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«».Il manifesto, 12 marzo 2015


CORPO A CORPO CON LA DEMOCRAZIA
di Luciana Castellina

Nella pre­fa­zione a que­sti due volumi [vedi riferimenti in calce] Ste­fano Rodotà scrive che Lucio Magri è stato uno dei pro­ta­go­ni­sti di que­sta sta­gione par­la­men­tare di fine secolo. Una «bella sta­gione», aggiunge Rodotà, e debbo dire che la rilet­tura di que­sti testi suscita nostal­gia: per­ché non solo nel caso di Lucio, ma per tutti in quell’epoca, ogni inter­vento alla Camera rap­pre­sen­tava un impe­gno, una rifles­sione, un eser­ci­zio di alto livello. Per que­sto, del resto, que­gli inter­venti pos­sono essere pub­bli­cati dopo tanti anni.

Pro­ta­go­ni­sta, dun­que ma assai ano­malo, per­ché all’inizio, nella legi­sla­tura ’76-’79, parte di un gruppo di appena sei depu­tati su 630 e segre­ta­rio di un par­tito, il Pdup, che in quella coa­li­zione elet­to­rale – deno­mi­nata Demo­cra­zia Pro­le­ta­ria – di depu­tati ne aveva solo tre. E però era in rap­pre­sen­tanza della sola oppo­si­zione, come si diceva allora, quando ancora si face­vano distin­zioni, “dell’arco demo­cra­tico”.

Nel suo primo discorso par­la­men­tare Lucio si era infatti tro­vato nella para­dos­sale con­di­zione di dover negare la fidu­cia a un governo soste­nuto da una mag­gio­ranza quasi totale: il governo delle lar­ghe intese dell’on. Andreotti. Anche que­sto det­ta­glio credo stia ad indi­care (ed è bene ricor­darlo in un momento in cui pro­prio di legge elet­to­rale si sta discu­tendo) quanto impor­tante sia il plu­ra­li­smo par­la­men­tare, una rap­pre­sen­tanza che esprima dav­vero tutte le anime del paese.

Che non bloccò affatto l’istituzione, ma con­sentì anzi ine­diti e sti­mo­lanti intrecci, penso innan­zi­tutto al dia­logo che si svi­luppò fra il nostro attuale pre­si­dente della Repub­blica — che dav­vero rin­gra­zio per la sua pre­senza — e Magri, in occa­sione della assai con­flit­tuale ride­fi­ni­zione, nel 1993, della legge elettorale.

È una buona cosa rileg­gere gli atti par­la­men­tari ed è una buona cosa che la Biblio­teca della Camera sia impe­gnata a ren­derlo pos­si­bile con le sue pub­bli­ca­zioni: per­ché si tratta della testi­mo­nianza più auten­tica e diretta di un periodo sto­rico, e debbo dire che anche io, che pure ho vis­suto da par­la­men­tare que­gli anni ’76-’99, rileg­gendo que­sti volumi sono stata aiu­tata ad appro­fon­dire la rifles­sione su quella sta­gione. Che ha peral­tro rap­pre­sen­tato un pas­sag­gio epo­cale per il nostro paese, non a caso defi­nito “pas­sag­gio dalla prima alla seconda Repub­blica”.

Tut­ta­via, più che ritor­nare a quella sta­gione vor­rei cogliere quanto di tut­tora estre­ma­mente attuale ho tro­vato in que­sti discorsi di Lucio Magri. E sof­fer­marmi soprat­tutto sul tema della crisi della demo­cra­zia, che a me sem­bra essere oggi il tema più pre­oc­cu­pante. Lucio ne avverte la dram­ma­ti­cità già allora e denun­cia i rischi — con quello che Rodotà ha defi­nito «impie­toso rea­li­smo» — della deriva dell’antipolitica oggi diven­tata così macroscopica.

Non un lamento impo­tente, ma la cri­tica con­creta all’autoreferenzialismo cre­scente dei par­titi, alla loro inca­pa­cità di inten­dere quanto andava emer­gendo nella società attra­verso i movi­menti e indi­cando dun­que la neces­sità non, come troppo spesso ora si fa, di offrire un’espressione diretta ad una inde­ter­mi­nata società civile sacra­liz­zata e però fran­tu­mata e fatal­mente subal­terna alla cul­tura domi­nante, bensì un impe­gno a costruire quella che egli defi­niva «demo­cra­zia organizzata».

Non solo par­titi chiusi in se stessi più rap­pre­sen­tanza dele­gata, ma anche una rete di orga­ni­smi capaci di andar oltre la mera pro­te­sta e impe­gnati a impa­rare a gestire diret­ta­mente fun­zioni essen­ziali della società, così da ridurre via via la distanza fra gover­nanti e gover­nati (che poi è la base più salda della demo­cra­zia). E così col­mare il solco che dram­ma­ti­ca­mente separa il cit­ta­dino dalle isti­tu­zioni.

Non a caso il Pdup fu un punto di rife­ri­mento per la cre­scita di que­ste reti che ebbero, — negli anni 70 — una par­ti­co­lare fio­ri­tura. Penso ai Con­si­gli di fab­brica, a quelli di Zona, a movi­menti come Medi­cina Demo­cra­tica o Psi­chia­tria, o nati attorno alle grandi que­stioni dell’assetto urbano e sociale.

Io non me la sento di accu­sare le nostre gio­vani gene­ra­zioni per il loro disin­te­resse alla poli­tica, per la pole­mica con­tro la “casta” che fatal­mente sfo­cia nel disin­te­resse anche per la stessa demo­cra­zia, o di que­sta assume una visione asso­lu­ta­mente ridut­tiva: un insieme di diritti e di garan­zie indi­vi­duali, non lo spa­zio su cui si salda ed opera una col­let­ti­vità.
Il ter­reno della poli­tica si è ormai a tal punto ridotto, come una pelle di zigrino, sì da diven­tare un eser­ci­zio pas­sivo in cui ci si limita ad inter­ro­gare il cit­ta­dino per­ché dica «mi piace o non mi piace» a quanto pro­po­sto da un ver­tice, come si trat­tasse di face­book. E infatti di solito si dice «I like it, I don’t».

Se la demo­cra­zia è solo que­sta spo­ra­dica con­sul­ta­zione, e non invece uno spa­zio deli­be­ra­tivo che ti rende par­te­cipe e sog­getto della costru­zione di una società ogni volta inno­va­tiva, per­ché mai un gio­vane dovrebbe appassionarsi?

Il declino dei grandi par­titi poli­tici di massa ha lasciato un vuoto che dai tempi in cui Lucio ne denun­ciava i sin­tomi è diven­tato un oceano. Non li rico­strui­remo tali quali erano (e anche loro, del resto, ave­vano non pochi difetti). Ma è impor­tante tor­nare a riflet­tere sul senso della poli­tica, — che non è ricerca di con­senso, ma costru­zione di senso — così come con que­sti discorsi, pur pro­nun­ciati in Par­la­mento e non a scuola, Magri ci spin­geva a fare, per recu­pe­rare la poli­tica, che poi è ricerca della pro­pria iden­tità nel rap­porto con gli altri umani e non arroc­ca­mento sul pro­prio io nell’illusione di potersi sal­vare da soli.

Se non doves­simo riu­scire a far capire quanto la len­tezza della con­di­vi­sione, — che è pro­pria della demo­cra­zia – sia più pre­ziosa della fretta, solo appa­ren­te­mente più effi­ciente, del deci­sio­ni­smo, non ce la faremo nem­meno a far rivi­vere una vera Sini­stra. Per que­sto sono dav­vero con­tenta — e con me tutti i com­pa­gni del Pdup — della sol­le­ci­ta­zione che da que­sti testi ci viene per riflet­tere sull’oggi. E per aiu­tarci a discu­terne con i più gio­vani.

La luci­dità anti­ci­pa­trice di Magri su que­sto come su altri temi — che è cer­ta­mente stata una delle sue più signi­fi­ca­tive carat­te­ri­sti­che — ha avuto una par­ti­co­lare inci­si­vità per­ché lui non era un pro­feta, un intel­let­tuale separato.

In occa­sione della sua scom­parsa, Perry Ander­son, uno dei fon­da­tori della auto­re­vole New Left Review, ha scritto: «Lucio Magri non ha avuto uguali nel pano­rama della sini­stra euro­pea. È stato l’unico intel­let­tuale rivo­lu­zio­na­rio in grado di pen­sare in sin­to­nia con i movi­menti di massa, svi­lup­pa­tisi durante il corso della sua vita. La sua rifles­sione teo­rica si è radi­cata real­mente nell’azione, o nella man­canza d’azione, degli sfrut­tati e degli oppressi».

La ricerca, alla fine quasi osses­siva, del nesso fra teo­ria e mili­tanza ha finito per esser­gli fatale. Nel 2004 Magri decise di porre fine alla nuova “Rivi­sta” de il mani­fe­sto che era rinata nel 1999 sotto la sua dire­zione. Era una bella rivi­sta. Ma Lucio non si ras­se­gnava al fatto che man­cas­sero i refe­renti sociali, non voleva essere solo un intel­let­tuale che scri­veva senza la veri­fica dell’azione poli­tica. E poi­ché non vedeva nell’immediato le con­di­zioni per­ché inter­lo­cu­tori con­si­stenti si pre­sen­tas­sero e che il dibat­tito poli­tico in atto si sbri­cio­lava in qui­squi­lie, decise di ces­sare le pubblicazioni.

Furono moti­va­zioni ana­lo­ghe che lo con­dus­sero alla sua tra­gica deci­sione finale. «Non dico che la sini­stra non rina­scerà — ripe­teva — ma ci vor­ranno molti anni e io sarò comun­que già morto. Così come è il dibat­tito non mi inte­ressa». Ma non era tut­ta­via pes­si­mi­sta nel lungo periodo. Come del resto prova il titolo del suo libro Il sarto di Ulm — oggi tra­dotto in Inghil­terra, Ger­ma­nia, Spa­gna, Bra­sile, Argen­tina — titolo tratto da un apo­logo di Ber­tolt Bre­cht. Al sarto, che pre­ten­deva che l’uomo poteva volare, — stufo dell’insistenza — il vescovo-principe di Ulm fini­sce per dire: «Vai sul cam­pa­nile e but­tati, vediamo se è vero quanto dici». Il sarto va e salta, e natu­ral­mente si sfracella.

E però: chi aveva ragione, il sarto o il vescovo? Il sarto, per­ché poi alla fine l’uomo ha volato. Ecco, diceva Lucio, per ora il comu­ni­smo si è schian­tato, ma alla fine volerà. Noi con­ti­nuiamo a provarci


QUELLA LUCIDA DIFESA DEL MATTARELLUM
LEGGEREMAGRI NELL’ITALIA RENZIANA DEL 2015
di Daniela Preziosi

C’è una ragione, forse una in par­ti­co­lare, che ha por­tato il pre­si­dente della Repub­blica Ser­gio Mat­ta­rella ieri mat­tina nella Sala della Regina di Mon­te­ci­to­rio all’affollata pre­sen­ta­zione dei due volumi sull’attività par­la­men­tare di Lucio Magri, fon­da­tore de il mani­fe­sto poi del Pdup poi ancora fra i pro­ta­go­ni­sti della prima Rifon­da­zione comu­ni­sta, depu­tato dal 1976 al 1994, scom­parso per sua volontà non ancora ottan­tenne il 28 novem­bre 2011. A rac­con­tarla, que­sta ragione, in parte a rive­larla, è «l’amico di una vita» Famiano Cru­cia­nelli, con Luciana Castel­lina e Aldo Gar­zia cura­tore del libro Alla ricerca di un altro comu­ni­smo (2012) con arti­coli e inter­venti dello stesso Magri. «Io cono­sco la sto­ria e so qual era il rap­porto fra l’allora ono­re­vole Mat­ta­rella e Magri».

La «sto­ria» ha a che vedere con legge elet­to­rale che porta il nome del Pre­si­dente, alla quale Magri «pre­stò una forte atten­zione e che fu fer­tile ter­reno comune con l’onorevole Mat­ta­rella». Il depu­tato comu­ni­sta fece parte del gruppo ristretto che discusse inten­sa­mente del testo. Un corpo a corpo su una legge dif­fi­cile da scri­vere, a valle del refe­ren­dum mag­gio­ri­ta­rio votato a furor di popolo qual­che mese prima.

Poi la difese in aula con rea­li­smo: «Que­sta intesa avrebbe potuto essere migliore, ma con que­sti rap­porti di forza e que­sto pul­vi­scolo di inte­ressi in campo e sotto la pres­sione di un’opinione pub­blica appas­sio­nata ma male infor­mata sarebbe stato dif­fi­cile fare meglio», disse. Magri, rico­strui­sce Cru­cia­nelli (anche lui all’epoca depu­tato Prc, poi con Magri uscì dal par­tito con i ’comu­ni­sti uni­tari’), «si trovò come sem­pre a discu­tere su due fronti: quello di una parte con­si­stente del gruppo diri­gente di Rifon­da­zione comu­ni­sta che come una lita­nia ripro­po­neva il pro­por­zio­nale, con una straor­di­na­ria rimo­zione della realtà; e quello molto più potente del Pds, dei soste­ni­tori dell’ipermaggioritario che inten­de­vano can­cel­lare il sistema dei par­titi.

La legge Mat­ta­rella rap­pre­sen­tava il punto più avan­zato: per un verso accet­tava il ver­detto del refe­ren­dum e per l’altro teneva aperto con quel 25 per cento di pro­por­zio­nale la pos­si­bi­lità di ridare un senso gene­rale ai par­titi e a un tes­suto demo­cra­tico che vive nella par­te­ci­pa­zione dei sog­getti orga­niz­zati». Aver­cela oggi, quella legge, al posto dell’incipiente Italicum.
Già da que­sto brano si capi­sce che la sala stra­piena non è una riu­nione di reduci accorsi a omag­giare la fami­glia e a rim­pian­gere i tempi andati. C’è, sì, la comu­nità dei «com­pa­gni del Pdup», la breve ma feconda espe­rienza del ’par­tito d’unità pro­le­ta­ria per il comu­ni­smo’, del mani­fe­sto e delle cin­quanta sfu­ma­ture della sini­stra di ieri e di oggi, da Nichi Ven­dola e tutto il gruppo di Sel a Fau­sto Ber­ti­notti, da Luciano Pet­ti­nari a Paolo Guer­rini a Lucio Mani­sco a Franco Gior­dano, al gior­na­li­sta Valen­tino Par­lato; il costi­tu­zio­na­li­sta Gianni Fer­rara, gli ex sot­to­se­gre­tari Vin­cenzo Vita e Alfonso Gianni, l’ex euro­par­la­men­tare Roberto Musac­chio; fino a Ste­fano Fas­sina, Roberto Spe­ranza, Nico Stumpo e Vale­ria Fedeli (Pd); ma anche ai cat­to­lici ex dc Gerardo Bianco e Nicola Man­cino (dalla Dc pro­ve­niva Magri, iscritto al Pci nel ’57 prima essere radiato nel ’69), il già socia­li­sta poi Fi oggi Ncd Fabri­zio Cicchitto.
Il ragio­na­mento che si svi­luppa negli inter­venti (Laura Bol­drini, Gianni Melilla, Paolo Fon­ta­nelli, Bianco, Castel­lina, Cru­cia­nelli) a par­tire dai discorsi del depu­tato Magri sulla rap­pre­sen­tanza e sulla «demo­cra­zia orga­niz­zata» (lui, autore di un sag­gio su «par­la­mento o con­si­gli» — i soviet — in rispo­sta a Pie­tro Ingrao sul mani­fe­sto del 1970, così defi­ni­sce quella che ora con for­mula fessa si chiama ’società civile’) parla dell’oggi. Coglie già «l’avvio della deriva oli­gar­chica», sot­to­li­nea nella pre­fa­zione dei volumi il costi­tu­zio­na­li­sta Ste­fano Rodotà. La pre­si­dente Bol­drini, padrona di casa, riflette invece su ’quel par­la­mento’: nel ven­ten­nio 76–94 «c’era una curio­sità per le opi­nioni diverse, oggi alla Camera non sem­pre accade». Si intui­sce il rife­ri­mento alle pole­mi­che degli ultimi giorni.

A leg­gere Magri di fine anni 80 si incro­cia l’Italia del 2015. Magri «indi­gnato con il nuo­vi­smo che carat­te­rizza lo scio­gli­mento del Pci», non per­ché «non inno­va­tore» ma per­ché «con­si­de­rava un grave errore poli­tico la reto­rica di un nuovo senza radici e senza futuro» (Cru­cia­nelli). Il ber­sa­glio di ieri è il «nuo­vi­smo» occhet­tiano; ma le parole non cal­zano bene per «la rot­ta­ma­zione» ren­ziana?

A leg­gere Magri del ’93 si incon­tra il tor­mento della sini­stra di governo: «L’unica strada per­cor­ri­bile è quella non dell’improvvisa scom­parsa dei par­titi poli­tici ma delle gra­duali e pro­gres­sive coa­li­zioni fra gli stessi con piat­ta­forme pro­gram­ma­ti­che defi­nite». E cosa c’è di più attuale e più coevo della crisi di rap­pre­sen­tanza della sini­stra? «Magri rap­pre­senta un punto di vista, una parte certo di mino­ranza», dice Melilla, già Pdup-manifesto oggi depu­tato di Sel, «ma non fu mai mino­ri­ta­rio. Amava una frase di Teresa di Lisieux: ’so che niente dipende da me, ma parlo e agi­sco come se tutto dipen­desse da me’».

Pre­sen­ta­zione dei volumi
“Lucio Magri – Atti­vità parlamentare”
Mer­co­ledì 11 marzo, alle ore 11, presso la Sala della Regina di Palazzo Mon­te­ci­to­rio, sono stati pre­sen­tati i volumi “Lucio Magri — Atti­vità parlamentare”.
Ha aperto l’appuntamento il saluto della Pre­si­dente della Camera dei depu­tati, Laura Boldrini.
Sono inter­ve­nuti Paolo Fon­ta­nelli, Que­store della Camera, Gianni Melilla, Segre­ta­rio di Pre­si­denza della Camera, Gerardo Bianco, Luciana Castel­lina, Famiano Crucianelli.
Pre­sente il Pre­si­dente della Repub­blica, Ser­gio Mat­ta­rella.

Guarda il video sul sito della Camera.

. Il manifesto,

Nell’ambito delle pub­bli­ca­zioni legate all’anniversario della morte di Ber­lin­guer, il libro curato da Clau­dio Sardo (L’anima della sini­stra, Edi­tori riu­niti inter­na­zio­nali, pp. 111, euro 11) si segnala per la scelta di assu­mere quale suo asse un tema cru­ciale del comu­ni­smo ita­liano. Cioè la que­stione del rap­porto con la tra­di­zione cattolica.

È un cro­ce­via clas­sico che appas­sionò Togliatti, che in que­sto si pose in netta discon­ti­nuità con l’anticoncordatario e «illu­mi­ni­sta» Gram­sci, come ricorda Giu­seppe Vacca. E che tornò con forza in Ber­lin­guer.

Il libro ripro­pone un momento signi­fi­ca­tivo del con­fronto: il car­teg­gio che nel 1977 vide impe­gnate le penne del vescovo di Ivrea Bet­tazzi e il segre­ta­rio del Pci. Accanto alla con­ver­genza indi­vi­duata attorno ai con­di­visi «con­te­nuti uma­ni­stici» o al rico­no­sci­mento del valore della per­sona, il dibat­tito mise in luce anche una con­trad­di­zione. Quella tra l’autodefinizione del Pci come par­tito laico e plu­ra­li­sta, con l’articolo 5 dello sta­tuto che invece pre­ve­deva il canone del marxismo-leninismo.

Era la cele­bre que­stione del «trat­tino» che per alcuni mesi vide incro­ciare le spade alcuni filo­sofi comu­ni­sti e che fu archi­viato, pre­cisa Vacca, nella revi­sione sta­tu­ta­ria del 1979. Il nodo più rile­vante comun­que ver­teva sulla con­ci­lia­bi­lità tra l’identità comu­ni­sta, pro­tesa alla cri­tica del capi­ta­li­smo in nome di istanze gene­rali di libe­ra­zione umana, e le ana­lo­ghe ten­sioni per il tra­scen­di­mento del pre­sente che si affac­cia­vano nel mondo della fede, dal «labu­ri­smo cri­stiano» di Dos­setti, al fer­mento dei movi­menti di base sino alla pro­po­sta espli­cita delle Acli di una nuova società socia­li­sta.

Su que­sto pos­si­bile momento di con­fluenza, all’interno dei grandi valori costi­tu­zio­nali della soli­da­rietà e della per­sona come valore, aveva insi­stito già Togliatti, in assem­blea costi­tuente. E ancor prima, nel discorso al tea­tro Bran­cac­cio di Roma nel 1944, si era spinto a pro­porre alla Dc «un patto comune di azione, per un pro­gramma comune».

A Ber­gamo nel 1963 il lea­der del Pci annun­ciò una cri­tica della società del con­sumo, fonte della inco­mu­ni­ca­bi­lità sostan­ziale dell’uomo moderno, che anti­ci­pava il richiamo di Ber­lin­guer all’austerità quale occa­sione per ripen­sare radi­cal­mente il modello di svi­luppo, gli stili e i valori di vita.

Dome­nico Rosati scorge una affi­nità tra la pro­po­sta ber­lin­gue­riana di auste­rità come con­te­sta­zione dei pila­stri della società bor­ghese e l’annuncio di Moro della sta­gione dei doveri. Su que­sti lidi di cen­sura dell’edonismo, in nome di una emer­genza antro­po­lo­gica, c’è il rischio di smar­rire il senso anche posi­tivo del con­sumo ai fini della costru­zione della sog­get­ti­vità (il con­sumo con il suo nichi­li­smo mer­can­tile è ciò che salva il capi­ta­li­smo, lo intuì già Toc­que­ville; e non è anche per l’incapacità di garan­tire il con­sumo di massa che invece crolla il comu­ni­smo?). Ma lo scopo della rifles­sione sull’austerità come «occa­sione» non era quello di imporre una povertà gene­rale ma di defi­nire il pro­getto di un nuovo ordine sociale con altre com­pa­ti­bi­lità, con altre qua­lità rico­no­sciute del vivere collettivo.

La spe­ci­fi­cità del con­tri­buto di Sardo è che la ripro­po­si­zione del tema della fede (la sua domanda ini­ziale è: per­ché solo in Ita­lia esi­ste una robu­sta com­po­nente cat­to­lica che non si rico­no­sce con la destra, come accade in tutti gli altri paesi?) serve per inter­ro­garsi sul senso della ere­dità del comu­ni­smo ita­liano dopo la fine del Pci.

Per­ché quello che è scom­parso è la trac­cia di un mondo, i segnali di un pen­siero, i luo­ghi di una comu­nità, tra­volti da quello che Sardo chiama «il rifor­mi­smo subal­terno» che sfida iden­tità, memo­rie, cul­tura poli­tica, modello di par­tito, radi­ca­mento sociale, idea di società.

«Quando c’era Ber­lin­guer la poli­tica sapeva ragio­nare», osserva Rosati. Oggi, con il divor­zio tra poli­tica e ragione, avanza un nichi­li­smo sor­ri­dente che costringe gli avanzi impo­tenti di una grande tra­di­zione cri­tica ad obbe­dire a un tweet, a scor­gere cari­sma in una cami­cia bianca, a rive­rire gli impren­di­tori, che si sa sono «gli eroi del nostro tempo», a rom­pere con il movi­mento ope­raio come terra insi­gni­fi­cante, che nep­pure merita rappresentanza.
Riferimenti
Nell'archivio di eddyburg abbiamo un'ampia raccolta di scritti di e su Enrico Berlinguer.

All'indomani della scomparsa del grande intellettuale, noto ai nostri lettori, un articolo di Giuseppe Allegri e un ricordo di Zygmunt Bauman, dalle pagine rispettivamente del

manifesto e della Repubblica del 4 gennaio 2015

Il manifesto
Ulrich Beck, visionario europeo
di Giuseppe Allegri


Con Ulrich Beck se ne va uno dei mag­giori stu­diosi dei pro­cessi di glo­ba­liz­za­zione, oltre che un visio­na­rio mili­tante dell’Europa poli­tica e sociale. Il socio­logo tede­sco verrà ricor­dato anche per aver coniato e stu­diato defi­ni­zioni dive­nute di moda nella socio­lo­gia con­tem­po­ra­nea, come nel dibat­tito pub­blico euro­peo e glo­bale: «seconda moder­nità», «moder­niz­za­zione rifles­siva», «società cosmo­po­li­tica» e soprat­tutto «società del rischio» (Risi­ko­ge­sell­schaft – Risk Society).

For­mule, con­cetti, meta­fore di chi ha libe­ra­mente scelto di affron­tare senza timori reve­ren­ziali il tra­monto delle cate­go­rie della prima moder­nità, sfi­dando la son­nac­chiosa e dog­ma­tica acca­de­mica delle scienze poli­ti­che e sociali sul ter­reno più deli­cato: quello del «nazio­na­li­smo meto­do­lo­gico». Altra espres­sione «inven­tata» da Ulrich Beck per com­bat­tere quell’erronea sem­pli­fi­ca­zione che costringe nelle oppri­menti dimen­sioni dello Stato-nazione tanto l’analisi dei feno­meni sociali e giu­ri­dici, quanto i pos­si­bili spazi di azione civica e poli­tica.

Il làscito mag­giore del suo inse­gna­mento sta nel radi­cale rifiuto di ogni pre­giu­di­zio nazio­na­li­sta. Que­sto è il pri­sma attra­verso il quale Beck ha spie­gato la con­nes­sione tra le dina­mi­che della glo­ba­liz­za­zione e i loro esplo­sivi effetti sulla divi­sione del lavoro, sulle forme di vita indi­vi­duali e col­let­tive, sul pre­sente e sul futuro del vec­chio Con­ti­nente. Que­sto approc­cio è inol­tre utile per con­tra­stare la recru­de­scenza dei movi­menti intol­le­ranti e xeno­fobi dei par­titi tra­di­zio­na­li­sti, auto­ri­tari e nazio­na­li­sti (Tan Par­ties) in un’Europa che diventa sem­pre più «tede­sca», stri­to­lata dai dik­tat delle poli­ti­che di auste­rità volute dalla Bun­de­sbank. Lo ha denun­ciato lo stesso Beck in uno dei suoi ultimi saggi (L’Europa tede­sca, Laterza, 2013).

La mili­tanza intel­let­tuale, poli­tica e civile di Ulrich Beck è sem­pre stata dalla parte di un’Europa poli­tica e sociale. Un sog­getto che, a suo parere, doveva supe­rare le nefa­ste ere­dità «sovra­ni­ste» degli Stati-nazione, spesso ridotti a algidi gen­darmi dell’ordine pub­blico locale, e gli incubi mone­ta­ri­sti di un’Eurozona sino­nimo di insi­cu­rezza e povertà per le per­sone. Per que­sta ragione, dal set­tem­bre del 2010, ha ade­rito alle ini­zia­tive dello Spi­nelli Group nel Par­la­mento euro­peo, rilan­ciando lo spi­rito fede­ra­li­sta con­ti­nen­tale che dall’antifascismo di Spi­nelli, Colorni e Rossi oggi può spin­gersi sino al punto da ripen­sare l’Europa poli­tica oltre una dimen­sione mera­mente mone­ta­ria.

Que­sta visione sociale dello spa­zio poli­tico con­ti­nen­tale ha per­messo a Beck di spie­gare l’urgenza di un «red­dito di cit­ta­di­nanza con­ti­nen­tale» utile per affran­care le per­sone dai ricatti del lavoro, o della sua man­canza. La crea­zione di un simile stru­mento è inol­tre essen­ziale per garan­tire l’indipendenza dei cit­ta­dini da un Wel­fare State che sta regre­dendo a Work­fare, cioè ad un sistema di costri­zione al lavoro, con scarsa tutela della dignità della per­sona, né garan­zia della sua con­di­zione lavo­ra­tiva. Per Beck il modello sociale euro­peo è il frutto di un uni­ver­sa­li­smo con­creto, fon­dato sulla tutela dei diritti sociali intesi come diritti fon­da­men­tali di una nuova soli­da­rietà pan-europea. Altri­menti non potrà mai esserci alcuna inte­gra­zione poli­tica con­ti­nen­tale.

«Dob­biamo final­mente porre all’ordine del giorno que­ste que­stioni: come si può con­durre una vita sen­sata anche se non si trova un lavoro? Come saranno pos­si­bili la demo­cra­zia e la libertà al di là della piena occu­pa­zione? Come potranno le per­sone diven­tare cit­ta­dini con­sa­pe­voli, senza un lavoro retri­buito? Abbiamo biso­gno di un red­dito di cit­ta­di­nanza pari a circa 700 euro. Non è una pro­vo­ca­zione, ma un’esigenza poli­tica rea­li­stica».

Que­sto scri­veva Beck sulle colonne de La Repub­blica in due suc­ces­sivi inter­venti del 3 gen­naio 2006 e del 22 marzo 2007. Con­si­de­ra­zioni scritte a ridosso degli scon­tri tra gio­vani e poli­zia nelle ban­lieues fran­cesi in fiamme, men­tre comin­ciava la crisi sta­tu­ni­tense dei mutui sub­prime. Sono pas­sati diversi anni e l’«esigenza poli­tica rea­li­stica» di un red­dito di base sgan­ciato da una pre­sta­zione lavo­ra­tiva, inteso come stru­mento di soli­da­rietà, resta let­tera morta nell’agenda dei movi­menti e delle cit­ta­di­nanze sem­pre più impau­rite ed è com­ple­ta­mente assente in quella delle ina­de­guate classi poli­ti­che e sin­da­cali, nazio­nali e con­ti­nen­tali. Tutto que­sto men­tre milioni di per­sone rischiano di diven­tare ostaggi della mala­vita, nei bas­si­fondi delle metro­poli euro­pee, o schiavi inde­bi­tati del capi­ta­li­smo finan­zia­rio eletto a unico para­me­tro della «società glo­bale del rischio».

Beck è stato il testi­mone del lungo qua­ran­ten­nio neo-liberista euro­peo in cui hanno domi­nato l’individualismo sociale e il «nazio­na­li­smo meto­do­lo­gico». «Spesso la reto­rica domi­nante afferma che non “c’è alter­na­tiva” agli impe­ra­tivi dell’austerità» disse in un’intervista a Bene­detto Vec­chi su Il mani­fe­sto del 29 ago­sto 2013.

In que­sto atroce immo­bi­li­smo pro­spe­ra il Mer­kia­velli, effi­cace neo­lo­gi­smo da lui stesso coniato per descri­vere una poli­tica capace di det­tare in Europa l’agenda dell’austerità (anche in una impos­si­bile fun­zione espan­siva) fun­zio­nale alla difesa del patto social­de­mo­cra­tico in Ger­ma­nia. In que­sta cor­nice gli Stati-nazione, e gli indi­vi­dui, si ripie­gano in se stessi. «L’individualizzazione della dise­gua­glianza sociale», ana­liz­zata quasi trent’anni fa da Beck, oggi fa il paio con le mise­rie nazio­na­li­ste di classi poli­ti­che ina­de­guate e dei nuovi popu­li­smi pre­senti anche nel Par­la­mento euro­peo.

