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Tra "devono" e "possono":ecco la differenza. «Secondo la norma varata dal governo, nel 2016 e 2017 tutta la liquidità incassata dagli enti locali attraverso gli oneri di urbanizzazione potrà essere spesa al di fuori dell’ambito di intervento edilizio relativo». Sbilanciamoci.info, 18 gennaio 2016

All’interno della legge “omnibus” di Stabilità, il governo Renzi si è occupato del tema degli oneri di urbanizzazione e del loro utilizzo da parte dei nostri Comuni. Il 31 dicembre scadeva l’ennesima proroga e ci attendevamo un decreto che andasse, finalmente, ad annullare la possibilità di destinare le somme versate da chi realizza un intervento edilizio per sostenere la spesa corrente delle magre casse comunali (anzichè essere correttamente riservate alle sole effettive opere di urbanizzazione). Il Governo ci ha regalato una bizzarra “polpetta avvelenata” da cui traiamo la consapevolezza che gli oneri di urbanizzazione non potranno più essere utilizzati per la “spesa corrente” del Comune, ma solo per “spese di manutenzione ordinaria del verde, delle strade e del patrimonio comunale, nonché per le spese di progettazione delle opere pubbliche”.

Sembrerebbe la norma che tutti desideravamo. Ma, a ben leggere il testo della legge di Stabilità, la nostra gioia dura pochi istanti, in virtù anche di questa affermazione, discretamente sibillina, presente all’interno dei suoi 999 commi (ci riferiamo al comma 737 dell’art. 1 della L. 28/12/2015 n. 208): “… possono essere utilizzati per una quota pari al 100 % per le spese di manutenzione ordinaria del verde, delle strade e del patrimonio comunale, nonché per le spese di progettazione delle opere pubbliche”.

La nuova disposizione prevede, insomma, che i proventi “possano essere utilizzati”, ma non necessariamente che “debbono essere utilizzati” per gli scopi indicati.

In parole semplici, significa che lo Stato centrale ha deciso di non decidere e di lasciare ai Comuni il potere di stabilire come e dove utilizzare i denari freschi che chi intende costruire verserà nelle casse comunali. Fino, addirittura, al 100 % della somma incassata con gli oneri di urbanizzazione mentre, attualmente, vi era un limite al 75% del totale, che per i due terzi (il 50% del totale) potevano coprire in maniera indistinta le spese correnti del Comune e per il restante 25% le spese di manutenzione ordinaria del verde, delle strade e del patrimonio comunale.

In virtù di questa decisione, nel 2016 e 2017 tutta la liquidità incassata dagli enti locali attraverso gli oneri di urbanizzazione potrà quindi essere spesa al di fuori dell’ambito di intervento edilizio relativo.

Facile prevedere che un nuovo quartiere, una nuova lottizzazione, un nuovo centro residenziale non vedranno interventi da parte dei Comuni, poiché le somme incassate potranno essere utilizzate per altro, anche se non più per il funzionamento dell’intera macchina comunale (ad esempio stipendi e servizi primari ai cittadini).

Per “l\e spese di progettazione delle opere pubbliche“, invece, sì! Dunque in maniera diretta per la realizzazione di infrastrutture, nuovi interventi sulla viabilità, tangenziali e chi più ne ha più ne metta.

Il Sole 24 Ore” così commenta: «Di certo non sarà difficile trovare la richiesta corrispondenza tra entrate e uscite, perché sotto la voce “manutenzioni del patrimonio” vi può rientrare pressoché tutto, dall’illuminazione pubblica all’edilizia scolastica, dagli automezzi agli edifici in genere»

Resta per noi positivo, certamente, il fatto che gli Enti locali non potranno più finanziare l’intera “macchina comunale” con il denaro fresco incassato attraverso gli oneri di urbanizzazione. Ma lo spazio decisionale lasciato ora in mano ai Comuni è pericoloso, sbagliato, pura eutanasia. Che provocherà enormi guai e non intacca il vero nodo del problema: il flusso di cassa fa (ancora e sempre) “gola” ai Comuni, che continueranno ad essere “costretti” a svendere ulteriori porzioni di territorio libero pur di finanziarsi. E gli enormi stock di edifici vuoti, sfitti, non utilizzati resteranno – immobili … – a puntellare le nostre sempre più desolate città.

Nei prossimi anni, quindi, sarà ancora più necessario che in ogni Comune i cittadini si impegnino a “decifrare” i bilanci consuntivi e previsionali del loro ente locale e ingaggino una concreta battaglia o una vera alleanza finalizzata ad azzerare preventivamente costi inutili, sprechi, disutilità, proponendo alternative.

Il nostro tossicodipendente ci aveva giurato che quello di ieri sarebbe stato il suo ultimo “buco”. In realtà ha solo smesso di prepararsi la siringa con la sua solita “roba”, sostituendola con un’altra sostanza. Probabilmente ancora più micidiale.

Il pusher è sempre lo stesso: lo Stato/Parlamento che mette a disposizione del tossicodipendente (il nostro Comune) norme che gli consentono di drogarsi ed acquistare la “roba” (risorse finanziarie da mettere in circolo per alimentare e sostenere la spesa corrente, svendendo il territorio …).
E il Comune ha ora una nuova norma dietro cui salvaguardarsi per evitare guai.

(Per chi volesse conoscere un po’ meglio la “storia” dell’utilizzo degli oneri di urbanizzazione, rimandiamo a questa sintetica traccia:http://www.altritasti.it/index.php/archivio/ambiente-e-territori-mainmenu-45/1257-le-casse-dei-comuni-gli-oneri-di-urbanizzazione-e-la-legge-bucalossi).

Intervista con Salvatore Settis di Valentina Porcheddu. «Si spazia dai benidel demanio in offerta alle ricostruzioni di Palmira in Trafalgar Square, a Londra.“Il rischio delle vendite? È che si pensi che lo Stato stia battendo in ritirata”». Il manifesto, 12 gennaio 2016 (m.p.r.)

È stato annunciato in questi giorni sulla stampa l’accordo per il riuso di beni pubblici mirato alla valorizzazione turistico-culturale e sottoscritto tra il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Graziano Delrio, il ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo Dario Franceschini, assieme al Presidente Anas Gianni Vittorio Armani e al Direttore dell’Agenzia del Demanio Roberto Reggi. Il programma di riqualificazione riguarda, oltre le 1.244 Case Cantoniere che l’Anas possiede su tutto il territorio nazionale, anche immobili di particolare interesse situati in prossimità di circuiti quali la Via Francigena o l’Appia antica. In attesa di poter valutare se il «formidabile brand» delle Case Cantoniere – così lo definisce Franceschini – si rivelerà una reale opportunità di sviluppo sociale, economico e culturale, ne abbiamo parlato con Salvatore Settis. L’archeologo e storico dell’arte, ex direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, ha partecipato l’8 gennaio a Roma ad un incontro a Palazzo Altemps per la presentazione del libro Villes en ruine: images, mémoires, métamorphoses (Éditions Hazan 2015), curato dallo stesso Settis e Monica Preti.


Centinaia di beni del demanio verranno progressivamente messi in vendita. Pensa che nell’elenco degli immobili possano esser inclusi anche edifici di valore storico artistico?
Moltissimi monumenti e persino giganteschi musei come la Galleria Doria Pamphili a Roma, sono già in mano ai privati. Occorrerà valutare di volta in volta se la privatizzazione può avere un effetto positivo sulla destinazione d’uso di un determinato edificio. Il Palazzo Serra di Cassano - uno dei palazzi più insigni della città di Napoli - deve la sua sopravvivenza all’Istituto di Studi Filosofici fondato da Gerardo Marotta, un istituto benemerito la cui presenza virtuosa ha dato negli ultimi dieci anni al palazzo Serra di Cassano una nuova funzione. Il rischio che c’è dietro a quest’operazione, lanciandola nel modo in cui è stato fatto, è che si radichi nell’opinione pubblica l’idea che lo Stato è in ritirata e che via via tutto quello che è pubblico possa diventare privato. Non credo che questa sia l’intenzione attuale di chi governa il demanio ma andrebbe precisato che mentre alcuni edifici possono essere dati in concessione con determinate regole, la gran parte degli edifici di proprietà pubblica devono restare tali e essere impiegati per il pubblico bene.
Il progetto lanciato dall’Agenzia del Demanio partirà dalle case cantoniere. Come reputa il loro uso a scopo turistico?
Avendo ormai perso la loro funzione, la trasformazione delle Case Cantoniere in infrastrutture di servizio o agriturismi, non può che esser positiva. D’altra parte, non possiamo immaginare che ognuna di esse diventi un museo, perché l’Italia ridotta a museo muore.
Così come gli stessi musei possono morire. Con la mostra «Serial Classic» - una delle dodici mostre del 2015 da ricordare secondo Forbes - allestita alla Fondazione Prada di Milano, lei ha dimostrato che l’arte antica è in grado di dialogare con l’arte contemporanea e, in un certo senso, anche con la moda. Iniziative meno raffinate della rassegna che ha curato con Anna Anguissola rischiano però, di far prevalere la creazione contemporanea, arrivando a snaturare l’opera antica. Qual è il confine da non superare per mantenere saldo il valore dell’arte del passato pur facendola rivivere nelle diverse forme del presente?
Le mostre di arte antica devono essere rigorosamente scientifiche, devono saper parlare agli specialisti e avere inoltre una capacità narrativa che si rivolge a un pubblico più ampio. Nella mostra Serial Classic ho cercato di seguire questi princìpi che per me sono regola assoluta. L’esposizione non aveva nulla a che vedere con la moda se non per il fatto che la Fondazione Prada esiste perché esiste la ditta Prada. Non sarebbe mai venuto in mente a me o a Miuccia Prada di realizzare una sfilata di moda in mezzo alle statue classiche. La rassegna ha riscosso successo perché le opere esposte sono state cucite fra loro secondo un filo narrativo intriso di storia e non solo di un’ammirazione iconica per una bellezza astratta.
A proposito di «bellezza iconica», in una recente campagna pubblicitaria sul web, divinità e personaggi mitologici rappresentati nei fregi del Partenone sono diventati «modelli» per Gucci. Lo considera un abuso?
Purché non danneggino le opere, non considero gravi questo genere di pratiche. Ma certamente non è questo il modo per dare all’arte antica un ruolo nella cultura contemporanea. Le opere d’arte, antiche o contemporanee, sono una sfida a capire e a pensare. Il compito dello storico o del curatore è di aiutare a raggiungere quest’obiettivo e non di incuriosire con delle stravaganze. Mettere dei boa di piume - com’è accaduto per i Bronzi di Riace fotografati da Gerald Bruneau al Museo di Reggio Calabria - attorno a una statua antica lo trovo frivolo, inutile e stolto.
Nel libro Sul buono e sul cattivo uso dei Bronzi di Riace (Donzelli 2015), ha usato i bronzi di Riace come paradigma dell’incapacità degli operatori culturali - primi fra tutti gli archeologi - a valorizzare le opere antiche inserendole in contesti che producano emozioni e, allo stesso tempo, consapevolezze. Anche gli ultimi grandi progetti pompeiani sembrano dimostrare che l’apparenza conti sempre più dei contenuti, tanto che il sito campano si è trasformato in scenografia per tribune politiche mentre altrove imperversano degrado e indifferenza. Come uscire da questo impasse che caratterizza tutto il patrimonio italiano, dalla gestione dei siti a quella dei musei?
Il caso di Pompei è emblematico. È chiaro che non si può risistemare un sito di enorme importanza e dimensioni in poco tempo ed è ovvio che man mano che si procede con i lavori ci siano delle inaugurazioni. Come diceva Ennio Flaiano, l’Italia è il paese delle inaugurazioni e succede che le autostrade siciliane - inaugurate sei volte - siano ancora chiuse. È inoltre una pessima abitudine della politica usare ogni circostanza per delle photo opportunities. Io credo che la vera sfida del progetto Pompei - ma ciò compete non tanto ai politici quanto al Soprintendente, che d’altra parte è archeologo di vaglia - sia di far capire che l’obiettivo a cui si mira è il restauro dell’intera città. Soltanto rendendo fruibile un pezzo di città e non un numero limitato di domus fotogeniche, si potrà contrastare il sospetto che i grandi progetti a Pompei siano un’operazione di facciata.
Come possono convivere il piano estetico e il piano della politica?
La tendenza a estetizzare l’arte antica o le rovine può indurre a vedere la bellezza anche nella distruzione. Qualcuno arrivò persino a considerare il crollo delle Torri Gemelle come una performance di terribile bellezza. Estetizzare la distruzione e, in generale, l’arte antica significa rinunciare alla responsabilità. Bisogna intendere la funzione intimamente politica dell’arte e delle immagini non nel senso del significato che la parola politica ha finito per assumere e dunque del mestiere di chi siede alla camera o al senato o nei governi regionali, ma intendendo la politica secondo la sua etimologia e genealogia culturale vale a dire il discorso dei cittadini all’interno della polis.
Non c’è nulla di più politico della rovina perché essa esprime una tensione fra chi l’ha voluta e chi l’ha fatta, fra chi ha voluto il monumento intero e chi l’ha distrutto. Un uso politico della rovina e dell’arte - ciò che ho tentato di evidenziare nella mostra Serial Classic - vuol dire collegare la percezione della rovina a un orizzonte di cittadinanza e diritti. Non farlo e trasformare tutto in icona, si tratti dei Bronzi di Riace o delle rovine di Palmira, vuol dire rinunciare alla responsabilità intellettuale sia dello specialista che del cittadino.
A Trafalgar Square verrà esposta una copia della porta del Tempio di Bêl di Palmira, l’unico elemento architettonico che ha resistito all’esplosione. Diverse università al mondo hanno progetti di restituzione in 3d della Città carovaniera e non è escluso che un giorno i monumenti distrutti dall’Isis vengano ricostruiti «in situ». È questo un modo «lecito» o utile per perpetuare una memoria o si tratta di una sorta di giustificazione, un modo per dire che tutto è ripetibile? Insomma, il «falso» può colmare la nostalgia e la perdita?
Credo che nulla possa sostituire un monumento importante che è andato perduto. A volte, però, ricostruirlo nel luogo in cui è stato distrutto ha un valore, per così dire, contestuale. Il campanile di San Marco a Venezia cadde nel 1902 senza fare vittime. Dopo una lunga discussione fu deciso di ricostruirlo com’era e dov’era non tanto per il campanile stesso ma perché l’immagine della piazza San Marco aveva bisogno di quell’elemento. Un altro esempio, che si avvicina maggiormente al caso di Palmira, è il ponte della Santa Trinità a Firenze, abbattuto durante la seconda guerra mondiale. Anche in questa circostanza, il ponte venne ricostruito non tanto per la sua architettura - per quanto essa fosse particolarmente sofisticata - ma piuttosto per ricucire il legame con la città. Riproporre un pezzo di Palmira a Trafalgar Square la vedo come un’installazione artistica e simbolica, una dichiarazione di principio che condanna la distruzione ma non pretende di sostituire l’originale.

«Beni comuni. Parte la svendita del patrimonio immobiliare statale tramite i nuovi vertici della Cassa depositi e prestiti. Senza patrimonio un popolo perde la sovranità: allo scellerato disegno del governo è ora di opporre un progetto di pari sistematicità che metta al centro dell’agenda politica la difesa dei beni pubblici». Il manifesto, 10 gennaio 2016

Per acquistare a poco prezzo il patrimonio immobiliare della Grecia i circoli finanziari europei hanno imposto il durissimo intervento del governo europeo e della Bce che ha condizionato i prestiti necessari alla sopravvivenza di centinaia di migliaia di famiglie greche alla vendita di immobili e infrastrutture per un valore di 50 miliardi di euro. In Italia è sufficiente l’azione di Renzi e del fidato Padoan.

Venerdì sono circolate le anticipazioni della grande svendita del patrimonio di tutti gli italiani e non è certo un caso che sia stato il giornale di casa, L’Unità, a darne con grande risalto l’annuncio. Erano due decenni che i governi di centro-destra avevano tentato la vendita del patrimonio degli italiani ma senza grandi successi.

Dopo le prime leggi di alienazione approvate anche dal centro-sinistra (l’intera vicenda era stata denunciata già dal 2002 da Salvatore Settis nel volume Italia spa edito da Einaudi), il primo tentativo operativo risale al 2004, quando si affidò alla società Investire immobiliare 394 immobili dello Stato poi passati a Blackstone.

Nel 2007 si tentò con la Scip 2, la società veicolo creata dal ministro Tremonti. All’epoca, anche per il contrasto con le Fondazioni bancarie, non si raggiunsero gli equilibri economici e finanziari e la Scip 2 concluse la sua azione con un forte deficit. Né migliore fortuna ebbe l’altra società di valorizzazione immobiliare, Fintecna.

I fallimenti portarono Tremonti alla costruzione nel 2009 di una nuova società: la Sgr investimenti, nata all’interno della Cassa depositi e prestiti, alla cui direzione mise un suo fedelissimo, Massimo Verazzani, che appena un anno prima era stato nominato commissario straordinario per risanare il deficit di bilancio di Roma.

Anni di sperimentazioni sono serviti per mettere a punto il sistema di vendita e indubbiamente il Renzi sindaco di Firenze è stato l’uomo che con più lucidità ha portato avanti in sede locale il disegno ideato per l’intero paese.

Proprio quando sta per concludere l’offensiva contro Enrico Letta, Renzi rischia grosso. A dicembre 2013 il debito accumulato dal comune di Firenze supera i limiti del patto di stabilità imposti dal governo Monti e solo un provvidenziale aiuto da Cassa depositi e prestiti al cui vertice sedeva ancora Franco Bassanini riesce ad evitargli l’onta del default: la Cdp acquista attraverso il Fondo investimenti per la valorizzazione Plus per 23 milioni di euro il Teatro comunale che il sindaco aveva inutilmente tentato di vendere già dal 2009 ad un valore molto maggiore: 44,5 milioni. Dall’anno seguente il teatro viene inserito nella lista dei beni immobiliari pubblici da vendere e chissà quando troverà un acquirente: con queste spericolate operazioni, dunque, lo Stato si indebita dilapidando contemporaneamente il patrimonio pubblico.

