Non essendosi conformata alle mode e alle derive degli ultimi tempi, la pianificazione urbanistica di Napoli non è al centro dell’attenzione delle cronache urbanistiche. Eppure, in quella stessa città che "da tempo è divenuta un paradigma della disfatta di ogni prospettiva urbana" (Francesco Erbani), si sta attuando, tra mille difficoltà, quanto prefigurato nel piano regolatore impostato da Vezio De Lucia, agli inizi degli anni novanta, durante la prima giunta Bassolino.
La progressiva involuzione della guida politica (Bassolino, allora sindaco osannato, è oggi additato come responsabile della cattiva gestione della cosa pubblica in Campania) non hanno impedito al piano regolatore e al piano dei trasporti, tra loro integrati, di imprimere alcuni significativi orientamenti allo sviluppo della città: l’arresto dell’espansione e la difesa del verde agricolo, il recupero del centro storico, la regia pubblica delle operazioni di riqualificazione urbana (a Bagnoli così come nelle periferie a occidente e oriente del centro storico), la realizzazione di nuove stazioni del trasporto pubblico ideate come fulcro di spazi pubblici (nel centro storico e nella periferia) vitali e liberati dal degrado.
Le vicende urbanistiche napoletane degli ultimi venti anni sono raccontate in due libri fondamentali:
Vezio De Lucia (1998), Napoli. Cronache urbanistiche 1994-1997 , Baldini e Castoldi: Milano.
Gabriella Corona (2007), I ragazzi del piano , Donzelli mediterranea: Roma. Su Eddyburg sono disponibili lla prefazione, scritta da Piero Bevilacqua e a recensione del libro , scrita da Francesco Erbani.
Alla città di Napoli è dedicata una specifica cartella di eddyburg.it. Al suo interno segnaliamo in particolare i seguenti articoli relativi al piano regolatore:
Approvato definitivamente il PRG di Napoli (29.03.2004)
Gabriella Corona, Politiche sostenibili per la città: Napoli come caso di successo (14.03.2005)
Roberto Giannì, Contenuti essenziali del PRG (18.09.2004)
Antonio di Gennaro, PRG di Napoli: Strategia vincente (04.02.2006).
La scuola estiva di pianificazione ha dedicato due giornate alla pianificazione urbanistica di Napoli.
Nell'edizione 2007, dedicata a “Casa, trasporti, ambiente”, Giovanni Lanzuise ha illustrato i contenuti del piano dei trasporti. Il suo intervento è contenuto nella pubblicazione La costruzione della città pubblica (Aliena, 2008) che raccoglie gli interventi dei docenti della scuola.
Nell'edizione 2008 Roberto Giannì (dirigente del settore urbanistico) e Vezio De Lucia, inbtervistati da Gabriella Corona, hanno illustrato i presupposti, gli obiettivi, i contenuti e l'attuazione delle scelte del Prg. I relativi materiali sono in corso di pubblicazione.
In eddyburg si veda inoltre:
- Elena Camerlingo, dirigente comunale del settore trasporti, spiega perché le stazioni sono state concepite come occasioni di riqualificazione urbana;
- Francesco Erbani, in un articolo pubblicato su La Repubblica, 28.11.2005) si sofferma sul felice connubio tra arte, architettura e pianificazione dei trasporti.
Per chi infine volesse comprendere quale inaudito scandalo sia lo scempio di quella che fu la Campania felix, consigliamo di leggere un prezioso libriccino di Antonio di Gennaro: La terra Lasciata, CLEAN edizioni, 2008, di cui è disponibile sul sito la prefazione di Edoardo Salzano.
venerdì 24: alle ore 17,00 arrivo presso il Dipartimento pianificazione urbanistica del Comune, in via Diocleziano 330. Nella biblioteca del dipartimento (al primo piano dell’edificio) saluto del vicesindaco Sabatino Santangelo, presentazione a cura di Edoardo Salzano, interventi introduttivi di Roberto Giannì (L’urbanistica a Napoli nel dopoguerra e il nuovo Prg), Elena Camerlingo (La pianificazione integrata trasporti-urbanistica: lo stato d’attuazione), Laura Travaglini (Lo stato di attuazione delle attrezzature), Giovanni Dispoto (Il piano urbanistico attuativo del Vallone san Rocco), conclusioni di Vezio De Lucia.
sabato 25: i luoghi delle trasformazioni in città. Partenza con autobus dell’ANM alle ore 9,00 dallo stazionamento ANM davanti alla chiesa di Piedigrotta. L’itinerario si snoda lungo le strade della periferia cittadina da est ad ovest. Sono previste quattro soste: al parco Troisi di Barra-San Giovanni a Teduccio, nel centro storico di San Pietro a Patierno, alla sede del Parco delle Colline, sul pontile nord di Bagnoli._Dopo la pausa ristoro, nella sede del Parco delle Colline è previsto un incontro con gli amministratori e il consorzio degli agricoltori.
domenica 26: alcune stazioni della nuova metropolitana e saluti sulla terrazza della nuova stazione della Cumana di Montesanto. Partenza alle ore 9,00 dalla stazione FS di Mergellina con percorso fra le linee della metropolitana. La visita si conclude nella rinnovata stazione SEPSA di Montesanto con le considerazioni finali.
Il programma dettagliato, i piani e gli ulteriori documenti utili possono essere consultati e scaricati dalle pagine web che l'amministrazione comunale ha dedicato all'iniziativa di Una città un piano:Napoli
L’ingiustizia sociale, di cui la localizzazione e condizione abitativa è solo una manifestazione, è sempre esistita. In passato, però, si raccontava che compito delle istituzioni era di lavorare per mitigarla, adesso accentuare le differenze e racchiuderle spazialmente, recintarle, è un obiettivo dichiaratamente perseguito e teorizzato.
Parlare di città sconnessa dovrebbe essere considerato un ossimoro. Per definizione, la città è un sistema il cui buon funzionamento dipende dalla reciproca relazione tra le sue componenti fisiche e sociali. In realtà, sempre più i progetti e gli interventi di trasformazione del territorio, a tutte le scale, sono esplicitamente finalizzati alla frammentazione e sconnessione. Nelle dichiarazioni d’intenti prevale l’acritico riferimento a metafore che, descrivendo la struttura dello spazio urbano e territoriale attraverso l’immagine dei nodi e della rete, trascurano i meccanismi di formazione dei nodi - ad esempio l’inclusione o l’espulsione di attività e abitanti - e ignorano quel che avviene al di fuori degli stessi. Nello stesso tempo, si mettono a punto e si attuano misure che inducono e/o accelerano lo spostamento dei vari gruppi di popolazione nelle zone ritenute più appropriate alle rispettive caratteristiche. Il riequilibrio territoriale è una voce desueta del vocabolario urbanistico, sostituita dalla esaltazione delle differenza che si traducono in diisparità. Più che chiederci dove si vive bene, quindi, dovremmo cominciare il ragionamento sulla vivibilità chiedendoci chi vive bene e perché.
1.Dove si vive bene o chi vive bene?
era una gran bella cittadina… la gente che vi abitava era di questa idea… non ci voleva molto per amarla, bastava non perder tempo a meditare sulle catapecchie dei negri e dei messicani ammucchiati nelle squallide distese di là delle vecchie carraie interurbane(Raymond Chandler, La signora nel lago,1943)
era una zona in rovina che dieci anni prima era stata in condizioni piuttosto buone perché si trovava a confini della comunità bianca, prima che la comunità bianca si trasferisse più a ovest e la manutenzione del posto venisse abbandonata, a favore di altre vie dove stanno i veri soldi e il vero potere, nei quartieri dei visi pallidi col portafoglio grasso (Joe R. Landsdale, Mucho Mojo, 1994)
era uno di quei quartieri pretenziosi spuntati in città dopo la seconda guerra mondiale, con case accessibili ai militari in congedo. Adesso probabilmente ci sarebbe voluta la paga di un generale per comprarne una. A questo avevano pensato gli anni Ottanta. L’esercito di occupazione degli yuppies aveva ormai assunto il controllo dell’area. Ogni prato esibiva un piccolo cartello metallico piantato nell’erba. Erano di tre o quattro diverse società specializzate in impianti di sicurezza, ma dicevano tutti la stessa cosa RISPOSTA ARMATA. Era l’epitaffio della città (Michael Connelly, La bionda di cemento, 1994)
Mezzo secolo separa i succitati noir americani che continuano ad essere fonti di informazioni probabilmente più attendibili di quelle fornite dalla miriade di esercizi di rating fra le città, commissionati da amministratori ansiosi di pubblicizzare la propria posizione nella graduatoria dei luoghi dove si vive bene per attirare investitori e abitanti pregiati, e che fanno abituale riferimento alla vivibilità e/o alla qualità di vita.