Torna quindi di attua­lità il «biso­gno di una cri­tica dell’Unione Euro­pea da un punto di vista euro­peo e non nazio­nale», per dirla sem­pre con Beck. In un inter­vento sul Guar­dian del 28 novem­bre 2011 sostenne che la crisi euro­pea può essere «un’opportunità per la demo­cra­zia». A patto di avere la forza, intel­let­tuale e poli­tica, per «abban­do­nare l’euro-nazionalismo tede­sco» e far «emer­gere una comu­nità euro­pea di demo­cra­zie» dove la «con­di­vi­sione della sovra­nità divenga un mol­ti­pli­ca­tore di potenza e demo­cra­zia».

Que­ste sono le basi di un fede­ra­li­smo radi­cale che mette in rela­zione i biso­gni delle per­sone con gli spazi poli­tici nei quali vivono. Rileg­gere que­sti inse­gna­menti alla luce di una visione soli­dale della società e dell’Europa atte­nua il senso di vuoto che lascia la sua morte tra chi con­ti­nua a non ras­se­gnarsi all’ordine esi­stente delle cose.

La Repubblica
Ci mancherà il suo contributo alla nostra coscienza
di Zygmunt Bauman

Ulrich Beck, scomparso il 1° gennaio scorso all’età di 70 anni, è stato uno dei maggiori sociologi del nostro tempo. E certamente la sua statura era destinata a crescere ancora, come l’inarrestabile impatto della sua influenza intellettuale. Una figura unica per la sua straordinaria profondità, l’acuta capacità percettiva, l’eccezionale sensibilità ai mutamenti sociali e culturali, l’ineguagliabile originalità del suo pensiero. Per gli studiosi del suo campo è stato una fonte di ispirazione e un fervido richiamo all’azione. Ma il suo impatto intellettuale ha trasceso i limiti del suo ambito professionale. La voce di Ulrich Beck – le sue diagnosi, valutazioni, previsioni e avvertimenti, sono stati ampiamente ascoltati, con viva attenzione.

Assai più che uno studioso ligio ai doveri ristretti di un’attività accademica, per vocazione Beck era la personificazione dell’intellettuale pubblico, in ragione del ruolo e delle posizioni che ha assunto: un modello cui gli studiosi di scienze sociali aspirano ardentemente, anche se a pochi è dato raggiungerlo con tanto vigore, efficacia e dedizione.

È difficile, forse impossibile, immaginare la temperie, il tenore dell’attuale dibattito politico, l’ampiezza e la profondità della nostra consapevolezza collettiva senza i molteplici e vari contributi di Ulrich Beck, la sua insaziabile curiosità nell’esplorare i meandri della vita moderna, la sua capacità di individuare prontamente e mettere a fuoco le sue realtà con osservazioni precise e pregnanti, e la sua predisposizione a quella che gli antichi chiamavano “parresia”: a rendere conto dei risultati delle sue ricerche senza cercare giustificazioni né scendere a compromessi, con libertà, fierezza e candore, attenendosi alla coscienza, giudice supremo dei comportamenti umani e guida sicura nella ricerca di verità dello studioso.

Questa morte prematura ci lascia tutti più poveri.

Traduzione di Elisabetta Horvat
Riferimenti
Su eddyburg, vecchia e nuova edizione, abbiamo inserito moltissimi scritti di e su Ukrich Beck. Potete trovarli tutti digitando il suo nome e cognome nella finestrella a destra della testata del nostro sito

«Roma e la Liberazione. La Resistenza viene conservata come in una teca. Da tenere da conto, sempre, anche se ormai fuori moda». In calce, la postilla con i riferimenti a un evento, l'attentato di via Rasella, attorno al quale fu imbastita una colossale mistificazione.

Il manifesto, 26 settembre 2014

Nella notte tra il 22–23 set­tem­bre qual­cuno, qual­cuna di noi ha rice­vuto que­sto sms: «Oggi alle 10.30 con il tri­co­lore Anpi… a Ponte Gari­baldi fiori per Carla Cap­poni e Sasà Ben­ti­ve­gna. Ver­go­gna. Solo il Tevere ha accolto ieri le loro ceneri…».

Ciò che era nell’aria da tempo è avve­nuto. Ma come? Cer­chiamo invano una cro­naca. Un Tevere limac­cioso ine­so­ra­bil­mente deserto è com­parso per qual­che secondo sul Tg Lazio del giorno 23, fuori campo la voce del sin­daco Marino reci­tava che Roma non avrebbe mai dimen­ti­cato i due pro­ta­go­ni­sti della Resi­stenza romana…Le ceneri di Carla Cap­poni (morta nel 2000) e del suo com­pa­gno Sasà Ben­ti­ve­gna (morto nel 2012) erano custo­dite dalla figlia Elena nella sua casa di Zaga­rolo (Roma) in attesa di una degna sepoltura.

Si è capito ben pre­sto dal «No» del Cimi­tero acat­to­lico di Testac­cio, su cui Elena con­tava per esau­dire un desi­de­rio dei geni­tori, che tro­vare una degna sepol­tura per i due gap­pi­sti non sarebbe stata un’impresa sem­plice. Passi da parte delle auto­rità locali ne sono stati fatti, ma evi­den­te­mente privi di quel con­vin­ci­mento inte­riore neces­sa­rio per por­tare a com­pi­mento il rico­no­sci­mento di un merito che nel clima poli­tico di que­sti ultimi anni, una sorta di disa­gio cre­scente lo creava.

In soc­corso dello sco­ra­mento di Elena si era mosso all’inizio dell’estate il Museo di via Tasso offrendo ospi­ta­lità alle ceneri, fin­ché non si fosse tro­vata la sede defi­ni­tiva per la sepol­tura. L’Anpi di Roma da parte sua aveva pro­po­sto che i due pro­ta­go­ni­sti della Resi­stenza romana fos­sero accolti nel monu­mento dedi­cato ai caduti per la Libe­ra­zione di Roma…

I vin­coli buro­cra­tici, l’inerzia che carat­te­rizza da noi ogni pro­ce­di­mento ammi­ni­stra­tivo diven­gono un utile alibi quando un’azione è meglio riman­darla: «queta non movere»… Elena, alla fine l’ha capito, e ha dato corso a quella che defi­niva «la seconda scelta» dei suoi geni­tori: le loro ceneri affi­date alle acque del Tevere.

Nulla sap­piamo di come ciò sia avve­nuto. Forse quei papa­veri rossi che Carla tanto amava saranno stati get­tati nel Tevere insieme a ciò che restava di lei, della sua lumi­nosa bel­lezza, che i meno gio­vani tra noi ben ricordano….Già negli anni del com­pro­messo sto­rico Carla comin­ciava a creare imba­razzi: il suo corag­gio ardente, il suo indo­mito anti­fa­sci­smo vis­suto «con cuore di donna» susci­tava nei comizi l’entusiasmo dei gio­vani (e lo sgo­mento pal­pa­bile dei segre­tari delle sezioni del Pci, pre­oc­cu­pati delle rea­zioni degli scout, i nuovi invi­tati).

Il clima poli­tico stava cambiando. La cul­tura sem­pre più accre­di­tata della non­ vio­lenza ren­deva dif­fi­cile difen­dere l’azione dei Gap dall’accusa di ter­ro­ri­smo, soste­nere la sua col­lo­ca­zione tra gli atti di guerra, con­si­de­rare via Rasella un atto di eroi­smo, uno scatto di dignità con­tro la fero­cia nazi­fa­sci­sta sulla popo­la­zione romana che l’aveva determinato.

Carla Cap­poni fu meda­glia d’oro della Repub­blica, par­la­men­tare del Pci eletta con un vastis­simo con­senso, rico­no­sciuta pro­ta­go­ni­sta di quella Resi­stenza che tut­ta­via, ben­ché con­di­visa da donne e uomini di diverse ten­denze e idea­lità uniti nella lotta al fasci­smo, era dive­nuta nei decenni sem­pre più patri­mo­nio riven­di­cato dalla sinistra.

Furono le forze di sini­stra a bat­tersi per il rispetto e l’attuazione dei prin­cipi costi­tu­zio­nali, le ammi­ni­stra­zioni di sini­stra a tenere vivo nei decenni l’esempio di chi aveva dato la vita per la demo­cra­zia nel nostro paese. Ma pro­prio que­sta fedeltà rischia di essere tra­volta nel folle volo com­piuto dal Pci nella sua corsa verso il «nuovo», un «nuovo» che è sfu­ma­tura delle dif­fe­renze, annul­la­mento di tutto ciò che può ren­dere meno piatto il presente…

Gli eroi della Resi­stenza acqui­stano il sapore di un reperto oleo­gra­fico: sono da con­ser­varsi in una teca, come i gio­ielli di fami­glia, da tenere da conto, ma rima­sti fuori moda. Bat­tersi per una degna sepol­tura di Carla e Sasà avrebbe com­por­tato ripor­tare a galla recri­mi­na­zioni mai sopite, schie­rarsi in una difesa a tutto campo di valori rico­no­sciuti come attuali… I nostri gover­nanti, i nostri ammi­ni­stra­tori non se la sono sen­tita. Que­sta è la verità. Ha detto bene il pre­si­dente dell’Anpi di Roma: «Le ceneri dei due pro­ta­go­ni­sti della Resi­stenza romana finite nel Tevere, sono un buco nero per la democrazia»


Per conoscere la reale storia di Via Rasella e comprendere la colossale mistificazione che fu costruita per falsificare la storia e convincere gli italiani che la Resistenza era stata il succedersi di vigliacchi eccidi compiuti dai "comunisti badogliani" , si vedano le informazioni fornite da Repubblica e riprese e integrate da eddyburg da il 6 febbraio 2006 e il 9 febbraio 2006. Qui sotto un'immagine del giornale che, due giorni dopo l'eccidio delle Fosse Ardeatine, invitava i partigiani a presentarsi

Ecco perchè abbiamo scritto poco fa di un parere autorevole. Riprendiamo da un archivio un testo diUn uomo di un’Italia migliore, che è ancora tra noi e ancora insegna. Dall’archivio de

La Nuova Venezia, 29 gennaio 2009.

«Quando sono entrato in magistratura, nel 1959, il magistrato era un travet di lusso, dipendeva dal ministero e non osava alzare lo sguardo su politici, istituzioni e potere. Poi è arrivato il Csm, che ha reso liberi pm e giudici, proteggendoli dalle accuse dei potenti: con la caduta del Muro e la fine di Dc e Pci, ci siamo infilati a guardare ovunque ed è esplosa Manipulite. E’ vero, oggi la giustizia è bloccata, ma le riforme sul tavolo sono solo il cavallo di Troia per minare l’indipendenza del pm, non garantiscono giustizia più celere».
Il procuratore generale Ennio Fortuna, sabato 31 dicembre andrà in pensione, mezzo secolo dopo aver vestito per la prima volta la toga: da allora è stato pretore, pubblico ministero, procuratore circondariale a Venezia, membro del consiglio superiore della Magistratura eletto per Magistratura indipendente, procuratore della Repubblica a Bologna e, infine, pg presso la Corte d’appello veneta. Ne ha da ricordare, con la sua voce forte e il tono incalzante, il fluire carico di aneddoti del perfetto raccontastorie e l’entusiasmo di chi crede che «fare il magistrato sia il più bel lavoro del mondo».
Le inchieste. Da quella volta che si è trovato a indagare sull’allora collega, oggi senatore pd, Luciano Violante denunciato di falso per le perquisizioni a tappeto sul sospetto golpista Edgardo Sogno («Due persone degnissime, l’indagine finì in un nulla») a quando si rifiutò, nel 1968, di processare Pierpaolo Pasolini per il film «Teorema» e il Pg di allora lo sollevò dall’inchiesta («Ma poi il regista fu assolto!»). E gli anni Settanta, quelli del terrorismo, quando nel 1974 si ritrovò il garage di casa sventagliato da 21 colpi di mitra: «Negli Anni di piombo i magistrati italiani dimostrarono di non piegarsi, riuscendo a sconfiggere il terrorismo rispettando il codice e senza mai rinunciare al garantismo: i giudici di non molti Stati lo hanno fatto».
Furono anche i tempi dei primi crac dei promotori finanziari, con il caso dell’agente di cambio Marzollo che scosse la Venezia bene che gli aveva affidato milioni di risparmi. Ancora, i primi, veri furti d’arte, un decennio prima che Felice Maniero li usasse come merce di scambio: «Ritrovare arrotolati in un campo dell’isola di Poveglia tre capolavori del Gian Bellini rubati nella basilica di Santi Giovanni e Paolo è stata una soddisfazione enorme». E i delitti. «Il caso Pastres, con l’omicidio di un bimbo di appena 6 anni, a San Donà: fu terribile», racconta ancora Fortuna, «l’assassino lo bloccammo in Crazia: non avevamo prove certe contro di lui, ma durante l’interrogatorio crollò. Devo dire che negli interrogatori sono sempre stato piuttosto bravo: nei confronti psicologici riuscivo a trovare spesso la chiave giusta per la confessione, ma oggi sarebbe impossibile con la presenza dell’avvocato sin dal primo minuto».
Unabomber. Il cruccio finale: «Che dire? E’ stato più bravo di noi. Devo dire che le Procure di Venezia e Trieste hanno fatto il possibile, puntando tutto sull’indagine scientifica. Purtroppo abbiamo perso la partita dall’interno: eravamo convinti di avere la prova che Zornitta fosse colpevole e invece abbiamo scoperto che il lamierino trovato in un ordigno, era stato alterato. L’amarezza è forte».
Dalle Olivetti ai pc. «L’esperienza più esaltante è stata quella alla Procura circondariale», ricorda Fortuna, «abbiamo aperto un ufficio in un’ex scuola dove non c’era nulla: mi feci prestare le macchine da scrivere da Semenzato, che alla fine non le volle neppure indietro tanto erano vecchie. La fortuna fu che al ministero, incuranti del fatto che a Venezia c’è l’acqua, mi assegnarono 5 autisti d’auto: li misi tutti a lavorare al registro generale, anche se all’inizio scrivevamo i reati su alcuni quadernoni che comprai a Mestre, perché non avevamo neppure i libri del ministero. Sei mesi dopo, tutto funzionava perfettamente: fummo i primi ad informatizzare i fascicoli e ad introdurre l’udienza di comparizione». Il periodo nero fu quello successivo, alla Procura di Bologna: «La trovai distrutta, anche sul piano psicologico».
Giustizia malata? «Vado via molto amareggiato per non essere riuscito a dare risposta alle giuste richieste della cittadinanza per una giustizia celere e sollecita», conclude Fortuna, «ma i problemi sono altri da quelli che si vorrebbero risolvere con le riforme sul campo. Sono un appassionato nato difensore della magistratura libera e indipendente, che oggi vedo in pericolo. Gli avvocati dovrebbero capire che la separazione delle carriere tra pm e giudici - di per sé possibile - può essere un grimaldello verso l’assoggettamento del pubblico ministero a una nomina politica: un pm sotto il governo non alza lo sguardo. Senza l’indipendenza del pm viene meno la giustizia».
Il futuro. «Finché il cervello funziona, metterò la mia esperienza al servizio di enti, imprese, studi. La politica? Nel passato mi hanno chiesto di fare il sindaco e ho rifiutato: ora sono libero da ogni impedipento, se la proposta fosse seria, potrei accettare».


«La decisione del segretario del Pci di difendere il dirigente comunista in carcere, forzandone talvolta le posizioni, nasceva dalla convinzione di essere in presenza di una delle figure più rilevanti del marxismo novecentesco».

Il manifesto, 21 agosto 2014

Il 19 giu­gno 1964, due mesi prima della morte, Togliatti pub­bli­cava sul quo­ti­diano di area comu­ni­sta Paese sera l’ultimo capi­tolo del libro che per quasi quarant’anni egli era andato scri­vendo su Anto­nio Gram­sci. Si trat­tava della recen­sione a un’antologia di arti­coli e let­tere del comu­ni­sta sardo in cui, tra l’altro, Togliatti scri­veva: «Forse dipende dal tempo che è pas­sato, che ha get­tato ombre e luci nuove su tanti avve­ni­menti…
Non so se sia per que­sto motivo. Certo è che oggi, quando ho per­corso via via le pagine di que­sta anto­lo­gia, attra­ver­sate da tanti motivi diversi, che si intrec­ciano e talora si con­fon­dono, ma non si per­dono mai, – la per­sona di Anto­nio Gram­sci mi è parso debba col­lo­carsi essa stessa in una luce più viva, che tra­scende la vicenda sto­rica del nostro par­tito». Era, a ben vedere, la pre­vi­sione di un feno­meno che avrebbe avuto ini­zio solo un ven­ten­nio più tardi, negli anni Ottanta, quando – men­tre alcune com­po­nenti del Par­tito comu­ni­sta ita­liano sem­bra­vano dimen­ti­care Gram­sci in favore di para­digmi cul­tu­rali diversi e alter­na­tivi, incam­mi­nan­dosi lungo i sen­tieri che avreb­bero con­dotto alla Bolo­gnina – la for­tuna dell’autore dei Qua­derni ini­ziava una fase di espan­sione nei paesi anglo­foni come in Ame­rica latina, dive­nendo un punto di rife­ri­mento del pen­siero poli­tico e sociale con­tem­po­ra­neo, ben al di là del rife­ri­mento pur deci­sivo che aveva costi­tuito per il Pci, soprat­tutto gra­zie a Togliatti.

In altre parole, già nel 1964 il segre­ta­rio comu­ni­sta affer­mava che Gram­sci gli appa­riva tal­mente grande da essere desti­nato a pro­iet­tare la pro­pria influenza anche molto oltre le dimen­sioni pure con­si­de­re­voli che aveva assunto in rela­zione alla cul­tura poli­tica dei comu­ni­sti ita­liani, soprat­tutto a par­tire dalla costru­zione del «par­tito nuovo» e dal ten­ta­tivo di una «avan­zata nella demo­cra­zia verso il socia­li­smo» intra­preso da Togliatti stesso al suo ritorno in Ita­lia nel 1944. Ten­ta­tivo che era poi la tra­du­zione della gram­sciana «guerra di posi­zione» in una situa­zione poli­tica per tanti versi inim­ma­gi­na­bile pochi anni prima, spe­cie in seguito alla divi­sione del mondo in due «campi» ben deli­mi­tati e a cui era dif­fi­ci­lis­simo sottrarsi.
Un dialogo che non si spezza

Il libro togliat­tiano su Gram­sci (di recente ristam­pato da Edi­tori Riu­niti uni­ver­sity press col titolo Scritti su Gram­sci), più in gene­rale la sto­ria di Togliatti cura­tore e orga­niz­za­tore della dif­fu­sione delle opere di Gram­sci, non­ché loro primo e più accre­di­tato inter­prete, dura quasi un qua­ran­ten­nio, essendo il primo scritto del 1927, occa­sio­nato del pro­cesso con il quale il fasci­smo con­dannò alla galera buona parte del gruppo diri­gente comu­ni­sta e Gram­sci a morte pro­ba­bile, viste le sue con­di­zioni di salute. Si dimen­tica o si nasconde a volte que­sto fatto fon­da­men­tale, si torna a scri­vere perio­di­ca­mente che altri (e in pri­mis pro­prio Togliatti o alcuni suoi com­pa­gni, o Sta­lin in per­sona) sareb­bero stati i «car­ne­fici» del comu­ni­sta sardo. Sulla base di ipo­tesi e ragio­na­menti che non hanno il sup­porto di un docu­mento, di una prova. Si arriva ad affer­mare che Mus­so­lini avrebbe addi­rit­tura rico­no­sciuto a Gram­sci pri­vi­legi inu­si­tati, in virtù di una stima di vec­chia data. Si costrui­sce arta­ta­mente la leg­genda del tra­di­mento di Togliatti (a cui i mag­giori quo­ti­diani mostrano di dare cre­dito) per minare dalle fon­da­menta una tra­di­zione poli­tica – quella del comu­ni­smo ita­liano – che offre ancora oggi segni di vita­lità.

I forti con­tra­sti tra Gram­sci e Togliatti nel 1926 in merito alle lotte interne al par­tito bol­sce­vico sono ampia­mente noti. Ciò che spesso non si dice però è che mai dall’esilio Togliatti cessa, con l’ausilio di Piero Sraffa e di Tania Schu­cht, di cer­care di dia­lo­gare col pri­gio­niero, un dia­logo che Gram­sci, anche se indi­ret­ta­mente, accetta: egli riflette e scrive per il suo par­tito, per la sua parte poli­tica, non diviene in car­cere un libe­ral­de­mo­cra­tico, men che meno si con­si­dera, come pure è stato detto, un «pro­fes­sore», un intel­let­tuale solo occa­sio­nal­mente pre­stato alla poli­tica e pre­sto da essa ritrat­tosi.
La sta­gione dei fronti popo­lari anti­fa­sci­sti che si apre nel 1934–1935, e che ha in Togliatti uno dei prin­ci­pali pro­ta­go­ni­sti, non è certo det­tata dalla rifles­sione car­ce­ra­ria gram­sciana, ma segna un ogget­tivo riav­vi­ci­na­mento con il pri­gio­niero rispetto alla pre­ce­dente poli­tica dell’Internazionale comu­ni­sta, alla stra­te­gia della con­trap­po­si­zione fron­tale «classe con­tro classe» e alla con­se­guente poli­tica del «social­fa­sci­smo», per la quale, assur­da­mente, tra socia­li­sti e fasci­sti non vi sarebbe stata dif­fe­renza. Togliatti matura allora, negli anni Trenta, anche sulla spinta dell’avanzata del nazi­fa­sci­smo, la con­vin­zione della impor­tanza della demo­cra­zia, sia pure popo­lare, non eli­ta­ria, nutrita di diritti non solo poli­tici e civili, insomma «progressiva»..

Una scelta chiara

Ciò che spesso non si dice, inol­tre, è che senza le scelte ope­rate da Togliatti rispetto alla gestione del lascito gram­sciano, noi non avremmo mai cono­sciuto il Gram­sci che oggi tutto il mondo apprezza. Se Togliatti non avesse ope­rato per fare di Gram­sci il mag­giore pen­sa­tore mar­xi­sta ita­liano e per difen­derne la figura e l’opera, il comu­ni­sta sardo sarebbe pas­sato pro­ba­bil­mente alla sto­ria solo come un mar­tire anti­fa­sci­sta o poco più. Le sue opere car­ce­ra­rie sareb­bero rie­merse dagli archivi di Mosca negli anni Ottanta e Novanta e noi forse saremmo intenti oggi a cer­care di capire per la prima volta quelle pagine non facili.

Fu Togliatti nel 1938, in pieno ter­rore sta­li­niano, a impe­dire che il ver­tice dello stesso Pci con­dan­nasse come troc­ki­j­sta Gram­sci (scom­parso l’anno pre­ce­dente) pro­prio per le posi­zioni del 1926. Fu Togliatti a impe­dire che i qua­derni gram­sciani fos­sero affi­dati ai sovie­tici, come qual­cuno chie­deva, sal­van­doli così da un pro­ba­bi­lis­simo oblio. Fu Togliatti a evi­tare la con­danna del pen­siero di Gram­sci negli anni dello zda­no­vi­smo, pub­bli­cando i Qua­derni dopo averne smus­sato qual­che spi­golo per evi­tare la con­danna di Mosca, ma sce­gliendo di fare del comu­ni­sta sardo uno dei pila­stri del «par­tito nuovo» che andava costruendo, sia pure a prezzo di qual­che sin­cre­ti­smo, e intro­du­cen­dolo come meglio non si sarebbe potuto nella cul­tura poli­tica ita­liana: poteva anche non farlo, poteva anche – per costruire l’identità del suo Pci – appog­giarsi al mito dell’Urss o della Resi­stenza. Scelse invece, pur senza ripu­diare gli altri punti di rife­ri­mento iden­ti­tari del suo par­tito, di indi­care con chia­rezza che gran parte delle radici della sua poli­tica erano nel pen­siero di Gram­sci.
Certo, il libro che Togliatti ha scritto su Gram­sci non è uni­voco, è scan­dito dal pre­va­lere in fasi diverse di accenti diversi, e le let­ture togliat­tiane vanno con­te­stua­liz­zate, poi­ché sono in parte con­di­zio­nate dal pri­mato della poli­tica. Occorre sepa­rarvi ciò che non regge alla veri­fica del tempo dalle indi­ca­zioni, non poche, ancora fon­da­men­tali. E qual­che raro pas­sag­gio appare oggi per­sino ese­cra­bile. Ma l’interpretazione e l’uso che Togliatti ha fatto di Gram­sci sono stati impor­tanti per costruire quel par­tito che Gram­sci aveva rifon­dato dopo la prima fase bor­di­ghi­sta, e anche per far cono­scere al mondo l’autore dei Qua­derni.

La politica di Gramsci

Gli scritti togliat­tiani su Gram­sci degli anni Venti e Trenta già pone­vano il tema del posto di Gram­sci nella sto­ria del Pci. All’amico e al com­pa­gno di mili­tanza e di lotta Togliatti rico­nobbe subito, nel 1927, la pri­mo­ge­ni­tura poli­tica, il ruolo di mae­stro e di capo, che riba­dirà nel 1937–1938, nei discorsi e negli arti­coli com­mossi scritti in occa­sione della morte. Si trat­tava di una indi­ca­zione, quella del 1927, che minava l’impianto difen­sivo gram­sciano? Mus­so­lini e la poli­zia fasci­sta sape­vano benis­simo chi fosse Gram­sci, quale ruolo avesse, e il Tri­bu­nale spe­ciale obbe­diva a fina­lità squi­si­ta­mente poli­ti­che: obbe­diva al volere di Mus­so­lini. Fare di Gram­sci allora, e poi di nuovo dopo la morte, il «capo» del par­tito ita­liano, per­sino un fedele seguace di Sta­lin (che in realtà non era), ser­viva in quel con­te­sto a sal­va­guar­darne la memo­ria, a impe­dirne la con­danna ideo­lo­gica da parte dell’Internazionale che avrebbe prima inde­bo­lito il pre­sti­gio del pri­gio­niero presso la «casa madre» di Mosca e che poi avrebbe rin­viato sine die la dif­fu­sione dei suoi scritti.

Una volta tor­nato in Ita­lia, Togliatti pog­giava su Gram­sci la costru­zione del suo par­tito. Ne for­zava in alcuni punti il pen­siero, facendo della sua stessa poli­tica la «poli­tica di Gram­sci», ma per un fine – tra­sfor­mare il Pci in un grande par­tito e farne una cosa diversa dal modello sovie­tico – che certo non sarebbe stato sgra­dito al comu­ni­sta sardo. Togliatti vac­ci­nava il suo par­tito dalla più nefa­sta orto­dos­sia sta­li­ni­sta, raf­for­zando la pecu­liare tra­di­zione comu­ni­sta nazio­nale, che aveva nella coniu­ga­zione di demo­cra­zia e socia­li­smo il suo mar­chio di fab­brica. Gram­sci e Togliatti non sono sovrap­po­ni­bili, certo, come non sono sovrap­po­ni­bili Togliatti e Ber­lin­guer: sono lea­der poli­tici che vivono e pen­sano in tempi diversi, usu­fruendo però di un comune nutri­mento teorico-politico e cer­cando di svi­lup­parlo in rela­zione a una vicenda sto­rica in con­ti­nua evo­lu­zione. Negli anni del dopo­guerra aveva lar­ga­mente corso l’idea non del tutto esatta di un Gram­sci «grande intel­let­tuale nazio­nale», ma se si leg­gono oggi gli scritti togliat­tiani ci si rende conto che le indi­ca­zioni in essi con­te­nute sono ancora pre­ziose per capire Gram­sci, la sua vicenda, il suo pensiero.

L'edizione critica dei Quaderni

Dopo il 1956 ha ini­zio una delle sta­gioni più ric­che della ela­bo­ra­zione di Togliatti, l’ultima, anche per quel che riguarda Gram­sci. Egli poneva nel 1956–1958 il tema di Gram­sci e il leni­ni­smo per pren­dere le distanze dallo sta­li­ni­smo senza far per­dere al suo par­tito l’orizzonte rivo­lu­zio­na­rio. Nel momento in cui tante cer­tezze erano venute meno, Togliatti mostrava come la strada indi­cata da Gram­sci fosse soprat­tutto quella di tra­durre (un lemma fon­da­men­tale nel les­sico gram­sciano) il leni­ni­smo in un lin­guag­gio adatto a una situa­zione così diversa rispetto a quella in cui aveva avuto luogo la Rivo­lu­zione d’ottobre.
Era stata, quella della neces­sità del pas­sag­gio da «Oriente» a «Occi­dente», del resto, una indi­ca­zione dello stesso Lenin, che Gram­sci aveva ripreso e svi­lup­pato. Gra­zie a Gram­sci dun­que si poteva andare avanti in quella dire­zione. Pre­ziosa era inol­tre, sem­pre nel 1958, l’indicazione togliat­tiana, oggi più che mai rite­nuta valida, secondo cui l’elaborazione di Gram­sci può essere dav­vero com­presa solo se con­nessa alla sua bio­gra­fia poli­tica. Veniva presa allora anche la deci­sione di pro­ce­dere a una edi­zione cri­tica dei Qua­derni, a cui ini­ziava a lavo­rare Valen­tino Ger­ra­tana. Era trac­ciata la via lungo la quale Gram­sci sarebbe dive­nuto il sag­gi­sta ita­liano più cono­sciuto nel mondo dai tempi di Machiavelli.

