Tra "devono" e "possono":ecco la differenza. «Secondo la norma varata dal governo, nel 2016 e 2017 tutta la liquidità incassata dagli enti locali attraverso gli oneri di urbanizzazione potrà essere spesa al di fuori dell’ambito di intervento edilizio relativo». Sbilanciamoci.info, 18 gennaio 2016
All’interno della legge “omnibus” di Stabilità, il governo Renzi si è occupato del tema degli oneri di urbanizzazione e del loro utilizzo da parte dei nostri Comuni. Il 31 dicembre scadeva l’ennesima proroga e ci attendevamo un decreto che andasse, finalmente, ad annullare la possibilità di destinare le somme versate da chi realizza un intervento edilizio per sostenere la spesa corrente delle magre casse comunali (anzichè essere correttamente riservate alle sole effettive opere di urbanizzazione). Il Governo ci ha regalato una bizzarra “polpetta avvelenata” da cui traiamo la consapevolezza che gli oneri di urbanizzazione non potranno più essere utilizzati per la “spesa corrente” del Comune, ma solo per “spese di manutenzione ordinaria del verde, delle strade e del patrimonio comunale, nonché per le spese di progettazione delle opere pubbliche”.
Sembrerebbe la norma che tutti desideravamo. Ma, a ben leggere il testo della legge di Stabilità, la nostra gioia dura pochi istanti, in virtù anche di questa affermazione, discretamente sibillina, presente all’interno dei suoi 999 commi (ci riferiamo al comma 737 dell’art. 1 della L. 28/12/2015 n. 208): “… possono essere utilizzati per una quota pari al 100 % per le spese di manutenzione ordinaria del verde, delle strade e del patrimonio comunale, nonché per le spese di progettazione delle opere pubbliche”.
La nuova disposizione prevede, insomma, che i proventi “possano essere utilizzati”, ma non necessariamente che “debbono essere utilizzati” per gli scopi indicati.
In parole semplici, significa che lo Stato centrale ha deciso di non decidere e di lasciare ai Comuni il potere di stabilire come e dove utilizzare i denari freschi che chi intende costruire verserà nelle casse comunali. Fino, addirittura, al 100 % della somma incassata con gli oneri di urbanizzazione mentre, attualmente, vi era un limite al 75% del totale, che per i due terzi (il 50% del totale) potevano coprire in maniera indistinta le spese correnti del Comune e per il restante 25% le spese di manutenzione ordinaria del verde, delle strade e del patrimonio comunale.
In virtù di questa decisione, nel 2016 e 2017 tutta la liquidità incassata dagli enti locali attraverso gli oneri di urbanizzazione potrà quindi essere spesa al di fuori dell’ambito di intervento edilizio relativo.
Facile prevedere che un nuovo quartiere, una nuova lottizzazione, un nuovo centro residenziale non vedranno interventi da parte dei Comuni, poiché le somme incassate potranno essere utilizzate per altro, anche se non più per il funzionamento dell’intera macchina comunale (ad esempio stipendi e servizi primari ai cittadini).
Per “l\e spese di progettazione delle opere pubbliche“, invece, sì! Dunque in maniera diretta per la realizzazione di infrastrutture, nuovi interventi sulla viabilità, tangenziali e chi più ne ha più ne metta.
Il Sole 24 Ore” così commenta: «Di certo non sarà difficile trovare la richiesta corrispondenza tra entrate e uscite, perché sotto la voce “manutenzioni del patrimonio” vi può rientrare pressoché tutto, dall’illuminazione pubblica all’edilizia scolastica, dagli automezzi agli edifici in genere»
Resta per noi positivo, certamente, il fatto che gli Enti locali non potranno più finanziare l’intera “macchina comunale” con il denaro fresco incassato attraverso gli oneri di urbanizzazione. Ma lo spazio decisionale lasciato ora in mano ai Comuni è pericoloso, sbagliato, pura eutanasia. Che provocherà enormi guai e non intacca il vero nodo del problema: il flusso di cassa fa (ancora e sempre) “gola” ai Comuni, che continueranno ad essere “costretti” a svendere ulteriori porzioni di territorio libero pur di finanziarsi. E gli enormi stock di edifici vuoti, sfitti, non utilizzati resteranno – immobili … – a puntellare le nostre sempre più desolate città.
Nei prossimi anni, quindi, sarà ancora più necessario che in ogni Comune i cittadini si impegnino a “decifrare” i bilanci consuntivi e previsionali del loro ente locale e ingaggino una concreta battaglia o una vera alleanza finalizzata ad azzerare preventivamente costi inutili, sprechi, disutilità, proponendo alternative.
Il nostro tossicodipendente ci aveva giurato che quello di ieri sarebbe stato il suo ultimo “buco”. In realtà ha solo smesso di prepararsi la siringa con la sua solita “roba”, sostituendola con un’altra sostanza. Probabilmente ancora più micidiale.
Il pusher è sempre lo stesso: lo Stato/Parlamento che mette a disposizione del tossicodipendente (il nostro Comune) norme che gli consentono di drogarsi ed acquistare la “roba” (risorse finanziarie da mettere in circolo per alimentare e sostenere la spesa corrente, svendendo il territorio …).
E il Comune ha ora una nuova norma dietro cui salvaguardarsi per evitare guai.
(Per chi volesse conoscere un po’ meglio la “storia” dell’utilizzo degli oneri di urbanizzazione, rimandiamo a questa sintetica traccia:http://www.altritasti.it/index.php/archivio/ambiente-e-territori-mainmenu-45/1257-le-casse-dei-comuni-gli-oneri-di-urbanizzazione-e-la-legge-bucalossi).
È stato annunciato in questi giorni sulla stampa l’accordo per il riuso di beni pubblici mirato alla valorizzazione turistico-culturale e sottoscritto tra il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Graziano Delrio, il ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo Dario Franceschini, assieme al Presidente Anas Gianni Vittorio Armani e al Direttore dell’Agenzia del Demanio Roberto Reggi. Il programma di riqualificazione riguarda, oltre le 1.244 Case Cantoniere che l’Anas possiede su tutto il territorio nazionale, anche immobili di particolare interesse situati in prossimità di circuiti quali la Via Francigena o l’Appia antica. In attesa di poter valutare se il «formidabile brand» delle Case Cantoniere – così lo definisce Franceschini – si rivelerà una reale opportunità di sviluppo sociale, economico e culturale, ne abbiamo parlato con Salvatore Settis. L’archeologo e storico dell’arte, ex direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, ha partecipato l’8 gennaio a Roma ad un incontro a Palazzo Altemps per la presentazione del libro Villes en ruine: images, mémoires, métamorphoses (Éditions Hazan 2015), curato dallo stesso Settis e Monica Preti.
«Beni comuni. Parte la svendita del patrimonio immobiliare statale tramite i nuovi vertici della Cassa depositi e prestiti. Senza patrimonio un popolo perde la sovranità: allo scellerato disegno del governo è ora di opporre un progetto di pari sistematicità che metta al centro dell’agenda politica la difesa dei beni pubblici». Il manifesto, 10 gennaio 2016
Venerdì sono circolate le anticipazioni della grande svendita del patrimonio di tutti gli italiani e non è certo un caso che sia stato il giornale di casa, L’Unità, a darne con grande risalto l’annuncio. Erano due decenni che i governi di centro-destra avevano tentato la vendita del patrimonio degli italiani ma senza grandi successi.
Dopo le prime leggi di alienazione approvate anche dal centro-sinistra (l’intera vicenda era stata denunciata già dal 2002 da Salvatore Settis nel volume Italia spa edito da Einaudi), il primo tentativo operativo risale al 2004, quando si affidò alla società Investire immobiliare 394 immobili dello Stato poi passati a Blackstone.
Nel 2007 si tentò con la Scip 2, la società veicolo creata dal ministro Tremonti. All’epoca, anche per il contrasto con le Fondazioni bancarie, non si raggiunsero gli equilibri economici e finanziari e la Scip 2 concluse la sua azione con un forte deficit. Né migliore fortuna ebbe l’altra società di valorizzazione immobiliare, Fintecna.
I fallimenti portarono Tremonti alla costruzione nel 2009 di una nuova società: la Sgr investimenti, nata all’interno della Cassa depositi e prestiti, alla cui direzione mise un suo fedelissimo, Massimo Verazzani, che appena un anno prima era stato nominato commissario straordinario per risanare il deficit di bilancio di Roma.
Anni di sperimentazioni sono serviti per mettere a punto il sistema di vendita e indubbiamente il Renzi sindaco di Firenze è stato l’uomo che con più lucidità ha portato avanti in sede locale il disegno ideato per l’intero paese.
Proprio quando sta per concludere l’offensiva contro Enrico Letta, Renzi rischia grosso. A dicembre 2013 il debito accumulato dal comune di Firenze supera i limiti del patto di stabilità imposti dal governo Monti e solo un provvidenziale aiuto da Cassa depositi e prestiti al cui vertice sedeva ancora Franco Bassanini riesce ad evitargli l’onta del default: la Cdp acquista attraverso il Fondo investimenti per la valorizzazione Plus per 23 milioni di euro il Teatro comunale che il sindaco aveva inutilmente tentato di vendere già dal 2009 ad un valore molto maggiore: 44,5 milioni. Dall’anno seguente il teatro viene inserito nella lista dei beni immobiliari pubblici da vendere e chissà quando troverà un acquirente: con queste spericolate operazioni, dunque, lo Stato si indebita dilapidando contemporaneamente il patrimonio pubblico.
La Firenze renziana diventa la città che persegue con disinvoltura la svendita sistematica del patrimonio immobiliare pubblico: il comune come agente di speculazione immobiliare. Sotto la guida del nuovo sindaco Nardella, ma il lavoro era iniziato sotto il suo predecessore, viene reso pubblico il dossier Florence city of the opportunities, una gigantesca apertura al mercato immobiliare internazionale. Il dossier comprende 47 schede di compendi immobiliari privati e 12 pubblici di straordinario valore storico e che negli anni passati erano stati recuperati in modo straordinario, come nel caso dell’ex carcere delle Murate.
Il sindaco di Firenze aveva dunque le carte in regola per diventare il «sindaco d’Italia» e condurre finalmente in porto la svendita immobiliare. L’annuncio era stato preparato da due provvedimenti coerenti con quella finalità.
Il primo era arrivato con lo Sblocca Italia, all’interno del quale (articolo 10) sono state create le condizioni per il sistematico intervento di Cassa depositi e prestiti nell’acquisto e valorizzazione degli immobili da dismettere. Insomma, la positiva esperienza della vendita del teatro comunale ha contribuito a costruire un veicolo molto più potente ed efficace di quelli dei governi di centro-destra.
Il secondo provvedimento riguarda la campagna di occupazione del potere: nel luglio dello scorso anno vengono indicati i nuovi vertici di Cassa depositi e prestiti. In cima alla piramide viene nominato Claudio Costamagna, ex banchiere Goldman Sachs e attuale presidente di Salini-Impregilo. Amministratore delegato diventa Fabio Gallia che ricopriva identico ruolo nella Banca nazionale del lavoro.
E visto che il mercato immobiliare langue, meglio aiutarlo con l’ulteriore deregulation. L’articolo 26 dello Sblocca Italia prevede la variante urbanistica automatica per tutti i progetti che riguardano gli edifici pubblici. In particolare il comma 8 prevede che una parte della valorizzazione immobiliare ottenuta attraverso la variante urbanistica venga attribuita alle amministrazioni locali che hanno costruito il provvedimento di alienazione. È lo stesso meccanismo di incentivazione alla vendita che era stato inserito in molti provvedimenti legislativi da Giulio Tremonti.
Si chiariscono dunque sempre meglio i motivi che hanno portato alla repentina scalata al potere di Renzi e i motivi strutturali di tale disegno. Verremo inondati dai soliti annunci trionfali, si dirà che i proventi della vendita serviranno per trovare risorse per il rilancio dell’economia. Saranno i soliti annunci privi di fondamento: i valori immobiliari sono ai minimi storici dell’ultimo ventennio e la vendita servirà solo a soddisfare gli appetiti degli investitori internazionali o a creare un indebitamento futuro come dimostra il caso del Teatro comunale di Firenze.
L’insigne giurista Paolo Maddalena ha di recente scritto Il territorio bene comune degli italiani (2013 Donzelli) in cui si sostiene lucidamente che senza patrimonio un popolo perde la sovranità: allo scellerato disegno del governo è ora di opporre un progetto di pari sistematicità che metta al centro dell’agenda politica la difesa dei beni pubblici.
Occhi potenti, periscopi di stomachi voraci, puntati sulle aree dismesse dal pubblico (cioè dai cittadini) per fini di lucro. La chiameranno “rigenerazione urbana". Il Fatto Quotidiano, blog “cittadinanzattiva”, 23 dicembre 2015
Nell’articolo La città rinasce sui binari dismessi di Alessandro Arona, pubblicato su Il Sole 24 Ore si affronta il tema del recupero e valorizzazione di suoli urbani non più utilizzati. Il punto di partenza è che esistono 6,6 milioni di metri quadrati di “aree o strutture ferroviarie dismesse pronte alla riqualificazione urbana, senza consumo di nuovo suolo” corrispondenti ad aree delle ferrovie dello Stato che oggi risultano in stato di sotto utilizzazione o di abbandono e che sono “quasi sempre centralissime” nelle grandi aree urbane del Paese.