I due termini non sono sinonimi - la qualità di vita viene misurata in base ad una serie di indicatori prestabiliti, mentre per la vivibilità prevale il giudizio soggettivo circa il livello di soddisfazione individuale rispetto alle caratteristiche dell’ambiente - ma in entrambi i casi è scomparso il criterio che buone condizioni di vita urbana siano legate alla disponibilità di un livello minimo di spazi, di servizi, di risorse per tutti i cittadini. Al contrario, luoghi senza servizi, attrezzature e spazi pubblici vengono considerati buoni, proprio in quanto la loro mancanza è un segnale della assenza degli individui o gruppi sgraditi ai quali vengono associati.
Se il significato attribuito alla vivibilità dipende dagli obiettivi e dal sistema di valori di chi effettua la valutazione, il determinismo spaziale che comunque permea il discorso sulla città vivibile e che, non solo fa corrispondere a determinate condizioni fisiche determinati comportamenti sociali, ma stabilisce l’equazione pubblico = deviante, ha effetti devastanti per le nostre città.
Da una lato, alimenta il consenso attorno alla sistematica distruzione delle case e degli spazi pubblici, dall’altro contribuisce all’affermazione del principio secondo il quale, dal momento che non tutti i luoghi hanno la stessa qualità e amenità, e quindi lo stesso valore/costo, è giusto che l’insediamento di un individuo o di un gruppo di popolazione in una determinata parte di territorio e di città dipenda dalla sua capacità a pagare.
A differenza dei "vecchi standards", quindi, la vivibilità non è un diritto, ma una merce con un prezzo che non tutti si possono permettere.
Di fonte a questo prevalente e pervasivo orientamento, al quale ben si adattano le dichiarazioni del signor Swart, ministro della giustizia del Sud Africa che, nel 1953, spiegava in a country we have civilised people, we have semicivilised people and we have uncivilised people. The Government gives each section facilities according to the circumstances of each (dove circumstances significa financial conditions), è necessario ricondurre il tema della vivibilità accanto a quello della spazializzazione- territorializzazione dell’iniquità sociale perseguita, attuata e sancita dalle istituzioni pubbliche.
2. Luoghi di qualità per abitanti di qualità
ci hanno detto di sognare come il quartiere sarebbe potuto essere bello... non ci hanno detto che il sogno significava che noi non ne saremmo più stati parte (dichiarazione di un abitante cacciato nel corso del programma di rigenerazione urbana HOPE VI, The Baltimore Sun, 2004)
senza gli immigrati, Castelvolturno potrebbe diventare la Malibu d’Italia (dichiarazione del sindaco, Corriere della Sera, settembre 2008)
In qualsiasi città esistono, e sono facilmente individuabili, zone con migliori o peggiori condizioni ambientali rispetto a quelle contermini, che sono riservate, di diritto o di fatto, a ben determinati gruppi di abitanti, e il cui pregio relativo è in gran parte il risultato di iniziative delle pubbliche istituzioni.
La gamma dei possibili interventi è ampia, ma sia che si riduca la fornitura di servizi pubblici per accelerare il declino e lo svuotamento dell’area prima di procedere alla sua revitalizzazione (1), o che si attuino progetti per migliorarne la vivibilità - progetti che spesso consistono in una banale barcellonizzazione degli spazi pubblici e accelerano l’allontanamento forzato degli abitanti e la loro sostituzione con altri più desiderabili - l’obiettivo più o meno esplicito è di far corrispondere la qualità degli abitanti, cioè il loro reddito e/o potere, alla qualità dei luoghi.
Collocare i piani e le iniziative per la vivibilità all’interno del ciclico succedersi di fasi di investimento-disinvestimento-reinvestimento (Smith, 1996) aiuta a capire la complementarità e l’interdipendenza degli interventi il cui intento dichiarato è di accrescere la qualità urbana e di quelli punitivi nei confronti degli abitanti dei cosiddetti ghetti, cioè di quartieri o zone con le seguenti caratteristiche:
confini riconoscibili e riconosciuti,
strade che segnano il limite tra il quartiere e il resto della città o, nel caso di insediamenti periferici, un isolamento fisico segnalato dalla presenza di barriere difficilmente valicabili - autostrada, linea ferroviaria, fabbriche, zone "speciali" - e aggravato dalla carenza di trasporti pubblici;.
condizioni ambientali mediamente peggiori rispetto al territorio circostante,
minore dotazione di servizi, mancanza di manutenzione degli immobili, abbandono e degrado degli spazi pubblici, presenza di attività inquinanti;
omogeneità della popolazione al suo interno e eterogeneità rispetto al contesto,
la popolazione può essere composta da gruppi diversi e talvolta in conflitto fra loro - autoctoni e immigrati, immigrati di diversa provenienza - ma condivide una condizione di debolezza, per reddito, occupazione, età, a causa delle quali è considerata una comunità "a parte"; la concentrazione del disagio è un fenomeno cumulativo ed è spesso aggravata dai criteri di assegnazione degli alloggi pubblici;
limitate possibilità di effettiva "partecipazione",
gli immigrati non possono votare, gli autoctoni non sono proprietari o le loro proprietà valgono così poco che la vendita non consentirebbe il trasferimento ad altra zona;
localizzazione appetibile per l’investimento- reinvestimento immobiliare,
il valore potenziale del terreno e le aspettative di sviluppo immobiliare sono condizione indispensabile per assurgere alla cronaca, prima come quartiere problema, zona a rischio, ghetto e poi come laboratorio, quartiere risorsa, area da rivalorizzare e "restituire alla città"; la rimozione degli abitanti, almeno parziale e selettiva, è uno degli ingredienti della valorizzazione (bonifica!) del quartiere, perché la terra su cui sorgono i ghetti vale molto, e potrà valere molto di più se "liberata" dagli attuali abitanti. (2)
3. Enclosure e recinzione, parole chiave dell’urbanistica
il primo, che recintato un terreno, ebbe l’idea di dire: Questo è mio, e trovò persone così ingenue da credergli, fu il vero fondatore della società civile (Jean Jacques Rousseau, Discorso sulle origini ed i fondamenti dell’ineguaglianza, 1754)
Nel testo da cui è tratta l’abusata citazione, Rousseau individua nell’atto di chi si impadronisce, delimitandola, di una porzione di terra, l’origine della proprietà privata e della organizzazione sociale che su questa si basa. Ma oltre che strumento e indicatore dell’appropriazione individuale, la recinzione è anche una pratica abitualmente utilizzata dalle pubbliche istituzioni per sottrarre alla collettività beni comuni e quindi cederli a singoli privati.
La questione è particolarmente rilevante nel momento attuale, perché gli interventi per aumentare la vivibilità urbana vengono attuati contestualmente - quando non ne sono un prerequisito - alla privatizzazione o riprivatizzazione di tutto quello che è/era pubblico e a cui può essere attribuito un prezzo. Questo elemento costitutivo della trasformazione della società, e quindi delle città (Blomley, 2004), renderebbe necessaria una adeguata riflessione sulle sue conseguenze nella attività professionale degli urbanisti e nella codificazione della natura stessa della disciplina.
Presentate come uno strumento indispensabile per far aumentare la produttività dei beni di volta in volta tolti alla collettività (Hardin, 1968), le enclosures ritornano regolarmente nel corso dell’accumulazione capitalista, con particolare intensità e diffusione nei momenti di più radicale riorganizzazione della struttura economica e sociale.
