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Il libro di Silvio Testa pubblicato da Corte del fòntego editore, è esaurito, ma la questione documentata in quelle pagine merita una conoscenza diffusa e tempestiva. In attesa della ristampa aggiornata, qui in eddyburg il testo è scaricabile liberamente: entrate nell'articolo e vedrete come

Il transito delle Grandi navi nella Laguna di Venezia interessa sempre più ampiamente l’opinione pubblica nazionale e internazionale. La distruzione dell’unica laguna rimasta tale per un millennio è in atto da molti decenni: risalgono agli anni Sessanta del secolo scorso le proteste contro il Canale dei Petroli (di cui ora sciaguratamente i fautori dello scalo-crociere a Marghera provocherebbero addirittura il raddoppio). Il danno inferto alla Laguna e alla sua città è diventato uno scandalo dopo il tragico evento avvenuto sulle coste dell’isola d’Elba e dopo che l’opinione pubblica è stata colpita dalle immagini che testimoniano l’orrore della presenza dei bestioni flottanti alti 60 m. in un contesto paesaggistico nel quale l’altezza massima tollerata per gli edifici è da sempre non superiore a 13 m.

Un ruolo centrale nel tramutare in scandalo la minaccia e il danno delle Grandi navi lo hanno avuto il movimento promosso dal comitato No grandi navi e la lettura del libretto (piccolo nella dimensione ma grande nella testimonianza) “…e le chiamano navi” scritto da Silvio Testa, ora portavoce del comitato. Il libretto è stato pubblicato nella collana “Occhi aperti su Venezia”, di Corte del Fòntego editore. Ora è esaurito. In attesa della ristampa del testo aggiornato l’editore ha deciso di renderlo disponibile gratuitamente online anche tramite eddyburg. Il testo è perciò scaricabile utilizzando questo collegamento: E le chiamano navi "

La collana contiene anche altri testi sulla Laguna e dintorni, tutti chiari e documentati. Tra gli autori Agamben, Boato, Calabi, Fersuoch, Fozzati, Lanapoppi, Mancuso, Mencini, Morachiello, Pascolo, Pirazzolo, Salzano, Somma, Tantucci, Vittadini, Vitucci. Il catalogo è accessibile qui

Basta il titolo (Le montagne della patria. Natura e nazione nella storia d'Italia) per comprendere quant'è interessante e utile. «L'originalità del saggio di Armiero consiste essenzialmente nel progetto di fare la storia di un vasto ambito di natura “selvaggia”, la montagna, di un paese come l'Italia nel quale, da millenni, la natura è inseparabile dalla cultura»

Arriva di tanto in tanto qualche folata di aria fresca nella storiografia dell'Italia contemporanea, ormai sempre più accartocciata e isterilita nella monocultura della storia politica. Mentre la politica praticata, quella dei partiti e dei governi, disegna oggi gli arabeschi di un'abiezione civile ormai senza fondo, gli storici della nostra epoca non sembrano conoscere altra dimensione del reale che quella narrata da leader, parlamentari, giornalisti, attori multiformi della sfera pubblica contemporanea. Quasi che la degradazione di questa particolare dimensione della realtà calamitasse perversamente l'interesse degli storici per il suo passato. Perciò si legge con un di più di interesse il libro di Marco Armiero. (Le montagne della patria. Natura e nazione nella storia d'Italia.Secoli XIX e XX, Einaudi Torino 2013, pp 213, Є 28) che, oltre a introdurre un tema insolito nelle patrie istorie, lo fa con materiali e argomentazioni di indubbio interesse. Armiero è uno storico dell'ambiente, con alle spalle varie peregrinazioni intellettuali, soprattutto negli USA e poi in Spagna e Portogallo. E le pagine del suo libro ne portano i segni, documentati dall'ampiezza non comune di riferimenti bibliografici internazionali. Ma esse testimoniano al tempo stesso, più in generale, la condizione di esuli intellettuali di tanti nostri giovani di talento, che sono fuggiti dall'Italia in cerca di luoghi e istituzioni in grado di sostenere i loro studi.

L'originalità del saggio di Armiero consiste essenzialmente nel progetto, a mio avviso riuscito, di fare la storia di un vasto ambito di natura “selvaggia”, la montagna, di un paese come l'Italia nel quale, da millenni, la natura è inseparabile dalla cultura. Da noi, paese di remota e sistematica antropizzazione e civilizzazione, la wilderness americana è una dimensione inesistente, quasi fuori dalla possibilità della storia scritta. Perciò Armiero ha scelto la strada originale e fruttuosa di « studiare la nazionalizzazione della natura italiana, usando le montagne come caso di ricerca » : vale a dire l'inglobamento della montagna come parte della narrazione nazionale, elemento e luogo caratteristico di alcuni suoi miti fondativi.

Il racconto che ne risulta, a partire dall'Unità sino ai giorni nostri, non ha un andamento unico, né un omogeneo segno culturale e ideologico. La montagna entra ed esce nell'immaginario della nazione disegnando di volta in volta miti contraddittori. Perciò tanto le Alpi che gli Appennini, all'indomani dell'unificazione nazionale, costituiscono il luogo di una alterità da soggiogare, sia perché sono «montagne ribelli », come nel caso dell'Appenino meridionale, percorso dal brigantaggio, sia perché sono le aree del paese dominate dai commons: vale a dire l'ampio territorio di boschi e foreste demaniali o soggette a usi civici. Nella seconda metà dell'Ottocento la progressiva privatizzazione di questi beni collettivi verrà fatta valere come un processo di modernizzazione, di fuoriuscita da un mondo arcaico e primitivo. Senza grande considerazione per gli effetti ambientali che, soprattutto al Sud, ebbe in seguito lo sfruttamento agricolo di tante terre destinate dalla saggezza antica a esclusivo presidio idrogeologico.

Nel XX secolo sono le Alpi, che entrano in maniera decisa in una narrazione destinata ad alimentare il nuovo immaginario nazionalista, e che ha al centro la prima guerra mondiale. «La politicizzazione del paesaggio alpino – scrive Armiero – all'indomani della Grande Guerra ha interessato sia la natura sia gli esseri umani. Le Alpi sono state esaltate come bastione naturale del paese e confine invalicabile della comunità italiana, mentre i suoi abitanti diventavano l'archetipo del vero patriota, il prototipo dell'italiano che veglia sull'integrità della nazione. E' allora che nasce il mito degli Alpini, destinato a durare a lungo nella memoria collettiva». Ma, certo, quei monti hanno poi avuto scarso rilievo nella coscienza nazionale quale realtà ambientale, sede di fragili equilibri e di mondi viventi minacciati e sconvolti.

Sul finire della seconda guerra mondiale « una rivoluzione copernicana» viene a rovesciare «la geografia politica e morale della nazione, il cui cuore pulsante erano ora le montagne». Per la prima volta, con la lotta dei partigiani, si creano evidenti « legami tra democrazia e montagne nella storia d'Italia. L'esperienza della Resistenza è profondamente radicata nelle montagne, simbolo tangibile di libertà ». Il mito fondativo viene ora a sostenere la storia dell'Italia repubblicana, a dare base morale alla democrazia e alla nuova Costituzione, quali espressioni del riscatto del popolo italiano dopo venti anni di dittatura fascista.

«Non dovremmo disperarci nel tentativo di salvare qualche pezzetto di paesaggio brutalizzato, ma dovremmo piuttosto preoccuparci della «rimozione collettiva» tanto dell'estetica, quanto dell'etica dall'orizzonte della nostra modernità che ci ha trasformato in vandali» L'ultimo libro di Francesco Vallerani. Il manifesto, 23 agosto 2013

Frane, smottamenti, alluvioni, perdita di fertilità. Il territorio urbanizzato è passato da 170 metri quadrati di suolo per abitante a 343. Un primato negativo
Cinquant'anni fa, accadevano casualmente dei fatti che rendono il 1963 un anno cruciale per la storia del rapporto tra esseri umani e ambiente nel nostro paese. Il 9 ottobre il monte Toc franava sull'invaso idroelettrico del Vajont provocando la morte di 1910 persone. Giusto un mese prima, Le mani sulla città di Francesco Rosi veniva premiato con il Leone d'oro alla Mostra del cinema di Venezia.

Nella primavera, la segreteria nazionale della Dc sconfessava e affossava definitivamente la proposta di riforma di nuova legge urbanistica dell'ex ministro Fiorentino Sullo che prevedeva la possibilità di esproprio delle aree edificabili, separando diritto di proprietà dal diritto di edificazione. Sempre quell'anno, per merito della casa editrice Feltrinelli, usciva in italiano Silent Spring di Rachel Carson, il libro capostipite dell'ambientalismo scientifico che raccontava gli effetti persistenti del Ddt sugli ecosistemi. Insomma, eventi apocalittici rivelatori e conflitti politici dirimenti aiutavano l'Italia a uscire dall'ubriacatura collettiva degli anni del miracolo economico postbellico e ci facevano prendere coscienza delle ingiustificabili follie devastatrici di un non-modello di sviluppo «estrattivista» - diremmo oggi - asservito agli interessi della rendita.

Tra speranze di cambiamento (il centro-sinistra) e successivi disastri (la frana di Agrigento e l'alluvione di Firenze e Venezia nel 1966, ad esempio), nulla cambierà fino ai nostri giorni. Anzi, gran parte della finanziarizzazione dell'economia iper-neo-liberista ha come unico «sottostante» il mattone e le grandi opere. Il nostro era e resterà «il paese della metastasi cementizia», dello sprawl urbano, della città diffusa, dell'«espansione per adduzione continua»... tanto da finire per essere governato dal più noto immobiliarista formatosi nella Milano da bere.

Francesco Vallerani (Italia desnuda. Percorsi di resistenza nel Paese del cemento, Unicopli, pp.191, euro 16,00) non lo dice, perché pensa che «i discorsi scientifici» abbiano scarsa efficacia nel convincere le persone a cambiare il mondo, ma in questa sede (per tenere i piedi per terra, non solo in senso materialistico filosofico!) è bene ricordare ancora una volta che dal 1956 al 2010 il territorio urbanizzato in Italia è passato da 170 metri quadrati di suolo per abitante a 343: raddoppiati. Il 6,9% del suolo nazionale consumato contro il 2,3% della media europea (stime dell'Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale). Un vero primato negativo. I dati del Rapporto di Ambiente Italia sono ancora peggiori: abbiamo lastricato il 7,6% del suolo. In Lombardia il 15%, in Veneto l'11%. Le conseguenze le conosciamo bene: la maggior parte dei comuni è costretta a convivere con frane, inondazioni, smottamenti, erosione, perdita di fertilità e quant'altro.

La domanda che ci si deve porre è allora: come è stato possibile oltrepassare il punto di non ritorno del degrado ambientale in un paese in cui le valenze naturali, storiche, paesaggistiche e culturali non hanno pari al mondo? Com'è possibile che il più miope calcolo utilitaristico, l'egotismo proprietario sia riuscito a prevalere incontrastato su ogni altro motivo di interesse collettivo, non direttamente e immediatamente monetizzabile? E non possiamo dire che siano mancati «profetici allarmi» e le denunce civili di tanti straordinari osservatori e «viaggiatori».

Il capitolo centrale del volume di Vallerani ripercorre le avvincenti scritture di molti autori che costituiscono una sorta di «Accademia dei Sofferenti per il Paesaggio», «quasi un genere letterario» specifico: Guido Piovene, Italo Calvino, Pier Paolo Pasolini, Lucio Mastronardi, Guido Ceronetti, Giorgio Bassani, Leonardo Borgese, Antonio Cederna, Andrea Zanzotto fino a Paolo Rumiz. Oltre a Calogero Muscarà, Eugenio Turri, Marcello Zunica ed altri geografi di professione, colleghi dell'autore. E poi gli urbanisti come Alberto Magnaghi, Edoardo Salzano, Vezio De Lucia. Intellettuali di punta come Salvatore Settis. Se non sono bastate le loro pagine a convincere l'opinione pubblica, ad alfabetizzare le classi dirigenti, a formare amministratori dignitosi... quale altra via seguire?

Il lavoro di Francesco Vallerani ci suggerisce di guardare al mondo in un modo diverso - almeno questo è l'effetto straordinario che la lettura del suo libro ha avuto in me. Non dovremmo tanto lamentarci e dolerci per la perdita di bellezza, funzionalità, salubrità dell'ambiente che ci circonda, quanto piuttosto dovremmo preoccuparci dell'impoverimento psichico e culturale che tutto questo provoca nel nostro stesso vivere, dell'ottundimento delle nostre capacità percettive del bello e del buono. Non dovremmo disperarci nel tentativo di salvare qualche pezzetto di paesaggio brutalizzato, ma dovremmo piuttosto preoccuparci della «rimozione collettiva» tanto dell'estetica, quanto dell'etica dall'orizzonte della nostra modernità che ci ha trasformato in vandali. Pretendere che vi siano «paesaggi perfetti, in una società piena di imperfezioni» porta solo le minoranze più avvedute a grandi frustrazioni, ad aumentare la «tristezza infinita di chi non vede vie d'uscita».

Il bravo geografo, allora, deve saperci aiutare a riconoscere e a prendere consapevolezza dei nessi che legano le persone ai luoghi. Non solo la bellezza - questo è il compito del paesaggista. Non solo la funzionalità biotica - questo è mestiere dell'ecologo e del naturalista. Non solo la razionalità - questo è l'urbanista. Serve un approccio «transdisciplinare», olistico, e serve, soprattutto, una sensibilità particolare per le condizioni esistenziali del vivere quotidiano degli uomini e delle donne che popolano i territori martoriati dalle ruspe e dalle betoniere.

Il «geografo umanista» è quello che riesce a creare un dialogo empatico tra la gente dei luoghi e i luoghi della gente. Per riuscirci dovrà sviluppare tecniche di «osservazione partecipata», dovrà inevitabilmente farsi «coinvolgere emotivamente» e, soprattutto, scegliere di essere di parte; quella di quanti vengono espropriati e sradicati dalla violenza delle trasformazioni urbane lineari, incrementali. Vengono in mente le metodologie messe a punto dagli urbanisti della Scuola territorialista per l'elaborazione dei Piani paesaggistici (previsi dalla Convenzione europea) o dei Contratti di fiume attraverso le «mappe di comunità» costruite con la partecipazione attiva degli abitanti. Vallerani, non a caso, fa parte di quella piccola schiera di «consulenti di parte» di quella miriade di «comitati emergenziali» locali, associazioni, movimenti che presidiano e si battono quotidianamente a difesa del territorio: i mille NoTav d'Italia. Per il suo precedente lavoro, Il grigio oltre le siepi, che documentava puntualmente le devastazioni in Veneto, è stato minacciato e costretto a difendersi nei tribunali dagli avvocati del «partito del cemento».

La sfida del geografo è quindi quella di superare l'indifferenza e la rassegnazione che troppo spesso rendono le popolazioni passive. Deve mostrare come «il paesaggio sfregiato produce disagio e angoscia», che i «traumi geografici» (non solo i dissesti idrogeologici e gli eventi calamitosi, ma anche la cancellazione di valenze storiche e paesaggistiche) si traducono in «disagi esistenziali e psicologici», in «inconsapevole disperazione».

Il moderno «labirinto oscuro delle geografie dell'angoscia» in cui siamo costretti a vivere malamente ricompensati dalla promessa di consumi più copiosi (più ore da passare in automobile, più centri commerciali, più cibo spazzatura e merci usa e getta), influenzano la quotidianità del vivere e generano «affettività negative», comportamenti compulsivi, competitivi e aggressivi. Più dolore. E, come in una spirale perversa, il dolore deprime, smarrisce le facoltà cognitive, conduce alla «dissoluzione fisica e affettiva dei rapporti della gente con le dinamiche ecosistemiche».

Se il paesaggio è indubbiamente un bene comune (come lo può essere lo spazio, l'etere e l'atmosfera, ma anche la storia e la memoria collettiva, il genius loci che anima i luoghi), allora è tempo di bandire le timidezze e di iscrivere anche il diritto alla bellezza per tutti, anche per i commoners, nell'agenda di chi, «senza false nostalgie per una arcadica eredità romantica», desidera cambiare per davvero il presente stato di cose. Vallerani ci dimostra che è possibile immaginare «altre geografie», «recuperare il senso di appartenenza ai luoghi», «avviare una ricucitura sentimentale con i territori della quotidianità».

Recensione a Da grande voglio fare il poeta (ed. La vita felice), nuovo lavoro narrativo autobiografico dell'urbanista Giancarlo Consonni, che ci «illustra per quadri la versione cittadina dell’esistenza». L'Unità, 12 agosto 2013 (f.b.)

«PULVER SULFER FÈN/ TÉRA TÉPA LÈGN». Comincio dai primi sue versi di una breve poesia in uno dei dialetti della Brianza lombarda (uno dei tanti dialetti: anche la lingua smentisce l’idea balzana della Padania unita), nell’estremo sud della provincia lecchese. Cioè polvere zolfo fieno terra muschio legno: la materia, gli odori, i colori della campagna, breve poesia riprodotta sulla copertina di una raccolta intitolata Vûs, voci, pubblicata da Einaudi nel 1997, una raccolta divisa in due perché la seconda parte, che s’apre con Gruista (cito la versione in italiano: «Se mi piace/ fare il gruista?// Rinascessi uccello/ voglio tornare qui./ Quegli uomini là in basso/ scalpitanti/ e io che bestemmio/ vicino a Dio»), illustra per quadri la versione cittadina dell’esistenza, dove qualcosa della prima, umanità, solidarietà, comunità e natura, ovviamente, sopravvive, straziata però, impoverita, ai margini.

Tra campagna e città, Giancarlo Consonni, l’autore di questi versi, ritorna con un libro di narrativa, autobiografico ma non solo perché tanti e diversi sono i piani di lettura del passato e del presente e schivo è il narratore. Le origini, cioè i campi e le cascine di Verderio Inferiore (dove Consonni è cresciuto), sono la trama fitta, che di tanto in tanto si interrompe in un ostacolo, che è un ritrovarsi noi, tramontata quella civiltà, di fronte ai segni (e alle devastazioni) della nostra modernità. Giancarlo Consonni (che ha scritto un tempo spesso anche per l’Unità) è diventato poeta, come s’augurava da ragazzo e come ripete il titolo di questo libro, Da grande voglio fare il poeta, ma intanto è diventato anche professore d’urbanistica al Politecnico di Milano. Ricordiamo il poderoso saggio (con Graziella Tonon) sui «caratteri del territorio e del paesaggio della Lombardia contemporanea», in un volume nella collana «Regioni» dell’Einaudi.

Qualcosa di un rapporto tanto stretto e continuo con l’urbanistica e l’architettura del Novecento e di questi ultimi perfidi anni resta anche in un libro che, ad apertura, si direbbe solo di memorie e quindi forse soprattutto di nostalgia. Nostalgia per i filari di gelsi, cancellati dalla meccanizzazione dell’agricoltura, per le antiche cascine a corte, disabitate, abbandonate o trasformate in condomini, dopo la fuga verso l’industria di braccia troppo numerose per quei campi immiseriti, nostalgia per una natura popolata di animali, di lupi un tempo e poi di faine, di volpi, di talpe, di uccelli di ogni genere, nostalgia per la parlata di quei luoghi, per dialetti che si incrociavano, ma che nel vocabolario e negli accenti rivelavano appartenenze precise, a luoghi però appena separati, magari, da una strada o da un canale. Ricchezza questa varietà di parole, com’era rigogliosa la natura, razionale e funzionale (anche nella ricerca estetica) l’architettura, geniale, fantasiosa, plurima l’arte di vivere e convivere (e di alimentarsi per vivere da poveri).

Fin qui può essere il ricordo, che di tanto in tante batte contro l’inevitabilità dell’oggi: la motocicletta che diventa il simbolo del successo, la villetta a schiera, il salotto inviolato nella plastica che rimpiazza il porticato e la stalla, la solitudine e l’isolamento contro la coralità dei racconti, delle interpretazioni, delle narrazioni. La lambretta e poi l’auto, le poltrone, la cucina americana: la bellezza per molti si rifugia o si riduce negli oggetti, mentre il mondo si incammina svelto sulla strada della bruttezza: «Si infittiva la schiera degli officianti del disastro: speculatori e capomastri (tutti), geometri (quasi tutti), ingegneri (molti), architetti (in crescita esponenziale)... esibizione, kitsch e cattivo gusto...». Alle spalle era quella campagna.