La Firenze renziana diventa la città che persegue con disinvoltura la svendita sistematica del patrimonio immobiliare pubblico: il comune come agente di speculazione immobiliare. Sotto la guida del nuovo sindaco Nardella, ma il lavoro era iniziato sotto il suo predecessore, viene reso pubblico il dossier Florence city of the opportunities, una gigantesca apertura al mercato immobiliare internazionale. Il dossier comprende 47 schede di compendi immobiliari privati e 12 pubblici di straordinario valore storico e che negli anni passati erano stati recuperati in modo straordinario, come nel caso dell’ex carcere delle Murate.

Il sindaco di Firenze aveva dunque le carte in regola per diventare il «sindaco d’Italia» e condurre finalmente in porto la svendita immobiliare. L’annuncio era stato preparato da due provvedimenti coerenti con quella finalità.

Il primo era arrivato con lo Sblocca Italia, all’interno del quale (articolo 10) sono state create le condizioni per il sistematico intervento di Cassa depositi e prestiti nell’acquisto e valorizzazione degli immobili da dismettere. Insomma, la positiva esperienza della vendita del teatro comunale ha contribuito a costruire un veicolo molto più potente ed efficace di quelli dei governi di centro-destra.

Il secondo provvedimento riguarda la campagna di occupazione del potere: nel luglio dello scorso anno vengono indicati i nuovi vertici di Cassa depositi e prestiti. In cima alla piramide viene nominato Claudio Costamagna, ex banchiere Goldman Sachs e attuale presidente di Salini-Impregilo. Amministratore delegato diventa Fabio Gallia che ricopriva identico ruolo nella Banca nazionale del lavoro.

E visto che il mercato immobiliare langue, meglio aiutarlo con l’ulteriore deregulation. L’articolo 26 dello Sblocca Italia prevede la variante urbanistica automatica per tutti i progetti che riguardano gli edifici pubblici. In particolare il comma 8 prevede che una parte della valorizzazione immobiliare ottenuta attraverso la variante urbanistica venga attribuita alle amministrazioni locali che hanno costruito il provvedimento di alienazione. È lo stesso meccanismo di incentivazione alla vendita che era stato inserito in molti provvedimenti legislativi da Giulio Tremonti.

Si chiariscono dunque sempre meglio i motivi che hanno portato alla repentina scalata al potere di Renzi e i motivi strutturali di tale disegno. Verremo inondati dai soliti annunci trionfali, si dirà che i proventi della vendita serviranno per trovare risorse per il rilancio dell’economia. Saranno i soliti annunci privi di fondamento: i valori immobiliari sono ai minimi storici dell’ultimo ventennio e la vendita servirà solo a soddisfare gli appetiti degli investitori internazionali o a creare un indebitamento futuro come dimostra il caso del Teatro comunale di Firenze.

L’insigne giurista Paolo Maddalena ha di recente scritto Il territorio bene comune degli italiani (2013 Donzelli) in cui si sostiene lucidamente che senza patrimonio un popolo perde la sovranità: allo scellerato disegno del governo è ora di opporre un progetto di pari sistematicità che metta al centro dell’agenda politica la difesa dei beni pubblici.

Occhi potenti, periscopi di stomachi voraci, puntati sulle aree dismesse dal pubblico (cioè dai cittadini) per fini di lucro. La chiameranno “rigenerazione urbana". Il Fatto Quotidiano, blog “cittadinanzattiva”, 23 dicembre 2015

Nell’articolo La città rinasce sui binari dismessi di Alessandro Arona, pubblicato su Il Sole 24 Ore si affronta il tema del recupero e valorizzazione di suoli urbani non più utilizzati. Il punto di partenza è che esistono 6,6 milioni di metri quadrati di “aree o strutture ferroviarie dismesse pronte alla riqualificazione urbana, senza consumo di nuovo suolo” corrispondenti ad aree delle ferrovie dello Stato che oggi risultano in stato di sotto utilizzazione o di abbandono e che sono “quasi sempre centralissime” nelle grandi aree urbane del Paese.

I meccanismi utilizzati per la trasformazione di queste aree (aree non utilizzate = edilizia; aree centrali = elevati profitti) afferiscono un po’ troppo al solo sistema economico marginalizzando così il più profondo interesse culturale, ambientale e sociale che è alla base di una qualificazione degli insediamenti.

Partiamo dall’inizio. Le ferrovie dello Stato sono un soggetto pubblico a cui in passato è stato affidato il compito di creare, implementare e gestire la rete e il trasporto su rotaie. A un certo punto, con una scelta aziendale precisa e perseguita coerentemente negli anni, le Ferrovie si sono disinteressate al trasporto merci (che è molto più basso in Italia che in gran parte dei Paesi europei) e si sono concentrate sul trasporto passeggeri privilegiando alcune e più trafficate linee.

Questo fatto, unito all’evoluzione delle tecnologie, ha fatto sì che molti magazzini, molte aree di stoccaggio, dei materiali e dei treni merci, molte aree di manutenzione e di riparazione e molte aree connesse al funzionamento delle stazioni passeggeri e merci siano state abbandonate. Allora la prima domanda che ci si pone è: le aree, essendo state destinate alla mobilità su ferro e sapendo quanto tale mobilità sia meno inquinante di quella su gomma, al di là delle scelte dell’”azienda ferrovie”, possono rappresentare una potenzialità per la mobilità merci su ferro? Possono essere utilizzate per supportare i viaggi di piccola media percorrenza? Potremmo investire su esse per praticare sistemi di mobilità più consone, ad esempio, alla soluzione dei problemi climatici che ci attanagliano? In sintesi possono essere in qualche maniera collegate alla mobilità delle persone e delle merci (interscambio o altro), ragione prima della loro destinazione d’uso?

Può essere di sì o può essere di no. Se fosse sì, forse si potrebbe riflettere e, al di là della necessità di pareggio di bilancio di una azienda, trovare altre soluzioni. Se fosse no, perché il futuro di queste aree dovrebbe essere di interesse delle Ferrovie che hanno come obiettivo non la speculazione immobiliare ma il trasporto pubblico?

Le Ferrovie che non servono per la mobilità dovrebbero essere restituite alla comunità, avendo loro avuto una concessione finalizzata a un uso specifico molto lontano dagli interessi specifici di una società come Sistemi Urbani (gruppo Fs) a cui è demandato il compito di fare fruttare tali aree.

Con un’impostazione così limitata i risultati non possono che essere asserviti a finalità immobiliari estranee all’interesse comune come sono stati i grattacieli a Porta Nuova a Milano o la stazione Tiburtina a Roma, interventi pesanti che hanno in un caso ridefinito il paesaggio urbano della città e nell’altro prodotto altre cubature inutilizzate, lontani dalle esigenze dei cittadini e dai caratteri dei luoghi (e ambedue oggi per gran parte di proprietà di banche). Ma è questo il prezzo che bisogna pagare per non occupare altro suolo? O forse sarebbe più interessante verificare l’esistenza diinteressi comuni per quelle aree, aprendo ad una verifica non esclusivamente economica della “riqualificazione”?

«Nell’area protetta dei Monti della Laga che punta al riconoscimento dell’Unesco, scontro tra interessi e modi opposti di pensare la natura». Il manifesto, 19 dicembre 2015

Da un lato i lavoratori della montagna, dall’altro le associazioni ecologiste. In mezzo il Gran Sasso. È, sì, uno scontro di interessi, quello che oppone - in sintesi - il comitato #SaveGranSasso - nato a L’Aquila per chiedere la riperimetrazione dei Siti di Interesse Comunitario (Sic) e delle Zone di Protezione Speciale (Zps) del Parco nazionale dei Monti della Laga - al cartello di associazioni ecologiste «EmergenzAmbiente Abruzzo» (appoggiato dal Prc) che combatte per andare nella direzione opposta e si oppone alla costruzione di nuovi impianti di risalita e seggiovie nelle aree tutelate.

Ma è anche un conflitto tra due modi opposti di pensare la montagna e la salvaguardia della natura, tra chi mette al primo posto la protezione delle specie animali e vegetali perfino a costo di creare zone off limits all’uomo, e chi crede che invece al centro delle politiche ambientaliste debbano comunque essere messe prima le persone, con i loro bisogni e i loro desideri, come sostengono molti operatori del settore ma anche alcuni amanti degli sport d’alta quota.

L’associazione giovanile «GranSassoAnnoZero», per esempio, preme per il finanziamento di progetti che promuovano la «cultura del free-ride in sicurezza, sci alpinismo, snowpark, bikepark, sci da fondo, parapendio, arrampicata, trekking», ecc. Ma anche una pista di downhill può cozzare contro i vincoli di una zona Sic.

È una diatriba che si ripete da anni e che divide tante comunità montane, dalle Alpi alla Sicilia, a Livigno come sui Colli Berici, nel Parco del Pollino come in Abruzzo. Non solo a L’Aquila, dunque, dove comunque la battaglia, almeno per il momento, è stata vinta dagli ambientalisti, dall’Ente parco e dal gruppo consiliare di Rifondazione comunista perché a bocciare il progetto comunale di costruzione di una nuova seggiovia in località le Fontari - prima opera di un Piano d’Area più ampio che prevede in futuro impianti di risalita à gogo per un costo complessivo di circa 40 milioni di euro - è arrivato all’inizio di dicembre il no del Comitato regionale per la Valutazione di impatto ambientale. Il nuovo tracciato, che è lungo il doppio di quello che si vorrebbe sostituire e finisce in una delle zone tutelate, è stato giudicato «insostenibile» nell’impatto con un territorio annoverato tra i bacini di maggiore biodiversità d’Europa.

Ma la bocciatura era nell’aria e la petizione lanciata su AVAAZ​.org dal consigliere Prc Enrico Perilli che, al contrario del comitato «#SaveGranSasso», chiede di salvare le zone Sic e Zps e propone piuttosto di «puntare sul turismo sostenibile» per rilanciare l’economia locale, ha raggiunto ormai la quota di 10 mila firme. Tutto questo, aggiunto alla minaccia del Prc di uscire dalla giunta di Massimo Cialente, ha convinto i «pro» a trattare con i «contro».

L’accordo raggiunto, con la mediazione del vicepresidente della Regione Giovanni Lolli, prevede innanzitutto l’impegno del centrosinistra a mantenere immutati i confini del parco e dei suoi vincoli, con buona pace dei «falchi no Sic». Comune e Regione finanzieranno inoltre, con una parte dei fondi destinati alla ricostruzione post terremoto, una serie di interventi di rinaturalizzazione del territorio e di promozione di una vera cultura montana nella comunità aquilana. Dove, a dire il vero, colate di cemento e mega opere sono quasi sempre state, nell’accezione comune, sinonimo di sviluppo.

E così, al posto di impianti di risalita inutili (quelli esistenti funzionano al massimo 40 giorni l’anno e nel Piano d’area sono previsti alcuni che dovrebbero arrivare solo a quota 1.400 metri. Ma anche in Trentino, se non fosse per gli aiuti regionali, molti impianti avrebbero già chiuso per fallimento) si è deciso di ristrutturare i rifugi ad alta quota e quelli pastorali abbandonati, ammodernare le strutture turistiche esistenti, smantellare i vecchi impianti in disuso, realizzare e sistemare una rete articolata di sentieri per escursioni giornaliere e trekking di lunga durata, anche su terreno innevato.

Per un piano d’area molto più ambizioso di quello supportato dai maestri di sci locali: far riconoscere dall’Unesco il Gran Sasso come Patrimonio mondiale dell’umanità.

Truffa alla democrazia, onestà, buonsenso e patrimonio comune. «La legge di stabilità torna ad autorizzare le perforazioni, scavalcando i quesiti referendari con aggiunte e abrogazioni subdole». Il manifesto, 18 dicembre 2015

«Un autentico inganno. Gli emendamenti presentati dal governo alla legge di Stabilità 2016 ricalcano solo apparentemente i quesiti referendari. Essi, tra abrogazioni e aggiunte normative, mimetizzano e mascherano, in modo subdolo, il rilancio delle attività petrolifere in terraferma e in mare e persino entro le 12 miglia dalla costa». Il movimento No triv torna così all’attacco di Renzi, accusato di “barare”. E boccia le modifiche proposte dal suo esecutivo in materia di ricerca ed estrazione del petrolio. «I passaggi normativi del disegno governativo — scrivono in un documento i No triv — sono riassunti nell’abolizione del “Piano delle aree” (strumento di razionalizzazione delle attività oil & gas) e nella previsione di far salvi tutti i procedimenti collegati a “titoli abilitativi già rilasciati” — all’entrata in vigore della legge di Stabilità — “per la durata di vita utile del giacimento”».

Un mix esplosivo, che avrebbe effetti devastanti sul futuro dei mari italiani, dato che «l’obiettivo principale del governo è mantenere in vita e a tempo indeterminato tutti i procedimenti attualmente in corso entro le 12 miglia» dalle spiagge. «La soppressione del “Piano delle aree” — viene aggiunto — costituisce, poi, il vero “cavallo di Troia” del governo»: il coordinamento nazionale No triv lo aveva già evidenziato, formulando per l’occasione alcuni sub-emendamenti volti a correggere le proposte del premier e dei suoi fedelissimi.

Emendamenti che, però, sono stati bocciati alla Camera dei deputati, in commissione Bilancio. «Nulla è negoziabile rispetto all’obiettivo dei quesiti referendari – si fa ancora presente — non lo è il “Piano delle aree”, in quanto mezzo di controllo degli interventi di ricerca ed estrazione degli idrocarburi; non lo è lo sfruttamento a tempo illimitato dei giacimenti; non lo è la possibilità che i procedimenti entro le 12 miglia marine siano solo sospesi e non chiusi definitivamente; non lo è neppure l’istituzione di un doppio regime di titoli (permessi di ricerca e concessioni di coltivazione/titoli concessori unici) che consentono alle società del greggio di scegliere a proprio piacimento, a propria discrezione, in che modo muoversi nel nostro Paese».

«Da rilevare — dichiara il costituzionalista Enzo Di Salvatore, autore dei 6 quesiti del referendum avviato da dieci Regioni — l’assoluta incoerenza del governo. Prima l’ermetica chiusura verso queste problematiche e, dopo il via libera della Cassazione al referendum, il 28 novembre scorso, l’idea di aprire una trattativa sulle norme oggetto della consultazione popolare. Quindi la solita furbata… Ma il referendum non è nella disponibilità di alcuno».

Il coordinamento nazionale No triv evidenzia: «Delle due l’una: o con le modifiche si accolgono tutti i quesiti referendari senza tradirne lo spirito o si va alle urne. Nessuno è autorizzato a mediare rispetto a questa alternativa, cercando un punto di incontro e accontentando, con un compromesso al ribasso, le Regioni e i loro delegati, attraverso la facile promessa di un maggiore loro coinvolgimento nelle scelte che in materia lo Stato effettuerà d’ora in avanti. Una promessa del tutto evanescente, destinata ad essere tradita dopo le elezioni amministrative del prossimo anno e dopo il referendum sulla revisione costituzionale, che come noto, riconduce nelle mani esclusive dello Stato ogni scelta in materia di energia. Gli emendamenti del governo costituiscono, quindi, un autentico atto di sabotaggio e uno schiaffo alla democrazia. Per questo chiediamo agli amministratori pubblici e ai cittadini che hanno a cuore il proprio territorio di percorrere assieme a noi e fino in fondo la strada referendaria». Una sfida rilanciata con determinazione, per impedire che molte aree dello Stivale vengano ulteriormente inquinate e impoverite.

L’Italia, rinomata per la bellezza del proprio paesaggio, vive il paradosso di essere prima al mondo per biodiversità, con 7 mila differenti specie vegetali e 58 mila animali, con 140 diversi tipi di grano e 1.800 vigneti spontanei e di racchiudere, al contempo, attività impattanti che scaricano costi sui bilanci di imprese e famiglie per oltre 48 miliardi di euro l’anno (oltre il 3% del Pil).

Ogni giorno in ogni città d’Italia avvengono operazioni immobiliari sul patrimonio pubblico che costituiscono rapine ai danni dei cittadini italiani. Mi viene in mente …(continua la lettura)

Ogni giorno in ogni città d’Italia avvengono operazioni immobiliari sul patrimonio pubblico che costituiscono rapine ai danni dei cittadini italiani. Mi viene in mente in mente una filastrocca degli anni 60:

Prima classe, il passeggero è un miliardario forestiero.
Italia bella, io comperare. Quanti dollari costare?
Ma il ferroviere, pronto e cortese:
Noi non vendiamo il nostro Paese

È una delle Filastrocche in cielo e in terra di Gianni Rodari. Altri tempi, altre fiabe. Ora il nostro Paese è stato ampiamente svenduto, assieme al ferroviere cortese, ma i mezzi di propaganda del potere ci esortano a fare di più. Così, mentre ogni giorno il bollettino delle svendite si allunga con nuovi elenchi di palazzi e stazioni, caserme e scuole, ospedali e prigioni, musei e fari, isole e parchi, che vengono sottratti ai cittadini per essere trasformati in albergo o attrazione turistica e ceduti agli investitori immobiliari, alcuni intellettuali in servizio di complemento si adoperano per convincerci che “la nostra eccellenza sta nella cultura/turismo”… il “turismo è la nuova industria mondiale”.

Di questa pattuglia fa parte Lorenzo Salvia che, con il suo libro Resort Italia, sottotitolo Come diventare il villaggio turistico del mondo e uscire dalla crisi, pubblicato da Marsilio, casa editrice della famiglia De Michelis, intende spiegarci che “il turismo è la salvezza dell’Italia”.

A questo scopo, dalla prima all’ultima riga, ci martella con affermazioni perentorie: «dobbiamo renderci conto che la nuova divisione globale del lavoro impone che ogni paese si debba specializzare in qualcosa, per noi è il turismo» … «il turismo è l’unica industria italiana a prova di Cina e delocalizzazione»… «il turismo è il migliore degli export possibili». In realtà, vari episodi, come la recente cessione da parte della Cassa Depositi e Prestiti degli edifici della Zecca e del Poligrafico di Roma ad investitori cinesi, dimostrerebbero il contrario, ma Salvia non ha dubbi sulla validità della lista di quelle che considera le «occasioni perse» e delle proposte per il futuro.

