterlo semplicemente rimuovere e archiviare come un grumo di episodi contingenti, circoscrivibili e irrazionali, sta riemergendo adesso seppur in altre forme e in altri contesti e chiede udienza.

Lunedì in piazza si è consumato forse il culmine di una crisi che la città sta vivendo da mesi. Da prima dell’estate pende, sulla sinistra radicale in primis, la minaccia di un ordine del giorno sulla legalità imposto dal sindaco per sbaragliare qualsiasi tipo di opposizione interna alla maggioranza su alcune delle ultime decisioni assunte, spesso in assoluta solitudine, in materia di ordine pubblico. I controlli contro i lavavetri e le ruspe mandate a demolire le baracche dei nomadi accampati lungo il Reno, sono gli ultimi e più eclatanti episodi che hanno sollevato forti perplessità e critiche aperte oltre che nella sinistra radicale , anche in parte del mondo cattolico. Da molti, troppi mesi, la città vive un braccio di ferro e una polemica strisciante deflagrata in maniera dirompente negli scontri di piazza, con la polizia chiamata a difesa del palazzo.Ci è stato spiegato, dagli uffici stampa, che i clandestini, gli immigrati senza permesso, venivano colpiti per snidare le sacche di lavoro nero e le pratiche di caporalato di cui costituiscono bacino di raccolta primario e, in parallelo, i lavavetri multati per combattere il racket che li controlla: terapia d’urto contro i sintomi quando le cause si sanno altrove e per certo non saranno neanche scalfite da provvedimenti similari. ‘Difesa dei più deboli attraverso la repressione’ …degli stessi deboli, quindi.

Ma la parola d’ordine che da mesi attraversa la città e nelle ultime settimane rimbomba dilatata ed ossessiva su tv e organi di stampa tutti è: ‘legalità’. L’emergenza prima cittadina è quindi divenuta quella del ripristino della legalità e delle regole che, ohibò, tutti devono rispettare. Ho così scoperto, quasi all’improvviso, che vivevo, a mia insaputa, nel Bronx e per fortuna, però, era arrivato Rudy Giuliani a intimare ‘tolleranza zero’. Eppure Bologna, checchè ne dicano Pierferdinando Casini e Michele Serra non è la ‘capitale italiana del disordine pubblico’ (Serra, la Repubblica, 23/10/2005, p. 28). Soffre, come qualsiasi altra città medio-piccola di fenomeni di microcriminalità, ma ancor più di un disagio sociale forse acuito dal vedersi improvvisamente scoperta e messa a nudo in uno degli stereotipi che ne hanno fatto in passato un modello: Bologna città accogliente e ospitale non lo è più da tempo, se mai lo è stata fino in fondo e le ricette del passato – buona amministrazione e servizi – non bastano più a fronteggiare fenomeni nuovi per accelerazione e profondità d’impatto.

Il sindaco ha dalla sua parte tutta l’imprenditoria, la borghesia professionale, i commercianti compatti, oltre che, dal punto di vista politico, la sinistra perbene locale e nazionale, come di consueto alla perenne ricerca del lasciapassare per il salotto buono del potere, per ottenere il quale è capace di assumere posizioni più realiste del re e di macerarsi in autocritiche di sapore masochistico. Non a caso la vicenda bolognese è vista da più parti come speculare rispetto a quella nazionale che interessa il rapporto fra sinistra di governo e sinistra radicale. Elemento comune delle critiche, invece, consiste nel rilevare soprattutto l’intrinseca debolezza, dal punto di vista sociale, di un concetto, quello della legalità, se assunto come rigido stendardo ideologico e scisso dalla pratica della solidarietà che peraltro caratterizza da sempre la compagine cittadina. Da più parti è stata richiamata, come valore civico fondante, quella filosofia pragmaticamente esercitata, in vivo, da mio nonno Augusto che, di fronte ai parenti profughi che, nell’immediato dopoguerra, si accalcavano nel cortile della fattoria, tacitava la preoccupazione delle donne di casa sentenziando che in una famiglia i problemi ci sono quando si diminuisce, non quando si cresce. Bologna non è più da molto tempo un’accogliente grande famiglia, non può esserlo neanche volendo e lo spirito di solidarietà seppur indispensabile, non basta. I problemi di crescita ci sono, enormi, soprattutto perché i mezzi che abbiamo per fronteggiarli sono scarsi economicamente e risibili dal punto di vista culturale; le pratiche dell’inclusione sono ancora affidate esclusivamente al volontariato di pochi.