Viridarium è il nome antico del borgo, i personaggi come padri e madri, che si suddividono mille mestieri, come il Biagio (il mercante di formaggi di una poesia: «Nere tettazze da ungere e far rotolare/ forme che il grasso pastura il loro essere grasse/le gira e rigira fin che sembra/ un abissino che abbraccia l’Abissinia» (il grana che un tempo si ungeva di un olio nero e pesante per aiutarne l’invecchiamento), il fiume (l’Adda), i boschi, le bestie (cominciando da cavalli, asini e mucche), l’osteria, la strada, i campi. Ci sono pagine anche per i primi viaggi a Milano e il quadro è del bambino che aspetta sulla scalinata del tribunale, spazio per lui da fiaba e da gioco. L’osservazione dell’architetto a proposito del palazzone di Marcello Piacentini è folgorante: «L’architettura è importante, ma gli uomini sono più forti. E ancor più i bambini».

L’ultima scena è per il cacciatore che arriva di città che spara sulle rondini: «Uno degli atti più sacrileghi che, per noi, si potesse concepire...». È un atto di rottura: da lì comincia la «disintegrazione del mondo». Il ricordo personale sostiene la riflessione collettiva, anche politica, con una discrezione che esalta il valore del libro.

Recensione all'ultimo lavoro di Bernardo Secchi, La Città dei Ricchi e la Città dei Poveri (Laterza), dove si denuncia tra l'altro la «diretta responsabilità degli urbanisti nell'aggravarsi delle disuguaglianze». Corriere della Sera, 3 agosto 2013

Sul tema del mutamento futuro della città (o forse dell'idea stessa di città) si sono concentrate non solo le attenzioni tradizionali di architetti e urbanisti, ma soprattutto di economisti, sociologi, teorici della creatività e persino talvolta di politici professionali. Per ora gli «architetti delle città» rappresentano poco più del cinquanta per cento degli abitanti del globo e si prevede che essi saliranno al sessanta per cento attorno al 2025.

Ovviamente di città, o meglio di insediamenti urbani, ve ne sono di diversissimi tipi: dai villaggi alle postmetropoli, che hanno dato nuovo significato alle antiche metropoli, sembrano, crisi o non crisi, destinate ad aumentare in numero e in estensione sia insediativo che di popolazione. Ma soprattutto secondo alcune previsioni di queste «città mondiali» di comando, come le aveva definite molti anni or sono Saskia Sassen, sedi privilegiate e interconnesse della urban élite, esse sembrano destinate a decidere i destini del globo in modo sempre più indipendente da luoghi, culture e organizzazioni nazionali.

L'Europa, nonostante la presenza importante di Londra e Parigi, le uniche che superano i dodici milioni di abitanti, di queste postmetropoli non ne ha nessuna, a meno di considerare confini urbani i suoi sistemi insediativi regionali interconnessi, che nascono dalla specialissima fittezza della rete insediativa europea. Alcuni propongono la distinzione dei due significati della parola confine in quanto limite o in quanto bordo, o si dichiarano per una città aperta. Ma anche qui certamente aperta sociologicamente all'altro, al diverso, allo scambio, contro ogni gated community, ricca o poverissima, ma come ci si regola nell'estensione territoriale con le difficoltà dei trasporti, la moltiplicazione dei servizi, i costi delle infrastrutture, la presenza dei servizi rari e le superfici aperte (agricoltura o parchi) inglobate tra il costruito?

Ovviamente il giudizio sulle postmetropoli (da Città del Messico a Mumbai, da Shanghai a Seul, e persino all'invenzione di qualcun'altra del tutto nuova che viene talvolta temerariamente proposta) è estremamente differenziato e in radicale opposizione alle tesi ambientaliste e di nuovo equilibrio con una produzione agricola diffusa. Quindi non una città territorio senza confini, ma capace di un dialogo per la costruzione di un paesaggio multicentrico interconnesso. Tutto questo anche se, nonostante gli aumenti previsti, le superfici occupate dagli insediamenti urbani non superano oggi il 2,5% della superficie del globo e, nonostante il loro incessante sviluppismo anche in termini di possibilità, sono, per ora, soprattutto la rappresentazione della disuguaglianza sociale assai più che dall'importanza organizzativa della vita collettiva.

Sono proprio le comunicazioni immateriali di massa e intersoggettive che propongono forme di autocolonizzazione globale a servizio dei mercati e volte ad eliminare le differenze tra le culture, culture che sono talvolta produttrici di scontri ma anche portatrici di fondamentali possibilità di confronti dialettici tra differenze e soprattutto di quelle che io definisco «le possibilità necessarie», dell'abitare civile futuro. A queste riflessioni, almeno nella sua interpretazione, è dedicato il nuovo libro di Bernardo Secchi dal significativo titolo La città dei ricchi e la città dei poveri (Laterza, pp. 90, 14), con cui egli richiama la diretta responsabilità degli urbanisti nell'aggravarsi delle disuguaglianze.

«La paura rompe la solidarietà, fa emergere sistemi di intolleranza e la speculazione separa la popolazione in funzione del reddito, che a sua volta costruirà le proprie gated community o promuoverà per i diversi di razza, di censo o di religione le favelas per poverissimi».
A tutto questo contribuisce — scrive Secchi — a partire dalla fine del diciottesimo secolo, anche l'idea della «casa di famiglia» come microcosmo da difendere, e una progressiva «politica di distinzione», un po' in tutto il mondo. Gli esempi che Secchi racconta sono molti e assai differenziati, dal Sud America ad Anversa, sino alla formazione e poi interpretazione (sociologica e progettuale) delle periferie o alle contraddizioni conflittuali delle «città diffuse», costruite a partire «dall'ideale utopico della casa singola».

Dopo aver rivisitato il contributo teorico sulla questione della «città delle disuguaglianze» di Foucault e di Barthes degli anni Settanta, Secchi accenna alla tradizione postbellica della politica urbanistica europea e ai suoi tentativi fondati sul «welfare state», terminando con una riflessione che cerca di domandarsi se al di là della crisi economica, esista una specifica crisi della città stessa, che si evidenzia anche nella riduzione della necessità di persone impegnate nella produzione a causa dei progressi tecnici della produzione stessa, e del conseguente indebolimento dell'idea di classe sociale che si è enormemente estesa come classe media, con un numero di ricchi forse minore ma enormemente differenziato. E, aggiungo io, senza alcuna cultura di classe, ma solo quella dei poteri costituiti dall'impero del capitalismo finanziario globale. Così il costo delle disuguaglianze è enormemente aumentato: costo in denaro, costo politico e incertezze nelle proposte ragionevoli della città futura.

Recensione del libro La città non è solo un affare, di Mauro Baioni, Ilaria Boniburini, Edoardo Salzano «Non solo un libro ma un programma di azione sociale». Il Giornale di Reggio, 25 luglio 2013

Martedì 23 luglio, mentre era in corso allo stadio “Mapei” (ex Giglio) il famoso” Trofeo Tim” con la partecipazione del Sassuolo uscito vincitore (un gradito omaggio a Squinzi?) e di Iuventus e Milan, uniche italiane che fanno ancor parte del Gotha del calcio europeo, più di ottanta cittadini hanno trovato il tempo e la voglia di partecipare – tre ore son state di acceso e vivace dibattito – alla presentazione, organizzata per passione dallo Studio Rossochiaro (arch. Rossana Benevelli e ing. Chiara Benassi), del libro “La città non è solo un affare” di Mauro Baioni, Ilaria Boniburini e Edoardo Salzano, pubblicato da Aemilia University Press (Pag. xv + 166 € 12). In linea con i contenuti del libro la presentazione si è tenuta in uno spazio condominiale, ma di passaggio pubblico, quasi a ricordare che “La città non è solo un affare” non è solo un titolo, ma un programma d’azione sociale.

Il libro raccoglie le riflessioni maturate nelle ultime due edizioni della Scuola di eddyburg, dedicate al rapporto fra economia urbanistica. I seminari di Eddyburg, scuola fondata e diretta da Edoardo Salzano, si svolgono, una volta l’anno dal 2005. Ogni edizione tratta un tema specifico, con il contributo volontario degli esperti che fanno riferimento al portale eddyburg.it.

Il libro è diviso in due parti: una teorica, l’altra di esperienze pratiche. Nella prima si analizza il processo di crescita e sviluppo, con particolare attenzione al 2° grande ciclo edilizio (!993 – 2007) e ai meccanismi che determinano la formazione della rendita urbana, elemento decisivo negli usi e nelle trasformazioni della città del territorio. Nella seconda, prendendo atto degli effetti devastanti di un ventennio di gestione senza regole della città e del territorio, ci si interroga sulla possibilità di un cambiamento di rotta, su quali risorse occorrano per costruire una città dei cittadini nel quadro di uno sviluppo sostenibile (decrescita?), riportando qualche esempio alternativo alle pratiche urbanistiche in atto.

Il problema di fondo, sul quale il libro vuol aprire una discussione pubblica e che rende compatto e unitario il racconto, è quale tipo di città vogliamo? A ciascun lettore, una volta letto il testo, spetta la risposta. Noi ci limitiamo a suggerire un possibile percorso di ricerca nelle parole del geografo e antropologo David Harvey “Chiediamoci che persone vogliamo essere, che rapporti sociali cerchiamo, che relazioni vogliamo intrecciare con la natura, che stile di vita desideriamo, che valori estetici riteniamo nostri”.

Si è cittadini non se si è iscritti all’anagrafe comunale, ma se si esercitano i diritti di cittadinanza. Cittadino, dunque, è chi abita la città anche da straniero o da clandestino.



Il paradosso di un filosofo prestato alla politica, rimasto un politico della domenica, un dilettante allo sbaraglio. Massimo Cacciari descritto in un recente, maligno libro di Raffele Liuzzi come «responsabile più evidente di una città morta, spogliata da un turismo rapace e distruttivo». Il Sole 24 Ore, 28 luglio 2013

Se Gustav von Aschenbach, il protagonista di Morte a Venezia, potesse un giorno non remoto risorgere e far ritorno al Lido, si sparerebbe un colpo alla tempia. Annichilito non da un efebico biondino polacco, ma dal paesaggio sanguinante»: inizia così – con un'evocazione ironica di Thomas Mann – l'acuminato pamphlet che lo storico veneziano Raffaele Liucci ha dedicato a Il politico della domenica (Stampa Alternativa, Viterbo, pagg. 47, € 1,00), cioè a Massimo Cacciari. Per quasi un ventennio, dal 1993 al 2010, il signore incontrastato di Venezia (tre mandati come sindaco). Ma anche, secondo Liucci, il responsabile più evidente dello stato di crisi in cui versa oggi la Serenissima, «una città morta, spogliata da un turismo rapace e distruttivo».

Almeno quanto lo scandalo rappresentato dalle immense navi da crociera che solcano il fragilissimo canale della Giudecca per deliziare i turisti con un «inchino» a piazza San Marco, Liucci imputa a Cacciari, per l'appunto, il disastro urbanistico del Lido. Una devastazione camuffata da «riqualificazione». Il progetto di un nuovo Palazzo del Cinema finito nel nulla dopo gran dispendio di soldi pubblici, e la realtà di una cementificazione dell'isola a colpi di villaggi-vacanze, centri commerciali, darsene per yacht. Nonostante le proteste delle associazioni ambientaliste e dei residenti stessi del Lido, i «lidensi», da Cacciari ribattezzati «lidioti».

Avendo visto da vicino il sindaco all'opera, il veneziano Liucci si interroga – più in generale – sul paradosso Cacciari. Il paradosso di un filosofo interminabilmente prestato alla politica, eppure mai divenuto un professionista della politica nel senso nobile del termine: rimasto un politico della domenica, un dilettante allo sbaraglio. Ma l'italiano Liucci si interroga anche su un ulteriore paradosso. Il paradosso di un Cacciari ormai irrimediabilmente screditato in Laguna, eppure ancora credibile lontano da Venezia. Mediaticamente, un personaggio non rottamato: come dimostrano le sue innumerevoli comparsate nei salotti buoni delle televisioni pubbliche o private, e sui palchi dei festival maggiori o minori.

«Ormai Cacciari è diventato un tuttologo sfibrante, una sorta di Sgarbi del post-berlusconismo», scrive Liucci prima di fotografare en passant – ed è una pagina pamphlettisticamente magistrale – il Cacciari sociologo, il reduce, il critico, il cicloamatore, il teologo, il bioeticista, lo smanettone, il giornalista, il costituzionalista, il politologo, il tecnico, l'ospite, l'esorcista, l'antichista, il vaticanista, il rottamatore, il grillino, l'ambientalista... senza dimenticare lo storico («Erodoto Cacciari») e il latin lover («Eros Cacciari»). Ma se sorride del fregolismo mediatico del tuttologo, Liucci sorride meno delle sue connections politico-culturali. In particolare, dell'intesa cordiale che ha fatto di Cacciari, ateo dichiarato, un uomo di fiducia di don Verzé all'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano.

Il «côté religioso» di Cacciari contribuisce a spiegare il ventennale suo regno sopra Venezia, che «è forse la città più clericale d'Italia». Una città dove non si muove foglia che il Patriarca non voglia. Perché «un confortevole, levigato, ragionevole, democratico giogo confessionale affligge la laguna». Ma il giogo non basta a frenare calcoli, interessi, speculazioni degli autentici padroni di Venezia, i signori piccoli e grandi del turismo: osti e locandiere, albergatori e affittacamere, immobiliaristi e commercianti, baristi e ristoratori, motoscafisti e gondolieri, battitori e intromettitori, ambulanti e abusivi. «Ormai Venezia è stata trasformata in "un immenso negozio ad uso dei turisti di passaggio", come ha dichiarato Italia Nostra all'indomani della cessione del Fontego dei Tedeschi (uno dei palazzi più preziosi della città) al gruppo Benetton, per farne un centro commerciale».

Liucci non arriva al punto di imputare integralmente a Cacciari la trasformazione di Venezia in «paese dei balocchi», né gli addebita interessi privati nel business della cementificazione. Piuttosto, Liucci tiene a riconoscere nel fallimento politico-culturale del filosofo veneziano il fallimento di un tipo umano: l'intellettuale italiano di sinistra fattosi adulto, negli anni Sessanta, a colpi di «operaismo», e poi per decenni – tra infinite giravolte politiche – portatore apparentemente sano di una cultura visibilmente malata: «una cultura verbosa e petulante, gonfia di sé come un pesce palla, ma inconsistente come una medusa», «un'accademia della fuffa e del manierismo».

Cacciari interessa a Liucci quale prototipo di una piccola corte di intellettuali (i Toni Negri, gli Asor Rosa, i Tronti) salpati insieme come «operaisti» e variamente naufragati, ciascuno per proprio conto, sugli scogli delle loro pseudo-rivoluzioni fallite. A Liucci interessa «la forma mentis volubile e capricciosa» di tali «banderuole esposte ai quattro venti», che «hanno trovato nella politica una valvola di sfogo ideale per il loro ego ipertrofico». Gente per cui «i fatti non contano mai nulla, contano soltanto le interpretazioni». Gente come Cacciari, che nel 2011 ha riassunto la sua lunga esperienza di sindaco di Venezia con queste alate parole: «La cosiddetta società civile ti invade ogni giorno l'ufficio perché ha la prostituta nel viale, o il casino nel bar sotto casa, o il mendicante o la strada dissestata. Un esercito di infanti incapaci di arrangiarsi su qualsiasi vicenda umana e terrena. E io rispondevo: va bene, ti faccio l'ordinanza, così smetti di rompermi le palle».

Recensione dell'ultimo libro di uno studioso, narratore, testimone e poeta dei paesi dell'Italia interna, una parte essenziale del patrimonio italiano, se è vero che senza l'osso la polpa non sta in piedi. La Repubblica, 13 luglio 2013

Franco Arminio fa il maestro elementare, lo scrittore, il poeta, il documentarista, è animatore di battaglie civili (contro una discarica, contro una foresta di pale eoliche, contro la chiusura di un ospedale). Il suo nuovo libro s’intitola Geografia commossa dell’Italia interna (Bruno Mondadori pagg. 129, euro 14) e prima sono venuti Vento forte fra Lacedonia e Candela (Laterza), Cartoline dai morti (nottetempo), Terracarne (Mondadori). Oltre a questo, Arminio ha inventato una disciplina, la paesologia, che definisce «tanto indispensabile quanto inesistente», usando una delle invenzioni spiazzanti che cadenzano i suoi libri, un po’ metafore, un po’ ossimori, comunque figure retoriche di una lingua carnosa che, nei racconti o nei versi colpisce, ma non come ascoltandolo quando ritto in piedi declama con gesti plateali l’orografia di questo lembo dell’Irpinia orientale, punta estrema della Campania fra Puglia e Basilicata. O quando dalla sua Bisaccia si sposta a Cairano, a Santomenna, a Conza, a Sant’Andrea di Conza e ai vecchi seduti al bar chiede quanti abitanti sono rimasti nel centro storico, quante vacche fanno ancora latte, quanti ettari di terreno sono stati sottratti al grano per le pale eoliche e perché se ne sono tornati dal Venezuela o dalla Germania. Se pensano mai alla morte.

L’Italia di dentro è il teatro della paesologia di Franco Arminio. I borghi sofferenti «sistemati fra il Pollino e la Maiella», per niente decorati dal turismo dei resort, i paesi dell’osso lontani dalla polpa, come li chiamava Manlio Rossi-Doria, delle pensioni al minimo, distrutti dal terremoto del 1980 e dalla ricostruzione che seguì, che ogni giorno contano meno abitanti e dove i sindaci, dice Arminio, «dovrebbero esporre i manifesti quando nasce un bambino e non quando muore un vecchio».

«Questa è l’Italia che conosco, dalla quale non mi sono mai mosso», racconta Arminio camminando per le strade di Bisaccia nuova, il suo paese, separata da Bisaccia vecchia da un vallone frutto di una frana. Bisaccia vecchia è su un’altura, ci sono la chiesa, la piazza, il belvedere davanti al convento. Ci vivono in pochi, ma qui si svolgono le processioni e i funerali, tutti si danno appuntamento. A Bisaccia nuova, ingrandita dopo il terremoto per volere dell’allora sindaco Salverino De Vito, big democristiano e anche ministro, Arminio mostra il mastodontico ospedale che non ha mai funzionato, il moderno rudere di un edificio con una cinquantina di appartamenti mai completati e una villa che sembra un disco volante atterrato su un perno e con un balcone che sporge come una pupilla fuori dall’orbita.

Tante case, ma non c’è il paese. «Il paese non è uno zerbino sul quale si cammina, è un corpo come il mio corpo, una creatura con cui combattere, da cui ricevere amore e anche odio», spiega Arminio. «Io non sento il confine fra la terra del mio corpo e la terra del mio paese, la mia è una terracarne. I nostri padri vivevano nei paesi come in un’epopea: alzarsi all’alba e andare in campagna ogni mattina era un’avventura, una guerra. E la sera era grande il ristoro di un bicchiere di vino. Queste cose le abbiamo perdute, siamo convalescenti prima di aver preso la malattia. Ma io sono qui per combattere, il mio è un dolore che combatte».