I meccanismi utilizzati per la trasformazione di queste aree (aree non utilizzate = edilizia; aree centrali = elevati profitti) afferiscono un po’ troppo al solo sistema economico marginalizzando così il più profondo interesse culturale, ambientale e sociale che è alla base di una qualificazione degli insediamenti.
Partiamo dall’inizio. Le ferrovie dello Stato sono un soggetto pubblico a cui in passato è stato affidato il compito di creare, implementare e gestire la rete e il trasporto su rotaie. A un certo punto, con una scelta aziendale precisa e perseguita coerentemente negli anni, le Ferrovie si sono disinteressate al trasporto merci (che è molto più basso in Italia che in gran parte dei Paesi europei) e si sono concentrate sul trasporto passeggeri privilegiando alcune e più trafficate linee.
Questo fatto, unito all’evoluzione delle tecnologie, ha fatto sì che molti magazzini, molte aree di stoccaggio, dei materiali e dei treni merci, molte aree di manutenzione e di riparazione e molte aree connesse al funzionamento delle stazioni passeggeri e merci siano state abbandonate. Allora la prima domanda che ci si pone è: le aree, essendo state destinate alla mobilità su ferro e sapendo quanto tale mobilità sia meno inquinante di quella su gomma, al di là delle scelte dell’”azienda ferrovie”, possono rappresentare una potenzialità per la mobilità merci su ferro? Possono essere utilizzate per supportare i viaggi di piccola media percorrenza? Potremmo investire su esse per praticare sistemi di mobilità più consone, ad esempio, alla soluzione dei problemi climatici che ci attanagliano? In sintesi possono essere in qualche maniera collegate alla mobilità delle persone e delle merci (interscambio o altro), ragione prima della loro destinazione d’uso?
Può essere di sì o può essere di no. Se fosse sì, forse si potrebbe riflettere e, al di là della necessità di pareggio di bilancio di una azienda, trovare altre soluzioni. Se fosse no, perché il futuro di queste aree dovrebbe essere di interesse delle Ferrovie che hanno come obiettivo non la speculazione immobiliare ma il trasporto pubblico?
Le Ferrovie che non servono per la mobilità dovrebbero essere restituite alla comunità, avendo loro avuto una concessione finalizzata a un uso specifico molto lontano dagli interessi specifici di una società come Sistemi Urbani (gruppo Fs) a cui è demandato il compito di fare fruttare tali aree.
Con un’impostazione così limitata i risultati non possono che essere asserviti a finalità immobiliari estranee all’interesse comune come sono stati i grattacieli a Porta Nuova a Milano o la stazione Tiburtina a Roma, interventi pesanti che hanno in un caso ridefinito il paesaggio urbano della città e nell’altro prodotto altre cubature inutilizzate, lontani dalle esigenze dei cittadini e dai caratteri dei luoghi (e ambedue oggi per gran parte di proprietà di banche). Ma è questo il prezzo che bisogna pagare per non occupare altro suolo? O forse sarebbe più interessante verificare l’esistenza diinteressi comuni per quelle aree, aprendo ad una verifica non esclusivamente economica della “riqualificazione”?
«Nell’area protetta dei Monti della Laga che punta al riconoscimento dell’Unesco, scontro tra interessi e modi opposti di pensare la natura». Il manifesto, 19 dicembre 2015
Ma è anche un conflitto tra due modi opposti di pensare la montagna e la salvaguardia della natura, tra chi mette al primo posto la protezione delle specie animali e vegetali perfino a costo di creare zone off limits all’uomo, e chi crede che invece al centro delle politiche ambientaliste debbano comunque essere messe prima le persone, con i loro bisogni e i loro desideri, come sostengono molti operatori del settore ma anche alcuni amanti degli sport d’alta quota.
L’associazione giovanile «GranSassoAnnoZero», per esempio, preme per il finanziamento di progetti che promuovano la «cultura del free-ride in sicurezza, sci alpinismo, snowpark, bikepark, sci da fondo, parapendio, arrampicata, trekking», ecc. Ma anche una pista di downhill può cozzare contro i vincoli di una zona Sic.
È una diatriba che si ripete da anni e che divide tante comunità montane, dalle Alpi alla Sicilia, a Livigno come sui Colli Berici, nel Parco del Pollino come in Abruzzo. Non solo a L’Aquila, dunque, dove comunque la battaglia, almeno per il momento, è stata vinta dagli ambientalisti, dall’Ente parco e dal gruppo consiliare di Rifondazione comunista perché a bocciare il progetto comunale di costruzione di una nuova seggiovia in località le Fontari - prima opera di un Piano d’Area più ampio che prevede in futuro impianti di risalita à gogo per un costo complessivo di circa 40 milioni di euro - è arrivato all’inizio di dicembre il no del Comitato regionale per la Valutazione di impatto ambientale. Il nuovo tracciato, che è lungo il doppio di quello che si vorrebbe sostituire e finisce in una delle zone tutelate, è stato giudicato «insostenibile» nell’impatto con un territorio annoverato tra i bacini di maggiore biodiversità d’Europa.
Ma la bocciatura era nell’aria e la petizione lanciata su AVAAZ.org dal consigliere Prc Enrico Perilli che, al contrario del comitato «#SaveGranSasso», chiede di salvare le zone Sic e Zps e propone piuttosto di «puntare sul turismo sostenibile» per rilanciare l’economia locale, ha raggiunto ormai la quota di 10 mila firme. Tutto questo, aggiunto alla minaccia del Prc di uscire dalla giunta di Massimo Cialente, ha convinto i «pro» a trattare con i «contro».
L’accordo raggiunto, con la mediazione del vicepresidente della Regione Giovanni Lolli, prevede innanzitutto l’impegno del centrosinistra a mantenere immutati i confini del parco e dei suoi vincoli, con buona pace dei «falchi no Sic». Comune e Regione finanzieranno inoltre, con una parte dei fondi destinati alla ricostruzione post terremoto, una serie di interventi di rinaturalizzazione del territorio e di promozione di una vera cultura montana nella comunità aquilana. Dove, a dire il vero, colate di cemento e mega opere sono quasi sempre state, nell’accezione comune, sinonimo di sviluppo.
E così, al posto di impianti di risalita inutili (quelli esistenti funzionano al massimo 40 giorni l’anno e nel Piano d’area sono previsti alcuni che dovrebbero arrivare solo a quota 1.400 metri. Ma anche in Trentino, se non fosse per gli aiuti regionali, molti impianti avrebbero già chiuso per fallimento) si è deciso di ristrutturare i rifugi ad alta quota e quelli pastorali abbandonati, ammodernare le strutture turistiche esistenti, smantellare i vecchi impianti in disuso, realizzare e sistemare una rete articolata di sentieri per escursioni giornaliere e trekking di lunga durata, anche su terreno innevato.
Per un piano d’area molto più ambizioso di quello supportato dai maestri di sci locali: far riconoscere dall’Unesco il Gran Sasso come Patrimonio mondiale dell’umanità.
Truffa alla democrazia, onestà, buonsenso e patrimonio comune. «La legge di stabilità torna ad autorizzare le perforazioni, scavalcando i quesiti referendari con aggiunte e abrogazioni subdole». Il manifesto, 18 dicembre 2015
«Un autentico inganno. Gli emendamenti presentati dal governo alla legge di Stabilità 2016 ricalcano solo apparentemente i quesiti referendari. Essi, tra abrogazioni e aggiunte normative, mimetizzano e mascherano, in modo subdolo, il rilancio delle attività petrolifere in terraferma e in mare e persino entro le 12 miglia dalla costa». Il movimento No triv torna così all’attacco di Renzi, accusato di “barare”. E boccia le modifiche proposte dal suo esecutivo in materia di ricerca ed estrazione del petrolio. «I passaggi normativi del disegno governativo — scrivono in un documento i No triv — sono riassunti nell’abolizione del “Piano delle aree” (strumento di razionalizzazione delle attività oil & gas) e nella previsione di far salvi tutti i procedimenti collegati a “titoli abilitativi già rilasciati” — all’entrata in vigore della legge di Stabilità — “per la durata di vita utile del giacimento”».
Un mix esplosivo, che avrebbe effetti devastanti sul futuro dei mari italiani, dato che «l’obiettivo principale del governo è mantenere in vita e a tempo indeterminato tutti i procedimenti attualmente in corso entro le 12 miglia» dalle spiagge. «La soppressione del “Piano delle aree” — viene aggiunto — costituisce, poi, il vero “cavallo di Troia” del governo»: il coordinamento nazionale No triv lo aveva già evidenziato, formulando per l’occasione alcuni sub-emendamenti volti a correggere le proposte del premier e dei suoi fedelissimi.
Emendamenti che, però, sono stati bocciati alla Camera dei deputati, in commissione Bilancio. «Nulla è negoziabile rispetto all’obiettivo dei quesiti referendari – si fa ancora presente — non lo è il “Piano delle aree”, in quanto mezzo di controllo degli interventi di ricerca ed estrazione degli idrocarburi; non lo è lo sfruttamento a tempo illimitato dei giacimenti; non lo è la possibilità che i procedimenti entro le 12 miglia marine siano solo sospesi e non chiusi definitivamente; non lo è neppure l’istituzione di un doppio regime di titoli (permessi di ricerca e concessioni di coltivazione/titoli concessori unici) che consentono alle società del greggio di scegliere a proprio piacimento, a propria discrezione, in che modo muoversi nel nostro Paese».
«Da rilevare — dichiara il costituzionalista Enzo Di Salvatore, autore dei 6 quesiti del referendum avviato da dieci Regioni — l’assoluta incoerenza del governo. Prima l’ermetica chiusura verso queste problematiche e, dopo il via libera della Cassazione al referendum, il 28 novembre scorso, l’idea di aprire una trattativa sulle norme oggetto della consultazione popolare. Quindi la solita furbata… Ma il referendum non è nella disponibilità di alcuno».
Il coordinamento nazionale No triv evidenzia: «Delle due l’una: o con le modifiche si accolgono tutti i quesiti referendari senza tradirne lo spirito o si va alle urne. Nessuno è autorizzato a mediare rispetto a questa alternativa, cercando un punto di incontro e accontentando, con un compromesso al ribasso, le Regioni e i loro delegati, attraverso la facile promessa di un maggiore loro coinvolgimento nelle scelte che in materia lo Stato effettuerà d’ora in avanti. Una promessa del tutto evanescente, destinata ad essere tradita dopo le elezioni amministrative del prossimo anno e dopo il referendum sulla revisione costituzionale, che come noto, riconduce nelle mani esclusive dello Stato ogni scelta in materia di energia. Gli emendamenti del governo costituiscono, quindi, un autentico atto di sabotaggio e uno schiaffo alla democrazia. Per questo chiediamo agli amministratori pubblici e ai cittadini che hanno a cuore il proprio territorio di percorrere assieme a noi e fino in fondo la strada referendaria». Una sfida rilanciata con determinazione, per impedire che molte aree dello Stivale vengano ulteriormente inquinate e impoverite.
L’Italia, rinomata per la bellezza del proprio paesaggio, vive il paradosso di essere prima al mondo per biodiversità, con 7 mila differenti specie vegetali e 58 mila animali, con 140 diversi tipi di grano e 1.800 vigneti spontanei e di racchiudere, al contempo, attività impattanti che scaricano costi sui bilanci di imprese e famiglie per oltre 48 miliardi di euro l’anno (oltre il 3% del Pil).
Ogni giorno in ogni città d’Italia avvengono operazioni immobiliari sul patrimonio pubblico che costituiscono rapine ai danni dei cittadini italiani. Mi viene in mente …(continua la lettura)
Ogni giorno in ogni città d’Italia avvengono operazioni immobiliari sul patrimonio pubblico che costituiscono rapine ai danni dei cittadini italiani. Mi viene in mente in mente una filastrocca degli anni 60:
Prima classe, il passeggero è un miliardario forestiero.
Italia bella, io comperare. Quanti dollari costare?
Ma il ferroviere, pronto e cortese:
Noi non vendiamo il nostro Paese
Di questa pattuglia fa parte Lorenzo Salvia che, con il suo libro Resort Italia, sottotitolo Come diventare il villaggio turistico del mondo e uscire dalla crisi, pubblicato da Marsilio, casa editrice della famiglia De Michelis, intende spiegarci che “il turismo è la salvezza dell’Italia”.
A questo scopo, dalla prima all’ultima riga, ci martella con affermazioni perentorie: «dobbiamo renderci conto che la nuova divisione globale del lavoro impone che ogni paese si debba specializzare in qualcosa, per noi è il turismo» … «il turismo è l’unica industria italiana a prova di Cina e delocalizzazione»… «il turismo è il migliore degli export possibili». In realtà, vari episodi, come la recente cessione da parte della Cassa Depositi e Prestiti degli edifici della Zecca e del Poligrafico di Roma ad investitori cinesi, dimostrerebbero il contrario, ma Salvia non ha dubbi sulla validità della lista di quelle che considera le «occasioni perse» e delle proposte per il futuro.