Eppure i sondaggi di questi ultimi giorni decretano all’operato del sindaco un consenso quasi bulgaro…che ci sta succedendo? Ad un’analisi non ideologicamente appannata non stupisce affatto che il nuovo corso law and order del sindaco sia così apprezzato anche dalle fasce popolari: le nuove povertà che si affacciano e l’incertezza verso un futuro ragionevolmente dignitoso espongono settori sempre più ampi di popolazione ad inconsuete fragilità comportamentali e ideologiche, scatenando meccanismi anche inconsci di egoismo sociale. La ricerca della sicurezza diventa un obiettivo prioritario, perseguibile anche a costo di danneggiare altre categorie sociali. Siamo più poveri e quindi più insicuri. Ma una politica che si adegua al sentimento popolare e rinuncia a governarlo, a renderlo più consapevole, non si avvicina pericolosamente ai concetti di populismo e demagogia? E gli stessi sondaggi ‘volanti’ così sapientemente pubblicizzati in queste ore, non erano la prerogativa di Berlusconi? E non l’avevamo sempre accusato di riferirsi e solleticare la ‘pancia’ dell’opinione popolare, per questo? Il nodo del problema (uno dei tanti) è che, se è vero, così come ha ammesso lo stesso questore, che i nostri problemi sono ancora governabili, la soglia della tollerabilità civica si è abbassata a dismisura e percepiamo come pericolosi e intollerabili fenomeni che in altri contesti sono giudicati entro i limiti del fisiologico.

Anche volendo ammettere che questi limiti siano, a volte, superati, la risposta che finora il governo cittadino, o meglio il suo governatore quasi monocratico, sta dando è sbagliata nei fini e nei mezzi. Prima di tutto perché ipocrita e distorta; se la legalità deve essere un fine per l’ottenimento della giustizia deve obbligatoriamente essere perseguita in ogni direzione e contro ogni infrazione delle regole. Perché quindi non agire finalmente e da subito contro le migliaia di locazioni in nero attraverso cui parte della città prospera da anni alle spalle degli studenti universitari, vampirizzando invece di coinvolgere nel proprio tessuto, una delle risorse culturalmente più preziose (su una popolazione di circa 370.000 abitanti, gli iscritti all’Alma Mater sono poco meno di 90.000). E perché non intervenire contro le mille, continue infrazioni tollerate (e da ieri parzialmente riammesse ufficialmente su pressione dei commercianti, la più potente lobby cittadina) alle limitazioni della circolazione, o contro lo spaccio che degrada intere aree del centro storico? Perché il pugno di ferro solo in una direzione? Esistono quindi trasgressori di serie A e trasgressori di serie B…o meglio trasgressori che votano e quelli che non votano?

Alla città perfetta, chiusa contro il mondo entro le mura del suo benessere e dei suoi riti, non torneremo mai più, né a Bologna, né altrove. Le nostre città sono cambiate. Nelle maglie allargate e sfrangiate delle nostre periferie tristi e negli spazi degradati dei nostri quartieri si è installata questa umanità impoverita e resa insicura che costituisce l’area, quanto mai variegata, del precariato sociale. Nei centri spopolati di notte perché vi abbiamo espulso gli abitanti per far spazio ad attività più redditizie, scorazzano bande multietniche che si prendono una miserevole rivincita rivendicando, nelle ore del buio, un possesso del territorio che è loro precluso negli altri momenti. Si tratta di quella schiuma del mondo che il Mediterraneo deposita ad ondate maleodoranti sulle nostre spiagge e che va ad ingrossare la massa senza volto di quelle ‘sfuggenti figure sociali’ cui Sandro Medici a Roma, ha cercato di dare tutt’altra risposta. Quindi un’altra strada è possibile, anche se al momento è, appunto, perseguita come illegale. Illegale era anche Rosa Parks, deceduta pochi giorni fa, quando su un tram di Montgomery, esattamente 50 anni fa, si sedeva sui sedili destinati ai bianchi e finiva in carcere per essersi rifiutata di tornare al suo posto, in fondo. Eppure in queste ore è celebrata come un’eroina della conquista dei diritti umani. Un’altra risposta dobbiamo cercarla appunto attraverso politiche e pratiche sociali alternative che già qualcuno, come a Roma , sta coraggiosamente sperimentando. E attraverso innovazioni culturali che finalmente si accorgano e cerchino di interpretare quello che sta succedendo non nel sud del mondo, ma dietro i nostri cortili. Dobbiamo pretendere tutti, da subito, che si lavori perché le politiche dei migranti siano ripensate a livello europeo, non solo e anzi soprattutto non, come politiche di repressione e contenimento. Domenica 16 ottobre ho partecipato alle primarie come volontaria dell’Unione: mi aspetto delle risposte a partire già dai prossimi giorni all’interno di quel programma del centrosinistra che non potrà non prendere in considerazione queste nuove emergenze sociali (la casa, le nuove povertà, le politiche verso i migranti) affinchè dal 2006 si possa costruire non un’alternanza, ma un’alternativa.