Nonostante distruzioni e orrori il mondo che racconta Arminio non sta scomparendo. Anzi. «Fino a quando vedi un muro, una porta, un soffitto, un balcone, un paese c’è ancora». Come c’è ancora Craco, borgo abbandonato della Basilicata «che pare un’ambasciata della luna sulla terra». Craco che non è seppellito con i suoi ruderi, «ma è sollevato nell’aria e ogni giorno che passa diventa più bello e più vivo». Ed è questa, sentendo brillare le sue metafore, la leva intellettuale e politica su cui agisce la paesologia, l’alternativa «all’autismo corale di cui è impregnata la modernità cittadina». Geografia commossa dell’Italia interna risente di uno sguardo meno desolato. Arminio maneggia la letteratura, i suoi reportage sono scritture narrative e i suoi codici tutt’altro che da erudito di provincia. I suoi versi hanno un’andatura cantabile («Salendo verso la fine del paese / il silenzio è così forte / che si sente assai vicina / la calma della nuvola / che ha partorito la neve / e la nasconde dentro le cantine »). Ma, oltre che scrivere, Arminio organizza iniziative culturali, rassegne musicali, letture pubbliche. Suscita energie, spacchetta competenze e la fa fluire in imprevedibili stampi, mette in contatto poeti e cuochi, agronomi e piccoli imprenditori. Per fine agosto ha allestito un’iniziativa di paesologia ad Aliano, in Basilicata, dove fu confinato Carlo Levi. Tra i suoi interlocutori ci sono Gianni Celati e Franco Cassano, il geografo Franco Farinelli, gli storici Piero Bevilacqua e Antonella Tarpino (l’autrice di Spaesati. Luoghi dell’Italia in abbandono tra memoria e futuro, edito a fine 2012 da Einaudi), l’antropologo Vito Teti. Non ama la decrescita felice né il suo teorico Serge Latouche («È pur sempre un pensiero del Nord, per la critica di questa modernità è molto meglio Leopardi»). E su di lui ha messo gli occhi, quand’era ministro della Coesione territoriale, un fine economista come Fabrizio Barca, che ha lanciato un ambizioso progetto per le aree interne del paese finanziato con fondi comunitari e che si propone di ripopolare i luoghi abbandonati sia per garantire una migliore manutenzione contro frane e smottamenti che dissestano l’Appennino, sia per garantire la biodiversità naturale e culturale, sia, ancora, per diffondere occasioni di sviluppo (dall’agricoltura biologica all’artigianato).

Arminio ha partecipato a diverse iniziative con Barca: «Dobbiamo svuotare le coste e riportare le persone in montagna. L’Italia interna può diventare il laboratorio di un umanesimo delle montagne: basta che terra e cultura siano più rilevanti di cemento e uffici, canti e teatro al posto delle betoniere». Ma la paesologia, così la vede lui, resta un movimento dal basso. D’accordo sulla tutela dei beni comuni, «ma la poesia non è tra questi, la poesia cerca i solitari, gli affamati d’amore, li cerca e affida loro il suo piccolo tesoro».

Da Bisaccia ci spostiamo a Conza vecchia, nella cattedrale abbandonata, dove uno squarcio creato dal terremoto ha fatto emergere un foro romano. Non c’è più il tetto, ma sono venute alla luce le fondazioni medievali della chiesa e qui si allestiscono letture di poesie, performance teatrali. «Per anni ho scritto a gomiti chiusi sul grembiule delle mie ansie. Ma adesso c’è un lato di me disteso, il lato che mi porta a girare dentro il Sud, che porta tante persone a sentirsi una piccola risorsa di questo Sud». Risorsa quanto consistente? «Siamo un’esigua minoranza. Ma in certi momenti è come se fosse più credibile che la storia possa prendere una piega nuova».

Recensione all'ultimo lavoro di Franco Arminio, con l'indubbio pregio di esplicitare quanto l'approccio a volte percepito della “logia” non appartenga in senso proprio a questo autore. Alias / il manifesto, 16 giugno 2013 (f.b.)

Arminio possiede due io: uno per vivere e l’altro per guardarsi vivere». Lo dice lo stesso Franco Arminio, ricorrendo alla terza persona, in un testo («Colui che non vivendo visse») contenuto in Circo dell’ipocondria (Le Lettere, 2006). Ma nel suo ultimo lavoro, Geografia commossa dell’Italia interna (Bruno Mondadori, pp. 136, € 14,00), un aggiornamento dell’analisi introspettiva fa pensare a un’intervenuta soluzione di questa particolare forma di schizofrenia: «Io sono ciò che vedo», scrive ora lo scrittore irpino, fondatore peraltro di una nuova disciplina, la «paesologia», imperniata appunto sull’atto di osservare e sulla centralità del corpo. Lo scrivere è per Arminio un descrivere, dove il percetto – per usare una terminologia cara a Deleuze – prevale sistematicamente sul concetto, la sensazione sull’opinione, l’emozione sul ragionamento.

Come i precedenti, i testi che compongono questa «geografia commossa» rispondono per la più parte all’esigenza di una sospensione del giudizio, procedono per accostamenti di immagini, poco importa se eterogenee tra loro. È il luogo che garantisce l’unità. «In effetti, il mio lavoro è questo accostare la poesia alla desolazione, la desolazione alla poesia», ammette.
Non c’è paese, tra quelli visitati da Arminio nelle sue continue peregrinazioni appenniniche, che – nonostante i sempre più pesanti sfregi della modernità – non conservi perlomeno un’oncia di poesia e di bellezza. In un dettaglio architettonico, nel cigolìo di una porta, nella piega di un volto antico. Perché, come disse lui stesso durante una lettura a Cesena, la poesia non è che «un mucchietto di neve con il sale in mano».
Fare in modo che l’ecologia della mente e quella del mondo convergano e si compiano nella nitidezza della parola. È questo lo sforzo di Arminio, che – come un artigiano – intende portare il linguaggio «al sangue, all’osso», nella consapevolezza che «noi non abbiamo niente, se non la nostra miseria, il nostro essere senza scampo».
Arminio ha definito «Geografia commossa» il suo libro più politico. E non è un caso che, a un certo punto, invochi due numi tutelari piuttosto lontani tra loro, quasi inconciliabili: Pier Paolo Pasolini e Robert Walser, i quali a suo dire rappresentano il primo il conflitto, il secondo la contemplazione, ma che condividono entrambi quella dichiarazione programmatica: «Io sono ciò che vedo». Possiamo dire che Geografia commossa dell’Italia interna sia insieme «scritto corsaro» e «passeggiata», un aggirarsi tra «ardori civili e intime mestizie».
È tutt’altro che imbarazzante per Arminio fare seguire a un reportage dall’Aquila terremotata, o da una Taranto devastata dalla tromba d’aria, una lettera al figlio, o una «al mio cuore»; oppure passare dalla malinconia che suscitano in lui Craco e Aliano, le «ambasciate della Luna sulla Terra», all’ardore dei conclusivi «saggi deliranti e facoltativi».
Ma se un poeta, con i suoi scritti, fa politica, è anche in grado di cambiare la politica? Può affiancare all’invettiva l’attività politica e candidarsi a sindaco del suo paese, in questo caso Bisaccia? Arminio ebbe questa idea quattro anni fa, quando il suo lavoro cominciò a trovare «un ascolto non solo letterario».
Molti, anche tra gli amici, gli sconsigliarono la candidatura dicendogli che la poesia non può mischiarsi alla politica. Ma il suo progetto era esattamente questo: dimostrare che la poesia, unitamente all’impegno civile, può migliorare la politica, un’impresa ad esempio tentata, in Senato, tra il 1983 e il 1993, da Paolo Volponi. Nel libro c’è un passaggio in cui Arminio ricorda quel suo proposito, che si arenò presto, soffocato dall’amarezza: quando si rese conto che Bisaccia – un posto che non è mai riuscito a lasciare – non lo vedeva di buon occhio perché era «uno che si corica sulle panchine a prendere il sole». Quasi un matto.

Geografia commossa dell’Italia interna potrebbe essere letto come la collezione dei discorsi mancati di Arminio in consiglio comunale, discorsi che invitano al recupero dei paesi (anche se i paesi «non devono vivere per forza»), al piacere di stare insieme e decidere insieme come passare il tempo, ma che prefigurano anche grandi utopie, come «un anno intero di silenzio», la «globalizzazione lirica», una «rivoluzione clemente» contro quell’«autismo corale», che ha trasformato il mondo in un grande io. In «Divagazioni sull’anno nuovo», in origine pubblicato sul manifesto, Arminio dice che cosa significa oggi essere rivoluzionari. Significa «aumentare l’attenzione, più che la crescita economica, togliere più che aggiungere, rallentare più che accelerare, dare valore al silenzio, al buio, alla fragilità, alla dolcezza».

Il «francescanesimo» che emerge nella parte finale del libro non deve ingannare. Non è un elogio del pauperismo o della decrescita felice modello Latouche, ma la conferma che «siamo al mondo senza alcun mandato» e che ogni giorno dobbiamo convivere con il pensiero della morte. Più che il punto centrale dei libri di Arminio, la morte è il loro punto d’inizio, una luce, un faro che illumina retrospettivamente la vita, come dimostra Cartoline dai morti, il suo volumetto di maggior successo, pubblicato tre anni fa da Nottetempo. «Il pensiero della morte è il più ecologico che esista», scrive Arminio. E più avanti: «Chi non sa occuparsene non è un rivoluzionario». Anche perché «scrivere, in fondo, è arare la morte e cercare di trarne qualche frutto».

«La sopravvivenza della città, messa costantemente e fondamentalmente in pericolo (secondo l’intuizione di Hannah Arendt), dipende soprattutto da noi. Poiché la città costituisce un progetto rivolto all’avvenire, la nostra responsabilità starà nel sorvegliarne la crescita, senza abbandonarla agli specialisti». La Repubblica, 9 giugno 2013

Se la storia dell’uomo è ormai diventata quella delle sue città, bisogna dire che mai come nel Novecento la filosofia ha trattato di simili temi. Dalle analogie avanzate da Wittgenstein sul rapporto fra linguaggio e metropoli, alle ben più vaste considerazioni di Heidegger sulla differenza fra abitare e costruire, la città ha occupato un posto rilevante nella riflessione contemporanea. Lo dimostra Leggere la città - Quattro testi di Paul Ricoeur, a cura di Franco Riva (Castelvecchi, pagg. 146, euro 16,50). L’opera del grande studioso di ermeneutica, morto pochi anni fa, uscì nel 2008 da Città Aperta, ma ritorna ora con un ampio apparato tematico e una nuova introduzione di Riva, vero libro nel libro, che analizza la contrapposizione tra il decostruzionismo di Lyotard e Derrida da un lato, e la rilettura del costruire in senso narrativo di Ricoeur dall’altro. Ma veniamo ai quattro testi (escludendo l’ultimo, che l’autore stesso chiama una “semplice nota”), sulla base di un commento di Carmelo Schillagi e del gruppo di studio Petra Dura.

Il primo capitolo suggerisce come l’architettura sia per lo spazio ciò che la narrativa è per il tempo. Nella stessa maniera in cui l’architettura agisce sullo spazio per modificarlo, la narrativa interviene sul tempo per organizzarlo. In tal senso, concetti di durata e durezza si rivelano affini. «Se la scrittura conferisce durata alla cosa letteraria, la durezza del materiale assicura durata alla cosa costruita». Tuttavia, benché definibile come “pietra che dura”, l’architettura è solo una conquista provvisoria, sotto gli assalti della natura e dell’uomo. Ma ecco la grande mossa di Ricoeur: egli propone infatti di applicare all’arte del costruire gli stessi parametri cari all’arte del narrare, ossia i concetti di prefigurazione, configurazione e riconfigurazione.

L’esito di tale operazione si rivela tanto complesso quanto suggestivo. Assai più semplice appare invece il secondo testo, un’intervista del 1994. Qui l’autore sostiene che la sopravvivenza della città, messa costantemente e fondamentalmente in pericolo (secondo l’intuizione di Hannah Arendt), dipende soprattutto da noi. Poiché la città costituisce un progetto rivolto all’avvenire, la nostra responsabilità starà nel sorvegliarne la crescita, senza abbandonarla agli specialisti. Infatti, per Ricoeur, l’architettura non può né deve rientrare tra i saperi scientifici. In tale prospettiva, essa assomiglia alla politica, la cui gestione non è delegabile a tecnici. Vediamo perché: «Il politico è predisposto a dei mali caratteristici per il fatto stesso che sembra capace di esistere al di sopra di noi o, al limite, contro di noi. In quanto puro fenomeno di potere può perciò corrompersi, indipendentemente dalla sua base sociale ed economica. Per questo il politico deve rimanere sotto sorveglianza » (quando si dice l’attualità del filosofo…).

Arriviamo così al terzo testo, dedicato ai quattro requisiti di ogni centro urbano da cui derivano altrettante patologie. La prima dipende dalla moltiplicazione delle relazioni e degli scambi. Dato che la città rappresenta un crocevia di persone, il rischio insito in tale struttura risiederà nell’anonimato delle relazioni, come risposta a un mondo sovraccarico di impulsi. La seconda malattia deriva invece dalla mobilità accelerata, ed è legata al pericolo di un disorientamento e di una perdita del centro. Diversa l’aberrazione successiva, che consiste nel ben noto “fenomeno canceroso” della burocrazia. Quanto all’ultimo guasto urbano, esso discende dal predominio della tecnologia, davanti a cui l’abitante potrebbe finire per sentirsi un semplice ingranaggio in un contesto alienato e privo di progetto comune. Sono passati quasi vent’anni dalla stesura di queste pagine, eppure lo sguardo del pensatore protestante non ha perduto nulla del nitore con cui seppe guardare al nesso architettonico fra uomo, spazio e tempo.

Paul Ricoeur Leggere La Città, a cura di Franco Riva, Castelvecchi, pagg. 146 euro 16,50

«Dovremmo preoccuparci della “rimozione collettiva” tanto dell’estetica, quanto dell’etica dall’orizzonte della nostra modernità che ci ha trasformato in vandali . Pretendere che vi siano “paesaggi perfetti, in una società piena di imperfezioni” porta solo le minoranze più avvedute a grandi frustrazioni, ad aumentare la “tristezza infinita di chi non vede vie d’uscita"»

Francesco Vallerani, Italia desnuda. Percorsi di resistenza nel Paese del cemento, Edizioni Unicopli, pp191, Euro16,00)
Cinquant’anni fa accadevano casualmente dei fatti che rendono il 1963 un anno cruciale per la storia del rapporto tra esseri umani e ambiente nel nostro paese. Il 9 ottobre il monte Toc franava sull’invaso idroelettrico del Vajont provocando la morte di 1910 persone. Giusto un mese prima, Le mani sulla città di Francesco Rosi veniva premiato con il leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia. Nella primavera, la segreteria nazionale della Dc sconfessava e affossava definitivamente la proposta di riforma di nuova legge urbanistica dell’ex ministro Fiorentino Sullo che prevedeva la possibilità di esproprio delle aree edificabili, separando diritto di proprietà dal diritto di edificazione. Sempre quell’anno, per merito della casa editrice Feltrinelli, usciva in italiano Silent Spring di Rachel Carson, il libro capostipite dell’ambientalismo scientifico che raccontava gli effetti persistenti del DDT sugli ecosistemi. Insomma, eventi apocalittici rivelatori e conflitti politici dirimenti aiutavano l’Italia ad uscire dall’ubriacatura collettiva degli anni del miracolo economico postbellico e ci facevano prendere coscienza delle ingiustificabili follie devastatrici di un non-modello di sviluppo “estrattivista” - diremmo oggi - asservito agli interessi della rendita. Tra speranze di cambiamento (il centro-sinistra) e successivi disastri (la frana di Agrigento e l’alluvione di Firenze e Venezia nel 1966, ad esempio), nulla cambierà fino ai nostri giorni. Anzi, gran parte della finanziarizzazione dell’economia iper-neo-liberista ha come unico “sottostante” il mattone e le grandi opere. Il nostro era e resterà “il paese della metastasi cementizia”, dello sprawl urbano, della città diffusa, dell’“espansione per adduzione continua”… tanto da finire per essere governato dal più noto immobiliarista formatosi nella Milano da bere.

Francesco Vallerani (Italia desnuda. Percorsi di resistenza nel Paese del cemento, Unicolpi, pp.191, 16,00 Euro) non lo dice, perché pensa che “i discorsi scientifici” abbiano scarsa efficacia nel convincere le persone a cambiare il mondo, ma in questa sede (per tenere i piedi per terra, non solo in senso materialistico filosofico!) è bene ricordare ancora una volta che dal 1956 al 2010 il territorio urbanizzato in Italia è passato da 170 metri quadrati di suolo per abitate a 343: raddoppiati. Il 6,9% del suolo nazionale consumato contro il 2,3% della media europea (stime dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale). Un vero primato negativo! I dati del Rapporto di Ambiente Italia sono ancora peggiori: abbiamo lastricato il 7,6% del suolo. In Lombardia il 15%, in Veneto l’11%. Le conseguenze le conosciamo bene: la maggior parte dei comuni è costretta a convivere con frane, inondazioni, smottamenti, erosione, perdita di fertilità e quant’altro.

La domanda che ci si deve porre è allora: come è stato possibile oltrepassare il punto di non ritorno del degrado ambientale in un paese in cui le valenze naturali, storiche, paesaggistiche e culturali non hanno pari al mondo? Com’è possibile che il più miope calcolo utilitaristico, l’egotismo proprietario sia riuscito a prevalere incontrastato su ogni altro motivo di interesse collettivo, non direttamente e immediatamente monetizzabile [p.43]? E non possiamo dire che siano mancati “profetici allarmi” e le denuncie civili di tanti straordinari osservatori e “viaggiatori”. Il capitolo centrale del volume di Vallerani ripercorre le avvincenti scritture di molti autori che costituiscono una sorta di “Accademia dei Sofferenti per il Paesaggio”, “quasi un genere letterario” [p.87] specifico: Guido Piovene, Italo Calvino, Pier Paolo Pasolini, Lucio Mastronardi, Guido Ceronetti, Giorgio Bassani, Leonardo Borgese, Antonio Cederna, Andrea Zanzotto fino a Paolo Rumiz. Oltre a Calogero Muscarà, Eugenio Turri, Marcello Zunica ed altri geografi di professione, colleghi dell’autore. E poi gli urbanisti come Alberto Magnaghi, Edoardo Salzano, Vezio De Lucia. Intellettuali di punta come Salvatore Settis. Se non sono bastate le loro pagine a convincere l’opinione pubblica, ad alfabetizzare le classi dirigenti, a formare amministratori dignitosi…quale altra via seguire?

Il lavoro di Francesco Vallerani ci suggerisce di guardare al mondo in un modo diverso - almeno questo è l’effetto straordinario che la lettura del suo libro ha avuto in me. Non dovremmo tanto lamentarci e dolerci per la perdita di bellezza, funzionalità, salubrità dell’ambiente che ci circonda, quanto piuttosto dovremmo preoccuparci dell’impoverimento psichico e culturale che tutto questo provoca nel nostro stesso vivere, dell’ottundimento delle nostre capacità percettive del bello e del buono. Non dovremmo disperarci nel tentativo di salvare qualche pezzetto di paesaggio brutalizzato, ma dovremmo piuttosto preoccuparci della “rimozione collettiva” tanto dell’estetica, quanto dell’etica dall’orizzonte della nostra modernità che ci ha trasformato in vandali [p.40]. Pretendere che vi siano “paesaggi perfetti, in una società piena di imperfezioni” porta solo le minoranze più avvedute a grandi frustrazioni, ad aumentare la “tristezza infinita di chi non vede vie d’uscita” [p.28].

Il bravo geografo, allora, deve saperci aiutare a riconoscere e a prendere consapevolezza dei nessi che legano le persone ai luoghi. Non solo la bellezza - questo è il compito del paesaggista. Non solo la funzionalità biotica - questo è mestiere dell’ecologo e del naturalista. Non solo la razionalità - questo è l’urbanista. Serve un approccio “transdisciplinare”, olistico, e serve, soprattutto, una sensibilità particolare per le condizioni esistenziali del vivere quotidiano degli uomini e delle donne che popolano i territori martoriati dalle ruspe e dalle betoniere. Il “geografo umanista” è quello che riesce a creare un dialogo empatico tra la gente dei luoghi e i luoghi della gente. Per riuscirci dovrà sviluppare tecniche di “osservazione partecipata”, dovrà inevitabilmente farsi “coinvolgere emotivamente” e, soprattutto, scegliere di essere di parte; quella di quanti vengono espropriati e sradicati dalla violenza delle trasformazioni urbane lineari, incrementali. Vengono in mente le metodologie messe a punto dagli urbanisti della Scuola territorialista per l’elaborazione dei Piani paesaggistici (previsi dalla Convenzione europea) o dei Contratti di fiume attraverso le “mappe di comunità” costruite con la partecipazione attiva degli abitanti. Vallerani, non a caso, fa parte di quella piccola schiera di “consulenti di parte” di quella miriade di “comitati emergenziali” locali, associazioni, movimenti che presidiano e si battono quotidianamente a difesa del territorio: i mille NoTav d’Italia. Per il suo precedente lavoro, Il grigio oltre le siepi, che documentava puntualmente le devastazioni in Veneto, è stato minacciato e costretto a difendersi nei tribunali dagli avvocati del “partito del cemento”.