Nella seconda metà del settecento, la recinzione delle terre comuni, e la loro privatizzazione, fu uno degli elementi che contribuirono all’affermazione della rivoluzione industriale e, quindi, alla nascita dell’urbanistica moderna. La necessità di mitigare gli effetti dannosi della industrializzazione e urbanizzazione sulla salute e sulle condizioni di vita, infatti, portò all’affermazione del principio che è compito delle pubbliche istituzioni regolare l’uso del suolo e che in ogni città deve esistere una adeguata dotazione di spazi comuni utilizzabili da tutti i cittadini.
Anche oggi, la recinzione e la privatizzazione degli spazi pubblici concorrono alla realizzazione della cosiddetta rivoluzione postindustriale, ma esattamente opposto è il ruolo assunto dall’urbanistica (dagli urbanisti) postmoderna che partecipa attivamente alla spartizione di questo enorme bottino e alla sua giustificazione teorica: propaganda la città per parti, individua le aree pubbliche da destinare alla valorizzazione o al degrado, progetta gli interventi necessari ad aumentarne la redditività prima di cederle ai privati.
Improvement, termine con il quale, nel secolo scorso, si definivano e reclamavano gli interventi necessari a migliorare le condizioni dell’ambiente urbano, è diventato mero sinonimo di incremento della appetibilità di un’area per gli investitori immobiliari e cercare the highest and best use, il più alto e miglior uso di ogni bene, incluso il suolo, non è più solo un’aspettativa del mercato, ma una sorta di imperativo morale per le amministrazioni.
In questa logica, la gentrification perde qualsiasi connotazione di fenomeno socialmente distruttivo, non essendo altro che un’evoluzione naturale e benefica verso un uso più redditizio del suolo, mentre tutto quello che può ostacolarla (lacci e laccioli) viene bollato come dannoso per lo sviluppo e la competizione tra le città.
Le enclosures, sono un elemento decisivo di questa trasformazione del paradigma disciplinare, sia come concetto guida attorno al quale costruire piani e progetti di valorizzazione, che nelle speciifiche forme nelle quali si possono concretare: zone economiche speciali, distretti e entrerprise zones; siti per eventi speciali, manifestazioni sportive, grandi esposizioni commerciali; zone industriali inquinate, da bonificare e poi restituire ai privati,; zone riservate alla residenza di gruppi di popolazione omogenei per preferenze e stili di vita ai quali si concede la facoltà di governarsi privatamente; isolati urbani e complessi residenziali di proprietà pubblica da demolire e privatizzare.
Si tratta solo di pochi esempi, molti altri ne esistono, tutti caratterizzati dalla complementarietà fra le richieste degli investitori privati e le iniziative delle pubbliche istituzioni che ad esse si adeguano - effettuando importanti interventi infrastrutturali e sopprimendo o rilassando regole e leggi normali - per garantire una sorta di extraterritorialità normativa e fiscale che si traduce, sulle mappe, in una configurazione a macchie.
Enclosure e recinzione non sono sinonimi; si possono recintare porzioni di territorio senza che ne venga ceduta la proprietà ai privati, ad esempio per delimitare le zone da lasciare all’abbandono e al degrado, dove le condizioni di vita variano seguono una gerarchia qualitativa che va dalla povertà meritevole fino al vero e proprio modello concentrazionario. Ma, qualunque sia loro condizione dal punto di vista giuridico, tutte queste linee chiuse danno origine a una configurazione del territorio come sfondo indefinito, sul quale figure ben delimitate vengono messe in risalto o relegate in secondo piano.
Che racchiudano opulenza o disperazione, la separatezza di questi recinti dal contesto fisico e sociale, sempre più accentuata e segnalata dalla presenza di barriere fisiche, è diversa da quella che si poteva realizzare con la zonizzazione ed altre pratiche di suddivisione territoriale - circoscrizioni elettorali, distretti scolastici e sanitari - che pure venivano utilizzate con finalità discriminatorie, ma che non negavano la continuità fra le zone confinanti.
La recinzione ha un significato molto diverso. A differenza della linea di confine, che presuppone l’esistenza di due soggetti che tracciano una divisione fra i rispettivi territori, sulla base di un compromesso o d un accordo che può essere modificato nel corso del tempo, e che lo controllano dai rispettivi lati, la recinzione è un atto unilaterale. Spesso imposto con la violenza e la prevaricazione, a qualunque scala territoriale- dalle homelands del Sud Africa alle barriere costruite dallo stato di Israele attorno ai villaggi palestinesi, dai muri attorno ai quartieri a rischio perché etnicamente connotati alle gated communities con le cancellate che bloccano l’accesso e il transito lungo le strade privatizzate, la recinzione è frutto di decisioni finalizzate alla separazione e alla discriminazione.
Di fronte all’affermazione di atteggiamenti e comportamenti che teorizzano la città disconnessa e ne progettano la frammentazione, manca una adeguata consapevolezza delle conseguenze che l’enclosure dei commons (l’uso di termini arcaici è adatto in attesa di compilare un vocabolario per definire il furto e all’appropriazione dei beni comuni), avrà sulla/e città.
Rendere coscienti i cittadini - che "non tollerano che si mettano le mani nel loro portafoglio", ma accettano passivamente di essere rapinati dei beni comuni - dell’impoverimento collettivo e delle conseguenze a lungo termine provocate da questo fenomeno, associato alla distribuzione degli uomini in spazi chiusi disegnati secondo il criterio che ciascuno deve stare nella porzione di territorio che si merita, può essere il punto d’inizio per una mobilitazione per la inappropriabilità e incommerciabilità dei commons e, quindi, per una vivibilità diffusa.
Note
(1) E’ grazie al benign neglect, il disinteresse benigno! spiegava il sindaco di New York, alla fine degli anni ’70, che nel Bronx, la chiusura di alcune scuole e stazioni della metropolitana e di alcune scuole, la eliminazione degli idranti antincendio e altri tagli nella ordinaria manutenzione, hanno accelerato l’auspicato drenaggio degli abitanti.
In Italia, dichiarazioni così esplicite non vengono rilasciate dai pubblici amministratori, o almeno non ancora, né sono disponibili inchieste sistematiche sul legame tra i meccanismi di concentrazione di cittadini immigrati o comunque sfavoriti, le proteste degli indigeni ed i piani di rigenerazione urbana. E’, però, interessante notare che alcuni studiosi attribuiscono un ruolo sostanzialmente positivo ai conflitti etnici in quanto potenti "fattori di cambiamento" . Il caso emblematico di "crisi urbana" che ha accelerato le trasformazioni sarebbe Torino, nei cui due quartieri, San Salvario e Porta Palazzo, a lungo dipinti come ghetti, "5 anni dopo lo scoppio dei conflitti risultano aperti due tra i più importanti cantieri della città" (Allasino, Bobbio, Neri, 2000).
(2) Lo slogan renewal=removal coniato negli anni ’60 per denunciare gli effetti degli interventi di rinnovo edilizio sugli abitanti è ancora attuale, come dimostra tra gli altri il programma Hope VI, "grazie" al quale, tra il 1993 ed il 2003, sono stati demoliti negli Stati Uniti decine di migliaia di alloggi di proprietà pubblica. Molti degli edifici e dei complessi distrutti erano più che "decenti", ma il valore del suolo sul quale erano collocati era potenzialmente così alto, che non si poteva continuare a sprecarlo per tenervi "parcheggiati dei poveri". Il programma federale, quindi, ha "liberato" le aree necessarie ai privati per la costruzione di liveable communities secondo i dettami del cosiddetto new urbanism (Somma, 2007).
Riferimenti bibliografici:
Enrico Allasino, Luigi Bobbio, Stefano Neri, 2000, Crisi urbane: che cosa succede dopo?, Ires
Nicholas Blomley, 2004, Unsettling the city. Urban land and the politics of property, Routledge
Garrett Hardin, 1968, The tragedy of the commons, "Science", n. 162, p. 1243-48
Neil Smith, 1996, The frontier city, Routledge
Paola Somma, 2007, The destruction of American historic housing projects, Open House International, vol. 32,
n. 1
Bologna per molti anni è stata un esempio di buona amministrazione, capace di produrre modelli urbanistici di eco internazionale (come il PRU del centro storico), tanto da diventare la città simbolo della qualità della vita.
Questa tradizione, amministrativa e sociale, ad un certo punto si è interrotta . Da allora la città stessa ha subito un declino che si misura di anno in anno, di giorno in giorno, nella sempre più dominante “fatica urbana” che chi vive la città subisce.
