«».Il manifesto, 12 marzo 2015
Nella prefazione a questi due volumi [vedi riferimenti in calce] Stefano Rodotà scrive che Lucio Magri è stato uno dei protagonisti di questa stagione parlamentare di fine secolo. Una «bella stagione», aggiunge Rodotà, e debbo dire che la rilettura di questi testi suscita nostalgia: perché non solo nel caso di Lucio, ma per tutti in quell’epoca, ogni intervento alla Camera rappresentava un impegno, una riflessione, un esercizio di alto livello. Per questo, del resto, quegli interventi possono essere pubblicati dopo tanti anni.
Protagonista, dunque ma assai anomalo, perché all’inizio, nella legislatura ’76-’79, parte di un gruppo di appena sei deputati su 630 e segretario di un partito, il Pdup, che in quella coalizione elettorale – denominata Democrazia Proletaria – di deputati ne aveva solo tre. E però era in rappresentanza della sola opposizione, come si diceva allora, quando ancora si facevano distinzioni, “dell’arco democratico”.
Nel suo primo discorso parlamentare Lucio si era infatti trovato nella paradossale condizione di dover negare la fiducia a un governo sostenuto da una maggioranza quasi totale: il governo delle larghe intese dell’on. Andreotti. Anche questo dettaglio credo stia ad indicare (ed è bene ricordarlo in un momento in cui proprio di legge elettorale si sta discutendo) quanto importante sia il pluralismo parlamentare, una rappresentanza che esprima davvero tutte le anime del paese.
Che non bloccò affatto l’istituzione, ma consentì anzi inediti e stimolanti intrecci, penso innanzitutto al dialogo che si sviluppò fra il nostro attuale presidente della Repubblica — che davvero ringrazio per la sua presenza — e Magri, in occasione della assai conflittuale ridefinizione, nel 1993, della legge elettorale.
È una buona cosa rileggere gli atti parlamentari ed è una buona cosa che la Biblioteca della Camera sia impegnata a renderlo possibile con le sue pubblicazioni: perché si tratta della testimonianza più autentica e diretta di un periodo storico, e debbo dire che anche io, che pure ho vissuto da parlamentare quegli anni ’76-’99, rileggendo questi volumi sono stata aiutata ad approfondire la riflessione su quella stagione. Che ha peraltro rappresentato un passaggio epocale per il nostro paese, non a caso definito “passaggio dalla prima alla seconda Repubblica”.
Non un lamento impotente, ma la critica concreta all’autoreferenzialismo crescente dei partiti, alla loro incapacità di intendere quanto andava emergendo nella società attraverso i movimenti e indicando dunque la necessità non, come troppo spesso ora si fa, di offrire un’espressione diretta ad una indeterminata società civile sacralizzata e però frantumata e fatalmente subalterna alla cultura dominante, bensì un impegno a costruire quella che egli definiva «democrazia organizzata».
Non solo partiti chiusi in se stessi più rappresentanza delegata, ma anche una rete di organismi capaci di andar oltre la mera protesta e impegnati a imparare a gestire direttamente funzioni essenziali della società, così da ridurre via via la distanza fra governanti e governati (che poi è la base più salda della democrazia). E così colmare il solco che drammaticamente separa il cittadino dalle istituzioni.
Non a caso il Pdup fu un punto di riferimento per la crescita di queste reti che ebbero, — negli anni 70 — una particolare fioritura. Penso ai Consigli di fabbrica, a quelli di Zona, a movimenti come Medicina Democratica o Psichiatria, o nati attorno alle grandi questioni dell’assetto urbano e sociale.
Se la democrazia è solo questa sporadica consultazione, e non invece uno spazio deliberativo che ti rende partecipe e soggetto della costruzione di una società ogni volta innovativa, perché mai un giovane dovrebbe appassionarsi?
Il declino dei grandi partiti politici di massa ha lasciato un vuoto che dai tempi in cui Lucio ne denunciava i sintomi è diventato un oceano. Non li ricostruiremo tali quali erano (e anche loro, del resto, avevano non pochi difetti). Ma è importante tornare a riflettere sul senso della politica, — che non è ricerca di consenso, ma costruzione di senso — così come con questi discorsi, pur pronunciati in Parlamento e non a scuola, Magri ci spingeva a fare, per recuperare la politica, che poi è ricerca della propria identità nel rapporto con gli altri umani e non arroccamento sul proprio io nell’illusione di potersi salvare da soli.
Se non dovessimo riuscire a far capire quanto la lentezza della condivisione, — che è propria della democrazia – sia più preziosa della fretta, solo apparentemente più efficiente, del decisionismo, non ce la faremo nemmeno a far rivivere una vera Sinistra. Per questo sono davvero contenta — e con me tutti i compagni del Pdup — della sollecitazione che da questi testi ci viene per riflettere sull’oggi. E per aiutarci a discuterne con i più giovani.
La lucidità anticipatrice di Magri su questo come su altri temi — che è certamente stata una delle sue più significative caratteristiche — ha avuto una particolare incisività perché lui non era un profeta, un intellettuale separato.
In occasione della sua scomparsa, Perry Anderson, uno dei fondatori della autorevole New Left Review, ha scritto: «Lucio Magri non ha avuto uguali nel panorama della sinistra europea. È stato l’unico intellettuale rivoluzionario in grado di pensare in sintonia con i movimenti di massa, sviluppatisi durante il corso della sua vita. La sua riflessione teorica si è radicata realmente nell’azione, o nella mancanza d’azione, degli sfruttati e degli oppressi».
La ricerca, alla fine quasi ossessiva, del nesso fra teoria e militanza ha finito per essergli fatale. Nel 2004 Magri decise di porre fine alla nuova “Rivista” de il manifesto che era rinata nel 1999 sotto la sua direzione. Era una bella rivista. Ma Lucio non si rassegnava al fatto che mancassero i referenti sociali, non voleva essere solo un intellettuale che scriveva senza la verifica dell’azione politica. E poiché non vedeva nell’immediato le condizioni perché interlocutori consistenti si presentassero e che il dibattito politico in atto si sbriciolava in quisquilie, decise di cessare le pubblicazioni.
Furono motivazioni analoghe che lo condussero alla sua tragica decisione finale. «Non dico che la sinistra non rinascerà — ripeteva — ma ci vorranno molti anni e io sarò comunque già morto. Così come è il dibattito non mi interessa». Ma non era tuttavia pessimista nel lungo periodo. Come del resto prova il titolo del suo libro Il sarto di Ulm — oggi tradotto in Inghilterra, Germania, Spagna, Brasile, Argentina — titolo tratto da un apologo di Bertolt Brecht. Al sarto, che pretendeva che l’uomo poteva volare, — stufo dell’insistenza — il vescovo-principe di Ulm finisce per dire: «Vai sul campanile e buttati, vediamo se è vero quanto dici». Il sarto va e salta, e naturalmente si sfracella.
E però: chi aveva ragione, il sarto o il vescovo? Il sarto, perché poi alla fine l’uomo ha volato. Ecco, diceva Lucio, per ora il comunismo si è schiantato, ma alla fine volerà. Noi continuiamo a provarci
A leggere Magri di fine anni 80 si incrocia l’Italia del 2015. Magri «indignato con il nuovismo che caratterizza lo scioglimento del Pci», non perché «non innovatore» ma perché «considerava un grave errore politico la retorica di un nuovo senza radici e senza futuro» (Crucianelli). Il bersaglio di ieri è il «nuovismo» occhettiano; ma le parole non calzano bene per «la rottamazione» renziana?
"». Il manifesto,
È un crocevia classico che appassionò Togliatti, che in questo si pose in netta discontinuità con l’anticoncordatario e «illuminista» Gramsci, come ricorda Giuseppe Vacca. E che tornò con forza in Berlinguer.
Il libro ripropone un momento significativo del confronto: il carteggio che nel 1977 vide impegnate le penne del vescovo di Ivrea Bettazzi e il segretario del Pci. Accanto alla convergenza individuata attorno ai condivisi «contenuti umanistici» o al riconoscimento del valore della persona, il dibattito mise in luce anche una contraddizione. Quella tra l’autodefinizione del Pci come partito laico e pluralista, con l’articolo 5 dello statuto che invece prevedeva il canone del marxismo-leninismo.
Era la celebre questione del «trattino» che per alcuni mesi vide incrociare le spade alcuni filosofi comunisti e che fu archiviato, precisa Vacca, nella revisione statutaria del 1979. Il nodo più rilevante comunque verteva sulla conciliabilità tra l’identità comunista, protesa alla critica del capitalismo in nome di istanze generali di liberazione umana, e le analoghe tensioni per il trascendimento del presente che si affacciavano nel mondo della fede, dal «laburismo cristiano» di Dossetti, al fermento dei movimenti di base sino alla proposta esplicita delle Acli di una nuova società socialista.
Su questo possibile momento di confluenza, all’interno dei grandi valori costituzionali della solidarietà e della persona come valore, aveva insistito già Togliatti, in assemblea costituente. E ancor prima, nel discorso al teatro Brancaccio di Roma nel 1944, si era spinto a proporre alla Dc «un patto comune di azione, per un programma comune».
A Bergamo nel 1963 il leader del Pci annunciò una critica della società del consumo, fonte della incomunicabilità sostanziale dell’uomo moderno, che anticipava il richiamo di Berlinguer all’austerità quale occasione per ripensare radicalmente il modello di sviluppo, gli stili e i valori di vita.
Domenico Rosati scorge una affinità tra la proposta berlingueriana di austerità come contestazione dei pilastri della società borghese e l’annuncio di Moro della stagione dei doveri. Su questi lidi di censura dell’edonismo, in nome di una emergenza antropologica, c’è il rischio di smarrire il senso anche positivo del consumo ai fini della costruzione della soggettività (il consumo con il suo nichilismo mercantile è ciò che salva il capitalismo, lo intuì già Tocqueville; e non è anche per l’incapacità di garantire il consumo di massa che invece crolla il comunismo?). Ma lo scopo della riflessione sull’austerità come «occasione» non era quello di imporre una povertà generale ma di definire il progetto di un nuovo ordine sociale con altre compatibilità, con altre qualità riconosciute del vivere collettivo.
La specificità del contributo di Sardo è che la riproposizione del tema della fede (la sua domanda iniziale è: perché solo in Italia esiste una robusta componente cattolica che non si riconosce con la destra, come accade in tutti gli altri paesi?) serve per interrogarsi sul senso della eredità del comunismo italiano dopo la fine del Pci.
Perché quello che è scomparso è la traccia di un mondo, i segnali di un pensiero, i luoghi di una comunità, travolti da quello che Sardo chiama «il riformismo subalterno» che sfida identità, memorie, cultura politica, modello di partito, radicamento sociale, idea di società.
«Quando c’era Berlinguer la politica sapeva ragionare», osserva Rosati. Oggi, con il divorzio tra politica e ragione, avanza un nichilismo sorridente che costringe gli avanzi impotenti di una grande tradizione critica ad obbedire a un tweet, a scorgere carisma in una camicia bianca, a riverire gli imprenditori, che si sa sono «gli eroi del nostro tempo», a rompere con il movimento operaio come terra insignificante, che neppure merita rappresentanza.
Riferimenti
Nell'archivio di eddyburg abbiamo un'ampia raccolta di scritti di e su Enrico Berlinguer.
All'indomani della scomparsa del grande intellettuale, noto ai nostri lettori, un articolo di Giuseppe Allegri e un ricordo di Zygmunt Bauman, dalle pagine rispettivamente del
manifesto e della Repubblica del 4 gennaio 2015
Formule, concetti, metafore di chi ha liberamente scelto di affrontare senza timori reverenziali il tramonto delle categorie della prima modernità, sfidando la sonnacchiosa e dogmatica accademica delle scienze politiche e sociali sul terreno più delicato: quello del «nazionalismo metodologico». Altra espressione «inventata» da Ulrich Beck per combattere quell’erronea semplificazione che costringe nelle opprimenti dimensioni dello Stato-nazione tanto l’analisi dei fenomeni sociali e giuridici, quanto i possibili spazi di azione civica e politica.
Il làscito maggiore del suo insegnamento sta nel radicale rifiuto di ogni pregiudizio nazionalista. Questo è il prisma attraverso il quale Beck ha spiegato la connessione tra le dinamiche della globalizzazione e i loro esplosivi effetti sulla divisione del lavoro, sulle forme di vita individuali e collettive, sul presente e sul futuro del vecchio Continente. Questo approccio è inoltre utile per contrastare la recrudescenza dei movimenti intolleranti e xenofobi dei partiti tradizionalisti, autoritari e nazionalisti (Tan Parties) in un’Europa che diventa sempre più «tedesca», stritolata dai diktat delle politiche di austerità volute dalla Bundesbank. Lo ha denunciato lo stesso Beck in uno dei suoi ultimi saggi (L’Europa tedesca, Laterza, 2013).
La militanza intellettuale, politica e civile di Ulrich Beck è sempre stata dalla parte di un’Europa politica e sociale. Un soggetto che, a suo parere, doveva superare le nefaste eredità «sovraniste» degli Stati-nazione, spesso ridotti a algidi gendarmi dell’ordine pubblico locale, e gli incubi monetaristi di un’Eurozona sinonimo di insicurezza e povertà per le persone. Per questa ragione, dal settembre del 2010, ha aderito alle iniziative dello Spinelli Group nel Parlamento europeo, rilanciando lo spirito federalista continentale che dall’antifascismo di Spinelli, Colorni e Rossi oggi può spingersi sino al punto da ripensare l’Europa politica oltre una dimensione meramente monetaria.
Questa visione sociale dello spazio politico continentale ha permesso a Beck di spiegare l’urgenza di un «reddito di cittadinanza continentale» utile per affrancare le persone dai ricatti del lavoro, o della sua mancanza. La creazione di un simile strumento è inoltre essenziale per garantire l’indipendenza dei cittadini da un Welfare State che sta regredendo a Workfare, cioè ad un sistema di costrizione al lavoro, con scarsa tutela della dignità della persona, né garanzia della sua condizione lavorativa. Per Beck il modello sociale europeo è il frutto di un universalismo concreto, fondato sulla tutela dei diritti sociali intesi come diritti fondamentali di una nuova solidarietà pan-europea. Altrimenti non potrà mai esserci alcuna integrazione politica continentale.
«Dobbiamo finalmente porre all’ordine del giorno queste questioni: come si può condurre una vita sensata anche se non si trova un lavoro? Come saranno possibili la democrazia e la libertà al di là della piena occupazione? Come potranno le persone diventare cittadini consapevoli, senza un lavoro retribuito? Abbiamo bisogno di un reddito di cittadinanza pari a circa 700 euro. Non è una provocazione, ma un’esigenza politica realistica».
Questo scriveva Beck sulle colonne de La Repubblica in due successivi interventi del 3 gennaio 2006 e del 22 marzo 2007. Considerazioni scritte a ridosso degli scontri tra giovani e polizia nelle banlieues francesi in fiamme, mentre cominciava la crisi statunitense dei mutui subprime. Sono passati diversi anni e l’«esigenza politica realistica» di un reddito di base sganciato da una prestazione lavorativa, inteso come strumento di solidarietà, resta lettera morta nell’agenda dei movimenti e delle cittadinanze sempre più impaurite ed è completamente assente in quella delle inadeguate classi politiche e sindacali, nazionali e continentali. Tutto questo mentre milioni di persone rischiano di diventare ostaggi della malavita, nei bassifondi delle metropoli europee, o schiavi indebitati del capitalismo finanziario eletto a unico parametro della «società globale del rischio».
Beck è stato il testimone del lungo quarantennio neo-liberista europeo in cui hanno dominato l’individualismo sociale e il «nazionalismo metodologico». «Spesso la retorica dominante afferma che non “c’è alternativa” agli imperativi dell’austerità» disse in un’intervista a Benedetto Vecchi su Il manifesto del 29 agosto 2013.
In questo atroce immobilismo prospera il Merkiavelli, efficace neologismo da lui stesso coniato per descrivere una politica capace di dettare in Europa l’agenda dell’austerità (anche in una impossibile funzione espansiva) funzionale alla difesa del patto socialdemocratico in Germania. In questa cornice gli Stati-nazione, e gli individui, si ripiegano in se stessi. «L’individualizzazione della diseguaglianza sociale», analizzata quasi trent’anni fa da Beck, oggi fa il paio con le miserie nazionaliste di classi politiche inadeguate e dei nuovi populismi presenti anche nel Parlamento europeo.
Torna quindi di attualità il «bisogno di una critica dell’Unione Europea da un punto di vista europeo e non nazionale», per dirla sempre con Beck. In un intervento sul Guardian del 28 novembre 2011 sostenne che la crisi europea può essere «un’opportunità per la democrazia». A patto di avere la forza, intellettuale e politica, per «abbandonare l’euro-nazionalismo tedesco» e far «emergere una comunità europea di democrazie» dove la «condivisione della sovranità divenga un moltiplicatore di potenza e democrazia».
Queste sono le basi di un federalismo radicale che mette in relazione i bisogni delle persone con gli spazi politici nei quali vivono. Rileggere questi insegnamenti alla luce di una visione solidale della società e dell’Europa attenua il senso di vuoto che lascia la sua morte tra chi continua a non rassegnarsi all’ordine esistente delle cose.
Ulrich Beck, scomparso il 1° gennaio scorso all’età di 70 anni, è stato uno dei maggiori sociologi del nostro tempo. E certamente la sua statura era destinata a crescere ancora, come l’inarrestabile impatto della sua influenza intellettuale. Una figura unica per la sua straordinaria profondità, l’acuta capacità percettiva, l’eccezionale sensibilità ai mutamenti sociali e culturali, l’ineguagliabile originalità del suo pensiero. Per gli studiosi del suo campo è stato una fonte di ispirazione e un fervido richiamo all’azione. Ma il suo impatto intellettuale ha trasceso i limiti del suo ambito professionale. La voce di Ulrich Beck – le sue diagnosi, valutazioni, previsioni e avvertimenti, sono stati ampiamente ascoltati, con viva attenzione.
Assai più che uno studioso ligio ai doveri ristretti di un’attività accademica, per vocazione Beck era la personificazione dell’intellettuale pubblico, in ragione del ruolo e delle posizioni che ha assunto: un modello cui gli studiosi di scienze sociali aspirano ardentemente, anche se a pochi è dato raggiungerlo con tanto vigore, efficacia e dedizione.
È difficile, forse impossibile, immaginare la temperie, il tenore dell’attuale dibattito politico, l’ampiezza e la profondità della nostra consapevolezza collettiva senza i molteplici e vari contributi di Ulrich Beck, la sua insaziabile curiosità nell’esplorare i meandri della vita moderna, la sua capacità di individuare prontamente e mettere a fuoco le sue realtà con osservazioni precise e pregnanti, e la sua predisposizione a quella che gli antichi chiamavano “parresia”: a rendere conto dei risultati delle sue ricerche senza cercare giustificazioni né scendere a compromessi, con libertà, fierezza e candore, attenendosi alla coscienza, giudice supremo dei comportamenti umani e guida sicura nella ricerca di verità dello studioso.
Questa morte prematura ci lascia tutti più poveri.
«Roma e la Liberazione. La Resistenza viene conservata come in una teca. Da tenere da conto, sempre, anche se ormai fuori moda». In calce, la postilla con i riferimenti a un evento, l'attentato di via Rasella, attorno al quale fu imbastita una colossale mistificazione.
Il manifesto, 26 settembre 2014
Nella notte tra il 22–23 settembre qualcuno, qualcuna di noi ha ricevuto questo sms: «Oggi alle 10.30 con il tricolore Anpi… a Ponte Garibaldi fiori per Carla Capponi e Sasà Bentivegna. Vergogna. Solo il Tevere ha accolto ieri le loro ceneri…».
Ciò che era nell’aria da tempo è avvenuto. Ma come? Cerchiamo invano una cronaca. Un Tevere limaccioso inesorabilmente deserto è comparso per qualche secondo sul Tg Lazio del giorno 23, fuori campo la voce del sindaco Marino recitava che Roma non avrebbe mai dimenticato i due protagonisti della Resistenza romana…Le ceneri di Carla Capponi (morta nel 2000) e del suo compagno Sasà Bentivegna (morto nel 2012) erano custodite dalla figlia Elena nella sua casa di Zagarolo (Roma) in attesa di una degna sepoltura.
Si è capito ben presto dal «No» del Cimitero acattolico di Testaccio, su cui Elena contava per esaudire un desiderio dei genitori, che trovare una degna sepoltura per i due gappisti non sarebbe stata un’impresa semplice. Passi da parte delle autorità locali ne sono stati fatti, ma evidentemente privi di quel convincimento interiore necessario per portare a compimento il riconoscimento di un merito che nel clima politico di questi ultimi anni, una sorta di disagio crescente lo creava.
In soccorso dello scoramento di Elena si era mosso all’inizio dell’estate il Museo di via Tasso offrendo ospitalità alle ceneri, finché non si fosse trovata la sede definitiva per la sepoltura. L’Anpi di Roma da parte sua aveva proposto che i due protagonisti della Resistenza romana fossero accolti nel monumento dedicato ai caduti per la Liberazione di Roma…
I vincoli burocratici, l’inerzia che caratterizza da noi ogni procedimento amministrativo divengono un utile alibi quando un’azione è meglio rimandarla: «queta non movere»… Elena, alla fine l’ha capito, e ha dato corso a quella che definiva «la seconda scelta» dei suoi genitori: le loro ceneri affidate alle acque del Tevere.
Nulla sappiamo di come ciò sia avvenuto. Forse quei papaveri rossi che Carla tanto amava saranno stati gettati nel Tevere insieme a ciò che restava di lei, della sua luminosa bellezza, che i meno giovani tra noi ben ricordano….Già negli anni del compromesso storico Carla cominciava a creare imbarazzi: il suo coraggio ardente, il suo indomito antifascismo vissuto «con cuore di donna» suscitava nei comizi l’entusiasmo dei giovani (e lo sgomento palpabile dei segretari delle sezioni del Pci, preoccupati delle reazioni degli scout, i nuovi invitati).