La sfida del geografo è quindi quella di superare l’indifferenza e la rassegnazione che troppo spesso rendono le popolazioni passive. Deve mostrare come “il paesaggio sfregiato produce disagio e angoscia”, che i “traumi geografici” (non solo i dissesti idrogeologici e gli eventi calamitosi, ma anche la cancellazione di valenze storiche e paesaggistiche) si traducono in “disagi esistenziali e psicologici”, in “inconsapevole disperazione”. Il moderno “labirinto oscuro delle geografie dell’angoscia” [p.20] in cui siamo costretti a vivere malamente ricompensati dalla promessa di consumi più copiosi (più ore da passare in automobile, più centri commerciali, più cibo spazzatura e merci usa e getta), influenzano la quotidianità del vivere e generano “affettività negative” [p.67], comportamenti compulsivi, competitivi e aggressivi. Più dolore. E, come in una spirale perversa, il dolore deprime, smarrisce le facoltà cognitive, conduce alla “dissoluzione fisica e affettiva dei rapporti della gente con le dinamiche ecosistemiche” [p.19].

Se il paesaggio è indubbiamente un bene comune (come lo può essere lo spazio, l’etere e l’atmosfera, ma anche la storia e la memoria collettiva, il genius loci che anima i luoghi), allora è tempo di bandire le timidezze e di iscrivere anche il diritto alla bellezza per tutti, anche per i commoners, nell’agenda di chi, “senza false nostalgie per una arcadica eredità romantica”, desidera cambiare per davvero il presente stato di cose. Vallerani ci dimostra che è possibile immaginare “altre geografie”, “recuperare il senso di appartenenza ai luoghi”, “avviare una ricucitura sentimentale con i territori della quotidianità” [p.36] .

Un interessante dibattito a partire da un interessante e utile libro di Mario De Gaspari. La rendita immobiliare, come ci distrugge come si può, e di deve, tornare a combatterla, fin da oggi.

In due recenti appuntamenti alla Casa della Cultura e alla Provincia di Milano si è discusso dell’ultima fatica di Mario De Gaspari: un libro snello ma importante dall’intrigante titolo e dall’inquietante sottotitoloBolle di mattone. La crisi italiana a partire dalla città. Come il mattone può distruggere l’economia (Milano, Mimesis edizioni). Invitati a discuterne Roberto Camagni e Giancarlo Consonni nel primo incontro; Arturo Calaminici, Massimo Gatti e Maria Cristina Gibelli nel secondo).

Preceduto da una bella introduzione di Walter Tocci (http://www.eddyburg.it/2013/03/bolle-di-mattone-di-mario-de-gaspari.html), Bolle di mattone affina ulteriormente, grazie a un supporto teorico rigoroso, le riflessioni sull’intreccio fra rendita, speculazione immobiliare, finanza e comportamenti della pubblica amministrazione: temi già affrontati dall’Autore in altri scritti recenti , e sempre con uno sguardo acuto che gli deriva dalla sua ‘doppia personalità’ di intellettuale critico ma anche, nel passato recente, di amministratore locale (prima come sindaco di Pioltello, un comune dell’hinterland milanese, e poi come consigliere della Provincia di Milano). Mario De Gaspari conosce quindi bene ciò che, con una locuzione efficace, definisce la “mostruosa fratellanza” fra pubblico e privato, fra chi dovrebbe amministrare per il bene collettivo e chi vuole trarre il massimo vantaggio dalla città della rendita: il settore finanziario immobiliare, e le sue “bolle di mattone” appunto, che ha ottenuto in passato e continua ad attendersi, anche in epoca di crisi, margini di gran lunga più elevati di qualsiasi altro settore produttivo.

Centrale in questo nuovo libro è una riflessione teorica su moneta bancaria, sviluppo e rendita che parte dai classici, Marx e Ricardo, e si estende a Keynes, Schumpeter e Minsky; fondamentale altresì la capacità di ricollocare la attuale e peculiare crisi del settore immobiliare e finanziario del nostro paese in una dimensione teorico-interpretativa complessa. Importante è il parallelismo, che De Gaspari illustra benissimo, fra creazione di moneta bancaria (attraverso l’attivazione del credito alle imprese) e creazione di moneta urbanistica, il “cubo”, (attraverso l’attivazione di concessioni e diritti volumetrici). In entrambi i casi, i processi portano a crisi rovinose non appena si invertono le aspettative di mercato: allo scoppio delle bolle finanziarie e immobiliari.

Come ha sottolineato Roberto Camagni nella prima tavola rotonda, c’e una differenza sostanziale fra i due processi. Nel primo, il credito bancario genera uno spazio all’imprenditore all’interno della distribuzione del reddito nazionale, attraverso un processo inflazionistico, a fronte di una promessa di profitti da innovazione (come indica Schumpeter), e dunque a fronte di uno sviluppo produttivo. Nel secondo caso, si realizza lo stesso effetto, ma a fronte di una generazione di rendita (e di qualche sviluppo edilizio): una rendita che in Italia non viene assolutamente intaccata dalla fiscalità pubblica per effetto proprio della sopra evocata“mostruosa fratellanza”.

De Gaspari, nelle due occasioni di presentazione del libro, ci ha spiegato il ‘suo’ malessere (oltre a quello della città, che aveva costituito il titolo di un suo precedente bel libro): un malessere che deriva dalla peculiarità della ‘speculazione edilizia’ italiana e dalla debolezza della pianificazione. Tutti i PRG (o loro succedanei) messi assieme valgono oggi in Italia – ci ha detto l’Autore- molto più di qualsiasi altra attività produttiva in termini di punti di PIL. Dopo 20 anni di liberismo e di deregolamentazione urbanistica, e in assenza di una riformata legge urbanistica nazionale e di una nuova legislazione di fiscalità immobiliare risolutamente orientata alla tassazione della rendita, i beni immobiliari si sono trasformati, con l’indebitamento sui mutui, in “risparmio abortivo” (una locuzione di Keynes).

Si tratterebbe attualmente, secondo quanto dichiarato recentemente dall’immobiliarista Puri Negri in un dibattito in televisione, di 400 miliardi di euro di crediti immobiliari complessivi in possesso delle banche più importanti. E questo dato evidenzia un intreccio fra mattone e finanza, fra filiera immobiliare e banche che appare sempre più soffocante e senza prospettive, in un contesto in cui il ‘cubo’ è diventato la moneta urbanistica corrente. Ma anche i governi locali hanno fatto la loro parte: per fare cassa hanno infatti inventato la “zecca immobiliare” (come la definisce Walter Tocci nell’introduzione al libro), continuando a concedere sempre più estesi diritti edificatori e consumando con voracità risorse territoriali preziose, perché “nella strisciante concezione estremisticamente liberista della città del 2000 la rendita dei suoli è considerata una variabile assolutamente avulsa, indipendente, ininfluente (…) e il governo della città un fatto quasi privato delle amministrazioni comunali e le conseguenze economiche delle scelte urbanistiche, a livello locale e sul piano nazionale, del tutto trascurate” (De Gaspari: 110).

Nel dibattito che si è sviluppato in occasione delle due presentazioni del libro sono emerse alcune considerazioni interessanti, sia da parte di studiosi che di amministratori locali.

A fronte della crisi immobiliare che ha colpito un po’ ovunque nei paesi avanzati, altrove ci sono già state delle risposte che hanno saputo ridurre il danno; e, certamente, sono alcuni paesi ‘mediterranei’ che hanno subito più danni perché, con l’entrata nell’Euro, hanno goduto del vantaggio dato dall’opportunità di sostituire monete deboli con una moneta forte concessa con prestiti a basso tasso di interesse. In Italia si è creata una grande quantità di moneta urbanistica, grazie alla concessione generosissima di diritti edificatori e alla altrettanto generosa attribuzione agli immobiliaristi di credito bancario con garanzia sui diritti stessi. Oltre un certo limite, ampiamente superato, di crescita irrazionale dei prezzi immobiliari, la crisi della bolla non poteva che esplodere. In più, in Italia il contesto politico-istituzionale si caratterizza per una evidente mancanza di cultura e di una legislazione sulle procedure negoziali pubblico/privato capace di garantire adeguati vantaggi pubblici nello scambio.

Due esempi sono stati evidenziati nella discussione per porre in evidenza questa ingiustificabile propensione allo scambio ineguale fra pubblico e privato: la tassazione ‘ordinaria’ associata ai permessi di costruire; gli ‘extra-oneri’ ottenibili dai progetti in deroga. A differenza di altri paesi europei, nel nostro paese gli oneri concessori di legge continuano ad essere molto bassi: 244 euro/mq a Milano; 155 euro a Torino; 105 a Bologna; i più elevati a Firenze con 480 euro.

Un’altra significativa differenza riguarda la ripartizione fra pubblico e privato dei valori realizzati attraverso progetti di rigenerazione in deroga ai piani urbanistici vigenti. Da indagini mirate sui bilanci di grandi progetti di trasformazione realizzati a Roma e Milano, è emerso che la quota della rendita si aggira fra il 45% e il 55%, mentre alla città pubblica spetta circa il 5% del valore complessivo. Si tratta di valori bassissimi, se comparati con altre città europee che con i progetti negoziati arrivano a recuperare per la collettività fino al 30-32%.

E’ evidente, e De Gaspari ce lo spiega con accuratezza ma anche con grande disincanto, che la mostruosa fratellanza fra immobiliaristi, banche e PA che ha dato luogo a uno scambio così ineguale sta alla base della bassa qualità delle nostre città, della loro progressiva perdita di vivibilità, della mai risolta, anzi sempre più drammatica, questione delle abitazioni che evidenzia soprattutto nelle maggiori città “il paradosso della povertà nell’abbondanza. I grattacieli in costruzione e i senza tetto accampati sotto i ponteggi”.

L’Italia è un paese anomalo? Forse sì, perché gli amministratori locali sempre più si sono limitati a svolgere meramente un ruolo di ‘facilitatori’, con il risultato che la quota di invenduto/sfitto nelle grandi città risulta ormai patologica. E quando un invito a tassare la rendita arriva da amministrazioni locali in mano alla sinistra, sottolinea l’Autore, non può non sorgere un sospetto di rapporto collusivo con le cooperative rosse che godono, dal punto di vista fiscale, di un regime speciale.

E se 400 miliardi di euro di crediti immobiliari sono oggi in possesso della banche, se le banche spesso sono diventate proprietarie di un tale ingentissimo patrimonio dopo il fallimento di speculatori immobiliari cui avevano garantito prestiti elevatissimi, esse avranno tutto l’interesse a esercitare il loro potere di influenza per continuare (e anzi potenziare) i progetti speculativi. Le banche si comportano dunque come ‘speculatori’: spingono per evitare riduzioni di prezzo degli immobili (che costituirebbero il solo modo per avviare un rilancio dell’edilizia) e usano la loro autorevolezza per valorizzare le loro garanzie fondiarie e immobiliari, onde evitare forti effetti negativi sui loro bilanci.

Come uscirne? Occorrerebbe ri-legittimare la pianificazione. Occorrerebbe porre argine alle procedure perequative - specie quelle ‘estese’, che distribuiscono diritti edificatori atterrabili ovunque -; porre argine alla flessibilità delle destinazioni d’uso e, sopratutto, porre argine alla inarrestabile concessione da parte dei comuni di diritti edificatori amplissimi e staccati da ogni razionale previsione sulla domanda effettiva: anzi, occorrerebbe revocarne molti elargiti in passato, come è nei poteri delle amministrazioni locali (importante, a questo proposito, la recente sentenza del Consiglio di Stato 6656/2012 che conferma la legittimità del nuovo PRG di un piccolo comune del Salentino che ha destinato a verde privato un’area precedentemente destinata a zona di completamento, affermando che « l’urbanistica e il correlativo esercizio del potere di pianificazione, non possono essere intesi, sul piano giuridico, solo come un coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, ma devono essere ricostruiti come intervento degli enti esponenziali sul proprio territorio, in funzione dello sviluppo complessivo e armonico del medesimo; uno sviluppo che tenga conto delle potenzialità edificatorie dei suoli, non in astratto, ma in relazione alle effettive esigenze di abitazione della comunità…”: http://www.eddyburg.it/2013/02/e-confermato-non-esistono-diritti.html).

Ma l’ottimismo non è aleggiato negli incontri milanesi, perché né il contesto politico nazionale attuale, né i comportamenti delle amministrazioni locali, per lo più acquiescenti, o anestetizzate, o con un complesso di inferiorità nei confronti degli immobiliaristi e delle banche, lo autorizzano.

In Lessico Virilio, di Silvano Cacciari e Ubaldo Fadini, il tentativo «di valutare, in maniera adeguatamente disincantata, i pericoli legati all'utilizzazione della scienza dell'informazione in chiave di dominio totale». il manifesto, 20 aprile 2013

Dall'urbanistica al predominio delle macchine nella scienza, i temi dello studioso francese

Lessico Virilio. L'accelerazione della conoscenza (Felici, pp. 120, euro 15) di Silvano Cacciari e Ubaldo Fadini ha una struttura molto singolare: è un dizionario composto praticamente da un'unica parola, velocità . In questo vocabolo solo apparentemente anodino sembra che possa essere racchiuso tutto il complesso discorso teorico che contrassegna il percorso filosofico e politico di Paul Virilio. Inoltre, in questa parola-chiave è compendiato anche il rapporto (per i due autori del saggio considerato come decisivo) tra politica ed estetica che lo contraddistingue. Il saggio si apre con una domanda: come mai su Virilio non esiste in Italia una riflessione adeguata alla sua importanza e al suo peso nella cultura francofona e anglosassone? Infatti, anche se la bibliografia delle traduzioni italiane degli scritti dello studioso francese è ormai copiosa (e Fadini ne rende conto nel suo saggio) non sarà inopportuno ricordare come questo urbanista e architetto (non accademico) sia passato alla riflessione filosofica e sia poi divenuto celebre in Francia per una serie di affermazioni di notevole importanza per la ricostruzione degli eventi fondativi della postmodernità. Il libro di Cacciari e Fadini si propone, di conseguenza, non solo di costituire una sorta di introduzione generale alla sua opera ma di approfondirne alcuni aspetti peculiari considerati come essenziali anche in rapporto all'utilizzazione politica della prospettiva di Virilio.

Le forme della guerra


In questo progetto di analisi, la dinamica della guerra e della sua ricezione fenomenologica, legata com'è alla velocità come prospettiva evolutiva dello sviluppo capitalistico contemporaneo, assume un significato di grande rilevanza non solo teorica ( Guerra e cinema. Logistica della percezione , titolo della traduzione di Buzzolan per Lindau nel 1996, è una delle sue opere più note anche in ambito estetologico). Come Fadini spiega nel primo saggio del libro, il punto di partenza di Virilio è l'analisi archeologico-estetica del bunker , in particolare quelli che costituivano il Vallo Atlantico durante la Seconda Guerra Mondiale e sul quale l'attenzione dello studioso era stata attratta negli primi anni Settanta. Questa sua ricerca culminerà in una mostra sull'archeologia del bunker che si terrà nel 1975 presso il Musée des Arts Décoratifs di Parigi. Ma è proprio a partire dalla forma che la guerra ha assunto nelle sue espressioni più rilevanti che emerge in Virilio la consapevolezza che in essa si può ritrovare la chiave dello sviluppo tecnologico che investe l'intera società capitalistica.
Nel saggio di dromologia dedicato a Velocità e politica che sestruzione del pensiero di Virilio è legato alla volontà di collocarlo in un campo filosofico più vasto ma ben preciso e che va dalla comune matrice fenomenologica di Merleau-Ponty alla filosofia desiderante di Deleuze-Guattari e alla microfisica del potere in Foucault (senza trascurare importanti incursioni in ambito tedesco, in particolare in relazione a Canetti e ai testi più «letterari» di Walter Benjamin come Immagini di città apprezzati dallo stesso pensatore francese).
Cacciari, invece, si cimenta nella ricostruzione della fortuna di Virilio nel mondo anglosassone, in particolare in quello americano, e si addentra nella ricostruzione del rapporto tra spettacolarizzazione della guerra e industria dello spettacolo cara al filosofo francese deducendone spesso delle originali conclusioni. Particolarmente interessante risulta, guirà nel 1977 e nei testi di estetica della «sparizione» ad esso conseguenti usciti a partire dagli anni Ottanta (in essi si passerà alla dizione più esatta di dromoscopia), l'intento di analizzare le modificazioni del visibile come effetto della trasformazione dell'antropologia contemporanea si unisce all'individuazione di un preciso rapporto di causa ed effetto rispetto ai loro intenti ed effetti politici. In Fadini, tuttavia, la ricoinfatti, il richiamo a Architecture of the Visible di Graham McPhee proprio in relazione alla teoria della nuova soggettività presente in Virilio. Di grande interesse è, inoltre, l'intervista a cura di Guy Lacroix per il numero del 1997 della rivista Terminal (nella traduzione dello stesso Cacciari) in cui il filosofo mette in evidenza la compiuta contemporaneità delle proprie tesi in rapporto a eventi epocali quali il possibile sviluppo del telelavoro, il dominio dell'informatica nel campo della ricerca scientifica e dello sviluppo tecnologico e la messa in mora della figura umana in rapporto al predominio delle macchine «intelligenti» («dal momento in cui si arriva a far acquisire delle percezioni molto sofisticate ad una macchina, così come la capacità di ragionamento con i sistemi esperti, perché ingombrarsi ancora dell'uomo? C'è una delega della scienza alla macchina. Si spinge all'estremo la scienza per farla divenire autosufficiente come l'arte: un'arte per l'arte ma senza l'artista. Si avrebbe una scienza della scienza senza personale scientifico»).

Le Chernobyl informatiche


In Virilio, ovviamente, non si tratta di ritornare a un' impossibile retorica dell'umanesimo pre-tecnologico quanto di valutare, in maniera adeguatamente disincantata, i pericoli legati all'utilizzazione della scienza dell'informazione in chiave di dominio totale ed evitare quelle che egli stesso definisce delle possibili «Chernobyl informatiche». In conclusione: il saggio a quattro mani di Cacciari e Fadini fa il punto su un pensiero tutt'altro che semplice da sintetizzare quale è quello di Virilio e cerca di usarlo al meglio come una possibile «scatola di utensili» per lavorare non solo all'interno di un presente condiviso con il pensatore francese ma anche nella dimensione di un futuro che si preannuncia oscuro e spesso incomprensibile per chi vorrebbe analizzarlo sulla base di prospettive teoriche assunte come dogmi.

Ovvero come l'urbanistica è stata al cento del riformismo italiano e come potrebbe tornare ad esserlo. Gazebos, 15 maggio 2013

Nella città dolente, di Vezio De Lucia (Castelvecchi, 2013) è un libro sull’urbanistica italiana che in questi tempi di riflessioni e revisioni dovrebbe diventare oggetto di studio per buona parte della classe dirigente del centrosinistra italiano (intendendo qui, a scanso di equivoci, tutto ciò che ruota attorno al PD e alla sinistra del PD). I motivi sono tanti, a partire dal fatto che le classi dirigenti del nostro paese sembrano avere la memoria corta e l’esperienza del riformismo passato, dei suoi successi come dei suoi fallimenti, non è, come invece dovrebbe, patrimonio di conoscenza condiviso da tutti. E’ questa una condizione tutta italiana: è noto, infatti, che un grande riformatore come Barack Obama abbia studiato a fondo la bruciante sconfitta subita dal suo predecessore Clinton sulla riforma sanitaria. Per poter innovare e vincere, anche a prezzo di alcuni compromessi. Ultimamente, la riflessione sul passato, per non parlare della revisione critica – come si è avuto modo di mettere in luce recentemente - sembra invece essere poco praticata a sinistra.