Il processo è frutto di una serie complessa di mutamenti sociali, economici, politici ed anche urbanistici. Per questi ultimi il momento spartiacque si può individuare nella approvazione del PRG del 1989. Costruito con una sostanziale coerenza di strategie nel passaggio tra l’adozione e l’approvazione il PRG subisce una frettolosa e sostanziale modifica nei suoi aspetti tecnici che gonfia spropositatamente il dimensionamento e ne inficia di fatto l’attuazione. Le grandi aree strategiche di ampliamento faticano ad attivarsi, mentre il mercato si concentra su altre occasioni e di più modesta dimensione e marginali rispetto alla progettualità del piano. La mancanza di fondi blocca la realizzazione delle infrastrutture e larga parte delle aree destinate a standard è minacciata dalla prospettiva della scadenza dei vincoli preordinati all’esproprio.
In linea con la tendenza nazionale, la risposta che le amministrazioni successive forniscono purtroppo aggrava anziché risolvere il problema: si abbandona l’idea del piano – della pianificazione – e si procede per programmi “di riqualificazione”, quasi sempre in variante. La trasformazione della città si polverizza in una serie di piccoli interventi di per sé non impattanti quanto quelli di altre grandi città come Milano e Roma, ma nel loro complesso rilevanti rispetto al contesto urbano bolognese e alla sua tradizione di buon governo.
Gli interventi promossi seguono la logica della “valorizzazione”, come la conversione delle aree a standard non attuate in edificabili, mentre l’obiettivo della riqualificazione si perde in astratte valutazioni. Nonostante le dichiarazioni d’intenti, le contropartite pubbliche ottenute sono scarse ma soprattutto “casuali” ed incoerenti rispetto alle reali esigenze delle parti di città in cui si inseriscono gli interventi. La saturazione dei preziosi spazi liberi nel territorio urbanizzato di fatto non contribuisce al miglioramento della costruzione della città pubblica, favorisce invece il lievitare della rendita.
Il bilancio di questa esperienza documenta il fallimento dell’urbanistica “caso per caso”. Solo una visione completa della città permette infatti di comprenderne le reali necessità: le carenze strutturali, le problematiche emergenti, le opportunità di miglioramento. Quindi solo all’interno di un disegno unitario possono essere formulari obiettivi coerenti e rispondenti alle necessità, e strumenti adeguati per attuarli tenendo conto di tutti i possibili effetti, anche inattesi.
Il ritorno al piano ed alla pianificazione è quindi una condizione necessaria, ma non sufficiente per il buon governo della città. Affinché le strategie del piano possano efficacemente dispiegarsi è necessario che il piano sia attuato e gestito correttamente. La sempre maggiore complessità e velocità di cambiamento delle dinamiche socio-spaziali delle nostra società, impongono inoltre oggi un coinvolgimento diretto dei cittadini per la condivisione degli interventi e dei loro esiti attesi.
E’ questa la sfida che si apre oggi nella nostra città con la formazione del nuovo piano urbanistico comunale. Cogliendo le opportunità del nuovo sistema di pianificazione dettato dalla legge regionale urbanistica 20/2000, l’amministrazione ha delineato nel Piano Strutturale Comunale (approvato nel mese di luglio) le strategie di trasformazione urbana, integrandovi in un insieme coerente quelle di riqualificazione. E’ ora impegnata nella elaborazione del Piano Operativo in cui definirà la prima fase di attuazione del piano.
BarbaraNerozzi
Gli urbanisti pubblici
Oggi abbiamo trattato temi quali la città come bene comune, abbiamo parlato di diritti di cittadinanza, dell’importanza della pianificazione territoriale e del ruolo del pubblico. A tutto ciò volevo aggiungere un’altra questione, se volete una provocazione, il tema del ruolo dell’urbanista pubblico, anzi della difesa del ruolo dell’urbanista pubblico. Lo dico oggi come funzionario della Regione Emilia Romagna ad un pubblico composto da Camere del Lavoro e di amici di Eddyburg che hanno questo tema caro quanto me.
Stiamo vivendo un momento, lunghissimo direi, in cui la caratteristica di strumento di interesse collettivo dell’urbanistica non viene più neppure presa in considerazione, in questo momento il ruolo e la professione dell’urbanista pubblico assume una importanza rilevante.
In questo stesso momento, invece, in Regione Emilia Romagna, da un anno, il servizio urbanistica è stato soppresso in attesa di riorganizzazione (senza tra l’altro scandalizzare nessuno). Le Province mandano a casa i lavoratori precari, molti dei quali impiegati negli uffici urbanistica o ambiente (Bologna è solo un esempio). A chi resta (fino a che Brunetta permetterà), viene chiesto quotidianamente di piegare la norma e le regole che stanno alla base del governo del territorio e della città in nome di un bene che è tutto, meno che collettivo.
Il mestiere dell’urbanista, che ci hanno insegnato persone come Eddy, e oggi dico che, purtroppo, abbiamo anche imparato, implica per sua stessa natura principi e norme, ha lo scopo di dare gambe tecniche a volontà politiche e, quindi, non può che essere pubblico e a favore di interessi pubblici. Ma ogni giorno gli urbanisti della pubblica amministrazione assistono ai fallimenti di questa catena di decisioni pubbliche. Gli interessi della collettività non sono più ispiratori delle decisioni del governo del territorio ma quello che vediamo sono gli interessi privati ed individuali portati all’ennesima potenza.
Dell’attività della pianificazione e del progettare il futuro del territorio e della città, dando forma e sostanza ad un mandato politico, che è parte integrante del lavoro dell’urbanista non sentiamo più parlare. Le parole d’ordine sono promuovere, coordinare e finanziare. La richiesta di elasticità della norma di fronte a necessità private è diventata prassi per tutti noi funzionari pubblici. Dobbiamo quotidianamente piegare il nostro lavoro ad una prassi che nega l’urbanistica stessa e i suoi principi.
Eddy ci sta punzecchiando da un po’ di tempo e sollecitando ad attivarci e a tornare a lavorare, anche come cittadini, per rivendicare il valore pubblico dell’urbanistica e della professione dell’urbanista della pubblica amministrazione.
Oggi voglio chiudere questo intervento dicendovi che torneremo a lavorare, ma voglio anche chiedervi, a voi sindacato dei lavoratori, di difendere – oltre che la città come bene comune, la qualità dell’urbanistica e della pianificazione - anche noi, e quindi la professione dell’urbanista della pubblica amministrazione. In apertura di giornata avete proiettato un filmato fatto da un’associazione di cittadini di cui faccio parte, “La Compagnia dei Celestini”; che voglio dire alle Camere del Lavoro di chiamarci e considerarci anche come funzionari pubblici.
Salvatore Lihard
Venezia e gli interventi distruttivi
Un’idea forte, emersa da questo interessantissimo convegno, è quella di sintetizzare obiettivi e principi per coniugare il “diritto alla città” e la “città come bene comune”.Tale proponimento assume ancora più rilievo considerando il fatto che questa discussione si fa in una città come Venezia, fulcro per civiltà e storia del complesso ecosistema lagunare. Un territorio che si è formato per effetti dei detriti portati dai fiumi e dalle maree, con una superficie di circa 550 Kmq. E che è costituito da un insieme di isole, barene, velme, valli da pesca, canali, e collegato tramite 3 “bocche di porto al mare Adriatico, con il quale scambia acqua e sedimenti durante i cicli di maree.
Oggi questo delicatissimo habitat (compreso Venezia, isole e parte di terraferma) è pesantemente colpito da un insieme di fattori conseguenti da una incapacità politica di:
1) gestire l’insostenibile flusso turistico (circa 20 milioni di visitatori all’anno);
2) innovare il quadro normativo in materia ambientale;
3) utilizzare adeguati strumenti per la tutela e la salvaguardia;
4) ripensare a un nuovo modello normativo di Legge speciale.
E’ sconvolgente come in pochissimi anni siano stati “annegati” percorsi di storia e di capacità gestionale della laguna a partire dal ‘500 in poi con l’istituzione del Magistrato alle acque. e il costante assillo del Governo della Serenissima era proprio quello del controllo di tutto il bacino lagunare con un modello gestionale che accorpava più magistrature ed organismi per un’azione unitaria e sistemica.