Un’ultima considerazione: in piazza, lunedì, non c’erano tanto i rumeni delle baracche, ma gli studenti strozzati dagli affitti in nero, non i lavavetri, ma i disobbedienti, occupanti di case sfitte sottoposti, da qualche mese a questa parte, a una pressione costante da parte delle forze dell’ordine. Sineddoche della massa di coloro che appartengono alla sfera sempre più ampia, sempre più composita, del disagio sociale, queste persone hanno manifestato per tutti, anche per noi. Dobbiamo loro delle risposte un po’ più articolate ed efficaci di quelle sinora imposte più che proposte.

Altrimenti, alla fine, i fantasmi del ’77 ritorneranno a gridarci in faccia il loro slogan: una risata vi seppellirà.

Bologna, 28 ottobre 2005

Se avessi letto Galli della Loggia, probabilmente avrei fischiato anch’io, ieri, in piazza. Il 2 agosto per noi di Bologna è un rito doloroso che si rinnova con la stessa intensità anno dopo anno: per moltissimi bolognesi “le ferie” finiscono o iniziano prima o dopo il 2 agosto, perché in quel giorno abbiamo un appuntamento fisso con la memoria, qui, alla stazione. Altri anniversari pur altrettanto dolorosi e più recenti, come ad esempio la strage del Pilastro della uno bianca, non occupano nella gerarchia non scritta dei nostri sentimenti civici, lo stesso posto.

E anche a livello nazionale la strage della stazione di Bologna (la più sanguinosa in Europa prima del massacro di Madrid dell’11 marzo 2004) segna l’apice e per fortuna il finale di una stagione denominata non a caso “anni di piombo”, iniziata con piazza Fontana: la perdita d’innocenza del ’68. E in qualche modo, questo ruolo di ‘snodo’ cruciale rappresentato dalla strage del 2 agosto, qui, a Bologna, l’abbiamo sentito subito ed interpretato negli anni: nella commemorazione alla stazione era come se si assommassero le commemorazioni di tutte le altre stragi che hanno insanguinato un periodo nel quale si contano più di 1000 morti e feriti per terrorismo e quasi 15.000 atti di violenza con danni alle persone. “Piccola, grande ecatombe” l’ha definita Piero Ignazi in un suo recente studio sulla rivista del Mulino intitolato “Gli anni Settanta e la memoria monca”. Proprio a questo tentativo di menomazione della memoria ci siamo sempre ribellati, da quella piazza, per tutti, quello di ‘sistemare’ una incredibile sequenza storica di violenze, misteri, depistaggi, connessioni mai chiarite, segreti di Stato e di fatto, vicende giudiziarie surreali, con l’individuazione sporadica di alcuni esecutori materiali. Totalmente impunito è, a 35 anni di distanza, l’incipit, tenebrosissimo, di questa storia: la strage di Piazza Fontana, così Ustica e altri; foschissime nubi si addensano sulle troppo frettolose verità di quasi tutti gli altri episodi, a partire dal caso Moro per finire appunto con Bologna, a proposito della quale gli ultimi veleni distillati in tempi recentissimi da un ex Presidente della Repubblica a proposito di piste mediorientali, si assommano a ricostruzioni di ben altra parte e da anni ben poco allineate alle verità ufficiali (v. per tutti l’articolo di Andrea Colombo, il manifesto, 03/08/2005).