Il clima politico stava cambiando. La cultura sempre più accreditata della non violenza rendeva difficile difendere l’azione dei Gap dall’accusa di terrorismo, sostenere la sua collocazione tra gli atti di guerra, considerare via Rasella un atto di eroismo, uno scatto di dignità contro la ferocia nazifascista sulla popolazione romana che l’aveva determinato.
Carla Capponi fu medaglia d’oro della Repubblica, parlamentare del Pci eletta con un vastissimo consenso, riconosciuta protagonista di quella Resistenza che tuttavia, benché condivisa da donne e uomini di diverse tendenze e idealità uniti nella lotta al fascismo, era divenuta nei decenni sempre più patrimonio rivendicato dalla sinistra.
Furono le forze di sinistra a battersi per il rispetto e l’attuazione dei principi costituzionali, le amministrazioni di sinistra a tenere vivo nei decenni l’esempio di chi aveva dato la vita per la democrazia nel nostro paese. Ma proprio questa fedeltà rischia di essere travolta nel folle volo compiuto dal Pci nella sua corsa verso il «nuovo», un «nuovo» che è sfumatura delle differenze, annullamento di tutto ciò che può rendere meno piatto il presente…
Gli eroi della Resistenza acquistano il sapore di un reperto oleografico: sono da conservarsi in una teca, come i gioielli di famiglia, da tenere da conto, ma rimasti fuori moda. Battersi per una degna sepoltura di Carla e Sasà avrebbe comportato riportare a galla recriminazioni mai sopite, schierarsi in una difesa a tutto campo di valori riconosciuti come attuali… I nostri governanti, i nostri amministratori non se la sono sentita. Questa è la verità. Ha detto bene il presidente dell’Anpi di Roma: «Le ceneri dei due protagonisti della Resistenza romana finite nel Tevere, sono un buco nero per la democrazia»
Per conoscere la reale storia di Via Rasella e comprendere la colossale mistificazione che fu costruita per falsificare la storia e convincere gli italiani che la Resistenza era stata il succedersi di vigliacchi eccidi compiuti dai "comunisti badogliani" , si vedano le informazioni fornite da Repubblica e riprese e integrate da eddyburg da il 6 febbraio 2006 e il 9 febbraio 2006. Qui sotto un'immagine del giornale che, due giorni dopo l'eccidio delle Fosse Ardeatine, invitava i partigiani a presentarsi
Ecco perchè abbiamo scritto poco fa di un parere autorevole. Riprendiamo da un archivio un testo diUn uomo di un’Italia migliore, che è ancora tra noi e ancora insegna. Dall’archivio de
La Nuova Venezia, 29 gennaio 2009.
«Quando sono entrato in magistratura, nel 1959, il magistrato era un travet di lusso, dipendeva dal ministero e non osava alzare lo sguardo su politici, istituzioni e potere. Poi è arrivato il Csm, che ha reso liberi pm e giudici, proteggendoli dalle accuse dei potenti: con la caduta del Muro e la fine di Dc e Pci, ci siamo infilati a guardare ovunque ed è esplosa Manipulite. E’ vero, oggi la giustizia è bloccata, ma le riforme sul tavolo sono solo il cavallo di Troia per minare l’indipendenza del pm, non garantiscono giustizia più celere».
Il procuratore generale Ennio Fortuna, sabato 31 dicembre andrà in pensione, mezzo secolo dopo aver vestito per la prima volta la toga: da allora è stato pretore, pubblico ministero, procuratore circondariale a Venezia, membro del consiglio superiore della Magistratura eletto per Magistratura indipendente, procuratore della Repubblica a Bologna e, infine, pg presso la Corte d’appello veneta. Ne ha da ricordare, con la sua voce forte e il tono incalzante, il fluire carico di aneddoti del perfetto raccontastorie e l’entusiasmo di chi crede che «fare il magistrato sia il più bel lavoro del mondo».
Le inchieste. Da quella volta che si è trovato a indagare sull’allora collega, oggi senatore pd, Luciano Violante denunciato di falso per le perquisizioni a tappeto sul sospetto golpista Edgardo Sogno («Due persone degnissime, l’indagine finì in un nulla») a quando si rifiutò, nel 1968, di processare Pierpaolo Pasolini per il film «Teorema» e il Pg di allora lo sollevò dall’inchiesta («Ma poi il regista fu assolto!»). E gli anni Settanta, quelli del terrorismo, quando nel 1974 si ritrovò il garage di casa sventagliato da 21 colpi di mitra: «Negli Anni di piombo i magistrati italiani dimostrarono di non piegarsi, riuscendo a sconfiggere il terrorismo rispettando il codice e senza mai rinunciare al garantismo: i giudici di non molti Stati lo hanno fatto».
Furono anche i tempi dei primi crac dei promotori finanziari, con il caso dell’agente di cambio Marzollo che scosse la Venezia bene che gli aveva affidato milioni di risparmi. Ancora, i primi, veri furti d’arte, un decennio prima che Felice Maniero li usasse come merce di scambio: «Ritrovare arrotolati in un campo dell’isola di Poveglia tre capolavori del Gian Bellini rubati nella basilica di Santi Giovanni e Paolo è stata una soddisfazione enorme». E i delitti. «Il caso Pastres, con l’omicidio di un bimbo di appena 6 anni, a San Donà: fu terribile», racconta ancora Fortuna, «l’assassino lo bloccammo in Crazia: non avevamo prove certe contro di lui, ma durante l’interrogatorio crollò. Devo dire che negli interrogatori sono sempre stato piuttosto bravo: nei confronti psicologici riuscivo a trovare spesso la chiave giusta per la confessione, ma oggi sarebbe impossibile con la presenza dell’avvocato sin dal primo minuto».
Unabomber. Il cruccio finale: «Che dire? E’ stato più bravo di noi. Devo dire che le Procure di Venezia e Trieste hanno fatto il possibile, puntando tutto sull’indagine scientifica. Purtroppo abbiamo perso la partita dall’interno: eravamo convinti di avere la prova che Zornitta fosse colpevole e invece abbiamo scoperto che il lamierino trovato in un ordigno, era stato alterato. L’amarezza è forte».
Dalle Olivetti ai pc. «L’esperienza più esaltante è stata quella alla Procura circondariale», ricorda Fortuna, «abbiamo aperto un ufficio in un’ex scuola dove non c’era nulla: mi feci prestare le macchine da scrivere da Semenzato, che alla fine non le volle neppure indietro tanto erano vecchie. La fortuna fu che al ministero, incuranti del fatto che a Venezia c’è l’acqua, mi assegnarono 5 autisti d’auto: li misi tutti a lavorare al registro generale, anche se all’inizio scrivevamo i reati su alcuni quadernoni che comprai a Mestre, perché non avevamo neppure i libri del ministero. Sei mesi dopo, tutto funzionava perfettamente: fummo i primi ad informatizzare i fascicoli e ad introdurre l’udienza di comparizione». Il periodo nero fu quello successivo, alla Procura di Bologna: «La trovai distrutta, anche sul piano psicologico».
Giustizia malata? «Vado via molto amareggiato per non essere riuscito a dare risposta alle giuste richieste della cittadinanza per una giustizia celere e sollecita», conclude Fortuna, «ma i problemi sono altri da quelli che si vorrebbero risolvere con le riforme sul campo. Sono un appassionato nato difensore della magistratura libera e indipendente, che oggi vedo in pericolo. Gli avvocati dovrebbero capire che la separazione delle carriere tra pm e giudici - di per sé possibile - può essere un grimaldello verso l’assoggettamento del pubblico ministero a una nomina politica: un pm sotto il governo non alza lo sguardo. Senza l’indipendenza del pm viene meno la giustizia».
Il futuro. «Finché il cervello funziona, metterò la mia esperienza al servizio di enti, imprese, studi. La politica? Nel passato mi hanno chiesto di fare il sindaco e ho rifiutato: ora sono libero da ogni impedipento, se la proposta fosse seria, potrei accettare».
«La decisione del segretario del Pci di difendere il dirigente comunista in carcere, forzandone talvolta le posizioni, nasceva dalla convinzione di essere in presenza di una delle figure più rilevanti del marxismo novecentesco».
Il manifesto, 21 agosto 2014
Il 19 giugno 1964, due mesi prima della morte, Togliatti pubblicava sul quotidiano di area comunista Paese sera l’ultimo capitolo del libro che per quasi quarant’anni egli era andato scrivendo su Antonio Gramsci. Si trattava della recensione a un’antologia di articoli e lettere del comunista sardo in cui, tra l’altro, Togliatti scriveva: «Forse dipende dal tempo che è passato, che ha gettato ombre e luci nuove su tanti avvenimenti…
Non so se sia per questo motivo. Certo è che oggi, quando ho percorso via via le pagine di questa antologia, attraversate da tanti motivi diversi, che si intrecciano e talora si confondono, ma non si perdono mai, – la persona di Antonio Gramsci mi è parso debba collocarsi essa stessa in una luce più viva, che trascende la vicenda storica del nostro partito». Era, a ben vedere, la previsione di un fenomeno che avrebbe avuto inizio solo un ventennio più tardi, negli anni Ottanta, quando – mentre alcune componenti del Partito comunista italiano sembravano dimenticare Gramsci in favore di paradigmi culturali diversi e alternativi, incamminandosi lungo i sentieri che avrebbero condotto alla Bolognina – la fortuna dell’autore dei Quaderni iniziava una fase di espansione nei paesi anglofoni come in America latina, divenendo un punto di riferimento del pensiero politico e sociale contemporaneo, ben al di là del riferimento pur decisivo che aveva costituito per il Pci, soprattutto grazie a Togliatti.
Il libro togliattiano su Gramsci (di recente ristampato da Editori Riuniti university press col titolo Scritti su Gramsci), più in generale la storia di Togliatti curatore e organizzatore della diffusione delle opere di Gramsci, nonché loro primo e più accreditato interprete, dura quasi un quarantennio, essendo il primo scritto del 1927, occasionato del processo con il quale il fascismo condannò alla galera buona parte del gruppo dirigente comunista e Gramsci a morte probabile, viste le sue condizioni di salute. Si dimentica o si nasconde a volte questo fatto fondamentale, si torna a scrivere periodicamente che altri (e in primis proprio Togliatti o alcuni suoi compagni, o Stalin in persona) sarebbero stati i «carnefici» del comunista sardo. Sulla base di ipotesi e ragionamenti che non hanno il supporto di un documento, di una prova. Si arriva ad affermare che Mussolini avrebbe addirittura riconosciuto a Gramsci privilegi inusitati, in virtù di una stima di vecchia data. Si costruisce artatamente la leggenda del tradimento di Togliatti (a cui i maggiori quotidiani mostrano di dare credito) per minare dalle fondamenta una tradizione politica – quella del comunismo italiano – che offre ancora oggi segni di vitalità.
Una scelta chiara
Ciò che spesso non si dice, inoltre, è che senza le scelte operate da Togliatti rispetto alla gestione del lascito gramsciano, noi non avremmo mai conosciuto il Gramsci che oggi tutto il mondo apprezza. Se Togliatti non avesse operato per fare di Gramsci il maggiore pensatore marxista italiano e per difenderne la figura e l’opera, il comunista sardo sarebbe passato probabilmente alla storia solo come un martire antifascista o poco più. Le sue opere carcerarie sarebbero riemerse dagli archivi di Mosca negli anni Ottanta e Novanta e noi forse saremmo intenti oggi a cercare di capire per la prima volta quelle pagine non facili.
La politica di Gramsci
Gli scritti togliattiani su Gramsci degli anni Venti e Trenta già ponevano il tema del posto di Gramsci nella storia del Pci. All’amico e al compagno di militanza e di lotta Togliatti riconobbe subito, nel 1927, la primogenitura politica, il ruolo di maestro e di capo, che ribadirà nel 1937–1938, nei discorsi e negli articoli commossi scritti in occasione della morte. Si trattava di una indicazione, quella del 1927, che minava l’impianto difensivo gramsciano? Mussolini e la polizia fascista sapevano benissimo chi fosse Gramsci, quale ruolo avesse, e il Tribunale speciale obbediva a finalità squisitamente politiche: obbediva al volere di Mussolini. Fare di Gramsci allora, e poi di nuovo dopo la morte, il «capo» del partito italiano, persino un fedele seguace di Stalin (che in realtà non era), serviva in quel contesto a salvaguardarne la memoria, a impedirne la condanna ideologica da parte dell’Internazionale che avrebbe prima indebolito il prestigio del prigioniero presso la «casa madre» di Mosca e che poi avrebbe rinviato sine die la diffusione dei suoi scritti.
Il manifesto, 21 agosto 2014
La scoperta dell'illuminismo
Il rigore parlamentare
L’ampiezza degli interessi culturali (unita a gusti in verità retrogradi tanto in letteratura quanto in pittura e musica) non lo spinge a divenire quello che oggi si definirebbe un «tuttologo», e questa consapevolezza del limite si riflette anche nel suo stile di direzione: «Voi mi considerate come quegli apparecchi automatici che ti servono a tua scelta, solo che tocchi un bottone, un pollo arrosto, o un bicchiere di birra o una caramella al miele» protesta scrivendo alla Federazione di Bologna nel marzo 1961. Stile che emerge anche nel rifiuto degli usi «sovietici» che i dirigenti del partito vorrebbero imporgli per celebrare la sua personalità, chiedendogli di posare per un busto: «Questo si fa, da noi, ai morti ed è una cosa ridicola. Il mio busto, per ora, sono io. Non andrò quindi dalla Mafai a posare e se ci vado, (vado) con un bastone per distruggere il già fatto». E non sapremo mai, in verità, fino a che punto credesse alle difese argomentate dell’esperienza sovietica in cui si produceva, avendo però fin dal ritorno in Italia chiarito che quel modello non era importabile né da imitare in forma ingenua e ripetitiva.
La «questione nazionale»
«Banalizzare la sua figura è la peggior sorte che gli si possa riservare. Berlinguer non cercava il consenso facile né era privo di spigoli. Le sue scelte furono molto contrastate, dentro e fuori il partito. Se ne esalta la memoria per rivendicare una continuità che non c’è».
Il manifesto, 11 giugno 2014Nei giorni scorsi ho scritto anche io sul supplemento che l’Unità ha dedicato a Enrico Berlinguer nel trentennale della morte. Do atto al quotidiano un tempo “comunista” di aver operato un’apertura considerevole perché, come è ovvio, era implicito che avrei parlato anche dello scontro che, come gruppo de il manifesto, avemmo con l’allora segretario del Pci quando fu decretata la nostra radiazione dal partito. Tempi oggi cambiati rispetto a quelli in cui lo stesso giornale era arrivato a pubblicare un articolo, a noi rivolto, intitolato «Chi vi paga?», in cui si esprimeva il sospetto che si trattasse della Confagricoltori. (Chissà perché proprio la Confagricoltori).
E tuttavia, come mi è capitato in questi ultimi tempi di ripetere, quasi quasi rimpiango quelli pur durissimi della nostra radiazione: perché lo scontro asprissimo produsse un trauma in tutto il partito, se ne discusse a tutti i livelli, si aprì una riflessione in tutta l’opinione pubblica della sinistra.
Oggi si può dire qualsiasi cosa che, vista la povertà del dibattito politico, non suscita, non dico passioni, ma nemmeno interesse. (Stento a definirla “libertà d’espressione”).
Questo sta infatti accadendo con l’amplissimo fiorilegio di pubblicazioni dedicate alla memoria di Enrico Berlinguer: che suscitano, come è giusto e naturale, grandi emozioni e nostalgie — soprattutto quando si rivedono le immagini struggenti del dolore profondo e sincero di un intero popolo al suo funerale — ma non contribuiscono affatto a chiarire il profilo politico di Berlinguer. Un giovane nato negli ultimi decenni potrà desumerne che si trattava solo di un uomo onesto capace di suscitare affetto e consenso. Certo non è poco di questi tempi, ma pochissimo per far capire davvero chi era.
Perché Berlinguer è stato un dirigente per nulla privo di spigoli, che non ha concesso nulla alla ricerca di un consenso facilone, non parliamo delle sue capacità comunicative: era il contrario dello showman. E che ha operato scelte spesso contrastate e non solo dall’esterno del Pci.
Banalizzarlo è la peggior sorte che gli si potesse riservare. (Avvenne del resto anche subito dopo la sua morte, con la pubblicazione di un numero speciale a lui dedicato di “Critica Marxista”, dove, se non sbaglio, fu solo Sergio Garavini a ricordare esplicitamente questi contrasti.)
Non un’operazione innocente: serve a far credere che anche quanto si fa oggi sia in definitiva in continuità con il suo pensiero. Salvo il fatto che era un po’ troppo bacchettone, un po’ troppo ancorato al passato, lento nel percepire quanto aveva invece colto Bettino Craxi: che il mondo era cambiato e per essere contemporanei bisognava sposare la modernità senza aggettivi che il sistema proponeva.
(Persino il più quotato candidato al premio Strega, Francesco Piccolo con il suo “Tutti”, percorre la stessa strada: ama Berlinguer fino ad identificarsi con lui, ma lo rende una figura patetica, un vecchio buon nonno).
Luigi Pintor scrisse «E’ morto un buon comunista»
Il nostro giudizio su Berlinguer, per noi che siamo stati radiati, è molto più severo, e insieme molto più positivo. Al momento della radiazione i punti del contrasto furono importanti. In breve:la sua sordità rispetto ai movimenti emergenti, peggio: il suo sospetto verso il ’68, che privò il Pci della forza che veniva da una nuova generazione che aveva captato la valenza delle nuove contraddizioni del capitalismo; l’insufficienza di un sistema tutto fondato sulla democrazia delegata e la necessità di intrecciarla con nuovi organismi di rappresentanza diretta; la critica al comunismo sovietico e alla coesistenza fra le due grandi potenze mondiali intesa come strumento dello statu quo.(Fu Luigi Longo, compagno largamente e così ingiustamente dimenticato, a capire assai di più, e lo ripetè, inascoltato, fin quando non fu definitivamente zittito dalla malattia. In un articolo su “Rinascita” era persino arrivato ad invocare maggiore pluralismo, in controtendenza con la rigida difesa dell’unanimismo invocato in nome di un’unità del partito già largamente fittizia).
Poi venne il compromesso storico, obiettivo di lungo periodo, e il governo di unità nazionale come passaggio verso quella meta. Un’ipotesi che riduceva il ben più complesso problema del rapporto col mondo cattolico a quello con la Democrazia Cristiana. Per Gramsci si era trattato della questione contadina, per Togliatti della questione democratica per arrivare più tardi alla comprensione che una religiosità davvero sentita poteva contribuire a superare l’identificazione borghese di libertà con individualismo (vedi le tesi del 9° Congresso del Pci). Stranamente proprio Berlinguer, che cercò più di ogni altro un avvicinamento alla Dc, aveva sempre manifestato incomprensione per il ben diverso travaglio di un mondo cattolico che non si identificava affatto con il partito e che, dopo aver emarginato Dossetti, aveva assunto il ruolo di pilastro del neocapitalismo italiano. Fu un rimprovero che avanzammo già ai tempi della Fgci, quando egli mancò di capire, e a trarne conseguenze in termini di iniziativa politica, la crisi profonda della gioventù cattolica per effetto di quella scelta e che portò alle dimissioni di ben due presidenti della Giac e molti aderenti alla Fuci a confluire via via nel Pci.
Non sono pochi né di poco conto, dunque, i dissensi che ci hanno opposto. E però c’è poi quanto accadde a partire dalla fine dei ’70. Su questo non fummo tutti concordi e il dibattito proseguì a lungo ancora negli anni 2000 sulle colonne de “La Rivista del Manifesto”, quella che riprendemmo a pubblicare grazie all’incontro con gli ex ingraiani che nel 1969 non avevano seguito la nostra scelta e al reincontro fra tutti noi manifestini, fra cui il rapporto si era incrinato nel 1978, col distacco fra il Pdup e la redazione del giornale.
Per noi del Pdup si trattò di una vera svolta, la “seconda svolta di Salerno” fu definita, perché prese corpo con un discorso di Enrico Berlinguer ad un Comitato centrale d’emergenza che si tenne in quella città subito dopo il terremoto dell’Irpinia; e dopo che nelle elezioni del ’79 il Pci aveva perso il 4% dei voti. In realtà il prezzo pagato alla politica dell’unità nazionale era stato ben più pesante di quel pugno di voti: il partito stesso ne era uscito fatalmente deteriorato per effetto della progressiva identificazione con il sistema dei poteri locali.
La svolta, di nuovo molto schematicamente, consistette soprattutto:
- nell’abbandono del compromesso storico e nella proposta di alternativa;
la aperta polemica con la linea adottata dalla Cgil di Lama (e una buona parte della direzione del Pci che l’appoggiava), che lo indusse a recarsi ai cancelli della Fiat a riaffermare il dovere di rappresentanza della classe operaia del Pci, e dunque la proposta di referendum sulla scala mobile azzoppata dall’accordo detto di San Valentino fra sindacato e governo Craxi;
- la rottura con l’Urss brezneviana, certo fatalmente tardiva ma che con quella frase «è cessata la spinta propulsiva della rivoluzione di ottobre» voleva dire una cosa successivamente negata: che era comunque bene che quella rivoluzione ci fosse stata, anche se era andata a finire male;
- il suo sostegno al movimento pacifista, che si accompagnò al suo discorso sulla possibilità per l’Europa di una terza via, dunque di un autonomia dai due modelli, così come pur fra molte incertezze emergeva anche nel dibattito della sinistra socialdemocratica europea;
- il suo discorso sull’austerità, che non voleva dire monacale rinuncia ai piaceri della vita (come fu interpretata), né cedimento alle richieste padronali di “austerity”, ma assunzione del modernissimo problema di un nuovo modello di sviluppo;
e, infine, l’intervista sulla corruzione, che fu in realtà la denuncia di una ormai gravissima crisi della democrazia.