Nonostante cospicui finanziamenti dello Stato a partire dalla prima legge speciale per Venezia, purtroppo lo stato di salute della laguna e del suo bacino è gravemente compromesso: il moto ondoso, la distruzione morfologica dei fondali, l’inquinamento fisico e chimico, lo squilibrio fisico tra laguna e mare, la riduzione dell’invaso lagunare, ma soprattutto la perdita costante ed inarrestabile di sedimenti lagunari preziosi (da 1,5 a 4 milioni di mc all’anno).
I Governi (Berlusconi e Prodi) hanno voluto, scavalcando anche l’Organo istituzionale del “Comitatone”, il Mo.S.E.. Esso rappresenta un’opera ingegneristica faraonica di forte impatto ambientale, e in contraddizione con lo spirito delle leggi speciali per Venezia che indicano criteri di gradualità, flessibilità, sperimentabilità e reversibilità. Il costo dell’opera (ideata e costruita dal Consorzio Venezia Nuova) si aggira intorno ai 4,2 miliardi di euro, assorbendo quindi risorse che urgono per interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria del territorio lagunare. In sintesi avremo un ecomostro (ammesso che funzionerà) che ferma l’acqua alta (al di sopra di 110 cm.) ma che non arresta il lento ed inesorabile declino di Venezia.
E se non bastasse la demenza culturale di qualche pubblico amministratore fa partorire, in aggiunta al MoSE, altre opere e/o infrastrutture all’interno della laguna come la “sublagunare”, il tunnel di collegamento isole-terraferma, ecc. Bisogna fermarli! Il bene comune deve essere un agire positivo ed attivo che coinvolge le responsabilità di tutti: la difesa e la salvaguardia del territorio lagunare abbisogna della sensibilità e dell’intelligenza di tutti per consegnare ai posteri una sentenza di Venezia ancora integra e capace di attirare passioni di scenari paesaggistici unici al mondo.
Maria Pia Robbe
I Gruppi di acquisto solidale
Il territorio/città come bene comune è sempre più una consapevolezza all’interno del VenezianoGas, gruppo di acquisto solidale fondato nel 2001 da un manipolo di amici e che oggi conta 130 famiglie organizzate in sei sottogruppi, in progressivo aumento. L’interesse primario dei gas è “sostenere il consumo e la diffusione di prodotti biologici, naturali, ecocompatibili; sviluppare rapporti diretti con i produttori biologici, privilegiando i piccoli produttori e garantendo un’equa remunerazione del lavoro; favorire la solidarietà tra i componenti del comitato” (Statuto, http://www.venezianogas.net).
La cosa straordinaria, e che qui segnalo, è che il ritrovarsi tra persone di ogni età e professione, alle riunioni, e sempre più spesso, al crescere dei prodotti acquistati, al momento del ritiro, non solo ha reso interessante e divertente una necessità quotidiana, fare la spesa, ma ha contribuito a creare/scoprire il vicinato e a costruire fitte reti di interessi comuni.
E così, partendo dall’esigenza di portare a tavola alimenti sani, si parla di stili di vita, sostenibilità ambientale, di solidarietà e si definiscono le regole che ci aiutano a scegliere come e cosa acquistare (biologico, Km 0, filiera corta, conoscenza diretta del produttore, …). Siamo sempre più consapevoli che la qualità del consumo è direttamente responsabile della quantità di rifiuti prodotti, e partendo da quello che ciascuno di noi può fare, cerchiamo di acquisire o trasmettere modalità di consumo più sobri e rispettosi dell’ambiente (bere l’acqua del rubinetto, scegliere ed invitare i produttori a proporci prodotti con meno imballaggi, …).
Abbiamo anche imparato a considerare il consumo energetico degli alimenti e dei prodotti che utilizziamo sia per trasportarli che per produrli (la quantità di energia per produrre verdura è di molto inferiore a quella per produrre la carne, e quella necessaria a produrre carne di manzo è 10 volte superiore a quella per produrre carne di pollo), e questo diventa un ulteriore criterio, personale, che ci orienta negli acquisti.
Col crescere degli iscritti sono aumentate anche le risorse di tempo e di conoscenze disponibili (fondamentale a questo riguardo ricordare che l’organizzazione del gruppo prevede la partecipazione diretta alle attività, da intendersi non solo come un “servizio” al gruppo ma soprattutto come una “esperienza” di gruppo utile all’arricchimento e alla crescita di ciascuno di noi) e questo ha reso possibile, ad es., l’ adesione al progetto “Venezia per l’altra economia” e di concretizzare l’esigenza di aprirsi all’esterno per condividere, confrontarsi e accrescere le proprie conoscenze (vedi di recente l’organizzazione di “Mangiasano”, Venezia sett. 08, con un contributo sul rapporto tra cibo e petrolio, e ancora la partecipazione al seminario organizzato da Legambiente, Verona nov.08 “Verso il Programma Nazionale di Prevenzione dei Rifiuti” con un contributo sulla “Filiera corta alimentare e riduzione dei rifiuti”).
Le cose che ha detto poco fa Paola Somma, facendo una fotografia di quello che è diventata la città oggi, sono molto significative, ci dicono qualcosa anche sulle linee e gli orientamenti da seguire nell’intervento sulla città.
In sintesi estrema, Paola ci ha detto che la segregazione dentro la città non appartiene semplicemente a qualche segmento sociale particolarmente svantaggiato, ma è un fatto organico, ormai costitutivo dei tessuti urbani cittadini. Questa frammentazione, coerente del resto con quella che registriamo nel mondo del lavoro e nella società civile, produce conflittualità e rende molto più difficile e complicati tutti gli interventi che cerchino in qualche modo di esprimere un governo, di promuovere e dirigere un cambiamento.
Si arriva invece oggi ad una condizione molto difficile, se è vero che anche in una città di media grandezza come la mia, come Ferrara, abbiamo intere aree attraversate da conflitti endemici, ad esempio tra italiani e stranieri, ma anche a volte tra diverse fazioni che si confrontano magari sull’opportunità di chiudere al traffico una via oppure di tenerla aperta o sul luogo nel quale concentrare le attività sanitarie della città.
Ora questo tipo di realtà così frammentata, di micro conflittualità dilagante, richiederebbe sostanzialmente due tipi di risposta, io credo, più un terzo che rimane un po’ sullo sfondo.
La prima risposta sta senza dubbio in una maggiore capacità pianificatoria, di programmazione, di cui molti hanno già parlato. Quello che sta sullo sfondo sicuramente è un’idea di partecipazione: anche chi mi ha preceduto vi faceva riferimento. Ma c’è un terzo punto a mio avviso che è assolutamente essenziale: è quello delle risorse.
Non si produce un flusso contrario rispetto a questo processo di frammentazione, che è ormai in piedi da qualche decennio, se non investendo risorse. E questo è il punto su cui molto spesso la nostra contrattazione territoriale in questi anni si blocca, va a sbattere. Perché incrociamo appunto una finanza locale disastrata. Il Comune di Ferrara, ad esempio, ha uno stock di indebitamento che è pari ad una volta e mezza le entrate annue. E non è uno di quelli messi peggio, né in provincia di Ferrara e tanto meno in Regione. Si arriva anche ad un indebitamento doppio rispetto alle entrate. I trasferimenti continuano a ridursi e l’imposizione fiscale locale ormai ha raggiunto livelli insostenibili. Questo fa sì che il più delle volte almeno in questi ultimi anni, quando noi ci siamo seduti al tavolo per confrontarci sulle politiche di bilancio dei Comuni, il massimo che siamo riusciti ad ottenere è stato quello di mantenere la spesa sociale ai livelli esistenti e di impedire, non sempre riuscendoci, la crescita della imposizione fiscale o attraverso addizionali o attraverso aumenti delle tariffe per i vari servizi erogati.
Quindi risultati magari utili nel difficile contesto nel quale ci troviamo, ma che non hanno un’influenza positiva sui fenomeni che prima richiamavo, che non producono controtendenze.