Il manifesto, 21 agosto 2014

«Un’altra cosa che vor­rei dire, e soprat­tutto ai nostri com­pa­gni che hanno già una certa pre­pa­ra­zione, è che lo stu­dio per loro non può con­si­stere e non deve con­si­stere nel met­tere fati­co­sa­mente assieme idee gene­rali in forma più o meno pole­mica. Que­sto sforzo non porta di solito a fare niente di serio, e anch’esso non è stu­dio, quando man­chi la ricerca attenta, paziente, larga, dei mate­riali di fatto, quando man­chi l’esame cri­tico di que­sti».
C’è anche que­sto (tra con­si­gli su come leg­gere e stu­diare, in una let­tera a «una cel­lula dell’apparato» pub­bli­cata su Vie nuove del marzo 1949) nella rac­colta recen­te­mente pub­bli­cata (Pal­miro Togliatti, La guerra di posi­zione in Ita­lia. Epi­sto­la­rio 1944–1964, a cura di Gian­luca Fiocco e Maria Luisa Righi, Pre­fa­zione di Giu­seppe Vacca, Einaudi, pp. 372, euro 24), sele­zione ine­vi­ta­bil­mente e con­sa­pe­vol­mente «arbi­tra­ria» di un epi­sto­la­rio vastis­simo, parte di un Fondo che attende una piena valo­riz­za­zione.
Il titolo discu­ti­bile, gram­sciano, richiama un’atmosfera suc­ces­siva al fal­li­mento della rivo­lu­zione comu­ni­sta in Europa, quella «guerra di posi­zione» vis­suta da Gram­sci e Togliatti anche come occa­sione per ripen­sare i ter­mini della scon­fitta e per impe­dirne il ripe­tersi. E nella prima inter­vi­sta a un inviato spe­ciale della Reu­ters nell’aprile 1944, con la quale si apre il volume, Togliatti riba­diva: «Nei primi anni della sua esi­stenza il Par­tito comu­ni­sta ita­liano com­mise gravi errori di set­ta­ri­smo, non seppe fare una poli­tica di unità del popolo per la difesa delle libertà demo­cra­ti­che con­tro il fasci­smo. Di que­sti errori trasse pro­fitto la rea­zione e noi oggi ci guar­de­remo bene dal ripe­terli».
Ma il «ven­ten­nio togliat­tiano» (1944–1964), in cui Togliatti eser­cita il ruolo di costrut­tore e capo di un grande par­tito comu­ni­sta di massa, appar­tiene ad epoca diversa, in cui guerra di trin­cea e di movi­mento si intrec­ciano in forme ormai lon­tane dalla fase «bol­sce­vica». Le let­tere ci resti­tui­scono, come ha notato Mario Tronti su l’Unità del 7 luglio, «un Togliatti molto gram­sciano, ma che non smette mai, nem­meno per un momento, di essere togliat­tiano». Dove men­ta­lità togliat­tiana signi­fica indub­bia­mente rea­li­smo, valu­ta­zione attenta e costante dei rap­porti di forza, non per cri­stal­liz­zarli ma per modi­fi­carli a van­tag­gio di un fronte ampio di alleanze da costruire, rivol­gen­dosi a tutti gli inter­lo­cu­tori pos­si­bili. L’elenco dei cor­ri­spon­denti rispec­chia l’ampiezza di que­sta pro­pen­sione al dia­logo e alla ricerca di un ter­reno d’incontro mai subal­terno (da Pie­tro Bado­glio a Bene­detto Croce, da Alcide De Gasperi a Romano Bilen­chi, da Pie­tro Nenni a Vit­to­rio Val­letta e alla fami­glia Oli­vetti, da Sta­lin a Giu­seppe Dos­setti).
Il ruolo attri­buito alla cul­tura, da costruire quasi da zero - più che recinto da «ege­mo­niz­zare» - per chi veniva dalla distru­zione ope­rata dal fasci­smo è uno dei temi fon­da­men­tali del volume, una «bat­ta­glia delle idee» seguita con cura anche nel det­ta­glio, quasi mania­cale, senza impar­tire in genere «diret­tive», anzi rifiu­tando diri­gi­smi con­fusi e capo­ra­le­schi sul ter­reno della ricerca sto­rica (la vicenda già nota della difesa di Gastone Mana­corda dalla pre­tesa di «det­tare la linea» da parte di espo­nenti dell’apparato).
Quello che pro­ba­bil­mente col­pi­sce di più il let­tore odierno è lo sfog­gio – inne­ga­bil­mente com­pia­ciuto – di eru­di­zione, che si esplica ad esem­pio nelle pole­mi­che con Vit­to­rio Gor­re­sio attorno a un sonetto di Guido Caval­canti e alla sua esatta gra­fia: dove c’è sicu­ra­mente la volontà di dimo­strare che i comu­ni­sti non erano i sel­vaggi dipinti dalla pro­pa­ganda avver­sa­ria, ma non c’è in alcuna forma la volontà di venire ammessi nei «salotti buoni» della bor­ghe­sia, che tra­vol­gerà lon­tani eredi di quella tra­di­zione in anni futuri. C’è ancora la volontà di costruire un cir­cuito cul­tu­rale auto­nomo e paral­lelo, che riprende ispi­ra­zioni dell’«universo socia­li­sta» a cavallo fra i due secoli, ma senza sem­pli­fi­ca­zioni gros­so­lane e inte­ra­gendo senza rigide sepa­ra­zioni con la cul­tura nazio­nale. C’è anche la con­vin­zione che il movi­mento ope­raio debba essere, clas­si­ca­mente, «erede» dei punti più alti della cul­tura bor­ghese (le famose ban­diere lasciate cadere nella pol­vere e che vanno risol­le­vate) e che il supe­ra­mento possa avve­nire solo attra­verso assun­zione piena delle istanze più alte della tra­di­zione che si avversa.

La scoperta dell'illuminismo

Ma pro­ba­bil­mente c’è qual­cosa di più, che attiene alla dimen­sione stret­ta­mente per­so­nale di un uomo com­bat­tuto in gio­ventù tra voca­zioni che appar­vero alter­na­tive, tra la dimen­sione di stu­dioso e quella di poli­tico, e dove la scelta esi­sten­ziale, com­piuta infine, non si tra­dusse nel senso un po’ arido che Croce dava al ter­mine di totu­spo­li­ti­cus (coniato appunto in una let­tera a Togliatti) ma in una con­ce­zione della poli­tica che pur auto­noma e con le sue regole era ine­stri­ca­bil­mente con­nessa alla cul­tura. Quest’ultima col­ti­vata in forma auto­noma, e che si era arric­chita nel tempo di dimen­sioni in pre­ce­denza igno­rate: si pensi al rap­porto con l’illuminismo, com­ple­ta­mente estra­neo alla for­ma­zione gio­va­nile tori­nese e ordi­no­vi­sta. Quel Togliatti che nelle memo­rie di Giu­lio Cer­reti tro­viamo intento nei lun­ghi sog­giorni pari­gini nella ricerca dei clas­sici set­te­cen­te­schi presso le libre­rie anti­qua­rie è lo stesso che tra­durrà il Trat­tato della tol­le­ranza di Vol­taire (in pole­mica con le ten­ta­zioni «cle­ri­co­fa­sci­ste» della nuova Ita­lia) e che qui vediamo impe­gnato in discus­sioni su Pie­tro Gian­none e sulla civiltà giu­ri­dica dell’illuminismo ita­liano.
Ma a dif­fe­renza che nella cul­tura azio­ni­sta, l’unica che in que­gli anni risco­pre in Ita­lia l’illuminismo, que­sta acqui­si­zione non si tra­duce in una ripresa del vec­chio anti­cle­ri­ca­li­smo, ma anzi in una atten­zione più assi­dua al dia­logo con le istanze pro­fonde della sen­si­bi­lità reli­giosa. In forma dif­fe­ren­ziata: sprez­zante nei con­fronti di De Gasperi, affet­tuoso nei con­fronti di Don Giu­seppe De Luca («lei è per me tra i pochi che, vivendo, della mia vita stati un po’ la com­pa­gnia e un po’ la fie­rezza» gli scrive il prete lucano in punto di morte, nel gen­naio 1962). E in una let­tera alla sorella di De Luca, a un anno dalla scom­parsa, nel feb­braio 1963, Togliatti chia­riva i ter­mini di que­sto rap­porto: «La sua mente e la sua ricerca mi pare fos­sero volte, nel con­tatto con me, a sco­prire qual­cosa che fosse più pro­fondo delle ideo­lo­gie, più valido dei sistemi di dot­trina, in cui potes­simo essere, anzi, già fos­simo uniti. Cer­cava e met­teva in luce la sostanza della nostra comune umanità».

Il rigore parlamentare

L’ampiezza degli inte­ressi cul­tu­rali (unita a gusti in verità retro­gradi tanto in let­te­ra­tura quanto in pit­tura e musica) non lo spinge a dive­nire quello che oggi si defi­ni­rebbe un «tut­to­logo», e que­sta con­sa­pe­vo­lezza del limite si riflette anche nel suo stile di dire­zione: «Voi mi con­si­de­rate come que­gli appa­rec­chi auto­ma­tici che ti ser­vono a tua scelta, solo che toc­chi un bot­tone, un pollo arro­sto, o un bic­chiere di birra o una cara­mella al miele» pro­te­sta scri­vendo alla Fede­ra­zione di Bolo­gna nel marzo 1961. Stile che emerge anche nel rifiuto degli usi «sovie­tici» che i diri­genti del par­tito vor­reb­bero impor­gli per cele­brare la sua per­so­na­lità, chie­den­do­gli di posare per un busto: «Que­sto si fa, da noi, ai morti ed è una cosa ridi­cola. Il mio busto, per ora, sono io. Non andrò quindi dalla Mafai a posare e se ci vado, (vado) con un bastone per distrug­gere il già fatto». E non sapremo mai, in verità, fino a che punto cre­desse alle difese argo­men­tate dell’esperienza sovie­tica in cui si pro­du­ceva, avendo però fin dal ritorno in Ita­lia chia­rito che quel modello non era impor­ta­bile né da imi­tare in forma inge­nua e ripe­ti­tiva.

Molto signi­fi­ca­tivo è anche quel che emerge sulla con­ce­zione della demo­cra­zia par­la­men­tare, che fu uno dei car­dini su cui il Pci di Togliatti venne costruito. In un momento in cui i lea­ders poli­tici si espri­mono in par­la­mento come se si tro­vas­sero alla Sagra della Fet­tunta di Rignano, è istrut­tivo lo scam­bio di let­tere del mag­gio 1964 con Pie­tro Nenni a pro­po­sito della deca­denza della prassi par­la­men­tare. Lo sca­di­mento dello stile di lavoro dei par­la­men­tari si regi­stra nella «deca­denza del dibat­tito e quindi anche dell’istituto par­la­men­tare. Que­sti discorsi ad aula vuota, nell’assenza totale o quasi dei par­titi gover­na­tivi e dei diri­genti del governo, e i voti che inter­ven­gono poi, a cor­ri­doi affol­lati, su posi­zioni ela­bo­rate in altra sede, sono un fatto assai grave». Già in una let­tera a Gio­vanni Leone (pre­si­dente della Camera) del 23 luglio 1958 aveva con­di­viso il per­so­nale rifiuto, a norma di rego­la­mento, dei testi «scritti» in pre­ce­denza e non svi­lup­pati al cospetto dei depu­tati, avver­tendo però che rispetto all’antica tra­di­zione par­la­men­tare il discorso poli­tico, nell’epoca dei grandi par­titi popo­lari, non poteva che assu­mere ormai «aspetti ben diversi dalla sem­plice dotta con­ver­sa­zione», soprat­tutto per chi rap­pre­sen­tava classi popo­lari e non pro­ve­niva dalle «classi colte, avvo­cati, docenti uni­ver­si­tari, ecc.» e che per­tanto nella ste­sura scritta tro­vava «asso­luta neces­sità». Tempi molto lon­tani da noi, come si vede.
E lo si com­prende ancor meglio dalla chiusa della let­tera, con il rin­gra­zia­mento a Leone per l’aiuto finan­zia­rio a lui con­cesso dalla Camera per motivi di salute: «pur­troppo si riscon­tra con troppa evi­denza, in caso di infer­mità, quanto grande sia il diva­rio tra la retri­bu­zione che giu­sta­mente richiede un libero pro­fes­sio­ni­sta, anche mode­sto, e quella cui dà diritto l’attività par­la­men­tare». Non c’era una «casta», anche se l’antiparlamentarismo non man­cava di certo negli umori ata­vici dell’ideologia ita­liana.

Il cin­quan­te­simo anni­ver­sa­rio della scom­parsa di Togliatti e il tren­te­simo di Ber­lin­guer si sono intrec­ciati. Sono figure che non vanno con­trap­po­ste, e Ber­lin­guer fino alla fine degli anni Set­tanta si mosse in una linea di evi­dente con­ti­nuità con alcuni capi­saldi dell’ispirazione togliat­tiana, per poi intra­pren­dere nell’ultima e breve fase della sua vita una ricerca bru­sca­mente inter­rotta di cui nes­suno può ipo­tiz­zare com­piu­ta­mente gli esiti pos­si­bili. Sono stati anni­ver­sari che hanno evi­den­ziato il sedi­men­tarsi di «for­tune» molto diverse, e quasi di mito­lo­gie dif­fe­ren­ziate, sostan­ziate spesso di empa­tia con­fusa in un caso, di fredda dif­fi­denza (se non dam­na­tio memo­riae) nell’altro.

La «questione nazionale»


Pro­ba­bil­mente nes­sun can­tante dichia­rerà mai che votava comu­ni­sta per­ché Togliatti «era una brava per­sona». Fu in effetti per­so­nag­gio assai più rispet­tato e sti­mato che «amato» (se pure dopo l’attentato del luglio 1948 e nei fune­rali dell’agosto 1964 era emerso un pro­fondo legame popo­lare nutrito anche di affetto). E cer­ta­mente il mondo di Togliatti dopo mezzo secolo non esi­ste più, si è com­ple­ta­mente dis­solto in tutti i suoi pre­sup­po­sti, negli sce­nari nazio­nali e ancor più inter­na­zio­nali. Eppure mi sen­ti­rei di affer­mare che ci sono ele­menti di attua­lità mag­giore nel lascito di Togliatti che in quello di Ber­lin­guer (almeno così come viene vis­suto e inter­pre­tato).
Se la «que­stione morale» di Ber­lin­guer è ormai con­cetto lar­ga­mente inser­vi­bile, espo­sto a tutti i mora­li­smi e giu­sti­zia­li­smi delle piazze, è soprat­tutto la «que­stione poli­tica» che Togliatti ha lasciato in ere­dità ad assu­mere la dimen­sione di un enorme nodo irri­solto. Un grande par­tito di massa che rap­pre­senti il mondo del lavoro, auto­nomo da poteri forti, gruppi di pres­sione e mosche coc­chiere, inca­na­lato in una demo­cra­zia par­la­men­tare non ever­siva dell’esistente e mediata da una Costi­tu­zione pro­gram­ma­tica, un par­tito in grado di costruire con tena­cia rap­porti di forza più favo­re­voli ai lavo­ra­tori, e che si fondi su una auten­tica par­te­ci­pa­zione popo­lare e non su ristrette éli­tes di intel­let­tuali o pic­cole sette depo­si­ta­rie di dot­trine immu­ta­bili.
Que­sto è man­cato dram­ma­ti­ca­mente nel quarto di secolo che ci separa dall’eutanasia della crea­tura poli­tica ideata da Togliatti, e attorno a que­sta assenza si con­suma il vuoto, muto nella sostanza, chias­soso nelle forme, della poli­tica italiana.

«Banalizzare la sua figura è la peggior sorte che gli si possa riservare. Berlinguer non cercava il consenso facile né era privo di spigoli. Le sue scelte furono molto contrastate, dentro e fuori il partito. Se ne esalta la memoria per rivendicare una continuità che non c’è».

Il manifesto, 11 giugno 2014Nei giorni scorsi ho scritto anche io sul sup­ple­mento che l’Unità ha dedi­cato a Enrico Ber­lin­guer nel tren­ten­nale della morte. Do atto al quo­ti­diano un tempo “comu­ni­sta” di aver ope­rato un’apertura con­si­de­re­vole per­ché, come è ovvio, era impli­cito che avrei par­lato anche dello scon­tro che, come gruppo de il mani­fe­sto, avemmo con l’allora segre­ta­rio del Pci quando fu decre­tata la nostra radia­zione dal par­tito. Tempi oggi cam­biati rispetto a quelli in cui lo stesso gior­nale era arri­vato a pub­bli­care un arti­colo, a noi rivolto, inti­to­lato «Chi vi paga?», in cui si espri­meva il sospetto che si trat­tasse della Con­fa­gri­col­tori. (Chissà per­ché pro­prio la Confagricoltori).

E tut­ta­via, come mi è capi­tato in que­sti ultimi tempi di ripe­tere, quasi quasi rim­piango quelli pur duris­simi della nostra radia­zione: per­ché lo scon­tro aspris­simo pro­dusse un trauma in tutto il par­tito, se ne discusse a tutti i livelli, si aprì una rifles­sione in tutta l’opinione pub­blica della sinistra.

Oggi si può dire qual­siasi cosa che, vista la povertà del dibat­tito poli­tico, non suscita, non dico pas­sioni, ma nem­meno inte­resse. (Stento a defi­nirla “libertà d’espressione”).

Que­sto sta infatti acca­dendo con l’amplissimo fio­ri­le­gio di pub­bli­ca­zioni dedi­cate alla memo­ria di Enrico Ber­lin­guer: che susci­tano, come è giu­sto e natu­rale, grandi emo­zioni e nostal­gie — soprat­tutto quando si rive­dono le imma­gini strug­genti del dolore pro­fondo e sin­cero di un intero popolo al suo fune­rale — ma non con­tri­bui­scono affatto a chia­rire il pro­filo poli­tico di Ber­lin­guer. Un gio­vane nato negli ultimi decenni potrà desu­merne che si trat­tava solo di un uomo one­sto capace di susci­tare affetto e con­senso. Certo non è poco di que­sti tempi, ma pochis­simo per far capire dav­vero chi era.

Per­ché Ber­lin­guer è stato un diri­gente per nulla privo di spi­goli, che non ha con­cesso nulla alla ricerca di un con­senso faci­lone, non par­liamo delle sue capa­cità comu­ni­ca­tive: era il con­tra­rio dello sho­w­man. E che ha ope­rato scelte spesso con­tra­state e non solo dall’esterno del Pci.

Bana­liz­zarlo è la peg­gior sorte che gli si potesse riser­vare. (Avvenne del resto anche subito dopo la sua morte, con la pub­bli­ca­zione di un numero spe­ciale a lui dedi­cato di “Cri­tica Mar­xi­sta”, dove, se non sba­glio, fu solo Ser­gio Gara­vini a ricor­dare espli­ci­ta­mente que­sti contrasti.)

Non un’operazione inno­cente: serve a far cre­dere che anche quanto si fa oggi sia in defi­ni­tiva in con­ti­nuità con il suo pen­siero. Salvo il fatto che era un po’ troppo bac­chet­tone, un po’ troppo anco­rato al pas­sato, lento nel per­ce­pire quanto aveva invece colto Bet­tino Craxi: che il mondo era cam­biato e per essere con­tem­po­ra­nei biso­gnava spo­sare la moder­nità senza agget­tivi che il sistema proponeva.

(Per­sino il più quo­tato can­di­dato al pre­mio Strega, Fran­ce­sco Pic­colo con il suo “Tutti”, per­corre la stessa strada: ama Ber­lin­guer fino ad iden­ti­fi­carsi con lui, ma lo rende una figura pate­tica, un vec­chio buon nonno).

Luigi Pintor scrisse «E’ morto un buon comunista»

Il nostro giu­di­zio su Ber­lin­guer, per noi che siamo stati radiati, è molto più severo, e insieme molto più posi­tivo. Al momento della radia­zione i punti del con­tra­sto furono impor­tanti. In breve:la sua sor­dità rispetto ai movi­menti emer­genti, peg­gio: il suo sospetto verso il ’68, che privò il Pci della forza che veniva da una nuova gene­ra­zione che aveva cap­tato la valenza delle nuove con­trad­di­zioni del capi­ta­li­smo; l’insufficienza di un sistema tutto fon­dato sulla demo­cra­zia dele­gata e la neces­sità di intrec­ciarla con nuovi orga­ni­smi di rap­pre­sen­tanza diretta; la cri­tica al comu­ni­smo sovie­tico e alla coe­si­stenza fra le due grandi potenze mon­diali intesa come stru­mento dello statu quo.(Fu Luigi Longo, com­pa­gno lar­ga­mente e così ingiu­sta­mente dimen­ti­cato, a capire assai di più, e lo ripetè, ina­scol­tato, fin quando non fu defi­ni­ti­va­mente zit­tito dalla malat­tia. In un arti­colo su “Rina­scita” era per­sino arri­vato ad invo­care mag­giore plu­ra­li­smo, in con­tro­ten­denza con la rigida difesa dell’unanimismo invo­cato in nome di un’unità del par­tito già lar­ga­mente fittizia).

Poi venne il com­pro­messo sto­rico, obiet­tivo di lungo periodo, e il governo di unità nazio­nale come pas­sag­gio verso quella meta. Un’ipotesi che ridu­ceva il ben più com­plesso pro­blema del rap­porto col mondo cat­to­lico a quello con la Demo­cra­zia Cri­stiana. Per Gram­sci si era trat­tato della que­stione con­ta­dina, per Togliatti della que­stione demo­cra­tica per arri­vare più tardi alla com­pren­sione che una reli­gio­sità dav­vero sen­tita poteva con­tri­buire a supe­rare l’identificazione bor­ghese di libertà con indi­vi­dua­li­smo (vedi le tesi del 9° Con­gresso del Pci). Stra­na­mente pro­prio Ber­lin­guer, che cercò più di ogni altro un avvi­ci­na­mento alla Dc, aveva sem­pre mani­fe­stato incom­pren­sione per il ben diverso tra­va­glio di un mondo cat­to­lico che non si iden­ti­fi­cava affatto con il par­tito e che, dopo aver emar­gi­nato Dos­setti, aveva assunto il ruolo di pila­stro del neo­ca­pi­ta­li­smo ita­liano. Fu un rim­pro­vero che avan­zammo già ai tempi della Fgci, quando egli mancò di capire, e a trarne con­se­guenze in ter­mini di ini­zia­tiva poli­tica, la crisi pro­fonda della gio­ventù cat­to­lica per effetto di quella scelta e che portò alle dimis­sioni di ben due pre­si­denti della Giac e molti ade­renti alla Fuci a con­fluire via via nel Pci.

Non sono pochi né di poco conto, dun­que, i dis­sensi che ci hanno oppo­sto. E però c’è poi quanto accadde a par­tire dalla fine dei ’70. Su que­sto non fummo tutti con­cordi e il dibat­tito pro­se­guì a lungo ancora negli anni 2000 sulle colonne de “La Rivi­sta del Mani­fe­sto”, quella che ripren­demmo a pub­bli­care gra­zie all’incontro con gli ex ingra­iani che nel 1969 non ave­vano seguito la nostra scelta e al rein­con­tro fra tutti noi mani­fe­stini, fra cui il rap­porto si era incri­nato nel 1978, col distacco fra il Pdup e la reda­zione del giornale.

Per noi del Pdup si trattò di una vera svolta, la “seconda svolta di Salerno” fu defi­nita, per­ché prese corpo con un discorso di Enrico Ber­lin­guer ad un Comi­tato cen­trale d’emergenza che si tenne in quella città subito dopo il ter­re­moto dell’Irpinia; e dopo che nelle ele­zioni del ’79 il Pci aveva perso il 4% dei voti. In realtà il prezzo pagato alla poli­tica dell’unità nazio­nale era stato ben più pesante di quel pugno di voti: il par­tito stesso ne era uscito fatal­mente dete­rio­rato per effetto della pro­gres­siva iden­ti­fi­ca­zione con il sistema dei poteri locali.

La svolta, di nuovo molto sche­ma­ti­ca­mente, con­si­stette soprattutto:
- nell’abbandono del com­pro­messo sto­rico e nella pro­po­sta di alternativa;
la aperta pole­mica con la linea adot­tata dalla Cgil di Lama (e una buona parte della dire­zione del Pci che l’appoggiava), che lo indusse a recarsi ai can­celli della Fiat a riaf­fer­mare il dovere di rap­pre­sen­tanza della classe ope­raia del Pci, e dun­que la pro­po­sta di refe­ren­dum sulla scala mobile azzop­pata dall’accordo detto di San Valen­tino fra sin­da­cato e governo Craxi;
- la rot­tura con l’Urss brez­ne­viana, certo fatal­mente tar­diva ma che con quella frase «è ces­sata la spinta pro­pul­siva della rivo­lu­zione di otto­bre» voleva dire una cosa suc­ces­si­va­mente negata: che era comun­que bene che quella rivo­lu­zione ci fosse stata, anche se era andata a finire male;
- il suo soste­gno al movi­mento paci­fi­sta, che si accom­pa­gnò al suo discorso sulla pos­si­bi­lità per l’Europa di una terza via, dun­que di un auto­no­mia dai due modelli, così come pur fra molte incer­tezze emer­geva anche nel dibat­tito della sini­stra social­de­mo­cra­tica europea;
- il suo discorso sull’austerità, che non voleva dire mona­cale rinun­cia ai pia­ceri della vita (come fu inter­pre­tata), né cedi­mento alle richie­ste padro­nali di “auste­rity”, ma assun­zione del moder­nis­simo pro­blema di un nuovo modello di sviluppo;
e, infine, l’intervista sulla cor­ru­zione, che fu in realtà la denun­cia di una ormai gra­vis­sima crisi della democrazia.

Molti, anche fra le nostre fila, Ros­sana per esem­pio, di que­sto pas­sag­gio det­tero un giu­di­zio più severo, quelli del Pdup vi fon­da­rono invece il rein­con­tro con Ber­lin­guer, nella fase della più pro­fonda aggres­sione dell’anticomunismo cra­xiano. Fu lui stesso a pro­porci di entrare nel Pci, venendo pochi mesi prima di morire al nostro con­gresso a Milano, forse anche per­ché pur essendo noi un pic­colo par­tito ave­vamo qual­che migliaio di qua­dri capaci che pote­vano aiu­tarlo a rom­pere l’isolamento in cui si era tro­vato nel suo stesso par­tito. Noi accet­tammo: non si tratta di un rien­tro – disse Magri al Con­gresso in cui venne presa la deci­sine — ma un rein­con­tro, una tappa del pro­cesso che ave­vamo ipo­tiz­zato fin dalla nascita de “Il Mani­fe­sto”: aprire una dia­let­tica fra movi­mento ope­raio tra­di­zio­nale e nuovi movimenti.

Credo sia stato giu­sto farlo, anche se la improv­visa scom­parsa del segre­ta­rio del Pci tagliò le ali a quella pro­spet­tiva. Altri com­pa­gni, la mag­gio­ranza della reda­zione del gior­nale, non seguì quella scelta e ebbero ragione sul fatto che il Pci che ritro­vammo non era forse più riformabile.

“E’ morto un buon comu­ni­sta” – inti­tolò il giorno dopo la morte di Ber­lin­guer il mani­fe­sto. E Luigi scrisse, affranto, nel suo edi­to­riale del 12 giu­gno che la sua morte «era una tra­ge­dia poli­tica», per via «dei grandi rischi che la demo­cra­zia ita­liana sta cor­rendo». Il titolo diceva: «Caduto in bat­ta­glia», il rico­no­sci­mento della durezza dello scon­tro in cui in quei suoi ultimi anni di vita era impe­gnato, uno scon­tro in cui, «lui che, per sua natura così pru­dente, ha tro­vato accenti estremi per espri­mere i suoi con­vin­ci­menti e susci­tare ener­gie capaci di rove­sciare l’andamento delle cose». Fino a riven­di­care orgo­glio­sa­mente “la diver­sità” dei comu­ni­sti: non per super­bia o arro­ganza, ma per sot­to­li­neare che quel che li distin­gueva era un di più di impe­gno, di mora­lità, di dispo­si­zione al sacri­fi­cio, in nome della lotta per una società non sem­pli­ce­mente “aggiu­stata”, ma radi­cal­mente diversa.

Delle frasi pro­nun­ciate in que­gli ultimi anni da Enrico vor­rei ricor­darne soprat­tutto una, che oggi mi pare essen­ziale: «Non c’è fan­ta­sia, inven­zione o rin­no­va­mento, se si sman­tella quello che vi è alle spalle».

Per finire, la memo­ria di una bat­tuta di Lucio: «Pen­sate la sfiga dei comu­ni­sti, muo­iono tutti – Gram­sci, Togliatti, Ber­lin­guer, Andro­pov – pro­prio quando diven­tano più intelligenti».

C’è stato un tempo in cui la poli­tica non si faceva nei talk show. I pro­ta­go­ni­sti di quella sta­gione non erano miliar­dari (né si appre­sta­vano a diven­tarlo) che incen­tra­vano la pro­pria azione sul cari­sma per­so­nale e su misu­ra­zioni del con­senso che ricor­dano i mec­ca­ni­smi dell’audience mediatico. Di que­sta epoca che si sta­glia alle nostre spalle, pro­ta­go­ni­sta indi­scusso è stato Enrico Ber­lin­guer, per quasi quin­dici anni lea­der indi­scusso del par­tito comu­ni­sta ita­liano, di cui il pros­simo sette giu­gno si cele­bra il tren­ten­nale della morte, avve­nuta a Padova durante un comi­zio in vista delle immi­nenti ele­zioni europee.

Fra i molti libri che le più pre­sti­giose case edi­trici ita­liane si appre­stano a stam­pare, emerge con un valore tutto pro­prio il lavoro ine­dito di Guido Liguori, stu­dioso del pen­siero poli­tico e di Gram­sci, di cui esce in que­sti giorni per Carocci il suo Ber­lin­guer rivo­lu­zio­na­rio. Il pen­siero poli­tico di un comu­ni­sta demo­cra­tico (pp. 180, euro 13; è anche co-curatore, insieme a Paolo Ciofi, di Enrico Ber­lin­guer. Un’altra idea del mondo. Anto­lo­gia 1969-1984, Edi­tori Riu­niti Uni­ver­sity Press).

Il rischio del volume è di idea­liz­zare quell’epoca e, con essa, Enrico Ber­lin­guer che ne è stato un pro­ta­go­ni­sta indi­scusso. Un rischio che si pre­senta con tutta evi­denza quando Liguori ce lo descrive come il diri­gente per il quale la poli­tica è «pas­sione e dovere», un modello di uomo poli­tico impen­sa­bile ai giorni nostri, che «sem­pre immerso nei libri e nei gior­nali, pas­sava le not­tate a leg­gere, a pre­pa­rarsi». Un rischio desti­nato a essere supe­rato gra­zie al rigore ana­li­tico dell’autore e all’esplicitazione , ma anche non appena si chia­ri­sce del con­te­sto in cui Ber­lin­guer si tro­vava ad operare.

La fine di un'epoca

In que­sto senso è cen­trale un epi­so­dio ripor­tato nel volume: il 27 giu­gno del 1976, al sum­mit di Puerto Rico dei paesi più indu­stria­liz­zati, i pre­si­denti di Stati Uniti e Fran­cia, con­giun­ta­mente ai primi mini­stri di Regno Unito e Ger­ma­nia Ovest, si riu­ni­rono in tutta segre­tezza e all’insaputa di Aldo Moro (allora capo del Governo ita­liano e anche lui pre­sente al sum­mit in rap­pre­sen­tanza del pro­prio paese), per con­ve­nire sulle misure puni­tive che sareb­bero state prese nei con­fronti dell’Italia se il Pci fosse andato al governo. A nulla erano ser­vite le dichia­ra­zioni con­ci­lianti di Ber­lin­guer sulla Nato: il par­tito comu­ni­sta ita­liano, il più grande e forte dei paesi occi­den­tali, con­ser­vava il ruolo di nemico da com­bat­tere, Un epi­so­dio elo­quente sve­lato al pub­blico dal lea­der social­de­mo­cra­tico tede­sco Hel­mut Sch­midt, il quale parlò di un vero e pro­prio «avver­ti­mento», vei­colo di un «ter­ro­ri­smo economico».

L’apertura di Ber­lin­guer verso il blocco gover­nato dagli Stati Uniti è nota, con tanto di dichia­ra­zione della «nostra appar­te­nenza» ai paesi Nato (la cosid­detta «via ita­liana al socia­li­smo» non pre­ve­deva osta­coli o con­di­zio­na­menti da parte dell’Urss, secondo le parole del segre­ta­rio), ma evi­den­te­mente que­sto non era stato suf­fi­ciente a tran­quil­liz­zare i pro­fes­sio­ni­sti dell’anticomunismo, memori di un capo del par­tito comu­ni­sta ita­liano che, sem­pre in que­gli anni, si lasciava andare a una dichia­ra­zione tanto forte quanto discu­ti­bile: «È un fatto: nel mondo capi­ta­li­stico c’è la crisi, nel mondo socia­li­sta no».

Liguori è oppor­tuno ed effi­cace nel richia­mare un dato cen­trale: quella, a cavallo fra gli anni Set­tanta e Ottanta del secolo scorso, era anche l’epoca di un mondo che stava comun­que cam­biando. È in quella fase che ha ini­zio il feno­meno poli­tico sociale che oggi­giorno si è affer­mato con forza sovrana, e che insieme all’episodio di Puerto Rico costi­tui­sce un ele­mento nodale di com­pren­sione di quel tempo: la fine del modello key­ne­siano, carat­te­riz­zato da una felice com­mi­stione di libero mer­cato e inter­vento gover­na­tivo (wel­fare state) e il ritorno pre­po­tente dell’ideologia e della poli­tica libe­ri­sta, basata sull’esaltazione della ricerca del pro­fitto indi­vi­duale e sulla mor­ti­fi­ca­zione di ogni inter­vento sta­tale che fosse volto alla tutela della giu­sti­zia sociale.