Tra gli errori del passato, segnala il «non aver fatto Disneyland a Bagnoli, non aver trasformato la Sardegna nei Caraibi d’Europa, non aver costruito sufficienti campi da golf in Sicilia». Ogni singola vicenda viene liquidata con poche battute. Per quanto riguarda la Sicilia, ad esempio, Salvia si/ci chiede «è più intelligente, verrebbe da dire di sinistra, aprire in Sicilia un campo da golf che attirerebbe turisti americani e cinesi oppure tenere in piedi per anni la cassa integrazione della Fiat di Termini Imerese?». Oltre che il discutibile modo di presentare le due scelte, come fossero alternative, colpisce il disinteresse dell’autore per il fatto che un campo da golf consuma in media 2000 metri cubi d’acqua a giorno, l’equivalente di un paese di 8000 persone.
Molte altre perle di saggezza vengono sciorinate nel volume, inclusa l’idea di portare l’alta velocità in Sicilia, dopo di che, «si potrebbe ripensare al ponte sullo stretto come infrastruttura strategica e come attrazione turistica». Il capitolo dedicato a Roma è incentrato sull’idea di trasformare il lungo Tevere in uno «waterfront del divertimento», costruire un collegamento via acqua con le spiagge, consentendo così di «cominciare a prendere il sole appena saliti a bordo», e creare una Disneyland ispirata all’antica Roma a Ostia. Sembra di rivedere la scena del film Suburra nella quale il boss Samurai annuncia a Numero 8 che Ostia diventerà il waterfront di Roma. «Pensa», gli dice, «prova a pensare. Sforzati di elevarti dal marciapiede». Ma Numero 8 non capisce. «Uoter de che?» chiede e Samurai deve spiegargli: «casinò, alberghi, ristoranti, palestre, yacht, negozi. Questo significa waterfront, sottocorticale che non sei altro».
Forse “sottocorticali” siamo anche noi che non abbiamo ancora capito che dobbiamo «riconvertire al turismo tutta la nostra economia dalla scuola agli uffici pubblici, dagli aeroporti al cinema». Nessun settore e nessuna attività, infatti, sfugge all’afflato riformatore di Salvia, la cui visione della scuola e della sua utilità sembra uscire dalla bocca del ministro Poletti/Crozza. Così, per darci la prova dello scollamento tra istruzione e mondo del lavoro, ci informa che il mestiere che ha avuto l’aumento maggiore di addetti è «l’istruttore di ginnastica da spiaggia, il cui numero dal 2008 a oggi è cresciuto di 3360 volte».
Il libro è stato recensito con entusiasmo sulla stampa nazionale. Tra gli altri, Gian Antonio Stella gli ha dedicato un pezzo dal titolo “Bell’Italia delle occasioni perse”. A tratti è una lettura godibile. Purtroppo, però, molte di quelle che sembrano battute di spirito riproducono esattamente i programmi e le azioni dei governi nazionali e delle amministrazioni locali che fanno o procacciano affari grazie al Resort Italia, programmi e azioni che possono far rimpiangere perfino il gerarca fascista Achille Starace quando dichiarava «non permetteremo che facciate dell’Italia un paese di albergatori e camerieri».
Anche a Venezia la CDP continua l'acquisizione di immobili per "valorizzare"il patrimonio pubblico per farne in gran parte alberghi. E' improbabile l'interesse pubblico di queste speculazioni rese possibili con il risparmio postale di milioni di italiani. La Nuova Venezia, 7 dicembre 2015 (m.p.r.)
Continua in città lo «shopping» immobiliare di Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) in città e questa volta con un «tris» di edifici comunali che saranno ceduti entro l’anno. La Cdp Investimenti è infatti tornata alla carica per Palazzo Diedo e Palazzo Gradenigo, per i quali aveva già trattato con il commissario straordinario Vittorio Zappalorto, che aveva ritenuto l’offerta complessiva di 16 milioni e 900 mila euro per i due palazzi troppo bassa, rinunciando alla vendita. Ora l’offerta per i due palazzi è salita a 20 milioni di euro complessivi e il Comune è pronto ad accettare, tanto da aver già inserito i due immobili nel piano delle alienazioni approvato il 19 novembre.
Fa un grande effetto leggere la lista di beni pubblici che stanno per essere venduti. A Firenze come in tante altre città. Perunaltracitta.org, 28 novembre 2015
Se si escludono il tunnel TAV, la costruzione del nuovo aeroporto che punta dritto sulla cupola del Brunelleschi, il metrò sotto piazza del Duomo, i parcheggi interrati nel centro antico, la principale emergenza fiorentina resta, senza ombra di dubbio, la mercificazione della città antica attuata tramite la svendita del patrimonio edilizio pubblico e l’abdicazione al controllo della trasformazione di quello privato. Grazie anche a un piano strutturale deprivato a bella posta di una qualsiasi parvenza di significato pianificatorio.
Abbiamo già avuto modo di commentare l’inqualificabile attività del sindaco-agente del real estate quando il “Renzi in sedicesimo” batteva le fiere internazionali della speculazione finanziario-immobiliare per promuovere la vendita di edifici cittadini pubblici e privati. Attività nelle quali – come prevede lo “Sblocca Italia” (art. 26, comma 8) che trasforma gli enti pubblici in agenti immobiliari – il Comune avrà il suo tornaconto economico in percentuale sul prezzo di vendita degli immobili.
Dei 59 immobili elencati nella brochure propagandistica del sindaco, alcuni sono stati venduti. Cominciamo da qui.
Il Teatro Comunale dal luglio 2015 è di proprietà della Nikila Invest che ha acquistato il teatro per circa 25 milioni dalla Cassa depositi e prestiti Spa, la quale a sua volta aveva rilevato l’edificio da Palazzo Vecchio per 23 milioni di euro (molti meno rispetto ai 44,5 milioni di valutazione del 2009): nel 2013, il provvidenziale acquisto, avvenuto poche ore prima della chiusura dei bilanci comunali, permise a Renzi di non sforare il patto di stabilità. Al posto del teatro, 120 appartamenti di lusso («stile Fifth Avenue») a 8.000 euro al mq (di cui sessanta «residenze “servite”, con maggiordomo e assistenza stile hotel»). Il progetto è di Marco Casamonti, architetto dal problematico rapporto con la Magistratura (attualmente condannato in appello nell’ambito dell’inchiesta su Castello).
Il palazzo Vivarelli Colonna (4.400 mq), sede dell’Assessorato alla cultura, ha la stessa sorte. La Cassa depositi e prestiti versa 12 milioni di euro nelle casse di Nardella, «che – scrive il Corriere – potrà così contare su una solida stampella per far tornare il bilancio falcidiato dai tagli statali». La CDP sarebbe ora in trattativa per la vendita ad una società che ha l’obiettivo di realizzarvi un hotel di lusso. Tanto per cambiare.
Mentre questo scritto va in “stampa”, apprendiamo che anche i 2.500 mq di palazzo Demidoff, in via San Niccolò, sono stati venduti dall’Azienda Pubblica di Servizi Montedomini, con un ribasso che si aggira intorno al 40%. L’acquirente, Amarante, ne prevede la «commercializzazione – in vendita o affitto – di altissimo livello».
Tra gli edifici in cerca di un nuovo padrone spicca, per la qualità e la sua vicinanza con Palazzo Vecchio, il convento dei Filippini in piazza San Firenze: l’ ex Tribunale è ceduto per 29 anni – come stabilito da una delibera di giunta del 6 luglio 2015 – alla Fondazione Franco Zeffirelli per un “Centro internazionale di formazione per le arti e dello spettacolo”, «scuola di eccellenza aperta agli studenti di tutto il mondo».
La villa di Rusciano, 5.400 mq, sull’arco collinare a sud della città, oggi sede dell’Assessorato all’ambiente, è una villa rinascimentale brunelleschiana. Il complesso di Rusciano fu donato al Comune nel 1977 con vincolo di assistenza ai giovani, che il Comune, con eccessiva disinvoltura, ha stravolto in turistico-ricettivo. Per l’inosservanza del vincolo, il Cantiere Beni Comuni Q3 ha presentato un esposto alla Magistratura (il parco invece resta pubblico anche grazie alle osservazioni di perUnaltracittà al Ru).
La Manifattura tabacchi (88.687 mq), proprietà Fintecna e CDP, è in vendita con annessa variante adottata nel 2014 malgrado l’opposizione del comitato per la sua tutela. La variante prevede un paio di torri alte 53 metri, in deroga al regolamento edilizio. Merita ricordare in proposito un disarmante processo partecipativo che lasciava alla cittadinanza la scelta tra due torri da 23 piani o tre torri da 17 piani. La variante prevede 700 appartamenti. Il teatro Puccini, attivo sull'area, diventa centro congressi.
Il cosiddetto Palazzo del sonno: 21.000 mq di fronte al polo fieristico della Fortezza, oggi avviato alla ristrutturazione, anche cementizia (e qui si aprirebbe un capitolo che rimandiamo a un’altra occasione). Si tratta di un boccone prelibato per “The Student Hotel”, giovane società olandese che avrebbe inventato l’«ospitalità ibrida»: compresenza di albergo e di residenze per studenti. L’acquisizione dell’edificio sarebbe stata realizzata in collaborazione con Invest in Tuscany, il sito della Regione «che aiuta a investire in Toscana». Architetto: Casamonti.
Ex caserma in costa San Giorgio: dal “Corriere fiorentino” del 5 settembre 2015: «appena arriverà il nulla osta dalla soprintendenza partiranno i cantieri per realizzare un hotel a 5 stelle con 6o camere, centro benessere e un grande parcheggio per gli ospiti. Alfredo Lowenstein, imprenditore americano di origine argentina, vi investirà 40 milioni». Il Lowenstein lo conosciamo già come investitore a Cafaggiòlo. Si servirebbe dell’architetto Casamonti.
Anche il Monte dei Pegni di via Palazzuolo si trasforma in hotel a cinque stelle da 100 camere, grazie a pregresse manovre della giunta Domenici e malgrado gli esposti in Procura di perUnaltracittà. L’immobile da 10.000 metri quadrati, è ora in mano a una società del colosso alberghiero Accor (lo stesso che ha appena aperto l’hotel nell’ex cinema Apollo di via Nazionale). Come indennizzo della concessione del cambio di destinazione d’uso, il Comune riceve 900.000 euro di “compensazione”: la stessa cifra la ricava dall’apertura del negozio di computer in piazza della Repubblica. Si tratta, afferma la stampa, della seconda volta che il Comune «monetizza al massimo la svolta resa possibile grazie alle nuove norme» (cfr. l’art. 25.2.4 delle NTA del RU e la delibera della Giunta comunale n. 127 del 10/05/2013 “Opere di urbanizzazione realizzate dai privati a scomputo degli oneri. Aggiornamento dei criteri e nuovi indirizzi per la stesura di una bozza di convenzione”).
Ci troviamo insomma di fronte alla monetizzazione del cambio di destinazione d’uso (ovvero degli standard urbanistici): tutto può farsi, basta pagare.
Tra le aree in vendita, anche luoghi di lunghe vertenze come il Panificio militare e il Meccanotessile, oggi entrambi “impantanati”: non se conoscono pubblicamente gli sviluppi.
Nel solo centro antico, il patrimonio immobiliare in via di trasformazione è immenso; patrimonio che, osso della società civile e speranza per la sua rifondazione civile, è costituito da edifici i quali anziché essere resi «socialmente disponibili», sono destinati o alla speculazione tout court o ad usi esclusivi pur pubblici (tra cui l’ennesimo museo etc.). Tra i maggiori, in vendita o di imminente passaggio tra enti (ad es. dal Ministero della difesa al Comune), bisogna ricordare almeno:
- l’ex Borsa merci in via Por Santa Maria e l’ex cinema Capitol alla loggia del Grano, che la Camera di Commercio intende vendere con base d’offerta, rispettivamente: 60 e 18,7 milioni di euro con vantaggi particolari nel caso di doppio acquisto... (cfr. “Corriere fiorentino”, 13 novembre 2015);
- in vendita pure l’intero complesso delle Murate (23.500 mq);
- le poste di Michelucci (11.700 mq);
- la Cassa di Risparmio (19.000 mq) all’ombra della cupola del Brunelleschi, valorizzati dalla previsione di un parcheggio interrato (cui si oppone il comitato per Piazza Brunelleschi...). Il complesso è stato comprato dal Tom Barrack – noto per l’investimento in Costa Smeralda – a capo della Colony Capital (Colony Capital: il nome non lascia spazio a dubbi né sulle finalità né sui metodi). Barrack trasformerà l’isolato in nome di: «lusso al posto del trading»;
- Sant’Orsola, di proprietà della Provincia (17.500 mq);
- Palazzo Portinari ex Banca toscana sul Corso (13.000 mq per 44 appartamenti e 47 posti auto interrati);
- la Scuola allievi sottoufficiali nel convento di Santa Maria Novella;
- la Corte d’assise in via Cavour, progettata da Bernardo Buontalenti;
- il Distretto militare nel convento di Santo Spirito;
- l’ex Ospedale militare in via San Gallo (16.200 mq);
- il Tribunale per i minori in via della Scala;
- l’Accademia di Sanità militare in via Tripoli;
- la Scuola di Sanità militare nell’ex convento del Maglio;
- il convento di Monte Oliveto sulla collina di Bellosguardo;
- il Nuovo Conventino;
- la Caserma Cavalli in piazza del Carmine;
- la Dogana in via Valfonda;
- la Caserma Baldissera;
- la Rotonda di Brunelleschi e il contiguo convento;
- il Teatro Nazionale e il Supercinema in via de’ Cerchi-Cimatori;
- il Teatro Niccolini in via Ricasoli;
- il cinema Eolo (per il quale il si ventila l’ipotesi della trasformazione in parcheggio-silos, in pieno centro);
- l’ospedale di San Bonifazio, sede della Questura, messo all’asta da Nardella, ora in veste di presidente della Città metropolitana.