Io penso quindi che se vogliamo parlare di questo e cioè di come ricostruire un tessuto cittadino che corrisponda ad una idea di città come bene comune, abbiamo prima di tutto questo problema da porci e cioè come è possibile mettere di nuovo le realtà, le autonomie locali, in condizioni di investire delle risorse in misura adeguata. Senza di questo è inevitabile che le risposte non ci siano.
Se queste risorse ci fossero come andrebbero investite? Io sinteticamente vorrei indicare tre punti che credo siano tre priorità.
Il primo punto riguarda certamente quel tipo di interventi che sono rivolti ai ceti sociali che si trovano nelle condizioni di maggiore disagio: sicuramente anziani, immigrati, non autosufficienti. Qui siamo di fronte oggi ad un numero crescente di vere e proprie emergenze sociali e quindi sicuramente qui c’è bisogno di dare risposte molto più incisive e consistenti di quelle che fino ad oggi è stato possibile mettere in campo.
Il secondo punto è quello che riguarda la riqualificazione e l’utilizzo del patrimonio esistente. Si citava prima il tema della espansione residenziale: senza dubbio è uno dei grandi problemi che anche appunto una città di medie dimensioni ormai si trova a vivere. Se non si mettono in campo delle politiche per le quali vivere e abitare dentro la città oggi esistente e riqualificata, diventa, torna ad essere, un valore, ma anche una possibilità reale e concreta, noi assisteremo al moltiplicarsi di questi fenomeni di dispersione urbana, con tutto quello che ne consegue: aumento del ricorso al trasporto individuale, congestione del traffico, maggiore inquinamento, scarsa vivibilità dei servizi e della città nel suo insieme.
Terza e ultima priorità, sulla quale mi soffermo magari un minuto in più, è la necessità di investire sui servizi pubblici e in particolare su quel tipo di servizi pubblici che hanno la caratteristica di costituire l'ossatura di fondo, la rete su cui la vita cittadina si costruisce. Quindi penso ai trasporti, alle reti idriche, penso alla drammatica, per certi aspetti, questione della gestione dei rifiuti. Su questo, oggi, c’è bisogno non solo di gestire, ma c’è bisogno io credo di investire, c'è bisogno che il pubblico investa. Certo in una dimensione sovra comunale, perché è finita per sempre l’epoca dei muncipalismi, forse anche in una dimensione sovra provinciale, perché a volte solo andando oltre questo livello si riescono a cogliere alcuni benefici derivanti dalla scala a cui si affrontano questo tipo di problemi.
Penso al mio territorio, quello di Ferrara, che oggi vive sostanzialmente in simbiosi con quello della provincia di Bologna: è impossibile affrontare il tema dei trasporti in chiave solamente provinciale.
Non basta difendere le Province per quelle che sono. Così come sono oggi, io credo che le Province non servano. Forse dico una cosa un po’ diversa da quello che hanno detto alcuni che mi hanno preceduto, ma secondo me servirebbero altri tipi di Provincia, perché oggi le province sono prive di poteri importanti e in quei pochi ambiti nei quali potrebbero in teoria decidere, sono spesso bloccate dalla conflittualità tra i comuni che ne fanno parte. I comuni in lite tra di loro impediscono o rallentano l’assunzione di piani organici, di una pianificazione di livello provinciale. Quindi c’è bisogno di Province, ma forse di Province di altro tipo, e c’è bisogno certamente di associazionismo tra le diverse autonomie locali.
Accanto a questo c’è bisogno, soprattutto, di far passare un punto che oggi non è assolutamente acquisito e cioè il concetto che non tutti i servizi pubblici sono gestibili a pareggio, non tutti i servizi pubblici sono gestibili in economia, e il credere e il pensare il contrario non fa altro che scaricare, attraverso i disservizi che crea, dei costi immani sulla collettività. Se questa mattina, scusate se cito questo banale episodio, un centimetro di neve ha bloccato la stazione di Padova, impedendo a molti, tra cui noi, di viaggiare tranquillamente e di arrivare puntuali ai nostri appuntamenti, questo non è né una fatalità né un caso eccezionale, purtroppo, ma è l’effetto appunto dell’idea che anche questi trasporti pubblici debbano essere comunque gestiti con l’obiettivo e il vincolo obbligatorio della parità tra costi e ricavi.
Introduco un tema che sarà forse interessante riprendere nel dibattito dei prossimi mesi: siccome oggi, per effetto della crisi che incombe, il tema del ruolo del pubblico è un tema che oggettivamente viene rimesso al centro del dibattito, allora credo che anche noi dovremmo farlo e cominciare a cercare di capire come alcune problematiche legate all’utilizzo del territorio, alla vita nelle città, alla gestione dei servizi pubblici, appunto, possano e debbano essere affrontate anche in modo nuovo e diverso dal passato. Dovremmo insomma cercare di capire quale può essere in questo ambito un nuovo ruolo del pubblico.
Certo nessuno di noi immagina che il Pubblico debba occuparsi di tutto, anzi probabilmente sarebbe meglio che non si occupasse affatto di alcune delle cose di cui oggi invece impropriamente si occupa, ma su alcuni terreni al contrario deve riacquisire un ruolo che in questi ultimi anni ha inesorabilmente perso, producendo effetti negativi dei quali oggi spero molti, anche se con ritardo, si rendano conto.
Innanzitutto penso vada valutata positivamente una cosa. Oltre al pregio di avere messo in piedi questa iniziativa, il fatto che dalle Camere del Lavoro sia partita una riflessione su questi argomenti in maniera molto approfondita, sull’idea cioè di come si interviene dal punto di vista sindacale, di un soggetto sindacale, dentro le questioni che sono state rilevate nel corso della discussione odierna.
Nell’introduzione che è stata fatta questa mattina da Salzano, è emersa appunto la questione degli anni ‘70. Perché quella fase politica, in quegli anni segnati da fatti particolarmente importanti per il Paese, ha determinato che il ruolo del sindacato, anche egemone rispetto ad altri ambiti, sviluppasse per se e quindi a partire dai luoghi di lavoro e per l’intera società, una evoluzione che oggi francamente tardiamo a riconoscere e, anzi, quando la riconosciamo, constatiamo un arretramento pericoloso.
Se fate mente locale su cosa è successo negli anni ’70, vi accorgerete che tutte le questioni che abbiamo discusso stamattina: società, casa, scuola, sanità, previdenza venivano accompagnate sempre da un sinonimo che si chiamava riforma: riforma della casa, riforma sanitaria, riforma previdenziale e in molti casi, al centro di questa iniziativa, non da solo, c’era il sindacato, il quale aggregava attorno a sè quella capacità di movimento che era in grado di determinare con altri soggetti il livello più alto che la società in quel momento metteva in campo.
Questo è valso per quanto riguarda la sanità, la programmazione territoriale e le questioni della casa, ciò ha avuto un valore generale di capacità propositiva, insomma di progetto generale.
Quindi la prima considerazione da fare è, se nasce questa esigenza delle Camere del Lavoro, è perché molto probabilmente si sono accorte che questo terreno è un terreno molto più ampio e un terreno su cui sviluppare una nostra rinnovata capacità di intervento. Non è un caso che la CGIL abbia posto al centro del suo ultimo Congresso l’idea di riprogettare il Paese e al centro della sua ultima Conferenza di Organizzazione l’obiettivo di riprendersi il territorio, perché al di là di queste esperienze che ovviamente vanno valorizzate, noi siamo presenti sul territorio, ma la nostra capacità di intervento è limitata, un po’ per le ragioni che prima diceva il segretario di Modena e un po’ anche perché noi stessi abbiamo considerato questa nostra capacità di intervento come un elemento di tutela individuale e collettiva che andava data sì sul territorio, ma senza una capacità progettuale e quindi senza quella che noi richiamiamo, per gli enti locali, la programmazione che servirebbe.
Questa premessa per introdurre un elemento che secondo me è particolarmente importante nell’azione che noi dovremmo svolgere, perché quando penso alla politica neoliberista, penso che questa politica ci abbia attraversato, non siamo stati spazzati via come spesso diciamo rispetto ad altre esperienze sindacali, ma è indubbio che abbia attraversato la società nel suo intimo e quindi forse anche l’organizzazione sindacale.