Molti, anche fra le nostre fila, Rossana per esempio, di questo passaggio dettero un giudizio più severo, quelli del Pdup vi fondarono invece il reincontro con Berlinguer, nella fase della più profonda aggressione dell’anticomunismo craxiano. Fu lui stesso a proporci di entrare nel Pci, venendo pochi mesi prima di morire al nostro congresso a Milano, forse anche perché pur essendo noi un piccolo partito avevamo qualche migliaio di quadri capaci che potevano aiutarlo a rompere l’isolamento in cui si era trovato nel suo stesso partito. Noi accettammo: non si tratta di un rientro – disse Magri al Congresso in cui venne presa la decisine — ma un reincontro, una tappa del processo che avevamo ipotizzato fin dalla nascita de “Il Manifesto”: aprire una dialettica fra movimento operaio tradizionale e nuovi movimenti.
Credo sia stato giusto farlo, anche se la improvvisa scomparsa del segretario del Pci tagliò le ali a quella prospettiva. Altri compagni, la maggioranza della redazione del giornale, non seguì quella scelta e ebbero ragione sul fatto che il Pci che ritrovammo non era forse più riformabile.
“E’ morto un buon comunista” – intitolò il giorno dopo la morte di Berlinguer il manifesto. E Luigi scrisse, affranto, nel suo editoriale del 12 giugno che la sua morte «era una tragedia politica», per via «dei grandi rischi che la democrazia italiana sta correndo». Il titolo diceva: «Caduto in battaglia», il riconoscimento della durezza dello scontro in cui in quei suoi ultimi anni di vita era impegnato, uno scontro in cui, «lui che, per sua natura così prudente, ha trovato accenti estremi per esprimere i suoi convincimenti e suscitare energie capaci di rovesciare l’andamento delle cose». Fino a rivendicare orgogliosamente “la diversità” dei comunisti: non per superbia o arroganza, ma per sottolineare che quel che li distingueva era un di più di impegno, di moralità, di disposizione al sacrificio, in nome della lotta per una società non semplicemente “aggiustata”, ma radicalmente diversa.
Delle frasi pronunciate in quegli ultimi anni da Enrico vorrei ricordarne soprattutto una, che oggi mi pare essenziale: «Non c’è fantasia, invenzione o rinnovamento, se si smantella quello che vi è alle spalle».
Fra i molti libri che le più prestigiose case editrici italiane si apprestano a stampare, emerge con un valore tutto proprio il lavoro inedito di Guido Liguori, studioso del pensiero politico e di Gramsci, di cui esce in questi giorni per Carocci il suo Berlinguer rivoluzionario. Il pensiero politico di un comunista democratico (pp. 180, euro 13; è anche co-curatore, insieme a Paolo Ciofi, di Enrico Berlinguer. Un’altra idea del mondo. Antologia 1969-1984, Editori Riuniti University Press).
Il rischio del volume è di idealizzare quell’epoca e, con essa, Enrico Berlinguer che ne è stato un protagonista indiscusso. Un rischio che si presenta con tutta evidenza quando Liguori ce lo descrive come il dirigente per il quale la politica è «passione e dovere», un modello di uomo politico impensabile ai giorni nostri, che «sempre immerso nei libri e nei giornali, passava le nottate a leggere, a prepararsi». Un rischio destinato a essere superato grazie al rigore analitico dell’autore e all’esplicitazione , ma anche non appena si chiarisce del contesto in cui Berlinguer si trovava ad operare.
La fine di un'epoca
L’apertura di Berlinguer verso il blocco governato dagli Stati Uniti è nota, con tanto di dichiarazione della «nostra appartenenza» ai paesi Nato (la cosiddetta «via italiana al socialismo» non prevedeva ostacoli o condizionamenti da parte dell’Urss, secondo le parole del segretario), ma evidentemente questo non era stato sufficiente a tranquillizzare i professionisti dell’anticomunismo, memori di un capo del partito comunista italiano che, sempre in quegli anni, si lasciava andare a una dichiarazione tanto forte quanto discutibile: «È un fatto: nel mondo capitalistico c’è la crisi, nel mondo socialista no».
Liguori è opportuno ed efficace nel richiamare un dato centrale: quella, a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, era anche l’epoca di un mondo che stava comunque cambiando. È in quella fase che ha inizio il fenomeno politico sociale che oggigiorno si è affermato con forza sovrana, e che insieme all’episodio di Puerto Rico costituisce un elemento nodale di comprensione di quel tempo: la fine del modello keynesiano, caratterizzato da una felice commistione di libero mercato e intervento governativo (welfare state) e il ritorno prepotente dell’ideologia e della politica liberista, basata sull’esaltazione della ricerca del profitto individuale e sulla mortificazione di ogni intervento statale che fosse volto alla tutela della giustizia sociale.
Il peccato originale
Contro questo preponderante ritorno di un’economia a cui veniva affidato il governo incontrastato sulla politica e sulle faccende umane, nell’ambito del mondo che si stava globalizzando, Enrico Berlinguer opponeva una soluzione che ha forti eco con quella portata avanti da Joseph Stiglitz (premio Nobel per l’economia in virtù di idee diverse da quelle dei liberisti): un «governo mondiale» che, sulle basi politiche della centralità dell’uomo e dei suoi bisogni, fosse in grado di porre un freno alle spinte mercatiste di un capitalismo che «aveva generato la decadenza della vita economica e della vita sociale, da cui nascevano non solo crescenti disagi materiali per le grandi masse della popolazione lavoratrice, ma anche il malessere, le ansie, le angosce, le frustrazioni, le spinte alla disperazione, le chiusure individualistiche, le illusorie evasioni».
In tale contesto quella di Berlinguer è anche la storia di una grande sconfitta, e questo emerge in maniera timida dalle considerazioni di Liguori. Il suo essere stato anzitutto un uomo dell’apparato, la sua miopia ideologica e politica rispetto alle spinte provenienti dai movimenti meno proni all’ortodossia marxista-leninista, il conservatorismo ideologico misto al deficit di laicità (peccato originale del comunismo italiano) che lo situarono su posizioni scettiche riguardo agli importanti referendum indetti dai radicali negli anni Settanta, rappresentano alcuni degli elementi alla base della sconfitta di Berlinguer (e del Pci), soprattutto di fronte alle spinte postmoderniste provenienti dal Psi del rampante Craxi.
Inopportune mitologie
Allora come oggi, probabilmente, in cui l’apparato più ortodosso del Pd (proveniente dall’ex Pci), col proprio immobilismo ha lasciato campo libero all’emersione esplosiva di figure spregiudicate e senza un fondamento teorico e programmatico di fondo, ci si è trovati a pagare un prezzo salatissimo e drammatico, proprio nel momento in cui maggiormente sarebbe stato necessario avere un forte contraltare alle spinte nuovamente disumanizzanti e totalitarie del neo-liberismo.
Certo, la denuncia berlingueriana della «questione morale» fu quanto mai profetica, come quel suo monito affinché i «partiti cessino di occupare lo Stato», ma è indubbio che troppi ritardi all’interno del Pci contribuirono in maniera sostanziale a che l’ideologia liberista riuscisse nella sua impresa di distruggere proprio lo Stato, rendendo conseguentemente obsoleti e depotenziati quegli stessi partiti (e idee) politici.
Ormai è il tempo in cui la politica si fa nei talk show. Una «piccola politica» (Gramsci) a cui Berlinguer ha poco o nulla da dire. Alla «grande politica», ammesso che essa possa finalmente tornare, potrebbe invece dire molto. A patto che si sia consapevoli anche dei suoi limiti. Tenendosi ben lontani da inopportune mitologie. Ben lontani, a pensarci bene, dalla logica spettacolare dei talk show.
A 22 anni Enrico Berlinguer fu ristretto in carcere per 100 giorni, per aver partecipato a una protesta contro il carovita e contro il governo Badoglio (quello che, l'8 settembre 1943, dopo l'armistizio dell'Italia con gli Alleati, aveva proclamato "la guerra continua", a fianco dei nazisti). La Repubblica, 5 maggio 2014
Stralci dalle lettere dal carcere
di Enrico Berlinguer
CARISSIMI , sto sempre bene. Non drammatizzate la mia situazione e non accoratevi troppo. Si capisce bene che il carcere non è il paradiso, ma io sento di poterlo sopportare e superare con fermezza e serenità di spirito.
La maggior parte delle mie giornate trascorre in letture e soprattutto studio («Capitale», inglese, ecc.); talvolta mi prende un certo desiderio per la libertà, ma si tratta di qualcosa di nostalgico e di pacato che non procura dolore morale alcuno: anzi, talvolta, dopo 2, 3, 4 ore di lettura mi dà come un senso di riposo. Sono sempre quindi bene in salute e tranquillissimo d’animo. Ho letto con piacere notizie e giornali di Bari. Discorreremo dei particolari a voce e speriamo che in quel tempo l’eco del congresso non sia ancora spenta.
Per l’interrogatorio va bene; però, per quanto riguarda le riprovazioni da me rivolte agli accusatori, ho qualche dubbio per il fatto che mancherebbero assolutamente le prove; anzi ti confesso che alcuni non li ricordo neppure di vista o quasi. E ora i «bisogni». I pasti che mi state propalando vanno in genere bene, come quantità e qualità. Mandate però meno vino: ricordatevi che il thermos deve essere pieno, se no il the si raffredda. Biancheria per ora nulla. Libri ne ho e non me ne occorrono altri. Se la prigionia si prolungherà, bisognerà che mi mandiate in seguito i libri di studio per gli esami che vi indicherò. Se possibile (ma non credo) vorrei poter finire il mio lavoro sul comunismo. Ma se non si può, non mandate di nascosto perché mi sarebbe impossibile lavorare in tal modo.
Mandate sempre «L’Isola» (quotidiano di Sassari, ndr), anche arretrata (dal 30/1 compreso) e notizie. Baci.
*** Carissimo, la tua linea di condotta trova la mia pie- na approvazione. Non voglio che la libertà mi sia restituita come elemosina, e dopo un mese di prigionia. Spero che anche i miei compagni siano d’accordo. Ti potevi limitare – come hai fatto – a sollecitare l’istruttoria e chiedere che sia giusta. In fondo, star qui ancora una o due settimane (sebbene io creda si tratti di più) non mi dà per niente il sentimento di essere eroico. Coloro che associano il proprio destino a quello di un partito avanzato devono essere pronti a passare in prigione un certo periodo di tempo. È una cosa normalissima e non voglio che si facciano grandi montature. Sarebbe ridicolo. Mi fa piacere che il Partito italiano d’Azione sia d’accordo con noi. [...] *** Carissimi, oggi (21, trentaseiesimo «jour de la lutte pour ma liberation»), ho finalmen- te ricevuto i libri che mi saranno utilissimi. Non capisco quali difficoltà procedurali ci fossero, questa volta. Nonostante il seccante (intenzionale?) ritardo del giudice, godo sempre di buon umore. In certi momenti, non fissabili cronologicamente, sento naturalmente un vivissimo anelito alla libertà; ma, come vi ho già detto altra volta, si tratta di un sentimento sereno, pacato, consolante. Talvolta poi mi sorprendo a pensare che, considerata sotto «certi» aspetti, in «particolari » circostanze, la vita carceraria ha i suoi vantaggi per me. Ma ho deciso che fra 2 o 3 giorni vi (o mi?) scriverò una lunghissima lettera con riflessioni sulle «Mie prigioni». Ho già in serbo 6 o 7 pensieri profondi, e uno profondissimo (modestia a parte). In questi giorni ho imparato a memoria in inglese il celebre monologo di Amleto, non perché la mia situazione psicologica abbia affinità con quella di Hamlet, ma perché il brano è veramente sublime. In 33 versi sta il dramma – perfettamente definito in sé – di ogni uomo. È eterno.
*** Carissimo papà, ho ricevuto lettere tue, di Pintus (Cesare, dirigente della sezione comunista, ndr) e di Giovanni. […] Giovanni poi mi prospetta un dubbio filosofico, in un modo invero assai strano. Infatti, egli crede che alcune parole ben congegnate possano costruire o demolire delle teorie filosofiche. Ad ogni modo gli risponderò, perché mi dà sempre un certo fastidio vedere dei materialisti (il materialismo è la teoria più ingenua che esista) e perché credo di possedere buoni argomenti. Il positivismo di Sergio poi mi sorprende; ma penso che in terza liceo ero anch’io positivista, ma in fondo penso che di tutte queste cose potremo meglio discutere a voce. Forse le lettere di Giovanni, Sergio e le altre semi-filosofiche di altri parenti non sono che un espediente per costringermi a esaurire in brevi lettere le discussioni e far sì che poi non se ne discuta fuori a voce. Riguardo ai libri (senza entrare in una discussione anche su questo: come vedi, sto evitando un gran numero di discussioni), ho ancora da leggere vari libri «cerebrali». Qui ci danno circa 2 libri alla settimana, ma sono in genere molto stupidi e più pesanti quindi degli intelligenti. I libri «cerebrali » non mi stancano, ma la notte dopo cena preferisco leggere qualcos’altro. Quindi accetto praticamente il tuo consiglio. Scegli tu libri da mandare: li desidererei in francese (per esempio Listz, Danton ecc...) e anche qualche bel romanzo. Inoltre, vedi se potete trovare il piccolo dizionario inglese-italiano (credo che si trovi nell’ultimo scaffale della libreria). Se non trovate il piccolo, «non» mandate il grande, almeno fino a che non avrò il permesso di scrivere gli appunti.
E per oggi (cinquantatreesimo giorno) basta. Sto sempre bene.
Baci. Enrico.
*** Cara zia Carmelia, ti ringrazio delle due cartoline, stranamente prive di consigli di prudenza e di «dicono». Non ti meravigliare se Dio non esaudisce i tuoi voti. In generale, non esaudisce neppure quelli del Papa, che pare sia suo intimo. La Provvidenza persegue le sue vie e i suoi mezzi sono a noi inscrutabili.
«L’unica cosa che noi possiamo sapere – diceva un filosofo, uno di quei veri filosofi che avevano la barba lunga – è che noi non sappiamo nulla. E neanche di questo possiamo essere certi». Come vedi, fare il filosofo giova poco, e conviene meglio darsi all’ippica. Eppure, certe cose le possono sapere soltanto i filosofi.
Saluti e baci. Enrico
dal libro: Walter Veltroni, Quando c’era Berlinguer (Rizzoli)
Riflessioni su un “docufilm” (“Quando c’era Berlinguer”) che certamente farà sognare, rimpiangere, discutere, e forse anche sperare quanti credono che, se un altro futuro è possibile, le sue radici sono nella nostra storia.
La Repubblica, 19 marzo 2014
Diffidate di questo articolo. Fate la tara a quanto scriverò del film di Walter Veltroni Quando c’era Berlinguer, che uscirà nei cinema il 27 marzo e andrà in onda sulle reti Sky (che ha prodotto il film) a partire da giugno. Il coinvolgimento emotivo è inevitabile; e non facile da maneggiare. La materia del film vale, per quelli come me (qualche milione di italiani, ormai tutti sopra i cinquanta), quanto la Marcia di Radetzky per il soldato Trotta nell’omonimo romanzo, risplendente e malinconico, di Joseph Roth. Il solo nome - Enrico Berlinguer - evoca al tempo stesso un’epoca e la sua fine. Una grande illusione e la sua morte. Un ordine, un’etica e un’estetica che si sfarinano - come tutto - lasciando nell’aria solamente l’eco di una remota potenza e di una fragile memoria.
Il film comincia con una sorta di anteprima insieme spietata e sorridente. Decine di giovani, intervistati su chi fosse Berlinguer, rispondono spaesati e ignari di non averne la più pallida idea. Sono studenti universitari, passanti, italiani comunque nati dopo che il Pci era morto e il suo uomo più simbolico accompagnato alla tomba da un infinito popolo in lacrime. E’ un’ignoranza portata senza arroganza, un’ignoranza gentile, come se a noi ci avessero interrogati, a scuola, su chi era Quintino Sella, e ci fossimo scusati con il professore di averlo saltato, quel capitolo del manuale.
Anche per merito del regista, che nel suo sguardo non ficca mai rimprovero, quell’ignoranza non indigna. Rammarica, ma non indigna. La storia è fatta anche di buchi. Di vuoti e di finali inesorabili. Lo storicismo nel quale generazioni di italiani di sinistra si sono formati pensava a quella trama come a un percorso tormentato, ma senza vere cesure. Un divenire capace di assorbire anche le lacerazioni più cruente. Non è così. Il film è certamente un film “storico”, per il notevole valore documentale (immagini inedite, interviste ai protagonisti) e per lo sguardo prospettico. Ma non è un film “storicista”, perché di questa particolare storia, e della Storia in generale per contagio, il racconto di Veltroni restituisce un’immagine fragile, interrotta, soggetta alle manipolazioni e all’oblio, perfino al caso: quell’attentato subito da Berlinguer in Bulgaria negli anni dello strappo dall’Urss, al quale il segretario del Pci scampò per un soffio. Cosa sarebbe accaduto, nelle sliding doors della storia, se Berlinguer, il padre dell’eurocomunismo, fosse morto per mano dei servizi dell’Est?
Sì, il caso. Anche nell’assortimento - appunto casuale - dei caratteri umani in palcoscenico; ai quali tocca recitare il complicato copione della storia. Difficile dire quanto abbia pesato, nell’inconciliabile dissidio tra Berlinguer e Craxi, il plateale contrasto tra il carattere schivo del primo, il suo tratto signorile (quasi uno snobismo difensivo) e la corpulenta sicurezza del secondo, l’uomo che per primo interpreta e incarna l’esuberanza sociale dei nuovi ceti emergenti, post borghesi e post operai, le loro legittime ambizioni e i loro allarmanti appetiti, e insomma apre la strada, come autorevole starter, agli ultimi trent’anni della nostra storia, quelli di Berlusconi. Sono tra le scene più intense del film - quasi quanto quelle, di altissima forza emotiva, delle ultime ore del segretario - i brevi frammenti che ritraggono i due “nemici” insieme. Brevissime sequenze nelle quali Berlinguer e Craxi sfuggono al rispettivo sguardo, incarnano una frattura che non è solo ideologica: è lo scontro mortale tra un “prima” e un “dopo”, tra due antropologie, tra l’Italia austera dei padri costituenti, dell’antifascismo come atto fondante, e l’Italia nuova che mal sopporta quei vincoli rigidi, quell’etica così condizionante.
Nella lettura della parabola di Berlinguer Veltroni è piuttosto esplicito, e intensamente politico. Anche grazie alle testimonianze raccolte da protagonisti diretti e autorevoli (Napolitano, Gorbaciov, Scalfari, Macaluso, Ingrao, Tortorella, Signorile, Forlani, Segre, monsignor Bettazzi, il brigatista Franceschini, l’ambasciatore americano Gardner, il meraviglioso caposcorta Menichelli, il meraviglioso operaio Finesso, Lorenzo Jovanotti unico giovane, la figlia Bianca unica donna), i dieci anni di Berlinguer, dalla vittoria nel referendum sul divorzio nel ‘74 alla sua morte nel giugno ‘84, vengono raccontati come “l’estate della sinistra italiana”, della massima espansione elettorale del partito comunista, della sua trasformazione più profonda (l’eurocomunismo, lo strappo con Mosca, la scelta della Nato) e al tempo stesso della sua liquidazione.
Sulle ragioni e i torti di questa liquidazione si può discutere all’infinito. Colpisce molto che Veltroni, certo non sospettabile di ortodossia ideologica e anzi spesso accusato di disinvoltura “modernista”, nel suo film dia una lettura profondamente “berlingueriana” di quegli anni. La crescita impressionante del Pci, la sua prossimità al potere per vie elettorali provocarono una reazione durissima e composita, visibile e invisibile, condotta a viso aperto (Craxi, la Dc non morotea, la destra) e a volto coperto (la P2, le Brigate Rosse, i servizi segreti, l’esecuzione di Moro).
La testimonianza di Alberto Franceschini, fondatore delle Br, è una esplicita rivendicazione del rapimento Moro come attacco diretto, e vincente, al “compromesso storico”, cioè al tentativo di Berlinguer di accedere al governo “guardandosi alle spalle”, proteggendo se stesso e la democrazia da un esito cileno. L’idea di un’alleanza strategica con la Dc (e con il Psi, che si chiamò fuori, per voce di Craxi, da subito) attirò sul segretario del Pci le critiche e spesso lo spregio dell’estremismo “rivoluzionario”. Ma con il senno di poi va detto che nessun’altra proposta politica, nel-l’Italia del dopoguerra, riuscì a sparigliare le carte con energia paragonabile; e la reazione - l’assassinio di Moro, la paurosa presenza della P2 in punti nevralgici delle istituzioni e dei Servizi - fu altrettanto intensa, anche se non altrettanto leale.
La cruenza di quegli anni e la successiva, relativa cessazione delle ostilità sul fronte della violenza politica (l’assassinio di strada e di Palazzo furono, nell’Italia tra i Settanta e gli Ottanta, armi ordinarie) lasciano intendere come la fine del Pci, e la riduzione della sinistra a variante non più strutturale della società italiana, rappresentarono anche la fine di una guerra politica a tutto campo, che si concluse con dei vinti (Berlinguer il loro capo) e dei vincitori.
Grande merito del film di Veltroni è resistere alla tentazione di un puro omaggio sentimentale a un leader di straordinario fascino, e a quel popolo straziato che, piangendo il suo capo, piange se stesso e il proprio congedo dalla storia italiana. No, non bastano, a raccontare Berlinguer, le immagini struggenti di piazza San Giovanni prima e dopo, piena di italiani a testa china e poi svuotata di popolo, con le pagine dell’Unità che svolazzano nel nulla. Per raccontare Berlinguer serve la politica, con tutto il suo ingombro. La politica di cui è vissuto e la politica che lo ha ucciso, la politica che muove le passioni, travolge le vite, abbatte i muri, cambia i connotati del mondo.