Ultima arrivata in ordine di tempo, la Leopolda: 7,2 milioni di euro, superficie commerciale di 5.200 mq, emblema del nuovo corso politico, ma ora anche del vecchio sistema per far cassa.
L’articolo è la (quasi fedele) trascrizione dell’intervento all’assemblea della ReTe dei comitati per difesa del territorio tenutasi a Firenze il 14 novembre 2015. Ringrazio Maurizio Da Re per l’indispensabile collaborazione
Le strategie politiche dell'estrema destra italiana, per raccogliere consenso su temi tradizionali come la sicurezza fai da te, in fondo si legano perfettamente con l'idea di città reazionaria e privatizzata tanto in voga nel mondo. Today, 30 novembre 2015
Sono anche, come ci raccontano infiniti studi internazionali, i luoghi simbolo e sostanza dei partiti di destra e del loro consenso: il culto del privato e della famiglia, della proprietà, il lieve disprezzo verso tutto ciò che è pubblico e collettivo, l'identità relativamente chiusa sul locale, sulla fascia economica, sulla conoscenza diretta. Ed è, anche, questo sprezzo di tutto ciò che è pubblico e collettivo, la base fondante della città terzo millennio della destra, la sua urbanistica fatta di enormi progetti di trasformazione privati, concepiti in fondo col medesimo schema del quartiere di villette, salvo metterci delle torri residenziali di lusso progettate da qualche archistar, e un'opera d'arte postmoderna invece della madonnina nella sua grotta di cemento. Nelle finte piazze privatizzate di questi quartieri, invece del giustiziere suburbano fai-da-te, ci saranno magari (come già ci raccontano attente osservatrici come Anna Minton o Saskia Sassen) le guardie armate pagate dal condominio, o dall'associazione commercianti. Che magari saranno un po' più professionali nello sparare a vista, o magari nel non sparare affatto perché prevenire è meglio che curare. Ma il trasloco dell'ambiente suburbano in città, a costruirsi uno zoccolo duro di consenso di destra ed espellere il resto, usa queste strategie.
Roma. Il governo mette in vendita il 40% delle Ferrovie: la privatizzazione, che segue quella di Poste e precede quella di Enav, è stata decisa ieri dal consiglio dei ministri, che ha varato un Dpcm ora atteso alle camere. Il provvedimento è stato illustrato dal ministro dei Trasporti Graziano Delrio, e ha subito suscitato le preoccupazioni dei sindacati e dei partiti di opposizione, con alcune perplessità espresse anche da componenti del Pd. Non è ancora pienamente chiaro - nonostante le rassicurazioni offerte da Delrio - il destino di Rfi (la rete), che il governo punta comunque a scorporare (e quindi almeno in parte a quotare?), mentre l’indebolimento del pubblico fa temere per i già disastratissimi servizi pendolari.
Come osserva uno studio internazionale: le spinte neoliberiste al ridimensionamento delle libertà collettive in nome della sicurezza sono assurde e pericolose, già di per sé significano solo sostituire una violenza all'altra. La Città Conquistatrice, 19 novembre 2015
Se si guardano certi quadri urbani, anche piuttosto famosi, di epoca pre-industriale, si notano con più o meno evidenza comparire nell'immancabile striscia di campagna o foresta fuori le mura alcune presenze inquietanti. A volte in forma di vaghe ombre o semplici nubi minacciose all'orizzonte, a volte coi tratti più espliciti di una scura sinistra sagoma a fare capolino da un masso o da un albero, sono parte della natura nemica chiusa fuori dalle fortificazioni, reale o immaginaria, belva o poltergeist che sia. Da una certa prospettiva, la vera differenza di questo ambiente urbano rispetto al castello o alla corte rurale, sta nell'articolazione e ampiezza dei suoi spazi pubblici e collettivi, ben più ricchi e aperti delle stanze illuminate dal camino, o del falò sull'aia, attorno a cui si radunano le popolazioni rurali per scacciare gli incubi della notte. Ma come ci insegnano sia certe travolgenti fiction gotiche, che i serissimi ma egualmente affascinanti racconti di storici alla Jacques Le Goff, anche dentro le mura urbane culla di civismo cultura tolleranza, fucina di lumi e luminarie fisiche e mentali, non mancano certo in agguato oscure presenze, infiltrate dalla selva o di produzione propria. Ancora qui, la grossa differenza con la campagna sta nel metodo di lotta basato sull'assimilazione anziché sull'esclusione.
Il bar di Guerre Stellari
La città è il luogo della differenza, dell'individuo che pur confuso tra la folla non è mai folla, anzi la sua individualità ne viene enfatizzata, non sminuita. Differenza a volte significa anche devianza in senso antisociale, però soltanto in casi estremi ha davvero senso ricorrere alla repressione: il più delle volte basta lo stesso ambiente urbano a digerire e rendere assimilabile qualunque comportamento, traducendolo in conflitto, innovazione, progresso. Non a caso uno dei maggiori sociologi urbani del '900, William Whyte, nei suoi primissimi studi sullo scontro fra etica protestante individualista, ed etica sociale tendenzialmente massificante, individuava certe caratteristiche spaziali come molto favorevoli all'una e di ostacolo all'altra. E in ricerche successive sullo spazio pubblico continuava a sottolineare quanto una adeguata disponibilità di luoghi di incontro e intreccio di vari soggetti e comportamenti fosse la soluzione generalizzata alla sicurezza, garantita anche per la quota restante da quelli che Jane Jacobs (in prima battuta sua creatura) chiamava «occhi sulla strada». Quindi ciò su cui chiunque si avvicini al problema in buona fede concorda, è che l'antidoto alla criminalità, ai portati peggiori della devianza, all'insicurezza reale (su quella percepita lasciamo sfogare ansiosi e destrorsi), è più spazio pubblico, non meno spazio pubblico.
Quantità, qualità, spazio, tempo
Quanto spazio pubblico non si calcola certo solo al metro quadro, anche se come insegnano certe subdole politiche conservatrici il criterio di un tanto al chilo non va mai abbandonato. Quindi più parchi, più marciapiedi, piazze, slarghi accessibili, portici, atrii, arretramenti di edifici eccetera. Ma anche più varietà e qualità, mescolanza di usi, magari un po' di confusione che non fa male anzi aiuta. Poi cala la sera, e tutto cambia, rispuntano le ombre …. No che non deve essere così! Ce lo ricorda quella classicissima canzone di Petula Clark, Downtown, quando dice: «Just listen to the music of the traffic in the city, and linger on the sidewalks where the neon signs are pretty». Una scena che si svolge evidentemente di notte, in un ambiente che forse oggi chiameremmo di movida, o su una strada dello shopping, ma può anche essere un giardino, il piazzale della stazione: vogliamo tutti che la città sia efficiente, deve esserlo, è uno dei suoi ruoli, ma chi ci sta e ci va vuole, pretende, qualcosa di diverso, vagamente deviante, trasgressivo (si fa per dire), molto poco fantozziano. Oggi certo economicismo contabile moralista ci vorrebbe tutti a casa a guardare il telegiornale appena finisce l'orario di lavoro da travet: non è una violenza peggiore di un'aggressione in un vicolo buio? Reagiamo, rivendichiamo il diritto alla città naturalmente senza trasformarla in un pentolone ribollente, a tutto c'è un limite, ma non facciamolo fissare al moralizzatore di passaggio.
Riferimenti:
Dobbiamo augurarci che si abolisca la penosa simbiosi di cultura e turismo, che produce iniziative deplorevoli e rischiose per l’ambiente (...) perché in Italia il campo è invaso dal turismo di rapina»: scrivendo nel 1979, Elena Croce non poteva prevedere che nel 2013 il Turismo sarebbe confluito nel ministero dei Beni culturali. Eppure, continua, «questi danni immensi sono riparabili con una pianificazione appena razionale, svezzando i turisti dagli orrendi villaggi sulla spiaggia e da altri abusi e indecenze» (La lunga guerra per l’ambiente, che sarà ora riedito da Scuola di Pitagora).
«Abbiamo più che raddoppiato le zone coperte dal cemento e dall’asfalto, sfregiando la ricchezza del nostro paesaggio con tanti piccoli ecomostri. E ora il silenzio-assenso introdotto dalla legge Madia apre la strada a nuovi possibili scempi». L'Espresso, 22 ottobre 2015
Italia lenta, Italia iperveloce
metri. Come dire in poche righe i 62 minuti tra le due città? Sfrecciano campi, filari, pioppeti, frammenti di bosco. Silos, cabine Enel, cascine, magazzini, campanili. L’Ikea a Piacenza, blu ed enorme. E poi Cucine Scic, Fiera di Parma, Barilla. Barriere acustiche a tratti. A Reggio il ponte bianco e la stazione Tav di Calatrava il futurista. Ancora cascine, qualcuna in abbandono. Fienili e rotoballe. Una ciminiera azzurra. Frutteti. Vigneti. Campi coperti di pannelli solari. Poi muri sporchi, scritte “Bologna Bombers” e “Vaffankulo”, ed ecco infine: la città.
La questione aperta dalla truffa emissioni della Volkswagen, riporta in primo piano i problemi della mobilità sostenibile, e degli spazi entro cui è possibile organizzare nuovi stili di vita e lavoro. A questo primo aspetto se ne somma un altro apparentemente indipendente, quando con la recente presentazione del cosiddetto iPadPro, la Apple di Cupertino riprova l'ormai usuale strategia di largo respiro inaugurata dal fondatore Steve Jobs: non inseguire i bisogni consapevoli del consumatore, ma in una specie di logica fantascientifica al contrario inventarne di nuovi sulla base di scenari futuribili. Nel caso specifico del nuovo trabiccolo, questi scenari futuribili altro non sono che certi sviluppi sociologici e urbani in parte già delineati negli studi di Richard Florida con la sua «creative class», soprattutto negli sviluppi pratici così come si iniziano a intravedere nei tanti quartieri che amministrazioni in cerca di spunti per le riqualificazioni promuovono ormai a man bassa. Per adesso prevale il modello capitalista-esclusivo, ovvero ciò che offre il convento del puro mercato: le aree dismesse o degradate sono invase da costruttori archistar e immobiliaristi, schizzano in alto i valori delle case, ma in cambio si realizzano zone a funzioni miste qualificate, e soprattutto molto post-moderne nella sostanza: appartamenti relativamente piccoli destinati a giovani o a stili di vita giovanili, alta densità di innovazioni tecnologiche a partire dal wireless ad alta capacità, forte mescolanza degli spazi residenziali, commerciali, per il tempo libero e il lavoro.
Nella logica di puro mercato con cui vengono al momento gestite oggi la maggior parte delle operazioni (per esempio promosse dalla vecchia amministrazione Bloomberg a New York), accade che essendo la «creative class» solo in minima parte composta da veri giovani prodigio, che guadagnano come un pascià prima dei trent'anni, si ricorra all'espediente del microappartamento, 20-30 metri quadrati a cui adattarsi, ma economicamente accessibili, sapendo però che l'offerta vera urbana si arricchisce degli spazi condivisi e pubblici del quartiere, in una logica ben diversa dal suburbio privatizzato delle villette. È qui che si dispiega la potenza ergonomica dell'iPadPro, fortissimo quanto a portabilità per funzioni eminentemente lavorative, inaccessibili allo smartphone e anche ai tablet attuali. Ma appunto a questa estrema portabilità deve corrispondere una ampia e diffusa disponibilità di spazi pubblici attrezzati a svolgere il compito. Cosa vuol dire spazi pubblici attrezzati? Ecco, qui si intrecciano in modo interessante molte questioni del tutto aperte nel dibattito internazionale e locale sulla cosiddetta «smart city», che ci fanno capire quanto lontani dalla realtà possano essere certi nostri amministratori convinti che basti l'approccio tecnologico a risolvere tutto.
Recentemente, per questioni del tutto personali legate alla connettività e alle tariffe degli operatori mobili (a cui ci obbliga tra l'altro la scarsa disponibilità sul territorio di reti wireless ad accesso gratuito), ho provato a sperimentare brevemente di persona il divario, attuale e potenziale, fra gli scenari socio-spaziali delineati dalla Apple col suo nuovo prodotto, e lo stato dell'arte di una città relativamente moderna e internazionale come Milano, che da qualche anno ha iniziato a dotarsi di una propria rete wireless. Quale rapporto c'è, in altre parole, fra lo spazio fisico dei quartieri e la teorica disponibilità tecnica della connessione? Spiace dire che pare non ne esista nessuno, se non quello del tutto casuale determinato dalla collocazione degli impianti «dove c'è la gente», ovvero ogni tanto si, ogni tanto no, vicino o dentro a qualche spazio pubblico. La cui qualità però sembra del tutto indipendente e slegata rispetto alla nuova infrastruttura, praticamente come se i distributori di benzina fossero lontani dalle strade, difficili da raggiungere con vari ghirigori, e poi le pompe fossero piazzate qui e là senza un piazzale, il pagamento fosse laborioso salvo buona volontà del gestore, eccetera eccetera.