Faccio un esempio banale. Diciamo tutti che il ruolo pubblico va salvaguardato ed essendo noi sindacalisti pensiamo che questo ruolo sul lavoro vada tutelato. Nel nostro Paese è stata sancita, nella Costituzione, l’idea che vi possa essere un punto centrale, statuale, pubblico, in cui si incrociano la domanda e l’offerta di lavoro.
Se guardiamo oggi al 2008 il punto unico in cui si concentra e si incrocia la domanda e l’offerta di lavoro non è più il punto pubblico, sono altri i soggetti e molto probabilmente anche noi abbiamo considerato che questo elemento fosse una parte della modernità, dimenticando che così facendo abbiamo introdotto sul lavoro un principio che per noi, dalla Costituzione in poi, dovrebbe essere particolarmente “sacro” e cioè che non vi può essere profitto.
Ho citato questo come elemento perché, come mi ha ricordato un docente universitario, è stupefacente che la cosa sia passata quasi normalmente questo per dire che recuperare il terreno perso è per noi l’idea appunto di definire una linea più generale.
Lo sviluppo di una città a partire dai bisogni dei cittadini è fondamentale. Per dare un esempio a Padova noi negoziamo, discutiamo, con i comuni padovani sulla definizione del bilancio comunale. Il bilancio comunale che i comuni affidano alla discussione, dipende molto dal segno politico dell’amministrazione comunale, anche se non sempre, ma sopratutto dalle disponibilità economiche che hanno gli enti locali di indirizzare quelle risorse verso i bisogni che noi rappresentiamo.
Sostanzialmente potrei dirla così: la contrattazione, la negoziazione, il confronto con gli enti locali (104 comuni della provincia di Padova) ci da qualche risultato in modo particolare sui soggetti meno abbienti, gli anziani e per alcune fasce di reddito sui servizi che gli enti locali dovrebbero definire ma non siamo ancora obiettivamente a una fase contrattuale. Perché la fase contrattuale ha bisogno non soltanto della capacità propositiva del sindacato, ma se vogliamo acquisire una fase davvero contrattuale è necessario che quella fase in rapporto con gli enti locali possa determinare scelte e per fare ciò necessariamente c’è bisogno di un livello di partecipazione molto più ampia dei soggetti che noi rappresentiamo.
Provo a spiegarmi meglio: finché nelle fabbriche, nei luoghi di lavoro, non si parla delle questioni relative al livello territoriale del proprio ente locale, noi non la spuntiamo solo con questi, pur apprezzati, livelli di confronto. Solo se il sindacato è forte della partecipazione dei lavoratori può spingere l’ente locale a indirizzare risorse da una parte all’altra.
E’ ovvio quindi che sulle questioni dell’assistenza, della solidarietà che spesso i sindaci dimostrano, sono determinate dalle situazioni contingenti. Qualche giorno fa abbiamo fatto un accordo con il Comune di Este che ha messo a disposizione delle risorse per i lavoratori licenziati in una azienda e che non riescono a far fronte alle condizioni economiche minime relative alle spese di gestione familiare.
Quindi la prima considerazione da fare è se noi vogliamo spostare e indirizzare la provincia, i Comuni, gli Enti Locali verso la capacità di programmazione più in generale. Dobbiamo mettere in campo un livello di partecipazione che oggi è molto lontano e che deve riguardare i lavoratori.
Seconda considerazione: far percepire ai lavoratori in ogni luogo di lavoro che pur partendo da una condizione sociale che si manifesta soltanto nel lavoro, pur essendo essa fondamentale, si deve esplicitare anche sul territorio per far diventare i lavoratori stessi soggetti che in qualche misura abbiano un nuovo ruolo negoziale, esprimere quindi la capacità di partecipazione che rimane un punto fondamentale ed irrinunciabile
Per esempio, a Padova, stanno discutendo della costruzione di un nuovo ospedale. Ovviamente il nuovo ospedale secondo il governatore del Veneto, Galan, dovrebbe essere un centro di eccellenza particolarmente elevato per la ricerca, in un rapporto molto stretto con l’Università e quindi fornire ai cittadini, padovani e non, le migliori capacità di intervento su tutta la gamma che può appunto interessare la questiona sanità.
Nessuno si è interrogato:
a) se serve un ospedale, Padova da questo punto di vista è fornita e anche altamente fornita dal punto di vista qualitativo?
b) quali ricadute avrà la creazione di un nuovo ospedale rispetto al territorio, quale capacità in presenza di un pubblico molto più ampio?
c) cosa ne facciamo dei presidi sanitari e ospedalieri che oggi vi sono e se, aggiungo io, l’idea di ospedalizzazione è proprio quella che viene richiesta dal cittadino oppure una capacità dei servizi sul territorio molto più ampia?
d) cosa se ne farà dell’area attuale dove è situato l’ospedale?
Ora guardando il progetto regionale si capisce quasi tutto. Il primo elemento è che l’ente regionale, in questo caso, non ha le risorse sufficienti per fare il nuovo ospedale e introduce, ovviamente, la necessità di intervento privato chiamato il project financing, il quale dovrebbe non solo costruire l’ospedale, ma poi anche gestirne alcune parti (tale proposito vedi l’esperienza a Mestre). L’intervento del privato, però, condiziona in maniera molto consistente il Piano Regolatore del Comune, non solo perché richiede l’area dove va insediato il nuovo l’ospedale, ma richiede anche l’area dove era insediato quello vecchio e quindi dice esplicitamente che il progetto sta insieme se edifico il nuovo ospedale e di gestirne parte se, in contemporanea, ho la possibilità di utilizzare l’area di precedente insediamento.
Questo è il quadro. Nel risultato di verifica che noi abbiamo fatto nei confronti dell’Ente Locale, del mondo universitario, e anche se solo parzialmente nei confronti degli utenti, abbiamo ravvisato che c’è una favorevole e positiva reazione in gran parte di questi soggetti all’idea di fare un nuovo ospedale, perché di fronte alla possibilità che un Ente Locale costruisca un ospedale a quelle condizioni, con il massimo di attività medico scientifica possibile, con il massimo di ricerca e quindi le possibili preoccupazioni potrebbero essere accolte in quel presidio ospedaliero, non c’è cittadino che dica di no.
Quindi noi dovremmo far percepire al cittadino padovano e ad altri soggetti, non solo la complessità della questione, ma che l’intervento privato sulla sanità è un intervento che quando avviene non si ferma alla gestione del parcheggio, qualche problema l’abbiamo già visto anche a Mestre. Quando l’intervento privato ha bisogno di acquisire, ovviamente, il profitto, non si ferma alla conduzione della manutenzione ma ha bisogno anche di altro e molto probabilmente determina anche le scelte da un punto di vista generale, che un presidio ospedaliero dovrebbe compiere, perché il principio fondamentale del privato è fare profitto.
Per questi motivi abbiamo deciso di aprire una discussione nella città di Padova ponendoci un vincolo: è necessario fare in modo che i cittadini e i lavoratori e non solo quelli del comparto sanità, vengano coinvolti in una discussione sul futuro della sanità padovana, perché i poteri forti, se così vogliamo chiamarli, hanno una capacità mediatica molto ma molto più superiore a quella che noi possiamo determinare. Abbiamo quindi necessariamente bisogno di costruire un elemento che fino a qualche anno fa era un elemento fondamentale: il coinvolgimento e la partecipazione per costruire il punto di vista del sindacato.
Questi due elementi che si fondono come veniva ricordato, nel principio chiamato democrazia, ci consente di costruire un punto di vista alternativo a quello che oggi è dominante, indipendentemente dal segno politico che governa quell’ente locale, perché appunto i poteri “forti” sono in grado loro stessi di determinare interferenze con la politica. Noi invece mettendo in campo gli interessi delle persone, non in maniera egemone ma assieme ad altri soggetti, li possiamo rappresentare.
L’altra questione su cui è necessario secondo me approfondire ulteriormente anche da parte di una organizzazione sindacale, riguarda il ruolo pubblico.