De Lucia, uno dei più importanti urbanisti italiani, parla, come si evince dal sottotitolo del suo libro, di “mezzo secolo di scempi, condoni e signori del cemento. Dalla sconfitta di Fiorentino Sullo a Silvio Berlusconi”. Il racconto è avvincente e riesce a rendere tutta l’importanza che ha in Italia la questione urbana e urbanistica. Le vicende raccontate nel libro sono numerose. Si parla delle sconfitte dei riformatori, ma anche di alcuni importanti successi ottenuti negli anni: si va dalla sconfitta di Fiorentino Sullo e della sua riforma urbanistica, agli interventi che hanno fatto scuola come a Bologna o nella Maremma livornese oppure del contrasto degli appetiti speculativi determinatisi a Napoli dopo il terremoto dell’80 in vista della ricostruzione. Nel libro si parla anche degli interventi di riforma quali la “legge ponte” di Mancini approvata nel 1967 come risposta alla frana di Agrigento o della legge Bucalossi, così come delle tante vicende, più o meno grandi, relative ai tentativi di dare al territorio e alle città un assetto civile e una gestione non predatoria. Ci sono riferimenti alla storia urbanistica recente di Venezia e alla vicenda del MOSE, all’urbanistica italiana nel periodo del centrismo e a episodi di successo come la tutela del centro storico di Assisi, nonché i riferimenti alle sentenze della Corte Costituzionale che, a varie riprese, hanno annullato alcuni dei dispositivi riformisti volta per volta istituiti.

De Lucia assolve a un importante compito, quello di dare una visione di insieme dell’urbanistica italiana dal dopoguerra ad oggi. Le vicende narrate sono più numerose di quelle appena ricordate e sarebbe inutile cercare di farne un riassunto in poche righe. Il libro, in sostanza, contiene il racconto della battaglia per lagestione del territorio in chiave non speculativa nel contesto della ricostruzione prima e delle fasi di sviluppo che sono seguite. Emerge il racconto di uno scontro politico nel quale si confrontano, da una parte, coloro i quali ritengono che il territorio sia un bene come tutti gli altri e che, quindi, debba poter essere utilizzato da chi se ne appropria per il suo legittimo arricchimento. Dall’altra, invece, ci sono coloro che ritengono che il territorio e il paesaggio debbano essere usati con dei limiti, tenendo presente l’impatto collettivo che tale sfruttamento determina. Interesse collettivo e limiti individuati non solo dalla legge, ma anche dalla stessa Costituzione.

Un aspetto molto importante raccontato da De Lucia è che i fronti di questo scontro attraversano in maniera non scontata i partiti politici, anche perché il modello di riferimento dei riformatori non è statalista né comunista e si rifà, invece, a quanto praticato in numerosi paesi europei, mai usciti dall’alveo del capitalismo. E’ un modello liberale, finalizzato a costruire un mercato degli immobili efficiente e competitivo nel quale gli interessi della rendita non dettino legge. Fiorentino Sullo, per intenderci, era un ministro democristiano e lo stesso Gianni Agnelli, all’inizio degli anni 70, auspicava un “riduzione dell’area della rendita”. Ma “l’urbanistica contrattata”, o il “pianificar facendo”, vale a dire i mali recenti del governo del nostro territorio, sono stati propugnati anche da importanti pezzi della sinistra italiana e nel libro si parla anche delle esperienze contraddittorie per quanto riguarda l’urbanistica della giunta Pisapia a Milano e di quella De Magistris a Napoli.

Quello che è il tratto distintivo del racconto di De Lucia è che lo scontro sull’urbanistica è stato anche cruento. La chiave interpretativa che percorre tutto il libro, infatti, è data da quella che lui definisce la “Sindrome di Sullo”, cioè il fatto che chiunque si occupi di urbanistica contrastando gli interessi della speculazione finisce per subire una marginalizzazione politica (un esempio degli stereotipi che ancora gravano su quella vicenda lo si può ritrovare in questa rievocazione di Sergio Romano, sul Corriere della Sera di qualche anno fa). Non fu solo Sullo a subirla: De Lucia parla anche di Achille Occhetto, che si oppose ad alcune operazioni urbanistiche a Firenze. Più recentemente è stata la volta di Renato Soru. Ma lo stesso Aldo Moro sembrerebbe esserne stato vittima. Afferma infatti De Lucia: “ci provò a fare la riforma urbanistica. nel 1964, ma fu costretto a una precipitosa marcia indietro per evitare un colpo di stato”. Per questo stupisce – o forse proprio per questo non dovrebbe stupire – che la questione urbanistica sia considerata solamente argomento per specialisti.

Insomma, De Lucia parla di urbanistica come grande questione nazionale. Sarebbe dovuta essere la terza grande riforma del centrosinistra, ma venne bloccata con un tentativo di colpo di stato, mentre negli anni recenti “è stata mano a mano emarginata e poi screditata dall’azione sempre più condivisa volta a mettere fuori gioco il governo pubblico del territorio”.

I riformisti italiani e quelli che hanno a cuore le sorti del paese dovrebbero, invece, raccogliere questa bandiera. Innanzitutto perché servirebbe all’Italia, visto lo stato di degrado delle città e del territorio. Le recenti elezioni e le prossime tornate amministrative, purtroppo, ci dicono che la questione è, come dire, “fuori dai radar” delle classi dirigenti e di urbanistica si parla poco e male.

Inoltre, in una stagione in cui la sinistra si interroga sulle ragioni della sua debolezza e sulla crisi delle sue forme organizzative, farebbe bene ad accorgersi che alla radice di molta mobilitazione popolare c’è l’interesse e la preoccupazione per le sorti delle città e del territorio. Il libro di De Lucia fa riferimento ai movimenti sorti negli ultimi anni, ma l’impressione è che lo faccia per difetto, visto che nascono un po’ ovunque comitati di difesa del verde o dello spazio pubblico, oppure iniziative di lotta alla cementificazione. Tutte realtà che hanno diversi gradi di organizzazione e di forza, che spesso si oppongono a interessi enormi e che meriterebbero molta più attenzione da parte dei riformisti italiani (alcune di queste esperienze vengono raccontate da Erbani in un bel libro sull’urbanistica Romana). La sinistra, quindi, dovrebbe interrogarsi sul proprio ruolo in relazione a queste realtà, e comportarsi di conseguenza. Il che, peraltro, implicherebbe rinverdire tradizioni che le sono proprie. De Lucia, a questo proposito, racconta che il PCI Romano, sotto la guida di Aldo Natoli – che definisce uno dei fondatori dell’urbanistica di sinistra italiana - nel 1954 fornì l’elenco dei maggiori proprietari di aree a Roma: un esempio di come solo la struttura organizzativa di un partito forte può essere messa al servizio delle battaglie progressiste. Battaglie che possono essere efficaci, da una parte, se si individuano in maniera chiara gli avversari e le effettive poste in gioco, e dall’altra se si hanno le spalle forti al punto da difendere i propri dirigenti dalla “Sindrome Sullo”. E’ utile ricordare qui che l’ultima stagione riformista della sinistra romana, quella che portò all’elezione di Rutelli si basò su un lavoro analogo di censimento dei poteri forti della città, inclusi quelli attivi nel settore immobiliare. Vari furono i promotori di questa iniziativa, tra cui Walter Tocci. De Lucia non ne parla qui, ma in un altro libro. Parla, invece, degli esiti deludenti di quella esperienza, che tradirono le aspettative che pure si erano determinate. Come che sia, l’urbanistica era oggetto di pensiero e di azione. Attualmente i partiti deboli, o liquidi che dir si voglia, cose così non le hanno più fatte né immaginate, e non stupisce che l’urbanistica non sia sotto le luci della ribalta della politica locale. Figurarsi se sono in grado di fare autocritica sulle esperienze passate (esistono delle eccezioni, e De Lucia indica il solito Tocci)

Sul forte legame tra controllo della rendita, sviluppo urbano e movimenti De Lucia interviene a lungo: nel parlare del ruolo che le lotte per la casa hanno avuto nel ’68 sostiene che fu proprio il grande interesse dei sindacati e dei movimenti dei lavoratori di quegli anni che consentirono l’approvazione della legge per la casa del 1971. Dello stesso sostegno popolare non godette, al contrario, Sullo. Ovviamente, la sinistra dovrebbe essere consapevole che occuparsi di queste cose non è certo garanzia di successo: sull’assetto del territorio gli interessi si confondono e si mescolano, le alleanze e i blocchi sociali non si formano secondo linee scontate e spesso poveri e ricchi si trovano sullo stesso fronte. De Lucia cita un articolo del 1970 di Valentino Parlato che descrive il “blocco edilizio” e la sua variegata e contraddittoria composizione, ma le cronache più recenti parlano del grande consenso popolare prodotto dalle sanatorie edilizie (uno dei mali dell’urbanistica italiana). E’ una sinistra pensante e in grado di fare proposte, di parlare al popolo che c’è bisogno se si vuole affrontare l’emergenza urbanistica in cui vive il paese.

Il libro di De Lucia non è solamente un racconto o una denuncia. Nelle ultime pagine viene formulata, in grandi linee, una proposta sul “che fare” ora. L’idea è quella di tracciare un “invalicabile linea rossa che segna il confine fra lo spazio edificato e quello rurale e aperto. Una linea che rappresenta nuove e invalicabili mura urbane”. Non sarebbe un’utopia e lo “stop al consumo di suolo non significa sviluppo zero”. Nel nuovo ambito resterebbero da soddisfare, infatti, enormi bisogni, sia nuovi che pregressi. Insomma, la prospettiva proposta non è certo da annoverare tra quelle oscurantiste o decliniste. Ma, certo, quella che si propone è una visione dello sviluppo rispettosa del territorio, del paesaggio e dei significati culturali e umani che rappresenta. Non è dissipativa. E comunque, la dissipazione vera, lo abbiamo visto tutti in questi anni di crisi economica, è venuta proprio dallo sfruttamento insensato del “mattone” e dalla nefasta finanziarizzazione di questo mercato, che ha spiazzato gli investimenti produttivi a favore della rendita. La linea rossa è un limite, volutamente invalicabile. Sembrerebbe, però, rappresentare una di quelle proibizioni sane, quelle che servono per incanalare le energie in modo positivo, un po’ come nel caso dei bambini, a cui bisogna pur dire dei No per aiutarli a crescere.

«Non tutto è perduto, ricorda De Lucia, ma occorre svellere alla radice la cultura giuridica che ha prevalso sin qui: quella che fa l'uomo proprietario il protagonista del vivere sociale e del territorio una merce qualunque». Il manifesto, 2 maggio 2013
Una paradossale anomalia segna i caratteri della cultura italiana in età contemporanea, in massimo grado nella seconda metà del Novecento: la debole presenza e influenza, la nulla “popolarità” della cultura urbanistica presso l'opinione pubblica nazionale, oltre che presso gran parte dei gruppi intellettuali. Paradossale perché l'Italia è terra di città come nessun altro Paese al mondo, non solo in virtù della loro disseminazione fisica nel territorio, ma anche per la loro rilevanza politica, il ruolo svolto per secoli nella complessiva storia nazionale. In un paese cosi fatto, la cultura urbanistica avrebbe dovuto costituire un carattere originario e dominante, e dunque ispirare con speciale saggezza il governo dell'esplosione demografica del '900, l'occupazione massiva degli spazi sotto la spinta dello sviluppo industriale.

Questo sarebbe stato necessario e provvidenziale: perché far sviluppare secondo un disegno ordinato e previdente le città, vale a dire i luoghi prevalenti della vita associata, avrebbe significato un vantaggio senza pari per lo svolgimento delle economie e dei traffici e una più sicura felicità pubblica. Dalle regole e dagli istituti destinati a indirizzare l'espansione urbana sarebbe dipesa gran parte di quella che oggi chiamiamo qualità della vita. Aveva intravisto tale ruolo della “cultura istituzionale” Carlo Cattaneo, il primo a segnalare il carattere eminentemente urbano della nostra civiltà: « Poiché la cultura e felicità dei popoli non dipendono tanto dalli spettacolosi mutamenti della superficie politica, quanto dall'azione perenne di certi principi, che si trasmettono inosservati in un ordine inferiore d'instituzioni» (1847)

Un decisivo “ordine inferiore d'instituzioni ” è la legislazione urbanistica, la regolamentazione dell'uso dei suoli per lo sviluppo dell' edificato e per la strutturazione del territorio. E la sua debolezza o la sua assenza hanno deciso non poco della « felicità» del popolo italiano nell'ultimo mezzo secolo. Ritorna su questi temi Vezio de Lucia, assessore all'Urbanistica del comune di Napoli nella prima giunta Bassolino, ed uno dei pochi “annalisti” delle vicende urbane d'Italia del secondo '900. A lui si deve un piccolo classico della materia Se questa è una città ( 1989 e 2006) e varie altre pagine di storia urbana, oggi riaggiornate, per così dire, in un più ampio affresco che dai primi anni '60 giunge fino ai giorni nostri. In Nella città dolente ( Castelvecchi , Roma 2013, pp. 215, euro 19)De Lucia avvia la ricostruzione tormentata della nostra legislazione e degli effetti di essa sulla carne viva del territorio e della società italiana, partendo dalla più grave sconfitta subita in tale ambito dalla collettività nazionale: la sconfessione della Legge Sullo da parte del suo partito, la Democrazia Cristiana. « Il 13 aprile del 1963 è una data fondamentale nella storia del nostro Paese.», giorno in cui un comunicato della DC su Il Popolo sconfessò il ministro democristiano. Veniva così demolito un disegno ambizioso e radicale promosso dal ministro dei Lavori Pubblici, Fiorentino Sullo – dietro cui c'erano non solo valenti urbanisti e ingegneri, ma anche istituzioni culturalmente assai forti come l'Istituto Nazionale di Urbanistica (INU, presieduto da Adriano Olivetti dal 1948 fino al 1960) Italia Nostra e vari gruppi politico-intellettuali. In che cosa consisteva essenzialmente il progetto di riforma urbanistica proposto da Sullo nel 1962? Esso prevedeva l'esproprio delle aree ritenute edificabili dai piani regolatori con un indennizzo corrispondente al valore agricolo dei terreni aumentato a seconda delle destinazioni. I Comuni, acquisite le aree, dovevano provvedere alla opere di infrastrutturazione primaria e cedere, per mezzo di asta pubblica, il “diritto di superficie” sui suoli destinati a edilizia residenziale che restavano di proprietà comunale. Tale dispositivo avrebbe messo a disposizione di una popolazione in grande crescita case a buon mercato, limitato il potere della rendita, dunque distribuito più equamente la ricchezza nazionale e lasciato in mano ai comuni il controllo del proprio territorio. La sconfitta di Sullo, ricorda De Lucia, « scatenò un assalto al territorio mai visto prima. In cinquant'anni sono stati sfigurati cinquemila anni di civiltà insediativa. Il Bel Paese non c'è più, ne restano sparsi brandelli».

Ovviamente, la storia successiva al 1963 non è semplicemente un deserto di rovine. De Lucia mette in luce e ricostruisce - intrecciando sempre le vicende urbanistiche con la più generale storia politica del Paese - una più complessa vicenda nella quale non mancano le pagine positive e perfino luminose, sia sul piano legislativo che delle realizzazioni. Si va dalla Legge 167, voluta dallo stesso Sullo, che favoriva l'edilizia popolare, alla legge Bucalossi del 1977, dalla salvezza dell'Appia antica, per iniziativa dell'allora ministro del Lavori Pubblici Giacomo Mancini(1965) alla Carta di Gubbio del 1960, il documento che segna la nascita di una specifica creazione della cultura urbanistica italiana: la tutela e il recupero dei centri storici. Non senza dar conto di una pagina politica che ha fatto scuola nel mondo: il recupero del centro storico di Bologna, ai primi anni '70, ad opera dell'allora assessore all'Edilizia Pierluigi Cervellati. Una vicenda che De Lucia ricostruisce anche nei contrasti allora esplosi tra quell'intrepido assessore e altri valenti urbanisti e i vertici nazionali del PCI. Nei decenni che vanno dal dopoguerra ai primi anni '80 la storia delle città italiane, che pure conoscono inaudite forme di saccheggio ( è il caso soprattutto di Palermo, Napoli e Roma) è una vicenda non solo di ombre ma anche di conquiste a favore dell'interesse generale e della tutela del patrimonio urbano e del territorio. E tuttavia tali conquiste sono state possibili grazie a lotte sempre aspre e difficili, messe costantemente in forse da una dominante interpretazione privatistica del nostro diritto costituzionale. Nel 1968 la Corte Costituzionale dichiarò illegittime le disposizioni previste dalla Legge urbanistica del 1942, che imponevano ai privati vincoli di destinazione a verde e a infrastrutture pubbliche sui loro suoli. Nel 1980, la stesa Corte, con una sentenza che ha lasciato l'Italia senza una legge urbanistica generale, ha dichiarato illegittimo l'indennizzo , a prezzo di suolo agricolo, dei terreni espropriati previsto dalla Legge Bucalossi, e ha dichiarato lo jus aedificandi inerente al diritto di proprietà, aprendo così il varco a un uso privato del suolo di cui continuiamo a subire le conseguenze. L' “urbanistica contrattata” - vale a dire l'applicazione dell' ideologia neoliberistica alla gestione del territorio - che si avvia negli anni '80 sarebbe inconcepibile senza questa supremazia del diritto privato. E qui possiamo vedere quanto l' ”ordine inferiore d'instituzioni” di cui parla Cattaneo abbia pesato sulla storia italiana del secondo Novecento. Un diritto che ha bandito alla radice l'idea del territorio, della città, della salubrità e della salute quali beni comuni, ha condotto all'inferno presente. La libertà predatoria di ognuno determina l'infelicità urbana di tutti. Ovviamente, non tutto è perduto, ricorda De Lucia, ma occorre svellere alla radice la cultura giuridica che ha prevalso sin qui: quella che fa l'uomo proprietario il protagonista del vivere sociale e del territorio una merce qualunque.

«“Nella città dolente” è un contributo avvincente ed autorevole, un gesto concreto per restituire al paese una capacità di governo, per una nuova urbanistica, che per De Lucia continua ad essere la prosecuzione della politica con altri mezzi». La Repubblica, ed. Napoli, 24aprile 2013
Prosegue con l’ultimo libro di Vezio De Lucia “Nella città dolente”, uscito per le edizioni Castelvecchi, il racconto del paese e dell’Italia repubblicana iniziato con Se questa e una città. La storia si arricchisce di nuovi capitoli e spunti di riflessione, e trova ora una sua compiutezza, non foss’altro per il fatto che l’eclissi del governo del territorio in Italia ha conosciuto nel 2008, con il “Piano casa” e lo scempio de l’Aquila, il suo esito per così dire ultimativo. Questo rende possibile un bilancio di un’intera fase storica – il trentennio lungo del liberismo e della deregulation - ed obbliga anche l’autore, con Brecht (“sulla mia tomba vorrei fosse scritto: “Fece delle proposte”), ad avanzare le sue idee per il rilancio su nuove basi della pianificazione pubblica della città e dei paesaggi di questo martoriato paese.

Il libro inizia onorando la memoria di uno strano “democristiano giacobino”, Fiorentino Sullo, ministro ai lavori pubblici nei primi anni ’60, e del suo tentativo fallito di dare al paese una legge sul regime giuridico dei suoli, che allineasse l’Italia alle migliori esperienze europee, recidendo il nesso perverso tra trasformazione urbana e rendita fondiaria. L’insurrezione dei conservatori, dai fascisti ai liberali, che strumentalmente accusarono Sullo di “voler abolire la proprietà edilizia privata e togliere la casa agli italiani”, costrinse la DC a disconoscere il disegno di legge, con il politico irpino che scontò una spietata damnatio memoriae, mentre il generale De Lorenzo addirittura architettava il suo tentativo di colpo di stato.