Lo testimonia un rapido sopralluogo sia nelle zone dei quartieri servite dalla rete comunale, sia in quei vagheggiati «poli di eccellenza urbana» delle cosiddette Isole Digitali varate qualche anno fa con un certo clamore mediatico, e di cui era forse lecito aspettarsi qualche evoluzione oltre il puro simbolo di efficienza. Immaginiamoci un rappresentante di questa classe creativa di massa, ovvero una evoluzione dei tanti che già oggi si improvvisano postazioni di lavoro dagli abitacoli di auto o furgoni, alla ricerca di un ufficio pop-up nella metropoli. Scoprirebbe che lavorare col suo iPadPro o modello analogo della concorrenza, nelle strade e nelle piazze così come sono non-attrezzate oggi, è pressoché impossibile. Indipendentemente dalla qualità tecnica della connessione, e anche indipendentemente dalla sua diffusa disponibilità, anche là dove il collegamento risulta facile, immediato, stabile, è l'ambiente urbano a presentare le più vistose carenze diciamo così ergonomiche: mancano posti a sedere (o mancano del tutto, o sono così pochi da non andare oltre il simbolico), non c'è alcuna cura nel definire spazi dotati di qualche carattere o intimità, schermati dal traffico, dal rumore, dall'inquinamento nel senso superficiale di fumi fastidiosi, e via dicendo. In altre parole, la famosa immagine del giovane professionista che guadagna digitando dal bordo della piscina resta solo una caricatura pubblicitaria, se proviamo a proiettare l'idea sul territorio e la società locale. Chi lavora sul serio in trasferta, è ancora costretto a cercarsi il classico rifugio dell'ufficio, per quanto improvvisato in una stanza d'albergo, in un atrio commerciale, o nell'anticamera di qualche posto dove ha un appuntamento. Campi nomadi digitali, frutto di una specie di post-urbanistica del disprezzo, o più probabilmente di pura trascuratezza, e mancata collaborazione tra settori municipali. Speriamo che se ne accorgano, prima o poi: il post-industriale non è solo chiacchiere e distintivo.
Su La Città Conquistatrice anche un racconto più articolato del rapporto fra spazi metropolitani e nuove professioni: Startupper metropolitani assortiti
La sempiterna «questione periferie», mai seriamente affrontata con strumenti adeguati, produce reazioni spontanee di alcuni abitanti, che si prestano solo a tristi e inutili strumentalizzazioni. Today, blog Città Conquistatrice, 21 settembre 2015
Sarà la vaga eco della questione rifugiati vaganti per l'Eurasia, sarà l'avvicinarsi della prossima scadenza amministrativa in tante situazioni chiave per gli equilibri nazionali, ma pare si stiano moltiplicando le iniziative locali dei soliti mai placati «cittadini per l'ordine». Anche i più placidi e miti candidati e rappresentanti del popolo, più o meno tirati per la giacchetta da comitati o consulenti elettorali, non mancano di scimmiottare pateticamente qualche accenno di muso duro da Ispettore Callaghan, mettendo la solita «sicurezza percepita» in primo piano negli slogan programmatici e nelle dichiarazioni alla stampa. Forse però, la cosa da percepire prima della sicurezza percepita sarebbe la realtà, dai dati statistici sui reati (la quantità, la qualità, la localizzazione) a ciò che davvero inquieta i cittadini dei quartieri nelle loro esperienze quotidiane di fruizione dello spazio urbano. E distinguere così con chiarezza quanto appartiene propriamente alla sfera poliziesco-giudiziaria, da quanto invece riguarda altri interventi, o informazione, o prevenzione o altro. La politica, la società nel suo insieme, gli organi di informazione, proprio quello dovrebbero fare, e invece si intorbidano le acque, a volte per pura trascuratezza.
Un caso recente, piccolo piccolo ma emblematico, è quello di un incidente stradale avvenuto a Milano alcune sere fa. Un'auto accelera al semaforo giallo, una bambina qualche passo più avanti della mamma che aveva già iniziato ad attraversare viene travolta, carambola sul cofano, la macchina sbanda ma sgommando si allontana nella notte. Per la cronaca siamo in piena sindrome da caccia al pirata, e gli articoli successivi si concentreranno sulla cittadinanza (straniera) di tutti i protagonisti, macchine intestate a prestanome, alloggi occupati abusivamente, analisi della polizia scientifica per inchiodare i responsabili. Il pubblico, così come guidato da questa narrazione, guarda orripilato il dito, sentendosi oppresso da incombente pericolo (tutti travolti da un'auto guidata da criminale venuto dallo spazio esterno), ma non vede la luna. Che in questo caso, tornando dalle vertigini iperboliche dei bassifondi urbani in superficie, sta semplicemente nell'idiozia di quel semaforo in cui è avvenuto il misfatto, che non è il primo, né il più grave, e non sarà neppure l'ultimo se continuiamo a guardare altrove, e ad agire solo altrove. Insomma oltre ai poliziotti agli investigatori e ai magistrati ci vorrebbero degli ottimi geometri per risistemare l'incrocio: poi, solo poi ed eventualmente, ragioniamo anche su immigrati, assegnazione di alloggi popolari, permessi di soggiorno. Perché quelle cose in sé con quell'incidente c'entrano poco.
E la stessa cosa poi si può dire con la gran massa delle cose sventolate da ronde e comitati di «cittadini per l'ordine» di solito messi in piedi da qualche politicante per raccogliere consensi di bassa lega, soffiando sul fuoco di paure ataviche vagamente suscitate dal nuovo, da ciò che non si conosce, dall'inusuale, o dal semplice disordine. Perché indubbiamente di disordine e confusione ce ne sono in abbondanza nelle nostre città: dal punto di vista delle forme di convivenza, dell'uso degli spazi collettivi e dei servizi, degli stili di vita e abitudini che confliggono. Ma resta da chiedersi perché mai ad esempio l'orribile degrado indotto dalla cosiddetta «movida» susciti reazioni del tutto diverse, da cose microscopiche come un paio di disgraziati senza casa che parcheggiano un camper nell'angolo del piazzale del mercato, magari stendendo i panni tra un albero e l'altro. Intendiamoci: in entrambi i casi il degrado, nel senso di sottrazione di spazio e tempo all'uso corrente della città da parte degli abitanti, esiste, è innegabile, ma perché i ragazzotti urlanti, i deejay fracassoni, gli ettolitri di birra e montagne di spazzatura non generano la «emergenza sicurezza» di qualche povero sfigato accampato in un angolo? Bisognerebbe chiederlo a quelli delle ronde a caccia di consensi elettorali, che di sicuro non ci risponderebbero se non urlando anche contro di noi. Perché davvero stavolta, per usare una frase fatta: «il problema è un altro». Sono loro, il problema.
p.s. Il consigliere comunale di Milano ed esperto di sicurezza urbana Gabriele Ghezzi, mi scrive rivendicando il copyright del titolo «Una Ronda non fa Primavera», nel suo programma elettorale di qualche anno fa, copyright che riconosco senza alcun problema, per carità. Sul sito La Città Conquistatrice numerosi articoli trattano criticamente il tema della Sicurezza Urbana
Siamo nell’epoca dell’opera d’arte infinitamente riproducibile e fruibile con infiniti supporti tecnici: ha qualche senso che una squallida lobby di speculatori (e decisori analfabeti) voglia compiere l’ennesimo passo verso la privatizzazione di tutto quanto? Corriere della Sera, 4 luglio 2015, postilla (f.b.)
Una monumentale sciocchezza. Come definire, altrimenti, la proposta di vietare la condivisione delle fotografie di celebri edifici e opere d’arte, in nome della protezione del diritto d’autore? È difficile crederci, ma di questo discuterà il Parlamento europeo il 9 luglio, in seduta plenaria. Come si è arrivati a questa delicata follia? Un’eurodeputata tedesca, Julia Reda, chiedeva che la «libertà di panorama» fosse sancita ufficialmente dalla Ue. Ma un eurodeputato francese, Jean-Maria Cavada, ha proposto un emendamento che prevede l’autorizzazione del titolare dei diritti d’autore, in caso di utilizzo commerciale della riproduzione. E i tre gruppi principali (socialisti, popolari, liberali), in commissione, l’hanno sostenuto.
Oggi la «libertà di panorama» esiste in molte parti d’Europa. Non in Italia, però: il codice Urbani (2004) impone autorizzazioni sui beni culturali storici. Non in Francia: fotografare la Torre Eiffel di notte pare sia vietato (informare legioni di innamorati e battaglioni di turisti giapponesi). Ma scattare una foto-ricordo sul decumano di Expo, e caricarla sul profilo Facebook? Potrebbe violare il diritto d’autore di qualche dozzina d’architetti. Per pubblicare un’immagine di Buckingham Palace su Instagram dovremo scrivere alla Regina Elisabetta? L’Europarlamento voterà solo un documento d’indirizzo. Ma come siamo finiti qui? Semplice: affrontiamo problemi nuovi con strumenti vecchi.
«Riproduzione di opere d’arte» è un termine che profuma di pellicole, riviste ed enciclopedie; mentre oggi ognuno di noi viaggia con una formidabile fotocamera digitale dentro il telefono. «Utilizzo commerciale dell’immagine» presuppone qualcuno che vende e qualcuno che compra. Facebook, Google & C. non vendono e non comprano: fanno soldi su tutti e su tutto (è diverso). Il Parlamento si appresta a votare, quindi, una misura antistorica, inapplicabile e — diciamolo — ridicola. Come reagire? Semplice. Smettiamo d’andare nelle grandi capitali. Rinunciamo a visitare le città d’arte. Basta fotografie davanti ai monumenti e con lo sfondo dei grattacieli. Tempo una settimana, e verranno a chiedercelo in ginocchio. Tornate! Fotografate! Renzo Piano, Richard Rogers, Norman Foster, siete persone di buon senso: avanti, battete un colpo. Eiffel, Bernini e Vespasiano non lo possono più fare.
Quante volte qualcuno fra chi legge, proprio per intricate questioni di copyright poste da un editore o da una redazione, ha per così dire tagliato la testa al toro pescando uno scatto proprio dall’hard disk, o addirittura da una bustina di plastica di vecchie stampe a colori, via scanner? Ma non è certo finita qui, perché tutto il nuovo valore d’uso sociale dello spazio pubblico, oggi, si accoppia proprio alla sua libera disponibilità virtuale anche in quanto immagine, oltre che luogo virtualmente condiviso con chi si collega a noi solo attraverso reti immateriali. Coglie benissimo il senso generale di questa stupida e autoritaria spinta lobbistica, l’Autore dell’articolo, quando parla sostanzialmente di spazio collettivo nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, totalmente ribaltata dal nuovi strumenti di comunicazione. E sbaglia di grosso chi crede davvero che il tentativo di «uniformare le normative sui diritti di immagine», come ci spiegano saccenti alcuni personaggi (e come è anche circolato sui social network in risposta alla petizione), abbia qualche senso. Certo, le vecchie normative sull’uso commerciale di alcune riproduzioni qualche senso ce l’avevano, ma non è sicuramente piallando in malafede tutto secondo quegli arcaici criteri che si vada da qualche parte. Basta pensare cosa è accaduto in tempi recentissimi alle riproduzioni di suoni, su cui si continuano a combattere battaglie analoghe, per capire che è proprio l’idea di spazio pubblico liberamente disponibile, ad essere in gioco e non certo qualche raro «diritto d’artista» profumato di lastre, acidi, inchiostri, tanto vintage quanto il cervello di chi non ha proprio colto la posta in gioco (f.b.)
Relazione di Stefano Boato all’incontro "La presa di Venezia. Discussione sulla svendita del patrimonio immobiliare pubblico e sui modi per contrastarla". Venezia 12 maggio 2015
La vendita e la concessione d’uso ai privati dei beni pubblici in Italia e in Comune di Venezia è molto aumentata dal 2.000 ad oggi e sta avendo un’ulteriore accelerazione dalle recenti leggi sulle sdemanializzazioni e dagli atti amministrativi già avviati a realizzazione come si può rilevare dalla cartografia e dagli elenchi, pur ancora parziali e non completi, che presentiamo. Le problematiche e le polemiche che all’inizio sembravano riguardare solo casi sporadici e che ancor oggi restano confinate ad un ristretto ambito di “addetti ai lavori”, hanno quindi un urgente bisogno di allargare la consapevolezza, l’informazione, la discussione alla comunità. Solo una vera partecipazione dell’intera popolazione può mettere sotto controllo questo processo sempre più accentuato e grave, e i singoli atti non possono più essere affrontati solo con affrettate polemiche specifiche, difficilmente documentate all’ultimo momento. Innanzitutto, eliminata ogni vendita ai privati di beni pubblici, anche ogni ipotesi di concessione va subordinata alla verifica di non bisogno del bene per usi sociali di qualsiasi tipo.