Tra gli errori del passato, segnala il «non aver fatto Disneyland a Bagnoli, non aver trasformato la Sardegna nei Caraibi d’Europa, non aver costruito sufficienti campi da golf in Sicilia». Ogni singola vicenda viene liquidata con poche battute. Per quanto riguarda la Sicilia, ad esempio, Salvia si/ci chiede «è più intelligente, verrebbe da dire di sinistra, aprire in Sicilia un campo da golf che attirerebbe turisti americani e cinesi oppure tenere in piedi per anni la cassa integrazione della Fiat di Termini Imerese?». Oltre che il discutibile modo di presentare le due scelte, come fossero alternative, colpisce il disinteresse dell’autore per il fatto che un campo da golf consuma in media 2000 metri cubi d’acqua a giorno, l’equivalente di un paese di 8000 persone.

Che preoccupazioni ambientali e sociali non rientrino nelle sue priorità emerge ancor più chiaramente dalle proposte per il futuro, per la cui realizzazione, ci ammonisce, bisogna innanzitutto «liberarsi della retorica del bene comune e della maledizione dei coccetti, a causa della quale il solito reperto che spunta fuori dagli scavi… blocca un cantiere per anni». Tra le misure operative compare, ovviamente, «la concessione ai privati di alcuni monumenti» che potrebbe dare allo stato le risorse per «investire in un grande progetto di restauro, magari installandovi una scultura moderna, di cento piazze”, che rappresentano “quel misto di composizione scenografica e centro della vita quotidiana cosi tipico del nostro paese e cosi apprezzato all’estero”. Salvia suggerisce anche di mettere negli aeroporti e nelle stazioni qualche pezzo dei musei locali e renderli visibili subito dopo il check in, «sarebbe il modo migliore per dare il benvenuto a chi arriva nel paese della cultura e dell’arte». Per quanto riguarda le città in genere, poi, raccomanda di considerarle come «i capannoni della nuova industria» e di «fare come a Londra dove i vecchi quartieri operai grazie agli investimenti privati attirano persone nuove».

Molte altre perle di saggezza vengono sciorinate nel volume, inclusa l’idea di portare l’alta velocità in Sicilia, dopo di che, «si potrebbe ripensare al ponte sullo stretto come infrastruttura strategica e come attrazione turistica». Il capitolo dedicato a Roma è incentrato sull’idea di trasformare il lungo Tevere in uno «waterfront del divertimento», costruire un collegamento via acqua con le spiagge, consentendo così di «cominciare a prendere il sole appena saliti a bordo», e creare una Disneyland ispirata all’antica Roma a Ostia. Sembra di rivedere la scena del film Suburra nella quale il boss Samurai annuncia a Numero 8 che Ostia diventerà il waterfront di Roma. «Pensa», gli dice, «prova a pensare. Sforzati di elevarti dal marciapiede». Ma Numero 8 non capisce. «Uoter de che?» chiede e Samurai deve spiegargli: «casinò, alberghi, ristoranti, palestre, yacht, negozi. Questo significa waterfront, sottocorticale che non sei altro».

Forse “sottocorticali” siamo anche noi che non abbiamo ancora capito che dobbiamo «riconvertire al turismo tutta la nostra economia dalla scuola agli uffici pubblici, dagli aeroporti al cinema». Nessun settore e nessuna attività, infatti, sfugge all’afflato riformatore di Salvia, la cui visione della scuola e della sua utilità sembra uscire dalla bocca del ministro Poletti/Crozza. Così, per darci la prova dello scollamento tra istruzione e mondo del lavoro, ci informa che il mestiere che ha avuto l’aumento maggiore di addetti è «l’istruttore di ginnastica da spiaggia, il cui numero dal 2008 a oggi è cresciuto di 3360 volte».

Il libro è stato recensito con entusiasmo sulla stampa nazionale. Tra gli altri, Gian Antonio Stella gli ha dedicato un pezzo dal titolo “Bell’Italia delle occasioni perse”. A tratti è una lettura godibile. Purtroppo, però, molte di quelle che sembrano battute di spirito riproducono esattamente i programmi e le azioni dei governi nazionali e delle amministrazioni locali che fanno o procacciano affari grazie al Resort Italia, programmi e azioni che possono far rimpiangere perfino il gerarca fascista Achille Starace quando dichiarava «non permetteremo che facciate dell’Italia un paese di albergatori e camerieri».

Riferimenti:
Sulla mercificazione della «città antica attuata tramite la svendita del patrimonio edilizio pubblico e l’abdicazione al controllo della trasformazione di quello privato» si veda di Ilaria Agostini Firenze. Città merce o città felice?. Su quel che accade a Venezia la cronaca di Enrico Tantucci Tris di palazzi in vendita a Cassa depositi e prestiti

Anche a Venezia la CDP continua l'acquisizione di immobili per "valorizzare"il patrimonio pubblico per farne in gran parte alberghi. E' improbabile l'interesse pubblico di queste speculazioni rese possibili con il risparmio postale di milioni di italiani. La Nuova Venezia, 7 dicembre 2015 (m.p.r.)

Continua in città lo «shopping» immobiliare di Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) in città e questa volta con un «tris» di edifici comunali che saranno ceduti entro l’anno. La Cdp Investimenti è infatti tornata alla carica per Palazzo Diedo e Palazzo Gradenigo, per i quali aveva già trattato con il commissario straordinario Vittorio Zappalorto, che aveva ritenuto l’offerta complessiva di 16 milioni e 900 mila euro per i due palazzi troppo bassa, rinunciando alla vendita. Ora l’offerta per i due palazzi è salita a 20 milioni di euro complessivi e il Comune è pronto ad accettare, tanto da aver già inserito i due immobili nel piano delle alienazioni approvato il 19 novembre.

Per Palazzo Diedo, ex sede della procura della Pretura, c’è già il cambio di destinazione d’uso e il permesso di costruire appena approvato, secondo un progetto già presentato da EstCapital quando il palazzo faceva ancora parte del Fondo Immobiliare Città di Venezia da cui poi è stato sganciato. Un progetto che prevede la creazione di servizi igienici e magazzini al piano terra, funzionali al ristorante che si prevede di realizzare al piano ammezzato dell’edificio, mentre il primo e secondo piano saranno riservati a negozi e l’ultimo piano a due appartamenti. Ma a Palazzo Diedo e a Palazzo Gradenigo si aggiunge un terzo edificio comunale che sarebbe ceduto alla Cassa Depositi e Prestiti, che l’ha richiesto: è Palazzo Donà, in Campo Santa Maria Formosa, attuale sede della Direzione Politiche sociali, partecipative e dell’accoglienza e del servizio sociale della Municipalità, oltre che dell’archivio della Procura della Repubblica. Il Comune è pronto a cedere Palazzo Donà e a spostare in altre sedi gli uffici che ospita.
Sbarcata negli ultimi anni in laguna, la società del Ministero dell'Economia sta conducendo una serie di operazioni immobiliari mirate. Si è cominciato con l'acquisto dal Comune dell'ex Ospedale al Mare del Lido. Poi è toccato al fabbricato delle ex Carceri di San Severo a Castello, costruite dagli Austriaci all'inizio dell'Ottocento, anch'esso acquisito dalla Cassa che - con il suo Fondo strategico italiano - ha stipulato un accordo di investimento con il Gruppo Rocco Forte Hotels, che prevede l'ingresso del Fondo nel capitale del gruppo alberghiero inglese guidato dall'imprenditore di origine italiana, per un piano si sviluppo incentrato sull'Italia, di cui proprio Venezia dovrebbe essere uno dei capisaldi. Un altro immobile su cui la Cassa pensa di investire sarebbe l'isola di Sant'Angelo delle Polveri, lungo il canale Contorta-Sant'Angelo, che ha acquistato lo scorso anno. La Cassa ha acquistato anche l'ex Casotto Capogruppo di San Pietro in Volta e ha messo le mani anche sull'isola di San Giacomo in Paludo. Ha acquistato a prezzo di saldo dalla Regione il settecentesco Palazzo Manfrin sul rio di Cannaregio (stimato 16 milioni e mezzo di euro e venduto a 10).
Riferimenti
A Firenze come in tante altre città succede lo stesso: di Ilaria Agostini Firenze. Città merce o città felice?

Fa un grande effetto leggere la lista di beni pubblici che stanno per essere venduti. A Firenze come in tante altre città. Perunaltracitta.org, 28 novembre 2015

Se si escludono il tunnel TAV, la costruzione del nuovo aeroporto che punta dritto sulla cupola del Brunelleschi, il metrò sotto piazza del Duomo, i parcheggi interrati nel centro antico, la principale emergenza fiorentina resta, senza ombra di dubbio, la mercificazione della città antica attuata tramite la svendita del patrimonio edilizio pubblico e l’abdicazione al controllo della trasformazione di quello privato. Grazie anche a un piano strutturale deprivato a bella posta di una qualsiasi parvenza di significato pianificatorio.

Abbiamo già avuto modo di commentare l’inqualificabile attività del sindaco-agente del real estate quando il “Renzi in sedicesimo” batteva le fiere internazionali della speculazione finanziario-immobiliare per promuovere la vendita di edifici cittadini pubblici e privati. Attività nelle quali – come prevede lo “Sblocca Italia” (art. 26, comma 8) che trasforma gli enti pubblici in agenti immobiliari – il Comune avrà il suo tornaconto economico in percentuale sul prezzo di vendita degli immobili.

Dei 59 immobili elencati nella brochure propagandistica del sindaco, alcuni sono stati venduti. Cominciamo da qui.

Il Teatro Comunale dal luglio 2015 è di proprietà della Nikila Invest che ha acquistato il teatro per circa 25 milioni dalla Cassa depositi e prestiti Spa, la quale a sua volta aveva rilevato l’edificio da Palazzo Vecchio per 23 milioni di euro (molti meno rispetto ai 44,5 milioni di valutazione del 2009): nel 2013, il provvidenziale acquisto, avvenuto poche ore prima della chiusura dei bilanci comunali, permise a Renzi di non sforare il patto di stabilità. Al posto del teatro, 120 appartamenti di lusso («stile Fifth Avenue») a 8.000 euro al mq (di cui sessanta «residenze “servite”, con maggiordomo e assistenza stile hotel»). Il progetto è di Marco Casamonti, architetto dal problematico rapporto con la Magistratura (attualmente condannato in appello nell’ambito dell’inchiesta su Castello).

Il palazzo Vivarelli Colonna (4.400 mq), sede dell’Assessorato alla cultura, ha la stessa sorte. La Cassa depositi e prestiti versa 12 milioni di euro nelle casse di Nardella, «che – scrive il Corriere – potrà così contare su una solida stampella per far tornare il bilancio falcidiato dai tagli statali». La CDP sarebbe ora in trattativa per la vendita ad una società che ha l’obiettivo di realizzarvi un hotel di lusso. Tanto per cambiare.

Mentre questo scritto va in “stampa”, apprendiamo che anche i 2.500 mq di palazzo Demidoff, in via San Niccolò, sono stati venduti dall’Azienda Pubblica di Servizi Montedomini, con un ribasso che si aggira intorno al 40%. L’acquirente, Amarante, ne prevede la «commercializzazione – in vendita o affitto – di altissimo livello».

Tra gli edifici in cerca di un nuovo padrone spicca, per la qualità e la sua vicinanza con Palazzo Vecchio, il convento dei Filippini in piazza San Firenze: l’ ex Tribunale è ceduto per 29 anni – come stabilito da una delibera di giunta del 6 luglio 2015 – alla Fondazione Franco Zeffirelli per un “Centro internazionale di formazione per le arti e dello spettacolo”, «scuola di eccellenza aperta agli studenti di tutto il mondo».

La villa di Rusciano, 5.400 mq, sull’arco collinare a sud della città, oggi sede dell’Assessorato all’ambiente, è una villa rinascimentale brunelleschiana. Il complesso di Rusciano fu donato al Comune nel 1977 con vincolo di assistenza ai giovani, che il Comune, con eccessiva disinvoltura, ha stravolto in turistico-ricettivo. Per l’inosservanza del vincolo, il Cantiere Beni Comuni Q3 ha presentato un esposto alla Magistratura (il parco invece resta pubblico anche grazie alle osservazioni di perUnaltracittà al Ru).

La Manifattura tabacchi (88.687 mq), proprietà Fintecna e CDP, è in vendita con annessa variante adottata nel 2014 malgrado l’opposizione del comitato per la sua tutela. La variante prevede un paio di torri alte 53 metri, in deroga al regolamento edilizio. Merita ricordare in proposito un disarmante processo partecipativo che lasciava alla cittadinanza la scelta tra due torri da 23 piani o tre torri da 17 piani. La variante prevede 700 appartamenti. Il teatro Puccini, attivo sull'area, diventa centro congressi.

Il cosiddetto Palazzo del sonno: 21.000 mq di fronte al polo fieristico della Fortezza, oggi avviato alla ristrutturazione, anche cementizia (e qui si aprirebbe un capitolo che rimandiamo a un’altra occasione). Si tratta di un boccone prelibato per “The Student Hotel”, giovane società olandese che avrebbe inventato l’«ospitalità ibrida»: compresenza di albergo e di residenze per studenti. L’acquisizione dell’edificio sarebbe stata realizzata in collaborazione con Invest in Tuscany, il sito della Regione «che aiuta a investire in Toscana». Architetto: Casamonti.

Ex caserma in costa San Giorgio: dal “Corriere fiorentino” del 5 settembre 2015: «appena arriverà il nulla osta dalla soprintendenza partiranno i cantieri per realizzare un hotel a 5 stelle con 6o camere, centro benessere e un grande parcheggio per gli ospiti. Alfredo Lowenstein, imprenditore americano di origine argentina, vi investirà 40 milioni». Il Lowenstein lo conosciamo già come investitore a Cafaggiòlo. Si servirebbe dell’architetto Casamonti.

Anche il Monte dei Pegni di via Palazzuolo si trasforma in hotel a cinque stelle da 100 camere, grazie a pregresse manovre della giunta Domenici e malgrado gli esposti in Procura di perUnaltracittà. L’immobile da 10.000 metri quadrati, è ora in mano a una società del colosso alberghiero Accor (lo stesso che ha appena aperto l’hotel nell’ex cinema Apollo di via Nazionale). Come indennizzo della concessione del cambio di destinazione d’uso, il Comune riceve 900.000 euro di “compensazione”: la stessa cifra la ricava dall’apertura del negozio di computer in piazza della Repubblica. Si tratta, afferma la stampa, della seconda volta che il Comune «monetizza al massimo la svolta resa possibile grazie alle nuove norme» (cfr. l’art. 25.2.4 delle NTA del RU e la delibera della Giunta comunale n. 127 del 10/05/2013 “Opere di urbanizzazione realizzate dai privati a scomputo degli oneri. Aggiornamento dei criteri e nuovi indirizzi per la stesura di una bozza di convenzione”).

Ci troviamo insomma di fronte alla monetizzazione del cambio di destinazione d’uso (ovvero degli standard urbanistici): tutto può farsi, basta pagare.

Tra le aree in vendita, anche luoghi di lunghe vertenze come il Panificio militare e il Meccanotessile, oggi entrambi “impantanati”: non se conoscono pubblicamente gli sviluppi.

Nel solo centro antico, il patrimonio immobiliare in via di trasformazione è immenso; patrimonio che, osso della società civile e speranza per la sua rifondazione civile, è costituito da edifici i quali anziché essere resi «socialmente disponibili», sono destinati o alla speculazione tout court o ad usi esclusivi pur pubblici (tra cui l’ennesimo museo etc.). Tra i maggiori, in vendita o di imminente passaggio tra enti (ad es. dal Ministero della difesa al Comune), bisogna ricordare almeno:

- l’ex Borsa merci in via Por Santa Maria e l’ex cinema Capitol alla loggia del Grano, che la Camera di Commercio intende vendere con base d’offerta, rispettivamente: 60 e 18,7 milioni di euro con vantaggi particolari nel caso di doppio acquisto... (cfr. “Corriere fiorentino”, 13 novembre 2015);
- in vendita pure l’intero complesso delle Murate (23.500 mq);
- le poste di Michelucci (11.700 mq);
- la Cassa di Risparmio (19.000 mq) all’ombra della cupola del Brunelleschi, valorizzati dalla previsione di un parcheggio interrato (cui si oppone il comitato per Piazza Brunelleschi...). Il complesso è stato comprato dal Tom Barrack – noto per l’investimento in Costa Smeralda – a capo della Colony Capital (Colony Capital: il nome non lascia spazio a dubbi né sulle finalità né sui metodi). Barrack trasformerà l’isolato in nome di: «lusso al posto del trading»;

- Sant’Orsola, di proprietà della Provincia (17.500 mq);
- Palazzo Portinari ex Banca toscana sul Corso (13.000 mq per 44 appartamenti e 47 posti auto interrati);
- la Scuola allievi sottoufficiali nel convento di Santa Maria Novella;
- la Corte d’assise in via Cavour, progettata da Bernardo Buontalenti;
- il Distretto militare nel convento di Santo Spirito;
- l’ex Ospedale militare in via San Gallo (16.200 mq);
- il Tribunale per i minori in via della Scala;
- l’Accademia di Sanità militare in via Tripoli;
- la Scuola di Sanità militare nell’ex convento del Maglio;
- il convento di Monte Oliveto sulla collina di Bellosguardo;
- il Nuovo Conventino;
- la Caserma Cavalli in piazza del Carmine;
- la Dogana in via Valfonda;
- la Caserma Baldissera;
- la Rotonda di Brunelleschi e il contiguo convento;
- il Teatro Nazionale e il Supercinema in via de’ Cerchi-Cimatori;
- il Teatro Niccolini in via Ricasoli;
- il cinema Eolo (per il quale il si ventila l’ipotesi della trasformazione in parcheggio-silos, in pieno centro);
- l’ospedale di San Bonifazio, sede della Questura, messo all’asta da Nardella, ora in veste di presidente della Città metropolitana.

Ultima arrivata in ordine di tempo, la Leopolda: 7,2 milioni di euro, superficie commerciale di 5.200 mq, emblema del nuovo corso politico, ma ora anche del vecchio sistema per far cassa.