Da allora, il libro racconta la lunga rincorsa a quella riforma mancata, che i governi successivi affrontarono mai più in chiave complessiva, strategica. Il paese rimase privo di una legislazione organica di attuazione dei principi costituzionali di regolazione della proprietà fondiaria, per assicurarne la funzione sociale, come avviene nelle democrazie liberali europee, nei paesi normali insomma. Nel frattempo, l’assegnazione progressiva ai poteri locali della materia urbanistica, generava a scala nazionale un mosaico differenziato di esperienze ed esiti, con il Mezzogiorno a fare da desolata retroguardia, tra abusivismo e usi criminali del territorio.

De Lucia racconta tutte queste cose, in un libro che si legge come un romanzo, e che deve l’acqua della vita alle competenze e al rigore dell’autore, ma anche al suo ruolo di testimone, spesso di protagonista dei fatti raccontati, in una narrazione sospesa tra storia civile, cronaca e vita vissuta. Non sottraendosi nemmeno ad un giudizio sugli avvenimenti più recenti, quali ad esempio i nuovi governi comunali di Milano e Napoli, che per De Lucia rischiano di rappresentare un’occasione persa, per l’incapacità (o la mancata volontà) di porre l’urbanistica al centro dell’azione riformatrice, ripiegando invece su atteggiamenti inerziali, tattici.

Il finale del volume è dedicato alle proposte. Se vogliamo salvare quel che rimane della straordinaria eredità del paesaggio italiano, è urgente per De Lucia mettere mano a una legislazione sul consumo dei suoli. Nel far west attuale, infatti, l’Italia continua a consumare 35.000 ettari di suolo fertile ogni anno – l’equivalente di quattro nuove città come Napoli – per i tre quarti concentrati nelle poche pianure pregiate del paese. La soluzione sta nell’assegnare al territorio rurale residuo la stessa importanza che in Italia, a partire dagli anni ’60, è stata attribuita ai centri storici, riservando le nuove edificazioni alle aree già urbanizzate, degradate, dismesse, legando così indissolubilmente rinnovamento urbano e riqualificazione. E’ una strada praticabile, come dimostra il piano territoriale della provincia di Caserta, approvato nel 2012, del quale De Lucia è stato coordinatore.

E’ una questione di sopravvivenza, perché la democrazia italiana resterà perennemente incompiuta, senza un territorio in ordine. “Nella città dolente” è un contributo avvincente ed autorevole, un gesto concreto per restituire al paese una capacità di governo, per una nuova urbanistica, che per De Lucia continua ad essere la prosecuzione della politica con altri mezzi.

Un libro su una fase della nostra storia recente (gli anni della "urbanistica contrattata") sulla quale occorre ancora riflettere e discutere, anche perché è lungi dall'essere superata. Il manifesto, 24 aprile 2013
Il recente libro di Roberto Della Seta e Edoardo Zanchini, La sinistra e la città (Donzelli editore, euro 16), nonostante l'analisi impietosa sull'oblio del tema urbano nell'agenda politica della sinistra, lancia un grande segnale di speranza. I due autori sono molto competenti. Entrambi dirigenti di Legambiente, hanno vissuto in prima persona le vertenze urbane e territoriali che hanno caratterizzato la recente storia italiana. Da sempre critici nei riguardi dell'urbanistica «contrattata» che ha dominato la scena italiana - Della Seta ad esempio ha pagato con la mancata ricandidatura nelle liste del Pd le sue posizioni sulla vicenda dell'Ilva di Taranto e sulla legge sugli stadi di calcio -, i due autori non hanno però mai fatto parte del gruppo degli urbanisti «radicali» riunito nel sito di Edoardo Salzano (www.eddyburg.it) che ha contrastato in questi anni la demolizione dell'urbanistica.

Con grande onestà intellettuale il libro descrive il disastro che la cultura privatistica ha prodotto nelle nostre città: «La prima domanda da porsi, dopo venti anni di radicale deregulation in campo edilizio e urbanistico... è se questa opera di smantellamento di regole, vincoli, controlli abbia dato i frutti promessi. Ha reso le città più funzionali, più vivibili? .... La risposta è ... no».
Un'altra parte preziosa del libro interroga sulle strade da prendere per ricostruire il governo pubblico delle città. Dopo aver ricordato i meriti della cultura degli anni Sessanta e Settanta, quando si è saputo coniugare la critica dell'esistente con la costruzione dell'impianto legislativo per il buon governo delle città, Della Seta e Zanchini individuano le radici dell'involuzione culturale della sinistra nel rifiuto della città come bene comune. E ci ricordano che mentre altre importanti città europee hanno continuato pur nella fase economica neoliberista a praticare un approccio connotato da «un marcato interventismo del decisore pubblico in tutte le grandi scelte progettuali», da noi si è cancellata l'urbanistica.
La capitale d'Italia guidata dalla sinistra, ad esempio, è riuscita a inventare di sana pianta il mostro giuridico dei «diritti edificatori», inesistenti sotto il profilo disciplinare - come hanno sancito fondamentali sentenze della Cassazione -, ma che hanno spianato la strada al trionfo della proprietà fondiaria. E dalla città capitale, simbolo e guida per tutte le amministrazioni italiane, il morbo ha infettato l'Italia.
Gli autori si concentrano infine sui modi per rilanciare una nuova fase di vita delle nostre città. In primo luogo con un respiro culturalmente adeguato: «L'urbanistica italiana deve ritrovare il senso perduto della sua missione civile, recuperando il meglio, che è tanto, della sua storia anche recente e al tempo stesso evolvendo insieme ai problemi delle città». E poi con alcune «ricette». Ne sottolineo tre.
Le città come grandi cantieri di riqualificazione energetica ed ambientale, e cioè la cultura delle opere diffuse contrapposta alle grandi opere inutili. Una politica pubblica per dotare le città di reti efficienti e non inquinanti di trasporto, così da colmare il ritardo che ci separa dalle città d'Europa. Infine, una sistematica opera di messa in sicurezza del territorio. Un libro importante, dunque, perché su quegli obiettivi si dovrà cimentare una nuova cultura delle città ora che l'urbanistica contrattata ha svelato il suo irrimediabile fallimento.

Un percorso di letture tra gli spazi del consumo e le mutazioni delle città, sul versante della percezione e dell'immaginario collettivo. Libri di Valeria Giordano, Stevan Miles, Sabrina Pomodoro, Luca Massidda. Il manifesto, 19 aprile 2013 (f.b.)

Gli spazi delle città hanno sempre avuto un rapporto particolarmente intenso con il mondo dei consumi. Un rapporto che può addirittura essere considerato indispensabile, dal momento che lo sviluppo della vita urbana è stato possibile soltanto grazie al suo intreccio con l'attività commerciale. In un'epoca nella quale i luoghi del consumo hanno invaso ogni spazio quotidiano degli individui, è possibile chiedersi se la loro presenza non sia diventata eccessiva. Se non sia talmente intensa da rendere sempre più difficoltosa quella vita urbana e sociale che, in passato, contribuiva ad alimentare. Il tema è rilevante e ha dato vita ad analisi e approfondimenti, raccolti in alcuni volumi usciti negli ultimi tempi, in Italia e all'estero.

Valeria Giordano è una studiosa impegnata da diversi anni a cercare di mettere in luce i molteplici linguaggi che si intrecciano all'interno delle metropoli. Nel suo recente volume Immagini e figure della metropoli (Mimesis, pp. 152, euro 14) ha rielaborato un testo - La metropoli e oltre - che aveva dato alle stampe nel 2005, ma era rapidamente scomparso dal mercato, a causa della chiusura della casa editrice. Appoggiandosi a numerosi riferimenti letterari e filosofici, Giordano tenta di esplorare la straordinaria capacità della vita metropolitana di creare un immaginario che si caratterizzi per la sua duplicità, natura ibrida e per certi versi «mostruosa», capace di tenere insieme numerosi contrari: l'innovazione e la conservazione, il transitorio e l'immobile, il nuovo e l'antico. Lo fa principalmente analizzando figure emblematiche della condizione metropolitana, che comprendono il celebre flâneur individuato da Baudelaire e Benjamin, ma anche decisamente più contemporanee come lo straniero, lo spettatore, il consumatore o il cyborg.
Il trauma dei sensi

Nel libro, si parte dalla consapevolezza che metropoli e cultura moderna abbiano un rapporto molto profondo. Anzi, la seconda non può essere compresa appieno se non all'interno della stretta relazione che intrattiene con la metropoli stessa e che si sviluppa a partire dalla comune capacità di attivare tutti i sensi del corpo umano. Solo lo choc, infatti, con la sua carica innovativa e traumatica, è in grado di sconvolgere le aspettative individuali, interrompendo la linearità del tempo. Brucia però, altrettanto velocemente, nella consapevolezza che verrà presto sostituito da un altro choc.

Secondo Giordano, lo choc rappresenta un'esperienza fondamentale della condizione metropolitana e si manifesta in maniera esemplare attraverso le forme assunte all'interno degli spazi del consumo. È in tali spazi che si offre la soddisfazione istantanea, cioè destinata a rinnovarsi continuamente e a dar vita ai ritmi sempre più accelerati delle merci e dei loro messaggi. È qui, inoltre, che si intensifica quella contaminazione tra corpi umani e oggetti che, come era stato evidenziato da Benjamin, aveva già cominciato a svilupparsi nei primi spazi di consumo della modernità: i passages parigini dell'Ottocento.

Il processo d'intensificazione della contaminazione tra corpi e oggetti si è evoluto in conseguenza di una radicale trasformazione del modello capitalistico. Quello industriale, infatti, ha avuto per lungo tempo la necessità che gli spazi urbani rifornissero di manodopera le sue fabbriche. Grandi masse di individui dovevano vivere in prossimità dei suoi luoghi di produzione, posizionati solitamente all'interno delle grandi città. Ma il capitalismo ha anche richiesto che gli spazi urbani operassero come una domanda in grado di assorbire le sue eccedenze produttive. Non è un caso, pertanto, che luoghi del consumo di massa come i grandi magazzini abbiano dovuto strutturarsi e svilupparsi in diretta relazione con le fabbriche.

Il passaggio negli ultimi decenni a un nuovo modello di capitalismo - delocalizzato, globale e basato sui flussi e sulle reti - ha interrotto questo rapporto di profonda simbiosi tra fabbriche e città. La produzione si è spostata altrove e si è resa progressivamente autonoma dai luoghi tipicamente metropolitani, lasciando piena libertà alla moltiplicazione degli spazi del consumo. D'altronde, ciò che conta nel capitalismo contemporaneo è che merci, persone e informazioni possano circolare senza interruzioni: opera sempre meno in funzione della produzione e adotta in misura crescente il meccanismo del mondo dei consumi. Una logica che si caratterizza proprio per la sua elevata instabilità e un incessante movimento.

Offerta e domanda

È avvenuto, quindi, quello che ha affermato Steven Miles nel volume Spaces for consumption. Pleasure and placelessness in the post-industrial city (Sage, pp. 209, euro 28,66). Secondo lo studioso inglese, addirittura, «l'esperienza individuale della città è filtrata dai processi implicati dalle attività di consumo». Nelle contemporanee città guidate dal consumo, le persone - sebbene abbiano comunque la libertà d'interpretare e utilizzare le opportunità che vengono loro offerte - sono fondamentalmente influenzate dalle esperienze di shopping che possono vivere. Ciò appare evidente nei numerosi casi che Miles ha analizzato in maniera dettagliata: città come Glasgow, Shangai o Los Angeles, ma anche luoghi particolari come gli aeroporti, le Olimpiadi o i parchi a tema della Disney.
La cultura del consumo, dunque, esercita una notevole influenza sullo sviluppo delle città occidentali e sulla costruzione di una identità. Oggi, per sentirsi dei cittadini a pieno titolo è necessario prima di tutto essere in grado di agire in quanto consumatori. Nel 2012, di fronte allo stadio delle Olimpiadi di Londra, è stato costruito il gigantesco Westfield London, il più grande centro commerciale d'Europa (con 265 negozi, 50 ristoranti, un centro benessere, un cinema dotato di 16 sale e una superficie commerciale di 150mila metri quadrati). Entrambi sono stati realizzati distruggendo brutalmente gli edifici e l'identità dell'East End, da sempre considerata la zona popolare e operaia della metropoli inglese.

Il capitalismo contemporaneo si basa su quella mobilità e transitorietà che sono tipiche della cultura del consumo, caratteristiche divenute fondative e centrali anche nelle città odierne. La struttura urbana si è necessariamente dovuta adeguare al funzionamento del modello di consumo.
Sabrina Pomodoro, nel volume Spazi del consumo. Shopping center, aeroporti, stazioni, temporarystore e altri luoghi transitori della vita contemporanea (Franco Angeli, pp. 204, euro 25), ha sostenuto ciò che appare oggi evidente: la città ha visto «sfaldarsi» progressivamente i suoi confini, gli stessi che in passato distinguevano nettamente il centro dalla periferia e la parte urbanizzata dalla campagna. Il consumo è stato il suo più potente motore di cambiamento, producendo un progressivo indebolimento degli spazi pubblici tradizionali, a tutto vantaggio di quelli nuovi e privati del consumo. Spazi che naturalmente hanno assunto anch'essi una natura dinamica e precaria.
Come quelli che oggi vanno sempre più moltiplicandosi e che Pomodoro ha definito con diverse etichette: «spazi del transito» (aeroporti e stazioni), «in transito» (temporary store, guerrilla restaurant, librerie «nomadi») oppure «di passaggio» (fast food, chioschi, distributori automatici, minimarket di prossimità). L'autrice ha sottolineato però la paradossalità del ruolo svolto da questi nuovi luoghi del consumo. A suo avviso, oltre a essere adibiti al transito, operano anche come luoghi di sosta e sviluppo delle relazioni sociali. Anzi, il loro successo dipende proprio dalla capacità di svolgere questa funzione. Sebbene quella a cui danno vita sia comunque una socialità effimera e ben diversa dall'agorà tradizionale che finisce per assumere forme «più flebili, flessibili, ma non per questo insignificanti».

Tra i luoghi transitori del consumo potrebbero essere annoverate anche le esposizioni universali, se non fosse che si tratta di un'invenzione che ha avuto successo soprattutto nell'Ottocento. Nel corso del Novecento, sono state organizzate altre esposizioni, ma nessuna è stata in grado di rappresentare un potente polo di attrazione, al pari di quelle realizzate nel secolo precedente.

Il Millennium Dome

Nell'epoca d'oro delle esposizioni vennero progressivamente messe a punto quelle tecnologie comunicative (stampa popolare, fotografia, cinema, radio, ecc.) che hanno consentito agli individui di conoscere le novità offerte dal mondo dell'industria, senza doversi sobbarcare i costosi e faticosi viaggi. Pertanto, il ruolo di medium di comunicazione del mondo del consumo svolto dalle esposizioni universali è diventato improvvisamente superfluo: quelle manifestazioni hanno continuato a essere organizzate, ma nessuna è più stata in grado di ottenere lo stesso impatto delle sue progenitrici ottocentesche.

La grande potenza simbolica posseduta da un evento come la conclusione del secondo millennio ha reso però possibile creare un'altra esposizione significativa: quella allestita a Londra dentro il Millennium Dome. Un'enorme cupola che presentava 16 spettacolari attrazioni tematiche ed era talmente grande che poteva contenere al suo interno ben due volte lo stadio di Wembley. Dunque, Londra, un secolo e mezzo dopo la prima grande manifestazione del 1851, ha cercato di rinverdire i fasti dell'epoca d'oro delle esposizioni universali e lo ha fatto ancora una volta con un edificio altamente spettacolare, come era stato il Crystal Palace. Il Millennium Dome però durante il suo anno di apertura ha avuto 6,5 milioni di visitatori anziché i 12 previsti e ha costretto il governo britannico a rifinanziarlo più volte.

Nel suo volume Atlante delle grandi esposizioni universali. Storia e geografia del medium espositivo (Franco Angeli, pp. 188, euro 23), Luca Massidda ha messo in luce come negli ultimissimi anni le esposizioni siano ritornate d'attualità, in conseguenza del presentarsi di una situazione sociale paragonabile a quella attraversata dalle società occidentali della fine dell'Ottocento. Una situazione estremamente dinamica, caotica e disorientante per gli individui, alla quale l'esposizione promette di opporsi attraverso la sua struttura ordinata e il potente messaggio che è in grado di proporre. Favorita in ciò anche dalla ritrovata importanza degli spazi metropolitani. Vedremo dunque se, come ha affermato Massidda, le esposizioni universali potranno riacquistare la forte centralità sociale di cui godevano in precedenza. Soprattutto a partire da una sfida impegnativa come la prossima Expo Milano 2015.

Il nuovo libro di Bernardo Secchi, “La città dei ricchi e la città dei poveri”, affronta a modo suo il tema dell'urbanizzazione mondiale diventata «potente macchina di sospensione dei diritti dei singoli e di loro insiemi». La Repubblica, 14 aprile 2013 (f.b.)

Nel 2001 erano sedici milioni gli americani che vivevano in gated communities. Cioè in quartieri recintati, vigilati, dotati di sorveglianza video e strutturati al loro interno come un’enclave, fornita di regole di comportamento e di funzionamento. Il 5,9 per cento delle famiglie americane. Una specie di circolo canottieri, se non fossero pezzi di città. Questo accadeva, e accade, negli Stati uniti, ma non è difficile trovare gated communities in Europa e anche in Italia. Più o meno blindati e tecnologicamente attrezzati, da noi sono spesso avvolti in una nebulosa retorica ricca di parole-feticcio come sostenibilità oppure ecocompatibilità.

Sono questi alcuni esemplari forme della città per ricchi citate da Bernardo Secchi, fra gli urbanisti italiani più intellettualmente curiosi e sensibili agli apporti di altre discipline. Il suo nuovo libro (La città dei ricchi e la città dei poveri) si iscrive autorevolmente nelle riflessioni sulla disuguaglianza crescente e che nel mondo un po’ è causa della crisi economica, un po’ ne è aggravata. La disuguaglianza si misura con i redditi, con l’accesso al sapere e anche nello spazio, nel modo in cui si struttura la città. Compito degli urbanisti sarebbe quello, scrive Secchi, di analizzare la città sotto questo profilo e di immaginare quali interventi, di architettura oppure di pianificazione, possano — auspica l’autore — ridurre le disuguaglianze.

Aumentano invece le tensioni verso la separazione. È un processo di lunga durata, un trentennio che incrocia le pulsioni individualiste, le attitudini al far da sé, a costruire gusci impenetrabili. Le forme dell’abitare hanno incorporato e reso visibili questi atteggiamenti. In Italia è stata battezzata la “città diffusa” (dall’urbanista Francesco Indovina), la città che si espande disordinatamente nei terreni un tempo agricoli e che si sovrappone (in Veneto, per esempio) alla maglia della piccola proprietà fondiaria, trasformando casali in villette e stabilimenti. Ad Anversa i ricchi si sono anche loro trasferiti nella “città diffusa” della North Western Metropolitan Area, lasciando agli immigrati il centro, a sua volta diviso come un puzzle dalle diverse comunità etnico-religiose.

È un fenomeno diverso, avverte Secchi, dallo sprawl, la dispersione abitativa tipicamente americana. Anche se sono modelli d’oltreoceano che producono la crisi del modello abitativo tipicamente europeo — Movimento moderno e socialdemocrazia insieme — costruito proprio sul tentativo generoso e spesso illusorio di ridurre disuguaglianze e separazione: modello realizzato nelle città del nord, da Stoccolma ad Amsterdam, e appena abbozzato in Italia, dove di edilizia pubblica se n’è fatta poca e quasi subito la si è lasciata deperire, neanche fosse affetta da un maleficio. La città, scrive Secchi, è stata da sempre, dagli albori della civiltà urbana, ormai cinquemila anni fa, lo spazio dell’integrazione sociale e culturale. Dell’innovazione e dello scambio.