Le stime del valore degli immobili degli ultimi anni sono sempre più inadeguate e totalmente sbilanciate a favore degli interessi privati; dalle stime dell’inizio anni 2.000 del parco pubblico di via Pio X° in pieno centro storico a Mestre ceduto ai privati e raso al suolo per far costruire un condominio, alle recenti stime relative al valore del Fondaco dei Tedeschi a Rialto o delle Procuratie Vecchie in piazza S.Marco a Venezia. Le stime non possono più essere delegate alle sole strutture interne del Comune o alla consulenza di studi professionali privati, occorre imporre sempre la verifica con stime di altre strutture pubbliche terze esterne, e nel margine di incertezza si devono imporre i maggiori valori nell’interesse pubblico.
Le aree e gli edifici dei servizi pubblici vigenti, faticosamente conquistati negli anni, devono essere mantenuti e non rimossi addirittura anche con l’avvallo degli uffici urbanistica che li giudicano superflui o superiori alle necessità (Fondaco dei Tedeschi, Giardino delle Vergini, Villa Heriot, Procuratie Vecchie a Venezia; aree centrali di Mestre e Marghera cedute o riallocate ai margini esterni della città).
Le norme edilizie ed urbanistiche vigenti devono essere rispettate, e non evase con deroghe avvallate dalle strutture tecniche comunali e con formali delibere politico-amministrative che dichiarano inesistenti e fantasiosi interessi pubblici non specificati e valutati in base a principi espliciti. Queste deroghe comunque non debbono più essere deliberate con Accordi di Programma tra il Sindaco o un suo delegato e altri rappresentanti pubblici e privati, obbligando così il Consiglio Comunale ad un avvallo a posteriori di fatto obbligato.
Le disinvolte delibere di cambio d’uso, passando di solito da funzioni residenziali o di servizio a funzioni terziarie o turistiche (sino ad oggi anche rimuovendo vigenti vincoli a standard di servizio pubblico) non vanno nell’interesse della vivibilità della città ma dei profitti e delle rendite dei privati e creano un valore aggiunto dell’immobile che almeno deve essere stimato e valutato in modo controllato e corrisposto in misura prevalente all’Amministrazione Pubblica (Beneficio Pubblico tendenzialmente pari al 66 %, mai comunque inferiore al 51%).
Le nuove funzioni private autorizzate non devono occupare i pochi spazi centrali a servizi rimasti disponibili in centro città (sia a Venezia che in terraferma). In ogni caso comunque gli standard di servizio vanno attuati integralmente rispettando le norme e cedendo integralmente le aree o gli spazi dovuti. A Venezia in particolare l’obbligo di legge deve comunque essere rispettato recuperando le aree o i volumi di servizio (vedi evasione dell’obbligo di legge per il Fondaco dei Tedeschi).
Le aree a verde pubblico vanno comunque mantenute, rispettate o attuate (e non devastate per l’obbligo privato di drenaggio delle acque nelle nuove edificazioni (obbligo per la cosiddetta “invarianza idraulica”). Si può invece cominciare a sperimentare la sostituzione degli standard a parcheggi con la realizzazione (a parità di valore) di infrastrutture per la mobilità pedonale (Plan Pieton) , piste ciclabili, trasporti pubblici.
Nel caso in cui si intenda dare in concessione per un certo numero di anni un bene, non già vincolato a servizio pubblico, la concessione deve avvenire sulla base di un bando e/o gara pubblica in coerenza ai piani, progetti e programmi vigenti o preliminarmente deliberati, precisando le condizioni d‘uso in modo rigoroso e controllabile; se non rispettata la concessione dev’essere automaticamente revocata; vedi le concessioni a di parti dell’Arsenale al Consorzio Venezia Nuova e alla Biennale anche recenti (prevenendo ed esautorando gli organi democratici di imminente elezione) di spazi ulteriori ai già moltissimi concessi (Sale d’Armi nord e sud) o vincolati a verde pubblico (Giardino delle Vergini).
Gli oneri di urbanizzazione, cioè le risorse per la realizzazione della qualità degli insediamenti urbani (prescritte fin dal 1977 dalla legge Bucalossi –Testo Unico per l’Edilizia n.10) non devono essere più dirottati per le spese ordinarie dei bilanci comunali (incentivando così anche le edificazionie le cementificazioni inutili); cominciò a consentirlo il governo Amato nel 2001 e ora i Commissari prefettizi di Venezia Zappalorto e Tatò propongono l’integrale deroga dalla destinazione di legge per la qualità urbana e il loro uso per spese ordinarie correnti.
Le strutture dell’amministrazione devono essere adeguate ai compiti per una efficace tutela e attuazione degli interessi pubblici e i piani e i progetti devono essere sottoposti ai pareri della Commissione di Salvaguardia in attuazione alle Leggi Speciali vigenti (il Comune di Venezia è l’unico dei nove comuni di gronda che non invia le documentazioni per i pareri di legge).
Per la vivibilità e la socialità della città, occorre che la comunità urbana si riappropri delle decisioni e del controllo sull’uso dei beni e degli spazi pubblici.
Relazione di Paola Somma all’incontro "La presa di Venezia. Discussione sulla svendita del patrimonio immobiliare pubblico e sui modi per contrastarla". Venezia 12 maggio 2015
1. La mappa con la localizzazione degli immobili e/o delle aree pubbliche cedute ai privati negli ultimi anni, o la cui alienazione è stata annunciata, mostra l’enorme dimensione di un fenomeno che sta travolgendo l’intero territorio comunale. Perchè viene venduto il patrimonio pubblico? Come vengono prese le decisioni? Quali effetti la sistematica privatizzazione di pezzi di città ha sull’intera città?Per capire quello che sta avvenendo, più che di vendita, termine che richiama l’esistenza di un contratto tra due parti consenzienti, il venditore e l’acquirente, è utile adottare un lessico di guerra e parlare della PRESA di Venezia.
Se fossimo in guerra, la mappa mostrerebbe le posizioni che abbiamo perduto e, allo stesso tempo, verrebbe usata al quartier generale del nemico per evidenziare le posizioni espugnate. In ogni caso rende visibile l’entità della preda, la cui conquista frutta un ricco bottino a chi se ne impadronisce. C’è un tesoro in comune (L’Espresso, 1 giugno 2010), titolava un giornale qualche anno fa e spiegava come “grazie al cambio di destinazione d’uso, i beni demaniali ceduti dallo Stato possono facilmente raddoppiare, triplicare e perfino quadruplicare il proprio valore” . Nello stesso articolo si chiariva che “il business della devolution non finisce solo nelle casse dei comuni, ma anche nelle tasche di chi ha fiuto per gli affari”.
2. Quali sono le forze che si contendono i beni pubblici? Da un lato ci sono le città, nel senso di civitas, cioè l’insieme dei cittadini, indipendentemente dalle loro ricchezze o dalle cariche che ricoprono, dall’altro gli investitori che hanno “fiuto per gli affari” – Tra le due parti c’è il governo, ad ogni livello territoriale, che per definizione è investito della promozione del benessere collettivo, ma che di fatto è schierato a sostegno di chi si sta appropriando di ogni bene pubblico. Così, il governo centrale trasferisce beni del demanio ai comuni, affinchè i comuni li vendano. “Regali piovono sul comune”, dicono i giornali, dimenticandosi di specificare che si tratta di regali “in transito” e che il beneficiario finale non sono i comuni, ma soggetti privati.
Inoltre, il governo crea appositi meccanismi e strutture, tra le quali la Cassa Depositi e Prestiti con i suoi fondi d’investimento immobiliare, col preciso scopo di “stimolare e ottimizzare i processi di dismissione di patrimoni immobiliari degli enti pubblici che presentino un potenziale di valore inespresso, per esempio legato al cambio d’uso”. Tali strutture operano sull’intero territorio nazionale, ma ovviamente, sono più aggressive dove la preda è più ricca. Cassa Depositi e Prestiti scatenata alla conquista di Venezia (Venezia Today, novembre 2014) è l’efficace titolo con cui si illustra l’attività della Cassa che “sta acquistando a basso costo immobili e isole per riutilizzarli per operazioni di carattere turistico e alberghiero”.
Infine, un ruolo non secondario nella smobilitazione del patrimonio pubblico è affidato alle molte istituzioni, società ed enti titolari di un patrimonio che è dei cittadini – dall’azienda sanitaria all’Università, all’azienda dei trasporti locali. Tutte vengono di fatto, e spesso di diritto, scisse in due tronconi. Ad uno si conferisce il patrimonio immobiliare, e lo si trasforma in una vera e propria società di sviluppo immobiliare (vedi ACTV e PMV), all’altro, sempre più impoverito resta il compito di erogare i servizi e diventa una “bad company”.
3. In questo scenario o teatro di guerra, tutti gli amministratori che negli ultimi 20 anni hanno governato Venezia hanno scelto di non valorizzare nulla e di dismettere tutto, e l’hanno fatto senza coinvolgere i cittadini o contro la loro espressa volontà. Tutte le decisioni che si sono tradotte in una perdita di patrimonio pubblico (dalla creazione del fondo immobiliare alle svendite di palazzi) sono state assunte dal sindaco e dalla sua squadra che hanno operato come quinta colonna degli investitori privati. «Dobbiamo arrangiarci e saperci vendere», ha detto nel 2009 l’ex sindaco Cacciari. E nel sito web della Direzione Svilluppo Territorio ed Edilizia una apposita rubrica è stata dedicata al Marketing Urbano e Territoriale, nella quale si esalta la partecipazione a tutte le fiere del settore immobiliare (Expo Italia Real Estate, Urban Promo, Tre Eire, Mipim) e le azioni sostenute per segnalare agli operatori del “comparto Real Estate le opportunità di investimento”. A questi eventi i funzionari del comune si recano con il portfolio delle “occasioni in offerta” che comprende, di volta in volta, Forte Marghera, l’Ospedale al Mare, i palazzi ceduti al Fondo Immobiliari.
4. La propaganda si è rivelata una delle armi più efficaci per prevenire e neutralizzare le reazioni delle comunità e indurci a consegnare senza resistenza il patrimonio di noi tutti. D’altronde, chi vince la battaglia dell’informazione vince la guerra, dicono gli strateghi militari. L’argomento più usato è quello secondo il quale la vendita del patrimonio è “funzionale al ripiano del debito pubblico”. Dal momento, però che malgrado le continue vendite il deficit di bilancio continua ad aumentare, è opportuno chiedersi se il nesso causale tra debito e vendite non vada invertito. Forse il comune intraprende grandi opere inutili e persevera in grandi sprechi perché mette in bilancio ipotetici guadagni o perchè sa che più si indebita più potrà vendere. Il Comune è con l’acqua alla gola, titola Repubblica nel maggio 2010, e aggiunge «se non vende i suoi tesori rischia di non poter saldare i conti del Palazzo del Cinema».
Il che significa che prima si è decisa l’operazione Palazzo del cinema e poi si “scoperta” la necessità di vendere l’ospedale. Allo stesso modo, prima si è deciso che Venezia ha bisogno di un tram per portare milioni di turisti da aeroporto al porto, poi si è stati “costretti” a svendere il deposito di mezzi ACTV in via Torino. Il risultati è che sull’area un privato ha costruito un grattacielo, mentre l’ACTV deve affittare spazi per i veicoli e compensare le costanti perdite con l’aumento dei biglietti. Se le vendite non servono a ripianare i debiti, bisognerebbe quindi chiedersi se l’obiettivo dichiarato del pareggio di bilancio sia il vero obiettivo o se, in realtà, il vero scopo non sia quello di far si che il comune resti sempre indebitato. Un comune senza debiti, infatti, non sarebbe obbligato a svendere, e non c’e miglior tattica per costringere alla resa gli assediati che prendere la città per fame.
5. Le vendite del patrimonio pubblico non solo non rispondono a nessun requisito di razionalità economica, ma producono anche una serie di danni collaterali. Il comune, infatti, per rendere i beni più appetibili ai privati, non si limita a fissare prezzi molto vantaggiosi, ma offre o è disposto a “negoziare “ apposite varianti urbanistiche con relativo aumento di cubatura, nuova edificazione, rimozione di vincoli d’uso (si dice ad esempio che la cessione della Biblioteca di Mestre potrebbe portare a 5 mila metri cubi di nuova edificazione, la scuola Manuzio ha una potenzialità 22 mila metri cubi, l’Ospedale al Mare “si porta in dote” il piano di valorizzazione del Lido).
Oltre ad impoverire la collettività, le privatizzazioni contribuiscono a cedere ai privati, in quanto proprietari, il compito di fare il piano e a legittimare il primato degli interessi particolari nel determinare le scelte del governo urbano. Sono quindi il risultato di una serie di azioni concertate con gli investitori da parte dello stato che rompe il contratto sociale con i cittadini per facilitare l’estrazione di profitto privato.