L’articolo è la (quasi fedele) trascrizione dell’intervento all’assemblea della ReTe dei comitati per difesa del territorio tenutasi a Firenze il 14 novembre 2015. Ringrazio Maurizio Da Re per l’indispensabile collaborazione

Le strategie politiche dell'estrema destra italiana, per raccogliere consenso su temi tradizionali come la sicurezza fai da te, in fondo si legano perfettamente con l'idea di città reazionaria e privatizzata tanto in voga nel mondo. Today, 30 novembre 2015

Alle prossime elezioni comunali di Milano, un partito di destra presenterà tra i candidati di punta per il consiglio il pensionato sessantacinquenne diventato improvvisamente famoso per aver ucciso un intruso nella sua casa, in un centro suburbano ai margini dell'area metropolitana. Certo, non c'è nulla di nuovo nell'uso strumentale della notorietà a scopi politici, come succede ad esempio con personaggi dello spettacolo, ma la questione oggi assume un particolare valore simbolico per il modello di convivenza civile e urbano che sottende. E non mancano precise coerenze di tipo urbanistico, anche se la cosa può apparire a prima vista strana e addirittura forzata. Proviamo a guardare, da questo punto di vista, anche solo a due degli ultimissimi casi di sparatorie casalinghe con morti in villetta, a pochi giorni e pochi chilometri l'uno dall'altro.

In un caso, ancora in corso di accertamento da parte della magistratura, c'è stata una difesa diciamo così preventiva, ovvero il padrone di casa avrebbe sparato al ladro senza troppe storie, rivendicando in sostanza l'autodifesa fai da te, e conquistandosi così quella proposta di rappresentanza politica. In un secondo caso, c'è la storia di una rapina con sequestro, dai presupposti senz'altro più drammatici, le minacce col coltello, l'affrontarsi diretto, e poi le dichiarazioni per nulla compiaciute del traumatizzato sparatore. Insomma due casi molto diversi, unificati però dal tipo di ambiente urbano-sociale che gli fa da sfondo: il suburbio metropolitano di casette con giardino, da sempre teatro di queste vicende perché luogo in fondo paradigmatico di uno stile di vita. Quando mai la cronaca ci racconta di cose del genere in città? Certo anche nelle strade urbane non mancano di sicuro fatti di sangue e violenza, rapine, morti ammazzati, ma pare chiaro a tutti che l'irruzione di banditi giù per lo scivolo della tavernetta o appena oltre il cancello del giardino con la madonnina di Lourdes, richiama quei luoghi fatti di stradine, percorse quasi sempre solo dalle auto, deserte salvo il rientro dei ragazzini da scuola o l'uscita per il giretto del cane.

Sono anche, come ci raccontano infiniti studi internazionali, i luoghi simbolo e sostanza dei partiti di destra e del loro consenso: il culto del privato e della famiglia, della proprietà, il lieve disprezzo verso tutto ciò che è pubblico e collettivo, l'identità relativamente chiusa sul locale, sulla fascia economica, sulla conoscenza diretta. Ed è, anche, questo sprezzo di tutto ciò che è pubblico e collettivo, la base fondante della città terzo millennio della destra, la sua urbanistica fatta di enormi progetti di trasformazione privati, concepiti in fondo col medesimo schema del quartiere di villette, salvo metterci delle torri residenziali di lusso progettate da qualche archistar, e un'opera d'arte postmoderna invece della madonnina nella sua grotta di cemento. Nelle finte piazze privatizzate di questi quartieri, invece del giustiziere suburbano fai-da-te, ci saranno magari (come già ci raccontano attente osservatrici come Anna Minton o Saskia Sassen) le guardie armate pagate dal condominio, o dall'associazione commercianti. Che magari saranno un po' più professionali nello sparare a vista, o magari nel non sparare affatto perché prevenire è meglio che curare. Ma il trasloco dell'ambiente suburbano in città, a costruirsi uno zoccolo duro di consenso di destra ed espellere il resto, usa queste strategie.

Pistola Due: un giustiziere immerso nel verde :: Blog su Today
Su La città Conquistatrice una serie di articoli dedicati al tema dello Spazio Pubblico e dei suoi rischi di estinzione

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Su Eddyburg l'ultimo contributo di Saskia Sassen dedicato ai grandi progetti di privatizzazione urbana nel mondo


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«Avviata la procedura che tiene presente la complessità di gestione Fs e la necessità di aumentare gli obblighi di servizio pubblico, esordisce Delrio. Però coi tagli degli ultimi anni, il servizio ha sofferto: sacrificati pendolari e lunghe percorrenze». Il manifesto, 24 novembre 2015 (m.p.r.)

Roma. Il governo mette in vendita il 40% delle Ferrovie: la privatizzazione, che segue quella di Poste e precede quella di Enav, è stata decisa ieri dal consiglio dei ministri, che ha varato un Dpcm ora atteso alle camere. Il provvedimento è stato illustrato dal ministro dei Trasporti Graziano Delrio, e ha subito suscitato le preoccupazioni dei sindacati e dei partiti di opposizione, con alcune perplessità espresse anche da componenti del Pd. Non è ancora pienamente chiaro - nonostante le rassicurazioni offerte da Delrio - il destino di Rfi (la rete), che il governo punta comunque a scorporare (e quindi almeno in parte a quotare?), mentre l’indebolimento del pubblico fa temere per i già disastratissimi servizi pendolari.

«Viene avviata la procedura che tiene presente la complessità della gestione delle Fs e la necessità di aumentare gli obblighi di servizio pubblico», ha esordito Delrio. Va detto però che con i tagli degli ultimi anni, il servizio pubblico ha al contrario sofferto: sacrificati i pendolari e le lunghe percorrenze (basti pensare ai treni notte), la gran parte degli investimenti si sono diretti invece verso i convogli ad alta velocità e con biglietti piuttosto cari per i viaggiatori. «L’alienazione di Ferrovie non potrà andare oltre il 40% - ha spiegato Delrio - È un avvio di percorso che tiene presenti alcune questioni: l’infrastruttura ferroviaria dovrà rimanere pubblica, dovrà essere garantito l’accesso a tutti in maniera uguale». «Nel processo parziale di privatizzazione di Fs si manterrà un'attenzione particolare all'azionariato diffuso e alla partecipazione dei dipendenti del gruppo Ferrovie dello Stato, gruppo che produrrà anche quest'anno ottimi risultati».
Il valore stimato dell’azienda è di 45 miliardi di euro, e i proventi della privatizzazione dovrebbero andare a coprire il debito pubblico. Non è ancora chiaro, però, quanto punti a incassare il governo: Palazzo Chigi in una nota ha spiegato infatti che la privatizzazione «potrà procedere in più fasi» e alla richiesta di una cifra attesa, Delrio ha risposto con un ermetico: «Adesso ci penseremo». I conti dell’azienda, d’altro canto, ultimamente vanno piuttosto bene: nel 2014, il gruppo Ferrovie dello Stato ha realizzato quasi 8,4 miliardi di ricavi operativi (303 milioni il risultato netto). Il 2015 appare promettente: nel primo semestre i ricavi hanno sfiorato i 4,2 miliardi di euro, mentre l’utile è aumentato del 2,5% rispetto allo stesso periodo del 2014, raggiungendo i 292 milioni.
Un’azienda "risanata" dopo svariati anni di debito, che però adesso, almeno a sentire i più critici, potrebbe esporsi a un pericolo di «svendita» delle proprie azioni. È ad esempio il timore di Franco Nasso, segretario della Filt Cgil: «Da quanto si può capire dagli annunci - dice - la privatizzazione non darà risorse al trasporto regionale, anzi finirà per limitare fortemente la capacità industriale di Trenitalia, limitandosi a fare un incasso dalla vendita che, viste le condizioni e la fretta, potrebbe sostanzialmente consistere in una svendita». Secondo la Cgil c’è «un problema di mancata corrispondenza tra le aspettative degli utenti del trasporto regionale e il servizio offerto. Le ragioni sono dovute principalmente ai tagli operati da tutti gli ultimi governi su questo fondamentale servizio universale che, per essere erogato, ha bisogno del contributo pubblico». E abbiamo tutti sotto gli occhi le immagini (alcuni lo vivono sulla propria pelle) di treni congelati in inverno e simili a saune in estate; la folla e i ritardi, i bagni in condizioni pietose.
«Questa privatizzazione acefala è una stupidaggine gigantesca che farà solo danni al Paese, ai cittadini italiani e ai lavoratori delle Ferrovie. Non abbiamo elementi di chiarezza e il ministro non ha ritenuto di spiegarci nulla nonostante le reiterate richieste di incontro», rincara il segretario Fit Cisl Giovanni Luciano. «Siamo d’accordo su massimo il 40% delle quote e l’azionariato diffuso compresi i dipendenti. Per il resto pensiamo che, laddove non vi siano chiarimenti, occorrerà mobilitarsi». «Privatizzazione sbagliata, mera operazione di cassa», taglia netto anche la Uiltrasporti. Nel Pd è Marco Filippi, capogruppo in Commissione Lavori pubblici del Senato, a chiedere che «si eviti che la vendita sia solo un’operazione economico/finanziaria».
Contro «la svendita del patrimonio dello Stato per tappare i buchi del bilancio» si pronuncia il M5S, che chiede al contrario di «potenziare il trasporto pubblico locale». Disco rosso anche da Stefano Fassina, di Sinistra italiana: «La privatizzazione di Fs vuol dire ulteriore drammatico disinvestimento e peggioramento per i servizi di trasporto per i pendolari. Noi ci opporremo». In uscita, infine, gli attuali vertici, divisi proprio sulla privatizzazione: l’amministratore delegato Michele Mario Elia difende l’unicità del gruppo, mentre il presidente Marcello Messori è favorevole allo scorporo di Rfi. Tra i successori in pole, Renato Mazzoncini, ad di Busitalia.

Come osserva uno studio internazionale: le spinte neoliberiste al ridimensionamento delle libertà collettive in nome della sicurezza sono assurde e pericolose, già di per sé significano solo sostituire una violenza all'altra. La Città Conquistatrice, 19 novembre 2015

Se si guardano certi quadri urbani, anche piuttosto famosi, di epoca pre-industriale, si notano con più o meno evidenza comparire nell'immancabile striscia di campagna o foresta fuori le mura alcune presenze inquietanti. A volte in forma di vaghe ombre o semplici nubi minacciose all'orizzonte, a volte coi tratti più espliciti di una scura sinistra sagoma a fare capolino da un masso o da un albero, sono parte della natura nemica chiusa fuori dalle fortificazioni, reale o immaginaria, belva o poltergeist che sia. Da una certa prospettiva, la vera differenza di questo ambiente urbano rispetto al castello o alla corte rurale, sta nell'articolazione e ampiezza dei suoi spazi pubblici e collettivi, ben più ricchi e aperti delle stanze illuminate dal camino, o del falò sull'aia, attorno a cui si radunano le popolazioni rurali per scacciare gli incubi della notte. Ma come ci insegnano sia certe travolgenti fiction gotiche, che i serissimi ma egualmente affascinanti racconti di storici alla Jacques Le Goff, anche dentro le mura urbane culla di civismo cultura tolleranza, fucina di lumi e luminarie fisiche e mentali, non mancano certo in agguato oscure presenze, infiltrate dalla selva o di produzione propria. Ancora qui, la grossa differenza con la campagna sta nel metodo di lotta basato sull'assimilazione anziché sull'esclusione.

Il bar di Guerre Stellari

La città è il luogo della differenza, dell'individuo che pur confuso tra la folla non è mai folla, anzi la sua individualità ne viene enfatizzata, non sminuita. Differenza a volte significa anche devianza in senso antisociale, però soltanto in casi estremi ha davvero senso ricorrere alla repressione: il più delle volte basta lo stesso ambiente urbano a digerire e rendere assimilabile qualunque comportamento, traducendolo in conflitto, innovazione, progresso. Non a caso uno dei maggiori sociologi urbani del '900, William Whyte, nei suoi primissimi studi sullo scontro fra etica protestante individualista, ed etica sociale tendenzialmente massificante, individuava certe caratteristiche spaziali come molto favorevoli all'una e di ostacolo all'altra. E in ricerche successive sullo spazio pubblico continuava a sottolineare quanto una adeguata disponibilità di luoghi di incontro e intreccio di vari soggetti e comportamenti fosse la soluzione generalizzata alla sicurezza, garantita anche per la quota restante da quelli che Jane Jacobs (in prima battuta sua creatura) chiamava «occhi sulla strada». Quindi ciò su cui chiunque si avvicini al problema in buona fede concorda, è che l'antidoto alla criminalità, ai portati peggiori della devianza, all'insicurezza reale (su quella percepita lasciamo sfogare ansiosi e destrorsi), è più spazio pubblico, non meno spazio pubblico.

Quantità, qualità, spazio, tempo

Quanto spazio pubblico non si calcola certo solo al metro quadro, anche se come insegnano certe subdole politiche conservatrici il criterio di un tanto al chilo non va mai abbandonato. Quindi più parchi, più marciapiedi, piazze, slarghi accessibili, portici, atrii, arretramenti di edifici eccetera. Ma anche più varietà e qualità, mescolanza di usi, magari un po' di confusione che non fa male anzi aiuta. Poi cala la sera, e tutto cambia, rispuntano le ombre …. No che non deve essere così! Ce lo ricorda quella classicissima canzone di Petula Clark, Downtown, quando dice: «Just listen to the music of the traffic in the city, and linger on the sidewalks where the neon signs are pretty». Una scena che si svolge evidentemente di notte, in un ambiente che forse oggi chiameremmo di movida, o su una strada dello shopping, ma può anche essere un giardino, il piazzale della stazione: vogliamo tutti che la città sia efficiente, deve esserlo, è uno dei suoi ruoli, ma chi ci sta e ci va vuole, pretende, qualcosa di diverso, vagamente deviante, trasgressivo (si fa per dire), molto poco fantozziano. Oggi certo economicismo contabile moralista ci vorrebbe tutti a casa a guardare il telegiornale appena finisce l'orario di lavoro da travet: non è una violenza peggiore di un'aggressione in un vicolo buio? Reagiamo, rivendichiamo il diritto alla città naturalmente senza trasformarla in un pentolone ribollente, a tutto c'è un limite, ma non facciamolo fissare al moralizzatore di passaggio.

Riferimenti:

Marion Roberts, Economie della notte metropolitana
William H. Whyte, Indesiderabili
Bradley L Garrett, Cities at night: why our right to use public spaces after dark is under threat, The Guardian, 19 novembre 2015
«Investire sulla tutela dovrebbe essereuna priorità assoluta. Invece i controlli sono ridottiall’impotenza tra nuove regole e risorse decimate». L'Espresso, 22 ottobre, 2015

Dobbiamo augurarci che si abolisca la penosa simbiosi di cultura e turismo, che produce iniziative deplorevoli e rischiose per l’ambiente (...) perché in Italia il campo è invaso dal turismo di rapina»: scrivendo nel 1979, Elena Croce non poteva prevedere che nel 2013 il Turismo sarebbe confluito nel ministero dei Beni culturali. Eppure, continua, «questi danni immensi sono riparabili con una pianificazione appena razionale, svezzando i turisti dagli orrendi villaggi sulla spiaggia e da altri abusi e indecenze» (La lunga guerra per l’ambiente, che sarà ora riedito da Scuola di Pitagora).

Oggi imperversa sul paesaggio la retorica della bellezza, ma si moltiplicano pinete divelte, dune spianate, coste violate, valli e pianure invase da pretestuose autostrade e Tav. Dilaga l’urban sprawl, la distinzione tra città e campagna non vale più, i paesaggi urbani sono vittima di condoni, piani casa, sblocca-Italia. Il paesaggio dovrebbe essere per noi il massimo vanto. Perché in Italia, secondo Goethe, «le architetture sono una seconda natura, indirizzata a fini civili». Perché la nostra vera ricchezza non sono le grandi emergenze monumentali, ma la capillare trama di bellezza diffusa.
Ha scritto Iosif Brodskij a proposito di Venezia: «Abbondano frivole proposte sul rilancio della città, l’incremento di traffico in Laguna... Tali sciocchezze germogliano sulle stesse bocche che blaterano di ecologia, tutela, restauro, paesaggio. Lo scopo di tutto questo è uno solo: lo stupro. Ma nessuno stupratore confessa di esserlo, anzi si nasconde dietro alta retorica e fervore lirico». Per passare dalla retorica ai fatti, investire sulla tutela del paesaggio dovrebbe essere una priorità assoluta, e la convergenza di Turismo e Beni Culturali in un solo Ministero ne sarebbe la premessa. Ma con quali risorse? Oggi ci sono 240 storici dell’arte nei musei, solo 137 nelle Soprintendenze territoriali (634 gli architetti): la tutela del paesaggio, colpita dal silenzioassenso, da mancanza di personale e da bilanci ridicolmente inadeguati, è ridotta all’impotenza. E un paesaggio senza tutela è destinato a subire ogni stupro.

«Abbiamo più che raddoppiato le zone coperte dal cemento e dall’asfalto, sfregiando la ricchezza del nostro paesaggio con tanti piccoli ecomostri. E ora il silenzio-assenso introdotto dalla legge Madia apre la strada a nuovi possibili scempi». L'Espresso, 22 ottobre 2015

Italia lenta, Italia iperveloce


Stiamo divorando la Milano-Bologna sui binari del Frecciarossa, a 298 km all’ora. Campi, canali, tralicci appaiono e svaniscono in un soffio. In mano abbiamo una foto di quando, qui accanto, nel 1960, avanzava il cantiere dell’Autostrada del Sole. Operai sterratori siedono nella polvere in un mondo piatto coltivato a grano e frumento, hanno facce da poveri, fazzoletti in testa come contadini tagiki, bevono l’acqua dai secchi. Il tracciato sarà finito nel ’64, tra molti applausi per Aldo Moro e Amintore Fanfani. Ed eccola qui, la A1 del 2015, corre in parallelo alla linea Tav, a meno di cento

metri. Come dire in poche righe i 62 minuti tra le due città? Sfrecciano campi, filari, pioppeti, frammenti di bosco. Silos, cabine Enel, cascine, magazzini, campanili. L’Ikea a Piacenza, blu ed enorme. E poi Cucine Scic, Fiera di Parma, Barilla. Barriere acustiche a tratti. A Reggio il ponte bianco e la stazione Tav di Calatrava il futurista. Ancora cascine, qualcuna in abbandono. Fienili e rotoballe. Una ciminiera azzurra. Frutteti. Vigneti. Campi coperti di pannelli solari. Poi muri sporchi, scritte “Bologna Bombers” e “Vaffankulo”, ed ecco infine: la città.