Il peccato originale

Con­tro que­sto pre­pon­de­rante ritorno di un’economia a cui veniva affi­dato il governo incon­tra­stato sulla poli­tica e sulle fac­cende umane, nell’ambito del mondo che si stava glo­ba­liz­zando, Enrico Ber­lin­guer oppo­neva una solu­zione che ha forti eco con quella por­tata avanti da Joseph Sti­glitz (pre­mio Nobel per l’economia in virtù di idee diverse da quelle dei libe­ri­sti): un «governo mon­diale» che, sulle basi poli­ti­che della cen­tra­lità dell’uomo e dei suoi biso­gni, fosse in grado di porre un freno alle spinte mer­ca­ti­ste di un capi­ta­li­smo che «aveva gene­rato la deca­denza della vita eco­no­mica e della vita sociale, da cui nasce­vano non solo cre­scenti disagi mate­riali per le grandi masse della popo­la­zione lavo­ra­trice, ma anche il males­sere, le ansie, le ango­sce, le fru­stra­zioni, le spinte alla dispe­ra­zione, le chiu­sure indi­vi­dua­li­sti­che, le illu­so­rie evasioni».

In tale con­te­sto quella di Ber­lin­guer è anche la sto­ria di una grande scon­fitta, e que­sto emerge in maniera timida dalle con­si­de­ra­zioni di Liguori. Il suo essere stato anzi­tutto un uomo dell’apparato, la sua mio­pia ideo­lo­gica e poli­tica rispetto alle spinte pro­ve­nienti dai movi­menti meno proni all’ortodossia marxista-leninista, il con­ser­va­to­ri­smo ideo­lo­gico misto al defi­cit di lai­cità (pec­cato ori­gi­nale del comu­ni­smo ita­liano) che lo situa­rono su posi­zioni scet­ti­che riguardo agli impor­tanti refe­ren­dum indetti dai radi­cali negli anni Set­tanta, rap­pre­sen­tano alcuni degli ele­menti alla base della scon­fitta di Ber­lin­guer (e del Pci), soprat­tutto di fronte alle spinte post­mo­der­ni­ste pro­ve­nienti dal Psi del ram­pante Craxi.

Inopportune mitologie

Allora come oggi, pro­ba­bil­mente, in cui l’apparato più orto­dosso del Pd (pro­ve­niente dall’ex Pci), col pro­prio immo­bi­li­smo ha lasciato campo libero all’emersione esplo­siva di figure spre­giu­di­cate e senza un fon­da­mento teo­rico e pro­gram­ma­tico di fondo, ci si è tro­vati a pagare un prezzo sala­tis­simo e dram­ma­tico, pro­prio nel momento in cui mag­gior­mente sarebbe stato neces­sa­rio avere un forte con­tral­tare alle spinte nuo­va­mente disu­ma­niz­zanti e tota­li­ta­rie del neo-liberismo.

Certo, la denun­cia ber­lin­gue­riana della «que­stione morale» fu quanto mai pro­fe­tica, come quel suo monito affin­ché i «par­titi ces­sino di occu­pare lo Stato», ma è indub­bio che troppi ritardi all’interno del Pci con­tri­bui­rono in maniera sostan­ziale a che l’ideologia libe­ri­sta riu­scisse nella sua impresa di distrug­gere pro­prio lo Stato, ren­dendo con­se­guen­te­mente obso­leti e depo­ten­ziati que­gli stessi par­titi (e idee) politici.

Ormai è il tempo in cui la poli­tica si fa nei talk show. Una «pic­cola poli­tica» (Gram­sci) a cui Ber­lin­guer ha poco o nulla da dire. Alla «grande poli­tica», ammesso che essa possa final­mente tor­nare, potrebbe invece dire molto. A patto che si sia con­sa­pe­voli anche dei suoi limiti. Tenen­dosi ben lon­tani da inop­por­tune mito­lo­gie. Ben lon­tani, a pen­sarci bene, dalla logica spet­ta­co­lare dei talk show.

A 22 anni Enrico Berlinguer fu ristretto in carcere per 100 giorni, per aver partecipato a una protesta contro il carovita e contro il governo Badoglio (quello che, l'8 settembre 1943, dopo l'armistizio dell'Italia con gli Alleati, aveva proclamato "la guerra continua", a fianco dei nazisti). La Repubblica, 5 maggio 2014

Lettere dal carcere del prigioniero Enrico Berlinguer
di Simonetta Fiori

A VENTIDUE anni Enrico Berlinguer viene arrestato a Sassari per aver partecipato a una protesta contro il carovita e contro Badoglio. È il 17 gennaio del 1944, un inverno di fame nera.
Nell’Italia divisa in due – il centro Nord occupato dai tedeschi e il Mezzogiorno liberato dagli angloamericani – la Sardegna resta come separata, priva di alcun approvvigionamento. A pagarne il prezzo sono le classi più povere, guidate nella sommossa dal segretario della sezione giovanile comunista. Prossimo alla laurea in Legge, Enrico proviene da una famiglia di solida borghesia professionale, con una radice di piccola nobiltà agraria: il padre Mario era stato deputato antifascista nel 1924 e ora è uno dei leader del partito d’azione. Il più moderato genitore non approva la “rivolta del pane”, liquidata come manifestazione di “estremismo infantile”. Ma questo non gli impedisce di stare al fianco di quel suo figlio molto amato, affannandosi perché il caso venga chiuso al più presto.

Enrico trascorrerà nel carcere di San Sebastiano cento giorni, per ciascun giorno un piccolo segno sul muro della cella. Cento giorni di letture intense, documentati da un corpus di 32 lettere che Walter Veltroni ha avuto dalla famiglia e che rende pubbliche per la prima volta nel suo nuovo libro Quando c’era Berlinguer . Le missive, che qui in parte riproduciamo, lumeggiano una formazione intellettuale molto varia – non solo Marx ed Engels ma anche Tocqueville, Croce, Voltaire, Locke, Liszt, Poe tradotto da Baudelaire – e un carattere naturalmente sobrio. «Non mandate troppo da mangiare», «non drammatizzate la mia situazione»: l’intento, con i famigliari, è sempre quello di spegnere ogni enfasi. Se c’è freddo, Enrico non lo sente. Patisce le privazioni ma è «sereno d’animo». Soprattutto vuole ottenere la libertà «senza umiliazioni e conservando la dignità», «né ridicolo né vile» («non voglio farmi passare per vittima»). Su tutte le passioni prevale la vocazione politica, per la quale ricorre alla inusuale formula di “comunista-anarchico”. Nella primavera del 1944, in un modificato clima politico, arriva il proscioglimento in istruttoria per non aver commesso il fatto. Dopo cento giorni, finalmente la libertà. E il definitivo passaggio alla vita adulta.

Stralci dalle lettere dal carcere
di Enrico Berlinguer

CARISSIMI , sto sempre bene. Non drammatizzate la mia situazione e non accoratevi troppo. Si capisce bene che il carcere non è il paradiso, ma io sento di poterlo sopportare e superare con fermezza e serenità di spirito.
La maggior parte delle mie giornate trascorre in letture e soprattutto studio («Capitale», inglese, ecc.); talvolta mi prende un certo desiderio per la libertà, ma si tratta di qualcosa di nostalgico e di pacato che non procura dolore morale alcuno: anzi, talvolta, dopo 2, 3, 4 ore di lettura mi dà come un senso di riposo. Sono sempre quindi bene in salute e tranquillissimo d’animo. Ho letto con piacere notizie e giornali di Bari. Discorreremo dei particolari a voce e speriamo che in quel tempo l’eco del congresso non sia ancora spenta.
Per l’interrogatorio va bene; però, per quanto riguarda le riprovazioni da me rivolte agli accusatori, ho qualche dubbio per il fatto che mancherebbero assolutamente le prove; anzi ti confesso che alcuni non li ricordo neppure di vista o quasi. E ora i «bisogni». I pasti che mi state propalando vanno in genere bene, come quantità e qualità. Mandate però meno vino: ricordatevi che il thermos deve essere pieno, se no il the si raffredda. Biancheria per ora nulla. Libri ne ho e non me ne occorrono altri. Se la prigionia si prolungherà, bisognerà che mi mandiate in seguito i libri di studio per gli esami che vi indicherò. Se possibile (ma non credo) vorrei poter finire il mio lavoro sul comunismo. Ma se non si può, non mandate di nascosto perché mi sarebbe impossibile lavorare in tal modo.
Mandate sempre «L’Isola» (quotidiano di Sassari, ndr), anche arretrata (dal 30/1 compreso) e notizie. Baci.

*** Carissimo, la tua linea di condotta trova la mia pie- na approvazione. Non voglio che la libertà mi sia restituita come elemosina, e dopo un mese di prigionia. Spero che anche i miei compagni siano d’accordo. Ti potevi limitare – come hai fatto – a sollecitare l’istruttoria e chiedere che sia giusta. In fondo, star qui ancora una o due settimane (sebbene io creda si tratti di più) non mi dà per niente il sentimento di essere eroico. Coloro che associano il proprio destino a quello di un partito avanzato devono essere pronti a passare in prigione un certo periodo di tempo. È una cosa normalissima e non voglio che si facciano grandi montature. Sarebbe ridicolo. Mi fa piacere che il Partito italiano d’Azione sia d’accordo con noi. [...] *** Carissimi, oggi (21, trentaseiesimo «jour de la lutte pour ma liberation»), ho finalmen- te ricevuto i libri che mi saranno utilissimi. Non capisco quali difficoltà procedurali ci fossero, questa volta. Nonostante il seccante (intenzionale?) ritardo del giudice, godo sempre di buon umore. In certi momenti, non fissabili cronologicamente, sento naturalmente un vivissimo anelito alla libertà; ma, come vi ho già detto altra volta, si tratta di un sentimento sereno, pacato, consolante. Talvolta poi mi sorprendo a pensare che, considerata sotto «certi» aspetti, in «particolari » circostanze, la vita carceraria ha i suoi vantaggi per me. Ma ho deciso che fra 2 o 3 giorni vi (o mi?) scriverò una lunghissima lettera con riflessioni sulle «Mie prigioni». Ho già in serbo 6 o 7 pensieri profondi, e uno profondissimo (modestia a parte). In questi giorni ho imparato a memoria in inglese il celebre monologo di Amleto, non perché la mia situazione psicologica abbia affinità con quella di Hamlet, ma perché il brano è veramente sublime. In 33 versi sta il dramma – perfettamente definito in sé – di ogni uomo. È eterno.

*** Carissimo papà, ho ricevuto lettere tue, di Pintus (Cesare, dirigente della sezione comunista, ndr) e di Giovanni. […] Giovanni poi mi prospetta un dubbio filosofico, in un modo invero assai strano. Infatti, egli crede che alcune parole ben congegnate possano costruire o demolire delle teorie filosofiche. Ad ogni modo gli risponderò, perché mi dà sempre un certo fastidio vedere dei materialisti (il materialismo è la teoria più ingenua che esista) e perché credo di possedere buoni argomenti. Il positivismo di Sergio poi mi sorprende; ma penso che in terza liceo ero anch’io positivista, ma in fondo penso che di tutte queste cose potremo meglio discutere a voce. Forse le lettere di Giovanni, Sergio e le altre semi-filosofiche di altri parenti non sono che un espediente per costringermi a esaurire in brevi lettere le discussioni e far sì che poi non se ne discuta fuori a voce. Riguardo ai libri (senza entrare in una discussione anche su questo: come vedi, sto evitando un gran numero di discussioni), ho ancora da leggere vari libri «cerebrali». Qui ci danno circa 2 libri alla settimana, ma sono in genere molto stupidi e più pesanti quindi degli intelligenti. I libri «cerebrali » non mi stancano, ma la notte dopo cena preferisco leggere qualcos’altro. Quindi accetto praticamente il tuo consiglio. Scegli tu libri da mandare: li desidererei in francese (per esempio Listz, Danton ecc...) e anche qualche bel romanzo. Inoltre, vedi se potete trovare il piccolo dizionario inglese-italiano (credo che si trovi nell’ultimo scaffale della libreria). Se non trovate il piccolo, «non» mandate il grande, almeno fino a che non avrò il permesso di scrivere gli appunti.
E per oggi (cinquantatreesimo giorno) basta. Sto sempre bene.
Baci. Enrico.

*** Cara zia Carmelia, ti ringrazio delle due cartoline, stranamente prive di consigli di prudenza e di «dicono». Non ti meravigliare se Dio non esaudisce i tuoi voti. In generale, non esaudisce neppure quelli del Papa, che pare sia suo intimo. La Provvidenza persegue le sue vie e i suoi mezzi sono a noi inscrutabili.
«L’unica cosa che noi possiamo sapere – diceva un filosofo, uno di quei veri filosofi che avevano la barba lunga – è che noi non sappiamo nulla. E neanche di questo possiamo essere certi». Come vedi, fare il filosofo giova poco, e conviene meglio darsi all’ippica. Eppure, certe cose le possono sapere soltanto i filosofi.
Saluti e baci. Enrico

dal libro: Walter Veltroni, Quando c’era Berlinguer (Rizzoli)

«Mani pulite occasione persa 
per il Paese non per noi». L’Unità, 31 marzo 2014


«Abbiamo lavoratoinsieme per tanti, tantissimi anni, Gerardo era un bravissimo investigatore hadetto tra l’altro Colombo -. Lavoravamo affinché l’articolo 3, secondo cuitutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, da speranza diventi realtà».

Chi èstato per lei, Gerardo D’Ambrosio?
«Un uomoestremamente sensibile ai diritti delle persone, che faceva il suo lavoro conuna grande attenzione e passione. Per me personalmente è stato anche unmaestro, negli anni 70 quando ero appena entrato in magistratura, arrivato aMilano eravamo nello stesso Ufficio Istruzione e succedeva spesso che la sera,prima di tornare a casa, ci fermassimo a rivivere conlui le indagini che aveva fatto. E a imparare, imparare moltissimo».
Nel 2012 D’Ambrosio in un’intervistaall’Unità a proposito della stagione di Mani Pulite disse «abbiamo perso unagrande occasione , quella di sconfiggere la corruzione».

Lei ha lasciato lamagistratura a 60 anni, dichiarando «ho visto riabilitati molti dei corrottiche ho indagato». Avete condiviso questa delusione?
«A muovermi èstata la convinzione forte, fortissima che non è l’accertamento delleresponsabilità individuali delle singole persone lo strumento con cui si potevamarginalizzare la corruzione, in un paese come l’Italia dove la corruzione eraallora altissima. Credo che anche la scelta di Gerardo poi di fare dell’altro,anche se dopo la pensione, sia stata originata da una convinzione analoga.L’azione penale può servire soltanto quando la devianza è marginale. Ma quandoè normale, come era normale, che i rapporti tra privati e pubblicaamministrazione fossero accompagnati dalla corruzione, allora lo strumentogiudiziario diventava uno strumento inadeguato. Tra l’altro avevo ancheproposto, proprio all’inizio di Mani Pulite a luglio del 1992, avevo buttato lìche chi avesse raccontato come erano andate le cose, restituito e si fosseallontanato per un periodo di una certa consistenza dalla vita politica nonandasse in prigione. Insomma questa scelta di Gerardo di dedicarsi invece cheall’applicazione alla creazione delle leggi in Parlamento credo potesse corrispondereall’idea che la soluzione si trovasse in un altro settore, in un altro campo».

Comegiudicava l’esperienza in Parlamento?

«Lui era sempre un corpo estraneo all’interno dellapolitica. Non mi pare sia stato accolto a braccia aperte a livello elettorale,e credo che la sua voce abbia fatto fatica, ma molta molta fatica a farsisentire. Ci sentivamo tre quattro volte l’anno, succedeva che mi parlasse diuna sua iniziativa parlamentare e magari della delusione che aveva incontratonelle risposte».

Cosarimane allora della stagione di Mani Pulite?
«Parlavamo diGerardo, fermiamoci qui. Voglio solo precisare, a proposito di quello che sidiceva prima: non credo che abbiamo perso una grande occasione noi, comemagistrati, era impossibile arrivare a modificare la situazione di devianzacosì massiva attraverso una indagine penale».

D’Ambrosioha lavorato con passione e poi è passato alla politica. Lei dopo aver lasciatola toga ha cercato di muoversi su un altro fronte, quello dell’educazione allalegalità, nelle scuole e con i libri...
«Non voglioparlare di me. Quanto all’impegno di Gerardo, vorrei precisare perché puòessere travisato questo aspetto della passione civile, potrebbe essere magariinterpretato nel senso che allora uno fa il magistrato tenendo un po’ meno inconto le regole della propria professione: sicuramente per Gerardo non è statocosì. In uno Stato di diritto le regole vanno rispettate e se si pensa che nonsiano coerenti con la Costituzione vanno portate davanti alla CorteCostituzionale. Lui era estremamente corretto anche sotto questo profilo».

Riflessioni su un “docufilm” (“Quando c’era Berlinguer”) che certamente farà sognare, rimpiangere, discutere, e forse anche sperare quanti credono che, se un altro futuro è possibile, le sue radici sono nella nostra storia.

La Repubblica, 19 marzo 2014

Diffidate di questo articolo. Fate la tara a quanto scriverò del film di Walter Veltroni Quando c’era Berlinguer, che uscirà nei cinema il 27 marzo e andrà in onda sulle reti Sky (che ha prodotto il film) a partire da giugno. Il coinvolgimento emotivo è inevitabile; e non facile da maneggiare. La materia del film vale, per quelli come me (qualche milione di italiani, ormai tutti sopra i cinquanta), quanto la Marcia di Radetzky per il soldato Trotta nell’omonimo romanzo, risplendente e malinconico, di Joseph Roth. Il solo nome - Enrico Berlinguer - evoca al tempo stesso un’epoca e la sua fine. Una grande illusione e la sua morte. Un ordine, un’etica e un’estetica che si sfarinano - come tutto - lasciando nell’aria solamente l’eco di una remota potenza e di una fragile memoria.

Il film comincia con una sorta di anteprima insieme spietata e sorridente. Decine di giovani, intervistati su chi fosse Berlinguer, rispondono spaesati e ignari di non averne la più pallida idea. Sono studenti universitari, passanti, italiani comunque nati dopo che il Pci era morto e il suo uomo più simbolico accompagnato alla tomba da un infinito popolo in lacrime. E’ un’ignoranza portata senza arroganza, un’ignoranza gentile, come se a noi ci avessero interrogati, a scuola, su chi era Quintino Sella, e ci fossimo scusati con il professore di averlo saltato, quel capitolo del manuale.

Anche per merito del regista, che nel suo sguardo non ficca mai rimprovero, quell’ignoranza non indigna. Rammarica, ma non indigna. La storia è fatta anche di buchi. Di vuoti e di finali inesorabili. Lo storicismo nel quale generazioni di italiani di sinistra si sono formati pensava a quella trama come a un percorso tormentato, ma senza vere cesure. Un divenire capace di assorbire anche le lacerazioni più cruente. Non è così. Il film è certamente un film “storico”, per il notevole valore documentale (immagini inedite, interviste ai protagonisti) e per lo sguardo prospettico. Ma non è un film “storicista”, perché di questa particolare storia, e della Storia in generale per contagio, il racconto di Veltroni restituisce un’immagine fragile, interrotta, soggetta alle manipolazioni e all’oblio, perfino al caso: quell’attentato subito da Berlinguer in Bulgaria negli anni dello strappo dall’Urss, al quale il segretario del Pci scampò per un soffio. Cosa sarebbe accaduto, nelle sliding doors della storia, se Berlinguer, il padre dell’eurocomunismo, fosse morto per mano dei servizi dell’Est?

Sì, il caso. Anche nell’assortimento - appunto casuale - dei caratteri umani in palcoscenico; ai quali tocca recitare il complicato copione della storia. Difficile dire quanto abbia pesato, nell’inconciliabile dissidio tra Berlinguer e Craxi, il plateale contrasto tra il carattere schivo del primo, il suo tratto signorile (quasi uno snobismo difensivo) e la corpulenta sicurezza del secondo, l’uomo che per primo interpreta e incarna l’esuberanza sociale dei nuovi ceti emergenti, post borghesi e post operai, le loro legittime ambizioni e i loro allarmanti appetiti, e insomma apre la strada, come autorevole starter, agli ultimi trent’anni della nostra storia, quelli di Berlusconi. Sono tra le scene più intense del film - quasi quanto quelle, di altissima forza emotiva, delle ultime ore del segretario - i brevi frammenti che ritraggono i due “nemici” insieme. Brevissime sequenze nelle quali Berlinguer e Craxi sfuggono al rispettivo sguardo, incarnano una frattura che non è solo ideologica: è lo scontro mortale tra un “prima” e un “dopo”, tra due antropologie, tra l’Italia austera dei padri costituenti, dell’antifascismo come atto fondante, e l’Italia nuova che mal sopporta quei vincoli rigidi, quell’etica così condizionante.

Nella lettura della parabola di Berlinguer Veltroni è piuttosto esplicito, e intensamente politico. Anche grazie alle testimonianze raccolte da protagonisti diretti e autorevoli (Napolitano, Gorbaciov, Scalfari, Macaluso, Ingrao, Tortorella, Signorile, Forlani, Segre, monsignor Bettazzi, il brigatista Franceschini, l’ambasciatore americano Gardner, il meraviglioso caposcorta Menichelli, il meraviglioso operaio Finesso, Lorenzo Jovanotti unico giovane, la figlia Bianca unica donna), i dieci anni di Berlinguer, dalla vittoria nel referendum sul divorzio nel ‘74 alla sua morte nel giugno ‘84, vengono raccontati come “l’estate della sinistra italiana”, della massima espansione elettorale del partito comunista, della sua trasformazione più profonda (l’eurocomunismo, lo strappo con Mosca, la scelta della Nato) e al tempo stesso della sua liquidazione.

Sulle ragioni e i torti di questa liquidazione si può discutere all’infinito. Colpisce molto che Veltroni, certo non sospettabile di ortodossia ideologica e anzi spesso accusato di disinvoltura “modernista”, nel suo film dia una lettura profondamente “berlingueriana” di quegli anni. La crescita impressionante del Pci, la sua prossimità al potere per vie elettorali provocarono una reazione durissima e composita, visibile e invisibile, condotta a viso aperto (Craxi, la Dc non morotea, la destra) e a volto coperto (la P2, le Brigate Rosse, i servizi segreti, l’esecuzione di Moro).

La testimonianza di Alberto Franceschini, fondatore delle Br, è una esplicita rivendicazione del rapimento Moro come attacco diretto, e vincente, al “compromesso storico”, cioè al tentativo di Berlinguer di accedere al governo “guardandosi alle spalle”, proteggendo se stesso e la democrazia da un esito cileno. L’idea di un’alleanza strategica con la Dc (e con il Psi, che si chiamò fuori, per voce di Craxi, da subito) attirò sul segretario del Pci le critiche e spesso lo spregio dell’estremismo “rivoluzionario”. Ma con il senno di poi va detto che nessun’altra proposta politica, nel-l’Italia del dopoguerra, riuscì a sparigliare le carte con energia paragonabile; e la reazione - l’assassinio di Moro, la paurosa presenza della P2 in punti nevralgici delle istituzioni e dei Servizi - fu altrettanto intensa, anche se non altrettanto leale.

La cruenza di quegli anni e la successiva, relativa cessazione delle ostilità sul fronte della violenza politica (l’assassinio di strada e di Palazzo furono, nell’Italia tra i Settanta e gli Ottanta, armi ordinarie) lasciano intendere come la fine del Pci, e la riduzione della sinistra a variante non più strutturale della società italiana, rappresentarono anche la fine di una guerra politica a tutto campo, che si concluse con dei vinti (Berlinguer il loro capo) e dei vincitori.

Grande merito del film di Veltroni è resistere alla tentazione di un puro omaggio sentimentale a un leader di straordinario fascino, e a quel popolo straziato che, piangendo il suo capo, piange se stesso e il proprio congedo dalla storia italiana. No, non bastano, a raccontare Berlinguer, le immagini struggenti di piazza San Giovanni prima e dopo, piena di italiani a testa china e poi svuotata di popolo, con le pagine dell’Unità che svolazzano nel nulla. Per raccontare Berlinguer serve la politica, con tutto il suo ingombro. La politica di cui è vissuto e la politica che lo ha ucciso, la politica che muove le passioni, travolge le vite, abbatte i muri, cambia i connotati del mondo.

Più ancora della figura di Enrico Berlinguer è forse questo il vero “vuoto”, il vero lutto che questo film evoca. Come, quando, in quali forme quei ragazzi intervistati potranno mai cogliere la potenza della politica, la sua nobiltà, il suo integro nucleo di speranza, il suo essere motore del mondo, e non zavorra come appare troppo spesso, oggi, a troppi? Vedere le immagini della vita e della morte di quel signore così bello - bello come un attore - e di così elegante timidezza, artefice e insieme preda di un destino travolgente e luttuoso, farà balenare in qualcuno di quei ragazzi il sospetto che la politica possa essere il sale della Terra?

Poche ore dopo avere visto il film mi è arrivata la lettera di Beatrice. A lei, di diritto, il finale. «Sono una figlia venticinquenne di un padre quasi sessantenne, che da oltre trent’anni fa il muratore. Vedo lo sguardo di un uomo profondamente di sinistra, vissuto negli anni in cui Enrico Berlinguer era una speranza e al tempo stesso la materializzazione di un’idea (bella, immensa) che oggi non esiste più. Quello sguardo, che si perde nel vuoto tutte le volte che in tv passano i frammenti del funerale di “Enrico” (rivolto a chissà quali ricordi), si posa inevitabilmente su di me: mi dice, quasi scusandosi, che ormai tutto è finito. Ovviamente lui lo sa già da tempo, ma io no. Io, che mi considero con fermezza e fierezza una persona, una donna di sinistra, non so di che morte morirò ».

Ricordando il passato, e un grande uomo che aveva conosciuto bene, il fondatore di Enrico Scalfari ridiviene leggibile.

La Repubblica, 16 marzo 2014. Riferimenti in calce

Comincio quest’articolo con un paradosso ed è questo: Enrico Berlinguer ha avuto nella politica italiana (e non soltanto) un ruolo in qualche modo simile a quello che sta avendo oggi papa Francesco nella religione cattolica (e non soltanto). Tutti e due hanno seguito un percorso di riformismo talmente radicale da produrre effetti rivoluzionari; tutti e due sono stati amati e rispettati anche dai loro avversari; tutti e due hanno avuto un carisma che coglieva la realtà e alimentava un sogno.

Oggi, anziché commentare i fatti politici della settimana appena terminata, ho deciso di ricordare Berlinguer di cui quest’anno si celebra il trentennale dalla morte e sulla cui figura in questi giorni stanno uscendo libri e documentari che ne ricordano la forza morale, il coraggio politico, gli errori commessi e il profondo rinnovamento della sinistra.

La sua somiglianza al ruolo di papa Francesco — l’ho già detto — è un paradosso, ma come tutti i paradossi contiene aspetti di verità. Se avessero vissuto nella stessa epoca si sarebbero sicuramente rispettati e forse perfino amati.

Per quanto riguarda me, ho conosciuto, rispettato ed anche avuto profonda amicizia personale per Enrico. Lo conobbi per ragioni professionali nel 1972, quando fu eletto segretario del Pci dopo Longo e Togliatti. Fu dunque il terzo segretario di quel partito dalla fine della guerra mondiale.

La prima intervista che gli facemmo sul nostro giornale è del maggio del ’77 cui ne seguirono altre quattro, rispettivamente nel ’78, nell’80, nell’81, nell’83. Morì nel giugno dell’84 e ancora ricordo che mentre era già in agonia andai a porgere le mie condoglianze a Botteghe Oscure dove erano ancora riuniti i pochi dirigenti rimasti a Roma che partirono quella sera stessa per Verona per vegliarne la morte.

Ricordo quella mia brevissima visita perché, dopo aver detto brevi parole di condoglianze conclusi dichiarando che la sua scomparsa era una grave perdita per il suo partito ma soprattutto per la democrazia italiana. Lo dissi perché lo pensavo e lo penso ancora. La visita era conclusa, salutai i presenti e Pietro Ingrao mi accompagnò all’uscita da quella sala. Ci stringemmo la mano ma io ero molto commosso, lo abbracciai piangendo e anche lui pianse consolandomi. M’è rimasto in mente perché non era mai accaduto qualcosa di simile: d’essere consolato nella sede del Pci per la morte del capo d’un partito al quale non sono mai stato iscritto né di cui ho mai condiviso l’ideologia politica. (Nelle interviste ci siamo sempre dati del lei come lo stile giornalistico prevede, ma quando ci incontravamo privatamente passammo presto al tu. Alcune volte cenammo insieme a casa di Tonino Tatò che era il suo segretario e che conoscevo da molti anni; un paio di volte venne lui a casa mia.Oltre alle interviste su Repubblicaaccettò anche un dibattito televisivo con Ciriaco De Mita, allora segretario della Dc. Che sosteneva da tempo nel suo partito l’idea dell’“arco costituzionale” dalla Democrazia cristiana fino al Pci che non poteva dunque essere escluso dal governo senza che la democrazia fosse zoppa. Queste cose De Mita le diceva in tempi di guerra fredda in nome della sinistra democristiana e in polemica con il resto del suo partito.

In quel dibattito, trasmesso su Rete4 che allora era di proprietà della famiglia Mondadori e della quale noi del gruppo Espresso avevamo una quota di minoranza, i due interlocutori parlarono come possibili alleati per modernizzare lo Stato e risolvere i problemi sociali del paese e lo storico dualismo tra il Nord e il Sud. Il dibattito si concluse con una stretta delle nostre tre mani, una sull’altra, e così fummo fotografati. Ho attaccato quella foto in casa mia e ogni tanto, quando la guardo, mi viene da pensare che quelli d’allora erano altri tempi e altre persone.

Nel corso degli anni, dal 1977 all’84, le domande più importanti che gli feci e le risposte che ne ottenni furono sette: la natura del Partito comunista italiano rispetto agli altri e in particolare a quelli che operavano in paesi occidentali; il suo rapporto con l’Urss e col Partito comunista sovietico; il suo rapporto con il leninismo; la concezione che aveva della futura Europa; la dialettica in atto con i socialisti e con la Dc; la natura del centralismo democratico e il ruolo che il Pci doveva avere con l’Italia; il problema da lui sollevato della questione morale.

Queste domande gliele feci molte volte e le risposte non furono sempre le stesse, alcune cambiarono col passare del tempo ma l’evoluzione fu comunque coerente.

Ricordo ancora una telefonata che ebbi da Ugo La Malfa il giorno in cui Enrico ruppe decisamente con Mosca rivendicando la sua autonomia rispetto all’Urss, al Pcus e al Cominform. «Quello che aspettavamo da tanto tempo è finalmente accaduto ieri. Adesso quel miserabile cercherà di non farlo uscire dal ghetto in cui per tanti anni il Pci è stato. Spetta a noi aiutarlo affinché la nostra democrazia sia finalmente compiuta».