6. Se non siamo di fronte a episodi di “compra vendita di immobili”, ma alla conquista da parte dei privati, con la complicità delle istituzioni, delle porzioni più appetibili del territorio e del ruolo di pianificatore della città, più che privatizzazione dovremmo parlare di privatismo e soprattutto dovremmo chiederci se dopo aver perso tante battaglie è ancora possibile rovesciare l’andamento della guerra? Fra le azioni per contrastare il fenomeno, indispensabile è svelare la manipolazione del linguaggio, il bombardamento di copertura ideologica. con la quale i mezzi di comunicazione raccontano al cittadino derubato i miracoli delle svendite, partendo dai termini rigenerazione- rinascita -rinascimento -riqualificazione – con i quali le azioni finalizzate ad incrementare la redditività dell’investimento privato vengono osannate come benefiche per tutta la collettività.
Lo stato si libera di spiagge, forti, isole è un trionfale titolo del Gazzettino, nel 2010, uno dei tanti esempi del modo con cui lo stravolgimento lessicale corrisponde ed è funzionale allo stravolgimento della democrazia urbana. Tra i termini con i quali si esalta la rapina del patrimonio pubblico, restituzione è forse quello che meglio esprime la malafede da parte di chi lo usa – amministratori, tecnici, mezzi di informazione – perchè alla fine di queste restituzioni, la collettività non possiederà più nulla. La presunta equivalenza tra la privatizzazione di un immobile pubblico e la sua restituzione alla città viene propagandata con un artificio retorico. Si sostiene cioè che, per poter essere definito pubblico, uno spazio non deve necessariamente essere di proprietà pubblica, perché quello che conta è che esso sia utilizzabile, “aperto al pubblico” . E’ un argomento sostenuto da chi privilegia le “pratiche” d’uso rispetto all’assetto proprietario e ritiene che pubblico sia ogni spazio dove è possibile “l’interazione tra le persone” (come in un cinema, un bar, un centro commerciale).
Bisognerà, poi, ricostruire le vicende di ogni bene simboleggiato dai bollini rossi sulla mappa, a cominciare dall’Arsenale, la rocca della nostra città, il cui assedio è cominciato oltre 30 anni fa. Nel 1980, Paolo Portoghesi allora direttore della Biennale disse di voler usare la Biennale come “cavallo di Troia per aprire l’Arsenale”. Nel 1993 uno degli slogan della fortunata campagana elettorale di Massimo Cacciari fu “abbattiamo le mura dell’Arsenale!” Nè in un caso, nè nell’altro i cittadini hanno ascoltato Cassandra, finchè non è stato chiaro a tutti che “Arsenale restituito ai veneziani” (La Nuova Venezia, 2012) significa in realtà Arsenale lottizzato e assegnato ai vari potentati che si stanno spartendo la città, dal Consorzio Venezia Nuova alla Biennale. Per completare la missione pochi mesi fa il commissario Zappalorto ha dato incarico a NAI Global Italia, una società di consulenza, intermediazione immobiliare e gestione di fondi immobiliari, di “testare la sensibilità degli investitori, identificare una forchetta di valori immobiliari nei 28 lotti” indicati dal comune all’interno dell’Arsenale.
Infine, la millantata “restituzione” dello spazio pubblico ha una valenza politica e culturale oltre che economica, perchè consente ai privati di impossessarsi non solo di ingenti beni materiali, ma dell’idea stessa di comunità urbana. Non a caso Paolo Baratta, il presidente della Biennale che in passato è stato ministro delle privatizzazioni del governo Amato e ministro del commercio estero del governo Dini ha rilasciato una serie di interviste nelle quali detta l’agenda alla futura amministrazione e reclama un «patto urgente per fare fronte comune e trovare risorse per nuovi interventi in Arsenale»… «io sono un po’ preoccupato”, ha detto “perché la logica di farne un’area urbana aperta come un qualsiasi altro spazio della città rischia di trasformarlo nel giro di una generazione in un’area edificabile come qualsiasi altra… perché si fa presto a dire pubblico, bello applaudire al passaggio dal Demanio al Comune ma con i chiari di luna in fatto di finanziamenti, il rischio è il ritorno degli immobiliaristi”.
Di fronte all’arroganza di chi si crede il governatore di un enclave occupata dalla quale organizzare sortite per occupare la città, anche noi chiediamo un patto con la futura amministrazione, perchè dopo la rapida ricognizione delle perdite faccia, con i cittadini, un piano realistico di ricostruzione del patrimonio pubblico, nella consapevolezza che esiste un rapporto stretto tra la ricostruzione dello spazio fisico e di quello politico.
Riferimenti
Sugli episodi di "mecenatismo" a Venezia vedi i numerosi scritti di Paola Somma in questo sito. In particolare, per l'apporto del "mecenate" Rosso e il valore economico che ha ricavato dal suo obolo vedi " Il ponte del Fontego ". Vedi poi i libretti della collana "Occhi aperti su Venezia" di Corte del fontego editore. Pubblicheremo inoltre su eddyburg i testi delle relazioni svolte all'incontro dedicato alla "Presa di Venezia" organizzato da Corte del fontego editore, da Italia nostra - Venezia e da eddyburg.
Una specie di racconto in stile chiaroscuro chandleriano, sullo sfondo di un’idea stupida e sbagliata di spazio pubblico per la mobilità dolce pieno di difetti, facilmente rimediabili, ma bisogna pensarci. Corriere della Sera Milano, 21 aprile 2015, postilla (f.b.)
Ma che bella giornata di Primavera! Sole caldo, cielo azzurro e un’arietta frizzantina da liberi tutti. Liberi dal lavoro, dallo studio, dai rapporti usurati-usuranti, dalle ipocrisie della quotidianità. In bicicletta, dunque! E via lungo la Martesana, come l’operaio di Prévert in fuga dalla fabbrica. C’è da verificare, tra l’altro, se a Cernusco hanno finalmente alzato le chiuse, se l’acqua è tornata nel canale, insieme ai germani reali, alle gallinelle dal becco rosso, alle nutrie goffe e grassocce, alle bottigliette Heineken, ai sacchetti di plastica Esselunga, ai preservativi Hatù, agli scatoloni di cartone, ai bidet di ceramica, ai pannolini ripieni graziosamente rilasciati dai milanesi d’antan e da quelli acquisiti. La pedalata sciolta e vivace divora in pochi minuti il tratto Melchiorre Gioia-via Padova e affronta con determinazione l’asfalto rosso granulato di via Idro. Il campo nomadi sonnecchia sulla destra. L’orologio dice le 15,30. È tempo di siesta lì dentro. Due ragazzini giocano al pallone tra cocci di vetro e cumuli di macerie. Un cane abbaia senza convinzione, per dovere.
Superata una cancellata d’incerta utilità pratica, ecco il ponticello d’acciaio che porta al sottopasso della tangenziale Est. Di qua Milano, di là Vimodrone e Cologno. La citybike nera da gagà metropolitano s’inerpica sul manufatto modello Alcatraz dai parapetti altissimi. Ed è lì che, in una giornata praticamente perfetta, si verifica l’intoppo, l’incongruo che non t’aspetti: che c... ci sta a fare in mezzo al ponte quel giovanotto smilzo, biondo, con orecchino di perla e tatuaggi d’ordinanza sulle braccia? Più veloci di un flipper digitale, le sinapsi segnalano che la cronaca nera si è già occupata di quel posto e che il giovanotto in t-shirt e pantaloni scampanati alla marinaia potrebbe essere un lontano parente di Ghino di Tacco. Quello che taglieggiava i passanti piombandogli addosso dalla fortezza di Radicofani. Ghino, intanto, ha già spalancato le braccia magre occupando tutto la larghezza del ponticello. Fermarsi e pagare il pedaggio o andargli addosso rischiando di cadere insieme a lui? Fermarsi, ovviamente. Perché è in momenti come questi che fanno sentire il loro peso secoli di civilizzazione e la fragilità che ne deriva. «Dammi 10 euro» intima lui con un tono di voce acuto e vagamente isterico. «Ti conviene. Più avanti ci sono altri che t’aspettano. Ben più cattivi di me».
Lì per lì colpisce, più dell’offesa, la correttezza della sintassi e ancora di più la logica economica della richiesta. Dieci euro, in fondo, sono poco più di quello che se ne va quotidianamente fra lavavetri e mendicanti vari. Resta il fatto che la richiesta produce uno sdoppiamento della personalità. Quella razionale e pragmatica propende per un ragionevole compromesso: rassegnarsi, pagare e filare via. Quella legalitaria e intransigente spinge per assumere l’iniziativa: un bel cazzotto sul naso e magari un calcione tra le palle, come farebbe Bruce Willis. Questa o quella? Né l’una né l’altra, alla fine, ma il tentativo di ipnotizzare il ragazzo di vita con una dotta affabulazione sui rischi immediati e prospettici di una vita border line, dissoluta e violenta. E con la speranza di veder spuntare un altro ciclista, un maratoneta con le Nike, un pensionato delle ferrovie, un birdwatcher con la Nikon, magari un rom onesto. Invece niente.
Ghino, comunque, non ha alcuna intenzione di lasciarsi irretire da una morale che suona palesemente strumentale nelle circostanze date. Sulle sue labbra sottili affiora un ghigno che sa di angoli bui, di lacci emostatici, di farmacie notturne, di carabinieri maneschi. Con gesto teatrale affonda la mano destra nella tasca dei pantaloni e ne estrae qualcosa di luccicante che assomiglia molto al manico di un coltello a serramanico. Il gesto abbassa di qualche centimetro la cintura dei pantaloni e scopre l’elastico degli slip neri marcati Ascot. Che i 10 euro gli servano per comprarsene altre due paia di ricambio?
È chiaro a entrambi che lo stallo non può durare a lungo. Ok, vada per i 10 euro. Purché si salvino i documenti, l’orologio, il cellulare e la citybike... D’altronde, non è forse questa la nuova banalità del male? Non quella della Arendt, fondata sulla violenza dell’ideologia, quella sminuzzata e minimalista di questi tempi mediocri.
Con studiata e lenta rassegnazione l’affabulatore frustrato prende a ravanare nello zainetto alla ricerca del portafogli. Ancora nessuno all’orizzonte. A poche decine di metri auto e camion sfrecciano ronfando sulla tangenziale. È in questo preciso momento che avviene la mutazione. Mentre gli viene allungata una banconota nuova da 10 euro, il cordiale Dr Jekyll diventa l’irascibile Mr Hyde e si avventa brutalmente sul bersaglio grosso: il portafogli. Ma il legittimo proprietario del medesimo, che già mal sopportava il Dr Jekyll, non è per niente disposto a subire Mr Hyde.
Seguono lunghi secondi di strattonamenti e spintonamenti. Più un certo numero di vaffa reciproci. Finché Mr Hyde, a cui non fa difetto il senso della tragedia shakespeariana, torna a infilare la mano nella tasca destra. Quella del serramanico. Una mossa ad effetto che chiude di fatto la partita.
Il ragazzo con l’orecchino di perla prende il portafogli, se lo mette in tasca come fosse il suo e, dando prova di lodevole moderazione, si disinteressa dell’orologio e di tutto il resto. Poi si allontana, con aria svagata e passo dinoccolato, verso il campo rom. Lui che rom non è di sicuro. «Perché i rom che vivono lì — spiegano al commissariato di polizia — hanno tutti la pelle olivastra».
«Ma restituisci almeno i documenti, accidenti a te!».
Il portatore di mutande Ascot non accenna nemmeno a fermarsi. Si limita a lanciare il portafogli verso il Lambro. Da che mondo è mondo le vittime non meritano che disprezzo. Ma il parapetto di ferro è alto e il portafogli ricade sul ponticello. Aperto. Con tutti i suoi simboli di modernità e benessere in bella evidenza: il bancomat, le carte di credito, l’abbonamento dell’Atm, la tessera sanitaria e quella del Fai, la patente di plastica rosetta..
postilla
In premessa, va dato merito all’autore dell’articolo di aver più volte sottolineato come l’aggressore sia molto presumibilmente un coatto locale, nulla a che vedere con la solita fauna misteriosa che tanto piace ai razzisti securitari per le loro campagne elettorali. Perché da quelle parti c’è anche una solida presenza di cosiddetti campi rom, e ci mancavano pure quelli, ma il problema è un altro, e si chiama ahimè progettazione di spazi pubblici, e specificamente qui di un corridoio di mobilità dolce. I nostri “tecnici” qui si sono espressi al meglio nel concepire, per la sicurezza di chi lo percorre il corridoio, quanto di più insicuro possibile, ovvero un budello senza uscita di centinaia e centinaia di metri, fatto di varie barriere insuperabili (muri di recinzione, il canale, il fiume, le spalle del ponte, il puzzolente sottopassaggio della Tangenziale … qualcuno forse ne avrà visti degli scorci a una comunicazione alla Scuola di Eddyburg) su entrambi i lati. Così, dentro alla sequenza di budelli cul-de-sac si forma naturalmente una trappola, sempre pronta a scattare appena cala sotto una certa soglia la dissuasione degli “occhi sulla strada”. Un caso frequentissimo di sventatezza tecnico-progettuale in senso lato: niente vie di fuga, niente possibilità di controlli qualsivoglia: quanti spazi pubblici di fatto abbandonati del genere conosciamo? Luoghi dove si avventura solo quel genere di spedizione organizzata, o il solitario impavido atleta sprezzante del pericolo? Ognuno di noi ne potrebbe elencare centinaia, e la questione è sempre la stessa, che rinvia a un paio di principi semplicissimi: il cul-de-sac e la privatizzazione di fatto. Ricostruite una rete, stimolate le attività permanenti, e avrete risolto gran parte del problema, ma vallo a spiegare ai tizi de “il problema è un altro” (f.b.)