Visto a trecento all’ora, il paesaggio italiano è nuovo e antico insieme. Trattiene la storia come carta assorbente. Vi si legge il successo economico, e l’insuccesso. Eccetto Piero della Francesca, dai finestrini si vede l’Italia che fu, e quella ch’è diventata. Dal 1955, quando nacque “l’Espresso”, il territorio è cambiato molto. E non solo perché la direttrice Tav Torino-Milano-Salerno, parte delle Reti Transeuropee, misura mille chilometri di nuove linee ferroviarie. Mentre la Torino-Lione, così contestata, in territorio italiano ha l’84 per cento del percorso, 68 km su 81, in galleria (e dunque invisibile) e neppure è “Alta velocità” perché le merci viaggeranno a 120 all’ora e i passeggeri a 220. Più in generale, che cos’è successo? Tre cose. I mutamenti sono molti e piccoli (e non: pochi e grandi). È cresciuto il consumo del suolo dovuto all’intervento umano. Ma è anche molto aumentato il territorio protetto. Con questa inchiesta l’Espresso prova a capirne di più.
Più consumo del suolo
L’Italia è lunga, bella, strana. Certo non siamo il Canada, natura pura e ripetitiva. Da noi è paesaggio antropizzato, lavorato dall’uomo in due millenni di storia. I tedeschi parlano di Kulturlandschaft; i nostri studiosi di paesaggi frantumati, prodotti da molti soggetti. È cambiata anche l’interpretazione del paesaggio, osserva Fabrizia Ippolito dell’Università di Napoli II, che sta per pubblicare un Atlante d’Italia in numeri (Skira): «Si sono susseguiti il paesaggio da contemplare, la cultura del Grand Tour che sopravvive nelle guide del Touring; il paesaggio patrimonio comune, sancito dall’articolo 9 della Costituzione; la somma di luoghi speciali da tutelare, secondo la legge Galasso; storia e natura da proteggere dal cemento, per Italia Nostra, Legambiente, il Fai...».
Dal dopoguerra il consumo del suolo è più che raddoppiato. Dal 2,7 nel 1956 al 7 per cento nel 2014. Secondo il rapporto Ispra “Il consumo di suolo in Italia” (2015) sono stati intaccati 21 mila dei 301 mila chilometri quadrati del territorio nazionale: più a Nord-Ovest (8,4 per cento), meno al Sud (6,2). In ben 15 regioni si supera il 5 per cento di suolo consumato; in Lombardia e Veneto oltre il 10. Le ragioni sono demografiche, industriali, turistiche. Come ci ricordano altri dati raccolti da Ippolito, fino al 2008, ante crisi, consumavamo 800 chili di cemento per abitante (oggi la metà); abbiamo 5 mila cave attive e 13 mila inattive (più le illegali); 120 aeroporti grandi e piccoli; 30 milioni di abitazioni (il 20 per cento vuote) in ottomila Comuni.
Il Registro delle grandi opere interrotte ne conta circa 600, un’enormità. Con tutto ciò, il paesaggio italico resta ricchissimo, per natura, orografia, diversità, tradizioni costruttive. In quale altro Paese d’Europa coesistono i trulli della Valle d’Itria e i masi del Sudtirolo, le grotte di Postumia e i graniti di Capo Testa in Gallura, i vigneti pettinati dell’Oltrepò e la necropoli di Pantalica in Sicilia? In nessuno.
La città dispersa
Ai tempi in cui Antonio Cederna denunciava i “Vandali dell’Appia”, l’Agro Romano era un’altra cosa. Alle porte dell’Urbe brucavano le greggi accudite dai pastori. Roma aveva (non verso sud, dove l’asse Mussolini-Piacentini aveva imposto la via del Mare) una cintura di prati e pascoli punteggiati di rovine, templi, acquedotti, echi di Arcadia. Il nuovo piano regolatore avrebbe dovuto sviluppare la capitale verso est, assecondando una tendenza storica, tra Tiburtina, Casilina, Tuscolana. Invece no: per scelte politiche pilotate dagli interessi di grandi costruttori, vedi la Società Generale Immobiliare, come denunciato da Manlio Cancogni e dalle inchieste de “l’Espresso”, Roma si espanse ovunque, a «macchia d’olio».
Oggi ne misuriamo le conseguenze. Un esempio plastico: Bufalotta. Dove l’agro cingeva la città a nord, allo sbocco dell’autostrada A1, oggi, lo ricorda anche Francesco Erbani in Roma. Il tramonto della città pubblica (Laterza), c’è una nuova «centralità». È Porta di Roma: una città-dormitorio semivuota su terreni privati da due milioni di metri cubi, residenze schierate intorno ai templi commerciali Auchan, Decathlon, Ikea, Leroy Merlin, 220 negozi, 7 mila posti auto. La domenica, anziché a messa, a MediaWorld. Porta di Roma è un emblema: la privatizzazione della campagna. Il piano delle centralità è decollato con le giunte Rutelli e Veltroni e costruttori d’area, poi Alemanno ha spostato il cemento verso la nuova edilizia abitativa.
Ma il fenomeno è nazionale: è lo “sprawl”, o dispersione urbana. Templi dell’iperconsumo sono sorti ovunque in aree libere. A Marcianise (Caserta), dove Il Campania copre 200 mila metri quadri con un chilometro di negozi; a Bergamo con l’Oriocenter (nel 2014, 14 milioni di persone), che con la futura Extension diverrà il più grande d’Italia, 275 negozi, 8 mila posti auto; in Piemonte il Serravalle Outlet, che da solo crea code sull’autostrada. Tra Fidenza Village, Castel Romano, Valmontone Outlet, l’era dello sprawl lascia monumenti che verranno studiati dagli etnologi del XXII secolo. Roma, però, dopo tot chilometri finisce. Milano e Napoli no.
Lo dicono gli urbanisti, e le foto satellitari: Milano e Napoli sono le uniche metropoli policentriche d’Italia. La prima sale a trapezio verso Brianza, Lario e confine svizzero. Sebastiano Brandolini, docente al Politecnico Eth di Zurigo, calcola che i confini amministrativi del Comune, se spostati e ricalcati pochi chilometri a nord, sull’hinterland, raddoppiano la popolazione (due volte 1,3 milioni): Milano non è che il quartiere Centro di una Milano-metropoli tra i 5 e gli 8 milioni, a seconda dei calcoli. Napoli si slabbra soprattutto a sud-est, da Afragola a Torre Annunziata. Terre difficili, camorra, discariche, abusi, nudi scheletri accanto a facciate barocche e viste stupende. Nella Zona rossa vesuviana risiedono 700 mila abitanti; il dopo-terremoto ha mangiato le campagne.
Ma lo sprawl metropolitano è diffuso anche altrove: la città lineare intorno a Genova, l’asse Cervia-Cattolica, il triangolo Vicenza-Treviso-Padova. Meno del 3% da 3% a 5% da 5% a 7% da 7% a 9% oltre 9% Suolo consumato Fonte: ISPRA Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale Consumo del territorio negli anni 1950 Consumo del territorio nel 2013 Con l’eccezione di Valle d’Aosta e Trentino-Alto Adige, in tutte le Regioni il consumo del suolo è fortemente cresciuto negli ultimi 60 anni. Le percentuali più alte in Lombardia e in Veneto, dove il territorio costruito eccede il 10 per cento La mappa del suolo consumato Il cosiddetto Mostro di Alimuri, a Meta di Sorrento, poco prima di essere abbattuto. A destra: la scogliera dopo la demolizione 22 ottobre 2015 19 PIÙ
Aree protette
In parallelo si registra un fenomeno virtuoso. Crescono le aree naturali protette. Il Parco nazionale d’Abruzzo fu fondato nel 1923. Ma dagli anni del Sacco di Roma il progresso impressiona, e non teme il confronto europeo. Oggi l’Italia conta 24 Parchi nazionali. Dal Golfo di Orosei al Pollino, dal Gran Paradiso alle Dolomiti Bellunesi. È peccato che allo Stelvio sia in atto uno smembramento amministrativo tra Regione Lombardia e Province di Bolzano e Trento; o che il Parco dell’Aspromonte, Calabria infelix, sia meno efficiente di altri. Malgrado ciò, la linea è di progresso. Abbiamo 27 Aree marine protette, 147 Riserve naturali statali e 134 Parchi regionali, 130 Oasi del Wwf, e le tutele del Fondo ambiente italiano si allargano al Mezzogiorno: ultima novità, la straordinaria Abbazia Santa Maria di Cerrate, fondata nel XII secolo, in mezzo alle campagne sopra Lecce.
Tra i giovani cresce la cultura del territorio. Come la tutela della biodiversità, tema che l’Expo 2015, col suo successo superiore agli anatemi, non ha ignorato. Su 51 località italiane classificate “Patrimonio dell’Umanità” dall’Unesco, dieci sono paesaggi: dalla Laguna Veneta (1987) fino all’Etna e a Langhe-Monferrato (2014). «E potrebbero essere 50», chiosa Brandolini: «L’Unesco si adegua sia alle ragioni culturali del paesaggio sia alle ragioni del turismo. Ma il turismo è strumento ambiguo, che insieme conserva e consuma».
Il ritorno del bosco
Tema trascurato, e invece centrale. L’Italia, dagli anni Trenta, ha perso 12 milioni di ettari di terre agricole; il bosco è cresciuto da 4 a 11 milioni di ettari. «E ha accelerato dagli anni Sessanta», spiega Mauro Agnoletti, cattedra di Pianificazione del territorio a Firenze: «In Toscana, dimezzati i terreni agricoli, oggi abbiamo 1,1 milioni di ettari di bosco. È stato un processo di semplificazione.
La Toscana era un puzzle di campi di grano, vigneti, boschi; oggi si è perso il 40 per cento di diversità del paesaggio. Gli stessi inglesi, che coniarono il termine Chiantishire, denunciano la perdita di autenticità». Nel Chianti, lasciati i terrazzamenti, la foresta cresce anno dopo anno.
Nel patinato Montalcino, dall’agricoltura promiscua, vite misto olivo, si è giunti alla monocoltura vinicola, «a rittochino», con i filari paralleli dal basso verso l’alto. Anche sulle Apuane, terra di marmi, il bosco ricopre campi e pascoli, ma castagneti secolari regrediscono. Il rischio incombe sui cosiddetti paesaggi storici. La Val d’Orcia, le colline di Fiesole, il Montalbano, la Montagnola Senese, i Castagneti dello Scesta, angoli di Garfagnana. È nato un Registro nazionale, che ne conteggia 120. La politica li terrà da conto?
Il bosco avanza forte anche in Liguria. Tipiche le Cinque Terre. Disboscate per le linee ferroviarie, rimboschite a pino marittimo, distrutte dagli incendi e dalla cocciniglia, ogni volta ripartite. «Oggi il castagneto storico è riconvertito in bosco ceduo», osserva Mauro Mariotti, botanico all’Università di Genova, «e il bosco si è espanso anche in zona-pascolo, a effetto mantello. Al posto di viti e oliveti, macchia e leccete». Con l’istituzione del Parco delle Cinque Terre (1999) è ripresa la cura dei terreni, ma i costi di manutenzione restano alti.
Diverso il Ponente, dove il paesaggio è marchiato dalla floricoltura intensiva. Oltre ai fiori di serra, alle piante aromatiche e alle succulente, una tendenza che emerge è la riconversione delle serre in pannelli fotovoltaici.
Montagne vicine e lontane
Un altro paradosso. Più la montagna si avvicina, la montagna si allontana. Turismo di massa e voli low cost hanno democratizzato, reso più accessibili le nostre Alpi. Sono sorti comprensori assai competitivi: la Via Lattea in Piemonte, Monterosa Ski, Cervinia-Zermatt, Dolomiti Superski sono hub turistici di rilievo europeo. Il nuovo impianto SkyWay rende più “comodo” il Monte Bianco (troppo, per i protezionisti). Crescono il trekking sulle Alte vie, l’alpinismo organizzato, il climbing, il running d’alta quota.
Ma se anche l’uomo innova, la natura segue il proprio corso. E il cambiamento climatico è arduo da governare. Il Nuovo catasto dei ghiacciai italiani ci rivela che dal 1962 a oggi la loro superficie totale è diminuita del 30 per cento, da 527 a 370 chilometri quadrati. Gli apparati glaciali si sono frammentati, oggi sono 903, oltre un terzo è in Val d’Aosta. Si sono ridotti tutti fortemente, anche i maggiori, l’Adamello, i Forni dell’Ortles-Cevedale e il Miage del Monte Bianco. La stessa Marmolada misurava 3,1 kmq nel 1962, oggi è scesa a 1,9. E dalle nevi in ritirata spuntano ogni anno, macabra sorpresa, i resti mummificati dei soldati della Grande Guerra.
Perché inseguire un'idea esclusivamente tecnologica di "smart city" non ha alcun senso, se tutti i settori municipali non collaborano fattivamente alla costruzione di spazi pubblici di qualità adeguati ai nuovi stili di vita e lavoro urbani. Today, 28 settembre 2015

La questione aperta dalla truffa emissioni della Volkswagen, riporta in primo piano i problemi della mobilità sostenibile, e degli spazi entro cui è possibile organizzare nuovi stili di vita e lavoro. A questo primo aspetto se ne somma un altro apparentemente indipendente, quando con la recente presentazione del cosiddetto iPadPro, la Apple di Cupertino riprova l'ormai usuale strategia di largo respiro inaugurata dal fondatore Steve Jobs: non inseguire i bisogni consapevoli del consumatore, ma in una specie di logica fantascientifica al contrario inventarne di nuovi sulla base di scenari futuribili. Nel caso specifico del nuovo trabiccolo, questi scenari futuribili altro non sono che certi sviluppi sociologici e urbani in parte già delineati negli studi di Richard Florida con la sua «creative class», soprattutto negli sviluppi pratici così come si iniziano a intravedere nei tanti quartieri che amministrazioni in cerca di spunti per le riqualificazioni promuovono ormai a man bassa. Per adesso prevale il modello capitalista-esclusivo, ovvero ciò che offre il convento del puro mercato: le aree dismesse o degradate sono invase da costruttori archistar e immobiliaristi, schizzano in alto i valori delle case, ma in cambio si realizzano zone a funzioni miste qualificate, e soprattutto molto post-moderne nella sostanza: appartamenti relativamente piccoli destinati a giovani o a stili di vita giovanili, alta densità di innovazioni tecnologiche a partire dal wireless ad alta capacità, forte mescolanza degli spazi residenziali, commerciali, per il tempo libero e il lavoro.

Nella logica di puro mercato con cui vengono al momento gestite oggi la maggior parte delle operazioni (per esempio promosse dalla vecchia amministrazione Bloomberg a New York), accade che essendo la «creative class» solo in minima parte composta da veri giovani prodigio, che guadagnano come un pascià prima dei trent'anni, si ricorra all'espediente del microappartamento, 20-30 metri quadrati a cui adattarsi, ma economicamente accessibili, sapendo però che l'offerta vera urbana si arricchisce degli spazi condivisi e pubblici del quartiere, in una logica ben diversa dal suburbio privatizzato delle villette. È qui che si dispiega la potenza ergonomica dell'iPadPro, fortissimo quanto a portabilità per funzioni eminentemente lavorative, inaccessibili allo smartphone e anche ai tablet attuali. Ma appunto a questa estrema portabilità deve corrispondere una ampia e diffusa disponibilità di spazi pubblici attrezzati a svolgere il compito. Cosa vuol dire spazi pubblici attrezzati? Ecco, qui si intrecciano in modo interessante molte questioni del tutto aperte nel dibattito internazionale e locale sulla cosiddetta «smart city», che ci fanno capire quanto lontani dalla realtà possano essere certi nostri amministratori convinti che basti l'approccio tecnologico a risolvere tutto.

Recentemente, per questioni del tutto personali legate alla connettività e alle tariffe degli operatori mobili (a cui ci obbliga tra l'altro la scarsa disponibilità sul territorio di reti wireless ad accesso gratuito), ho provato a sperimentare brevemente di persona il divario, attuale e potenziale, fra gli scenari socio-spaziali delineati dalla Apple col suo nuovo prodotto, e lo stato dell'arte di una città relativamente moderna e internazionale come Milano, che da qualche anno ha iniziato a dotarsi di una propria rete wireless. Quale rapporto c'è, in altre parole, fra lo spazio fisico dei quartieri e la teorica disponibilità tecnica della connessione? Spiace dire che pare non ne esista nessuno, se non quello del tutto casuale determinato dalla collocazione degli impianti «dove c'è la gente», ovvero ogni tanto si, ogni tanto no, vicino o dentro a qualche spazio pubblico. La cui qualità però sembra del tutto indipendente e slegata rispetto alla nuova infrastruttura, praticamente come se i distributori di benzina fossero lontani dalle strade, difficili da raggiungere con vari ghirigori, e poi le pompe fossero piazzate qui e là senza un piazzale, il pagamento fosse laborioso salvo buona volontà del gestore, eccetera eccetera.