Negli ultimi decenni del ventesimo secolo questa dimensione è andata sfibrandosi. È sorta una nuova questione urbana, che la politica e la scienza urbanistica stentano a riconoscere. La città è diventata «potente macchina di sospensione dei diritti dei singoli e di loro insiemi». Una potente macchina che ha fatto appello in primo luogo all’ideologia del mercato, in grado di regolare — si supponeva — tutti i processi di formazione e di trasformazione della città — ma il mercato in questi frangenti si chiama speculazione edilizia. E, in secondo luogo, a una retorica, quella della sicurezza, per cui il tessuto urbano doveva perdere ogni carattere di permeabilità e di porosità. E doveva proteggere e segregare.

Ma quali sono i dispositivi, come li definisce Secchi, che rendono una città più o meno egualitaria? Uno spazio verde è luogo di socialità e di integrazione, ma, distorcendolo, può essere concepito persino come cuscinetto di sicurezza per una gated community. Potente fattore di integrazione è un sistema di trasporti che interpreti il concetto di accessibilità come vero diritto alla città. L’importante, segnala Secchi, è che l’urbanista quando disegna parti della città sia guidato dalla «continua osservazione del quotidiano» e vada a rileggersi le lezioni di Roland Barthes intitolate Comment vivre ensemble, come vivere insieme.

Riferimenti

Sull’argomento si vedano su eddyburg: l’articolo di P. Somma”La città,luogo delle espulsioni e delle segregazioni” e gli altri scritti della medesimaautrice, l’articolo “Dualismo urbano. La città della rendita e lacittà dei cittadini” di E. Salzano, i materiali delle edizioni, 2008 e 2009della Scuola di eddyburg e i suoi libri (in particolare “Alla “ricercadella città vivibile”, e “Spaziopubblico: declino, difesa, riconquista”, rispettivamente curati da I.Boniburini e F. Bottini.

A proposito del recente libro di Salvatore Settis, "Azione popolare. Cittadini per il bene comune"; un libro che rappresenta un punto di svolta, e una preziosa cerniera, tra la "cultura" e la "politica". Per ciò stesso, anche un manifesto elettorale. Il Fatto Quotidiano, 13 aprile 2013

Sembra un secolo fa, ma è passato solo un mese e mezzo. Prima che la plumbea autoreferenzialità del Pd e l'autismo del Movimento 5 stelle ci ributtassero nelle fauci del Caimano, c'è stato un momento in cui Dario Fo ha lanciato il nome di Salvatore Settis per la Presidenza della Repubblica, suscitando – nonostante il carattere utopico dell'idea – un grande entusiasmo nel popolo dei comitati civici. E quando Marco Travaglio ha provato a indicare la necessità di un governo civico, l'ha chiamato“un governo Settis o Zagrebelski” (Fatto, 30 marzo).

Come si spiega un simile apprezzamento politico per uno dei nostri massimi studiosi di storia dell'arte classica (e non solo), ex direttore della Normale di Pisa, e attuale presidente del consiglio scientifico del Louvre? La chiave è nell'ultimo libro di Settis, Azione popolare. Cittadini per il bene comune (Einaudi).

Il fatto è che Settis è uscito da tempo dalla proverbiale torre d'avorio degli studi. Da storico dell'arte si è accorto che quella torre era crollata, non solo metaforicamente. E la sua martellante campagna di educazione al patrimonio storico e artistico e al paesaggio lo ha condotto in mezzo ai cittadini, fornendogli un osservatorio che manca a moltissimi dei politici di professione che da settimane si aggirano come pugili suonati. Lo straordinario successo del suo libro precedente (Paesaggio, Costituzione, cemento, Einaudi 2010) aveva condotto Settis in centinaia di incontri con un'Italia profondamente diversa da quella che occupa gli schermi televisivi. Un'Italia fatta di cittadini indignati, ma consapevoli che l'indignazione non è sufficiente: pronti non solo a protestare, contestare, denunciare, ma a impegnarsi in prima persona, affamati di conoscenza e competenza sulle quali fondare il tentativo di cambiare il Paese. Cittadini che, con un paradosso solo apparente, vogliono più, e non meno, Stato: convinti, con Piero Calamandrei, che “lo Stato siamo noi”.

È in quei mesi che Settis si è convinto che questa ondata (finita poi in parte a votare per il Movimento 5 stelle, in mancanza di meglio) non fosse 'antipolitica', ma fosse anzi 'politica' nel senso più nobile: fosse, cioè, un grande movimento popolare teso a ricostruire la polis, la città, intesa come comunità civile. L'antipolitica, per Settis, è un'altra: “L’antipolitica si confonde con l’anti-Stato, crea uno spazio vuoto (vuoto di Stato, di Costituzione, di legalità) dove presto s’insedia il più furbo, sbandierando un vacuo efficientismo. Non è di qui che può nascere l’Italia che vorremmo”. E ancora: “Antipolitica” è il predominio di chi sovrasta e calpesta la sovranità popolare, predicando l’impersonale e soprannaturale supremazia dei mercati, e asservendo a essa non solo i governi nazionali e le istituzioni europee, ma anche ogni istanza di giustizia, di libertà, di eguaglianza. Sulla scala italiana, “antipolitica”, è l’inaderenza dei politici di mestiere ai problemi del Paese, il loro divorzio dai cittadini, la loro ottusa difesa dei propri privilegi. Chi protesta contro tanta violenza, anche se a volte in modo scapigliato e informe, ha più voglia di politica di molti che la fanno per mestiere (per esempio di Berlusconi, che si è nutrito di “antipolitica” per sedurre e conquistare il Paese). Associazioni e movimenti stanno reclamando più politica, cioè una più alta, forte e consapevole voce dei cittadini”.

In pagine come questa, Settis è riuscito a guardare all'Italia di oggi con gli occhi aperti di chi è abituato a fare ricerca storica senza pregiudizi: questo gli ha consentito di vedere oltre la barriera retorica di una classe dirigente (non solo politica) che correva verso il suicidio sancito dalle ultime elezioni. E vedere come dietro quella cortina fumogena non ci fossero barbari, ma cittadini stanchi di delegare.

Le cronache delle ultime settimane mostrano che i nuovi deputati e i nuovi senatori hanno bisogno soprattutto di punti di riferimento culturale. E il libro di Settis è uno straordinario strumento di formazione a disposizione dei “cittadini per il bene comune”: un libro che media verso l'opinione pubblica italiana le punte più avanzate del pensiero giuridico ed economico mondiale, e che mostra come un progetto di rinnovamento radicale del paese sia contenuto già tutto intero nella Costituzione più rivoluzionaria e più inapplicata d'Europa.

Già, perché ”Azione popolare è diritto e dovere di resistenza collettiva al degrado delle città e delle campagne, alla razzia del paesaggio, all’esilio della cultura e del lavoro, alla spoliazione dei diritti; è promuovere singole azioni di contrasto agli atti dei poteri pubblici che vadano contro il pubblico interesse, ma anche metterle in rete fra loro; è costruire una larga base d’informazione, di analisi, di consapevolezza. Vuol dire far esplodere le contraddizioni insanabili fra il dettato costituzionale e le leggi che lo ignorano e lo aggirano, tra le norme di garanzia e le deroghe e i condoni che le annientano. Vuol dire riconquistare, in prima persona, un pieno diritto di cittadinanza, in nome della moralità e della legalità costituzionale”.

Non era solo una “profezia” (il libro è uscito in novembre) di ciò che sarebbe successo alle elezioni: è anche un programma per una ricostruzione civile. Se non ora, quando?

Tentativi di trovare una sintesi tra spazio urbano e spazio rurale: gli orti urbani come risorsa ambientale e sociale per la città globale del terzo millennio in un documentario proiettato nelle sale italiane: God Save the Green. La Repubblica Milano, 13 aprile 2013 (f.b.)

Il verde urbano raccontato con un lungo viaggio attorno al mondo, da Nairobi al Brasile, da Casablanca a Berlino, alla scoperta di orti spuntati sui tetti di grattacieli o in slum di megalopoli del Sud del mondo, coltivati in sacchi di juta o in bottiglie di plastica riciclate. È God save the green, il documentario di Michele Mellara e Alessandro Rossi che, distribuito dalla Cineteca di Bologna (che l´ha pubblicato in cofanetto dvd e libro), arriva in anteprima milanese lunedì sera al cinema Mexico, presenti i registi (e dal 19 al 23 aprile sarà in tenitura al cinema Beltrade).

Punto di partenza, un dato di cui poco si parla, ma dalla portata enorme: nel 2007, per la prima volta nella storia, la maggior parte della popolazione mondiale non vive più nelle campagne, ma in città. «Eppure - dice Michele Mellara - in chi vive in città rimane un bisogno prepotente di immergere le mani nella terra, scardinando ritmi e obblighi del vivere urbano». Un gesto primordiale che diventa atto rivoluzionario. Con modalità e fini diversissimi: «Per necessità di sussistenza nelle periferie degradate del Sud del mondo, come gesto artistico e provocatorio nel guerrilla gardening, tra i palazzi delle nostre città».

Un paesaggio antropologico variegato che gli autori declinano nel film - prodotto dall´indipendente Mammut Film con sostegno partecipato "dal basso" - in un mosaico di sette storie raccolte nel Nord e nel Sud del mondo, alternate a momenti di riflessione, con i versi della Terra desolata di Eliot e gli appunti ironici del praghese Karel Capek (da L´anno del giardiniere), letti dalla voce di Angela Baraldi sulle note della chitarra di Massimo Zamboni, ex Cccp.

Il viaggio si spinge in uno slum di Nairobi, dove «nel groviglio di lamiere delle baracche - racconta Mellara - non c´è spazio per coltivare, tanto più che il terreno è contaminato». Qui, Morris e la sua famiglia si sono inventati un metodo ingegnoso: hanno riempito sacchi di terra vergine della foresta appena fuori città, e nei fori nella tela grezza piantano il sukuma wiki, lo spinacio locale che sfama loro e che vendono ai vicini, racimolando pure qualche soldo.

Ancora più lontano, nella periferia di Teresina, nel poverissimo Nord Est del Brasile, un gruppo di donne ha vinto la miseria con la coltivazione idroponica, termine oscuro per una pratica semplice: piantano ortaggi in bottiglie di plastica riciclata, risparmiando acqua e spazio. In Marocco, il film va alla ricerca dell´ultimo orto rimasto a Casablanca, centro della vita della famiglia di Abdellah e della sua comunità. Ma l´orto è il centro della comunità anche per i turchi di Kreuzberg, a Berlino, mentre tutt´altro sapore, sempre a Berlino, hanno le azioni di guerrilla gardening di due giovani creativi che piantano fiori nelle rotonde, decisi a scalfire il sistema con la bellezza. Perché il verde è anche riappropriazione, e resistenza.


La domanda è sempre la stessa: di che parliamo quando diciamo “città”, o "urbanizzazione"? Dalla recensione non sembra che il nuovo libro di Glaeser sul “trionfo delle città” aiuti a comprenderlo. La Repubblica, 10 aprile 2013

Esce il saggio di Edward Glaeser sul trionfo dell’urbanesimo. In questo libro «osserveremo da vicino ciò che rende le città l’invenzione più grande della nostra specie», si legge nelle prime pagine del libro di Edward Glaeser dal titolo inequivocabile Il trionfo delle città. Come la nostra più grande invenzione ci rende più ricchi e felici (Bompiani, pagg. 586, euro 23, trad. Giuseppe Bernardi). Il professore di economia ad Harvard guarda la città da un angolo insolito, ché l’urbanesimo da sempre è terreno privilegiato da storici e sociologi: l’autore conosce bene la letteratura anglo-americana, in bibliografia trovo isolato Pirenne, non Cattaneo, né Engels e potrei continuare su clamorose assenze.

La demografia è un filo rosso perché attraverso essa si legge in modo lampante come quella della città sia stata un’ascesa irresistibile: Glaeser si muove nelle metropoli occidentali e, con pari destrezza, tra le sconfinate metropoli asiatiche e sudamericane. Si capisce dai nove capitoli che non ha problemi agorafobici e più sono grandi le città — l’area di Tokyo conta 36 milioni di anime, Mumbai e Shanghai 12 — più gli piacciono. Il suo entusiasmo tocca l’acme quando beve una birra sulla spiaggia di Ipanema a Rio, uno degli spazi più “edonistici” che ci siano al mondo, ma non gli sfuggono le favelas che l’assediano. Platone d’altronde scriveva che qualunque città è divisa in due: la città dei poveri e quella dei ricchi. Nulla di nuovo sotto il cielo: tanti uomini senza alcuna speranza si accalcano in città fin dal tempo della rivoluzione industriale che Engels studiò così bene a Manchester. Per sfuggire all’idiotismo delle campagne scrisse Marx, dove la vita era più ingrata che non nella sordida Londra di Dickens o nella fetida Parigi distrutta dal barone Haussmann. Ma quando si mostra orrore per le favelas ce ne dimentichiamo, dice Glaeser. In Ancien Régime
le capitali europee erano devastate da epidemie che periodicamente falcidiavano le popolazioni. Oggi le condizioni igieniche e sanitarie sono migliori anche a Mumbai e le possibilità di sopravvivenza negli slum di Detroit sono preferibili a devastate campagne. Va da sé che l’attenzione sugli States è dominante, e nelle analisi sulla caduta e la rinascita di New York negli ultimi decenni l’economista dà il meglio. Un economista che ha spiccata sensibilità per l’organizzazione urbanistica, il sistema dei trasporti, il governo della città: una propensione che fa difetto ai suoi colleghi che assai spesso muovono le loro analisi o previsioni, come se il dollaro o lo yen fossero fiches su un tavolo verde. Così non è, e Glaeser l’ha capito benissimo, ché le città sono fatte di fiumi, coste, montagne e la geografia si riprende una rivincita sulle vicende della storia e dell’econometria.

Le sette piaghe dell’urbanesimo contemporaneo sono al centro del volume: le alte densità creano problemi enormi alla salute dei poveri e le soluzioni fanno capo a una governance energica e ciò ha richiesto enormi investimenti; com’è accaduto a New York e, più di recente, a Shanghai che è una «città pulita e sicura». Già, è questo un altro problema che tanti saggi hanno studiato, ma soprattutto tanti film ci hanno mostrato con crudele evidenza. I problemi della povertà e della delinquenza — un groviglio che è difficile sciogliere — non possono essere affrontati dalla “signora della porta accanto”, che ha la sventura di abitare vicina a un ghetto di immigrati, va affrontato non in sede locale, ma dal governo centrale. Aspetto politico ed economico nelle competenze specifiche dell’autore: in Italia siamo ben lungi dall’averlo capito. Ancora: «Gli interventi estetici non possono mai sostituire gli elementi fondamentali della realtà urbana », scrive Glaeser: vien di pensare al Metrò dell’Arte, specchietto per le allodole a spese del contribuente, in una (piccola) città come Napoli che ha tutte le piaghe dell’urbanesimo contemporaneo.

La fortuna di Shanghai e di Hong Kong non è dovuta alla selva di grattacieli pagati dai privati, ma dalla libertà economica di cui hanno goduto e dalla capacità di far prosperare i loro Pil: i grattacieli delle archistar sono venuti dopo, a decollo economico avviato. Dubai, che non ebbe mai l’opportunità di divenire città imperiale, deve la sua prosperità al porto che è divenuto un centro di scambio d’oro nero proprio o proveniente da altri paesi, come l’Arabia Saudita. Mi vien di pensare che Palermo — alla lettera “città tutta porto” — è al centro del Mediterraneo con un porto ridotto alla sopravvivenza, come quelli di Genova e Napoli. India e Cina sono destinate a divenire un concentrato di conurbazioni, anche se i tempi potranno essere più o meno rapidi. È una facile previsione che ogni indagine, compresa quella dell’autore, largamente confermano.

La denuncia di Tomaso Montanari: i tesori artistici ridotti a solo sfruttamento commerciale. "A rischio è la cittadinanza stessa" . L'Autore: «il patrimonio (come la scuola) non può essere asservito al mercato, e la tutela deve essere funzionale alla ricerca, la conoscenza è il più importante strumento per costruire la democrazia». La Repubblica, 29 marzo 2013

Il mercato trasforma il nostro patrimonio artistico in uno strumento di lucro e la sua tutela viene messa a rischio. E non solo: la conoscenza, il primo strumento di crescita di ogni democrazia, viene umiliata e ignorata. Così, il diritto a godere dell'arte e della storia , anziché un bene comune garantito dalla Costituzione, diventa un bene di mercato, trasformando i nostri centri storici in un grande "luna park a pagamento". E' il senso della denuncia lanciata dallo storico dell'arte, Tomaso Montanari, nel suo ultimo libro Le pietre e il popolo, il cui sottotitolo si fa slogan d'impegno: restituire ai cittadini l'arte e la storia delle città italiane(Minimum fax).

Perché viene negato il valore civico dei monumenti a favore del loro potenziale turistico? E perché avidi usufruttuari mettono a reddito il patrimonio per produrre denaro? Tomaso Montanari, già autore di altri graffianti pamphlet (tra questi, La madre di Caravaggio è sempre incinta, Skira) parte dall'analisi del presente e risponde attraverso un viaggio "critico" nel nostro paese che tocca Siena, Venezia, Roma, Firenze, Napoli L'Aquila e altre città . E che racconta come, ovunque, vengano messi in atto esempi di quella "nuova "politica" che, di fatto, nega il valore civico dei monumenti a favore della loro rendita economica, a prova che non si vogliono "cittadini partecipi, ma consumatori passivi." Dalla fantasia inquinante che immagina, a Roma, piste di sci al Circo Massimo, a Firenze con gli Uffizi resi scenario per le sfilate di moda. Fino all'Aquila, dove nel centro storico la devastazione del terremoto si declina tuttora al presente.

Con il suo Le pietre e il popolo, Montanari denuncia lo sfruttamento dei luoghi d'arte; cita episodi e circostanze, e i rischi e i danni che producono. Ma, soprattutto, ricorda che la funzione civile del nostro patrimonio, storico e artistico, è uno dei principi basilari della nostra democrazia. E che, dunque, di fronte al pericolo che vinca la logica del mercato, non c'è che una soluzione: resistere, resistere, resistere.

Il nostro patrimonio artistico è ormai considerato "il petrolio d'Italia? Se è così, come è potuto accadere?
"Se la nascita del Ministero per i Beni culturali (1974) ha comportato la simbolica sottrazione del patrimonio alla sua altissima missione educativa (che era invece esplicita nell'unione con la scuola in seno alla Pubblica Istruzione), la politica culturale dagli anni ottanta craxiani in poi è stata guidata da un micidiale cocktail ideologico nel quale erano mescolati (in percentuali variabili, a seconda del singolo ministro) tre principali ingredienti: la dottrina del patrimonio come 'petrolio d'Italià (secondo la quale esso dovrebbe mantenersi da solo, o addirittura produrre reddito), la religione del privato con l'annesso rito della privatizzazione, e (specie dopo il ministero di Veltroni) lo slittamento 'televisivò per cui il patrimonio non ha più una funzione conoscitiva, educativa, civile, ma si trasforma in un grande luna park per il divertimento e il tempo libero. Chi prova a resistere alla privatizzazione del patrimonio viene bollato come un talebano ideologico. Ma è vero esattamente il contrario: è stato un cieco furore ideologico quello che ha scardinato il sistema di valori che la Costituzione aveva costruito intorno al patrimonio".

Città storiche, monumenti, che cosa si è perso e che cosa sta avvenendo?
"Per secoli la forma dello Stato, la forma dell'etica, si è definita e si è riconosciuta nella forma dei luoghi pubblici. Le città italiane sono sorte come specchio, e insieme come scuola, per le comunità politiche che le abitavano. Le piazze, le chiese, i palazzi civici italiani sono belli perché sono nati per essere di tutti: la loro funzione era di permettere ai cittadini di incontrarsi su un piano di parità. Oggi accade il contrario: le attività civiche vengono espulse da chiese, parchi e palazzi storici, in cui ora si entra a pagamento, mentre immobili monumentali vengono privatizzati o trasformati in attrazioni turistiche. Come in un nuovo feudalesimo, le nostre città tornano a manifestare violentemente i rapporti di forza, soprattutto economici. Tutto questo non mette a rischio solo le città di pietra, condannate ad un rapido ed irreversibile declino. Ad essere distrutta è in primo luogo la cittadinanza come condizione morale, intellettuale, politica. La quasi totalità dei nostri desideri e del nostro immaginario è asservita al mercato. Se pieghiamo a questo stesso, unico fine anche il poco che resta libero e liberante ci comportiamo esattamente come il Re Mida del mito e delle favole: ansiosi di trasformare tutto in oro, non ci rendiamo conto che ci stiamo condannando a morire di fame".