Gli risposi che aveva ragione ma che l’uscita dal ghetto non sarebbe stata facile, una parte del Pci era ancora sedotta dall’ideologia leninistastalinista. Noi avremmo certamente aiutato Berlinguer ma le difficoltà erano numerose, in parte esterne al Pci e in parte nel suo stesso interno. «Hai ragione — rispose Ugo — ma noi abbiamo una grande funzione da svolgere e per quanto mi riguarda mi impegnerò fino in fondo». Gli chiesi chi fosse il “miserabile” che avrebbe cercato di bloccare l’evoluzione democratica del Pci. «Lo sai benissimo chi è, infatti lo attacchi tutti i giorni». Era Craxi, di cui non voleva pronunciare neanche il nome.

Purtroppo La Malfa morì pochi mesi dopo e solo dopo morto gli italiani scoprirono che era stato uno dei padri della Patria, così come scoprì la grandezza politica e morale di Berlinguer al suo funerale. Il nostro è un popolo abbastanza strano: s’innamora più spesso dei clown che dei politici impegnati a mettere il bene comune al di sopra di ogni interesse personale e di partito. Abbiamo tanti pregi, ma questo è un difetto capitale che spiega la fragilità della nostra democrazia e dello Stato che dovrebbe esserne il titolare e il contenitore.

***

Sullo stalinismo Berlinguer fu sempre contrario e del resto la sua ascesa alla segreteria del partito era avvenuta molti anni dopo la morte di Stalin e il rapporto di Kruscev aveva già fatto chiarezza sulla natura criminologica di quella tirannide. Diverso invece era il suo rapporto con il leninismo, ma quella fu una posizione che col passare degli anni cambiò segnando l’evoluzione del Pci verso la democrazia compiuta. Ne cito il passo più significativo tratto dall’intervista del settembre 1980, quando la Polonia si era ribellata al giogo di Mosca. Fu anche in quell’occasione (l’avevo già fatto altre volte) che gli chiesi qual era la parte del pensiero leninista che rifiutava e quella invece che continuava ad accettare. Rispose così: «Lenin ha identificato il partito con lo Stato; noi rifiutiamo totalmente questa tesi. Lenin ha sempre sostenuto che la dittatura del proletariato è una fase necessaria del percorso rivoluzionario; noi respingiamo questa tesi che da lungo tempo non è la nostra. Lenin ha sostenuto che la rivoluzione ha due fasi nettamente separate: una fase democratico- borghese e successivamente una fase socialista. Per noi invece la democrazia è una fase di conquiste che la classe operaia difende ed estende, quindi un valore irreversibile e universale che va garantito nel costruire una società socialista». Mi pare - dissi io in quel punto - che voi rifiutate tutto di Lenin. «No. Lenin scoprì la necessità delle alleanze della classe operaia e noi siamo pienamente d’accordo su questo punto. Infine Lenin non si è affidato ad una naturale evoluzione riformista ed anche su questo noi siamo d’accordo».

Questo, gli dissi io, l’ha sostenuto anche Machiavelli molto prima di Lenin. «Anche noi comunisti abbiamo letto Machiavelli che fu un grande rivoluzionario del suo tempo il quale però si riferiva “alla virtù individuale di un Principe” mentre noi ci riferiamo ad una formazione politica che organizzi le masse per trasformare la società».

Un altro tema fu quello della questione morale, affrontato da lui nell’intervista del 1981 ma poi ripreso molte volte. La questione morale per lui non erano le ruberie perpetrate da uomini politici; quelli erano reati da denunciare alla magistratura. La

questione morale era invece l’occupazione delle istituzioni da parte dei partiti. Questo, secondo lui, era necessario fare e la leva avrebbe dovuto essere il rispetto letterale della Costituzione come avevano più volte auspicato Bruno Visentini e il nostro giornale che l’aveva sostenuto. Anche Berlinguer lo sostenne fin dall’81 ma ci ritornò con la massima chiarezza sul nostro giornale nel maggio dell’83. «Noi vogliamo un governo diverso, un governo-istituzione, formato sulla base dell’articolo 92 della Costituzione, cioè che nasce su scelta del presidente del Consiglio incaricato dal capo dello Stato senza patteggiamenti con le segreterie dei partiti. Chiediamo cioè il rispetto puro e semplice della Costituzione e siamo certi che se si cominciasse a far così l’esempio si trasmetterebbe alle istituzioni minori, enti, banche, unità sanitarie, televisione e tutta l’infinita serie del sottogoverno. Questo è per noi il governo diverso. Per noi qualunque governo dev’essere costituito così indipendentemente dal colore della maggioranza che lo sorregge».

Infine le domande sulla politica economica e la risposta chiarissima (1983). «Non si può giocare a poker puntando sui bluff. Bisogna essere ben determinati ma prudenti. Non penso certo che un governo di sinistra possa fare finanza allegra. Perciò diciamo che tutte le spese correnti debbono esser coperte da entrate fiscali mentre l’indebitamento serve solo a finanziare gli investimenti. Poi bisogna rivedere la leggi sulla sanità e sulla previdenza affinché, al di sopra d’una certa fascia di redditi inferiori, i cittadini contribuiscano al finanziamento di tasca propria. Un buon governo non si può regolare che in questo modo».

Ve l’aspettavate, cari lettori, che Berlinguer trent’anni fa, parlando d’un governo di sinistra del quale il Pci sarebbe stato uno degli assi portanti, auspicasse una sanità che i redditi medioalti finanziassero di tasca propria? Attenzione a chi parla dell’attuale tentativo del nuovo presidente del Consiglio di vagare in cerca di coperture per un governo più a sinistra degli ultimi trent’anni. Berlinguer, proprio trent’anni fa, le coperture le trovava sgravando i lavoratori a spese dei redditi medio-alti. Ma oggi una proposta del genere sarebbe tacciata di comunismo inaccettabile e infatti non viene neppure ritenuta possibile e già un aumento della tassazione sulle rendite (quali?) è ritenuto “sovversivo”.

Ho cercato di ricordare il Berlinguer che ho conosciuto. Aveva un grande carisma ma era timido, era riservato, era prudente, era moralmente intransigente. Voleva, insieme a Lama e ad Amendola, l’austerità, perfino sui salari operai, ma voleva anche che i valori della classe operaia coincidessero con l’interesse nazionale, come sempre deve avvenire quando un ceto sociale ha la responsabilità di sintonizzarsi con tutto il paese.

Sandro Pertini piangeva quando il feretro con le sue spoglie che era andato a prendere a Verona sbarcò all’aeroporto di Ciampino. Ero andato lì per incontrarlo e ricordo quel che mi disse: «Se n’è andato l’ultimo grande della sinistra italiana. Senza di lui questo paese riscoprirà i suoi vizi e le sue debolezze e non sarà certo la sinistra a fare da argine al fiume limaccioso che esonderà».

Vedeva giusto purtroppo il vecchio Pertini che aveva passato tanti anni della sua vita in galera, al confino o nelle brigate Matteotti della guerra partigiana.

C’era più gente a quel funerale di quanta ce ne fosse a quello di Togliatti che pure aveva mobilitato milioni di persone. Quella fu l’ultima fiammata, il ploro di tutta la nazione. Adesso siamo scivolati piuttosto in basso; si ride, si motteggia o s’impreca e si pugnala alla schiena. E vi assicuro che per un vecchio testimone del tempo non è affatto un bel vedere.

Riferimenti

Numerosi scritti di Berlinguer e su Berlinguer sono inqueste cartelle del vecchio archivio di eddyburg
Ricordando Antonio Cederna, a 17 anni dalla scomparsa. «I temi che portò all’attenzione dell’opinione pubblica sono ancora lì: Parco dell’Appia, Fori, centri storici, difesa delle coste, piani per le città.

La Stampa, 27 agosto 2013

Sono trascorsi 17 anni da quando, il 27 agosto del 1996, scomparve un pilastro della cultura ambientalista italiana. Il senso di vuoto che affiora ripensando alla passione di Cederna è amplificato da questo periodo, critico e incerto, con l’Italia appesa in uno scenario che non lascia intravedere vie d’uscita dal declino dell’idea stessa di comunità

L’estate permette, con i suoi tempi dilatati, di far correre la mente, ricordando e riflettendo sul passato. Un esercizio della memoria e della volontà per trarre insegnamento dalla storia, comprendendo il senso delle cose e dando il giusto valore a ciò che conta veramente. Sono trascorsi 17 anni da quando, il 27 agosto del 1996, è scomparso Antonio Cederna. Il senso di vuoto che affiora ripensando alla passione di Cederna è amplificato da questo periodo, critico e incerto, con l’Italia appesa in uno scenario che non lascia intravedere vie d’uscita ma, piuttosto, un deterioramento dei valori e il declino dell’idea stessa di comunità.

I valori sono stati il centro della vita di Antonio Cederna: etica, responsabilità, competenza, impegno civile, di volta in volta rivolti alla professione di giornalista, al ruolo di militante ambientalista, all’azione dell’uomo politico, all’essere un esponente del mondo della cultura. Con rigore ha saputo dire cose scomode, non accettando di tacere di fronte ai disastri, alle manomissioni del territorio e del patrimonio culturale del nostro paese.

Argomenti scomodi, un fastidio per la politica diventata strumento di gestione del consenso e oggetto di scambio clientelare: una scomodità che costò a Cederna l’essere posto nell’alveo degli intellettuali, un po’ eccentrici, ma non adatti a governare. Troppo spesso liquidato con l’appellativo di Cassandra, con la superficialità di chi non vuole capire e affrontare realmente i problemi, preferendo l’improvvisazione di soluzioni poco efficaci e di scarso rilievo.

Serve ancora oggi, nell’Italia del 2013, ricordare chi scrisse libri che in realtà erano denunce e testimonianze, come I vandali in casa, La distruzione della natura in Italia, Memorabilia Urbis, … . Serve e sarebbe utile ripercorrere e studiare il suo archivio, vedere le interviste, ascoltare la descrizione di come si costruivano periferie brutte e invivibili: tutto il materiale, raccolto in decenni di attività, è oggi disponibile, grazie alla sua famiglia che lo ha donato, affinché diventasse un patrimonio di conoscenza collettivo. Una scuola dell’esperienza e del metodo di lavoro che mise in cima alle priorità la comprensione dei problemi, studiando le soluzioni e proponendo un modo diverso di affrontare le criticità, guardando all’Europa, restituendo un valore al bene comune e affermando un ruolo ineludibile del decisore pubblico. (www.archiviocederna.it)

L’attualità dei suoi scritti è ancora qui, sotto i nostri occhi: l’incapacità di governare il territorio, di guidare lo sviluppo, attraverso scelte di buon governo, fatti che possono risultare ovvii ma che, ancora oggi, caratterizzano l’assenza di una politica che capace di fare della sostenibilità la base per il futuro dell’Italia. Un’attualità resa ancor più dirompente perché, già negli anni ’60, indicava nell’Europa il modello da imitare, seguendo l’evoluzione dell’urbanistica e delle politiche di gestione del territorio.

I dati relativi al consumo di territorio, alla perdita di biodiversità, all’inquinamento nelle aree urbane, alle emergenze “permanenti” come quelle dei rifiuti, del dissesto idro-geologico sono inquietanti: l’Italia registra un ritardo e un arretramento rispetto agli altri paesi europei, accumulando inefficienze e inadempienze. Non si tratta di una posizione puramente estetica, da “anime belle” come l’avrebbe definita Cederna: è un problema ben più complesso, fondato sul rapporto tra scarsità e disponibilità di risorse. Si tratta, in realtà, di una questione civile e culturale che può fare la distinzione tra una nazione e un’altra per il livello di progresso raggiunto, per il rispetto della legalità e delle opportunità di sviluppo alle quali accedono i cittadini. L’Italia oggi detiene il primato in Europa per le procedure di infrazione alle norme comunitarie in materia ambientale e in molte regioni il circuito economico legato alla criminalità coincide, non casualmente, con un alto tasso di reati ambientali, favorendo un florido settore che abbiamo imparato a chiamare “ecomafie” fatto di traffici illeciti, corruzione e inquinamento.

Si continua a credere che sia sufficiente scrivere le leggi, senza preoccuparsi di come farle rispettare, facendo crescere il capitale sociale e la coscienza di una cittadinanza attiva. Siamo tuttora bloccati a un modello dell’economia slegata dai processi ecologici e dall’impatto delle attività dell’uomo sull’ecosistema dove l’energia diventa un’emergenza se il petrolio raggiunge il prezzo di 100 dollari al barile ma non ci poniamo il dubbio di comprendere quali costi collettivi, legati ai cambiamenti climatici, non sono compresi in quel prezzo, ma pesano come un macigno in termini di ritardo nell’adottare altri modelli fondati sull’innovazione.

Nel frattempo un altro anno è trascorso così, con boschi bruciati, discariche stracolme di rifiuti, città ammorbate dal PM10 e dal monossido, spiagge con divieti di balneazione, alluvioni e frane, …, . Si dirà che tutto questo è inevitabile, che non si può limitare il mercato: eppure gli allarmi si fanno sempre più ricorrenti, il clima si sta modificando e le soluzioni non possono essere sempre improntate all’emergenza, a provvedimenti estemporanei.

Biodiversità, clima, trasporti, energia, acqua, territorio, rifiuti, tutte tematiche che quotidianamente entrano con forza sulle pagine dei giornali e nelle nostre vite ma che, con grande difficoltà, si trasformano in politiche strutturali restando, spesso, inutili grida d’allarme, titoli di giornale che durano pochi giorni, facendoci restare nel rischio dell’emergenza e della catastrofe imminente. Le stesse emergenze di cui scriveva Cederna, avvolte, oggi come allora, nella disattenzione. La disattenzione che potrà essere più o meno colpevole ma sempre ancorata alla convinzione che l’ambiente sia un serbatoio da consumare senza mai porsi il dubbio circa la riproducibilità delle risorse e la responsabilità verso le generazioni future.

Degli incendi estivi, diceva Cederna, bisognerebbe parlarne durante l’inverno, quando è necessario programmare gli interventi, predisporre i provvedimenti, rendere efficienti gli strumenti di tutela e di prevenzione: un’idea alquanto bizzarra in un paese abituato all’emergenza e all’ineluttabilità delle cose che accadono perché il destino è cinico e baro. Un paese dove la regola non è la pianificazione bensì la deroga e il ripetersi di condoni e prescrizioni, frutto di una corruzione diffusa e dell’irresponsabilità di chi dovrebbe controllare. Eccoci quindi fermi nel ritenere che l’ambiente sia un limite, un intralcio per il progresso, un vincolo per la crescita economica misurata dal PIL: i boschi in fiamme, i fiumi inquinati o il traffico congestionato nelle aree urbane sono ancora considerati il costo da pagare per accedere a un maggiore benessere. Il PIL dimostra la sua inadeguatezza nel misurare lo sviluppo di un’economia che non può basarsi soltanto sulla quantità di beni e servizi ma dovrebbe registrare anche il livello di qualità dello sviluppo, creando condizioni di maggior competitività basate su scelte strutturali.

Antonio Cederna queste cose le vide e le denunciò, con forza e fermezza, insistendo affinché l’opinione pubblica prendesse coscienza e rinnegasse uno stato di cose come questo: alcune battaglie di Cederna sono arrivate tal quali fino ai nostri giorni e, tuttora, sembra impossibile ripristinare la normalità. Battaglie che, riascoltando gli accorati interventi di Cederna, sembrerebbe ovvio che lo Stato facesse proprie, oggi più che mai, riaffermando i principi di legalità e di buona gestione, definendo obiettivi e programmi, affidando compiti e responsabilità in modo chiaro.

Eppure non è così: si continua a discutere dello sviluppo delle città e delle condizioni di vivibilità delle periferie; si insiste a mettere in dubbio l’utilità di parchi e riserve naturali; si minano le condizioni minime per tutelare e proteggere il patrimonio storico, artistico e archeologico; si considera il paesaggio come un intralcio per la crescita economica; si resta immersi nella pigrizia e nell’assenza di visione, una poltiglia che avvolge tutto e rende inestricabili i nodi.

Quelli che furono, cinquanta anni fa, i temi che Cederna portò all’attenzione dell’opinione pubblica sono ancora lì, afflitti dal disinteresse e dall’ignavia: il Parco regionale l’Appia Antica, i Fori, la tutela dei centri storici, la difesa delle coste, la pianificazione delle città. Di volta in volta si annunciano programmi straordinari e soluzioni innovative ma, alla fine, restano solo l’abbandono e la precarietà, nell’assenza pressoché totale di una visione di lungo periodo. Anche per Antonio Cederna ha funzionato la regola che vuole che si dia maggior risalto e valore alle idee di coloro che non ci sono più, spesso per un vezzo elitario, per dare solo maggior dignità alle proposte, destinate a restare ipotesi o dichiarazioni di principio. Toccò anche a lui la sorte di restare nella solitudine di chi vuole anteporre l’interesse collettivo al profitto personale, la solitudine di chi scrive e vorrebbe vedere le cose cambiare.

Sono trascorsi diciassette anni dalla sua scomparsa: se Cederna fosse qui continuerebbe a essere una voce pungente e brillante denunciando disastri annunciati e disattenzioni. Ben poco si è saputo apprendere dalla sua intelligenza e dal suo impegno civile: i calendari continuano a essere punteggiati con le date delle alluvioni, degli incendi, delle frane, delle discariche stracolme, del caos sulle strade, delle città invivibili. Continuiamo a ricordare i luoghi con le conseguenze delle nostre disattenzioni, senza intravedere un’alternativa. Restano soltanto gli sprechi irrisolti, i tagli irragionevoli e l’abbandono cronico.

La grande bellezza la vediamo solo nei film, ma, una volta tornati nella realtà, siamo ancora lì, tra l’abbandono e la desolazione, con la rassegnazione che possa cambiare ben poco. Antonio Cederna resta un monito, utile se un giorno si decidesse di cambiare marcia, per davvero.

Dalla «Escuela de Verano» parte l'idea di una rivista internazionale di studi «gramsciana». Mentre nelle università italiane si ritiene «superato», il resto del mondo lo riscopre per interpretare l'attualità. Il manifesto, 30 luglio 2013

La città natale di Pablo Ruiz Picasso, oggetto negli ultimi decenni di una devastazione ambientale che certo poco sarebbe piaciuta all'autore delle Demoiselles d'Avignon, con costruzione di giganteschi alberghi (che i giornali locali vantano come primato nazionale), non è solo luogo di vacanza, anche se, malgrado la crisi economica, qui si percepisca ancora la dolcezza del vivere. Malaga ha una università di medie dimensioni, nata quarant'anni fa, molto vivace, e una cattedra Unesco, che organizza da sei anni dei corsi estivi, su varie tematiche, in diverse discipline, sempre con finalità fortemente connotate sul piano civile e indirettamente politico. Si crede, qui, insomma, in una cultura che abbia come meta ultima non il mero accrescimento di conoscenze, e men che meno l'acquisizione di competenze tecniche, bensì la formazione della cittadinanza.

Quest'anno la "Escola de Verano" comprendeva dodici corsi, che coprivano discipline come il Diritto pubblico, la Comunicazione, la Pedagogia, la Biologia, il Diritto penale, la Scienza politica. E per la prima volta anche i fumetti, nella loro dimensione politica. Alcuni docenti che collaborano alla Cattedra Unesco, in memoria di Francisco Fernandez Buey, uno studioso morto prematuramente meno di un anno fa, proposero al direttore della cattedra, Bernardo Diaz Nosty, un corso su Antonio Gramsci. Qualcuno espresse perplessità giudicando il corso troppo specialistico, ma alla fine la proposta passò. Risultato: il corso su Gramsci ha avuto di gran lunga il maggior numero di iscritti, e addirittura il maggior numero di partecipanti di tutta la storia della Scuola estiva. Una sorpresa un po' per tutti, anche perché il titolo del corso, "La vigencia del pensamento de Antonio Gramsci", era molto "tagliato", e dava quasi un messaggio politico, al punto che qualche studioso italiano contattato per svolgere il ruolo di docente ha rifiutato. E ha fatto male. Perché il corso, diretto da Ana Jorge Alonso, ha rappresentato una esperienza entusiasmante. Innanzi tutto per il pubblico frequentante: persone di ogni età e professione, dagli studenti ai professori delle Superiori, dai docenti universitari (inimmaginabile da noi che dei docenti vadano a frequentare, come iscritti paganti, una Summer School della loro università) ai sindacalisti, dai militanti di sinistra a semplici appassionati. Ogni lezione era seguita da un dibattito intensissimo, pieno di curiosità, dove non si facevano comizi, ma si ponevano domande intelligenti, che traducevano un'autentica volontà di sapere. E molti cominciavano i loro interventi nella discussione spiegando il loro Gramsci: ossia come l'avevano conosciuto e che cosa sapevano di lui. Un insegnante di scuola media ha detto che di Gramsci sapeva a mala pena il nome, e quando ha visto qualche mese fa il programma del corso, è andato a cercare informazioni su Wikipedia e altri siti, ed è rimasto «impressionato» da ciò che ha trovato e letto (così ha detto). Ha deciso di iscriversi: ha seguito l'intera settimana, occupando sempre lo stesso posto - stessa fila, stesso banco - prendendo appunti, facendo domande, diligente e attivo, testimoniando, giorno dopo giorno, il proprio crescente entusiasmo. Notevole la presenza di laureandi, dottorandi, docenti di discipline che si potrebbero immaginare (sbagliando) estranee all'universo gramsciano, come il Diritto, la Linguistica, la Traduzione, la Psicologia.

In tutti i partecipanti (oltre 40, alcuni provenienti dal circondario, qualcuno addirittura da città distanti fino a un centinaio di chilometri), è visibilmente andato crescendo l'interesse per la vita, il pensiero e la fisionomia politica di questo rivoluzionario pensoso, di questo marxista critico, di questo comunista umanistico, la cui fortuna attuale scaturisce precisamente dalla differenza tra la sua posizione e il suo pensiero rispetto alla dogmatica marxista e il socialismo reale, la sua distanza da ciò che chiamiamo, semplificando, stalinismo. Si è insistito, da vari punti di vista, precisamente sulla «diversità» di Gramsci, e ci si è interrogati sulla sua «attualità», anche se la risposta che personalmente darei è di assoluta inattualità ma nel contempo di drammatica necessità. Difficile immaginare oggi, tanto a livello nazionale, quanto sovranazionale, una estraneità così assoluta: il rigore etico, l'onestà intellettuale, la coerenza politica, la stessa ricchezza umana, di cui la vita, l'azione e il pensiero di Antonio Gramsci sono prova provata, duramente provata, appaiono distanti anni luce dalle regole e dalle prassi del tempo presente. Eppure quanto bisogno vi sarebbe precisamente di questi tratti, per fare cultura, una cultura disinteressata, ossia non finalizzata a una carriera accademica o al mercato, ma nel contempo una cultura che miri a comprendere, come scriveva il giovane studente dell'università di Torino nel 1916, il nostro posto nel mondo, i nostri diritti e i nostri doveri, per acquisire consapevolezza, apprendere il principio di responsabilità. Tutti passi fondamentali per l'azione politica. Gramsci sarebbe utile, e direi necessario anche per tentare di fare una politica che ricuperi la propria nobiltà, che associ una concezione realistica dei rapporti di forza, con la spinta dell'utopia trasformatrice. Curiosamente, proprio in Italia questa "vigencia" di Gramsci sembra ignorata: una giovane ricercatrice che collabora alla Cattedra Unesco, ma ha rapporti con l'Università di Torino, mi racconta che, venuta appunto sotto la Mole, avendo annunciato il corso su Gramsci al gruppo di docenti e ricercatori torinesi, ha ricevuto un gelido commento: «Da noi Gramsci è superato». E costoro sono scienziati della politica...

A dispetto del giudizio di costoro, il corso malagueño ha confermato di vedere nell'elaborazione di Gramsci, una eccezionale ricchezza multiversa e un'assoluta originalità: del giornalista rivoluzionario, poi del dirigente politico, infine, nel prigioniero del fascismo che riflette sulla sconfitta del movimento operaio. Per Gramsci il marxismo costituisce una fonte essenziale, ma non è la sola; e il comunismo la prospettiva, ma con caratteri suoi propri: si tratta di due etichette insufficienti, in definitiva, anche se entrambe corrette. Con Gramsci ha inizio un'era nuova nella storia del pensiero occidentale: tale il messaggio che Malaga lancia oggi. Per diffonderlo, alla conclusione del corso, si è deciso, unanimemente, di radunare la comunità gramsciana nel luogo ideale in cui gli intellettuali sempre si incontrano e lanciano le loro idee: non un nuovo centro studi (ne esistono), non una cattedra (ce ne sono, specie in America Latina), non un'associazione (la International Gramsci Society nacque negli Usa nel 1989, grazie a Joseph Buttgieg, e ha una vivace Sezione italiana, presieduta fino alla morte dal compianto Giorgio Baratta, ora da Guido Liguori); nulla di tutto questo. Ma, semplicemente, una rivista, che si chiamerà classicamente Gramsciana, ospiterà contributi in diverse lingue, avrà un Consiglio di direzione e un Comitato scientifico internazionali. Alla rivista Malaga affida il compito di riprendere il discorso della "Escola de Verano" 2013.

Un ricordo del “prete di marciapiede e, in calce, il suo ultimo articolo sul quotidiano comunista.

Il manifesto, 23 maggio 2013

Don Andrea Gallo, mio fratello, ci ha lasciato. Io che non credo ma che conoscevo la sua forte fibra e resistenza, pure fino all'ultimo ho sperato che il suo sorriso potesse fare il miracolo. Prete da marciapiede come si è sempre definito, è stato uno dei sacerdoti più noti e più amati del nostro sempre più disastrato Paese. Non solo per me, siamo in centinaia di migliaia di persone che da sempre lo abbiamo sentito come un fratello, una guida, un maestro, un compagno.

Ma il «Gallo» è stato prima di tutto e soprattutto un essere umano autentico. Che in yiddish si dice «a mentsch». La nostra nascita nel mondo come donne e uomini, è un evento deciso da altri anche se la costruzione in noi del capolavoro che è un essere umano autentico, dipende in gran parte dalle nostre scelte. Il tratto saliente di questo percorso, è l'apertura all'altro laddove si manifesta nella sua più intima e lancinante verità ovvero nella sua dimensione di ultimo, sia egli l'oppresso, il relitto, il povero, l'emarginato, il disprezzato, l'escluso, il segregato, il diverso.
L'apertura all'altro, sia chiaro, non si manifesta nel melenso atto caritativo che sazia la falsa coscienza e lascia l'ingiustizia integra e perversamente operante, ma si esprime nella lotta contro le ingiustizie, nell'impegno diuturno per la costruzione di una società di uguaglianza, di giustizia sociale in una vibrante interazione di pensiero e prassi con una prospettiva tanto laicamente rivoluzionaria, quanto spiritualmente evangelica. Il «Gallo» è stato radicalmente cristiano, sapendo che il messaggio di Gesù è un messaggio rivoluzionario, radicale e non moderato ed è per questo che l'hanno messo in croce, per la destabilizzante radicalità del cammino che indicava. «Beati gli ultimi perché saranno i primi» non è un invito a bearsi in una permanente condizione di minorità per il compiacimento delle classi dominanti, ma è un'incitazione a mettersi in cammino per liberare l'umanità dalla violenza del potere, per redimerla con l'uguaglianza.
La parola ebraica ashrei, tradotta correntemente con beato, si traduce meno proditoriamente con in marcia come propone il grandissimo traduttore delle scritture André Chouraqui. È questa consapevolezza che ha fatto di don Gallo un profeta e non nell'accezione volgare e stereotipata con cui spesso si vuole sminuire o sbeffeggiare il ruolo di questa figura, ma nel senso più profondo di uomo che ha incarnato la verità dei grandi pensieri ripetutamente e capziosamente pervertiti dai funzionari del potere, siano essi i soloni del regno terreno, siano essi i chierici del cosiddetto regno celeste. Questa è la ragione per la quale il profeta trasmette la parola del divino e il divino del monoteismo ha eletto come suo popolo lo schiavo e lo straniero, l'esule, lo sbandato, il fuoriuscito, il diverso, il meticcio avventizio perché tali erano gli ebrei e non un popolo etnicamente omogeneo come oggi vorrebbe uno sconcio delirio nazionalista.
Nella sua fondamentale opera Se non ora adesso (pubblicata da Chiarelettere) che deve essere letta da chiunque voglia capire le parole illuminate di questo prete da marciapiede, Gallo ci ha ricordato che l'etica è più importante della fede, come il filosofo e grande pensatore dell'ebraismo Emmanuel Lévinas suggerisce nel suo saggio «Amare la Torah più di Dio». Come già il profeta d'Israele Isaia dichiara con parole infiammate, il Santo Benedetto stesso chiede agli uomini di praticare etica e giustizia perché disprezza la fede vuota e ipocrita dei baciapile:
«Che mi importa dei vostri sacrifici senza numero. Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso dei giovenchi. Il sangue di tori, di capri e di agnelli Io non lo gradisco... Smettete di presentare offerte inutili, l'incenso è un abominio, noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso sopportare delitto e solennità. I vostri noviluni e le vostre feste io detesto, sono per me un peso, sono stanco di sopportarli. Quando stendete le mani, Io allontano gli occhi da voi. Anche se moltiplicate le preghiere, Io non ascolto. Le vostre mani grondano sangue. Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l'oppresso, rendete giustizia all'orfano, difendete la causa della vedova». Il profeta autentico non predice il futuro, non è una vox clamans nel deserto, è l'appassionata coscienza critica di una gente, di una comunità, di un'intera società, ed è questa coscienza che si incide nella prole perché le parole diventino fatti, azioni militanti ad ogni livello della relazione interumana e per riconfluire in parole ancora più gravide di quella coscienza trasformatrice.
Questo è a mio parere il senso che don Gallo attribuisce al Primato della Coscienza espresso mirabilmente nel documento conciliare «Nostra Aetate» uscito dal Concilio Vaticano Secondo voluto da Giovanni XXIII, il «papa buono», ma buono perché giusto.Con il poderoso strumento della sua coscienza cristiana, antifascista, critica, militante, laica ed evangelicamente rivoluzionaria, il prete cattolico Gallo, è riuscito a confrontarsi con i temi socialmente più urgenti ed eticamente più scabrosi smascherando i moralismi, le rigidità dottrinarie, le ipocrisie che maldestramente travestono le intolleranze per indicare il cammino forte della fragilità umana come via per la liberazione.
Quest'ultima e intima verità dell'uomo, Andrea Gallo la sapeva, la sentiva e la riconosceva nelle parole più impegnative delle scritture perché istituiscono l'umanesimo monoteista ma anche l'umanesimo tout court nella sua dirompente radicalità: «Ama il prossimo tuo come te stesso, ama lo straniero come te stesso, ciò che fai allo straniero lo fai a Me».La passione per l'uomo, per la vita e per l'accoglienza dell'altro, si sono così coniugate in questo specialissimo uomo di fede con un folgorante humor che dissìpa ogni esemplarità predicatoria per aprire la porta del dialogo fra pari a chiunque voglia entrare, crisitano o mussulmano, ebreo o buddista, credente o ateo.
In don Gallo si è compiuto il miracolo dell'ubiquità: lui è stato radicalmente cristiano e anche irriducibilmente cattolico, ma potrebbe anche essere ricordato come uno tzaddik chassidico, così come è stato un militante antifascista ed un laicissimo libero pensatore. Per me il Gallo resta un fratello, un amico, una guida certa, un imprescindibile e costante riferimento.
Per me personalmente, la speranza tiene fra le labbra un immancabile sigaro e ha il volto scanzonato di questo prete ribelle.