Più ancora della figura di Enrico Berlinguer è forse questo il vero “vuoto”, il vero lutto che questo film evoca. Come, quando, in quali forme quei ragazzi intervistati potranno mai cogliere la potenza della politica, la sua nobiltà, il suo integro nucleo di speranza, il suo essere motore del mondo, e non zavorra come appare troppo spesso, oggi, a troppi? Vedere le immagini della vita e della morte di quel signore così bello - bello come un attore - e di così elegante timidezza, artefice e insieme preda di un destino travolgente e luttuoso, farà balenare in qualcuno di quei ragazzi il sospetto che la politica possa essere il sale della Terra?
Poche ore dopo avere visto il film mi è arrivata la lettera di Beatrice. A lei, di diritto, il finale. «Sono una figlia venticinquenne di un padre quasi sessantenne, che da oltre trent’anni fa il muratore. Vedo lo sguardo di un uomo profondamente di sinistra, vissuto negli anni in cui Enrico Berlinguer era una speranza e al tempo stesso la materializzazione di un’idea (bella, immensa) che oggi non esiste più. Quello sguardo, che si perde nel vuoto tutte le volte che in tv passano i frammenti del funerale di “Enrico” (rivolto a chissà quali ricordi), si posa inevitabilmente su di me: mi dice, quasi scusandosi, che ormai tutto è finito. Ovviamente lui lo sa già da tempo, ma io no. Io, che mi considero con fermezza e fierezza una persona, una donna di sinistra, non so di che morte morirò ».
Ricordando il passato, e un grande uomo che aveva conosciuto bene, il fondatore di Enrico Scalfari ridiviene leggibile.
La Repubblica, 16 marzo 2014. Riferimenti in calce
Comincio quest’articolo con un paradosso ed è questo: Enrico Berlinguer ha avuto nella politica italiana (e non soltanto) un ruolo in qualche modo simile a quello che sta avendo oggi papa Francesco nella religione cattolica (e non soltanto). Tutti e due hanno seguito un percorso di riformismo talmente radicale da produrre effetti rivoluzionari; tutti e due sono stati amati e rispettati anche dai loro avversari; tutti e due hanno avuto un carisma che coglieva la realtà e alimentava un sogno.
Oggi, anziché commentare i fatti politici della settimana appena terminata, ho deciso di ricordare Berlinguer di cui quest’anno si celebra il trentennale dalla morte e sulla cui figura in questi giorni stanno uscendo libri e documentari che ne ricordano la forza morale, il coraggio politico, gli errori commessi e il profondo rinnovamento della sinistra.
La sua somiglianza al ruolo di papa Francesco — l’ho già detto — è un paradosso, ma come tutti i paradossi contiene aspetti di verità. Se avessero vissuto nella stessa epoca si sarebbero sicuramente rispettati e forse perfino amati.
Per quanto riguarda me, ho conosciuto, rispettato ed anche avuto profonda amicizia personale per Enrico. Lo conobbi per ragioni professionali nel 1972, quando fu eletto segretario del Pci dopo Longo e Togliatti. Fu dunque il terzo segretario di quel partito dalla fine della guerra mondiale.
La prima intervista che gli facemmo sul nostro giornale è del maggio del ’77 cui ne seguirono altre quattro, rispettivamente nel ’78, nell’80, nell’81, nell’83. Morì nel giugno dell’84 e ancora ricordo che mentre era già in agonia andai a porgere le mie condoglianze a Botteghe Oscure dove erano ancora riuniti i pochi dirigenti rimasti a Roma che partirono quella sera stessa per Verona per vegliarne la morte.
Ricordo quella mia brevissima visita perché, dopo aver detto brevi parole di condoglianze conclusi dichiarando che la sua scomparsa era una grave perdita per il suo partito ma soprattutto per la democrazia italiana. Lo dissi perché lo pensavo e lo penso ancora. La visita era conclusa, salutai i presenti e Pietro Ingrao mi accompagnò all’uscita da quella sala. Ci stringemmo la mano ma io ero molto commosso, lo abbracciai piangendo e anche lui pianse consolandomi. M’è rimasto in mente perché non era mai accaduto qualcosa di simile: d’essere consolato nella sede del Pci per la morte del capo d’un partito al quale non sono mai stato iscritto né di cui ho mai condiviso l’ideologia politica. (Nelle interviste ci siamo sempre dati del lei come lo stile giornalistico prevede, ma quando ci incontravamo privatamente passammo presto al tu. Alcune volte cenammo insieme a casa di Tonino Tatò che era il suo segretario e che conoscevo da molti anni; un paio di volte venne lui a casa mia.Oltre alle interviste su Repubblicaaccettò anche un dibattito televisivo con Ciriaco De Mita, allora segretario della Dc. Che sosteneva da tempo nel suo partito l’idea dell’“arco costituzionale” dalla Democrazia cristiana fino al Pci che non poteva dunque essere escluso dal governo senza che la democrazia fosse zoppa. Queste cose De Mita le diceva in tempi di guerra fredda in nome della sinistra democristiana e in polemica con il resto del suo partito.
In quel dibattito, trasmesso su Rete4 che allora era di proprietà della famiglia Mondadori e della quale noi del gruppo Espresso avevamo una quota di minoranza, i due interlocutori parlarono come possibili alleati per modernizzare lo Stato e risolvere i problemi sociali del paese e lo storico dualismo tra il Nord e il Sud. Il dibattito si concluse con una stretta delle nostre tre mani, una sull’altra, e così fummo fotografati. Ho attaccato quella foto in casa mia e ogni tanto, quando la guardo, mi viene da pensare che quelli d’allora erano altri tempi e altre persone.
Nel corso degli anni, dal 1977 all’84, le domande più importanti che gli feci e le risposte che ne ottenni furono sette: la natura del Partito comunista italiano rispetto agli altri e in particolare a quelli che operavano in paesi occidentali; il suo rapporto con l’Urss e col Partito comunista sovietico; il suo rapporto con il leninismo; la concezione che aveva della futura Europa; la dialettica in atto con i socialisti e con la Dc; la natura del centralismo democratico e il ruolo che il Pci doveva avere con l’Italia; il problema da lui sollevato della questione morale.
Queste domande gliele feci molte volte e le risposte non furono sempre le stesse, alcune cambiarono col passare del tempo ma l’evoluzione fu comunque coerente.
Ricordo ancora una telefonata che ebbi da Ugo La Malfa il giorno in cui Enrico ruppe decisamente con Mosca rivendicando la sua autonomia rispetto all’Urss, al Pcus e al Cominform. «Quello che aspettavamo da tanto tempo è finalmente accaduto ieri. Adesso quel miserabile cercherà di non farlo uscire dal ghetto in cui per tanti anni il Pci è stato. Spetta a noi aiutarlo affinché la nostra democrazia sia finalmente compiuta».
Gli risposi che aveva ragione ma che l’uscita dal ghetto non sarebbe stata facile, una parte del Pci era ancora sedotta dall’ideologia leninistastalinista. Noi avremmo certamente aiutato Berlinguer ma le difficoltà erano numerose, in parte esterne al Pci e in parte nel suo stesso interno. «Hai ragione — rispose Ugo — ma noi abbiamo una grande funzione da svolgere e per quanto mi riguarda mi impegnerò fino in fondo». Gli chiesi chi fosse il “miserabile” che avrebbe cercato di bloccare l’evoluzione democratica del Pci. «Lo sai benissimo chi è, infatti lo attacchi tutti i giorni». Era Craxi, di cui non voleva pronunciare neanche il nome.
Purtroppo La Malfa morì pochi mesi dopo e solo dopo morto gli italiani scoprirono che era stato uno dei padri della Patria, così come scoprì la grandezza politica e morale di Berlinguer al suo funerale. Il nostro è un popolo abbastanza strano: s’innamora più spesso dei clown che dei politici impegnati a mettere il bene comune al di sopra di ogni interesse personale e di partito. Abbiamo tanti pregi, ma questo è un difetto capitale che spiega la fragilità della nostra democrazia e dello Stato che dovrebbe esserne il titolare e il contenitore.
***
Sullo stalinismo Berlinguer fu sempre contrario e del resto la sua ascesa alla segreteria del partito era avvenuta molti anni dopo la morte di Stalin e il rapporto di Kruscev aveva già fatto chiarezza sulla natura criminologica di quella tirannide. Diverso invece era il suo rapporto con il leninismo, ma quella fu una posizione che col passare degli anni cambiò segnando l’evoluzione del Pci verso la democrazia compiuta. Ne cito il passo più significativo tratto dall’intervista del settembre 1980, quando la Polonia si era ribellata al giogo di Mosca. Fu anche in quell’occasione (l’avevo già fatto altre volte) che gli chiesi qual era la parte del pensiero leninista che rifiutava e quella invece che continuava ad accettare. Rispose così: «Lenin ha identificato il partito con lo Stato; noi rifiutiamo totalmente questa tesi. Lenin ha sempre sostenuto che la dittatura del proletariato è una fase necessaria del percorso rivoluzionario; noi respingiamo questa tesi che da lungo tempo non è la nostra. Lenin ha sostenuto che la rivoluzione ha due fasi nettamente separate: una fase democratico- borghese e successivamente una fase socialista. Per noi invece la democrazia è una fase di conquiste che la classe operaia difende ed estende, quindi un valore irreversibile e universale che va garantito nel costruire una società socialista». Mi pare - dissi io in quel punto - che voi rifiutate tutto di Lenin. «No. Lenin scoprì la necessità delle alleanze della classe operaia e noi siamo pienamente d’accordo su questo punto. Infine Lenin non si è affidato ad una naturale evoluzione riformista ed anche su questo noi siamo d’accordo».
Questo, gli dissi io, l’ha sostenuto anche Machiavelli molto prima di Lenin. «Anche noi comunisti abbiamo letto Machiavelli che fu un grande rivoluzionario del suo tempo il quale però si riferiva “alla virtù individuale di un Principe” mentre noi ci riferiamo ad una formazione politica che organizzi le masse per trasformare la società».
Un altro tema fu quello della questione morale, affrontato da lui nell’intervista del 1981 ma poi ripreso molte volte. La questione morale per lui non erano le ruberie perpetrate da uomini politici; quelli erano reati da denunciare alla magistratura. La
questione morale era invece l’occupazione delle istituzioni da parte dei partiti. Questo, secondo lui, era necessario fare e la leva avrebbe dovuto essere il rispetto letterale della Costituzione come avevano più volte auspicato Bruno Visentini e il nostro giornale che l’aveva sostenuto. Anche Berlinguer lo sostenne fin dall’81 ma ci ritornò con la massima chiarezza sul nostro giornale nel maggio dell’83. «Noi vogliamo un governo diverso, un governo-istituzione, formato sulla base dell’articolo 92 della Costituzione, cioè che nasce su scelta del presidente del Consiglio incaricato dal capo dello Stato senza patteggiamenti con le segreterie dei partiti. Chiediamo cioè il rispetto puro e semplice della Costituzione e siamo certi che se si cominciasse a far così l’esempio si trasmetterebbe alle istituzioni minori, enti, banche, unità sanitarie, televisione e tutta l’infinita serie del sottogoverno. Questo è per noi il governo diverso. Per noi qualunque governo dev’essere costituito così indipendentemente dal colore della maggioranza che lo sorregge».
Infine le domande sulla politica economica e la risposta chiarissima (1983). «Non si può giocare a poker puntando sui bluff. Bisogna essere ben determinati ma prudenti. Non penso certo che un governo di sinistra possa fare finanza allegra. Perciò diciamo che tutte le spese correnti debbono esser coperte da entrate fiscali mentre l’indebitamento serve solo a finanziare gli investimenti. Poi bisogna rivedere la leggi sulla sanità e sulla previdenza affinché, al di sopra d’una certa fascia di redditi inferiori, i cittadini contribuiscano al finanziamento di tasca propria. Un buon governo non si può regolare che in questo modo».
Ve l’aspettavate, cari lettori, che Berlinguer trent’anni fa, parlando d’un governo di sinistra del quale il Pci sarebbe stato uno degli assi portanti, auspicasse una sanità che i redditi medioalti finanziassero di tasca propria? Attenzione a chi parla dell’attuale tentativo del nuovo presidente del Consiglio di vagare in cerca di coperture per un governo più a sinistra degli ultimi trent’anni. Berlinguer, proprio trent’anni fa, le coperture le trovava sgravando i lavoratori a spese dei redditi medio-alti. Ma oggi una proposta del genere sarebbe tacciata di comunismo inaccettabile e infatti non viene neppure ritenuta possibile e già un aumento della tassazione sulle rendite (quali?) è ritenuto “sovversivo”.
Ho cercato di ricordare il Berlinguer che ho conosciuto. Aveva un grande carisma ma era timido, era riservato, era prudente, era moralmente intransigente. Voleva, insieme a Lama e ad Amendola, l’austerità, perfino sui salari operai, ma voleva anche che i valori della classe operaia coincidessero con l’interesse nazionale, come sempre deve avvenire quando un ceto sociale ha la responsabilità di sintonizzarsi con tutto il paese.
Sandro Pertini piangeva quando il feretro con le sue spoglie che era andato a prendere a Verona sbarcò all’aeroporto di Ciampino. Ero andato lì per incontrarlo e ricordo quel che mi disse: «Se n’è andato l’ultimo grande della sinistra italiana. Senza di lui questo paese riscoprirà i suoi vizi e le sue debolezze e non sarà certo la sinistra a fare da argine al fiume limaccioso che esonderà».
Vedeva giusto purtroppo il vecchio Pertini che aveva passato tanti anni della sua vita in galera, al confino o nelle brigate Matteotti della guerra partigiana.
C’era più gente a quel funerale di quanta ce ne fosse a quello di Togliatti che pure aveva mobilitato milioni di persone. Quella fu l’ultima fiammata, il ploro di tutta la nazione. Adesso siamo scivolati piuttosto in basso; si ride, si motteggia o s’impreca e si pugnala alla schiena. E vi assicuro che per un vecchio testimone del tempo non è affatto un bel vedere.
Ricordando Antonio Cederna, a 17 anni dalla scomparsa. «I temi che portò all’attenzione dell’opinione pubblica sono ancora lì: Parco dell’Appia, Fori, centri storici, difesa delle coste, piani per le città.
La Stampa, 27 agosto 2013
Sono trascorsi 17 anni da quando, il 27 agosto del 1996, scomparve un pilastro della cultura ambientalista italiana. Il senso di vuoto che affiora ripensando alla passione di Cederna è amplificato da questo periodo, critico e incerto, con l’Italia appesa in uno scenario che non lascia intravedere vie d’uscita dal declino dell’idea stessa di comunità
L’estate permette, con i suoi tempi dilatati, di far correre la mente, ricordando e riflettendo sul passato. Un esercizio della memoria e della volontà per trarre insegnamento dalla storia, comprendendo il senso delle cose e dando il giusto valore a ciò che conta veramente. Sono trascorsi 17 anni da quando, il 27 agosto del 1996, è scomparso Antonio Cederna. Il senso di vuoto che affiora ripensando alla passione di Cederna è amplificato da questo periodo, critico e incerto, con l’Italia appesa in uno scenario che non lascia intravedere vie d’uscita ma, piuttosto, un deterioramento dei valori e il declino dell’idea stessa di comunità.
I valori sono stati il centro della vita di Antonio Cederna: etica, responsabilità, competenza, impegno civile, di volta in volta rivolti alla professione di giornalista, al ruolo di militante ambientalista, all’azione dell’uomo politico, all’essere un esponente del mondo della cultura. Con rigore ha saputo dire cose scomode, non accettando di tacere di fronte ai disastri, alle manomissioni del territorio e del patrimonio culturale del nostro paese.
Argomenti scomodi, un fastidio per la politica diventata strumento di gestione del consenso e oggetto di scambio clientelare: una scomodità che costò a Cederna l’essere posto nell’alveo degli intellettuali, un po’ eccentrici, ma non adatti a governare. Troppo spesso liquidato con l’appellativo di Cassandra, con la superficialità di chi non vuole capire e affrontare realmente i problemi, preferendo l’improvvisazione di soluzioni poco efficaci e di scarso rilievo.
Serve ancora oggi, nell’Italia del 2013, ricordare chi scrisse libri che in realtà erano denunce e testimonianze, come I vandali in casa, La distruzione della natura in Italia, Memorabilia Urbis, … . Serve e sarebbe utile ripercorrere e studiare il suo archivio, vedere le interviste, ascoltare la descrizione di come si costruivano periferie brutte e invivibili: tutto il materiale, raccolto in decenni di attività, è oggi disponibile, grazie alla sua famiglia che lo ha donato, affinché diventasse un patrimonio di conoscenza collettivo. Una scuola dell’esperienza e del metodo di lavoro che mise in cima alle priorità la comprensione dei problemi, studiando le soluzioni e proponendo un modo diverso di affrontare le criticità, guardando all’Europa, restituendo un valore al bene comune e affermando un ruolo ineludibile del decisore pubblico. (www.archiviocederna.it)
L’attualità dei suoi scritti è ancora qui, sotto i nostri occhi: l’incapacità di governare il territorio, di guidare lo sviluppo, attraverso scelte di buon governo, fatti che possono risultare ovvii ma che, ancora oggi, caratterizzano l’assenza di una politica che capace di fare della sostenibilità la base per il futuro dell’Italia. Un’attualità resa ancor più dirompente perché, già negli anni ’60, indicava nell’Europa il modello da imitare, seguendo l’evoluzione dell’urbanistica e delle politiche di gestione del territorio.
I dati relativi al consumo di territorio, alla perdita di biodiversità, all’inquinamento nelle aree urbane, alle emergenze “permanenti” come quelle dei rifiuti, del dissesto idro-geologico sono inquietanti: l’Italia registra un ritardo e un arretramento rispetto agli altri paesi europei, accumulando inefficienze e inadempienze. Non si tratta di una posizione puramente estetica, da “anime belle” come l’avrebbe definita Cederna: è un problema ben più complesso, fondato sul rapporto tra scarsità e disponibilità di risorse. Si tratta, in realtà, di una questione civile e culturale che può fare la distinzione tra una nazione e un’altra per il livello di progresso raggiunto, per il rispetto della legalità e delle opportunità di sviluppo alle quali accedono i cittadini. L’Italia oggi detiene il primato in Europa per le procedure di infrazione alle norme comunitarie in materia ambientale e in molte regioni il circuito economico legato alla criminalità coincide, non casualmente, con un alto tasso di reati ambientali, favorendo un florido settore che abbiamo imparato a chiamare “ecomafie” fatto di traffici illeciti, corruzione e inquinamento.
Si continua a credere che sia sufficiente scrivere le leggi, senza preoccuparsi di come farle rispettare, facendo crescere il capitale sociale e la coscienza di una cittadinanza attiva. Siamo tuttora bloccati a un modello dell’economia slegata dai processi ecologici e dall’impatto delle attività dell’uomo sull’ecosistema dove l’energia diventa un’emergenza se il petrolio raggiunge il prezzo di 100 dollari al barile ma non ci poniamo il dubbio di comprendere quali costi collettivi, legati ai cambiamenti climatici, non sono compresi in quel prezzo, ma pesano come un macigno in termini di ritardo nell’adottare altri modelli fondati sull’innovazione.
Nel frattempo un altro anno è trascorso così, con boschi bruciati, discariche stracolme di rifiuti, città ammorbate dal PM10 e dal monossido, spiagge con divieti di balneazione, alluvioni e frane, …, . Si dirà che tutto questo è inevitabile, che non si può limitare il mercato: eppure gli allarmi si fanno sempre più ricorrenti, il clima si sta modificando e le soluzioni non possono essere sempre improntate all’emergenza, a provvedimenti estemporanei.
Biodiversità, clima, trasporti, energia, acqua, territorio, rifiuti, tutte tematiche che quotidianamente entrano con forza sulle pagine dei giornali e nelle nostre vite ma che, con grande difficoltà, si trasformano in politiche strutturali restando, spesso, inutili grida d’allarme, titoli di giornale che durano pochi giorni, facendoci restare nel rischio dell’emergenza e della catastrofe imminente. Le stesse emergenze di cui scriveva Cederna, avvolte, oggi come allora, nella disattenzione. La disattenzione che potrà essere più o meno colpevole ma sempre ancorata alla convinzione che l’ambiente sia un serbatoio da consumare senza mai porsi il dubbio circa la riproducibilità delle risorse e la responsabilità verso le generazioni future.
Degli incendi estivi, diceva Cederna, bisognerebbe parlarne durante l’inverno, quando è necessario programmare gli interventi, predisporre i provvedimenti, rendere efficienti gli strumenti di tutela e di prevenzione: un’idea alquanto bizzarra in un paese abituato all’emergenza e all’ineluttabilità delle cose che accadono perché il destino è cinico e baro. Un paese dove la regola non è la pianificazione bensì la deroga e il ripetersi di condoni e prescrizioni, frutto di una corruzione diffusa e dell’irresponsabilità di chi dovrebbe controllare. Eccoci quindi fermi nel ritenere che l’ambiente sia un limite, un intralcio per il progresso, un vincolo per la crescita economica misurata dal PIL: i boschi in fiamme, i fiumi inquinati o il traffico congestionato nelle aree urbane sono ancora considerati il costo da pagare per accedere a un maggiore benessere. Il PIL dimostra la sua inadeguatezza nel misurare lo sviluppo di un’economia che non può basarsi soltanto sulla quantità di beni e servizi ma dovrebbe registrare anche il livello di qualità dello sviluppo, creando condizioni di maggior competitività basate su scelte strutturali.