Sono 48 i beni per i quali l'Agenzia ha dato il via libera per il trasferimento. Vicenda da seguire con attenzione per capire chi sono destinatari dei regali. La Nuova Venezia, 27 marzo 2015
«La chiave per valutare un’infrastruttura deve essere il servizio che garantisce ai cittadini» Ma si tratta di capire quali servizi sono prioritari, se per poche persone avere un Milano-Roma ogni 15 minuti, o per centinaia di migliaia arrivare presto in fabbrica, ufficio o scuola. Il Sole 24 Ore, 22 marzo 2015
Il ricambio al ministero delle Infrastrutture e l’auspicata riforma della legge obiettivo costituiscono un’occasione storica per avviare una riflessione - possibilmente celere e concreta - su quali siano le infrastrutture effettivamente utili al Paese e come si possano superare i gravi limiti nelle modalità di programmazione, progettazione e costruzione. Serve una pax infrastrutturale che passi per una democratizzazione sostanziale del percorso di realizzazione delle opere. Il primo ingrediente è una programmazione unitaria con strumenti e standard europei che tenga al proprio interno reti materiali e immateriali, opere grandi e piccole, finanziamenti nazionali e comunitari, opere nuove e investimenti tecnologici, con una capacità di selezione che non si è vista negli ultimi 15 anni. Riprendendo un vecchio slogan coniato da Paolo Costa bisogna realizzare «tutte le opere necessarie, solo quelle necessarie». Oltre all’introduzione di strumenti che all’estero sono consuetudine - studi di fattibilità, analisi dei fabbisogni, analisi costi-benefici - è il concetto stesso di utilità che va rifondato in Italia.
L’infrastruttura non è solo un’opera fisica, un appalto, un costo: è soprattutto un contenitore di servizi e il servizio che fornisce ai cittadini deve essere la chiave per valutarla, per decidere se sia utile o meno. Se a tutti fosse stato spiegato con chiarezza che l’Alta velocità si sarebbe tradotta in treni che ogni quarto d’ora raggiungono Milano da Roma in tre ore - e che questo avrebbe cambiato il sistema dei trasporti italiano in favore di una modalità ambientalmente sostenibile e la geografia delle principali città - forse il dibattito pubblico sarebbe stato meno ideologico e più trasparente. Tanto più questo vale se si vogliono attrarre capitali privati che hanno bisogno di piani economico-finanziari aderenti alla realtà per poter intervenire. Bisogna archiviare la stagione di piani di traffico gonfiati per realizzare opere che poi chiedono interventi pubblici correttivi ex post per far quadrare i conti. I rischi devono essere ben definiti e devono restare accollati a chi li ha assunti, senza sconti. Un tentativo di collegare opere e servizi (con relativo impatto economico e sociale sul territorio) è stato fatto da Fabrizio Barca nell’impostazione della nuova programmazione dei fondi strutturali Ue 2014-2020.
Un tema che dovrebbe rientrare in questa riflessione è quello di un piano di investimenti “leggeri” e tecnologici che consentano uno sfruttamento più intenso delle infrastrutture pesanti esistenti. È una filosofia fondamentale dove ci sono vaste reti infrastrutturali, come per esempio nelle ferrovie. Il caposcuola di questa filosofia è stato Mauro Moretti, ai tempi in cui era amministratore delegato di Rete ferroviaria italiana (Rfi). Oggi questo approccio “leggero” prevale (ma non è coerente fino in fondo) anche nel contratto di programma Fs che contiene un robusto piano tecnologico e consente, con tecnologie di circolazione all’avanguardia in Europa, di aumentare la capacità di una linea ferroviaria (in termini di numeri di treni che ci possano viaggiare sopra in determinato lasso di tempo) con raddoppi infrastrutturali molto limitati (e non integrali). Il costo può essere ridotto a un quinto o a un decimo rispetto a quello dell’intervento infrastrutturale “pieno”, garantendo comunque un risultato in termini di cadenza e tempi di percorrenza sostanzialmente uguali. È necessario che il passeggero sia l’unico destinatario di un piano infrastrutturale.
La democratizzazione del processo infrastrutturale passa per l’abbattimento del muro che oggi separa le infrastrutture dai cittadini. Una riprogrammazione delle opere pubbliche in termini di servizi ai cittadini è il primo passo decisivo in questa direzione. Il secondo è l’introduzione anche in Italia di un procedimento, sul tipo del débat public francese, che consenta una discussione reale con i cittadini sul territorio, liberando l’opera da giochi e giochetti che non di rado vede protagonisti la stazione appaltante e gli amministratori locali, per interessi che spesso non sono generali. Il terzo passaggio è il ritorno a una progettazione che riprenda a parlare con il territorio e che sia frutto di un processo reale di competizione fra progetti alternativi: lo strumento c’è, è il concorso di progettazione che, soprattutto in ambito urbano, può aiutare a trovare le soluzioni giuste e favorire la partecipazione. Bisogna solo superare la diffidenza di molti sindaci. Il quarto pilastro di questa nuova era è l’utilizzo dei sistemi di monitoraggio civico e di open coesione per rendere del tutto trasparente il piano economico, il progetto e gli stati di avanzamento del cantiere, con i suoi costi e le sue eventuali varianti, senza trascurare, ancora una volta, gli impatti in termini di servizi.
Non dimentichiamo che la bellezza, sebbene non sia sufficiente a rendere la città adeguata ai bisogni dei suoi abitanti, è certamente un requisito necessario. Soprattutto i suoi spazi pubblici. Ecco una proposta per una piazza di Milano. La Repubblica, Milano, 16 marzo 2015
Molte piazze italiane di grande bellezza sono state ottenute «per forza di levare». Piazza della Scala è un caso esemplare. Figlia del progetto mengoniano della Galleria, di cui è la splendida conclusione a nord, è stata ricavata da demolizioni che hanno messo a diretto contatto Palazzo Marino (Galeazzo Alessi, 1553-58) e il Teatro della Scala (Giuseppe Piermarini, 1776-78). Alla sua configurazione ha dato un contributo importante Luca Beltrami a cui si deve, in successione, il restauro di Palazzo Marino, l’edificio della Banca Commerciale a nord e, infine, sul fronte meridionale, Palazzo Beltrami, oggi sede della Ragioneria comunale. Misura e dialogo civile tra gli edifici fanno l’ospitalità e la qualità architettonica del luogo. Un risultato a cui concorrono le aperture prospettiche di via Manzoni e via Verdi e la convocazione, a est, dello splendido fianco di San Fedele (Pellegrino Tibaldi, 1569-79). Ma non meno prezioso per l’equilibrio dell’insieme è il monumento a Leonardo da Vinci (Pietro Magni, 1872, originariamente destinato a piazza S. Fedele) che, con la sua presenza discreta, decentrata dal baricentro geometrico, e gli otto tigli che lo circondano, favorisce l’interazione fra gli organismi.
Il recente insediamento delle Gallerie d’Italia e del Cantiere del ‘900 nella vecchia sede riadattata della Banca Commerciale e nei connessi palazzi sette-ottocenteschi Anguissola e Brentani ha dato vita a un polo espositivo subito assurto a stella di prima grandezza nel sistema museale di Milano. Ne beneficia la piazza che vede accresciuta la vitalità culturale e i suoi valori civili.
Piazza della Scala è suscettibile di miglioramenti? Certamente (anche se, in una graduatoria degli spazi aperti pubblici a Milano bisognosi di interventi, questo sarebbe in fondo alla lista). Si vuole che il Teatro della Scala e le Gallerie d’Italia siano più integrati all’invaso della Piazza? Si può fare, ma senza mettere in discussione ciò che è già configurato in modo soddisfacente. Mi riferisco alla sistemazione operata da Paolo Portoghesi (1989-2000) che ha saggiamente reinterpretato l’impianto ottocentesco, ponendo fine alla triste vicenda che fino agli anni sessanta aveva ridotto la piazza a un orribile deposito di autoveicoli. Basterebbe eliminare l’assurdo parcheggio residuo a fianco della Scala e ridurre al minimo indispensabile il transito veicolare per via Case rotte e piazza Mattioli, proseguendo sul lato settentrionale, nei materiali e nelle cromie, il lavoro di Portoghesi, che sarebbe insensato disfare.
Un’attenzione particolare andrebbe riservata a piazza Mattioli, ridotta in condizioni penose anche grazie a BikeMi, il servizio pubblico di biciclette in condivisione del Comune che qui ha recentemente addossato una delle sue infilate di bici al nobile fianco di S. Fedele, come si trattasse di un retro. In questo spazio, a completamento dell’opera di Beltrami, Piero Portaluppi ha prodotto uno dei suoi lavori migliori dialogando con le preesistenze. Si tratta di rinsaldare quell’interlocuzione e farla lievitare. In altri termini è qui che si dovrebbe concentrare l’attenzione dei partecipanti al concorso d’idee promosso da IntesaSanPaolo e dal Comune di Milano: in questa sfida di fondare un luogo che della piazza ha ora solo il nome, facendone la prosecuzione della piazza maggiore. Raffaele Mattioli se lo merita.
Caro Governatore,sono anni che le scriviamo e la mettiamo a conoscenza della devastazione delle cave, dell’inquinamento delle sorgenti, dell’impoverimento della biodiversità. Decine e decine di foto allegate alle nostre lettere a comprova del disastro ambientale che nessuno può negare. Decine di concessioni, peraltro autorizzate dal Parco, in cui i reati ambientali commessi dai concessionari vengono derubricati a reati “permissibili”: una vera contraddizione in termini.
I tagli e le ferite sono visibili, sempre, a tutti. L’inquinamento delle acque, periodicamente bianche per la marmettola, è stato anche riconosciuto dagli organi competenti, se per i fiumi Carrione, Frigido e Versilia è stata chiesta e ottenuta una proroga al 2021(!!!) “per conseguire il buono stato dei corpi idrici”, evitando in questo modo sanzioni dall’Europa.Aspettiamo nei prossimi giorni di vedere approvato in aula il frutto della scelta di alcuni “trasgressivi” (per usare un eufemismo), i quali, nonostante teoriche casacche politiche di destra e di sinistra, si uniformano a votare profonde modifiche ad un piano già approvato il 7 luglio. Se ci sarà il rispetto della normativa questo piano dovrà nuovamente essere aperto alle osservazioni di rito, perché è completamente snaturato rispetto alla versione passata in aula.
Quello che voglio portare alla sua attenzione, come cittadina, e che spiega il termine edulcorato di trasgressivi, è che le modifiche introdotte da costoro violano le leggi dello Stato: a partire dal Codice dei Beni Culturali, e a seguire le ricordo il principio di precauzione, le leggi sulla tutela dei siti Rete Natura 2000 (per le quali già l’Europa ha aperto un eu-pilot nei confronti della Regione), le leggi sulla tutela delle acque superficiali e carsiche (la nostra riserva del futuro) e per le quali si è stati costretti a chiedere deroghe fino al 2021.È una semplificazione alla Renzi questa che vediamo messa in atto, oppure è la vistosa e macroscopica messa in mora della democrazia?
Si è chiesto perché i concessionari fanno la voce grossa?Difendono pochi posti di lavoro o i loro smisurati guadagni (al nero) favoriti dall’inerzia dei governi regionali e dalla passività e dalla collusione delle amministrazioni locali?
In questi ultimi due anni la tassa che il Comune di Massa richiede ai concessionari di cave per ogni tonnellata di marmo in blocchi è raddoppiata: oggi siamo a 9,90 euro a tonnellata per marmo che ha un prezzo medio di mercato tra i 200 euro e 4.000 euro a tonnellata. Anche un bambino sarebbe in grado di capire che si consente a poche persone di guadagnare cifre mostruose. D’altra parte i Bin Laden hanno pagato alcune concessioni di Carrara 46 milioni di euro, euro intascati da quattro-cinque famiglie.< /br>< /br>Non crede che la devastazione sia frutto di un folle regolamento varato dalla Regione che consente per ogni tonnellata di marmo estratto che il 20% (25% nel Parco) sia marmo in blocchi e l’80% detrito?
Ci contestano la frase ad effetto che il marmo delle Apuane vada nei dentifrici, ma è evidente che gli amministratori regionali, oggi incuranti delle leggi, hanno volutamente consentito la devastazione a favore dei pochi che fanno carbonato di calcio. C’è addirittura una ferrovia dedicata che da Pieve San Lorenzo va allo stabilimento Kerakoll di Sassuolo e si consentono 100 passaggi di camion al giorno a Orto di Donna, in Val Serenaia (cioè nel Parco delle Apuane!) per alimentare il frantoio di Betolleto.
E’ troppo chiederle di modificare quel rapporto 20/80 che aveva senso in una società “preindustriale”, quando il marmo veniva cavato con le mine?
E’ troppo chiederle di ricondurre alla ragione quei selvaggi trasgressivi che calpestano i diritti dei cittadini per il guadagno di pochi?
E’ troppo chiederle come cittadina una tutela ambientale resa possibile semplicemente dal rispetto delle leggi?
L'autrice è Consigliere nazionale di Italia Nostra< /i>