Eppure, secondo il celebre opinionista del nostro quotidiano principe quella piazza di così plateale ‘ineducazione politica’ (sic) dovrebbe finalmente rassegnarsi ad accettare che il passato vada ‘accolto nella memoria per ciò che esso è stato, e dunque anche con tutte le sue oscurità, le sue ambiguità, le sue contraddizioni’. I fischi di ieri sono quindi sintomo irrefutabile di ‘primitivismo ideologico plebeo’ e su essi, quasi esclusivamente, si concentra l’attenzione quasi ossessiva della stampa di oggi in maniera assolutamente bipartisan. In verità si è trattato di una contestazione esclusivamente verbale di pochissimi minuti che non ha di fatto impedito al vicepresidente del consiglio di leggere frettolosamente le due paginette stilate per l’occasione. E quei fischi, ampiamente prevedibili, si ripetono ormai da molti anni all’indirizzo non di un personaggio specifico e neppure di una sola parte politica, ma di chi, su quel palco, rappresenta uno Stato che in molti dei suoi apparati, dai politici di più alto livello ai servizi segreti, ha mostrato in questi 25 anni troppe incertezze, reticenze, connivenze.

Quei fischi rappresentano la vera componente irrituale di una cerimonia che la nostra comunità non vuole imbalsamare in uno scontato rito consolatorio: e in fondo anche a noi, ai tanti che non se ne sono andati, che non hanno fischiato, non è mica tanto piaciuta quell’insistente unanime deprecazione sul ‘fattaccio’ da parte dei nostri rappresentanti. Primo fra tutti il nostro Sindaco, evidentemente preoccupato soprattutto del sarcastico rimbrotto sulla ‘bella piazza’ sibilatogli dal vicepresidente del Consiglio: che disdetta dopo che il suo bel discorso aveva strappato solo applausi, magari facendo leva anche sul vecchio let-motiv dell’abolizione del segreto di Stato. Non è mai stato apposto il segreto di Stato sulla strage di Bologna, non poteva esserlo, ma regolarmente questa parola d’ordine viene sventolata e anche quest’anno puntualmente ripresa dal florilegio tutto del centrosinistra quasi a perpetuare, anche nella condanna, per demagogia o pigrizia intellettuale, quella pratica della disinformazione che attraversa questa storia sin dall’inizio. E come poteva essere altrimenti: a chi sta facendo della ‘legalità’ la madre di tutte le battaglie, che risolve il problema dell’immigrazione con qualche ruspa e ritiene incompatibile con la quiete cittadina una sfilata antiproibizionista, quei fischi in clamoroso contrasto con le severe raccomandazioni dei giorni precedenti, devono essere sembrati una disobbedienza degna della peggiore suburra.

Certo, come hanno notato soprattutto i familiari delle vittime, un così deflagrante scalpore sui fischi bolognesi è servito soprattutto a stornare l’attenzione dai fatti giudiziari (Fioravanti e Mambro in semilibertà), dalla vergogna delle continue pseudorivelazioni che ancora si succedono e montano, di anno in anno, così che, fra non molto, delle sfolgoranti verità giudiziarie rimarrà ben poco, oltre alla sensazione di una marea melmosa che continua a salire inesorabile. Ma ancora, questa condanna così unanimemente condivisa temo sia anche il sintomo di qualcosa di diverso e di peggiore: una piazza che si ribella è intollerabile, un dissenso che si manifesta così scompostamente, anche se del tutto non violento, è inammissibile nelle logiche oggi prevalenti della pratica politica, sempre più ‘normate’ e desiderose di espungere qualsiasi pratica di dissenso non prevista a priori: a una commemorazione non si fischia, si celebra e basta. Quei fischi sono, forse, al contrario, i veri misconosciuti eredi di quella solidarietà corale, di quel mitico ‘senso civico’ che fece accorrere i bolognesi 25 anni fa a scavare tutti insieme in quella collinetta fumante di detriti e resti umani e ritrovarsi tutti, ma proprio tutti in Piazza Maggiore in occasione dei funerali delle vittime. I tempi sono cambiati, forse la ‘dignitosa, ferma compostezza’ di allora, a 25 anni di distanza, ha bisogno di qualche aggiornamento e di qualche fischio per risvegliarsi dal torpore, prima che sia troppo tardi.

Ma ieri mattina, arrivando in quella piazza di fronte alla stazione, ancora una volta così piena e con tante facce giovani, si era rinnovato in molti di noi l’orgoglio di appartenenza a quella comunità così tenacemente attaccata ai suoi ricordi: bella quella piazza, sì, davvero, signor vicepresidente, così attenta e vigile, così poco ubbidiente e allineata, così poco ‘per bene’…

Maria Pia Guermandi

Bologna, 3 agosto 2005

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