Antonio Cederna queste cose le vide e le denunciò, con forza e fermezza, insistendo affinché l’opinione pubblica prendesse coscienza e rinnegasse uno stato di cose come questo: alcune battaglie di Cederna sono arrivate tal quali fino ai nostri giorni e, tuttora, sembra impossibile ripristinare la normalità. Battaglie che, riascoltando gli accorati interventi di Cederna, sembrerebbe ovvio che lo Stato facesse proprie, oggi più che mai, riaffermando i principi di legalità e di buona gestione, definendo obiettivi e programmi, affidando compiti e responsabilità in modo chiaro.
Eppure non è così: si continua a discutere dello sviluppo delle città e delle condizioni di vivibilità delle periferie; si insiste a mettere in dubbio l’utilità di parchi e riserve naturali; si minano le condizioni minime per tutelare e proteggere il patrimonio storico, artistico e archeologico; si considera il paesaggio come un intralcio per la crescita economica; si resta immersi nella pigrizia e nell’assenza di visione, una poltiglia che avvolge tutto e rende inestricabili i nodi.
Quelli che furono, cinquanta anni fa, i temi che Cederna portò all’attenzione dell’opinione pubblica sono ancora lì, afflitti dal disinteresse e dall’ignavia: il Parco regionale l’Appia Antica, i Fori, la tutela dei centri storici, la difesa delle coste, la pianificazione delle città. Di volta in volta si annunciano programmi straordinari e soluzioni innovative ma, alla fine, restano solo l’abbandono e la precarietà, nell’assenza pressoché totale di una visione di lungo periodo. Anche per Antonio Cederna ha funzionato la regola che vuole che si dia maggior risalto e valore alle idee di coloro che non ci sono più, spesso per un vezzo elitario, per dare solo maggior dignità alle proposte, destinate a restare ipotesi o dichiarazioni di principio. Toccò anche a lui la sorte di restare nella solitudine di chi vuole anteporre l’interesse collettivo al profitto personale, la solitudine di chi scrive e vorrebbe vedere le cose cambiare.
Sono trascorsi diciassette anni dalla sua scomparsa: se Cederna fosse qui continuerebbe a essere una voce pungente e brillante denunciando disastri annunciati e disattenzioni. Ben poco si è saputo apprendere dalla sua intelligenza e dal suo impegno civile: i calendari continuano a essere punteggiati con le date delle alluvioni, degli incendi, delle frane, delle discariche stracolme, del caos sulle strade, delle città invivibili. Continuiamo a ricordare i luoghi con le conseguenze delle nostre disattenzioni, senza intravedere un’alternativa. Restano soltanto gli sprechi irrisolti, i tagli irragionevoli e l’abbandono cronico.
La grande bellezza la vediamo solo nei film, ma, una volta tornati nella realtà, siamo ancora lì, tra l’abbandono e la desolazione, con la rassegnazione che possa cambiare ben poco. Antonio Cederna resta un monito, utile se un giorno si decidesse di cambiare marcia, per davvero.
Quest'anno la "Escola de Verano" comprendeva dodici corsi, che coprivano discipline come il Diritto pubblico, la Comunicazione, la Pedagogia, la Biologia, il Diritto penale, la Scienza politica. E per la prima volta anche i fumetti, nella loro dimensione politica. Alcuni docenti che collaborano alla Cattedra Unesco, in memoria di Francisco Fernandez Buey, uno studioso morto prematuramente meno di un anno fa, proposero al direttore della cattedra, Bernardo Diaz Nosty, un corso su Antonio Gramsci. Qualcuno espresse perplessità giudicando il corso troppo specialistico, ma alla fine la proposta passò. Risultato: il corso su Gramsci ha avuto di gran lunga il maggior numero di iscritti, e addirittura il maggior numero di partecipanti di tutta la storia della Scuola estiva. Una sorpresa un po' per tutti, anche perché il titolo del corso, "La vigencia del pensamento de Antonio Gramsci", era molto "tagliato", e dava quasi un messaggio politico, al punto che qualche studioso italiano contattato per svolgere il ruolo di docente ha rifiutato. E ha fatto male. Perché il corso, diretto da Ana Jorge Alonso, ha rappresentato una esperienza entusiasmante. Innanzi tutto per il pubblico frequentante: persone di ogni età e professione, dagli studenti ai professori delle Superiori, dai docenti universitari (inimmaginabile da noi che dei docenti vadano a frequentare, come iscritti paganti, una Summer School della loro università) ai sindacalisti, dai militanti di sinistra a semplici appassionati. Ogni lezione era seguita da un dibattito intensissimo, pieno di curiosità, dove non si facevano comizi, ma si ponevano domande intelligenti, che traducevano un'autentica volontà di sapere. E molti cominciavano i loro interventi nella discussione spiegando il loro Gramsci: ossia come l'avevano conosciuto e che cosa sapevano di lui. Un insegnante di scuola media ha detto che di Gramsci sapeva a mala pena il nome, e quando ha visto qualche mese fa il programma del corso, è andato a cercare informazioni su Wikipedia e altri siti, ed è rimasto «impressionato» da ciò che ha trovato e letto (così ha detto). Ha deciso di iscriversi: ha seguito l'intera settimana, occupando sempre lo stesso posto - stessa fila, stesso banco - prendendo appunti, facendo domande, diligente e attivo, testimoniando, giorno dopo giorno, il proprio crescente entusiasmo. Notevole la presenza di laureandi, dottorandi, docenti di discipline che si potrebbero immaginare (sbagliando) estranee all'universo gramsciano, come il Diritto, la Linguistica, la Traduzione, la Psicologia.
In tutti i partecipanti (oltre 40, alcuni provenienti dal circondario, qualcuno addirittura da città distanti fino a un centinaio di chilometri), è visibilmente andato crescendo l'interesse per la vita, il pensiero e la fisionomia politica di questo rivoluzionario pensoso, di questo marxista critico, di questo comunista umanistico, la cui fortuna attuale scaturisce precisamente dalla differenza tra la sua posizione e il suo pensiero rispetto alla dogmatica marxista e il socialismo reale, la sua distanza da ciò che chiamiamo, semplificando, stalinismo. Si è insistito, da vari punti di vista, precisamente sulla «diversità» di Gramsci, e ci si è interrogati sulla sua «attualità», anche se la risposta che personalmente darei è di assoluta inattualità ma nel contempo di drammatica necessità. Difficile immaginare oggi, tanto a livello nazionale, quanto sovranazionale, una estraneità così assoluta: il rigore etico, l'onestà intellettuale, la coerenza politica, la stessa ricchezza umana, di cui la vita, l'azione e il pensiero di Antonio Gramsci sono prova provata, duramente provata, appaiono distanti anni luce dalle regole e dalle prassi del tempo presente. Eppure quanto bisogno vi sarebbe precisamente di questi tratti, per fare cultura, una cultura disinteressata, ossia non finalizzata a una carriera accademica o al mercato, ma nel contempo una cultura che miri a comprendere, come scriveva il giovane studente dell'università di Torino nel 1916, il nostro posto nel mondo, i nostri diritti e i nostri doveri, per acquisire consapevolezza, apprendere il principio di responsabilità. Tutti passi fondamentali per l'azione politica. Gramsci sarebbe utile, e direi necessario anche per tentare di fare una politica che ricuperi la propria nobiltà, che associ una concezione realistica dei rapporti di forza, con la spinta dell'utopia trasformatrice. Curiosamente, proprio in Italia questa "vigencia" di Gramsci sembra ignorata: una giovane ricercatrice che collabora alla Cattedra Unesco, ma ha rapporti con l'Università di Torino, mi racconta che, venuta appunto sotto la Mole, avendo annunciato il corso su Gramsci al gruppo di docenti e ricercatori torinesi, ha ricevuto un gelido commento: «Da noi Gramsci è superato». E costoro sono scienziati della politica...
A dispetto del giudizio di costoro, il corso malagueño ha confermato di vedere nell'elaborazione di Gramsci, una eccezionale ricchezza multiversa e un'assoluta originalità: del giornalista rivoluzionario, poi del dirigente politico, infine, nel prigioniero del fascismo che riflette sulla sconfitta del movimento operaio. Per Gramsci il marxismo costituisce una fonte essenziale, ma non è la sola; e il comunismo la prospettiva, ma con caratteri suoi propri: si tratta di due etichette insufficienti, in definitiva, anche se entrambe corrette. Con Gramsci ha inizio un'era nuova nella storia del pensiero occidentale: tale il messaggio che Malaga lancia oggi. Per diffonderlo, alla conclusione del corso, si è deciso, unanimemente, di radunare la comunità gramsciana nel luogo ideale in cui gli intellettuali sempre si incontrano e lanciano le loro idee: non un nuovo centro studi (ne esistono), non una cattedra (ce ne sono, specie in America Latina), non un'associazione (la International Gramsci Society nacque negli Usa nel 1989, grazie a Joseph Buttgieg, e ha una vivace Sezione italiana, presieduta fino alla morte dal compianto Giorgio Baratta, ora da Guido Liguori); nulla di tutto questo. Ma, semplicemente, una rivista, che si chiamerà classicamente Gramsciana, ospiterà contributi in diverse lingue, avrà un Consiglio di direzione e un Comitato scientifico internazionali. Alla rivista Malaga affida il compito di riprendere il discorso della "Escola de Verano" 2013.
Un ricordo del “prete di marciapiede e, in calce, il suo ultimo articolo sul quotidiano comunista.
Il manifesto, 23 maggio 2013
Don Andrea Gallo, mio fratello, ci ha lasciato. Io che non credo ma che conoscevo la sua forte fibra e resistenza, pure fino all'ultimo ho sperato che il suo sorriso potesse fare il miracolo. Prete da marciapiede come si è sempre definito, è stato uno dei sacerdoti più noti e più amati del nostro sempre più disastrato Paese. Non solo per me, siamo in centinaia di migliaia di persone che da sempre lo abbiamo sentito come un fratello, una guida, un maestro, un compagno.
il manifesto, 2 gennaio 2013
Ho visto gioiosamente nascere la democrazia nel 1945, con la mia Brigata Partigiana, comandata da mio fratello, ex tenente del Genio Pontieri, sopravvissuto alla tragica campagna di Russia, a d
La testimonianza «di un tempo e di una vicenda senza capire la quale è difficile comprendere un tratto assai speciale della storia d'Italia; il ricordo di un uomo che aveva una qualità ora rara: l'ostinazione nell'impegno a tener aperta la strada per una società alternativa».
Il manifesto, 17 luglio 2013
Mi dispiace moltissimo non essere presente *a questo ricordo di Luigi soprattutto perché si tiene a Cagliari, la città senza la quale, sebbene non vi abbia abitato a lungo, non saprei nemmeno pensarlo. Lo so da sempre quanto Cagliari sia stata importante, ma da quando ho potuto leggere le lettere della sua mamma, che avevo conosciuto negli anni '50 e '60, già assai anziana - Dede Dore Pintor - recentemente raccolte in un bellissimo volume, ho potuto capirlo anche di più. Perché queste lettere ci fanno penetrare nell'intimità della sua vita, ci restituiscono per intero la figura dei suoi familiari, dei suoi famosi e amati zii, che da sempre, per quanto Luigi li citava, è come se avessimo conosciuto pur non avendoli mai incontrati.
Parlo di questo libro - Da casa Pintor. Un'eccezionale normalità borghese - perché non si tratta solo di un ricordo personale, ma della testimonianza di un tempo e di una vicenda senza capire la quale resta difficile comprendere un tratto assai speciale della storia d'Italia, di cui Luigi, così come suo fratello Giaime ma anche una parte non irrilevante della sua generazione nata in un ambiente simile, è stata protagonista: come poté accadere che nel buio della società fascista degli anni '30 emergessero consapevolezza e il senso del dovere civile, dell'impegno, sottraendo una leva di giovani destinata alle passioni letterarie (o musicali, per Luigi) perché acciuffata dalla storia e scaraventata, prima nella Resistenza, poi nella milizia politica. E - va aggiunto - come fu che, per via del coraggio di Togliatti, essa fu catapultata nei più importanti incarichi del Pci, prendendo il posto di vecchi ed eroici compagni che per via della prolungata assenza dal paese che era stata loro imposta difficilmente avrebbero potuto interpretare gli umori della nuova Italia che si andava costruendo dopo il 1945.
Luigi Pintor è stato, al massimo livello, uno di questi giovani. Per ragioni di età io sono ormai una delle poche persone che possono ricordare quel tempo remoto e le vicende travagliate che l'hanno percorso. Perché già ben prima che il manifesto nascesse, si era avviato un modo nuovo di intendere il comunismo, un tentativo che abbiamo sentito possibile già nel grande corpo appesantito ma ricco del vecchio Pci, che poi, nel '68, abbiamo sperato potesse reinverarsi nel rapporto con nuovi movimenti portatori di una più aggiornata critica anticapitalista.
Ricordo questa nostra ambizione perché non voglio che nel commemorare Luigi passi l'idea, presente in molte pur rispettose e anche affettuose commemorazioni, di un grande giornalista, di un raffinato intellettuale, di un prodigioso polemista e anche testimonianza di un grande impegno politico-morale, e però di un irrealistico e sconfitto profeta. Nella storia de il manifesto - e del Pdup che nella fase iniziale abbiamo assieme costruito e cui Luigi ha dato il contributo che le sue straordinarie qualità gli consentivano - ci sono stati certo errori e soprattutto impazienze. E tuttavia, nonostante tutto quanto è avvenuto in questi ultimi decenni, l'ipotesi cui Luigi ha fornito il suo impegno quotidiano risulta ancora fondata. Vorrei tornare a citare l'editoriale che Luigi scrisse il 28 aprile 1971 sul primo numero del giornale. «La situazione - scriveva Luigi - esige molto di più di un rifiuto. Siamo convinti che c'è bisogno ed urgenza di una forza rivoluzionaria rinnovata, di un nuovo schieramento, di una nuova unità della sinistra, di un nuovo orientamento strategico complessivo. Pensiamo che solo per questa via sarà possibile mettere a frutto il patrimonio che le esperienze del passato e del presente hanno accumulato».
Questo suo editoriale potremmo ripubblicarlo oggi tale e quale (se si eccettua qualche espressione datata). Non solo perché in una situazione così gravemente deteriorata come la nostra restano ancora aperti gli stessi problemi, di come interpretare gli umori smarriti dei nuovi soggetti e di come coniugarli con quanto di meglio l'esperienza ha accumulato, ma perché vi traspare una qualità che oggi sembra diventata rara e che nel pur tanto scettico e autoironico Luigi Pintor era fortissima: l'ostinazione nell'impegno a tener aperta la strada per arrivare a una società che somigliasse a quello che noi intendiamo per comunismo. Un comunismo, Luigi non ha cessato di ammonirci, fatto anche di musica e di poesia. Perché mai, del resto, avrebbe continuato ad andare per 33 anni a Via Tomacelli 146, proprio lui cui piaceva così tanto suonare il piano, andare al cinema, leggere romanzi, passeggiare con Isabella e scrivere ma non sempre e necessariamente di Berlusconi? Non lo avrebbe fatto se non ci fosse stata questa ostinazione. I comunisti sono anche questo: ostinati. Il che non vuol dire non essere attraversati dai dubbi necessari e dalla difficoltà di vivere, per Luigi più grave che per altri, non solo perché la vita gli aveva imposto dolori eccezionali, ma per via della sua estrema ipersensibilità, della sua speciale ironia che spesso si rovesciava in auto e altrui distruzione. Di tutto questo, del resto, del come ha patito le contraddizioni che in lui stesso faceva nascere l'impegno, ha scritto lui stesso, mirabilmente, in Servabo.
Dieci anni fa , ricordo, poco dopo la morte di Luigi, venni a Cagliari per il primo ricordo in questa città. E mi rammento che sollecitai i compagni a raccogliere la memoria di quel passaggio politico che proprio qui è stato così significativo e corale: dalla sezione Lenin allora guidata da un compagno che abbiamo purtroppo perso presto, Salvatore Chessa, fino al Manifesto. Questo convegno è una prima risposta all'esigenza di ripercorrere quella storia. Una vicenda che vede Luigi protagonista ma che è anche storia collettiva, vostra e poi anche nostra di noi che vivevamo altrove. Come sono tutte le grandi storie appassionate. Per ormai molti decenni, nel bene e nel male, nonostante rotture e reciproci dissensi, le vite di chi ha percorso questo itinerario si sono intrecciate. Siamo tutt'ora, lo registro nel mio tanto girare per l'Italia, un collettivo di cui Luigi finché ha vissuto è stato protagonista. Nonostante fosse schivo e solitario Luigi non era un individualista. I suoi sacrosanti e permanenti dubbi, il suo legittimo scetticismo non l'hanno mai fatto sentire lontano, non hanno mai dato luogo ad abbandoni. Perché, lo ripeto, Luigi era comunista. La parola sembra oggi impronunciabile, ma la scrivo, anche perché Luigi a questa definizione ci teneva.
* Luciana ha inviato questo contributo al quotidiano comunista «il manifesto» e al seminario sul decennale della morte di Luigi Pintor - dove non era presente ed è stato letto - promosso dal Manifesto Sardo a Cagliari giovedì 15 scorso, con la partecipazione tra gli altri di Valentino Parlato, Loris Campetti, Claudio Natoli e Marco Ligas.
Il ricordo di un sindacalista, Nazareno (Neno) Coldagelli, e un racconto di momenti importanti della nostra storia: la lotta alla Marzotto di Vicenza, che aprì il “68” italiano, e quella a Porto Marghera, che fu alla base degli sforzi per il risanamento della città. Soprattutto una testimonianza di ciò che intelligenza critica e dedizione morale possono fare quando incontrano la volontà di riscatto degli sfruttati.
NENO A VICENZA.
L’esperienza vicentina, a cavallo tra gli anni sessanta e settanta, fu decisiva nella formazione di quella straordinaria figura di uomo e di dirigente sindacale che è stata Neno Coldagelli. A Vicenza – egli scrive – “diventai sindacalista a tutti gli effetti”. E, aggiunge: “La vicenda della Marzotto è quella che più mi ha segnato”. Più volte abbiamo parlato nel corso degli anni di questo storico, duro scontro di classe, lungamente preparato, evento anticipatore dell’autunno caldo. Tutt’altro che una “Jacquerie” come finalmente riconoscono la maggior parte degli storici. Neno rivendica la “giustezza e la lungimiranza” delle scelte compiute allora e ne attribuisce gran parte del merito al suo amico Ermenegildo Palmieri, che considera “il protagonista assoluto della lotta”. Ho riconosciuto in questo scritto lo stile attraverso cui Neno si relazionava anche con noi, allora giovani dirigenti sindacali promossi a ruoli di grande responsabilità già nei primissimi anni settanta. Era appena stato eletto segretario generale della Camera del Lavoro di Venezia, ma abitava ancora a Vicenza con la famiglia, quando lo conobbi nel gennaio del 1972. Veniva nella piccola sede della Camera del Lavoro in Contrà Corpus Domini, forse per terminare il passaggio di consegne a Gildo.
L’ambiente nel quale avemmo il privilegio di essere inseriti era un luogo di unificazione generazionale, profondamente plasmato da questi uomini tenaci e combattivi e da un gruppo dirigente solidale e coeso che aveva nel Partito la sponda dell’ingraiano Romano Carotti con il quale Neno “si trova a proprio agio” ma ciò non lo metteva ovviamente al riparo né dagli strali che gli riserva Cossutta né dalle raccomandazioni alla prudenza che ripetutamente venivano da una parte della CGIL Nazionale. Già, perché Neno è figlio della “sinistra sindacale” della quale – scrive Giuseppe Pupillo – “Coldagelli e Palmieri sono stati interpreti intelligenti e dinamici” conferendo alla CGIL Vicentina “una vivacità che difficilmente si ritrova negli anni successivi”.
Sono gli anni del superamento delle Commissioni Interne sostituite dal “Sindacato dei Consigli” e dell’unità sindacale costruita “dal basso”. E’ questa una storia di successi che dimostra che si può essere radicali nell’impostazione, coraggiosamente innovatori nelle scelte politiche, ma non minoritari. Al contrario, Neno e Gildo dimostrano, in quegli anni cruciali, che una CGIL di assoluta minoranza dentro “la sagrestia d’Italia” può diventare - e diventa- egemone nelle scelte delle politiche sindacali e crescere anche dal punto di vista organizzativo.
A questa impostazione culturale Neno rimase profondamente legato per tutta la sua vita. Ne è testimonianza anche la bella lettera che mi ha inviato il 18 settembre del 2008 per commentare con acutezza e molta generosità “La statua nella polvere”, il libro da me curato sulle lotte operaie del sessantotto a Valdagno. Nel suo denso scritto s’interroga sulle ragioni della scomparsa dei Consigli dei Delegati. Non considera esauriente l’analisi contenuta nella lunga citazione di Bruno Trentin che nel ’98 ne attribuisce sostanzialmente le cause alla loro burocratizzazione, per il venir meno del faticoso esercizio della democrazia. “Parole sante” scrive Neno, ma si chiede “è solo questo?” Egli ci propone la seguente riflessione:
“ La forza originaria del Consiglio dei delegati risiedeva certo nella democrazia, ma si nutriva di una politica sindacale di grande spessore che, per dirla in soldoni, aveva al suo centro la contestazione dell’organizzazione capitalistica del lavoro esercitata sul campo dal delegato di gruppo omogeneo, effettivo strumento di democrazia e di rinnovamento del sindacato. La mia convinzione è che la democrazia è stata sovrastata dalla burocrazia quando è venuta a meno quella politica e gli ambiti della contrattazione si sono sempre più risolti in termini quantitativi. Nella crisi dei Consigli ha naturalmente concorso la fine della fase fordista e l’inizio degli effetti della globalizzazione. Dentro questo quadro oggettivo va però anche collocata la responsabilità soggettiva della CGIL, dalla politica dell’EUR agli accordi del ‘92/’93, che hanno definitivamente ossificato il concetto di contrattazione. E qui purtroppo c’entra anche Bruno”.