il manifesto, 2 gennaio 2013

La mia lotta, in direzione ostinata e contraria
di don Andrea Gallo

Ho visto gioiosamente nascere la democrazia nel 1945, con la mia Brigata Partigiana, comandata da mio fratello, ex tenente del Genio Pontieri, sopravvissuto alla tragica campagna di Russia, a d

iciassette anni di età. Diventato vecchio - 84 anni e mezzo - devo vederla vergognosamente morire?
Ho riflettuto a lungo sulla crisi economica finanziaria che stiamo attraversando. Non è scandalosa la "teoria" di chi si ostina a vedere nel profitto l'unica molla creativa, innovativa del progresso, quale sia la destinazione degli investimenti? Perché si è permesso la concentrazione del potere economico nelle mani bramose di pochi grandi colossi mondiali? Lasciamo le storielle dei complotti. Semplicemente siamo giunti al momento più vittorioso di un'economia vecchia di ottanta anni. Siamo al passaggio dal capitalismo di un tipo ad un capitalismo d'altro tipo. Altro che parlare di crisi! Abbiamo dimenticato nel '47 Von Hayek, Friedman e la Scuola di Chicago? Dopo la Seconda guerra mondiale si adottò la ricetta keynesiana e il mondo veniva ricostruito.
La crisi attuale è la vittoria degli ultraliberisti con l'assenza di un'alternativa ritenuta valida. La debolezza della politica occidentale e la scomparsa dei valori di civiltà hanno fatto il resto. I ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, disse Paolo VI in un mirabile discorso all'Onu. C'è una evoluzione in atto, non una generica crisi. Irrompe un cambiamento della stessa portata della nascita delle banche nel XVII secolo. Gli economisti e gli statisti attuali ne sono imbevuti e, rivestendo posti di responsabilità, la applicano senza scrupoli. Un mercato, un potere economico. Lo dice Stiglitz, Nobel per l'economia, «il mercato e il potere finanziario creano armi di distruzione di massa». Questa logica liberista è propugnata dalle banche. Tra le più potenti, la Goldman Sachs americana.
Gli economisti italiani (Draghi, Monti e soci) sono composti chierichetti di questo neoliberalismo, in una blindata cattedrale del Dio Denaro. Goldman Sachs è una delle più importanti banche internazionali che agisce sui mercati adottando questa perversa logica capitalista. Non ha un «volto umano».
Una persona onesta non può più accettare un sistema di apartheid mondiale, dove il 20 per cento della popolazione mondiale consuma l'80 per cento delle risorse; e dove si spendono tre milioni di dollari in armamenti, ma in un minuto muoiono di fame dieci bambini.
Si vuole costruire un'alternativa? Sono sempre più numerosi i giovani europei che hanno perso la fiducia nel futuro. Scoraggiati, inattivi. Sia chiaro: è un processo molto impegnativo, lungo e complesso. La colpa di questa colossale truffa delle banche è stata addossata al debito pubblico per imporre austerità e conseguente perdita del patrimonio pubblico.
Il 2 marzo 2012, 25 dei 27 capi di stato della Ue hanno firmato il fiscal compact. Diventano permanenti i piani di austerità, una serie di tagli a stipendi, pensioni, il diritto e la dignità del lavoro e la privatizzazione dei beni comuni. Il potere economico ha imposto Draghi, governatore della Bce, già vicepresidente della Goldman Sachs. E un sorprendente senatore a vita, Monti, capo di un governo"tecnico". Il presidente del consiglio, sostenuto da Pdl, Terzo Polo e Pd, è stato consulente della stessa banca americana e ora consulente anche della Coca Cola e nei cda delle Generali e della Fiat. E i ministri dove sono stati precettati? Passera, Ad di Intesa San Paolo; Fornero: vicepresidente di Intesa San Paolo; Gnudi, amministratore di Unicredit Group; Giarda, vicedirettore della Banca Popolare e amministratore Pirelli. È forse un governo tecnico per il bene dell'Italia o una dittature delle banche, salvate da parecchi miliardi in America e in Europa? In una crisi nata nelle banche e mascherata dal debito pubblico.
In nome della Costituzione, non possiamo accettare la macchina infernale del patto fiscale, né la ratifica di un parlamento servile, né la modifica costituzionale dell'articolo 81, perché a pagare tutte le spese è chiamato solo il mondo del lavoro e le piccole imprese. Constato dolorosamente l'appoggio e l'elogio solenne del Vaticano e della Cei all'Agenda Monti.E allora dico: alziamo la testa. Abbiamo di nuovo l'Uomo della Provvidenza? Il paese a pezzi va alle urne in una confusione generale. L'Agenda Monti è al centro e si è messa al comando delle operazioni col sostegno della Confindustria e del Vaticano e delle forti cancellerie occidentali. Come agiscono le altre forze politiche, l'Agenda Grillo, Ingroia, Berlusconi e Bersani? Chi saprà tracciare piste di riflessione e conseguenti azioni? Il debito pubblico è un dogma? I nostri padri costituenti erano stati capaci di unità delle varie matrici ideali per mettere fine al fascismo ed edificare una Italia democratica.
A mio avviso oggi nessuno ci riesce. È scomparsa la cultura del bene comune come priorità assoluta. Il singolo si agita, si organizza, per diventare "protagonista" e si sforza di condividere un gesto collettivo. «Osare la speranza nella democrazia» era il motto della mia Brigata Partigiana. Non voglio arrendermi. Con la sinistra sociale politica, i sindacati, la Fiom, sono ancora impegnato per traghettare il popolo italiano dalla solidarietà assistenziale ad una solidarietà liberatrice, strutturale, nei diritti di tutti. Continuo a lottare in direzione ostinata e contraria.
Il Pd e Sel, con il grande evento delle primarie, hanno lanciato un segnale positivo: non dettare agende ma dare spazio ai "protagonisti", partendo dal basso e mettendoci in rete a livello italiano ed europeo, per vedere fiorire il nuovo. È indispensabile rischiare. Il programma sia trasparente, anticipatore, progettuale. Solo così potremo ancora una volta, con tanta sofferenza, con i nostri dubbi, tentare di sradicare nelle nuove e nuovissime generazioni, l'assenza di futuro.

La testimonianza «di un tempo e di una vicenda senza capire la quale è difficile comprendere un tratto assai speciale della storia d'Italia; il ricordo di un uomo che aveva una qualità ora rara: l'ostinazione nell'impegno a tener aperta la strada per una società alternativa».

Il manifesto, 17 luglio 2013

Mi dispiace moltissimo non essere presente *a questo ricordo di Luigi soprattutto perché si tiene a Cagliari, la città senza la quale, sebbene non vi abbia abitato a lungo, non saprei nemmeno pensarlo. Lo so da sempre quanto Cagliari sia stata importante, ma da quando ho potuto leggere le lettere della sua mamma, che avevo conosciuto negli anni '50 e '60, già assai anziana - Dede Dore Pintor - recentemente raccolte in un bellissimo volume, ho potuto capirlo anche di più. Perché queste lettere ci fanno penetrare nell'intimità della sua vita, ci restituiscono per intero la figura dei suoi familiari, dei suoi famosi e amati zii, che da sempre, per quanto Luigi li citava, è come se avessimo conosciuto pur non avendoli mai incontrati.

Parlo di questo libro - Da casa Pintor. Un'eccezionale normalità borghese - perché non si tratta solo di un ricordo personale, ma della testimonianza di un tempo e di una vicenda senza capire la quale resta difficile comprendere un tratto assai speciale della storia d'Italia, di cui Luigi, così come suo fratello Giaime ma anche una parte non irrilevante della sua generazione nata in un ambiente simile, è stata protagonista: come poté accadere che nel buio della società fascista degli anni '30 emergessero consapevolezza e il senso del dovere civile, dell'impegno, sottraendo una leva di giovani destinata alle passioni letterarie (o musicali, per Luigi) perché acciuffata dalla storia e scaraventata, prima nella Resistenza, poi nella milizia politica. E - va aggiunto - come fu che, per via del coraggio di Togliatti, essa fu catapultata nei più importanti incarichi del Pci, prendendo il posto di vecchi ed eroici compagni che per via della prolungata assenza dal paese che era stata loro imposta difficilmente avrebbero potuto interpretare gli umori della nuova Italia che si andava costruendo dopo il 1945.

Luigi Pintor è stato, al massimo livello, uno di questi giovani. Per ragioni di età io sono ormai una delle poche persone che possono ricordare quel tempo remoto e le vicende travagliate che l'hanno percorso. Perché già ben prima che il manifesto nascesse, si era avviato un modo nuovo di intendere il comunismo, un tentativo che abbiamo sentito possibile già nel grande corpo appesantito ma ricco del vecchio Pci, che poi, nel '68, abbiamo sperato potesse reinverarsi nel rapporto con nuovi movimenti portatori di una più aggiornata critica anticapitalista.

Ricordo questa nostra ambizione perché non voglio che nel commemorare Luigi passi l'idea, presente in molte pur rispettose e anche affettuose commemorazioni, di un grande giornalista, di un raffinato intellettuale, di un prodigioso polemista e anche testimonianza di un grande impegno politico-morale, e però di un irrealistico e sconfitto profeta. Nella storia de il manifesto - e del Pdup che nella fase iniziale abbiamo assieme costruito e cui Luigi ha dato il contributo che le sue straordinarie qualità gli consentivano - ci sono stati certo errori e soprattutto impazienze. E tuttavia, nonostante tutto quanto è avvenuto in questi ultimi decenni, l'ipotesi cui Luigi ha fornito il suo impegno quotidiano risulta ancora fondata. Vorrei tornare a citare l'editoriale che Luigi scrisse il 28 aprile 1971 sul primo numero del giornale. «La situazione - scriveva Luigi - esige molto di più di un rifiuto. Siamo convinti che c'è bisogno ed urgenza di una forza rivoluzionaria rinnovata, di un nuovo schieramento, di una nuova unità della sinistra, di un nuovo orientamento strategico complessivo. Pensiamo che solo per questa via sarà possibile mettere a frutto il patrimonio che le esperienze del passato e del presente hanno accumulato».

Questo suo editoriale potremmo ripubblicarlo oggi tale e quale (se si eccettua qualche espressione datata). Non solo perché in una situazione così gravemente deteriorata come la nostra restano ancora aperti gli stessi problemi, di come interpretare gli umori smarriti dei nuovi soggetti e di come coniugarli con quanto di meglio l'esperienza ha accumulato, ma perché vi traspare una qualità che oggi sembra diventata rara e che nel pur tanto scettico e autoironico Luigi Pintor era fortissima: l'ostinazione nell'impegno a tener aperta la strada per arrivare a una società che somigliasse a quello che noi intendiamo per comunismo. Un comunismo, Luigi non ha cessato di ammonirci, fatto anche di musica e di poesia. Perché mai, del resto, avrebbe continuato ad andare per 33 anni a Via Tomacelli 146, proprio lui cui piaceva così tanto suonare il piano, andare al cinema, leggere romanzi, passeggiare con Isabella e scrivere ma non sempre e necessariamente di Berlusconi? Non lo avrebbe fatto se non ci fosse stata questa ostinazione. I comunisti sono anche questo: ostinati. Il che non vuol dire non essere attraversati dai dubbi necessari e dalla difficoltà di vivere, per Luigi più grave che per altri, non solo perché la vita gli aveva imposto dolori eccezionali, ma per via della sua estrema ipersensibilità, della sua speciale ironia che spesso si rovesciava in auto e altrui distruzione. Di tutto questo, del resto, del come ha patito le contraddizioni che in lui stesso faceva nascere l'impegno, ha scritto lui stesso, mirabilmente, in Servabo.

Dieci anni fa , ricordo, poco dopo la morte di Luigi, venni a Cagliari per il primo ricordo in questa città. E mi rammento che sollecitai i compagni a raccogliere la memoria di quel passaggio politico che proprio qui è stato così significativo e corale: dalla sezione Lenin allora guidata da un compagno che abbiamo purtroppo perso presto, Salvatore Chessa, fino al Manifesto. Questo convegno è una prima risposta all'esigenza di ripercorrere quella storia. Una vicenda che vede Luigi protagonista ma che è anche storia collettiva, vostra e poi anche nostra di noi che vivevamo altrove. Come sono tutte le grandi storie appassionate. Per ormai molti decenni, nel bene e nel male, nonostante rotture e reciproci dissensi, le vite di chi ha percorso questo itinerario si sono intrecciate. Siamo tutt'ora, lo registro nel mio tanto girare per l'Italia, un collettivo di cui Luigi finché ha vissuto è stato protagonista. Nonostante fosse schivo e solitario Luigi non era un individualista. I suoi sacrosanti e permanenti dubbi, il suo legittimo scetticismo non l'hanno mai fatto sentire lontano, non hanno mai dato luogo ad abbandoni. Perché, lo ripeto, Luigi era comunista. La parola sembra oggi impronunciabile, ma la scrivo, anche perché Luigi a questa definizione ci teneva.

* Luciana ha inviato questo contributo al quotidiano comunista «il manifesto» e al seminario sul decennale della morte di Luigi Pintor - dove non era presente ed è stato letto - promosso dal Manifesto Sardo a Cagliari giovedì 15 scorso, con la partecipazione tra gli altri di Valentino Parlato, Loris Campetti, Claudio Natoli e Marco Ligas.

Il ricordo di un sindacalista, Nazareno (Neno) Coldagelli, e un racconto di momenti importanti della nostra storia: la lotta alla Marzotto di Vicenza, che aprì il “68” italiano, e quella a Porto Marghera, che fu alla base degli sforzi per il risanamento della città. Soprattutto una testimonianza di ciò che intelligenza critica e dedizione morale possono fare quando incontrano la volontà di riscatto degli sfruttati.

Ho di fronte a me la foto di Neno all’ultima manifestazione nazionale della FIOM a Roma. Gli sono accanto. Intorno a noi tante bandiere rosse. Sono quelle della FIOM di Vicenza. Vicenza, ancora Vicenza, la terra che entrambi abbiamo frequentato, seppur con qualche scansione temporale, nell’«età dell’oro».

NENO A VICENZA.

L’esperienza vicentina, a cavallo tra gli anni sessanta e settanta, fu decisiva nella formazione di quella straordinaria figura di uomo e di dirigente sindacale che è stata Neno Coldagelli. A Vicenza – egli scrive – “diventai sindacalista a tutti gli effetti”. E, aggiunge: “La vicenda della Marzotto è quella che più mi ha segnato”. Più volte abbiamo parlato nel corso degli anni di questo storico, duro scontro di classe, lungamente preparato, evento anticipatore dell’autunno caldo. Tutt’altro che una “Jacquerie” come finalmente riconoscono la maggior parte degli storici. Neno rivendica la “giustezza e la lungimiranza” delle scelte compiute allora e ne attribuisce gran parte del merito al suo amico Ermenegildo Palmieri, che considera “il protagonista assoluto della lotta”. Ho riconosciuto in questo scritto lo stile attraverso cui Neno si relazionava anche con noi, allora giovani dirigenti sindacali promossi a ruoli di grande responsabilità già nei primissimi anni settanta. Era appena stato eletto segretario generale della Camera del Lavoro di Venezia, ma abitava ancora a Vicenza con la famiglia, quando lo conobbi nel gennaio del 1972. Veniva nella piccola sede della Camera del Lavoro in Contrà Corpus Domini, forse per terminare il passaggio di consegne a Gildo.

Anche lui, come me, era venuto da fuori e comprese subito il mio stato d’animo determinato dalla durezza dell’impatto che subivo con una realtà in cui il predominio della DC era così pervasivo della cultura dominante e del sistema di potere. Ciò mi appariva in contraddizione con il “mito”, che per anni avevo coltivato, di quella classe operaia che aveva prodotto “l’avvenimento topico del Sessantotto”. Devo a lui la comprensione dell’assenza di un rapporto diretto tra combattività operaia e coscienza politica. In breve tempo anch’io compresi che a contrastare quell’egemonia “non c’era una pattuglia di disperati e vinti ma una CGIL e un PCI che imponevano uno stile e una capacità di combattimento attiva e intransigente, una martellante presenza sul campo, particolarmente nella fabbrica” che richiedevano una dedizione assoluta e totalizzante alla causa.

L’ambiente nel quale avemmo il privilegio di essere inseriti era un luogo di unificazione generazionale, profondamente plasmato da questi uomini tenaci e combattivi e da un gruppo dirigente solidale e coeso che aveva nel Partito la sponda dell’ingraiano Romano Carotti con il quale Neno “si trova a proprio agio” ma ciò non lo metteva ovviamente al riparo né dagli strali che gli riserva Cossutta né dalle raccomandazioni alla prudenza che ripetutamente venivano da una parte della CGIL Nazionale. Già, perché Neno è figlio della “sinistra sindacale” della quale – scrive Giuseppe Pupillo – “Coldagelli e Palmieri sono stati interpreti intelligenti e dinamici” conferendo alla CGIL Vicentina “una vivacità che difficilmente si ritrova negli anni successivi”.

Sono gli anni del superamento delle Commissioni Interne sostituite dal “Sindacato dei Consigli” e dell’unità sindacale costruita “dal basso”. E’ questa una storia di successi che dimostra che si può essere radicali nell’impostazione, coraggiosamente innovatori nelle scelte politiche, ma non minoritari. Al contrario, Neno e Gildo dimostrano, in quegli anni cruciali, che una CGIL di assoluta minoranza dentro “la sagrestia d’Italia” può diventare - e diventa- egemone nelle scelte delle politiche sindacali e crescere anche dal punto di vista organizzativo.

A questa impostazione culturale Neno rimase profondamente legato per tutta la sua vita. Ne è testimonianza anche la bella lettera che mi ha inviato il 18 settembre del 2008 per commentare con acutezza e molta generosità “La statua nella polvere”, il libro da me curato sulle lotte operaie del sessantotto a Valdagno. Nel suo denso scritto s’interroga sulle ragioni della scomparsa dei Consigli dei Delegati. Non considera esauriente l’analisi contenuta nella lunga citazione di Bruno Trentin che nel ’98 ne attribuisce sostanzialmente le cause alla loro burocratizzazione, per il venir meno del faticoso esercizio della democrazia. “Parole sante” scrive Neno, ma si chiede “è solo questo?” Egli ci propone la seguente riflessione:

“ La forza originaria del Consiglio dei delegati risiedeva certo nella democrazia, ma si nutriva di una politica sindacale di grande spessore che, per dirla in soldoni, aveva al suo centro la contestazione dell’organizzazione capitalistica del lavoro esercitata sul campo dal delegato di gruppo omogeneo, effettivo strumento di democrazia e di rinnovamento del sindacato. La mia convinzione è che la democrazia è stata sovrastata dalla burocrazia quando è venuta a meno quella politica e gli ambiti della contrattazione si sono sempre più risolti in termini quantitativi. Nella crisi dei Consigli ha naturalmente concorso la fine della fase fordista e l’inizio degli effetti della globalizzazione. Dentro questo quadro oggettivo va però anche collocata la responsabilità soggettiva della CGIL, dalla politica dell’EUR agli accordi del ‘92/’93, che hanno definitivamente ossificato il concetto di contrattazione. E qui purtroppo c’entra anche Bruno”.

Dalla sua bella e ricca testimonianza sul quinquennio vicentino emerge la conferma di come sia esistita una relazione dialettica tra le “istanze della base” e l’intelligenza politica dei suoi dirigenti ( che egli con il “suo caratteristico understatement” attribuisce solo agli altri), tra “spontaneità operaia” e comportamenti soggettivi dei quadri dirigenti e la loro totale dedizione alla causa.

E’ senza dubbio vero che in quella fase il mercato del lavoro fa lievitare il potere contrattuale; che l’ideologia del benessere e del miracolo economico contribuiscono a legittimare richieste e aspettative; che il clima politico nel mondo stava mutando. Ma tutto ciò non basta a spiegare la riscossa operaia e un ciclo così prolungato di lotta che non ha paragoni in Europa: il maggio francese durò “l’espace du un matin”. Vi contribuisce il fatto che, come scrive Asor Rosa, “solo in Italia – solo in Italia in tutto il mondo – movimento operaio e movimento studentesco crebbero solidalmente, tendendosi la mano”.

Vi contribuisce fortemente la tenacia del sindacato di classe nel partire dall’interesse concreto senza smarrire la visione politica. Al suo interno vi ha un ruolo decisivo quella “sinistra sindacale” che faceva capo alla “FIOM e a Garavini” a cui Neno s’ispirava e si sentiva di appartenere. “Una minoranza”, egli ci dice “da testimone diretto”, perché “settori importanti” del sindacato assumono “molto burocraticamente” i Consigli dei Delegati anche quando essi “straripano”. Vi contribuisce l’esperienza di lotta dei sopravvissuti nuclei operai rimasti fedeli ai valori anticapitalisti e antifascisti che Neno incontrerà nelle due principali fabbriche metalmeccaniche: la Pellizzari di Arzignano e le Smalterie di Bassano. Vi contribuisce la scelta di puntare su una forma di contrattazione articolata incentrata sulla “contestazione dell’organizzazione capitalistica del lavoro” che si traduceva in “una politica rivendicativa che poneva al centro i problemi degli organici, dei carichi di lavoro, degli orari e dei turni, della difesa della salute, con una presenza martellante di fronte alle fabbriche”.

Questo racconta Neno parlando simpaticamente del “leggendario” suo amico Palmieri che, nelle calure estive “non aveva il tempo di cambiare le gomme da neve” e “soffiando e sbuffando intorno al ciclostile, sfornava migliaia di volantini al giorno che distribuiva la mattina successiva davanti alle fabbriche Marzotto e Lanerossi che da sole allora occupavano ventimila persone.” Volantini che parlavano delle specifiche condizioni di lavoro in quella determinata fabbrica precedentemente scandagliate attraverso il metodo dell’ “inchiesta operaia” creando così coscienza collettiva.Volantini che indicano la strada da seguire nella contrattazione attraverso la conquista del diritto di tutti i lavoratori di “eleggere su scheda bianca i comitati di reparto”. Volantini che in alcune occasioni si trasformano in schede referendum per ottenere un consenso di massa alla proclamazione dello sciopero indetto dalla sola CGIL.

“Questa iniziativa” – racconta Piero Fortunato – “riesce a ribaltare i rapporti di forza con il padrone e gli altri sindacati proprio mantenendo legami con la condizione operaia e promuovendo la partecipazione operaia alle scelte per cambiarla”. Una linea questa – commenterà molti anni dopo Neno - che “non è una banale versione operaista allora in voga in Italia. Centrale non è il salario, ma la conquista di elementi di potere e di democrazia all’interno dei luoghi di lavoro”. Essa richiedeva -aggiungo io- una concezione dell’unità sindacale come conquista dal “basso”, nella lotta, con la partecipazione e il protagonismo di tutti i lavoratori, iscritti e non iscritti. Una concezione processuale dell’unità che non esclude confronti anche aspri, che passa attraverso un travaglio, una capacità di legittimarsi attraverso la verifica del mandato dei lavoratori organizzati e non organizzati, salvaguardando il pluralismo culturale.

NENO A VENEZIA

Quando Neno giunge a Venezia nel dicembre del 1971, trova una situazione di forte tensione sociale e di effervescenza sindacale. I lavoratori della SAVA in lotta contro la chiusura della fabbrica avevano piantato la tenda in piazza Ferretto. A novembre c’era stato lo sciopero generale, il quarto, che aveva riguardato tutta la provincia. Il 2 dicembre una cinquantina di operai della Montedison e dell’impresa Fochi venivano intossicati dal fosgene, il micidiale gas usato nella prima guerra mondiale. Non perde tempo. Si butta nella lotta. Già il 9 gennaio organizza una manifestazione antifascista intorno alla tenda della SAVA alla quale partecipano operai e studenti. Il 24 è insieme agli operai della SAVA che occupano il Municipio di Mestre. Lo stesso giorno viene chiusa un’altra fabbrica, l’Allumina. Immediata è la reazione: il giorno dopo è sciopero generale dell’industria con assemblea generale al capannone del Petrochimico che Neno conclude. Questo ciclo di lotte si compie con l’accordo del 10 febbraio che prevede la garanzia dei livelli di occupazione attraverso l’intervento delle Partecipazioni Statali nelle due fabbriche di alluminio. Nel frattempo si susseguono le fughe di fosgene che intossicano i lavoratori del Petrolchimico e delle imprese d’appalto. Le lotte riescono in modo eccellente ma Neno ne coglie il limite: tra queste e la pratica possibilità di prefigurare un qualche elemento di “diverso sviluppo” la distanza è grande. Quello che manca è un progetto di riordino dei settori industriali, di unificazione delle lotte e degli obiettivi.

Non bastano gli scioperi generali per tenere saldamente insieme l’aristocrazia operaia del Petrolchimico, “i quadristi che controllano cicli complessi”, con la “rude razza pagana” dei meccanici e degli edili, con “i negri di Porto Marghera” delle imprese d’appalto che costruiscono il Petrolchimico2 ed effettuano “ i lavori più pesanti e pericolosi” nella manutenzione degli impianti, esponendosi alle fughe di fosgene. Questi ultimi costituiscono un cospicuo “serbatoio mobile di manodopera” a basso costo e ad altissima flessibilità e precarietà. Al cospetto di una classe operaia differenziata serve una piattaforma unificante. Essa viene costruita in progress. Innanzitutto si punta al reimpiego dei lavoratori delle imprese - licenziati in seguito alla conclusione della costruzione del Petrolchimico 2 - nei lavori di manutenzione e d’investimento tesi a salvaguardare la salute e la sicurezza che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto saldarsi con le lotte per il rinnovo del contratto nazionale dei chimici che prendono avvio con lo sciopero dell’8 giugno e si concludono a ottobre, dopo quasi 100 ore di duri scioperi articolati. L’esito non è però ritenuto soddisfacente dai lavoratori. Infatti, le assemblee della Montefibre e del Petrolchimico respingono l’accordo nazionale. Questo esito rafforza in Neno la convinzione che salute, qualità del lavoro, inquadramenti professionali, orari e occupazione devono saldarsi. Per questo imposta una piattaforma sulla salute che successivamente si tradurrà nel felice slogan “fermata, risanamento, riavvio” degli impianti pericolosi e nocivi.

Una piattaforma salute si rende urgente se si considera che dal dicembre 1971 al novembre 1973 si registra una lunga e tragica sequenza di fughe di gas -“41 casi, con 1000 operai colpiti di cui 133 ricoverati in ospedale”- tanto che nel gennaio del 73 l’ispettorato del lavoro aveva adottato il sorprendente provvedimento secondo cui “tutti i dipendenti delle 205 aziende operanti a Porto Marghera(..) dovranno essere muniti di maschera individuale respiratoria”. Un’assemblea dei delegati, lo stesso giorno, respinge indignata il provvedimento. Il 12 gennaio del 73, gli operai sfilano indossando polemicamente le maschere antigas durante una grande manifestazione a Mestre (e un’altra a Venezia). Neno Coldagelli, durante il comizio conclusivo in Piazza Ferretto rilancerà la battuta subito circolata nelle fabbriche: “È più conveniente per gli industriali mettere le maschere ai lavoratori che alle ciminiere!”

Ma non basta. La classe operaia di Porto Marghera per svolgere un ruolo egemone (in senso gramsciano), per essere “classe dirigente”, deve rappresentare “l’interesse generale”. Ecco allora che si propone di allargare il tema: dalla fabbrica alla società. Senza dimenticare però mai l’insegnamento di Sergio Garavini: mantenere saldamente le radici in fabbrica è essenziale perché “nessuna classe operaia sconfitta in fabbrica potrà mai battersi per le riforme sociali”. Con questa consapevolezza imposta la piattaforma territoriale.

LA LEGGE SPECIALE

Solo nel 1973, sette anni dopo la drammatica alluvione del novembre 1966, fu approvata, dopo una lunghissima e faticosa discussione in parlamento, sulla stampa, nel sindacato, la legge speciale per la “salvaguardia” e la “vitalità socioeconomica” della città e della sua laguna. Schematizzando potremmo dire che le esigenze della tutela prevalevano alla scala nazionale e internazionale mentre la vitalità raccoglieva il consenso di quasi tutte le forze politiche e sindacali veneziane. Tra i temi più discussi all’interno del movimento sindacale vi erano quelli della portualità e della cosiddetta “terza zona industriale”, circa quattromila ettari, nella laguna Sud di Porto Marghera, assurta a simbolo della prospettiva di gigantismo industriale perseguita a Venezia negli anni Sessanta.

Ancora nel dicembre 71, la DC e la giunta comunale neocentrista tentano di sfruttare a proprio favore la chiusura della SAVA per denunciare “le smanie vincolistiche” con la connivenza intenzionale o oggettiva dei “nemici della terza zona”. La DC tenta in tal modo di rompere l’unità sindacale e la rete dei rapporti che si stanno tessendo “a sinistra” con l’obiettivo di unificare in una sola piattaforma le critiche al modello di sviluppo imperniato sull’espansione fisica di Porto Marghera, che muovono a partire dalla contestazione operaia all’organizzazione del lavoro, dei ritmi, della nocività e infine dalle preoccupazioni di tutela degli equilibri idrogeologici, ambientali, di assetto territoriale.

Il tentativo democristiano di riegemonizzare la CISL non passa, grazie anche al ruolo crescente assunto al suo interno dalla FIM CISL di Bruno Geromin. Così la Federazione CGIL,CISL,UIL scende in campo il 14 ottobre del ’72 con un corteo da Mestre a San Marco, contro una pessima legge speciale appena approvata dal Senato “con i voti dei fascisti” e l’opposizione del PSI. Da quel momento è un susseguirsi di scioperi articolati per categoria fino al grande e memorabile evento.

E’ il 21 febbraio del 1973 quando a Venezia è sciopero generale di tutta la provincia contro quella pessima legge speciale e a sostegno della vertenza territoriale. Scrivono le cronache: “Un corteo enorme attraversa per due ore una città paralizzata e raggiunge Piazza San Marco, dove parla Luciano Lama, davanti a 40.000 persone, in una delle più grandi manifestazioni mai effettuate a Venezia”.

Si trattò di un momento decisivo nella storia del movimento sindacale: da un’impostazione fortemente operaista ad una visione che collega “fabbrica e società” fino ad assumere il tema delle alleanze. Non dimentichiamo che a quello sciopero aderì persino la Confesercenti. Se si tiene conto che fino a qualche anno prima “l’acculturata classe operaia del Petrolchimico” era egemonizzata da Potere Operaio si comprende il salto qualitativo. Gli sviluppi politici che seguirono negli anni successivi, la felice scelta di Gianni Pellicani, autorevole vicesindaco di Venezia, di nominare Vezio De Lucia a segretario del comprensorio per il piano urbanistico, portarono alla eliminazione della “terza zona” imponendo di restituire la parte già imbonita “alla libera espansione delle maree”.