Lo testimonia un rapido sopralluogo sia nelle zone dei quartieri servite dalla rete comunale, sia in quei vagheggiati «poli di eccellenza urbana» delle cosiddette Isole Digitali varate qualche anno fa con un certo clamore mediatico, e di cui era forse lecito aspettarsi qualche evoluzione oltre il puro simbolo di efficienza. Immaginiamoci un rappresentante di questa classe creativa di massa, ovvero una evoluzione dei tanti che già oggi si improvvisano postazioni di lavoro dagli abitacoli di auto o furgoni, alla ricerca di un ufficio pop-up nella metropoli. Scoprirebbe che lavorare col suo iPadPro o modello analogo della concorrenza, nelle strade e nelle piazze così come sono non-attrezzate oggi, è pressoché impossibile. Indipendentemente dalla qualità tecnica della connessione, e anche indipendentemente dalla sua diffusa disponibilità, anche là dove il collegamento risulta facile, immediato, stabile, è l'ambiente urbano a presentare le più vistose carenze diciamo così ergonomiche: mancano posti a sedere (o mancano del tutto, o sono così pochi da non andare oltre il simbolico), non c'è alcuna cura nel definire spazi dotati di qualche carattere o intimità, schermati dal traffico, dal rumore, dall'inquinamento nel senso superficiale di fumi fastidiosi, e via dicendo. In altre parole, la famosa immagine del giovane professionista che guadagna digitando dal bordo della piscina resta solo una caricatura pubblicitaria, se proviamo a proiettare l'idea sul territorio e la società locale. Chi lavora sul serio in trasferta, è ancora costretto a cercarsi il classico rifugio dell'ufficio, per quanto improvvisato in una stanza d'albergo, in un atrio commerciale, o nell'anticamera di qualche posto dove ha un appuntamento. Campi nomadi digitali, frutto di una specie di post-urbanistica del disprezzo, o più probabilmente di pura trascuratezza, e mancata collaborazione tra settori municipali. Speriamo che se ne accorgano, prima o poi: il post-industriale non è solo chiacchiere e distintivo.

Su La Città Conquistatrice anche un racconto più articolato del rapporto fra spazi metropolitani e nuove professioni: Startupper metropolitani assortiti

La sempiterna «questione periferie», mai seriamente affrontata con strumenti adeguati, produce reazioni spontanee di alcuni abitanti, che si prestano solo a tristi e inutili strumentalizzazioni. Today, blog Città Conquistatrice, 21 settembre 2015

Sarà la vaga eco della questione rifugiati vaganti per l'Eurasia, sarà l'avvicinarsi della prossima scadenza amministrativa in tante situazioni chiave per gli equilibri nazionali, ma pare si stiano moltiplicando le iniziative locali dei soliti mai placati «cittadini per l'ordine». Anche i più placidi e miti candidati e rappresentanti del popolo, più o meno tirati per la giacchetta da comitati o consulenti elettorali, non mancano di scimmiottare pateticamente qualche accenno di muso duro da Ispettore Callaghan, mettendo la solita «sicurezza percepita» in primo piano negli slogan programmatici e nelle dichiarazioni alla stampa. Forse però, la cosa da percepire prima della sicurezza percepita sarebbe la realtà, dai dati statistici sui reati (la quantità, la qualità, la localizzazione) a ciò che davvero inquieta i cittadini dei quartieri nelle loro esperienze quotidiane di fruizione dello spazio urbano. E distinguere così con chiarezza quanto appartiene propriamente alla sfera poliziesco-giudiziaria, da quanto invece riguarda altri interventi, o informazione, o prevenzione o altro. La politica, la società nel suo insieme, gli organi di informazione, proprio quello dovrebbero fare, e invece si intorbidano le acque, a volte per pura trascuratezza.

Un caso recente, piccolo piccolo ma emblematico, è quello di un incidente stradale avvenuto a Milano alcune sere fa. Un'auto accelera al semaforo giallo, una bambina qualche passo più avanti della mamma che aveva già iniziato ad attraversare viene travolta, carambola sul cofano, la macchina sbanda ma sgommando si allontana nella notte. Per la cronaca siamo in piena sindrome da caccia al pirata, e gli articoli successivi si concentreranno sulla cittadinanza (straniera) di tutti i protagonisti, macchine intestate a prestanome, alloggi occupati abusivamente, analisi della polizia scientifica per inchiodare i responsabili. Il pubblico, così come guidato da questa narrazione, guarda orripilato il dito, sentendosi oppresso da incombente pericolo (tutti travolti da un'auto guidata da criminale venuto dallo spazio esterno), ma non vede la luna. Che in questo caso, tornando dalle vertigini iperboliche dei bassifondi urbani in superficie, sta semplicemente nell'idiozia di quel semaforo in cui è avvenuto il misfatto, che non è il primo, né il più grave, e non sarà neppure l'ultimo se continuiamo a guardare altrove, e ad agire solo altrove. Insomma oltre ai poliziotti agli investigatori e ai magistrati ci vorrebbero degli ottimi geometri per risistemare l'incrocio: poi, solo poi ed eventualmente, ragioniamo anche su immigrati, assegnazione di alloggi popolari, permessi di soggiorno. Perché quelle cose in sé con quell'incidente c'entrano poco.

E la stessa cosa poi si può dire con la gran massa delle cose sventolate da ronde e comitati di «cittadini per l'ordine» di solito messi in piedi da qualche politicante per raccogliere consensi di bassa lega, soffiando sul fuoco di paure ataviche vagamente suscitate dal nuovo, da ciò che non si conosce, dall'inusuale, o dal semplice disordine. Perché indubbiamente di disordine e confusione ce ne sono in abbondanza nelle nostre città: dal punto di vista delle forme di convivenza, dell'uso degli spazi collettivi e dei servizi, degli stili di vita e abitudini che confliggono. Ma resta da chiedersi perché mai ad esempio l'orribile degrado indotto dalla cosiddetta «movida» susciti reazioni del tutto diverse, da cose microscopiche come un paio di disgraziati senza casa che parcheggiano un camper nell'angolo del piazzale del mercato, magari stendendo i panni tra un albero e l'altro. Intendiamoci: in entrambi i casi il degrado, nel senso di sottrazione di spazio e tempo all'uso corrente della città da parte degli abitanti, esiste, è innegabile, ma perché i ragazzotti urlanti, i deejay fracassoni, gli ettolitri di birra e montagne di spazzatura non generano la «emergenza sicurezza» di qualche povero sfigato accampato in un angolo? Bisognerebbe chiederlo a quelli delle ronde a caccia di consensi elettorali, che di sicuro non ci risponderebbero se non urlando anche contro di noi. Perché davvero stavolta, per usare una frase fatta: «il problema è un altro». Sono loro, il problema.

p.s. Il consigliere comunale di Milano ed esperto di sicurezza urbana Gabriele Ghezzi, mi scrive rivendicando il copyright del titolo «Una Ronda non fa Primavera», nel suo programma elettorale di qualche anno fa, copyright che riconosco senza alcun problema, per carità. Sul sito La Città Conquistatrice numerosi articoli trattano criticamente il tema della Sicurezza Urbana

Siamo nell’epoca dell’opera d’arte infinitamente riproducibile e fruibile con infiniti supporti tecnici: ha qualche senso che una squallida lobby di speculatori (e decisori analfabeti) voglia compiere l’ennesimo passo verso la privatizzazione di tutto quanto? Corriere della Sera, 4 luglio 2015, postilla (f.b.)

Una monumentale sciocchezza. Come definire, altrimenti, la proposta di vietare la condivisione delle fotografie di celebri edifici e opere d’arte, in nome della protezione del diritto d’autore? È difficile crederci, ma di questo discuterà il Parlamento europeo il 9 luglio, in seduta plenaria. Come si è arrivati a questa delicata follia? Un’eurodeputata tedesca, Julia Reda, chiedeva che la «libertà di panorama» fosse sancita ufficialmente dalla Ue. Ma un eurodeputato francese, Jean-Maria Cavada, ha proposto un emendamento che prevede l’autorizzazione del titolare dei diritti d’autore, in caso di utilizzo commerciale della riproduzione. E i tre gruppi principali (socialisti, popolari, liberali), in commissione, l’hanno sostenuto.

Oggi la «libertà di panorama» esiste in molte parti d’Europa. Non in Italia, però: il codice Urbani (2004) impone autorizzazioni sui beni culturali storici. Non in Francia: fotografare la Torre Eiffel di notte pare sia vietato (informare legioni di innamorati e battaglioni di turisti giapponesi). Ma scattare una foto-ricordo sul decumano di Expo, e caricarla sul profilo Facebook? Potrebbe violare il diritto d’autore di qualche dozzina d’architetti. Per pubblicare un’immagine di Buckingham Palace su Instagram dovremo scrivere alla Regina Elisabetta? L’Europarlamento voterà solo un documento d’indirizzo. Ma come siamo finiti qui? Semplice: affrontiamo problemi nuovi con strumenti vecchi.

«Riproduzione di opere d’arte» è un termine che profuma di pellicole, riviste ed enciclopedie; mentre oggi ognuno di noi viaggia con una formidabile fotocamera digitale dentro il telefono. «Utilizzo commerciale dell’immagine» presuppone qualcuno che vende e qualcuno che compra. Facebook, Google & C. non vendono e non comprano: fanno soldi su tutti e su tutto (è diverso). Il Parlamento si appresta a votare, quindi, una misura antistorica, inapplicabile e — diciamolo — ridicola. Come reagire? Semplice. Smettiamo d’andare nelle grandi capitali. Rinunciamo a visitare le città d’arte. Basta fotografie davanti ai monumenti e con lo sfondo dei grattacieli. Tempo una settimana, e verranno a chiedercelo in ginocchio. Tornate! Fotografate! Renzo Piano, Richard Rogers, Norman Foster, siete persone di buon senso: avanti, battete un colpo. Eiffel, Bernini e Vespasiano non lo possono più fare.

postilla

Quante volte qualcuno fra chi legge, proprio per intricate questioni di copyright poste da un editore o da una redazione, ha per così dire tagliato la testa al toro pescando uno scatto proprio dall’hard disk, o addirittura da una bustina di plastica di vecchie stampe a colori, via scanner? Ma non è certo finita qui, perché tutto il nuovo valore d’uso sociale dello spazio pubblico, oggi, si accoppia proprio alla sua libera disponibilità virtuale anche in quanto immagine, oltre che luogo virtualmente condiviso con chi si collega a noi solo attraverso reti immateriali. Coglie benissimo il senso generale di questa stupida e autoritaria spinta lobbistica, l’Autore dell’articolo, quando parla sostanzialmente di spazio collettivo nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, totalmente ribaltata dal nuovi strumenti di comunicazione. E sbaglia di grosso chi crede davvero che il tentativo di «uniformare le normative sui diritti di immagine», come ci spiegano saccenti alcuni personaggi (e come è anche circolato sui social network in risposta alla petizione), abbia qualche senso. Certo, le vecchie normative sull’uso commerciale di alcune riproduzioni qualche senso ce l’avevano, ma non è sicuramente piallando in malafede tutto secondo quegli arcaici criteri che si vada da qualche parte. Basta pensare cosa è accaduto in tempi recentissimi alle riproduzioni di suoni, su cui si continuano a combattere battaglie analoghe, per capire che è proprio l’idea di spazio pubblico liberamente disponibile, ad essere in gioco e non certo qualche raro «diritto d’artista» profumato di lastre, acidi, inchiostri, tanto vintage quanto il cervello di chi non ha proprio colto la posta in gioco (f.b.)

Relazione di Stefano Boato all’incontro "La presa di Venezia. Discussione sulla svendita del patrimonio immobiliare pubblico e sui modi per contrastarla". Venezia 12 maggio 2015


La vendita e la concessione d’uso ai privati dei beni pubblici in Italia e in Comune di Venezia è molto aumentata dal 2.000 ad oggi e sta avendo un’ulteriore accelerazione dalle recenti leggi sulle sdemanializzazioni e dagli atti amministrativi già avviati a realizzazione come si può rilevare dalla cartografia e dagli elenchi, pur ancora parziali e non completi, che presentiamo. Le problematiche e le polemiche che all’inizio sembravano riguardare solo casi sporadici e che ancor oggi restano confinate ad un ristretto ambito di “addetti ai lavori”, hanno quindi un urgente bisogno di allargare la consapevolezza, l’informazione, la discussione alla comunità. Solo una vera partecipazione dell’intera popolazione può mettere sotto controllo questo processo sempre più accentuato e grave, e i singoli atti non possono più essere affrontati solo con affrettate polemiche specifiche, difficilmente documentate all’ultimo momento. Innanzitutto, eliminata ogni vendita ai privati di beni pubblici, anche ogni ipotesi di concessione va subordinata alla verifica di non bisogno del bene per usi sociali di qualsiasi tipo.

Le stime del valore degli immobili degli ultimi anni sono sempre più inadeguate e totalmente sbilanciate a favore degli interessi privati; dalle stime dell’inizio anni 2.000 del parco pubblico di via Pio X° in pieno centro storico a Mestre ceduto ai privati e raso al suolo per far costruire un condominio, alle recenti stime relative al valore del Fondaco dei Tedeschi a Rialto o delle Procuratie Vecchie in piazza S.Marco a Venezia. Le stime non possono più essere delegate alle sole strutture interne del Comune o alla consulenza di studi professionali privati, occorre imporre sempre la verifica con stime di altre strutture pubbliche terze esterne, e nel margine di incertezza si devono imporre i maggiori valori nell’interesse pubblico.

Le aree e gli edifici dei servizi pubblici vigenti, faticosamente conquistati negli anni, devono essere mantenuti e non rimossi addirittura anche con l’avvallo degli uffici urbanistica che li giudicano superflui o superiori alle necessità (Fondaco dei Tedeschi, Giardino delle Vergini, Villa Heriot, Procuratie Vecchie a Venezia; aree centrali di Mestre e Marghera cedute o riallocate ai margini esterni della città).

Le norme edilizie ed urbanistiche vigenti devono essere rispettate, e non evase con deroghe avvallate dalle strutture tecniche comunali e con formali delibere politico-amministrative che dichiarano inesistenti e fantasiosi interessi pubblici non specificati e valutati in base a principi espliciti. Queste deroghe comunque non debbono più essere deliberate con Accordi di Programma tra il Sindaco o un suo delegato e altri rappresentanti pubblici e privati, obbligando così il Consiglio Comunale ad un avvallo a posteriori di fatto obbligato.

Le disinvolte delibere di cambio d’uso, passando di solito da funzioni residenziali o di servizio a funzioni terziarie o turistiche (sino ad oggi anche rimuovendo vigenti vincoli a standard di servizio pubblico) non vanno nell’interesse della vivibilità della città ma dei profitti e delle rendite dei privati e creano un valore aggiunto dell’immobile che almeno deve essere stimato e valutato in modo controllato e corrisposto in misura prevalente all’Amministrazione Pubblica (Beneficio Pubblico tendenzialmente pari al 66 %, mai comunque inferiore al 51%).

Le nuove funzioni private autorizzate non devono occupare i pochi spazi centrali a servizi rimasti disponibili in centro città (sia a Venezia che in terraferma). In ogni caso comunque gli standard di servizio vanno attuati integralmente rispettando le norme e cedendo integralmente le aree o gli spazi dovuti. A Venezia in particolare l’obbligo di legge deve comunque essere rispettato recuperando le aree o i volumi di servizio (vedi evasione dell’obbligo di legge per il Fondaco dei Tedeschi).

Le aree a verde pubblico vanno comunque mantenute, rispettate o attuate (e non devastate per l’obbligo privato di drenaggio delle acque nelle nuove edificazioni (obbligo per la cosiddetta “invarianza idraulica”). Si può invece cominciare a sperimentare la sostituzione degli standard a parcheggi con la realizzazione (a parità di valore) di infrastrutture per la mobilità pedonale (Plan Pieton) , piste ciclabili, trasporti pubblici.

Nel caso in cui si intenda dare in concessione per un certo numero di anni un bene, non già vincolato a servizio pubblico, la concessione deve avvenire sulla base di un bando e/o gara pubblica in coerenza ai piani, progetti e programmi vigenti o preliminarmente deliberati, precisando le condizioni d‘uso in modo rigoroso e controllabile; se non rispettata la concessione dev’essere automaticamente revocata; vedi le concessioni a di parti dell’Arsenale al Consorzio Venezia Nuova e alla Biennale anche recenti (prevenendo ed esautorando gli organi democratici di imminente elezione) di spazi ulteriori ai già moltissimi concessi (Sale d’Armi nord e sud) o vincolati a verde pubblico (Giardino delle Vergini).

Gli oneri di urbanizzazione, cioè le risorse per la realizzazione della qualità degli insediamenti urbani (prescritte fin dal 1977 dalla legge Bucalossi –Testo Unico per l’Edilizia n.10) non devono essere più dirottati per le spese ordinarie dei bilanci comunali (incentivando così anche le edificazionie le cementificazioni inutili); cominciò a consentirlo il governo Amato nel 2001 e ora i Commissari prefettizi di Venezia Zappalorto e Tatò propongono l’integrale deroga dalla destinazione di legge per la qualità urbana e il loro uso per spese ordinarie correnti.

Le strutture dell’amministrazione devono essere adeguate ai compiti per una efficace tutela e attuazione degli interessi pubblici e i piani e i progetti devono essere sottoposti ai pareri della Commissione di Salvaguardia in attuazione alle Leggi Speciali vigenti (il Comune di Venezia è l’unico dei nove comuni di gronda che non invia le documentazioni per i pareri di legge).

Per la vivibilità e la socialità della città, occorre che la comunità urbana si riappropri delle decisioni e del controllo sull’uso dei beni e degli spazi pubblici.

Relazione di Paola Somma all’incontro "La presa di Venezia. Discussione sulla svendita del patrimonio immobiliare pubblico e sui modi per contrastarla". Venezia 12 maggio 2015

1. La mappa con la localizzazione degli immobili e/o delle aree pubbliche cedute ai privati negli ultimi anni, o la cui alienazione è stata annunciata, mostra l’enorme dimensione di un fenomeno che sta travolgendo l’intero territorio comunale. Perchè viene venduto il patrimonio pubblico? Come vengono prese le decisioni? Quali effetti la sistematica privatizzazione di pezzi di città ha sull’intera città?Per capire quello che sta avvenendo, più che di vendita, termine che richiama l’esistenza di un contratto tra due parti consenzienti, il venditore e l’acquirente, è utile adottare un lessico di guerra e parlare della PRESA di Venezia.

Se fossimo in guerra, la mappa mostrerebbe le posizioni che abbiamo perduto e, allo stesso tempo, verrebbe usata al quartier generale del nemico per evidenziare le posizioni espugnate. In ogni caso rende visibile l’entità della preda, la cui conquista frutta un ricco bottino a chi se ne impadronisce. C’è un tesoro in comune (L’Espresso, 1 giugno 2010), titolava un giornale qualche anno fa e spiegava come “grazie al cambio di destinazione d’uso, i beni demaniali ceduti dallo Stato possono facilmente raddoppiare, triplicare e perfino quadruplicare il proprio valore” . Nello stesso articolo si chiariva che “il business della devolution non finisce solo nelle casse dei comuni, ma anche nelle tasche di chi ha fiuto per gli affari”.