Dalla sua bella e ricca testimonianza sul quinquennio vicentino emerge la conferma di come sia esistita una relazione dialettica tra le “istanze della base” e l’intelligenza politica dei suoi dirigenti ( che egli con il “suo caratteristico understatement” attribuisce solo agli altri), tra “spontaneità operaia” e comportamenti soggettivi dei quadri dirigenti e la loro totale dedizione alla causa.
E’ senza dubbio vero che in quella fase il mercato del lavoro fa lievitare il potere contrattuale; che l’ideologia del benessere e del miracolo economico contribuiscono a legittimare richieste e aspettative; che il clima politico nel mondo stava mutando. Ma tutto ciò non basta a spiegare la riscossa operaia e un ciclo così prolungato di lotta che non ha paragoni in Europa: il maggio francese durò “l’espace du un matin”. Vi contribuisce il fatto che, come scrive Asor Rosa, “solo in Italia – solo in Italia in tutto il mondo – movimento operaio e movimento studentesco crebbero solidalmente, tendendosi la mano”.
Vi contribuisce fortemente la tenacia del sindacato di classe nel partire dall’interesse concreto senza smarrire la visione politica. Al suo interno vi ha un ruolo decisivo quella “sinistra sindacale” che faceva capo alla “FIOM e a Garavini” a cui Neno s’ispirava e si sentiva di appartenere. “Una minoranza”, egli ci dice “da testimone diretto”, perché “settori importanti” del sindacato assumono “molto burocraticamente” i Consigli dei Delegati anche quando essi “straripano”. Vi contribuisce l’esperienza di lotta dei sopravvissuti nuclei operai rimasti fedeli ai valori anticapitalisti e antifascisti che Neno incontrerà nelle due principali fabbriche metalmeccaniche: la Pellizzari di Arzignano e le Smalterie di Bassano. Vi contribuisce la scelta di puntare su una forma di contrattazione articolata incentrata sulla “contestazione dell’organizzazione capitalistica del lavoro” che si traduceva in “una politica rivendicativa che poneva al centro i problemi degli organici, dei carichi di lavoro, degli orari e dei turni, della difesa della salute, con una presenza martellante di fronte alle fabbriche”.
Questo racconta Neno parlando simpaticamente del “leggendario” suo amico Palmieri che, nelle calure estive “non aveva il tempo di cambiare le gomme da neve” e “soffiando e sbuffando intorno al ciclostile, sfornava migliaia di volantini al giorno che distribuiva la mattina successiva davanti alle fabbriche Marzotto e Lanerossi che da sole allora occupavano ventimila persone.” Volantini che parlavano delle specifiche condizioni di lavoro in quella determinata fabbrica precedentemente scandagliate attraverso il metodo dell’ “inchiesta operaia” creando così coscienza collettiva.Volantini che indicano la strada da seguire nella contrattazione attraverso la conquista del diritto di tutti i lavoratori di “eleggere su scheda bianca i comitati di reparto”. Volantini che in alcune occasioni si trasformano in schede referendum per ottenere un consenso di massa alla proclamazione dello sciopero indetto dalla sola CGIL.
NENO A VENEZIA
Quando Neno giunge a Venezia nel dicembre del 1971, trova una situazione di forte tensione sociale e di effervescenza sindacale. I lavoratori della SAVA in lotta contro la chiusura della fabbrica avevano piantato la tenda in piazza Ferretto. A novembre c’era stato lo sciopero generale, il quarto, che aveva riguardato tutta la provincia. Il 2 dicembre una cinquantina di operai della Montedison e dell’impresa Fochi venivano intossicati dal fosgene, il micidiale gas usato nella prima guerra mondiale. Non perde tempo. Si butta nella lotta. Già il 9 gennaio organizza una manifestazione antifascista intorno alla tenda della SAVA alla quale partecipano operai e studenti. Il 24 è insieme agli operai della SAVA che occupano il Municipio di Mestre. Lo stesso giorno viene chiusa un’altra fabbrica, l’Allumina. Immediata è la reazione: il giorno dopo è sciopero generale dell’industria con assemblea generale al capannone del Petrochimico che Neno conclude. Questo ciclo di lotte si compie con l’accordo del 10 febbraio che prevede la garanzia dei livelli di occupazione attraverso l’intervento delle Partecipazioni Statali nelle due fabbriche di alluminio. Nel frattempo si susseguono le fughe di fosgene che intossicano i lavoratori del Petrolchimico e delle imprese d’appalto. Le lotte riescono in modo eccellente ma Neno ne coglie il limite: tra queste e la pratica possibilità di prefigurare un qualche elemento di “diverso sviluppo” la distanza è grande. Quello che manca è un progetto di riordino dei settori industriali, di unificazione delle lotte e degli obiettivi.
Non bastano gli scioperi generali per tenere saldamente insieme l’aristocrazia operaia del Petrolchimico, “i quadristi che controllano cicli complessi”, con la “rude razza pagana” dei meccanici e degli edili, con “i negri di Porto Marghera” delle imprese d’appalto che costruiscono il Petrolchimico2 ed effettuano “ i lavori più pesanti e pericolosi” nella manutenzione degli impianti, esponendosi alle fughe di fosgene. Questi ultimi costituiscono un cospicuo “serbatoio mobile di manodopera” a basso costo e ad altissima flessibilità e precarietà. Al cospetto di una classe operaia differenziata serve una piattaforma unificante. Essa viene costruita in progress. Innanzitutto si punta al reimpiego dei lavoratori delle imprese - licenziati in seguito alla conclusione della costruzione del Petrolchimico 2 - nei lavori di manutenzione e d’investimento tesi a salvaguardare la salute e la sicurezza che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto saldarsi con le lotte per il rinnovo del contratto nazionale dei chimici che prendono avvio con lo sciopero dell’8 giugno e si concludono a ottobre, dopo quasi 100 ore di duri scioperi articolati. L’esito non è però ritenuto soddisfacente dai lavoratori. Infatti, le assemblee della Montefibre e del Petrolchimico respingono l’accordo nazionale. Questo esito rafforza in Neno la convinzione che salute, qualità del lavoro, inquadramenti professionali, orari e occupazione devono saldarsi. Per questo imposta una piattaforma sulla salute che successivamente si tradurrà nel felice slogan “fermata, risanamento, riavvio” degli impianti pericolosi e nocivi.
Una piattaforma salute si rende urgente se si considera che dal dicembre 1971 al novembre 1973 si registra una lunga e tragica sequenza di fughe di gas -“41 casi, con 1000 operai colpiti di cui 133 ricoverati in ospedale”- tanto che nel gennaio del 73 l’ispettorato del lavoro aveva adottato il sorprendente provvedimento secondo cui “tutti i dipendenti delle 205 aziende operanti a Porto Marghera(..) dovranno essere muniti di maschera individuale respiratoria”. Un’assemblea dei delegati, lo stesso giorno, respinge indignata il provvedimento. Il 12 gennaio del 73, gli operai sfilano indossando polemicamente le maschere antigas durante una grande manifestazione a Mestre (e un’altra a Venezia). Neno Coldagelli, durante il comizio conclusivo in Piazza Ferretto rilancerà la battuta subito circolata nelle fabbriche: “È più conveniente per gli industriali mettere le maschere ai lavoratori che alle ciminiere!”
LA LEGGE SPECIALE
Solo nel 1973, sette anni dopo la drammatica alluvione del novembre 1966, fu approvata, dopo una lunghissima e faticosa discussione in parlamento, sulla stampa, nel sindacato, la legge speciale per la “salvaguardia” e la “vitalità socioeconomica” della città e della sua laguna. Schematizzando potremmo dire che le esigenze della tutela prevalevano alla scala nazionale e internazionale mentre la vitalità raccoglieva il consenso di quasi tutte le forze politiche e sindacali veneziane. Tra i temi più discussi all’interno del movimento sindacale vi erano quelli della portualità e della cosiddetta “terza zona industriale”, circa quattromila ettari, nella laguna Sud di Porto Marghera, assurta a simbolo della prospettiva di gigantismo industriale perseguita a Venezia negli anni Sessanta.
Ancora nel dicembre 71, la DC e la giunta comunale neocentrista tentano di sfruttare a proprio favore la chiusura della SAVA per denunciare “le smanie vincolistiche” con la connivenza intenzionale o oggettiva dei “nemici della terza zona”. La DC tenta in tal modo di rompere l’unità sindacale e la rete dei rapporti che si stanno tessendo “a sinistra” con l’obiettivo di unificare in una sola piattaforma le critiche al modello di sviluppo imperniato sull’espansione fisica di Porto Marghera, che muovono a partire dalla contestazione operaia all’organizzazione del lavoro, dei ritmi, della nocività e infine dalle preoccupazioni di tutela degli equilibri idrogeologici, ambientali, di assetto territoriale.
Il tentativo democristiano di riegemonizzare la CISL non passa, grazie anche al ruolo crescente assunto al suo interno dalla FIM CISL di Bruno Geromin. Così la Federazione CGIL,CISL,UIL scende in campo il 14 ottobre del ’72 con un corteo da Mestre a San Marco, contro una pessima legge speciale appena approvata dal Senato “con i voti dei fascisti” e l’opposizione del PSI. Da quel momento è un susseguirsi di scioperi articolati per categoria fino al grande e memorabile evento.
E’ il 21 febbraio del 1973 quando a Venezia è sciopero generale di tutta la provincia contro quella pessima legge speciale e a sostegno della vertenza territoriale. Scrivono le cronache: “Un corteo enorme attraversa per due ore una città paralizzata e raggiunge Piazza San Marco, dove parla Luciano Lama, davanti a 40.000 persone, in una delle più grandi manifestazioni mai effettuate a Venezia”.
Si trattò di un momento decisivo nella storia del movimento sindacale: da un’impostazione fortemente operaista ad una visione che collega “fabbrica e società” fino ad assumere il tema delle alleanze. Non dimentichiamo che a quello sciopero aderì persino la Confesercenti. Se si tiene conto che fino a qualche anno prima “l’acculturata classe operaia del Petrolchimico” era egemonizzata da Potere Operaio si comprende il salto qualitativo. Gli sviluppi politici che seguirono negli anni successivi, la felice scelta di Gianni Pellicani, autorevole vicesindaco di Venezia, di nominare Vezio De Lucia a segretario del comprensorio per il piano urbanistico, portarono alla eliminazione della “terza zona” imponendo di restituire la parte già imbonita “alla libera espansione delle maree”.
Ma questi frutti matureranno solo nel ’75. Tornando a quel cruciale 1973, di grande interesse è la sua relazione al Congresso della Camera del Lavoro, il 24 maggio, al Capannone del Petrolchimico. La novità che egli propone consiste nel tentativo “di uscire dalla dicotomia tra lotte aziendali e grandi manifestazioni per obiettivi generali” come si definiva allora la strategia delle riforme che sarà definitivamente sancita al congresso nazionale di Bari. I tempi sono maturi per “aprire una vertenza sul territorio” partendo dall’ambiente per “risalire a una prospettiva di riassetto del polo, degli insediamenti urbani, dei servizi sociali”. Solo con quest’articolazione – prosegue – sarà possibile far vivere “ la battaglia per le riforme, da quella sanitaria a quella della casa, dei trasporti, dei servizi.” Quello che immagina e propone è un complesso sistema di livelli negoziali coerenti tra di loro che partendo dai luoghi di lavoro risalgono via via su “per li rami” fino agli obiettivi “più generali” che riconducono alla necessità di “dare uno sbocco politico” alle lotte. Ne affida la gestione al “Consiglio intercategoriale di zona”, che nelle intenzioni sarebbe dovuto diventare il secondo livello unitario del sindacato. Di questo si parlava a Bari nelle sei giornate di congresso nazionale della CGIL che anch’io, allora giovane dirigente dei tessili di Vicenza, ho avuto il privilegio di vivere intensamente, con Gildo e Neno, con Sergio Garavini che era il nostro autorevole punto di riferimento. Nel suo intervento Neno invita il congresso ad “approfondire meglio le ragioni della stasi del movimento, delle difficoltà di articolazione del movimento con obiettivi concreti a livello territoriale e settoriale”. Ne individua le cause nella mancata continuità” tra “le piattaforme rivendicative contrattuali e gli obiettivi più generali per l’occupazione, lo sviluppo e il Mezzogiorno”. Suona come critica, fatta come sempre con molto garbo, all’impostazione della relazione di Luciano Lama. Egli infatti avverte “la necessità di non scindere la proposta politica da un grande movimento di massa che ne costituisca il segno politico” che va costruito subito con “l’obiettivo di una risposta immediata e non episodica contro l’attacco al potere d’acquisto dei salari scatenato attraverso la manovra inflazionistica”. Inoltre invita a far marciare la strategia delle riforme rimettendola con i piedi saldamente a terra, perseguendo “obiettivi concreti” individuando priorità nei consumi sociali a partire “dall’esigenza di rilanciare sin da ora l’obiettivo della gratuità dei libri di testo nella scuola dell’obbligo”.
Dieci anni dopo, quando anch’io, appena eletto segretario generale aggiunto della Camera del Lavoro di Venezia, mi proposi l’obiettivo di riportare le manifestazioni nel cuore di Venezia chiesi consigli a Neno. Complice la grande nevicata del 16 dicembre del 1983, non fui altrettanto fortunato. Ma , questa è un’altra storia. Quello che però a distanza di così tanto era ancora vivo era la “vertenza territoriale Venezia” che da quel 1973 diventa un riferimento costante dell’iniziativa del sindacato veneziano, nella quale confluiscono tutte le spinte rivendicative. Il tempo l’aveva certamente logorata, perché ne erano venuti a meno molti dei presupposti su cui era nata, ma non cancellata.
Questo lascito politico fu importante anche per mantenere un filo unitario dopo la drammatica rottura del 14 febbraio 1984. Per continuare nelle lotte di Porto Marghera ma anche sviluppare la nostra iniziativa per la “salvaguardia” di Venezia e della sua laguna. Per tutelare, come dicemmo finalmente qualche anno dopo, “la città più moderna del mondo”.
Il manifesto, 9 aprile 2013
La fine degli anni Settanta è contrassegnata, anche nel Regno Unito, da profonde tensioni economiche e sociali. Il modello economico che fino ad allora aveva garantito la diffusione del benessere in ampi strati della popolazione, è messo in discussione dal quadro competitivo internazionale che richiede una ristrutturazione industriale costosa sul piano sociale, ma soprattutto dall'incertezza che generano le tensioni inflazionistiche dovute alla crisi petrolifera e a quella del dollaro che si traducono in svalutazioni competitive, deficit pubblici e cadute dei redditi reali. La rivoluzione politica di Margaret Thatcher (e del presidente degli Stati uniti Ronald Reagan) è la risposta del right approach a queste difficoltà. Le strategie di politica economica si modificano profondamente assumendo come propria linea di fondo il «disimpegno», ovvero l'arretramento del governo da aree d'intervento e responsabilità economica che le precedenti amministrazioni avevano occupato. (...) È la politica del lato dell'offerta: rimozione delle restrizioni all'espansione degli affari; controllo delle spese governative per ridurre l'onere sull'economia; struttura fiscale caratterizzata da una più bassa tassazione per favorire le remunerazioni delle imprese e delle capacità professionali; privatizzazione delle industrie nazionalizzate; abolizione delle restrizioni sul sistema bancario, sulla finanza internazionale; e infine liberalizzazione del mercato del lavoro (l'Employment Act del 1980 diretto a ridurre lo spazio dell'attività sindacale è il primo atto dell'amministrazione Thatcher). Gli effetti di questo «disimpegno» si manifestano da subito sulla distribuzione del reddito e sulla disoccupazione giustificata dalla necessità di stimolare l'imprenditorialità per una ristrutturazione dell'apparato produttivo, e delle connesse relazioni sociali, fondato sulla ricerca di una maggiore «efficienza» produttiva, raggiungibile attraverso una «disciplina» interna più severa: la reintegrazione degli incentivi economici è più importante dell'uguaglianza.
L'obiettivo è una società di proprietari - sostenuti da un mercato dei mutui liberalizzato - che non può essere che di supporto alla visione conservatrice della società. L'abbandono della funzione di regolatore diretto ed indiretto dell'economia da parte dello Stato risulta particolarmente incidente, non solo per le liberalizzazioni e deregolamentazioni interne in campo industriale, ma soprattutto per le relazioni finanziarie internazionali. Sono scelte che trasformano la struttura produttiva del paese; alla deindustrializzazione corrisponde una rapida espansione dell'industria dei servizi in particolare delle attività legate alla finanza nazionale ed internazionale: la City è stato il principale beneficiato di questo modello.
Il progetto Thatcher non è solo un nuovo modello di politica economica ma ha rappresentato anche una nuova proposta di aggregazione sociale intorno a un nuovo modo di sviluppo. Ma costruire una società più flessibile significa restringere i costi pubblici a una più ristretta cerchia di popolazione. Ne consegue il lungo processo di riforma dello stato sociale (sanità e istruzione) con l'obiettivo di sostituire la logica sociale con quella di mercato riportando a livello individuale il rapporto tra prestazioni e contributi e per quanto riguarda i sussidi di disoccupazione condizionarli da politiche di welfare to work per evitare nei beneficiari atteggiamenti di scarsa disponibilità nella ricerca di nuovo impiego.
Si afferma una visione di una società fondata sul superamento delle istituzioni del welfare e del potere di contrattazione sindacale e quindi su un sistema di relazioni sociali che trovano nell'interesse del capitale privato la condizione di progresso per tutti. La concezione del ruolo pubblico che orienta Margaret Thatcher è ben riassunta dalla sua affermazione che «There is no such thing as society»: «non esiste una cosa come la società. C'è solo l'individuo e la sua famiglia» nella convinzione che l'unica realtà istituzionale in grado di garantire il progresso sociale sia quella fondata su strutture di mercato.
Essa finirà con il risultare vincente diventando «senso comune» che le forze di mercato sono un elemento «naturale» della vita quotidiana e i suoi esiti non sono quindi suscettibili né di riflessione critica né di considerazioni morali, etiche e politiche. Non vi è pertanto alcuna alternativa possibile a un capitalismo di mercato: l'«economia» viene rimossa dalla sfera della contestazione politico-ideologica. È l'affermazione forte che «There Is No Alternative», che non ci possono essere alternative. In sostanza siamo alla «fine della storia». Ma è proprio questa visione che storicamente non ha tenuto. L'ipertrofia del settore finanziario, la speculazione finanziaria, la crisi produttiva occupazionale che stiamo vivendo segnala che questa visione politica genera instabilità e disuguaglianza.
Nell'ottantesimo anniversario dell'avvio del New deal, cui il dibattito attuale sulla "uscita dalla Grande Crisi" rinvia spesso, il nostro collaboratore ci invia xquesto scritto. Anche se di esso, e sul significato di quella scelta politica, ci piacerebbe che si aprisse un dibattito. Magari come avvio di un dossier da aggiungere alle nostre"pagine di storia"
Rigurgiti di consumismo sfacciato si alternano con la disperazione di milioni di disoccupati pieni di debiti; l'agricoltura è allo sbando, con i silos pieni di cereali e di cotone che nessuno compera e con le famiglie rurali alla fame; il divieto di consumo degli alcolici ha dato vita a bande criminali organizzate di spacciatori, di distillatori clandestini di alcol, di importatori di bevande alcoliche che prosperano con la copertura della diffusa corruzione di funzionari e uomini politici.
L'America lasciata da Hoover non era soltanto quella delle banche e delle borse dissestate, del debito pubblico avanzante, ma si presentava con il suolo impoverito da decenni di sfruttamento, esposto all'erosione dovuta alle piogge e al vento, con le foreste devastate da incendi, con paesi e città senza fogne e senza discariche dei rifiuti, con città violente e inquinate, solcate da lunghe code di disoccupati pieni di debiti. Nell'America ereditata da Roosevelt era crollata la produzione di acciaio, di alimenti, di automobili, di petrolio. I negozi contenevano merci contaminate con residui di pesticidi e con sostanze velenose, al punto che due giornalisti, Kalleth e Schlink, potevano scrivere un libro di successo, intitolato: "Cento milioni di cavie", per denunciare le frodi alimentari.
Roosevelt aveva impostato la sua campagna promettendo un nuovo patto, un "nuovo corso"--- il "New Deal" --- per sconfiggere depressione e sfiducia, e cominciò il suo discorso di investitura con le celebri parole: "L'unica cosa di cui si deve avere paura è la paura stessa". Gli eventi di quel 4 marzo 1933, raccontati da Arthur Schlesinger nei tre volumi del libro: "Il New Deal", pubblicati da Il Mulino nel 1959-65, ritornano alla mente in questi primi turbolenti anni del XXI secolo, perché forse le azioni politiche --- nei settori dell'agricoltura, della produzione industriale, delle merci, dell'ambiente --- dell'amministrazione Roosevelt negli anni trenta del Novecento potrebbero suggerire qualche idea sulle cose da fare per lanciare un vero nuovo corso politico ed economico nel nostro paese.
Roosevelt e le risorse naturali
Tutte le competenze nel campo delle risorse naturali --- acqua, foreste, difesa del suolo, opere pubbliche, urbanistica, parchi, miniere, rifiuti, eccetera --- furono concentrate in due ministeri, quello dell'agricoltura e quello dell'interno, affidati a due persone, H.A. Wallace e Harold L. Ickes, singolari come competenze e devozione al loro mandato.
E quanto sia opportuna una politica coordinata nel campo delle risorse naturali lo dimostrano la lentezza e l'inefficacia delle azioni dei nostri governi, sparpagliate fra le competenze dei ministeri dell'ambiente, delle infrastrutture, dell'agricoltura, dell’economia, continuamente mutevoli non solo per il succedersi delle persone e dei funzionari e dei nomi, uniti solo nella mancanza di una linea politica, dispersione comoda al fine di moltiplicare uffici e appalti, ma catastrofica per la difesa della natura e dell'ambiente.