Quale dovrebbe essere la funzione culturale del nostro patrimonio, e quale quello della storia dell'arte?
"Mentre è ormai ben chiaro - soprattutto per merito di Salvatore Settis - che la tutela del paesaggio è legata a doppio filo ai diritti fondamentali della persona, come per esempio la salute fisica e mentale, per quanto riguarda il patrimonio una simile consapevolezza non è stata ancora raggiunta. È sacrosanto voler difendere Pompei, gli Uffizi o la Pinacoteca di Brera perché sono 'belli', o anche perché rappresentano la nostra memoria collettiva. Ma forse è più importante fa comprendere che il vero motivo per cui la Costituzione li tutela e per cui noi li manteniamo con le nostre tasse, è che essi sono una scuola di cittadinanza, uno strumento di liberazione culturale, un mezzo per costruire l'eguaglianza in tutte le sue accezioni. In pratica questo significa non solo che il patrimonio (come la scuola) non può essere asservito al mercato, ma anche che la tutela deve essere funzionale alla ricerca e alla sua diffusione, perché la conoscenza è il più importante strumento per costruire la democrazia".

Tomaso Montanari, Le pietre e il popolo, Minimum fax, Pag 164, euro 12

Per gentile concessione dell'Autore pubblichiamo la premessa e le conclusioni del nuovo libro di Vezio De Lucia, che sarà presentato a Roma da P. Berdini e F. Erbani il 10 aprile, h18, alla libreria Feltrinelli

Vezio De Lucia, Nellaa città dolente, Mezzo secolo di scandali urbanistici. Dalla sconfitta di Fiorentino Sullo alle cricche di Silvio Berlusconi, Castelvecchi edizioni, Roma 2013, 256 p., 19€

Il 13 aprile del 1963 è una data fondamentale nella storia del nostro Paese. Quel giorno «Il Popolo», quotidiano ufficiale della Dc, scrisse che nello schema di nuova legge urbanistica presentato dal ministro dei Lavori pubblici Fiorentino Sullo non era «in alcun modo impegnata la responsabilità della Democrazia cristiana». Finì così, ma lo capimmo molti anni dopo, la possibilità di sottrarre le nostre città alla prepotenza della speculazione fondiaria che aveva avuto il via libera alla fine della Seconda Guerra Mondiale.

Fiorentino Sullo era il più autorevole e brillante rappresentante della Sinistra democristiana e la sua proposta di legge mirava ad abbattere con risolutezza il costo degli alloggi attraverso l’esproprio delle aree edificabili e la loro cessione a prezzi molto inferiori a quelli del libero mercato. Ma gli interessi minacciati – sostenuti dalla Destra in tutte le sue sfumature, dai fascisti ai liberali, e da gran parte della stampa – reagirono duramente diffamando il ministro e accusandolo di voler togliere la casa agli italiani: una pagina vergognosa della nostra vita politica. La Democrazia cristiana, per evitare di trovarsi in difficoltà alle imminenti elezioni politiche del 28 aprile, si schierò con la Destra. La proposta di riforma urbanistica finì su un binario morto e Sullo fu a mano a mano emarginato dalla vita politica. A dare carattere definitivo alla sconfitta contribuì il tentativo di colpo di Stato dell’estate del 1964 (il cosiddetto «Piano Solo») ordito dagli ambienti politici e padronali atterriti dalla proposta di riforma urbanistica.

Nacque allora la «sindrome Sullo», una specie di patologia infettiva che colpisce chi assume posizioni rigorose e razionali in materia urbanistica costringendo i detentori del potere – quelli autentici e in genere incogniti – ad allontanarlo dalla carriera politica. Gli esempi non mancano, penso ad Achille Occhetto, fondatore del Pds poi defenestrato, che nel 1989 tentò di impedire una manovra sulle aree di proprietà Fiat e Fondiaria nella piana di Firenze. Oppure a Renato Soru che nel 2009 non fu confermato nella carica di presidente della Regione Sardegna non essendo condivisa la sua politica di tutela del paesaggio e del patrimonio d’arte e di storia. E a tanti altri, conosciuti e meno conosciuti.

Nonostante la precipitosa caduta di Sullo, in molti continuammo a credere nella riforma. Ci dicemmo che se non era stato possibile assumere subito costumi urbanistici confrontabili con quelli nordeuropei, avremmo potuto accontentarci di un percorso più lento e graduale. Se è vero infatti che con il Piano Solo muore il Centrosinistra riformatore (Guido Crainz), è anche vero che, per almeno tre lustri, si sviluppò quel «processo di riforma» che assicurò buone leggi per l’edilizia pubblica, il recupero del patrimonio storico, la dotazione di attrezzature e servizi, e permise non poche esperienze di buongoverno (Firenze, Bologna e dintorni, i Comuni della Maremma livornese e altri luoghi, anche amministrati dalla Dc). Risultati possibili grazie a sindaci coraggiosi e al movimento sindacale e popolare che, in particolare alla fine degli anni Sessanta, si mobilitò per le riforme, mentre era stato assente al tempo di Sullo, che fu anzi avversato, come vedremo, da un vasto schieramento comprendente ogni ceto sociale.

La crisi, quella davvero irriducibile, esplose più tardi, all’inizio degli anni Ottanta, una crisi che divide la nostra storia recente in due mondi distinti e separati: finisce l’età dell’oro del compromesso socialdemocratico (Eric Hobsbawm) e comincia il periodo della globalizzazione della finanza e dei capitali che cova in sé i germi del disastro esploso nel 2008. Il trionfante neoliberismo è dilagato in tutto il mondo e in Italia ha contaminato anche la cultura e la prassi di gran parte della Sinistra generando persistenti manifestazioni di trasformismo e di disincanto.

L’urbanistica, parente stretta della politica, ha subìto la medesima sorte. Nuove leggi e nuovi istituti hanno smantellato i risultati ottenuti in precedenza, il governo pubblico del territorio è stato progressivamente azzerato. Alla pianificazione è stata sostituita la negoziazione. I profani della materia restano increduli se si racconta che nel 1977 la legge Bucalossi aveva introdotto l’istituto della concessione edilizia, cioè il principio che la trasformazione del territorio appartiene al potere pubblico, il quale, a determinate condizioni e conformemente alle previsioni degli strumenti urbanistici, può farne oggetto di concessione onerosa a soggetti privati. Esattamente il contrario del furore proprietario e individualistico che anima il pensiero neoliberista e ancora di più il berlusconismo dei «padroni in casa propria»: la proprietà avanti a tutto, la proprietà purchessia, quella delle grandi immobiliari e quella miserabile degli abusivi. In diciotto anni sono state approvate tre leggi per il condono edilizio: nel 1985, governo Craxi; nel 1994, primo governo Berlusconi; nel 2003, secondo governo Berlusconi. Fino al piano casa del 2009, che è una sorta di condono preventivo e generalizzato.

Silvio Berlusconi e il berlusconismo annidato in ogni dove hanno tenacemente operato per vilipendere la disciplina urbanistica. Nel 2008, inaugurando un congresso di architetti, il ministro Sandro Bondi, fedele interprete del presidente del Consiglio, dichiarò che «le città d’arte furono costruite senza leggi urbanistiche, leggi che una volta introdotte hanno saputo produrre solo bruttezza e squallore nelle nostre città». Ma la svalutazione dell’urbanistica è generalizzata. A quarant’anni dall’istituzione delle Regioni dobbiamo riconoscere che le speranze di allora sono state tradite e all’iniziale competizione per il buongoverno si è sostituita la tendenza all’omologazione verso il basso. La pianificazione del territorio è un argomento inesistente nei programmi politici. I due sindaci di Sinistra la cui elezione aveva rappresentato nel 2011 una bella novità – Giuliano Pisapia a Milano e Luigi de Magistris a Napoli – proprio nell’amministrazione dell’urbanistica stanno assumendo atteggiamenti che poco hanno a vedere con gli impegni dichiarati in campagna elettorale. Né si ha notizia di nuove e significative esperienze.

Alla fine è successo che proprio chi era stato in prima linea per la riforma urbanistica – quella radicale e quella graduale – si è sentito obbligato a difendere con le unghie e con i denti la legge del 1942 sapendo che dalla politica e dalle istituzioni degli ultimi lustri sarebbero venuti solo peggioramenti.

Questo libro racconta storie e cronache degli ultimi sessant’anni in forma cronologica o quasi (più o meno un decennio per capitolo). Storia e cronache che riguardano in prevalenza energumeni del cemento armato, paesaggi sventrati, alluvioni, terremoti, tanta incompetenza, non trascurando tuttavia fatti e persone da classificare in controtendenza. Non è un’esposizione completa perché illustra in particolare vicende e circostanze che ho conosciuto meglio, e talvolta vissuto. Ne consegue un eccesso di passioni e di esperienze soggettive dalle quali uno storico dovrebbe rifuggire. Ma sono troppo di parte per essere uno storico. Il carattere eterogeneo del libro è confermato dall’ultimo paragrafo (L’invalicabile linea rossa) che tratta di urbanistica operativa proponendo un provvedimento di spietata radicalità per bloccare le dinamiche di dissipazione del suolo che hanno assunto la dimensione del cataclisma e come tali vanno affrontate.

Alcuni degli argomenti trattati li ho già esposti altrove. Con una punta di civetteria Antonio Cederna si vantava di scrivere sempre lo stesso articolo: io sono stato allievo di Cederna – oserei dire l’allievo prediletto – e da lui ho imparato non solo che non ci si deve vergognare di ripetere (ma non è mai una ripetizione pedissequa) fatti e concetti in cui crediamo, ma che anzi abbiamo il dovere di farlo. È necessario tornare su certe vicende soprattutto per comprendere che la crisi profonda in cui siamo immersi è stata generata dalle scelte mancate o sbagliate del nostro passato.

Questo libro deve molto a eddyburg.it, il sito fondato e diretto da Edoardo Salzano che ad esso dedica il meglio delle sue energie. Tratta di urbanistica, società, politica e argomenti che rendono bella, interessante e piacevole la vita. È un riferimento obbligatorio per chi si occupa di città e territorio, provvisto com’è di un archivio di ventimila documenti ma soprattutto perché ricco di commenti e interpretazioni critiche relative alla politica (non solo urbanistica) di Destra e di Sinistra.

L’invalicabile linea rossa

L’ultimo paragrafo del libro non è di storia, né di riflessioni sulla storia ma cerca di mettere a profitto la storia e le riflessioni fin qui esposte per rispondere alla domanda: che si può fare per salvare il salvabile? Nelle pagine precedenti abbiamo descritto le forme abominevoli che ha assunto lo sviluppo urbanistico nel nostro Paese. È un problema non solo di quantità, anche di forma. Nel senso che le quantità realizzate hanno risposto, seppure con grandi sprechi, a bisogni effettivi di alloggi, di infrastrutture e spazi per la produzione e i servizi. Ma è la disposizione dei manufatti prodotti che ha assunto carattere criminale. Mi riferisco in particolare alle più recenti espansioni urbane, quelle degli ultimi trent’anni, realizzate con densità irrisorie o peggio ancora fatte di immobili abitativi e produttivi disseminati in campagna. Se le stesse cose fossero state costruite con qualche criterio – per esempio obbligando a densità minime ragionevoli – si sarebbe risparmiata almeno la metà delle migliaia di ettari ogni anno sottratti alla campagna o alla natura e trasformati nell’infamia che ci avvolge. Nell’autunno del 2012, Mario Catania, ministro dell’Agricoltura del governo Monti, ha proposto un disegno di legge per il contenimento del consumo di suolo, faticosamente contrattato con le Regioni, basato su procedimenti a cascata, con esiti imprevedibili e tempi lunghissimi. In sostanza lo Stato propone, ma alla fine a decidere sono Regioni e Comuni. Che è come chiedere al gatto di Pinocchio di tenere a bada la volpe, o viceversa. Intendiamoci, non tutte le Regioni e non tutti i Comuni sono uguali. So bene che in certi posti gli spazi aperti sono in qualche misura tutelati, soprattutto nel Centro-Nord. Viceversa, nel Mezzogiorno, dal Lazio in giù – Lazio e Roma da questo punto di vista sono profondo Sud – lo spazio aperto è considerato sempre e comunque edificabile, farsi la casa in campagna un diritto inalienabile, e chi ha provato a metterlo in discussione è stato colpito dalla sindrome di Sullo e rapidamente emarginato dalla vita politica.

Non è perciò convincente la proposta Catania, troppo propensa al pluralismo istituzionale per perseguire efficacemente l’obiettivo, che dovrebb’essere prioritario, di imporre le misure più severe laddove maggiore è la sregolatezza: ve le immaginate Campania e Lazio prime della classe che bloccano le espansioni e reprimono l’abusivismo?

Servono soluzioni radicalmente diverse. E urgenti. Continuare con l’attuale ritmo di dissipazione del territorio, anche per pochi anni, in attesa che le Regioni si convertano al buongoverno, significherebbe toccare il fondo, l’annientamento fisico dell’Italia, un disastro non confrontabile con crisi come quelle economiche e finanziarie, più o meno lunghe, più o meno gravi, più o meno dolorose, ma dalle quali infine si viene fuori. Il saccheggio del territorio è invece irreversibile.

Allora che fare? Per ora un sogno a occhi aperti: un governo con persone sensibili, unitariamente impegnato in un’azione culturale e politica di convincimento dell’opinione pubblica, che propone un provvedimento statale senza misericordia – in attuazione dell’articolo 9 della Costituzione – che azzera tutte le previsioni di sviluppo edilizio nello spazio aperto e obbliga a ridisegnare gli strumenti urbanistici indirizzandoli alla riqualificazione degli spazi degradati, dismessi o sottoutilizzati attraverso interventi di riconversione, ristrutturazione, riorganizzazione, rinnovamento, restauro, risanamento, recupero (ovvero di riedificazione, ripristino, riparazione, risistemazione, riutilizzo, riordino, rifacimento: la disponibilità di tanti sinonimi aiuta a cogliere la molteplicità delle circostanze e delle operazioni cui si può mettere mano). Non si possono escludere situazioni eccezionali, irrisolvibili senza occupare lo spazio aperto (come impianti produttivi connessi a particolari caratteri dei suoli). In queste circostanze si deve fare ricorso a norme altrettanto eccezionali, per esempio provvedimenti legislativi regionali ad hoc.

Si aprirebbe così una nuova stagione, diventerebbe fondamentale un nuovo strumento urbanistico formato semplicemente da una mappa con un’insormontabile «linea rossa» che segna il confine fra lo spazio edificato e quello rurale e aperto. Una linea che rappresenta nuove e invalicabili mura urbane. All’interno delle quali convivono quasi ovunque le due principali componenti della città contemporanea: il centro storico e l’espansione moderna. Per centro storico intendendo l’insieme del patrimonio insediativo che si è stratificato nei secoli, da quelli più remoti fino alla metà circa del secolo passato (intorno alla fine della Seconda Guerra Mondiale). È la porzione più piccola e preziosa dello spazio urbano – ormai intorno al cinque per cento della superficie urbanizzata totale – e perciò da tutelare rigorosamente.

L’espansione moderna comprende invece il resto della città costruita negli ultimi settant’anni. In essa c’è di tutto. Pensando a Roma: gli intensivi degli anni Cinquanta e Sessanta, l’Ina Casa, i quartieri Peep e quelli abusivi, impianti piccoli e grandi per la produzione di beni e servizi, grande e piccola distribuzione commerciale, parchi e giardini, attrezzature sportive, ville e villette, e lo sterminato sprawl legale e illegale degli ultimi anni. Un territorio che ha continuato impunemente a espandersi, e ormai misura intorno al 95 per cento dello spazio urbanizzato, determinando ovunque un aggravamento dei costi di gestione del sistema insediativo e un grave peggioramento delle condizioni di vita.

Un’espansione siffatta non è più tollerabile, dev’essere bloccata.

Attenzione, quello che sto proponendo è un percorso molto meno terribile di ciò che sembra e non mancano gli esempi di recenti strumenti urbanistici a zero consumo del suolo (il piano regolatore di Napoli e quello di Cassinetta di Lugagnano, il piano territoriale della Provincia di Torino, quello della Provincia di Caserta). Chi conosce le condizioni attuali delle città italiane sa che la strategia della invalicabile «linea rossa» non è un’utopia e stop al consumo del suolo non significa sviluppo zero. Chi conosce le condizioni attuali delle città italiane sa che i bisogni nuovi e pregressi da soddisfare sono ancora enormi – anche se diversi da luogo a luogo – e sarebbe una follia pensare di limitarli. Ma gli spazi necessari possono essere agevolmente reperiti nell’ambito delle aree già compromesse, sottoutilizzate o dismesse. Mi limito a riprendere pochi dati dal piano territoriale della Provincia di Caserta approvato nel luglio 2012. Nei 104 comuni di quella provincia mancano decine di migliaia di alloggi e un numero sconfinato di attrezzature e di luoghi per la produzione di beni e servizi. Lo spazio necessario per tutto ciò ammonta a circa tremila ettari. Ma è stato accuratamente calcolato che il territorio malamente urbanizzato e sprecato per edificazione legale e illegale con densità irrisorie – intorno ai dieci abitanti per ettaro – si estende per oltre tredicimila ettari. All’interno dei quali vanno quindi reperiti i tremila ettari indispensabili per tutte le cose che mancano.

Non è un’impresa impossibile né velleitaria. Sapendo, tra l’altro, che la strategia proposta è l’unica capace di dare risposte sostenibili non solo dal punto di vista ambientale ma anche dal punto di vista economico e finanziario. Come prendere due piccioni con una fava: i nuovi interventi localizzati all’interno dell’attuale sistema insediativo servono a soddisfare bisogni accertati, al tempo stesso agiranno come focolai di riqualificazione.

Concludo tornando all’inizio. Nel 1963, la defenestrazione di Fiorentino Sullo scatenò un assalto al territorio mai visto prima. In cinquant’anni sono stati sfigurati cinquemila anni di civiltà insediativa. Il Bel Paese non c’è più, ne restano sparsi brandelli. Lo scempio è avvenuto con la connivenza della stragrande maggioranza degli italiani: accanto agli stati maggiori della speculazione hanno operato le fanterie dei piccoli e piccolissimi proprietari di case e villini, capannoni e fabbrichette. I detentori «del monopolio di accumulazione del plusvalore fondiario di speculazione» hanno saputo «mobilitare psicologicamente milioni di cittadini insinuando il sospetto che il pericolo riguarda la vita di ogni giorno del cittadino medio»: sono parole di Fiorentino Sullo riferite alla sua tragica vicenda, ma valgono anche per la stagione di Silvio Berlusconi.

Neppure la terribile crisi economica degli ultimi anni – che proprio nelle città si è manifestata con rovinosa evidenza – ha frenato i disegni predatori, come sa chi segue le cronache di grandi e piccole città italiane. Ma al tempo stesso l’insofferenza e la protesta per la condizione urbana hanno raggiunto una diffusione mai vista prima. Come se le crescenti difficoltà nella vita di ogni giorno avessero finalmente aperto gli occhi a milioni di cittadini inducendoli a vedere per la prima volta – accanto ai disservizi, agli sprechi, alle inefficienze – anche la degradazione dello scenario fisico che ci circonda, a restarne disgustati e a reagire.

Se non ci sono strumenti e risorse per porre rimedio a decenni di sviluppo urbanistico insensato, nulla impedisce intanto di dire basta. Approvando subito una disposizione per fermare lo sperpero del territorio, una disposizione che assuma oggi la stessa importanza che cinquant’anni fa doveva avere la riforma di Fiorentino Sullo. Ma stavolta non dovremmo mancare l’obiettivo, e il consenso è troppo vasto perché qualcuno pensi a un colpo di Stato.

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