Ma questi frutti matureranno solo nel ’75. Tornando a quel cruciale 1973, di grande interesse è la sua relazione al Congresso della Camera del Lavoro, il 24 maggio, al Capannone del Petrolchimico. La novità che egli propone consiste nel tentativo “di uscire dalla dicotomia tra lotte aziendali e grandi manifestazioni per obiettivi generali” come si definiva allora la strategia delle riforme che sarà definitivamente sancita al congresso nazionale di Bari. I tempi sono maturi per “aprire una vertenza sul territorio” partendo dall’ambiente per “risalire a una prospettiva di riassetto del polo, degli insediamenti urbani, dei servizi sociali”. Solo con quest’articolazione – prosegue – sarà possibile far vivere “ la battaglia per le riforme, da quella sanitaria a quella della casa, dei trasporti, dei servizi.” Quello che immagina e propone è un complesso sistema di livelli negoziali coerenti tra di loro che partendo dai luoghi di lavoro risalgono via via su “per li rami” fino agli obiettivi “più generali” che riconducono alla necessità di “dare uno sbocco politico” alle lotte. Ne affida la gestione al “Consiglio intercategoriale di zona”, che nelle intenzioni sarebbe dovuto diventare il secondo livello unitario del sindacato. Di questo si parlava a Bari nelle sei giornate di congresso nazionale della CGIL che anch’io, allora giovane dirigente dei tessili di Vicenza, ho avuto il privilegio di vivere intensamente, con Gildo e Neno, con Sergio Garavini che era il nostro autorevole punto di riferimento. Nel suo intervento Neno invita il congresso ad “approfondire meglio le ragioni della stasi del movimento, delle difficoltà di articolazione del movimento con obiettivi concreti a livello territoriale e settoriale”. Ne individua le cause nella mancata continuità” tra “le piattaforme rivendicative contrattuali e gli obiettivi più generali per l’occupazione, lo sviluppo e il Mezzogiorno”. Suona come critica, fatta come sempre con molto garbo, all’impostazione della relazione di Luciano Lama. Egli infatti avverte “la necessità di non scindere la proposta politica da un grande movimento di massa che ne costituisca il segno politico” che va costruito subito con “l’obiettivo di una risposta immediata e non episodica contro l’attacco al potere d’acquisto dei salari scatenato attraverso la manovra inflazionistica”. Inoltre invita a far marciare la strategia delle riforme rimettendola con i piedi saldamente a terra, perseguendo “obiettivi concreti” individuando priorità nei consumi sociali a partire “dall’esigenza di rilanciare sin da ora l’obiettivo della gratuità dei libri di testo nella scuola dell’obbligo”.

Dieci anni dopo, quando anch’io, appena eletto segretario generale aggiunto della Camera del Lavoro di Venezia, mi proposi l’obiettivo di riportare le manifestazioni nel cuore di Venezia chiesi consigli a Neno. Complice la grande nevicata del 16 dicembre del 1983, non fui altrettanto fortunato. Ma , questa è un’altra storia. Quello che però a distanza di così tanto era ancora vivo era la “vertenza territoriale Venezia” che da quel 1973 diventa un riferimento costante dell’iniziativa del sindacato veneziano, nella quale confluiscono tutte le spinte rivendicative. Il tempo l’aveva certamente logorata, perché ne erano venuti a meno molti dei presupposti su cui era nata, ma non cancellata.

Questo lascito politico fu importante anche per mantenere un filo unitario dopo la drammatica rottura del 14 febbraio 1984. Per continuare nelle lotte di Porto Marghera ma anche sviluppare la nostra iniziativa per la “salvaguardia” di Venezia e della sua laguna. Per tutelare, come dicemmo finalmente qualche anno dopo, “la città più moderna del mondo”.

Era sua «l'affermazione forte che “There Is No Alternative”, che non ci possono essere alternative. In sostanza siamo alla “fine della storia”. Ma è proprio questa visione che storicamente non ha tenuto».

Il manifesto, 9 aprile 2013

«I have given you back the right to manage». Con questa frase la primo ministro Margaret Thatcher esordiva a una cena annuale della Confederation of British Industry assumendosi il merito di aver rilanciato la crescita economica del Regno Unito. Con la vittoria del partito Conservatore nel 1979, il governo Thatcher portò un radicale mutamento nella strategia di politica economica. La svolta assume rilevanza, anche ai fini dell'analisi economica, per la netta contrapposizione con la politica keynesiana del passato. Le sue erano le dottrine economiche monetariste e della nuova macroeconomia classica che, almeno inizialmente, tentò di applicare incondizionatamente alla realtà, conquistando ampi strati di cittadini britannici che non trovavano una risposta nella ricetta laburista contro la crisi.

La fine degli anni Settanta è contrassegnata, anche nel Regno Unito, da profonde tensioni economiche e sociali. Il modello economico che fino ad allora aveva garantito la diffusione del benessere in ampi strati della popolazione, è messo in discussione dal quadro competitivo internazionale che richiede una ristrutturazione industriale costosa sul piano sociale, ma soprattutto dall'incertezza che generano le tensioni inflazionistiche dovute alla crisi petrolifera e a quella del dollaro che si traducono in svalutazioni competitive, deficit pubblici e cadute dei redditi reali. La rivoluzione politica di Margaret Thatcher (e del presidente degli Stati uniti Ronald Reagan) è la risposta del right approach a queste difficoltà. Le strategie di politica economica si modificano profondamente assumendo come propria linea di fondo il «disimpegno», ovvero l'arretramento del governo da aree d'intervento e responsabilità economica che le precedenti amministrazioni avevano occupato. (...) È la politica del lato dell'offerta: rimozione delle restrizioni all'espansione degli affari; controllo delle spese governative per ridurre l'onere sull'economia; struttura fiscale caratterizzata da una più bassa tassazione per favorire le remunerazioni delle imprese e delle capacità professionali; privatizzazione delle industrie nazionalizzate; abolizione delle restrizioni sul sistema bancario, sulla finanza internazionale; e infine liberalizzazione del mercato del lavoro (l'Employment Act del 1980 diretto a ridurre lo spazio dell'attività sindacale è il primo atto dell'amministrazione Thatcher). Gli effetti di questo «disimpegno» si manifestano da subito sulla distribuzione del reddito e sulla disoccupazione giustificata dalla necessità di stimolare l'imprenditorialità per una ristrutturazione dell'apparato produttivo, e delle connesse relazioni sociali, fondato sulla ricerca di una maggiore «efficienza» produttiva, raggiungibile attraverso una «disciplina» interna più severa: la reintegrazione degli incentivi economici è più importante dell'uguaglianza.

L'obiettivo è una società di proprietari - sostenuti da un mercato dei mutui liberalizzato - che non può essere che di supporto alla visione conservatrice della società. L'abbandono della funzione di regolatore diretto ed indiretto dell'economia da parte dello Stato risulta particolarmente incidente, non solo per le liberalizzazioni e deregolamentazioni interne in campo industriale, ma soprattutto per le relazioni finanziarie internazionali. Sono scelte che trasformano la struttura produttiva del paese; alla deindustrializzazione corrisponde una rapida espansione dell'industria dei servizi in particolare delle attività legate alla finanza nazionale ed internazionale: la City è stato il principale beneficiato di questo modello.

Il progetto Thatcher non è solo un nuovo modello di politica economica ma ha rappresentato anche una nuova proposta di aggregazione sociale intorno a un nuovo modo di sviluppo. Ma costruire una società più flessibile significa restringere i costi pubblici a una più ristretta cerchia di popolazione. Ne consegue il lungo processo di riforma dello stato sociale (sanità e istruzione) con l'obiettivo di sostituire la logica sociale con quella di mercato riportando a livello individuale il rapporto tra prestazioni e contributi e per quanto riguarda i sussidi di disoccupazione condizionarli da politiche di welfare to work per evitare nei beneficiari atteggiamenti di scarsa disponibilità nella ricerca di nuovo impiego.

Si afferma una visione di una società fondata sul superamento delle istituzioni del welfare e del potere di contrattazione sindacale e quindi su un sistema di relazioni sociali che trovano nell'interesse del capitale privato la condizione di progresso per tutti. La concezione del ruolo pubblico che orienta Margaret Thatcher è ben riassunta dalla sua affermazione che «There is no such thing as society»: «non esiste una cosa come la società. C'è solo l'individuo e la sua famiglia» nella convinzione che l'unica realtà istituzionale in grado di garantire il progresso sociale sia quella fondata su strutture di mercato.

Essa finirà con il risultare vincente diventando «senso comune» che le forze di mercato sono un elemento «naturale» della vita quotidiana e i suoi esiti non sono quindi suscettibili né di riflessione critica né di considerazioni morali, etiche e politiche. Non vi è pertanto alcuna alternativa possibile a un capitalismo di mercato: l'«economia» viene rimossa dalla sfera della contestazione politico-ideologica. È l'affermazione forte che «There Is No Alternative», che non ci possono essere alternative. In sostanza siamo alla «fine della storia». Ma è proprio questa visione che storicamente non ha tenuto. L'ipertrofia del settore finanziario, la speculazione finanziaria, la crisi produttiva occupazionale che stiamo vivendo segnala che questa visione politica genera instabilità e disuguaglianza.

Nell'ottantesimo anniversario dell'avvio del New deal, cui il dibattito attuale sulla "uscita dalla Grande Crisi" rinvia spesso, il nostro collaboratore ci invia xquesto scritto. Anche se di esso, e sul significato di quella scelta politica, ci piacerebbe che si aprisse un dibattito. Magari come avvio di un dossier da aggiungere alle nostre"pagine di storia"

Un uomo di cinquant'anni, colpito dodici anni prima da un attacco di poliomielite, scende dalla carrozzella e, pallidissimo, percorre faticosamente a piedi, appoggiandosi al braccio del figlio, i trenta metri che lo separano dal podio in cui lo attende il Giudice Supremo degli Stati Uniti per accogliere il suo giuramento di presidente degli Stati Uniti. E' il 4 marzo del 1933, una fredda e piovosa mattinata di Washington, e il nuovo presidente è Franklin Delano Roosevelt. L'America --- che lo ha eletto più per sfiducia nei confronti del suo predecessore, il repubblicano Hoover, che per convinta ammirazione per il democratico Roosevelt --- è un paese senza fiducia.

Rigurgiti di consumismo sfacciato si alternano con la disperazione di milioni di disoccupati pieni di debiti; l'agricoltura è allo sbando, con i silos pieni di cereali e di cotone che nessuno compera e con le famiglie rurali alla fame; il divieto di consumo degli alcolici ha dato vita a bande criminali organizzate di spacciatori, di distillatori clandestini di alcol, di importatori di bevande alcoliche che prosperano con la copertura della diffusa corruzione di funzionari e uomini politici.

L'America lasciata da Hoover non era soltanto quella delle banche e delle borse dissestate, del debito pubblico avanzante, ma si presentava con il suolo impoverito da decenni di sfruttamento, esposto all'erosione dovuta alle piogge e al vento, con le foreste devastate da incendi, con paesi e città senza fogne e senza discariche dei rifiuti, con città violente e inquinate, solcate da lunghe code di disoccupati pieni di debiti. Nell'America ereditata da Roosevelt era crollata la produzione di acciaio, di alimenti, di automobili, di petrolio. I negozi contenevano merci contaminate con residui di pesticidi e con sostanze velenose, al punto che due giornalisti, Kalleth e Schlink, potevano scrivere un libro di successo, intitolato: "Cento milioni di cavie", per denunciare le frodi alimentari.

Roosevelt aveva impostato la sua campagna promettendo un nuovo patto, un "nuovo corso"--- il "New Deal" --- per sconfiggere depressione e sfiducia, e cominciò il suo discorso di investitura con le celebri parole: "L'unica cosa di cui si deve avere paura è la paura stessa". Gli eventi di quel 4 marzo 1933, raccontati da Arthur Schlesinger nei tre volumi del libro: "Il New Deal", pubblicati da Il Mulino nel 1959-65, ritornano alla mente in questi primi turbolenti anni del XXI secolo, perché forse le azioni politiche --- nei settori dell'agricoltura, della produzione industriale, delle merci, dell'ambiente --- dell'amministrazione Roosevelt negli anni trenta del Novecento potrebbero suggerire qualche idea sulle cose da fare per lanciare un vero nuovo corso politico ed economico nel nostro paese.

Roosevelt e le risorse naturali

Il programma "ecologico" di Roosevelt, riletto a settanta anni di distanza, pensando che allora non si parlava di ecologia, di ambientalismo e di verdi, ha molti aspetti sorprendenti. Intanto va ricordato che agli inizi del secolo Teodoro Roosevelt (solo un lontano parente di Franklin Delano), presidente dal 1901 al 1908, nel 1905 aveva già varato un grande programma governativo americano di conservazione della natura.
F.D. Roosevelt capì che la salvezza dell'America dipendeva anche dalla regolazione del corso dei fiumi e dalla lotta all'erosione, dalla ricostruzione della fertilità dei suoli agricoli e dei pascoli e dalla regolamentazione dell'estrazione di minerali, carbone e petrolio, da una nuova politica urbanistica e da un nuovo rapporto città-campagna, da un controllo della produzione delle merci e dalla lotta alle frodi praticate a danno dei consumatori, dalla salvaguardia delle foreste e dall'estensione dei parchi.

Tutte le competenze nel campo delle risorse naturali --- acqua, foreste, difesa del suolo, opere pubbliche, urbanistica, parchi, miniere, rifiuti, eccetera --- furono concentrate in due ministeri, quello dell'agricoltura e quello dell'interno, affidati a due persone, H.A. Wallace e Harold L. Ickes, singolari come competenze e devozione al loro mandato.

E quanto sia opportuna una politica coordinata nel campo delle risorse naturali lo dimostrano la lentezza e l'inefficacia delle azioni dei nostri governi, sparpagliate fra le competenze dei ministeri dell'ambiente, delle infrastrutture, dell'agricoltura, dell’economia, continuamente mutevoli non solo per il succedersi delle persone e dei funzionari e dei nomi, uniti solo nella mancanza di una linea politica, dispersione comoda al fine di moltiplicare uffici e appalti, ma catastrofica per la difesa della natura e dell'ambiente.

Acqua
Gli anni che precedettero la vittoria di Roosevelt erano stati caratterizzati da un seguito di siccità e di degrado del suolo. I lavori intrapresi dalle amministrazioni precedenti per la regolazione del corso dei fiumi andavano a rilento: era stata completata soltanto la grande diga Hoover sul Colorado.
La nuova amministrazione affrontò subito il problema della regolazione del corso dei fiumi. L'aumento e la razionale utilizzazione delle risorse idriche, la lotta alla siccità e all'erosione, potevano essere condotti soltanto per grandi bacini idrografici: poiché questi si stendevano attraverso i confini di vari stati, le relative opere erano di competenza e responsabilità federale.

Uno dei più grandi fiumi e bacini idrografici del Nord America è il Tennessee che scorre dalle montagne innevate ai campi esposti all'erosione, fino a immettersi nell'Ohio poco prima che questo si getti nel Mississippi. Sul Tennessee erano state costruite, durante la prima guerra mondiale, delle dighe per la produzione dell'energia idroelettrica che serviva a produrre acido nitrico sintetico per l'industria degli esplosivi.
Il governo del New Deal decise di affrontare la regolazione delle acque della valle del Tennessee costruendo una serie di dighe e di centrali idroelettriche, realizzando la prima industria elettrica di proprietà del governo federale. Il 18 maggio 1933, due mesi dopo l'insediamento di Roosevelt alla Casa Bianca, fu creata una speciale agenzia, la Tennessee Valley Authority, il più noto esempio di pianificazione territoriale e industriale del New Deal. La costruzione delle dighe attirò nella zona lavoratori disoccupati da tutta l'America; fu rettificato il corso del fiume, furono fatte opere per fermare l'erosione del suolo e per il rimboschimento delle valli.

L'elettricità "governativa" permise di alimentare fabbriche, pure di proprietà del governo federale, per il trattamento dei minerali fosfatici e per la produzione di concimi: concimi di stato da distribuire agli agricoltori a prezzi politici per ridare fertilità alle terre impoverite dall'erosione. Curiosamente il New Deal fece uscire l'America dalla crisi, fra l'altro, con iniziative di "nazionalizzazione" proprio in direzione contraria alla privatizzazione delle industrie statali e delle imprese pubbliche che si pratica oggi in Italia.

Boschi e occupazione
Lo stato di erosione del suolo dell'America richiedeva interventi immediati e le opere di regolazione del corso dei fiumi sarebbero state vanificate se non fossero state accompagnate da una vasta azione di rimboschimento delle valli. Roosevelt aveva sottolineato, fin dalla campagna elettorale, l'importanza delle foreste. Gli alberi --- disse --- trattengono la terra fertile sui declivi e l'umidità del suolo, regolano il fluire delle acque nei ruscelli, moderano i grandi freddi e i grandi caldi: sono i "polmoni" dell'America perché purificano l'aria e danno nuova forza agli Americani.

Il 14 marzo 1933, dieci giorni dopo essersi insediato alla Casa Bianca, Roosevelt predispose un grande progetto per impiegare un esercito di giovani disoccupati al lavoro nelle foreste. Nell'estate del 1933 300.000 americani, celibi, dai 18 ai 25 anni, figli di famiglie assistite, organizzati nei Civilian Conservation Corps, erano nei boschi, impegnati nei lavori di difesa del suolo che da molti anni erano stati trascurati.
Negli anni successivi, in varie campagne, due milioni di giovani lavoratori, complessivamente, piantarono 200 milioni di alberi, ripulirono il greto dei torrenti, prepararono laghetti artificiali per la pesca, costruirono dighe, scavarono canali per l'irrigazione, costruirono ponti e torri antincendio, combatterono le malattie dei pini e degli olmi, ripulirono spiagge e terreni per campeggi.
Nell'aprile 1935 fu creato il Soil Conservation Service col compito di difendere il suolo, anche se era di proprietà privata, per conto della collettività.

Terreni demaniali
All'inizio del New Deal l'America aveva ancora vasti terreni demaniali; nei decenni precedenti il governo non aveva esitato a vendere a prezzi irrisori molti terreni di proprietà federale a chi voleva aprire miniere, installare pozzi petroliferi, utilizzare i pascoli. Nelle terre demaniali residue gli allevatori dell'ovest da sempre avevano portato a pascolare il bestiame senza alcun controllo nè pagamento, con la conseguenza che l'eccessivo pascolo aveva distrutto l'erba e aveva fatto avanzare l'erosione e il deserto.
Nel 1933 il governo decise di far pagare un affitto a coloro che usavano risorse naturali --- pascoli o miniere --- demaniali e di fermare la svendita dei terreni collettivi. Ancora una volta un’azione che va in direzione esattamente contraria a quella, in corso in Italia dalla fine del Novecento, caratterizzata proprio dalla svendita ai privati dei beni collettivi, come sono gli spazi demaniali o le terre soggette a usi civici.

Agricoltura e materie prime
Nell'America della grande crisi c'era sovrabbondanza di raccolti ma prezzi così bassi che gli agricoltori soffrivano la fame. L'erosione del suolo dovuto alle acque e al vento aveva spinto milioni di piccoli proprietari o affittuari ad abbandonare le proprie terre per andare a lavorare come miserabili salariati nelle terre ancora fertili. Le grandi compagnie finanziarie compravano a prezzi stracciati i terreni dei piccoli coltivatori soffocati dai debiti. La drammatica situazione è descritta, fra l'altro, nel libro "Furore" di Steinbeck, del 1939, da cui l'anno dopo fu tratto un celebre film.

Il 12 marzo 1933 il governo Roosevelt propose una serie di incentivi finanziari intesi a trattenere nei campi i piccoli coltivatori e a difendere i prezzi. "Distruggere un raccolto va contro i migliori istinti della natura umana", sosteneva il ministro dell'agricoltura Wallace, e così furono organizzate le distribuzioni, alle classi meno abbienti e povere urbane, di cibo acquistato dal governo e furono incentivati i mezzi per risollevare il mercato.

Fra questi ultimi va ricordato lo sforzo per la utilizzazione industriale dei prodotti e sottoprodotti agricoli. La chimica avrebbe avuto un ruolo fondamentale e William Hale coniò il termine "chemiurgia" per indicare le tecniche capaci di trasformare le materie di origine agricola, zootecnica e forestale in merci: dall'alcol etilico, da usare come carburante e come materia prima per la gomma sintetica, alla cellulosa e alle proteine per ottenere fibre artificiali, dall'amido alle materie plastiche. Le stesse proposte odierne di manufatti di plastica "ecologica", a base di amido, erano già state elaborate negli anni trenta del secolo scorso. Il successo delle merci ottenute dal petrolio ha oscurato un insieme di realizzazioni che ancora oggi potrebbero dare lavoro e reddito all'agricoltura.

Il Dipartimento dell'agricoltura fin dal 1933 creò una rete di stazioni di sperimentazione che furono all'avanguardia nelle tecniche di chemiurgia e incoraggiarono nuove coltivazioni e industrie. Furono studiate nuove materie agro-industriali, che sono state "riscoperte", alla fine del Novecento, alla luce dell'ecologia: dalle cere ricavate dalla jojoba, alla gomma guayule, dalle fibre tessili cellulosiche naturali ottenute da ginestra, canapa, yucca, a nuove materie cellulosiche industriali, eccetera.
In questo periodo venne lanciata la campagna per ridare orgoglio agli agricoltori, ridivenuti consci del ruolo primario del loro lavoro: "I'm proud to be a farmer" (Sono orgoglioso di essere un agricoltore), si leggeva nelle fattorie in quegli anni. Questo orgoglio era indispensabile per coinvolgere gli agricoltori nelle opere di difesa del suolo, di rimboschimento, di innovazione nelle colture.

La lotta alle frodi
Il Dipartimento dell'agricoltura assunse anche un ruolo vigoroso nella lotta contro le frodi. Proprio come nel 1906 il libro: "La giungla" dello scrittore Upton Sinclair aveva denunciato le drammatiche condizioni di lavoro nelle grandi fabbriche di carne in scatola, il libro: "Cento milioni di cavie" denunciava i pericoli per la salute di molti prodotti alimentari, medicinali, cosmetici. Uno degli autori, F.J. Schlink, pochi anni prima aveva fondato la Consumers' Research Inc., per effettuare analisi delle merci nell'interesse dei consumatori, che cominciarono a diventare soggetti e protagonisti politici.

Tugwell, sottosegretario all'agricoltura del governo Roosevelt, subito nella primavera del 1933 decise di abbassare da 1,3 a 0,9 milligrammi la massima quantità di arseniato di piombo, un antiparassitario, tollerata negli alimenti. La Food and Drug Administration, una agenzia del Dipartimento dell'agricoltura fino allora sonnacchiosa, organizzò, per ordine di Tugwell, una mostra delle frodi e dei veleni che finivano sulla tavola degli americani.
Naturalmente le proposte di riforme merceologiche incontrarono la forte opposizione dei produttori industriali e solo nel 1938 fu approvata la nuova legge sulla purezza di alimenti, cosmetici e medicinali, il Pure Food, Drug and Cosmetic Act.

La comunità e la città

La rinascita delle città fu un altro dei punti importanti del New Deal: come risposta alla congestione urbana e alla sua violenza fu avviato un progetto per portare al di fuori dei ghetti urbani la popolazione povera, in modo che gli abitanti potessero vivere alla luce del sole, respirare aria buona e anche avere una piccola superficie di terreno da coltivare. Furono così costruiti quartieri residenziali autosufficienti nei quali le famiglie, ridotte sul lastrico dalla povertà urbana e rurale, potessero trovare rifugio occupandosi di artigianato, di coltivazione della terra anche per trarne il proprio cibo.

Il progetto prevedeva di localizzare le fabbriche in zone aperte e distanti fra loro, di sviluppare un nuovo tipo di città industriale suburbana, resa possibile dall'era dell'automobile. Queste idee ebbero fra l'altro il sostegno di un architetto-pensatore come Lewis Mumford che, proprio nel 1934, scrisse: "Tecnica e cultura", proponendo la transizione ad una società "neotecnica", meno violenta ed inquinata.
Il programma rimase in gran parte sulla carta, ma mostra l'ambiente culturale dei primi anni dell'amministrazione Roosevelt e la vivacità degli studiosi, urbanisti, progettisti che riuscì a mobilitare. Comunque il governo del New Deal avviò un processo di bonifica urbana, opere di edilizia popolare, sia nelle città, sia nelle campagne, per eliminare le abitazioni malsane e fatiscenti e ridare così, con case adeguate, anche una dignità alle famiglie dei diseredati. Una pagina dei conflitti fra il nuovo corso urbanistico e le forze frenanti della speculazione edilizia si ha nel film "La vita è meravigliosa".

Merci e ambiente
Roosevelt capì che la crisi economica e dell'occupazione dipendeva anche dalla mancanza di un coordinamento e di pianificazione nella produzione delle merci.
Negli anni venti una scelta merceologica ispirata ad un finto moralismo aveva provocato, con il divieto della vendita di bevande alcoliche, un commercio clandestino di alcolici e quindi la crescita della più grande organizzazione criminale e di corruzione pubblica mai vista fino allora, e certamente lontana progenitrice di quella criminalità organizzata con cui ci dobbiamo confrontare oggi in Italia.

Roosevelt comprese che solo mettendo un freno a questa violenza il paese avrebbe potuto affrontare la crisi. Il lunedi 13 marzo 1933, nove giorni dopo il suo insediamento, propose una legge che autorizzava la produzione e la vendita della birra a 3,2 gradi alcolici. Il venerdi successivo la proposta era già approvata dal Congresso; non era ancora la legalizzazione delle bevande alcoliche, ma l'inizio e il segnale di una politica antiproibizionistica che diede un grave colpo alla criminalità e alla corruzione.

Il 16 giugno 1933 fu approvata la legge che creava la National Recovery Administration, un organismo con funzioni di studio e di proposta nel campo della pianificazione delle opere pubbliche e della produzione industriale. Per sconfiggere la povertà e la disoccupazione occorreva concordare con gli imprenditori orari di lavoro e salari tali da consentire la ripresa della produzione dell'industria e dei consumi delle famiglie. Le aziende che aderivano all'accordo potevano contrassegnare i loro prodotti e merci con l'"Aquila blu" ("Blue Eagle"), un marchio che assicurava i consumatori che le aziende stesse contribuivano, anche con sacrifici dei propri profitti, allo sforzo di ricostruzione del paese e che pertanto i loro prodotti andavano preferiti.

La ripresa della produzione, industriale ed agricola, assicurata dalla politica di pianificazione, diede di nuovo fiducia anche alla ricerca e all'innovazione. Attraverso una simbiosi con la ricerca universitaria, negli anni dell'amministrazione Roosevelt furono fatte alcune scoperte industriali di grande importanza. Solo per citarne alcune: furono messi a punto dei processi per la produzione della gomma sintetica partendo sia da sottoprodotti agricoli, sia da prodotti petroliferi. Furono messe a punto benzine ad alto numero di ottano che consentirono lo sviluppo dell'aviazione e dei trasporti aerei civili. Furono messi a punto processi per la produzione di fibre tessili artificiali, dalle proteine del latte, della soia e dell'arachide, dai residui della lavorazione del cotone, e furono inventate fibre tessili sintetiche destinate a rivoluzionare l'industria e il modo di vivere e di consumare di tutto il mondo, come il nylon presentato ai consumatori nel 1938.

In questa atmosfera ebbe sviluppo anche la ricerca universitaria "pura"; gli scienziati ebrei sfuggiti alle persecuzioni razziali in Europa trovarono in America non solo libertà d'insegnamento, ma anche apparecchiature e mezzi finanziari che portarono a scoperte destinate ad avere effetti lontani.
Non tutto, nell'era di Roosevelt, andò liscio. Molti progetti non furono realizzati, ma di certo l'epoca del New Deal fu un periodo di speranze e di fiducia nel futuro a cui si può guardare ancora oggi..

Il New Deal e l'Italia
Il New Deal di Roosevelt fu seguito con attenzione in Italia fin dai tempi fascisti. Gli anni trenta sono stati anni di crisi anche in Europa e in Italia e gli economisti e gli studiosi che conoscevano l'America prestarono attenzione a questo strano esperimento di pianificazione nella democrazia, di intervento dello stato nel rispetto della libera iniziativa. Non si deve dimenticare che sono gli anni della pianificazione sovietica e Roosevelt fu accusato, dalle forze conservatrici americane, di essere un comunista, o, peggio, un bolscevico.

Anche sotto l'influenza sollecitata dal New Deal americano nel 1933 fu creato in Italia l'Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI) con fini di coordinamento e di intervento statale nei settori disastrati dell'industria.
Ma l'interesse scientifico e politico per il New Deal si fecero sentire soprattutto negli anni dopo la Liberazione, quando si trattava di ricostruire l'Italia uscita dalla guerra e di colmare gli squilibri fra nord industriale e sud agricolo. Gli intellettuali radicali e socialisti antifascisti, rientrati in Italia dagli Stati Uniti portarono la conoscenza e l'interesse per il New Deal in un'Italia rimasta, anche nella sua nuova classe dirigente, provinciale ed esclusa dal grande giro internazionale. Adriano Olivetti, con il suo movimento di "Comunità", fece conoscere in Italia le opere del New Deal e di Mumford, le nuove correnti di pensiero sulla pianificazione democratica e su una nuova urbanistica.

Al New Deal si ispirarono coloro che proposero i grandi programmi di opere pubbliche e una struttura di finanziamento e pianificazione dell'uso delle risorse naturali nel Mezzogiorno, quella che divenne poi, nel bene e nel male, la Cassa per il Mezzogiorno. Al New Deal si ispirarono coloro che, nel primo centro-sinistra, si batterono per la nazionalizzazione delle imprese elettriche e per l'estensione al ministero del bilancio di competenze anche nel campo della programmazione, con la creazione di un apposito ufficio.

A dire la verità le attività della programmazione italiana (il più celebre documento è il "progetto ottanta", predisposto alla fine degli anni sessanta) erano più attente agli aspetti economici che alla salvaguardia e alla valorizzazione delle risorse naturali o alle scelte produttive e merceologiche. Ciò forse perché la classe dominante era costituita da economisti e giuristi, più che da studiosi di agricoltura, chimici, forestali, urbanisti, ingegneri.

Ogni tanto gli economisti e alcuni uomini politici hanno dichiarato l'opportunità di fare di nuovo riferimento al New Deal, che sarebbe necessario un New Deal italiano, ma le buone intenzioni non hanno fermato il degrado morale ed economico, e anche ambientale, quest'ultimo, del resto, figlio dei primi due e della crisi del senso dello Stato. Il successo del New Deal di Roosevelt era invece proprio basato sul recupero del senso della comunità e dello Stato.
Si potrebbe pensare adesso, in questo inizio del XXI secolo, di far uscire l'Italia dalla crisi economica e morale con un "nuovo corso" ? Se nascesse una nuova classe dirigente con un nuovo senso dello Stato quali azioni dovrebbe intraprendere ?

Immaginiamo che improvvisamente le autorità centrali e regionali mettano da parte i cavilli giuridici e "istituzionali" (dietro cui spesso si nascondono gelosie di centri di potere e di affari) ed avviino un grande programma di sistemazione delle acque, di difesa del suolo contro l'erosione, di rimboschimento. Tale programma può essere condotto soltanto nell'ambito dei bacini idrografici che devono diventare --- come del resto prescrive la legge italiana --- le nuove unità geografico-politiche in cui svolgere le azioni di pianificazione territoriale e di difesa delle risorse naturali.