Acqua
Gli anni che precedettero la vittoria di Roosevelt erano stati caratterizzati da un seguito di siccità e di degrado del suolo. I lavori intrapresi dalle amministrazioni precedenti per la regolazione del corso dei fiumi andavano a rilento: era stata completata soltanto la grande diga Hoover sul Colorado.
La nuova amministrazione affrontò subito il problema della regolazione del corso dei fiumi. L'aumento e la razionale utilizzazione delle risorse idriche, la lotta alla siccità e all'erosione, potevano essere condotti soltanto per grandi bacini idrografici: poiché questi si stendevano attraverso i confini di vari stati, le relative opere erano di competenza e responsabilità federale.
Uno dei più grandi fiumi e bacini idrografici del Nord America è il Tennessee che scorre dalle montagne innevate ai campi esposti all'erosione, fino a immettersi nell'Ohio poco prima che questo si getti nel Mississippi. Sul Tennessee erano state costruite, durante la prima guerra mondiale, delle dighe per la produzione dell'energia idroelettrica che serviva a produrre acido nitrico sintetico per l'industria degli esplosivi.
Il governo del New Deal decise di affrontare la regolazione delle acque della valle del Tennessee costruendo una serie di dighe e di centrali idroelettriche, realizzando la prima industria elettrica di proprietà del governo federale. Il 18 maggio 1933, due mesi dopo l'insediamento di Roosevelt alla Casa Bianca, fu creata una speciale agenzia, la Tennessee Valley Authority, il più noto esempio di pianificazione territoriale e industriale del New Deal. La costruzione delle dighe attirò nella zona lavoratori disoccupati da tutta l'America; fu rettificato il corso del fiume, furono fatte opere per fermare l'erosione del suolo e per il rimboschimento delle valli.
L'elettricità "governativa" permise di alimentare fabbriche, pure di proprietà del governo federale, per il trattamento dei minerali fosfatici e per la produzione di concimi: concimi di stato da distribuire agli agricoltori a prezzi politici per ridare fertilità alle terre impoverite dall'erosione. Curiosamente il New Deal fece uscire l'America dalla crisi, fra l'altro, con iniziative di "nazionalizzazione" proprio in direzione contraria alla privatizzazione delle industrie statali e delle imprese pubbliche che si pratica oggi in Italia.
Boschi e occupazione
Lo stato di erosione del suolo dell'America richiedeva interventi immediati e le opere di regolazione del corso dei fiumi sarebbero state vanificate se non fossero state accompagnate da una vasta azione di rimboschimento delle valli. Roosevelt aveva sottolineato, fin dalla campagna elettorale, l'importanza delle foreste. Gli alberi --- disse --- trattengono la terra fertile sui declivi e l'umidità del suolo, regolano il fluire delle acque nei ruscelli, moderano i grandi freddi e i grandi caldi: sono i "polmoni" dell'America perché purificano l'aria e danno nuova forza agli Americani.
Il 14 marzo 1933, dieci giorni dopo essersi insediato alla Casa Bianca, Roosevelt predispose un grande progetto per impiegare un esercito di giovani disoccupati al lavoro nelle foreste. Nell'estate del 1933 300.000 americani, celibi, dai 18 ai 25 anni, figli di famiglie assistite, organizzati nei Civilian Conservation Corps, erano nei boschi, impegnati nei lavori di difesa del suolo che da molti anni erano stati trascurati.
Negli anni successivi, in varie campagne, due milioni di giovani lavoratori, complessivamente, piantarono 200 milioni di alberi, ripulirono il greto dei torrenti, prepararono laghetti artificiali per la pesca, costruirono dighe, scavarono canali per l'irrigazione, costruirono ponti e torri antincendio, combatterono le malattie dei pini e degli olmi, ripulirono spiagge e terreni per campeggi.
Nell'aprile 1935 fu creato il Soil Conservation Service col compito di difendere il suolo, anche se era di proprietà privata, per conto della collettività.
Terreni demaniali
All'inizio del New Deal l'America aveva ancora vasti terreni demaniali; nei decenni precedenti il governo non aveva esitato a vendere a prezzi irrisori molti terreni di proprietà federale a chi voleva aprire miniere, installare pozzi petroliferi, utilizzare i pascoli. Nelle terre demaniali residue gli allevatori dell'ovest da sempre avevano portato a pascolare il bestiame senza alcun controllo nè pagamento, con la conseguenza che l'eccessivo pascolo aveva distrutto l'erba e aveva fatto avanzare l'erosione e il deserto.
Nel 1933 il governo decise di far pagare un affitto a coloro che usavano risorse naturali --- pascoli o miniere --- demaniali e di fermare la svendita dei terreni collettivi. Ancora una volta un’azione che va in direzione esattamente contraria a quella, in corso in Italia dalla fine del Novecento, caratterizzata proprio dalla svendita ai privati dei beni collettivi, come sono gli spazi demaniali o le terre soggette a usi civici.
Agricoltura e materie prime
Nell'America della grande crisi c'era sovrabbondanza di raccolti ma prezzi così bassi che gli agricoltori soffrivano la fame. L'erosione del suolo dovuto alle acque e al vento aveva spinto milioni di piccoli proprietari o affittuari ad abbandonare le proprie terre per andare a lavorare come miserabili salariati nelle terre ancora fertili. Le grandi compagnie finanziarie compravano a prezzi stracciati i terreni dei piccoli coltivatori soffocati dai debiti. La drammatica situazione è descritta, fra l'altro, nel libro "Furore" di Steinbeck, del 1939, da cui l'anno dopo fu tratto un celebre film.
Il 12 marzo 1933 il governo Roosevelt propose una serie di incentivi finanziari intesi a trattenere nei campi i piccoli coltivatori e a difendere i prezzi. "Distruggere un raccolto va contro i migliori istinti della natura umana", sosteneva il ministro dell'agricoltura Wallace, e così furono organizzate le distribuzioni, alle classi meno abbienti e povere urbane, di cibo acquistato dal governo e furono incentivati i mezzi per risollevare il mercato.
Fra questi ultimi va ricordato lo sforzo per la utilizzazione industriale dei prodotti e sottoprodotti agricoli. La chimica avrebbe avuto un ruolo fondamentale e William Hale coniò il termine "chemiurgia" per indicare le tecniche capaci di trasformare le materie di origine agricola, zootecnica e forestale in merci: dall'alcol etilico, da usare come carburante e come materia prima per la gomma sintetica, alla cellulosa e alle proteine per ottenere fibre artificiali, dall'amido alle materie plastiche. Le stesse proposte odierne di manufatti di plastica "ecologica", a base di amido, erano già state elaborate negli anni trenta del secolo scorso. Il successo delle merci ottenute dal petrolio ha oscurato un insieme di realizzazioni che ancora oggi potrebbero dare lavoro e reddito all'agricoltura.
Il Dipartimento dell'agricoltura fin dal 1933 creò una rete di stazioni di sperimentazione che furono all'avanguardia nelle tecniche di chemiurgia e incoraggiarono nuove coltivazioni e industrie. Furono studiate nuove materie agro-industriali, che sono state "riscoperte", alla fine del Novecento, alla luce dell'ecologia: dalle cere ricavate dalla jojoba, alla gomma guayule, dalle fibre tessili cellulosiche naturali ottenute da ginestra, canapa, yucca, a nuove materie cellulosiche industriali, eccetera.
In questo periodo venne lanciata la campagna per ridare orgoglio agli agricoltori, ridivenuti consci del ruolo primario del loro lavoro: "I'm proud to be a farmer" (Sono orgoglioso di essere un agricoltore), si leggeva nelle fattorie in quegli anni. Questo orgoglio era indispensabile per coinvolgere gli agricoltori nelle opere di difesa del suolo, di rimboschimento, di innovazione nelle colture.
La lotta alle frodi
Il Dipartimento dell'agricoltura assunse anche un ruolo vigoroso nella lotta contro le frodi. Proprio come nel 1906 il libro: "La giungla" dello scrittore Upton Sinclair aveva denunciato le drammatiche condizioni di lavoro nelle grandi fabbriche di carne in scatola, il libro: "Cento milioni di cavie" denunciava i pericoli per la salute di molti prodotti alimentari, medicinali, cosmetici. Uno degli autori, F.J. Schlink, pochi anni prima aveva fondato la Consumers' Research Inc., per effettuare analisi delle merci nell'interesse dei consumatori, che cominciarono a diventare soggetti e protagonisti politici.
Tugwell, sottosegretario all'agricoltura del governo Roosevelt, subito nella primavera del 1933 decise di abbassare da 1,3 a 0,9 milligrammi la massima quantità di arseniato di piombo, un antiparassitario, tollerata negli alimenti. La Food and Drug Administration, una agenzia del Dipartimento dell'agricoltura fino allora sonnacchiosa, organizzò, per ordine di Tugwell, una mostra delle frodi e dei veleni che finivano sulla tavola degli americani.
Naturalmente le proposte di riforme merceologiche incontrarono la forte opposizione dei produttori industriali e solo nel 1938 fu approvata la nuova legge sulla purezza di alimenti, cosmetici e medicinali, il Pure Food, Drug and Cosmetic Act.
La comunità e la città
Il progetto prevedeva di localizzare le fabbriche in zone aperte e distanti fra loro, di sviluppare un nuovo tipo di città industriale suburbana, resa possibile dall'era dell'automobile. Queste idee ebbero fra l'altro il sostegno di un architetto-pensatore come Lewis Mumford che, proprio nel 1934, scrisse: "Tecnica e cultura", proponendo la transizione ad una società "neotecnica", meno violenta ed inquinata.
Il programma rimase in gran parte sulla carta, ma mostra l'ambiente culturale dei primi anni dell'amministrazione Roosevelt e la vivacità degli studiosi, urbanisti, progettisti che riuscì a mobilitare. Comunque il governo del New Deal avviò un processo di bonifica urbana, opere di edilizia popolare, sia nelle città, sia nelle campagne, per eliminare le abitazioni malsane e fatiscenti e ridare così, con case adeguate, anche una dignità alle famiglie dei diseredati. Una pagina dei conflitti fra il nuovo corso urbanistico e le forze frenanti della speculazione edilizia si ha nel film "La vita è meravigliosa".
Merci e ambiente
Roosevelt capì che la crisi economica e dell'occupazione dipendeva anche dalla mancanza di un coordinamento e di pianificazione nella produzione delle merci.
Negli anni venti una scelta merceologica ispirata ad un finto moralismo aveva provocato, con il divieto della vendita di bevande alcoliche, un commercio clandestino di alcolici e quindi la crescita della più grande organizzazione criminale e di corruzione pubblica mai vista fino allora, e certamente lontana progenitrice di quella criminalità organizzata con cui ci dobbiamo confrontare oggi in Italia.
Roosevelt comprese che solo mettendo un freno a questa violenza il paese avrebbe potuto affrontare la crisi. Il lunedi 13 marzo 1933, nove giorni dopo il suo insediamento, propose una legge che autorizzava la produzione e la vendita della birra a 3,2 gradi alcolici. Il venerdi successivo la proposta era già approvata dal Congresso; non era ancora la legalizzazione delle bevande alcoliche, ma l'inizio e il segnale di una politica antiproibizionistica che diede un grave colpo alla criminalità e alla corruzione.
Il 16 giugno 1933 fu approvata la legge che creava la National Recovery Administration, un organismo con funzioni di studio e di proposta nel campo della pianificazione delle opere pubbliche e della produzione industriale. Per sconfiggere la povertà e la disoccupazione occorreva concordare con gli imprenditori orari di lavoro e salari tali da consentire la ripresa della produzione dell'industria e dei consumi delle famiglie. Le aziende che aderivano all'accordo potevano contrassegnare i loro prodotti e merci con l'"Aquila blu" ("Blue Eagle"), un marchio che assicurava i consumatori che le aziende stesse contribuivano, anche con sacrifici dei propri profitti, allo sforzo di ricostruzione del paese e che pertanto i loro prodotti andavano preferiti.
La ripresa della produzione, industriale ed agricola, assicurata dalla politica di pianificazione, diede di nuovo fiducia anche alla ricerca e all'innovazione. Attraverso una simbiosi con la ricerca universitaria, negli anni dell'amministrazione Roosevelt furono fatte alcune scoperte industriali di grande importanza. Solo per citarne alcune: furono messi a punto dei processi per la produzione della gomma sintetica partendo sia da sottoprodotti agricoli, sia da prodotti petroliferi. Furono messe a punto benzine ad alto numero di ottano che consentirono lo sviluppo dell'aviazione e dei trasporti aerei civili. Furono messi a punto processi per la produzione di fibre tessili artificiali, dalle proteine del latte, della soia e dell'arachide, dai residui della lavorazione del cotone, e furono inventate fibre tessili sintetiche destinate a rivoluzionare l'industria e il modo di vivere e di consumare di tutto il mondo, come il nylon presentato ai consumatori nel 1938.
In questa atmosfera ebbe sviluppo anche la ricerca universitaria "pura"; gli scienziati ebrei sfuggiti alle persecuzioni razziali in Europa trovarono in America non solo libertà d'insegnamento, ma anche apparecchiature e mezzi finanziari che portarono a scoperte destinate ad avere effetti lontani.
Non tutto, nell'era di Roosevelt, andò liscio. Molti progetti non furono realizzati, ma di certo l'epoca del New Deal fu un periodo di speranze e di fiducia nel futuro a cui si può guardare ancora oggi..
Il New Deal e l'Italia
Il New Deal di Roosevelt fu seguito con attenzione in Italia fin dai tempi fascisti. Gli anni trenta sono stati anni di crisi anche in Europa e in Italia e gli economisti e gli studiosi che conoscevano l'America prestarono attenzione a questo strano esperimento di pianificazione nella democrazia, di intervento dello stato nel rispetto della libera iniziativa. Non si deve dimenticare che sono gli anni della pianificazione sovietica e Roosevelt fu accusato, dalle forze conservatrici americane, di essere un comunista, o, peggio, un bolscevico.
Anche sotto l'influenza sollecitata dal New Deal americano nel 1933 fu creato in Italia l'Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI) con fini di coordinamento e di intervento statale nei settori disastrati dell'industria.
Ma l'interesse scientifico e politico per il New Deal si fecero sentire soprattutto negli anni dopo la Liberazione, quando si trattava di ricostruire l'Italia uscita dalla guerra e di colmare gli squilibri fra nord industriale e sud agricolo. Gli intellettuali radicali e socialisti antifascisti, rientrati in Italia dagli Stati Uniti portarono la conoscenza e l'interesse per il New Deal in un'Italia rimasta, anche nella sua nuova classe dirigente, provinciale ed esclusa dal grande giro internazionale. Adriano Olivetti, con il suo movimento di "Comunità", fece conoscere in Italia le opere del New Deal e di Mumford, le nuove correnti di pensiero sulla pianificazione democratica e su una nuova urbanistica.
Al New Deal si ispirarono coloro che proposero i grandi programmi di opere pubbliche e una struttura di finanziamento e pianificazione dell'uso delle risorse naturali nel Mezzogiorno, quella che divenne poi, nel bene e nel male, la Cassa per il Mezzogiorno. Al New Deal si ispirarono coloro che, nel primo centro-sinistra, si batterono per la nazionalizzazione delle imprese elettriche e per l'estensione al ministero del bilancio di competenze anche nel campo della programmazione, con la creazione di un apposito ufficio.
A dire la verità le attività della programmazione italiana (il più celebre documento è il "progetto ottanta", predisposto alla fine degli anni sessanta) erano più attente agli aspetti economici che alla salvaguardia e alla valorizzazione delle risorse naturali o alle scelte produttive e merceologiche. Ciò forse perché la classe dominante era costituita da economisti e giuristi, più che da studiosi di agricoltura, chimici, forestali, urbanisti, ingegneri.
Immaginiamo che improvvisamente le autorità centrali e regionali mettano da parte i cavilli giuridici e "istituzionali" (dietro cui spesso si nascondono gelosie di centri di potere e di affari) ed avviino un grande programma di sistemazione delle acque, di difesa del suolo contro l'erosione, di rimboschimento. Tale programma può essere condotto soltanto nell'ambito dei bacini idrografici che devono diventare --- come del resto prescrive la legge italiana --- le nuove unità geografico-politiche in cui svolgere le azioni di pianificazione territoriale e di difesa delle risorse naturali.
In ciascun bacino idrografico la "autorità" prevista dalla legge dovrebbe predisporre opere per fermare l'erosione attraverso la pulizia e la sistemazione degli argini e del greto dei fiumi, il rimboschimento dei pendii delle valli. La forza delle acque fluenti potrebbe essere utilizzata per ottenere energia idroelettrica --- una fonte di energia rinnovabile --- attraverso la costruzione di bacini artificiali e centrali progettate non per massimizzare i profitti delle imprese elettriche, ma a fini multipli, per regolare il moto delle acque, assicurare riserve di acqua nei mesi di scarse piogge, e creare spazi per attività ricreative.
Una pianificazione di questo genere presuppone di far cessare l'appropriazione privata delle golene e delle rive dei fiumi, di regolare (e anche vietare, in certe zone) i prelevamenti di sabbia e ghiaia dal greto dei fiumi; una vera autorità di bacino dovrebbe avere il potere di intervenire sulla proprietà privata e sull'iniziativa privata quando queste assumono carattere speculativo e di rapina e danneggiano i beni collettivi.
Difesa del suolo significa soprattutto ricostruzione del manto vegetale nelle sue varie forme, attraverso il rimboschimento con alberi, la ricostruzione della macchia, attraverso tecniche colturali che impediscano l'asportazione della terra fertile e consentano la protezione e formazione dell'humus, che è l'unico modo in cui può essere rallentato il moto violento ed erosivo delle acque. La difesa del suolo presuppone una lungimirante politica di riutilizzo delle zone in cui sono state sospese o sono scoraggiate le coltivazioni agricole tradizionali. Significa una nuova cultura forestale popolare diffusa.
Eserciti di "forestali" sono stati messi, nei decenni passati, al lavoro in varie zone d'Italia, soprattutto nel Mezzogiorno, spesso tollerando che gli stessi disoccupati, per poter essere ingaggiati l'anno successivo, lasciassero degradare o magari divorare dal fuoco le giovani piante.
In un New Deal italiano del XXI secolo l'agricoltura dovrebbe tornare ad essere il settore "primario" dell'economia. La libera circolazione delle merci e dei servizi in Europa e una nuova disciplina contro gli sprechi imposta dall'Unione Europea porteranno a limitare sempre più le sovvenzioni alle produzioni agricole eccedentarie. Invece di continuare a piagnucolare per ottenere la proroga delle protezioni, un New Deal agricolo potrebbe pensare ad un ritorno dell'agricoltura al suo ruolo primario nella gestione delle risorse naturali.
Le opere di razionale sistemazione delle risorse idriche e di difesa del suolo contro l'erosione potrebbero creare proprio nella collina e nella montagna disponibilità di materie prime agricole, zootecniche e forestali suscettibili di trasformazione sul posto, grazie anche a nuove fonti di energia idroelettrica, con operazioni di "chemiurgia", in nuove materie prime e merci: carburanti alternativi al petrolio (come l'alcol etilico), fibre tessili artificiali, materie prime per la produzione della carta, materiali da costruzione ottenuti dal legno, fonti di proteine alimentari. Chi sa che un giorno non si legga anche nelle case di campagna italiane la scritta: "Sono orgoglioso di essere un agricoltore" ?
Ad un New Deal di questo genere aveva del resto pensato Adriano Olivetti negli anni cinquanta del Novecento col suo progetto di integrazione della fabbrica e dell'agricoltura nelle zone povere di collina o nel Mezzogiorno; e è già avvenuto, in questa direzione, anche se in forma spontanea e non pianificata e spesso piena di contraddizioni, in certe zone (Veneto, Marche) del cosiddetto NEC (Nord-Est-Centro).
L'operazione sarebbe di particolare importanza nel Mezzogiorno e nelle isole dove solo il lavoro e la produzione agricola e industriale di merci, basata sulle risorse naturali locali, può sconfiggere la criminalità organizzata che attecchisce solo nello sconforto.
In senso contrario ad un New Deal vanno le iniziative per far abbandonare la coltivazione di grandi estensioni delle nostre colline e montagne, addirittura finanziando l'abbandono con soldi della Comunità europea; oppure i grandi insediamenti con effetti sconvolgenti sull'agricoltura, sulle acque, sulle colline, con avanzata dell'erosione del suolo.
Nel senso del New Deal andrebbe una nuova moralità nell'uso dei beni collettivi; la privatizzazione, in corso in Italia, di coste, spiagge, rive dei fiumi, spazi demaniali, non fa invece che accelerare il degrado territoriale, l'erosione delle spiagge, la distruzione delle foreste e delle dune, che sono poi le protezioni naturali dell'entroterra.
Un New Deal dovrebbe ricuperare all'uso pubblico e pianificato proprio pascoli, terre e spazi demaniali e collettivi, oggi ancora soggetti ad usi civici, le acque.La salvezza potrebbe essere cercata in un ministero delle risorse naturali, con competenze ben diverse da quelle dell'attuale ministero dell'ambiente che finisce per essere il ministero dei depuratori e delle discariche.
Un nuovo corso italiano richiederebbe il recupero della cultura e del gusto dell'urbanistica, intesa come scienza della pianificazione degli insediamenti, delle vie di comunicazione, dei modi di trasporto. Ad una politica della città e della mobilità, oggi governata dalla case automobilistiche, della compagnie petrolifere e dagli speculatori immobiliari, dovrebbe essere contrapposto un reale potenziamento dei trasporti collettivi basati non sullo spreco --- come l'"alta velocità"--- ma sui reali bisogni della popolazione, anche ai fini del decentramento delle attività produttive e dei servizi.