2. Quali sono le forze che si contendono i beni pubblici? Da un lato ci sono le città, nel senso di civitas, cioè l’insieme dei cittadini, indipendentemente dalle loro ricchezze o dalle cariche che ricoprono, dall’altro gli investitori che hanno “fiuto per gli affari” – Tra le due parti c’è il governo, ad ogni livello territoriale, che per definizione è investito della promozione del benessere collettivo, ma che di fatto è schierato a sostegno di chi si sta appropriando di ogni bene pubblico. Così, il governo centrale trasferisce beni del demanio ai comuni, affinchè i comuni li vendano. “Regali piovono sul comune”, dicono i giornali, dimenticandosi di specificare che si tratta di regali “in transito” e che il beneficiario finale non sono i comuni, ma soggetti privati.

Inoltre, il governo crea appositi meccanismi e strutture, tra le quali la Cassa Depositi e Prestiti con i suoi fondi d’investimento immobiliare, col preciso scopo di “stimolare e ottimizzare i processi di dismissione di patrimoni immobiliari degli enti pubblici che presentino un potenziale di valore inespresso, per esempio legato al cambio d’uso”. Tali strutture operano sull’intero territorio nazionale, ma ovviamente, sono più aggressive dove la preda è più ricca. Cassa Depositi e Prestiti scatenata alla conquista di Venezia (Venezia Today, novembre 2014) è l’efficace titolo con cui si illustra l’attività della Cassa che “sta acquistando a basso costo immobili e isole per riutilizzarli per operazioni di carattere turistico e alberghiero”.

Infine, un ruolo non secondario nella smobilitazione del patrimonio pubblico è affidato alle molte istituzioni, società ed enti titolari di un patrimonio che è dei cittadini – dall’azienda sanitaria all’Università, all’azienda dei trasporti locali. Tutte vengono di fatto, e spesso di diritto, scisse in due tronconi. Ad uno si conferisce il patrimonio immobiliare, e lo si trasforma in una vera e propria società di sviluppo immobiliare (vedi ACTV e PMV), all’altro, sempre più impoverito resta il compito di erogare i servizi e diventa una “bad company”.

3. In questo scenario o teatro di guerra, tutti gli amministratori che negli ultimi 20 anni hanno governato Venezia hanno scelto di non valorizzare nulla e di dismettere tutto, e l’hanno fatto senza coinvolgere i cittadini o contro la loro espressa volontà. Tutte le decisioni che si sono tradotte in una perdita di patrimonio pubblico (dalla creazione del fondo immobiliare alle svendite di palazzi) sono state assunte dal sindaco e dalla sua squadra che hanno operato come quinta colonna degli investitori privati. «Dobbiamo arrangiarci e saperci vendere», ha detto nel 2009 l’ex sindaco Cacciari. E nel sito web della Direzione Svilluppo Territorio ed Edilizia una apposita rubrica è stata dedicata al Marketing Urbano e Territoriale, nella quale si esalta la partecipazione a tutte le fiere del settore immobiliare (Expo Italia Real Estate, Urban Promo, Tre Eire, Mipim) e le azioni sostenute per segnalare agli operatori del “comparto Real Estate le opportunità di investimento”. A questi eventi i funzionari del comune si recano con il portfolio delle “occasioni in offerta” che comprende, di volta in volta, Forte Marghera, l’Ospedale al Mare, i palazzi ceduti al Fondo Immobiliari.

4. La propaganda si è rivelata una delle armi più efficaci per prevenire e neutralizzare le reazioni delle comunità e indurci a consegnare senza resistenza il patrimonio di noi tutti. D’altronde, chi vince la battaglia dell’informazione vince la guerra, dicono gli strateghi militari. L’argomento più usato è quello secondo il quale la vendita del patrimonio è “funzionale al ripiano del debito pubblico”. Dal momento, però che malgrado le continue vendite il deficit di bilancio continua ad aumentare, è opportuno chiedersi se il nesso causale tra debito e vendite non vada invertito. Forse il comune intraprende grandi opere inutili e persevera in grandi sprechi perché mette in bilancio ipotetici guadagni o perchè sa che più si indebita più potrà vendere. Il Comune è con l’acqua alla gola, titola Repubblica nel maggio 2010, e aggiunge «se non vende i suoi tesori rischia di non poter saldare i conti del Palazzo del Cinema».

Il che significa che prima si è decisa l’operazione Palazzo del cinema e poi si “scoperta” la necessità di vendere l’ospedale. Allo stesso modo, prima si è deciso che Venezia ha bisogno di un tram per portare milioni di turisti da aeroporto al porto, poi si è stati “costretti” a svendere il deposito di mezzi ACTV in via Torino. Il risultati è che sull’area un privato ha costruito un grattacielo, mentre l’ACTV deve affittare spazi per i veicoli e compensare le costanti perdite con l’aumento dei biglietti. Se le vendite non servono a ripianare i debiti, bisognerebbe quindi chiedersi se l’obiettivo dichiarato del pareggio di bilancio sia il vero obiettivo o se, in realtà, il vero scopo non sia quello di far si che il comune resti sempre indebitato. Un comune senza debiti, infatti, non sarebbe obbligato a svendere, e non c’e miglior tattica per costringere alla resa gli assediati che prendere la città per fame.

5. Le vendite del patrimonio pubblico non solo non rispondono a nessun requisito di razionalità economica, ma producono anche una serie di danni collaterali. Il comune, infatti, per rendere i beni più appetibili ai privati, non si limita a fissare prezzi molto vantaggiosi, ma offre o è disposto a “negoziare “ apposite varianti urbanistiche con relativo aumento di cubatura, nuova edificazione, rimozione di vincoli d’uso (si dice ad esempio che la cessione della Biblioteca di Mestre potrebbe portare a 5 mila metri cubi di nuova edificazione, la scuola Manuzio ha una potenzialità 22 mila metri cubi, l’Ospedale al Mare “si porta in dote” il piano di valorizzazione del Lido).

Oltre ad impoverire la collettività, le privatizzazioni contribuiscono a cedere ai privati, in quanto proprietari, il compito di fare il piano e a legittimare il primato degli interessi particolari nel determinare le scelte del governo urbano. Sono quindi il risultato di una serie di azioni concertate con gli investitori da parte dello stato che rompe il contratto sociale con i cittadini per facilitare l’estrazione di profitto privato.

6. Se non siamo di fronte a episodi di “compra vendita di immobili”, ma alla conquista da parte dei privati, con la complicità delle istituzioni, delle porzioni più appetibili del territorio e del ruolo di pianificatore della città, più che privatizzazione dovremmo parlare di privatismo e soprattutto dovremmo chiederci se dopo aver perso tante battaglie è ancora possibile rovesciare l’andamento della guerra? Fra le azioni per contrastare il fenomeno, indispensabile è svelare la manipolazione del linguaggio, il bombardamento di copertura ideologica. con la quale i mezzi di comunicazione raccontano al cittadino derubato i miracoli delle svendite, partendo dai termini rigenerazione- rinascita -rinascimento -riqualificazione – con i quali le azioni finalizzate ad incrementare la redditività dell’investimento privato vengono osannate come benefiche per tutta la collettività.

Lo stato si libera di spiagge, forti, isole è un trionfale titolo del Gazzettino, nel 2010, uno dei tanti esempi del modo con cui lo stravolgimento lessicale corrisponde ed è funzionale allo stravolgimento della democrazia urbana. Tra i termini con i quali si esalta la rapina del patrimonio pubblico, restituzione è forse quello che meglio esprime la malafede da parte di chi lo usa – amministratori, tecnici, mezzi di informazione – perchè alla fine di queste restituzioni, la collettività non possiederà più nulla. La presunta equivalenza tra la privatizzazione di un immobile pubblico e la sua restituzione alla città viene propagandata con un artificio retorico. Si sostiene cioè che, per poter essere definito pubblico, uno spazio non deve necessariamente essere di proprietà pubblica, perché quello che conta è che esso sia utilizzabile, “aperto al pubblico” . E’ un argomento sostenuto da chi privilegia le “pratiche” d’uso rispetto all’assetto proprietario e ritiene che pubblico sia ogni spazio dove è possibile “l’interazione tra le persone” (come in un cinema, un bar, un centro commerciale).

Bisognerà, poi, ricostruire le vicende di ogni bene simboleggiato dai bollini rossi sulla mappa, a cominciare dall’Arsenale, la rocca della nostra città, il cui assedio è cominciato oltre 30 anni fa. Nel 1980, Paolo Portoghesi allora direttore della Biennale disse di voler usare la Biennale come “cavallo di Troia per aprire l’Arsenale”. Nel 1993 uno degli slogan della fortunata campagana elettorale di Massimo Cacciari fu “abbattiamo le mura dell’Arsenale!” Nè in un caso, nè nell’altro i cittadini hanno ascoltato Cassandra, finchè non è stato chiaro a tutti che “Arsenale restituito ai veneziani” (La Nuova Venezia, 2012) significa in realtà Arsenale lottizzato e assegnato ai vari potentati che si stanno spartendo la città, dal Consorzio Venezia Nuova alla Biennale. Per completare la missione pochi mesi fa il commissario Zappalorto ha dato incarico a NAI Global Italia, una società di consulenza, intermediazione immobiliare e gestione di fondi immobiliari, di “testare la sensibilità degli investitori, identificare una forchetta di valori immobiliari nei 28 lotti” indicati dal comune all’interno dell’Arsenale.

Infine, la millantata “restituzione” dello spazio pubblico ha una valenza politica e culturale oltre che economica, perchè consente ai privati di impossessarsi non solo di ingenti beni materiali, ma dell’idea stessa di comunità urbana. Non a caso Paolo Baratta, il presidente della Biennale che in passato è stato ministro delle privatizzazioni del governo Amato e ministro del commercio estero del governo Dini ha rilasciato una serie di interviste nelle quali detta l’agenda alla futura amministrazione e reclama un «patto urgente per fare fronte comune e trovare risorse per nuovi interventi in Arsenale»… «io sono un po’ preoccupato”, ha detto “perché la logica di farne un’area urbana aperta come un qualsiasi altro spazio della città rischia di trasformarlo nel giro di una generazione in un’area edificabile come qualsiasi altra… perché si fa presto a dire pubblico, bello applaudire al passaggio dal Demanio al Comune ma con i chiari di luna in fatto di finanziamenti, il rischio è il ritorno degli immobiliaristi”.

Di fronte all’arroganza di chi si crede il governatore di un enclave occupata dalla quale organizzare sortite per occupare la città, anche noi chiediamo un patto con la futura amministrazione, perchè dopo la rapida ricognizione delle perdite faccia, con i cittadini, un piano realistico di ricostruzione del patrimonio pubblico, nella consapevolezza che esiste un rapporto stretto tra la ricostruzione dello spazio fisico e di quello politico.

Riferimenti

Sugli episodi di "mecenatismo" a Venezia vedi i numerosi scritti di Paola Somma in questo sito. In particolare, per l'apporto del "mecenate" Rosso e il valore economico che ha ricavato dal suo obolo vedi " Il ponte del Fontego ". Vedi poi i libretti della collana "Occhi aperti su Venezia" di Corte del fontego editore. Pubblicheremo inoltre su eddyburg i testi delle relazioni svolte all'incontro dedicato alla "Presa di Venezia" organizzato da Corte del fontego editore, da Italia nostra - Venezia e da eddyburg.

Una specie di racconto in stile chiaroscuro chandleriano, sullo sfondo di un’idea stupida e sbagliata di spazio pubblico per la mobilità dolce pieno di difetti, facilmente rimediabili, ma bisogna pensarci. Corriere della Sera Milano, 21 aprile 2015, postilla (f.b.)

Ma che bella giornata di Primavera! Sole caldo, cielo azzurro e un’arietta frizzantina da liberi tutti. Liberi dal lavoro, dallo studio, dai rapporti usurati-usuranti, dalle ipocrisie della quotidianità. In bicicletta, dunque! E via lungo la Martesana, come l’operaio di Prévert in fuga dalla fabbrica. C’è da verificare, tra l’altro, se a Cernusco hanno finalmente alzato le chiuse, se l’acqua è tornata nel canale, insieme ai germani reali, alle gallinelle dal becco rosso, alle nutrie goffe e grassocce, alle bottigliette Heineken, ai sacchetti di plastica Esselunga, ai preservativi Hatù, agli scatoloni di cartone, ai bidet di ceramica, ai pannolini ripieni graziosamente rilasciati dai milanesi d’antan e da quelli acquisiti. La pedalata sciolta e vivace divora in pochi minuti il tratto Melchiorre Gioia-via Padova e affronta con determinazione l’asfalto rosso granulato di via Idro. Il campo nomadi sonnecchia sulla destra. L’orologio dice le 15,30. È tempo di siesta lì dentro. Due ragazzini giocano al pallone tra cocci di vetro e cumuli di macerie. Un cane abbaia senza convinzione, per dovere.

Superata una cancellata d’incerta utilità pratica, ecco il ponticello d’acciaio che porta al sottopasso della tangenziale Est. Di qua Milano, di là Vimodrone e Cologno. La citybike nera da gagà metropolitano s’inerpica sul manufatto modello Alcatraz dai parapetti altissimi. Ed è lì che, in una giornata praticamente perfetta, si verifica l’intoppo, l’incongruo che non t’aspetti: che c... ci sta a fare in mezzo al ponte quel giovanotto smilzo, biondo, con orecchino di perla e tatuaggi d’ordinanza sulle braccia? Più veloci di un flipper digitale, le sinapsi segnalano che la cronaca nera si è già occupata di quel posto e che il giovanotto in t-shirt e pantaloni scampanati alla marinaia potrebbe essere un lontano parente di Ghino di Tacco. Quello che taglieggiava i passanti piombandogli addosso dalla fortezza di Radicofani. Ghino, intanto, ha già spalancato le braccia magre occupando tutto la larghezza del ponticello. Fermarsi e pagare il pedaggio o andargli addosso rischiando di cadere insieme a lui? Fermarsi, ovviamente. Perché è in momenti come questi che fanno sentire il loro peso secoli di civilizzazione e la fragilità che ne deriva. «Dammi 10 euro» intima lui con un tono di voce acuto e vagamente isterico. «Ti conviene. Più avanti ci sono altri che t’aspettano. Ben più cattivi di me».

Lì per lì colpisce, più dell’offesa, la correttezza della sintassi e ancora di più la logica economica della richiesta. Dieci euro, in fondo, sono poco più di quello che se ne va quotidianamente fra lavavetri e mendicanti vari. Resta il fatto che la richiesta produce uno sdoppiamento della personalità. Quella razionale e pragmatica propende per un ragionevole compromesso: rassegnarsi, pagare e filare via. Quella legalitaria e intransigente spinge per assumere l’iniziativa: un bel cazzotto sul naso e magari un calcione tra le palle, come farebbe Bruce Willis. Questa o quella? Né l’una né l’altra, alla fine, ma il tentativo di ipnotizzare il ragazzo di vita con una dotta affabulazione sui rischi immediati e prospettici di una vita border line, dissoluta e violenta. E con la speranza di veder spuntare un altro ciclista, un maratoneta con le Nike, un pensionato delle ferrovie, un birdwatcher con la Nikon, magari un rom onesto. Invece niente.

Ghino, comunque, non ha alcuna intenzione di lasciarsi irretire da una morale che suona palesemente strumentale nelle circostanze date. Sulle sue labbra sottili affiora un ghigno che sa di angoli bui, di lacci emostatici, di farmacie notturne, di carabinieri maneschi. Con gesto teatrale affonda la mano destra nella tasca dei pantaloni e ne estrae qualcosa di luccicante che assomiglia molto al manico di un coltello a serramanico. Il gesto abbassa di qualche centimetro la cintura dei pantaloni e scopre l’elastico degli slip neri marcati Ascot. Che i 10 euro gli servano per comprarsene altre due paia di ricambio?

È chiaro a entrambi che lo stallo non può durare a lungo. Ok, vada per i 10 euro. Purché si salvino i documenti, l’orologio, il cellulare e la citybike... D’altronde, non è forse questa la nuova banalità del male? Non quella della Arendt, fondata sulla violenza dell’ideologia, quella sminuzzata e minimalista di questi tempi mediocri.

Con studiata e lenta rassegnazione l’affabulatore frustrato prende a ravanare nello zainetto alla ricerca del portafogli. Ancora nessuno all’orizzonte. A poche decine di metri auto e camion sfrecciano ronfando sulla tangenziale. È in questo preciso momento che avviene la mutazione. Mentre gli viene allungata una banconota nuova da 10 euro, il cordiale Dr Jekyll diventa l’irascibile Mr Hyde e si avventa brutalmente sul bersaglio grosso: il portafogli. Ma il legittimo proprietario del medesimo, che già mal sopportava il Dr Jekyll, non è per niente disposto a subire Mr Hyde.

Seguono lunghi secondi di strattonamenti e spintonamenti. Più un certo numero di vaffa reciproci. Finché Mr Hyde, a cui non fa difetto il senso della tragedia shakespeariana, torna a infilare la mano nella tasca destra. Quella del serramanico. Una mossa ad effetto che chiude di fatto la partita.
Il ragazzo con l’orecchino di perla prende il portafogli, se lo mette in tasca come fosse il suo e, dando prova di lodevole moderazione, si disinteressa dell’orologio e di tutto il resto. Poi si allontana, con aria svagata e passo dinoccolato, verso il campo rom. Lui che rom non è di sicuro. «Perché i rom che vivono lì — spiegano al commissariato di polizia — hanno tutti la pelle olivastra».
«Ma restituisci almeno i documenti, accidenti a te!».