In ciascun bacino idrografico la "autorità" prevista dalla legge dovrebbe predisporre opere per fermare l'erosione attraverso la pulizia e la sistemazione degli argini e del greto dei fiumi, il rimboschimento dei pendii delle valli. La forza delle acque fluenti potrebbe essere utilizzata per ottenere energia idroelettrica --- una fonte di energia rinnovabile --- attraverso la costruzione di bacini artificiali e centrali progettate non per massimizzare i profitti delle imprese elettriche, ma a fini multipli, per regolare il moto delle acque, assicurare riserve di acqua nei mesi di scarse piogge, e creare spazi per attività ricreative.
Una pianificazione di questo genere presuppone di far cessare l'appropriazione privata delle golene e delle rive dei fiumi, di regolare (e anche vietare, in certe zone) i prelevamenti di sabbia e ghiaia dal greto dei fiumi; una vera autorità di bacino dovrebbe avere il potere di intervenire sulla proprietà privata e sull'iniziativa privata quando queste assumono carattere speculativo e di rapina e danneggiano i beni collettivi.

Difesa del suolo significa soprattutto ricostruzione del manto vegetale nelle sue varie forme, attraverso il rimboschimento con alberi, la ricostruzione della macchia, attraverso tecniche colturali che impediscano l'asportazione della terra fertile e consentano la protezione e formazione dell'humus, che è l'unico modo in cui può essere rallentato il moto violento ed erosivo delle acque. La difesa del suolo presuppone una lungimirante politica di riutilizzo delle zone in cui sono state sospese o sono scoraggiate le coltivazioni agricole tradizionali. Significa una nuova cultura forestale popolare diffusa.

Eserciti di "forestali" sono stati messi, nei decenni passati, al lavoro in varie zone d'Italia, soprattutto nel Mezzogiorno, spesso tollerando che gli stessi disoccupati, per poter essere ingaggiati l'anno successivo, lasciassero degradare o magari divorare dal fuoco le giovani piante.
In un New Deal italiano del XXI secolo l'agricoltura dovrebbe tornare ad essere il settore "primario" dell'economia. La libera circolazione delle merci e dei servizi in Europa e una nuova disciplina contro gli sprechi imposta dall'Unione Europea porteranno a limitare sempre più le sovvenzioni alle produzioni agricole eccedentarie. Invece di continuare a piagnucolare per ottenere la proroga delle protezioni, un New Deal agricolo potrebbe pensare ad un ritorno dell'agricoltura al suo ruolo primario nella gestione delle risorse naturali.

Le opere di razionale sistemazione delle risorse idriche e di difesa del suolo contro l'erosione potrebbero creare proprio nella collina e nella montagna disponibilità di materie prime agricole, zootecniche e forestali suscettibili di trasformazione sul posto, grazie anche a nuove fonti di energia idroelettrica, con operazioni di "chemiurgia", in nuove materie prime e merci: carburanti alternativi al petrolio (come l'alcol etilico), fibre tessili artificiali, materie prime per la produzione della carta, materiali da costruzione ottenuti dal legno, fonti di proteine alimentari. Chi sa che un giorno non si legga anche nelle case di campagna italiane la scritta: "Sono orgoglioso di essere un agricoltore" ?

Ad un New Deal di questo genere aveva del resto pensato Adriano Olivetti negli anni cinquanta del Novecento col suo progetto di integrazione della fabbrica e dell'agricoltura nelle zone povere di collina o nel Mezzogiorno; e è già avvenuto, in questa direzione, anche se in forma spontanea e non pianificata e spesso piena di contraddizioni, in certe zone (Veneto, Marche) del cosiddetto NEC (Nord-Est-Centro).
L'operazione sarebbe di particolare importanza nel Mezzogiorno e nelle isole dove solo il lavoro e la produzione agricola e industriale di merci, basata sulle risorse naturali locali, può sconfiggere la criminalità organizzata che attecchisce solo nello sconforto.

In senso contrario ad un New Deal vanno le iniziative per far abbandonare la coltivazione di grandi estensioni delle nostre colline e montagne, addirittura finanziando l'abbandono con soldi della Comunità europea; oppure i grandi insediamenti con effetti sconvolgenti sull'agricoltura, sulle acque, sulle colline, con avanzata dell'erosione del suolo.
Nel senso del New Deal andrebbe una nuova moralità nell'uso dei beni collettivi; la privatizzazione, in corso in Italia, di coste, spiagge, rive dei fiumi, spazi demaniali, non fa invece che accelerare il degrado territoriale, l'erosione delle spiagge, la distruzione delle foreste e delle dune, che sono poi le protezioni naturali dell'entroterra.

Un New Deal dovrebbe ricuperare all'uso pubblico e pianificato proprio pascoli, terre e spazi demaniali e collettivi, oggi ancora soggetti ad usi civici, le acque.La salvezza potrebbe essere cercata in un ministero delle risorse naturali, con competenze ben diverse da quelle dell'attuale ministero dell'ambiente che finisce per essere il ministero dei depuratori e delle discariche.
Un nuovo corso italiano richiederebbe il recupero della cultura e del gusto dell'urbanistica, intesa come scienza della pianificazione degli insediamenti, delle vie di comunicazione, dei modi di trasporto. Ad una politica della città e della mobilità, oggi governata dalla case automobilistiche, della compagnie petrolifere e dagli speculatori immobiliari, dovrebbe essere contrapposto un reale potenziamento dei trasporti collettivi basati non sullo spreco --- come l'"alta velocità"--- ma sui reali bisogni della popolazione, anche ai fini del decentramento delle attività produttive e dei servizi.

Un Deal Deal ecologico presuppone dei controlli e una pianificazione sulla produzione, sulla quantità e sul tipo delle merci, alla luce dei vincoli posti dalla necessità di diminuire sprechi di risorse naturali scarse, inquinamenti e rifiuti. Da qui la necessità di uffici governativi per gli standard di qualità delle merci, per il controllo di tale qualità, di uffici di analisi e di controllo contro le frodi, di attività di previsione e di scrutinio delle scelte anche legislative.

Negli Stati Uniti nel 1970 è stato creato, presso il Congresso, un ufficio per lo scrutinio tecnologico (l'Office of Technology Assessment) che avvertiva i parlamentari e il governo sugli effetti tecnici, ecologici, sociali delle scelte legislative. Ad esempio: il finanziamento di una rete ferroviaria ad alta velocità quali conseguenze può avere sul territorio, sul trasporto aereo, sulla sicurezza delle persone ? Scrutinio tecnologico è molto più della semplice valutazione dell'impatto ambientale, da noi ridotta a mascheratura di scelte prese al di fuori del Parlamento.
Infine il New Deal qui prospettato --- o sognato ? --- comporterebbe il coinvolgimento dell'Università e della ricerca in progetti socialmente ben definiti e compatibili con la difesa e la valorizzazione delle risorse naturali.

Inutile dire che i progetti sopra accennati richiedono lavoratori e specialisti dall'ingegneria all'ecologia, dall'economia alla chimica, alle scienze agrarie e forestali. Sarebbe anche questo un modo per sollecitare nei giovani laureati un senso di servizio della collettività, oggi così labile, per farli sentire, come i giovani intellettuali del 1933, orgogliosi di lavorare per lo Stato e non per un governo o per una struttura di partito e di clientele.

Nota: su due aspetti delle politiche urbane e territoriali del New Deal, in Eddyburg Archivio si vedano l'articolo di Giovanni Caudo su Rexford Tugwell regista delle nuove città, e quello di Fabrizio Bottini su Earle Draper e le prime denunce dello sprawl urbano negli anni '30

«A dispetto delle incredibili traversie che ne costellarono il cammino, Marx si staglia nella storia come un autore la cui opera ha prodotto e produrce effetti politici enormi sul corso delle umane vicende.

Micromega online, pagina di blog", 16 marzo 2013

L’elezione del papa, dopo le fragorose dimissioni del predecessore (fatto su cui ancora dobbiamo riflettere), insieme alle penose nostre vicende elettorali e postelettorali, hanno fatto dimenticare il 130° anniversario della scomparsa di Karl Marx. Era nato a Treviri, nella ricca e colta Renania, il 5 maggio 1818; morì a Londra, dopo una vita difficile ed errabonda, il 14 marzo 1883: non aveva ancora compiuto i 65 anni.

A dispetto delle incredibili, sovente drammatiche, talora tragiche traversie che ne costellarono il cammino, l’opera che Marx ha lasciato è immensa per dimensione, per novità, per profondità: si tratta di un vero gigante della storia, del genere di Dante, Michelangelo, Shakespeare, o Picasso. Eppure a differenza degli altri “grandi”, Marx si staglia nella storia come un autore la cui opera ha prodotto e non smette di produrre effetti politici enormi sul corso delle umane vicende. Nessun pensatore sta a pari con lui, da questo punto di vista.

Dato per “morto” politicamente e intellettualmente, più e più volte, il pensiero di Marx ogni volta si è riaffacciato, beffardo, più carico di nuove suggestioni, di echi inaspettati, di spunti che ci hanno intensificato la nostra capacità di comprendere le società in cui viviamo. La forza dirompente che si sprigiona dai suoi tanti scritti (alcuni dei quali ancora inediti, e altri pubblicati in modo pasticciato: l’edizione completa di tutte le opere di Marx ed Engels tante volte cominciata non è mai giunta a termine), rappresenta uno degli stimoli più significativi che si possa rintracciare nel pensiero moderno. Eppure il marxismo, si ripete, ha fallito. Certo, sul piano del socialismo realizzato abbiamo registrato un fallimento che è stato per tanti versi un tradimento del pensiero di Marx, anche se bisogna evitare l’errore di confondere teoria marxiana con marxismo. È nota la battuta di Marx che dichiarava di non essere marxista. Ma è vero anche, sulla base non di mere passioni, ma di constatazioni alla luce delle statistiche, che per tanti versi anche in quei regimi odiosi dell’Est, vi erano strutture di protezione dei ceti popolari che oggi sono perlopiù state cancellate, e gli indicatori ci danno cifre poco lusinghiere su quel che è accaduto dopo il crollo del Muro, in parecchie realtà dell’ex sistema sovietico. Senza parlare della caccia alle streghe che in Paesi come la Polonia e soprattutto l’Ungheria viene messa in atto contro gli ex comunisti.

Ciò detto, non v’è dubbio che si stia assistendo a un diffuso, nuovo “ritorno a Marx”, partito (come è accaduto per Gramsci) dal tempio del capitalismo, dagli Stati Uniti. Da noi anche Giulio Tremonti si è lasciato sfuggire l’affermazione che senza Marx sarebbe impossibile comprendere quello che stiamo vivendo sul piano economico mondiale negli ultimi decenni.

Anzi, si può osservare che se una gran parte della letteratura marxista (per non dire tutta) è uscita di scena, anche per precise scelte politico-culturali dei gruppi editoriali, Marx continua a giganteggiare, nella sua inevitabile necessità. E, con lui, si può dire che il solo Gramsci sia sopravvissuto al crollo del Muro, anzi emergendo entrambi da quelle macerie più forti di prima. Il primo per la sua capacità di fornire strumenti di analisi degli svolgimenti del capitalismo mondiale, il secondo per la sua definizione di un “altro” comunismo e di un diverso modello di rivoluzione.

Torniamo al 14 marzo 1883. Tre giorni dopo la morte dell’amico e maestro, Friedrich Engels fedele collaboratore, che si definì sempre modestamente “il secondo violino”, tenne un discorso commemorativo, nel Cimitero di Highgate a Londra (dove tuttora si può visitare la tomba di Marx): era scomparsa, con Marx, «la più grande mente dell’epoca nostra». E ricordava che «lo scienziato non era neppure la metà di Marx», che «era prima di tutto un rivoluzionario», il cui scopo era di «contribuire in un modo o nell’altro all’abbattimento della società capitalistica» e «contribuire all’emancipazione del proletariato moderno al quale egli, per primo, aveva dato la coscienza delle condizioni della propria situazione e dei propri bisogni, la coscienza delle condizioni della propria liberazione» . E concludeva: «Il suo nome vivrà nei secoli, e così la sua opera!».

Come dargli torto? Senza gli occhiali di Marx non si potrebbe capire la globalizzazione dei capitali e delle miserie, il “turbocapitalismo”, con le sue crescenti disuguaglianze e le clamorose ingiustizie: Marx aveva profetizzato un momento in cui un pugno di famiglie avrebbe detenuto la quasi totalità della ricchezza mondiale…. Ma ricordiamo che il giovane Marx, nella XI celebre Tesi su Feuerbach sentenziò: «I filosofi hanno finora variamente interpretato il mondo. Si tratta ora di trasformarlo». Un bel monito, davanti alla sempre ricorrente tentazione del ritrarsi a vita privata. Che si sia o no marxisti.

««Dieci anni fa la giovane attivista americana veniva uccisa da una ruspa militare israeliana. La sua morte aprì gli occhi al mondo su una nuova forma di resistenza»,

il manifesto, 16 marzo 2013
Quel 16 marzo del 2003 le prime immagini da Gaza di Rachel Corrie arrivarono a tarda sera, trasmesse dalle televisioni arabe. Il volto di una ragazza, un corpo senza vita coperto parzialmente da un lenzuolo su di un tavolo di ospedale, un medico che spiegava le cause della morte. Niente di più ma indimenticabili per chi le vide. Immagini che confermarono le notizie che circolavano da ore sull'uccisione a Rafah, sul confine tra Gaza e l'Egitto, di una giovane occidentale, attivista dell'International solidarity movement (Ism), schiacciata da una ruspa militare israeliana mentre si opponeva alla distruzione di una casa. Da due anni e mezzo la cronaca riferiva lo stillicidio quotidiano di vite umane, in gran parte palestinesi ma anche israeliane. Eravamo nel pieno della seconda Intifada contro l'occupazione militare e un anno prima Israele aveva rioccupato le principali città palestinesi con l'offensiva «Muraglia di Difesa» facendo centinaia di morti. Eppure quell'immenso bagno di sangue cominciato nel settembre del 2000, non fece passare inosservata la morte di Rachel Corrie, una ragazza americana poco appariscente, timida ma dal carattere forte, come dimostravano le mail che inviava ai genitori. Aprì invece al mondo la realtà dei tanti giovani di ogni parte del pianeta, anche degli Stati uniti alleati di ferro di Israele, che andavano a Gaza e in Cisgiordania per quella che dieci anni fa era nota come «protezione passiva», ossia provare a prevenire senza violenza e resistenza fisica attiva, con la loro semplice presenza, la demolizione di abitazioni, gli spari dell'esercito israeliano su strade e quartieri densamente popolati e gli arresti indiscriminati. Come Rachel Corrie altri di questi attivisti e giornalisti persero in quegli anni la vita, tra questi Tom Hurndall, colpito da un cecchino alla testa. Anche Vittorio Arrigoni faceva parte dell'Ism. Per le autorità di Israele questi volontari internazionali altro non sono che «amici dei terroristi» (cioè i palestinesi) e ai valichi di frontiera, allora come oggi, sono attuate misure volte ad impedire loro «l'ingresso nel paese», anche se questi giovani in realtà non vanno in Israele ma nei Territori occupati.

Hussein Hamudi, 21 anni di Gaza city, era solo un ragazzino nel 2003. La memoria di Rachel Corrie però è stampata nella sua anima. «Rachel ci ha insegnato qualcosa di molto importante - dice Hussein, diventato anche lui un'attivista -, che l'occupazione israeliana teme ogni forma di resistenza, anche la più pacifica. Rachel ci ha detto che tutti, palestinesi e stranieri, dobbiamo e possiamo dare il nostro contributo per una causa giusta». Hussein oggi parteciperà alle commemorazioni solenni che il «Centro Rachel Corrie» ha organizzato a Rafah. Un'occasione che servirà a rinnovare tra i palestinesi la memoria dell'attivista statunitense e per ricordare quanto accadeva in quegli anni. Fra il 2000 e il 2005 l'esercito israeliano ha distrutto 1.600 edifici a Rafah per costruire un alto muro lungo la frontiera con l'Egitto, lasciando senza tetto circa il 10% degli abitanti della terza città di Gaza.

Nel 2004 le demolizioni a Rafah raggiunsero la media di 100 abitazioni al mese. Le agenzie dell'Onu, Unrwa e Ocha, denunciarono una aperta violazione del diritto internazionale. A gennaio 2003, quando Rachel Corrie arrivò a Rafah, gli israeliani distruggevano in media 12 case la settimana. I volontari dell'Ism erano gli unici che, con la loro presenza, cercavano di impedire le demolizioni. Per Israele l'uccisione dell'attivista americana è stata solo di un «incidente». Una sentenza dello scorso agosto, al termine di un lungo processo civile presso un tribunale di Haifa, voluto dai genitori della giovane americana, afferma che Rachel «Si mise da sola e volontariamente in pericolo. Fu un incidente da lei stessa provocato». I giudici hanno dato pieno credito alla versione dell'accaduto fornita dall'autista della ruspa militare DR9, il soldato Y.P. (la sua identità non è mai stata rivelata). Nella testimonianza, alla fine del 2010, Y.P., confermò che erano presenti civili mentre «operava» la ruspa il 16 marzo 2003. Ma che non smise di «lavorare» perché aveva ricevuto l'ordine di continuare: «Io sono solo un soldato...non ero io a dare gli ordini». Rachel Corrie, con adosso una giacca arancione fosforescente, Y.P. disse non averla vista e di non aver udito i suoi compagni urlare quando la giovane finì sotto i cingoli. I giudici hanno ritenuto credibile la testimonianza di Y.P. sebbene le sue affermazioni sotto giuramento hanno in qualche caso contraddetto la deposizione firmata che fornì agli investigatori militari nel 2003. O forse hanno semplicemente accettato la «spiegazione politica» dell'accaduto che diede dal banco dei testimoni il colonnello «Yossi», uno degli ufficiali responsabili a quel tempo per la zona di Rafah: «non ci sono civili in una zona di guerra». I civili invece sono sempre civili, in tempo di guerra e in tempo di pace, ricordò sdegnato dopo la sentenza Richard Falk, relatore speciale delle Nazioni Unite per i diritti umani nei Territori occupati palestinesi. «La decisione del giudice rappresenta una sconfitta per la giustizia» nonché «una vittoria per l'impunità dei militari israeliani», «le Convenzioni di Ginevra, impongono alla potenza occupante di proteggere i civili», commentò Falk. I genitori di Rachel accolsero con dolore e frustrazione la decisione della corte. Ma non con rassegnazione. «Tanti ci chiedono che cosa ci aspettassimo da questo processo. Non è che ci aspettassimo giustizia, la pretendiamo. Penso che ognuno debba pretenderla, altrimenti la giustizia non ci sarà e semplicemente morirà», dichiarò Craig Corrie, il padre della giovane americana. Chi oggi andrà a Rafah non accorda alcun a quella sentenza. «Rachel sarà mai dimenticata - spiega Hussein Hamodi - Rachel è una di noi». Di sicuro non la dimenticheranno i fratelli Nasrallah, un farmacista e un contabile, che abitavano con mogli e figli nelle case che la giovane americana cercò di salvare quel 16 marzo di dieci anni fa pagando con la sua vita. «A noi - dicono - non è stata uccisa una amica, è stata uccisa una figlia

Esattamente settant'anni fa prendeva avvio il "Piano Beveridge", il progetto di protezione sociale elaborato dal rettore dell'University College di Oxford, sir William Beveridge, che è alla base dei moderni sistemi di welfare. Ecco perché le sue idee sono ancora attualissime.

La Repubblica, 28 gennaio 2013
C’era una precisa intenzione politica nel fatto che tra le armi e l’equipaggiamento dell’Ottava Armata di Sua Maestà britannica e della Quinta Armata americana destinate allo sbarco in Sicilia nell’estate 1943, i reciproci uffici di informazione e di propaganda aggiungessero testi letterari e opuscoli politici. Gli americani preferivano regalare recenti romanzi e racconti in italiano e in formato rettangolare, gli inglesi diffondevano tra gli stupiti italiani, insieme ad un impeccabile The Remaking of Italy del 1942, testi più impegnativi. Tra questi, un opuscolo edito dalla “Stamperia Reale” con la data 1943, dal titolo Il Piano Beveridge.

In autunno l’Ottava Armata, risalendo la penisola e volendo aiutare gli italiani ad aprire gli occhi sul mondo, diffonderà anche Il Mese (edito dalla londinese “The Fleet Steet Press”), un compendio della stampa internazionale che sarà una efficace arma giornalistica di documentazione democratica.

Il Piano Beveridge aveva questo sobrio sottotitolo “La relazione di Sir William Beveridge al Governo britannico sulla protezione sociale. Riassunto ufficiale”: 116 pagine, in perfetto italiano, che riportavano 272 paragrafi, i più essenziali, dei 461 che componevano il Piano. Pochi grammi di dinamite culturale che avrebbero coinvolto e convinto gli italiani più consapevoli sui fondamenti della giustizia sociale, sulla solidarietà tra le classi, sulla tutela dei diritti e i bisogni dei lavoratori e dei ceti più deboli, sui doveri dello Stato e dei poteri economici per assicurare e garantire libertà e democrazia.

Mentre imperversava una guerra dall’esito incerto, l’opuscolo, scritto senza verbosità propagandistica e senza voler suggerire alcuna ipotesi di rivoluzione socialista, era una minuzioso catalogo di progetti, di programmi, di dati tecnici. Indicava il futuro che avrebbero potuto attendersi i popoli liberati dal fascismo e dal nazismo e suggeriva l’inedito sapore della protezione sociale e della libertà dal bisogno in un sistema di democrazia, vera, attiva.

Il Piano Beveridge era un piano pragmatico e funzionale diretto non ai settori guida dell’economia, industria, agricoltura, terziario, mondo finanziario, come accadeva negli Stati Uniti del New Deal, ma a quello della immediata, quotidiana esistenza delle persone. Il governo, presieduto da Winston Churchill, lo aveva annunciato alla Camera di Comuni il 27 gennaio 1942 come iniziativa di una “Commissione interministeriale per le assicurazioni sociali e servizi assistenziali” costituita nel giugno 1941 e alla cui guida era stato chiamato un economista liberale di sessantadue anni, rettore dell’University College di Oxford, Sir William Beveridge. Si faccia attenzione a questa ultima data: era l’inizio dell’operazione Barbarossa tedesca contro la Russia.

L’opinione pubblica inglese, anche la più moderata e liberale, aveva compreso che con l’estendersi in Europa della potenza tedesca, con i continui bombardamenti di Londra e i successi dell’Asse in Africa, la guerra aveva preso una piega pericolosa. Ma ottimismo e volontà di resistenza parvero prevalere in quei giorni. E non mancavano lampi di umorismo british come quelli del disegnatore satirico del Daily Express, Osbert Lancaster che pubblicò con la didascalia “June 1941” un disegno che ho rivisto con molto divertimento: un aristocratico e un ricco borghese si salutano, quasi sorpresi essi stessi, con il pugno chiuso. In questo clima fu elaborato il Piano che Beveridge consegnò a Churchill il 20 novembre 1942. Ai primi giorni di gennaio del 1943 il progetto di “protezione sociale e di politica sociale”, il Welfare State nel senso più razionale e umano del termine, fu conosciuto e se ne iniziò l’esecuzione.

Sono trascorsi esattamente settant’anni, ma l’idea che ha guidato Beveridge e i suoi collaboratori e esperti resta intatta ed attuale. Il piano implicava tre premesse: “sussidi all’infanzia, estesi servizi sanitari e di riabilitazione, mantenimento degli impieghi”. Cioè una riforma politica totale della società. Delle tre premesse è superfluo ricordare l’importanza che ebbe il servizio sanitario nazionale (da esso dipende anche il nostro in vigore). Ma è importante anche la conclusione di Beveridge: “L’abolizione del bisogno non può essere imposta né regalata ad una democrazia, la quale deve sapersela guadagnare avendo fede, coraggio e sentimento di unità nazionale”.

Una premessa ideale al secondo Piano Beveridge consegnato il 18 maggio 1944: Full Employment in a Free Society. E’ questa la più vasta indagine che sia mai stata elaborata (oltre 600 pagine) sulle cause della disoccupazione e sulla possibilità, al ritorno della pace, della piena occupazione in industria, agricoltura e terziario. Un sogno costruito su una diagnosi profonda e perfetta, oltre alcune formule keynesiane, sia del funzionamento dello Stato e delle sue strutture sia dell’efficienza del sistema produttivo capitalistico privato. “La piena occupazione produttiva in una società libera — scriveva nell’introduzione Beveridge — è possibile, ma non la si può realizzare agitando una bacchetta magica finanziaria”.

«Le municipalizzate e la giunta Nathan. Una vicenda più articolata di quanto emerge nella discussione pubblica».

il manifesto, 25 gennaio 2013

La figura di Ernesto Nathan è stata assunta sul piano politico e nel discorso pubblico divulgativo come emblema positivo di buon governo, per questo da celebrare. E la memoria ricostruita della storia di Roma lo ha posto come uno dei personaggi della narrazione novecentesca della città. Il convegno che in proposito si è svolto lo scorso sabato è stato così improntato, ma sarebbe appropriato effettuare un'osservazione equilibrata del personaggio, considerando l'esperienza collettiva della giunta.
All'epoca,nel 1907, liberali democratici, socialisti, repubblicani e radicali si unironoformando il «Blocco del popolo» (la denominazione ufficiale era Unione liberalepopolare) che sostenne l'elezione a sindaco di Nathan.

La giunta capitolinaespressa dal «Blocco» (7 liberali, 3 socialisti, 2 repubblicani e 2 radicali)raccolse le forze migliori della borghesia romana del tempo, meno legate aipotentati locali nati in parte dopo l'Unità e in parte ereditati dalla Romapontificia, e dunque fu più propensa delle precedenti a interventi chepotessero accelerare la modernizzazione della capitale. Governò fino al 1913,tra grandi difficoltà dovute alla natura delle questioni da affrontare, maanche alla diversità delle forze che la componevano. Soprattutto il sindaco el'assessore Giovanni Montemartini compirono un grande sforzo per tenere insiemele differenti anime politiche, fatica che non resse alla prova delle difficoltàreali.

Ma va detto che Nathan in alcuni momenti effettuò scelte che nonaiutarono la compattezza della giunta, come la decisione di portare il suosaluto allo zar in visita in Italia nel 1909. Nel gennaio-febbraio 1912uscirono dall'esecutivo i repubblicani, in disaccordo sulla nuova convenzionecon la Società anglo-romana che gestiva la distribuzione dell'energiaelettrica, indispensabile per garantire l'elettricità necessaria all'avviodelle linee tranviarie municipali; in agosto uscirono i socialisti,ufficialmente per ragioni di politica nazionale, ma che in realtà avevanosoltanto corroborato i ben più importanti accadimenti nell'attivitàamministrativa (accuse alla giunta di aver deluso le aspettative, tempi lunghiper la gestazione di una nuova legge per Roma, lunghe attese per i fondinecessari alle case popolari e alle municipalizzazioni, problema delcaroviveri, rivendicazioni operaie del 1908-1909, e saluto allo zar); ilsindaco e quel che restava della giunta diedero le dimissioni nel dicembre1913.


Alladata del 1912 ormai la coalizione aveva compiuto le sue opere politiche piùimportati, tra cui l'avvio della municipalizzazione del trasporto pubblico edella distribuzione dell'elettricità con la relativa costituzione delle aziendecomunali Atm e Aem. L'artefice ne fu il socialista Montemartini assessore aiServizi tecnologici. Fu il teorico più autorevole sulla materia, contribuendo acreare il contesto culturale nazionale necessario e a definire il pianonormativo della legge n. 103/1903, Assunzione diretta dei pubblici servizi daparte dei comuni. Di fatto con le sue riflessioni, argomentazioni e soluzioniche coniugavano sviluppo economico e libertà democratiche, impostò una culturametropolitana moderna, fino ad allora quasi assente in Italia.

ARoma i tempi per questo cambiamento erano ormai maturi, poiché i due servizisvolti dalle due monopoliste Società anglo-romana e «Società tramways edomnibus» erano molto inefficienti e poiché già dalla giunta precedente delmoderato Enrico Cruciani Alibrandi, si discuteva sulle modalità adottabili.Tanto maturi che il dibattito si svolse sempre su un piano concreto, e cheanche i cattolici furono a favore della municipalizzazione, partecipandoattivamente alla campagna per il referendum del 1909 (perfino l'«OsservatoreRomano» invitò a recarsi a votare).

Lemodalità che si proponevano erano differenti, ma a definire la soluzione fuMontemartini: per l'economista socialista si doveva affrontare la questioneosservandone i vantaggi nelle specifiche situazioni. E a Roma in quel frangentela soluzione doveva essere quella del «municipio concorrente», che primaavrebbe creato un suo servizio a fianco ai monopolisti, per poi procederegradualmente alla municipalizzazione completa. Senza questo scatto diconcretezza di Montemartini la città sarebbe rimasta ancora a lungo impantanatanella difficile situazione creata dai due monopoli.

Convinsetutti, ma nel 1913, quando ormai era uscito dalla giunta, cominciò adevidenziarsi che proprio Nathan non era convinto e che tra i due vi era unasostanziosa differenza di vedute. Alla critica di immobilismo sullamunicipalizzazione dei tram avanzata dall'ex-assessorre, il sindaco rispose dinon ritenere che i servizi pubblici avrebbero portato guadagno poiché quelliprivati erano più economici. La posizione di moderazione di Nathan sullemunicipalizzazioni fu definitivamente nitida nel 1918, nella fase di difficoltàche attraversava l'amministrazione Colonna nel portare a compimento il riscattodi tutte le linee tranviarie della Srto. Parlò dalle pagine del «Messaggero»,con un intervento stupefacente, e per questo importante, che a distanza di anniconfermava ciò che Montemartini e il gruppo socialista gli avevanorimproverato: «Sarebbe un errore a mio avviso abbandonare la concorrenzaattuale, per una specie di statizzazione di secondo grado. Ho i miei dubbi sel'esercizio di Stato delle ferrovie, soggette a tutte le politiche eparlamentari pressioni, non possa fra pochi anni far rimpiangere le passateconvenzioni con grandi concorrenti imprese private; così dubito se, scendendodi un grado dallo esercizio nazionale a quello municipale, gli interessi e lecomodità di Roma saranno appagati col tuffo nella municipalizzazione».

Perchédunque scegliere di assumere a metafora di buona amministrazione soltantoNathan e non tutta la giunta? E soprattutto perché non guardare piuttosto che aun «eroe borghese liberale», al riformista socialista di levaturainternazionale che fu Giovanni Montemartini?
Lasinistra romana rinata all'indomani del fascismo, fece propria l'esperienzadella giunta Nathan, scegliendo di riutilizzare la denominazione di «Blocco delpopolo» per la coalizione che vide insieme i comunisti guidati da Aldo Natoli,socialisti e azionisti. Ma lo fece guardando all'esperienza complessiva diquella giunta, non alla sola personalità del sindaco. Chi invece recuperòNathan nel discorso pubblico sulla città fu Marco Pannella nel 1993, cheappuntò l'attenzione innanzitutto sul suo anticlericalismo.

Ilperiodo della giunta Nathan è importante nella storia di Roma. Ma, in verità,per capire fino in fondo l'ambito amministrativo, politico e sociale dellacapitale all'inizio del Novecento occorre che gli storici ricostruiscanol'intera storia amministrativa cittadina dalla fine dell'Ottocento fino algovernatorato fascista. E occorre che studino ancora questa giunta a partiredalle carte d'archivio, e non a partire da un'idea o da un'interpretazione,perché nel mestiere di storico non c'è scorciatoia al documento. Nathan è statostudiato sui verbali del consiglio comunale, meno sui verbali della giuntamediante i quali si possono articolare meglio le posizioni dei componenti, enon a sufficienza sull'ampia e vivace stampa romana, attraverso la quale puòemergere con più chiarezza la battaglia politica piena di sfaccettature nellacapitale. Si può dunque augurare buon lavoro a chi vorrà farlo.

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