Un Deal Deal ecologico presuppone dei controlli e una pianificazione sulla produzione, sulla quantità e sul tipo delle merci, alla luce dei vincoli posti dalla necessità di diminuire sprechi di risorse naturali scarse, inquinamenti e rifiuti. Da qui la necessità di uffici governativi per gli standard di qualità delle merci, per il controllo di tale qualità, di uffici di analisi e di controllo contro le frodi, di attività di previsione e di scrutinio delle scelte anche legislative.
Negli Stati Uniti nel 1970 è stato creato, presso il Congresso, un ufficio per lo scrutinio tecnologico (l'Office of Technology Assessment) che avvertiva i parlamentari e il governo sugli effetti tecnici, ecologici, sociali delle scelte legislative. Ad esempio: il finanziamento di una rete ferroviaria ad alta velocità quali conseguenze può avere sul territorio, sul trasporto aereo, sulla sicurezza delle persone ? Scrutinio tecnologico è molto più della semplice valutazione dell'impatto ambientale, da noi ridotta a mascheratura di scelte prese al di fuori del Parlamento.
Infine il New Deal qui prospettato --- o sognato ? --- comporterebbe il coinvolgimento dell'Università e della ricerca in progetti socialmente ben definiti e compatibili con la difesa e la valorizzazione delle risorse naturali.
Inutile dire che i progetti sopra accennati richiedono lavoratori e specialisti dall'ingegneria all'ecologia, dall'economia alla chimica, alle scienze agrarie e forestali. Sarebbe anche questo un modo per sollecitare nei giovani laureati un senso di servizio della collettività, oggi così labile, per farli sentire, come i giovani intellettuali del 1933, orgogliosi di lavorare per lo Stato e non per un governo o per una struttura di partito e di clientele.
Nota: su due aspetti delle politiche urbane e territoriali del New Deal, in Eddyburg Archivio si vedano l'articolo di Giovanni Caudo su Rexford Tugwell regista delle nuove città, e quello di Fabrizio Bottini su Earle Draper e le prime denunce dello sprawl urbano negli anni '30
«A dispetto delle incredibili traversie che ne costellarono il cammino, Marx si staglia nella storia come un autore la cui opera ha prodotto e produrce effetti politici enormi sul corso delle umane vicende.
Micromega online, pagina di blog", 16 marzo 2013
L’elezione del papa, dopo le fragorose dimissioni del predecessore (fatto su cui ancora dobbiamo riflettere), insieme alle penose nostre vicende elettorali e postelettorali, hanno fatto dimenticare il 130° anniversario della scomparsa di Karl Marx. Era nato a Treviri, nella ricca e colta Renania, il 5 maggio 1818; morì a Londra, dopo una vita difficile ed errabonda, il 14 marzo 1883: non aveva ancora compiuto i 65 anni.
A dispetto delle incredibili, sovente drammatiche, talora tragiche traversie che ne costellarono il cammino, l’opera che Marx ha lasciato è immensa per dimensione, per novità, per profondità: si tratta di un vero gigante della storia, del genere di Dante, Michelangelo, Shakespeare, o Picasso. Eppure a differenza degli altri “grandi”, Marx si staglia nella storia come un autore la cui opera ha prodotto e non smette di produrre effetti politici enormi sul corso delle umane vicende. Nessun pensatore sta a pari con lui, da questo punto di vista.
Dato per “morto” politicamente e intellettualmente, più e più volte, il pensiero di Marx ogni volta si è riaffacciato, beffardo, più carico di nuove suggestioni, di echi inaspettati, di spunti che ci hanno intensificato la nostra capacità di comprendere le società in cui viviamo. La forza dirompente che si sprigiona dai suoi tanti scritti (alcuni dei quali ancora inediti, e altri pubblicati in modo pasticciato: l’edizione completa di tutte le opere di Marx ed Engels tante volte cominciata non è mai giunta a termine), rappresenta uno degli stimoli più significativi che si possa rintracciare nel pensiero moderno. Eppure il marxismo, si ripete, ha fallito. Certo, sul piano del socialismo realizzato abbiamo registrato un fallimento che è stato per tanti versi un tradimento del pensiero di Marx, anche se bisogna evitare l’errore di confondere teoria marxiana con marxismo. È nota la battuta di Marx che dichiarava di non essere marxista. Ma è vero anche, sulla base non di mere passioni, ma di constatazioni alla luce delle statistiche, che per tanti versi anche in quei regimi odiosi dell’Est, vi erano strutture di protezione dei ceti popolari che oggi sono perlopiù state cancellate, e gli indicatori ci danno cifre poco lusinghiere su quel che è accaduto dopo il crollo del Muro, in parecchie realtà dell’ex sistema sovietico. Senza parlare della caccia alle streghe che in Paesi come la Polonia e soprattutto l’Ungheria viene messa in atto contro gli ex comunisti.
Ciò detto, non v’è dubbio che si stia assistendo a un diffuso, nuovo “ritorno a Marx”, partito (come è accaduto per Gramsci) dal tempio del capitalismo, dagli Stati Uniti. Da noi anche Giulio Tremonti si è lasciato sfuggire l’affermazione che senza Marx sarebbe impossibile comprendere quello che stiamo vivendo sul piano economico mondiale negli ultimi decenni.
Anzi, si può osservare che se una gran parte della letteratura marxista (per non dire tutta) è uscita di scena, anche per precise scelte politico-culturali dei gruppi editoriali, Marx continua a giganteggiare, nella sua inevitabile necessità. E, con lui, si può dire che il solo Gramsci sia sopravvissuto al crollo del Muro, anzi emergendo entrambi da quelle macerie più forti di prima. Il primo per la sua capacità di fornire strumenti di analisi degli svolgimenti del capitalismo mondiale, il secondo per la sua definizione di un “altro” comunismo e di un diverso modello di rivoluzione.
Torniamo al 14 marzo 1883. Tre giorni dopo la morte dell’amico e maestro, Friedrich Engels fedele collaboratore, che si definì sempre modestamente “il secondo violino”, tenne un discorso commemorativo, nel Cimitero di Highgate a Londra (dove tuttora si può visitare la tomba di Marx): era scomparsa, con Marx, «la più grande mente dell’epoca nostra». E ricordava che «lo scienziato non era neppure la metà di Marx», che «era prima di tutto un rivoluzionario», il cui scopo era di «contribuire in un modo o nell’altro all’abbattimento della società capitalistica» e «contribuire all’emancipazione del proletariato moderno al quale egli, per primo, aveva dato la coscienza delle condizioni della propria situazione e dei propri bisogni, la coscienza delle condizioni della propria liberazione» . E concludeva: «Il suo nome vivrà nei secoli, e così la sua opera!».
Come dargli torto? Senza gli occhiali di Marx non si potrebbe capire la globalizzazione dei capitali e delle miserie, il “turbocapitalismo”, con le sue crescenti disuguaglianze e le clamorose ingiustizie: Marx aveva profetizzato un momento in cui un pugno di famiglie avrebbe detenuto la quasi totalità della ricchezza mondiale…. Ma ricordiamo che il giovane Marx, nella XI celebre Tesi su Feuerbach sentenziò: «I filosofi hanno finora variamente interpretato il mondo. Si tratta ora di trasformarlo». Un bel monito, davanti alla sempre ricorrente tentazione del ritrarsi a vita privata. Che si sia o no marxisti.
««Dieci anni fa la giovane attivista americana veniva uccisa da una ruspa militare israeliana. La sua morte aprì gli occhi al mondo su una nuova forma di resistenza»,
il manifesto, 16 marzo 2013
Quel 16 marzo del 2003 le prime immagini da Gaza di Rachel Corrie arrivarono a tarda sera, trasmesse dalle televisioni arabe. Il volto di una ragazza, un corpo senza vita coperto parzialmente da un lenzuolo su di un tavolo di ospedale, un medico che spiegava le cause della morte. Niente di più ma indimenticabili per chi le vide. Immagini che confermarono le notizie che circolavano da ore sull'uccisione a Rafah, sul confine tra Gaza e l'Egitto, di una giovane occidentale, attivista dell'International solidarity movement (Ism), schiacciata da una ruspa militare israeliana mentre si opponeva alla distruzione di una casa. Da due anni e mezzo la cronaca riferiva lo stillicidio quotidiano di vite umane, in gran parte palestinesi ma anche israeliane. Eravamo nel pieno della seconda Intifada contro l'occupazione militare e un anno prima Israele aveva rioccupato le principali città palestinesi con l'offensiva «Muraglia di Difesa» facendo centinaia di morti. Eppure quell'immenso bagno di sangue cominciato nel settembre del 2000, non fece passare inosservata la morte di Rachel Corrie, una ragazza americana poco appariscente, timida ma dal carattere forte, come dimostravano le mail che inviava ai genitori. Aprì invece al mondo la realtà dei tanti giovani di ogni parte del pianeta, anche degli Stati uniti alleati di ferro di Israele, che andavano a Gaza e in Cisgiordania per quella che dieci anni fa era nota come «protezione passiva», ossia provare a prevenire senza violenza e resistenza fisica attiva, con la loro semplice presenza, la demolizione di abitazioni, gli spari dell'esercito israeliano su strade e quartieri densamente popolati e gli arresti indiscriminati. Come Rachel Corrie altri di questi attivisti e giornalisti persero in quegli anni la vita, tra questi Tom Hurndall, colpito da un cecchino alla testa. Anche Vittorio Arrigoni faceva parte dell'Ism. Per le autorità di Israele questi volontari internazionali altro non sono che «amici dei terroristi» (cioè i palestinesi) e ai valichi di frontiera, allora come oggi, sono attuate misure volte ad impedire loro «l'ingresso nel paese», anche se questi giovani in realtà non vanno in Israele ma nei Territori occupati.
Hussein Hamudi, 21 anni di Gaza city, era solo un ragazzino nel 2003. La memoria di Rachel Corrie però è stampata nella sua anima. «Rachel ci ha insegnato qualcosa di molto importante - dice Hussein, diventato anche lui un'attivista -, che l'occupazione israeliana teme ogni forma di resistenza, anche la più pacifica. Rachel ci ha detto che tutti, palestinesi e stranieri, dobbiamo e possiamo dare il nostro contributo per una causa giusta». Hussein oggi parteciperà alle commemorazioni solenni che il «Centro Rachel Corrie» ha organizzato a Rafah. Un'occasione che servirà a rinnovare tra i palestinesi la memoria dell'attivista statunitense e per ricordare quanto accadeva in quegli anni. Fra il 2000 e il 2005 l'esercito israeliano ha distrutto 1.600 edifici a Rafah per costruire un alto muro lungo la frontiera con l'Egitto, lasciando senza tetto circa il 10% degli abitanti della terza città di Gaza.
Nel 2004 le demolizioni a Rafah raggiunsero la media di 100 abitazioni al mese. Le agenzie dell'Onu, Unrwa e Ocha, denunciarono una aperta violazione del diritto internazionale. A gennaio 2003, quando Rachel Corrie arrivò a Rafah, gli israeliani distruggevano in media 12 case la settimana. I volontari dell'Ism erano gli unici che, con la loro presenza, cercavano di impedire le demolizioni. Per Israele l'uccisione dell'attivista americana è stata solo di un «incidente». Una sentenza dello scorso agosto, al termine di un lungo processo civile presso un tribunale di Haifa, voluto dai genitori della giovane americana, afferma che Rachel «Si mise da sola e volontariamente in pericolo. Fu un incidente da lei stessa provocato». I giudici hanno dato pieno credito alla versione dell'accaduto fornita dall'autista della ruspa militare DR9, il soldato Y.P. (la sua identità non è mai stata rivelata). Nella testimonianza, alla fine del 2010, Y.P., confermò che erano presenti civili mentre «operava» la ruspa il 16 marzo 2003. Ma che non smise di «lavorare» perché aveva ricevuto l'ordine di continuare: «Io sono solo un soldato...non ero io a dare gli ordini». Rachel Corrie, con adosso una giacca arancione fosforescente, Y.P. disse non averla vista e di non aver udito i suoi compagni urlare quando la giovane finì sotto i cingoli. I giudici hanno ritenuto credibile la testimonianza di Y.P. sebbene le sue affermazioni sotto giuramento hanno in qualche caso contraddetto la deposizione firmata che fornì agli investigatori militari nel 2003. O forse hanno semplicemente accettato la «spiegazione politica» dell'accaduto che diede dal banco dei testimoni il colonnello «Yossi», uno degli ufficiali responsabili a quel tempo per la zona di Rafah: «non ci sono civili in una zona di guerra». I civili invece sono sempre civili, in tempo di guerra e in tempo di pace, ricordò sdegnato dopo la sentenza Richard Falk, relatore speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei Territori occupati palestinesi. «La decisione del giudice rappresenta una sconfitta per la giustizia» nonché «una vittoria per l'impunità dei militari israeliani», «le Convenzioni di Ginevra, impongono alla potenza occupante di proteggere i civili», commentò Falk. I genitori di Rachel accolsero con dolore e frustrazione la decisione della corte. Ma non con rassegnazione. «Tanti ci chiedono che cosa ci aspettassimo da questo processo. Non è che ci aspettassimo giustizia, la pretendiamo. Penso che ognuno debba pretenderla, altrimenti la giustizia non ci sarà e semplicemente morirà», dichiarò Craig Corrie, il padre della giovane americana. Chi oggi andrà a Rafah non accorda alcun a quella sentenza. «Rachel sarà mai dimenticata - spiega Hussein Hamodi - Rachel è una di noi». Di sicuro non la dimenticheranno i fratelli Nasrallah, un farmacista e un contabile, che abitavano con mogli e figli nelle case che la giovane americana cercò di salvare quel 16 marzo di dieci anni fa pagando con la sua vita. «A noi - dicono - non è stata uccisa una amica, è stata uccisa una figlia
Esattamente settant'anni fa prendeva avvio il "Piano Beveridge", il progetto di protezione sociale elaborato dal rettore dell'University College di Oxford, sir William Beveridge, che è alla base dei moderni sistemi di welfare. Ecco perché le sue idee sono ancora attualissime.
La Repubblica, 28 gennaio 2013
C’era una precisa intenzione politica nel fatto che tra le armi e l’equipaggiamento dell’Ottava Armata di Sua Maestà britannica e della Quinta Armata americana destinate allo sbarco in Sicilia nell’estate 1943, i reciproci uffici di informazione e di propaganda aggiungessero testi letterari e opuscoli politici. Gli americani preferivano regalare recenti romanzi e racconti in italiano e in formato rettangolare, gli inglesi diffondevano tra gli stupiti italiani, insieme ad un impeccabile The Remaking of Italy del 1942, testi più impegnativi. Tra questi, un opuscolo edito dalla “Stamperia Reale” con la data 1943, dal titolo Il Piano Beveridge.
In autunno l’Ottava Armata, risalendo la penisola e volendo aiutare gli italiani ad aprire gli occhi sul mondo, diffonderà anche Il Mese (edito dalla londinese “The Fleet Steet Press”), un compendio della stampa internazionale che sarà una efficace arma giornalistica di documentazione democratica.
Il Piano Beveridge aveva questo sobrio sottotitolo “La relazione di Sir William Beveridge al Governo britannico sulla protezione sociale. Riassunto ufficiale”: 116 pagine, in perfetto italiano, che riportavano 272 paragrafi, i più essenziali, dei 461 che componevano il Piano. Pochi grammi di dinamite culturale che avrebbero coinvolto e convinto gli italiani più consapevoli sui fondamenti della giustizia sociale, sulla solidarietà tra le classi, sulla tutela dei diritti e i bisogni dei lavoratori e dei ceti più deboli, sui doveri dello Stato e dei poteri economici per assicurare e garantire libertà e democrazia.
Mentre imperversava una guerra dall’esito incerto, l’opuscolo, scritto senza verbosità propagandistica e senza voler suggerire alcuna ipotesi di rivoluzione socialista, era una minuzioso catalogo di progetti, di programmi, di dati tecnici. Indicava il futuro che avrebbero potuto attendersi i popoli liberati dal fascismo e dal nazismo e suggeriva l’inedito sapore della protezione sociale e della libertà dal bisogno in un sistema di democrazia, vera, attiva.
Il Piano Beveridge era un piano pragmatico e funzionale diretto non ai settori guida dell’economia, industria, agricoltura, terziario, mondo finanziario, come accadeva negli Stati Uniti del New Deal, ma a quello della immediata, quotidiana esistenza delle persone. Il governo, presieduto da Winston Churchill, lo aveva annunciato alla Camera di Comuni il 27 gennaio 1942 come iniziativa di una “Commissione interministeriale per le assicurazioni sociali e servizi assistenziali” costituita nel giugno 1941 e alla cui guida era stato chiamato un economista liberale di sessantadue anni, rettore dell’University College di Oxford, Sir William Beveridge. Si faccia attenzione a questa ultima data: era l’inizio dell’operazione Barbarossa tedesca contro la Russia.
L’opinione pubblica inglese, anche la più moderata e liberale, aveva compreso che con l’estendersi in Europa della potenza tedesca, con i continui bombardamenti di Londra e i successi dell’Asse in Africa, la guerra aveva preso una piega pericolosa. Ma ottimismo e volontà di resistenza parvero prevalere in quei giorni. E non mancavano lampi di umorismo british come quelli del disegnatore satirico del Daily Express, Osbert Lancaster che pubblicò con la didascalia “June 1941” un disegno che ho rivisto con molto divertimento: un aristocratico e un ricco borghese si salutano, quasi sorpresi essi stessi, con il pugno chiuso. In questo clima fu elaborato il Piano che Beveridge consegnò a Churchill il 20 novembre 1942. Ai primi giorni di gennaio del 1943 il progetto di “protezione sociale e di politica sociale”, il Welfare State nel senso più razionale e umano del termine, fu conosciuto e se ne iniziò l’esecuzione.
Sono trascorsi esattamente settant’anni, ma l’idea che ha guidato Beveridge e i suoi collaboratori e esperti resta intatta ed attuale. Il piano implicava tre premesse: “sussidi all’infanzia, estesi servizi sanitari e di riabilitazione, mantenimento degli impieghi”. Cioè una riforma politica totale della società. Delle tre premesse è superfluo ricordare l’importanza che ebbe il servizio sanitario nazionale (da esso dipende anche il nostro in vigore). Ma è importante anche la conclusione di Beveridge: “L’abolizione del bisogno non può essere imposta né regalata ad una democrazia, la quale deve sapersela guadagnare avendo fede, coraggio e sentimento di unità nazionale”.
Una premessa ideale al secondo Piano Beveridge consegnato il 18 maggio 1944: Full Employment in a Free Society. E’ questa la più vasta indagine che sia mai stata elaborata (oltre 600 pagine) sulle cause della disoccupazione e sulla possibilità, al ritorno della pace, della piena occupazione in industria, agricoltura e terziario. Un sogno costruito su una diagnosi profonda e perfetta, oltre alcune formule keynesiane, sia del funzionamento dello Stato e delle sue strutture sia dell’efficienza del sistema produttivo capitalistico privato. “La piena occupazione produttiva in una società libera — scriveva nell’introduzione Beveridge — è possibile, ma non la si può realizzare agitando una bacchetta magica finanziaria”.
«Le municipalizzate e la giunta Nathan. Una vicenda più articolata di quanto emerge nella discussione pubblica».
il manifesto, 25 gennaio 2013
La figura di Ernesto Nathan è stata assunta sul piano politico e nel discorso pubblico divulgativo come emblema positivo di buon governo, per questo da celebrare. E la memoria ricostruita della storia di Roma lo ha posto come uno dei personaggi della narrazione novecentesca della città. Il convegno che in proposito si è svolto lo scorso sabato è stato così improntato, ma sarebbe appropriato effettuare un'osservazione equilibrata del personaggio, considerando l'esperienza collettiva della giunta.
All'epoca,nel 1907, liberali democratici, socialisti, repubblicani e radicali si unironoformando il «Blocco del popolo» (la denominazione ufficiale era Unione liberalepopolare) che sostenne l'elezione a sindaco di Nathan.
La giunta capitolinaespressa dal «Blocco» (7 liberali, 3 socialisti, 2 repubblicani e 2 radicali)raccolse le forze migliori della borghesia romana del tempo, meno legate aipotentati locali nati in parte dopo l'Unità e in parte ereditati dalla Romapontificia, e dunque fu più propensa delle precedenti a interventi chepotessero accelerare la modernizzazione della capitale. Governò fino al 1913,tra grandi difficoltà dovute alla natura delle questioni da affrontare, maanche alla diversità delle forze che la componevano. Soprattutto il sindaco el'assessore Giovanni Montemartini compirono un grande sforzo per tenere insiemele differenti anime politiche, fatica che non resse alla prova delle difficoltàreali.
Ma va detto che Nathan in alcuni momenti effettuò scelte che nonaiutarono la compattezza della giunta, come la decisione di portare il suosaluto allo zar in visita in Italia nel 1909. Nel gennaio-febbraio 1912uscirono dall'esecutivo i repubblicani, in disaccordo sulla nuova convenzionecon la Società anglo-romana che gestiva la distribuzione dell'energiaelettrica, indispensabile per garantire l'elettricità necessaria all'avviodelle linee tranviarie municipali; in agosto uscirono i socialisti,ufficialmente per ragioni di politica nazionale, ma che in realtà avevanosoltanto corroborato i ben più importanti accadimenti nell'attivitàamministrativa (accuse alla giunta di aver deluso le aspettative, tempi lunghiper la gestazione di una nuova legge per Roma, lunghe attese per i fondinecessari alle case popolari e alle municipalizzazioni, problema delcaroviveri, rivendicazioni operaie del 1908-1909, e saluto allo zar); ilsindaco e quel che restava della giunta diedero le dimissioni nel dicembre1913.