Il portatore di mutande Ascot non accenna nemmeno a fermarsi. Si limita a lanciare il portafogli verso il Lambro. Da che mondo è mondo le vittime non meritano che disprezzo. Ma il parapetto di ferro è alto e il portafogli ricade sul ponticello. Aperto. Con tutti i suoi simboli di modernità e benessere in bella evidenza: il bancomat, le carte di credito, l’abbonamento dell’Atm, la tessera sanitaria e quella del Fai, la patente di plastica rosetta..

postilla

In premessa, va dato merito all’autore dell’articolo di aver più volte sottolineato come l’aggressore sia molto presumibilmente un coatto locale, nulla a che vedere con la solita fauna misteriosa che tanto piace ai razzisti securitari per le loro campagne elettorali. Perché da quelle parti c’è anche una solida presenza di cosiddetti campi rom, e ci mancavano pure quelli, ma il problema è un altro, e si chiama ahimè progettazione di spazi pubblici, e specificamente qui di un corridoio di mobilità dolce. I nostri “tecnici” qui si sono espressi al meglio nel concepire, per la sicurezza di chi lo percorre il corridoio, quanto di più insicuro possibile, ovvero un budello senza uscita di centinaia e centinaia di metri, fatto di varie barriere insuperabili (muri di recinzione, il canale, il fiume, le spalle del ponte, il puzzolente sottopassaggio della Tangenziale … qualcuno forse ne avrà visti degli scorci a una comunicazione alla Scuola di Eddyburg) su entrambi i lati. Così, dentro alla sequenza di budelli cul-de-sac si forma naturalmente una trappola, sempre pronta a scattare appena cala sotto una certa soglia la dissuasione degli “occhi sulla strada”. Un caso frequentissimo di sventatezza tecnico-progettuale in senso lato: niente vie di fuga, niente possibilità di controlli qualsivoglia: quanti spazi pubblici di fatto abbandonati del genere conosciamo? Luoghi dove si avventura solo quel genere di spedizione organizzata, o il solitario impavido atleta sprezzante del pericolo? Ognuno di noi ne potrebbe elencare centinaia, e la questione è sempre la stessa, che rinvia a un paio di principi semplicissimi: il cul-de-sac e la privatizzazione di fatto. Ricostruite una rete, stimolate le attività permanenti, e avrete risolto gran parte del problema, ma vallo a spiegare ai tizi de “il problema è un altro” (f.b.)

Sono 48 i beni per i quali l'Agenzia ha dato il via libera per il trasferimento. Vicenda da seguire con attenzione per capire chi sono destinatari dei regali. La Nuova Venezia, 27 marzo 2015

Venezia. “Pioggia” di immobili e aree statali in arrivo in dono al Comune di Venezia da parte dell'Agenzia del Demanio. E l'effetto del decreto sul federalismo demaniale del giugno dello scorso anno, che entra nel vivo con la pubblicazione in questi giorni da parte dell'Agenzia del demanio dei pareri che prevedono appunto il trasferimento agli enti locali di immobili dello Stato non più in uso.
Sono 48 i beni su cui il Demanio ha già dato l'assenso al trasferimento a Ca' Farsetti, ma sono 23 quelli che sono già stati trasferiti, in questa fase, all'amministrazione, soprattutto terreni ed ex caserme. C'è il molo comunale all'isola del Tronchetto, i Giardini della Marinaressa in Riva dei Sette Martiri, l'ex ridotto vecchio, l'ex caserma della Guardia di Finanza, il Casotto telemetrico e un terreno a Sant'Erasmo, un terreno agli Alberoni e due a Burano. Ancora, quattro negozi in via Sandro Gallo, l'ex campo dell'aviazione di Campalto, l'ex elioterapico a San Giuliano, una porzione del Poligono di tiro a segno del lido e un appezzamento di terreno a San Nicolò. Quindi l'ex campo di aviazione di Campalto, l'ex caserma di artiglieria di San Pietro in Volta, una porzione di terreno lungo il Canal Grande a Cannaregio, un fabbricato di pertinenza di Villa Elena a Zelayino.
Nel "pacchetto" di immobili che devono ancora essere materialmente trasferiti al Comune, l'ex Batteria Manin a Pellestrina, l'ex Forte Morosini, l'ex caserma della Guardia di Finanza di Venezia, la Batteria Marco Polo, l'ex Forte Ca' Roman Barbarigo, l'ex Batteria Emo, l'ex Caserma di Artiglieria di San Pietro in Volta, l'ex Caserma di Cavalleria di San Nicolò del Lido. Ancora in via di definizione invece il trasferimento di altri due beni che stanno a cuore al Comune, come la Batteria Rocchetta e in particolare la cinquecentesca ex Caserma Pepe del lido, il più importante e meglio conservato manufatto storico, architettonico e militare dell'isola. Sempre utilizzata negli anni come struttura militare, in ultimo come caserma dei Lagunari fino al 2000, l'edificio, oggi inutilizzato, era stato inserito all'interno del Piano Direttore del Lido dal Comune, come appoggio all'attuale centro del Master Europeo sui Diritti Umani nell'ex convento di San Nicolò.
Anche l'ex piazza d'Armi di Sant'Elena e l'ex Monastero di Sant'Anna a Castello, richiesti entrambi dal Comune, sono ancora in via di assegnazione. In centro storico, il Palasport dell'Arsenale e l'area cantieristica della Giudecca. Ma molti dei beni che saranno assegnati riguardano il lido, con l'arenile degli Alberoni, piazzale Ravà e via Klinger, l'ex Luna Park. In terraferma, diventeranno tra l'altro comunali la sede viaria di viale San Marco e il Forte Bazzera.

«La chiave per valutare un’infrastruttura deve essere il servizio che garantisce ai cittadini» Ma si tratta di capire quali servizi sono prioritari, se per poche persone avere un Milano-Roma ogni 15 minuti, o per centinaia di migliaia arrivare presto in fabbrica, ufficio o scuola. Il Sole 24 Ore, 22 marzo 2015

Il ricambio al ministero delle Infrastrutture e l’auspicata riforma della legge obiettivo costituiscono un’occasione storica per avviare una riflessione - possibilmente celere e concreta - su quali siano le infrastrutture effettivamente utili al Paese e come si possano superare i gravi limiti nelle modalità di programmazione, progettazione e costruzione. Serve una pax infrastrutturale che passi per una democratizzazione sostanziale del percorso di realizzazione delle opere. Il primo ingrediente è una programmazione unitaria con strumenti e standard europei che tenga al proprio interno reti materiali e immateriali, opere grandi e piccole, finanziamenti nazionali e comunitari, opere nuove e investimenti tecnologici, con una capacità di selezione che non si è vista negli ultimi 15 anni. Riprendendo un vecchio slogan coniato da Paolo Costa bisogna realizzare «tutte le opere necessarie, solo quelle necessarie». Oltre all’introduzione di strumenti che all’estero sono consuetudine - studi di fattibilità, analisi dei fabbisogni, analisi costi-benefici - è il concetto stesso di utilità che va rifondato in Italia.

L’infrastruttura non è solo un’opera fisica, un appalto, un costo: è soprattutto un contenitore di servizi e il servizio che fornisce ai cittadini deve essere la chiave per valutarla, per decidere se sia utile o meno. Se a tutti fosse stato spiegato con chiarezza che l’Alta velocità si sarebbe tradotta in treni che ogni quarto d’ora raggiungono Milano da Roma in tre ore - e che questo avrebbe cambiato il sistema dei trasporti italiano in favore di una modalità ambientalmente sostenibile e la geografia delle principali città - forse il dibattito pubblico sarebbe stato meno ideologico e più trasparente. Tanto più questo vale se si vogliono attrarre capitali privati che hanno bisogno di piani economico-finanziari aderenti alla realtà per poter intervenire. Bisogna archiviare la stagione di piani di traffico gonfiati per realizzare opere che poi chiedono interventi pubblici correttivi ex post per far quadrare i conti. I rischi devono essere ben definiti e devono restare accollati a chi li ha assunti, senza sconti. Un tentativo di collegare opere e servizi (con relativo impatto economico e sociale sul territorio) è stato fatto da Fabrizio Barca nell’impostazione della nuova programmazione dei fondi strutturali Ue 2014-2020.

Un tema che dovrebbe rientrare in questa riflessione è quello di un piano di investimenti “leggeri” e tecnologici che consentano uno sfruttamento più intenso delle infrastrutture pesanti esistenti. È una filosofia fondamentale dove ci sono vaste reti infrastrutturali, come per esempio nelle ferrovie. Il caposcuola di questa filosofia è stato Mauro Moretti, ai tempi in cui era amministratore delegato di Rete ferroviaria italiana (Rfi). Oggi questo approccio “leggero” prevale (ma non è coerente fino in fondo) anche nel contratto di programma Fs che contiene un robusto piano tecnologico e consente, con tecnologie di circolazione all’avanguardia in Europa, di aumentare la capacità di una linea ferroviaria (in termini di numeri di treni che ci possano viaggiare sopra in determinato lasso di tempo) con raddoppi infrastrutturali molto limitati (e non integrali). Il costo può essere ridotto a un quinto o a un decimo rispetto a quello dell’intervento infrastrutturale “pieno”, garantendo comunque un risultato in termini di cadenza e tempi di percorrenza sostanzialmente uguali. È necessario che il passeggero sia l’unico destinatario di un piano infrastrutturale.

La democratizzazione del processo infrastrutturale passa per l’abbattimento del muro che oggi separa le infrastrutture dai cittadini. Una riprogrammazione delle opere pubbliche in termini di servizi ai cittadini è il primo passo decisivo in questa direzione. Il secondo è l’introduzione anche in Italia di un procedimento, sul tipo del débat public francese, che consenta una discussione reale con i cittadini sul territorio, liberando l’opera da giochi e giochetti che non di rado vede protagonisti la stazione appaltante e gli amministratori locali, per interessi che spesso non sono generali. Il terzo passaggio è il ritorno a una progettazione che riprenda a parlare con il territorio e che sia frutto di un processo reale di competizione fra progetti alternativi: lo strumento c’è, è il concorso di progettazione che, soprattutto in ambito urbano, può aiutare a trovare le soluzioni giuste e favorire la partecipazione. Bisogna solo superare la diffidenza di molti sindaci. Il quarto pilastro di questa nuova era è l’utilizzo dei sistemi di monitoraggio civico e di open coesione per rendere del tutto trasparente il piano economico, il progetto e gli stati di avanzamento del cantiere, con i suoi costi e le sue eventuali varianti, senza trascurare, ancora una volta, gli impatti in termini di servizi.

Non dimentichiamo che la bellezza, sebbene non sia sufficiente a rendere la città adeguata ai bisogni dei suoi abitanti, è certamente un requisito necessario. Soprattutto i suoi spazi pubblici. Ecco una proposta per una piazza di Milano. La Repubblica, Milano, 16 marzo 2015

Molte piazze italiane di grande bellezza sono state ottenute «per forza di levare». Piazza della Scala è un caso esemplare. Figlia del progetto mengoniano della Galleria, di cui è la splendida conclusione a nord, è stata ricavata da demolizioni che hanno messo a diretto contatto Palazzo Marino (Galeazzo Alessi, 1553-58) e il Teatro della Scala (Giuseppe Piermarini, 1776-78). Alla sua configurazione ha dato un contributo importante Luca Beltrami a cui si deve, in successione, il restauro di Palazzo Marino, l’edificio della Banca Commerciale a nord e, infine, sul fronte meridionale, Palazzo Beltrami, oggi sede della Ragioneria comunale. Misura e dialogo civile tra gli edifici fanno l’ospitalità e la qualità architettonica del luogo. Un risultato a cui concorrono le aperture prospettiche di via Manzoni e via Verdi e la convocazione, a est, dello splendido fianco di San Fedele (Pellegrino Tibaldi, 1569-79). Ma non meno prezioso per l’equilibrio dell’insieme è il monumento a Leonardo da Vinci (Pietro Magni, 1872, originariamente destinato a piazza S. Fedele) che, con la sua presenza discreta, decentrata dal baricentro geometrico, e gli otto tigli che lo circondano, favorisce l’interazione fra gli organismi.

Il recente insediamento delle Gallerie d’Italia e del Cantiere del ‘900 nella vecchia sede riadattata della Banca Commerciale e nei connessi palazzi sette-ottocenteschi Anguissola e Brentani ha dato vita a un polo espositivo subito assurto a stella di prima grandezza nel sistema museale di Milano. Ne beneficia la piazza che vede accresciuta la vitalità culturale e i suoi valori civili.

Piazza della Scala è suscettibile di miglioramenti? Certamente (anche se, in una graduatoria degli spazi aperti pubblici a Milano bisognosi di interventi, questo sarebbe in fondo alla lista). Si vuole che il Teatro della Scala e le Gallerie d’Italia siano più integrati all’invaso della Piazza? Si può fare, ma senza mettere in discussione ciò che è già configurato in modo soddisfacente. Mi riferisco alla sistemazione operata da Paolo Portoghesi (1989-2000) che ha saggiamente reinterpretato l’impianto ottocentesco, ponendo fine alla triste vicenda che fino agli anni sessanta aveva ridotto la piazza a un orribile deposito di autoveicoli. Basterebbe eliminare l’assurdo parcheggio residuo a fianco della Scala e ridurre al minimo indispensabile il transito veicolare per via Case rotte e piazza Mattioli, proseguendo sul lato settentrionale, nei materiali e nelle cromie, il lavoro di Portoghesi, che sarebbe insensato disfare.

Un’attenzione particolare andrebbe riservata a piazza Mattioli, ridotta in condizioni penose anche grazie a BikeMi, il servizio pubblico di biciclette in condivisione del Comune che qui ha recentemente addossato una delle sue infilate di bici al nobile fianco di S. Fedele, come si trattasse di un retro. In questo spazio, a completamento dell’opera di Beltrami, Piero Portaluppi ha prodotto uno dei suoi lavori migliori dialogando con le preesistenze. Si tratta di rinsaldare quell’interlocuzione e farla lievitare. In altri termini è qui che si dovrebbe concentrare l’attenzione dei partecipanti al concorso d’idee promosso da IntesaSanPaolo e dal Comune di Milano: in questa sfida di fondare un luogo che della piazza ha ora solo il nome, facendone la prosecuzione della piazza maggiore. Raffaele Mattioli se lo merita.

Le molte buone ragioni per cui chi ha compiti di governo ponga la propria azione innanzi tutto sotto il sigillo della legalità: ciò non sta avvenendo per quanto riguarda il piano paesaggistico toscano.

Caro Governatore,sono anni che le scriviamo e la mettiamo a conoscenza della devastazione delle cave, dell’inquinamento delle sorgenti, dell’impoverimento della biodiversità. Decine e decine di foto allegate alle nostre lettere a comprova del disastro ambientale che nessuno può negare. Decine di concessioni, peraltro autorizzate dal Parco, in cui i reati ambientali commessi dai concessionari vengono derubricati a reati “permissibili”: una vera contraddizione in termini.

I tagli e le ferite sono visibili, sempre, a tutti. L’inquinamento delle acque, periodicamente bianche per la marmettola, è stato anche riconosciuto dagli organi competenti, se per i fiumi Carrione, Frigido e Versilia è stata chiesta e ottenuta una proroga al 2021(!!!) “per conseguire il buono stato dei corpi idrici”, evitando in questo modo sanzioni dall’Europa.Aspettiamo nei prossimi giorni di vedere approvato in aula il frutto della scelta di alcuni “trasgressivi” (per usare un eufemismo), i quali, nonostante teoriche casacche politiche di destra e di sinistra, si uniformano a votare profonde modifiche ad un piano già approvato il 7 luglio. Se ci sarà il rispetto della normativa questo piano dovrà nuovamente essere aperto alle osservazioni di rito, perché è completamente snaturato rispetto alla versione passata in aula.

Quello che voglio portare alla sua attenzione, come cittadina, e che spiega il termine edulcorato di trasgressivi, è che le modifiche introdotte da costoro violano le leggi dello Stato: a partire dal Codice dei Beni Culturali, e a seguire le ricordo il principio di precauzione, le leggi sulla tutela dei siti Rete Natura 2000 (per le quali già l’Europa ha aperto un eu-pilot nei confronti della Regione), le leggi sulla tutela delle acque superficiali e carsiche (la nostra riserva del futuro) e per le quali si è stati costretti a chiedere deroghe fino al 2021.È una semplificazione alla Renzi questa che vediamo messa in atto, oppure è la vistosa e macroscopica messa in mora della democrazia?

Si è chiesto perché i concessionari fanno la voce grossa?Difendono pochi posti di lavoro o i loro smisurati guadagni (al nero) favoriti dall’inerzia dei governi regionali e dalla passività e dalla collusione delle amministrazioni locali?

In questi ultimi due anni la tassa che il Comune di Massa richiede ai concessionari di cave per ogni tonnellata di marmo in blocchi è raddoppiata: oggi siamo a 9,90 euro a tonnellata per marmo che ha un prezzo medio di mercato tra i 200 euro e 4.000 euro a tonnellata. Anche un bambino sarebbe in grado di capire che si consente a poche persone di guadagnare cifre mostruose. D’altra parte i Bin Laden hanno pagato alcune concessioni di Carrara 46 milioni di euro, euro intascati da quattro-cinque famiglie.< /br>< /br>Non crede che la devastazione sia frutto di un folle regolamento varato dalla Regione che consente per ogni tonnellata di marmo estratto che il 20% (25% nel Parco) sia marmo in blocchi e l’80% detrito?
Ci contestano la frase ad effetto che il marmo delle Apuane vada nei dentifrici, ma è evidente che gli amministratori regionali, oggi incuranti delle leggi, hanno volutamente consentito la devastazione a favore dei pochi che fanno carbonato di calcio. C’è addirittura una ferrovia dedicata che da Pieve San Lorenzo va allo stabilimento Kerakoll di Sassuolo e si consentono 100 passaggi di camion al giorno a Orto di Donna, in Val Serenaia (cioè nel Parco delle Apuane!) per alimentare il frantoio di Betolleto.
E’ troppo chiederle di modificare quel rapporto 20/80 che aveva senso in una società “preindustriale”, quando il marmo veniva cavato con le mine?
E’ troppo chiederle di ricondurre alla ragione quei selvaggi trasgressivi che calpestano i diritti dei cittadini per il guadagno di pochi?
E’ troppo chiederle come cittadina una tutela ambientale resa possibile semplicemente dal rispetto delle leggi?

L'autrice è Consigliere nazionale di Italia Nostra< /i>

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