Io penso che anche noi siamo stati attraversati dall’idea che pubblico e privato possano coesistere e che quindi il pubblico, per dare risposte ai bisogni dei cittadini, necessita anche ottenere “dei profitti sulle attività che opera”, di definire, per esempio, delle società miste tra pubblico e privato. Allora, un imprenditore per competere e quindi per avere il massimo del profitto in Italia ha due possibilità: o amplia la propria capacità di intervento sulla base di qualità, innovazione, ricerca, formazione ecc., oppure riduce il costo delle produzioni che opera. Ovviamente a partire dal costo del lavoro.
Cosa è successo per esempio in qualche multi-utility, anche loro hanno attivato forme di lavoro chiamate cooperative, in cui, in modo particolare (noi lo stiamo verificando a Padova) hanno attuato la connessione di fenomeni di terziarizzazione del lavoro e con la presenza di lavoratori immigrati. Ciò rende, ancora più evidente in una catena del lavoro l’ultimo anello che è rappresentato da una lavoratrice o da un lavoratore che prende 4,5 euro all’ora tutto compreso, ma che l’inizio della catena risponde ad un Ente Pubblico. E lo vediamo nella questione dell’igiene ambientale, lo verifichiamo in altri settori che hanno le stesse caratteristiche.
Questi passaggi non solo hanno visto anche pezzi di economia tramutarsi, modificarsi, ma ha reso difficile per noi intervenire. Ha reso però evidente la necessità di un ragionamento da parte nostra di carattere generale che faccia in modo che una Camera del Lavoro, un sindacato non stia soltanto nei luoghi di lavoro, ma che si appropri del territorio, perché le contraddizioni hanno queste caratteristiche e per noi il presupposto fondamentale che abbiamo, è di farlo diventare un impegno e un approccio culturale che il sindacato si dà. Se dobbiamo e concludo, riprogettare un paese, se abbiamo bisogno di ricostruire un punto di vista noi dobbiamo ampliare gli spazi di partecipazione delle persone, per cui anche noi come Modena abbiamo ragionato, all’interno della Conferenza di Organizzazione, di queste questioni. Ma c’è una novità di cui dobbiamo essere consapevoli il rapporto con gli altri soggetti, il contaminarsi; noi non siamo più egemoni, parlo del sindacato, non siamo più un soggetto che da solo riesce rappresentare tutto, abbiamo bisogno dei contributi e delle elaborazioni di altri soggetti, nati nel frattempo, è necessario dalogare con loro se vogliamo costruire queste forme di partecipazione più ampie, per dare la possibilità che anche la città ridiventi un bene comune e fare in modo che questo avvenga con molta celerità.
Ripeto, è un passaggio culturale che noi dobbiamo compiere, è importante che ciò avvenga da un livello più basso, quello delle Camere del Lavoro, ma è quello necessariamente da cui può ripartire un’azione e un’ambizione di questo spessore.
Quando Oscar Mancini mi ha chiesto di ospitare a Cà Badoer questa iniziativa ho accettato senza indugio, perché la Facoltà che dirigo si occupa di questioni importanti e critiche per l’assetto e le prospettive della società, dell’ambiente, dell’economia, in modo specifico del territorio. Essa cerca di sviluppare con modalità diverse i rapporti con territori contigui e lontani. Nelle attività didattiche di tipo laboratoriale in cui si trattano problemi specifici delle comunità locali (mobilità, qualità della vita, residenza, impiego), in attività di tirocinio presso studi, aziende e amministrazioni pubbliche dove si plasmano i ‘mestieri’, con convenzioni di ricerca che non raramente assumono connotati critici nei confronti del pensiero dominante, delle pratiche quotidiane di governo del territorio e di produzione dello spazio fisico.
Sono onorato di essere qui, ‘piccolo’, vicino al vecchio professore Eddy Salzano che mi ha insegnato a considerare il territorio come risorsa scarsa e non rinnovabile in una società di opulenza, povertà e ingiustizie. Assumendo la sua ottica come guida, vorrei consegnarvi in pochi minuti gli elementi salienti di una esperienza che, credo, saranno utili per l’avvio della discussione di oggi.
Nella locandina che accompagna il programma dei lavori della giornata sta scritto: “Città e territorio. L’ambiente della vita, dell’umanità, sono abbandonati dai poteri pubblici”.
Credo che esperienze, inchieste, risultati di ricerche sul consumo di suolo e cronache dimostrino che il vero problema non é l’abbandono. I poteri pubblici sono spesso implicati in modo intenzionale nella distruzione del territorio ed usano a tale scopo strumenti legali. In Italia in modo particolare, ma anche in altri paesi che con noi condividono una discutibile cultura giuridica e una debole considerazione del territorio e del suolo come bene collettivo.
Partendo da questa constatazione è possibile sviluppare un’ipotesi non tanto provocatoria per chi si occupa di pianificazione e soprattutto per chi la insegna. La devastazione del territorio italiano è stata accelerata negli ultimi dieci anni da un rapporto perverso fra ciclo economico, ciclo edilizio e fiscalità locale. Su questo rapporto hanno influito ragioni contingenti, ma anche ragioni che per brevità possiamo chiamare ‘costitutive’. Le ragioni costitutive rinviano ai limiti della pianificazione di sistema propri delle organizzazioni sociali estese e complesse, mentre le ragioni contingenti a diffusi e deprecabili fenomeni di corruzione, illegalità e sopruso. Le due ragioni si integrano facilmente, mettono l’onestà in complicità con il crimine, configurano un modello di sviluppo insostenibile dal punto di vista economico, sociale, ambientale, energetico e giuridico. Gli esiti della sua contabilizzazione sono problematici, ben oltre le note esternalità, soprattutto se considerati nel medio e lungo periodo e in una prospettiva di interesse collettivo. Tutto ciò è reso possibile dall’apparato pianificatorio costruito negli ultimi sessant’anni ed è incorporato nei sistemi di regolazione.
In una ricerca condotta nel Veneto nel 2007 assieme a Alessandra Gattei, Endri Orlandin e Maria Pia Robbe dal titolo “Dalla legge regionale 61/1985 alla nuova legge sul governo del territorio 11/2004: elementi per una valutazione dei processi di pianificazione” sono emersi spunti che fanno riflettere. La ricerca, condotta presso il Dipartimento di pianificazione all’interno di una convenzione per il monitoraggio delle varianti nel periodo di transizione tra le due leggi urbanistiche, ha sperimentato una procedura di analisi del consumo di suolo direttamente alla fonte, dal lato dell’offerta, quindi dove ‘batte’ la pianificazione con i suoi strumenti e le sue regole. Non si sono utilizzate mappe o rappresentazioni, importanti in prospettiva temporale, ma a volte poco efficaci per interpretare il rapporto densificazione-espansione. La procedura seguita va direttamente alla fonte e contabilizza le destinazioni urbanistiche documentate dal modello di monitoraggio delle varianti sottoposte al parere della Regione. Sono state misurate le trasformazioni avvenute nel tessuto urbanizzato e in territorio non edificato dall’entrata in vigore della legge 11/2004 al 31 luglio 2007: il periodo va dal 28/4/2004 al 31/7/2007.
I dati estratti da un campione significativo su un universo di 4000 varianti consentono di stimare il consumo di suolo nel periodo considerato. Si tratta di circa 3000 ettari per le 2000 varianti sottoposte a parere. Per le varianti semplici e a sportello unico non si dispone di dati precisi e per questa ragione si sono fatte due ipotesi, una di minima e una di massima. Sulla base di parametri specifici, la prima assume che le varianti abbiano un peso equivalente (un terzo rispetto al totale delle varianti considerate, corrispondenti a circa 1000 ettari); la seconda assume che pesino per la metà (1500 ettari circa). La stima di consumo di suolo complessiva oscilla, quindi, fra 4000 e 4500 ettari.
Il risultato può essere proiettato nel periodo di stima, tenendo conto della fase precedente l’applicazione della legge 11. L’andamento degli strumenti adottati nel periodo che precede la legge registra una forte impennata a partire dal 1998, una sorta di anticipazione, uno ‘sconto’ sulle opportunità che, secondo i più ottimisti, la nuova legge avrebbe eliminato. Sfortunatamente, questa anticipazione è stata la sperimentazione reale della nuova legge urbanistica regionale, certamente più densa e ‘strategica’ delle discutibili esperienze sui piani di struttura.
Nel 1998 non si raggiungono i livelli del periodo successivo, ma se si considera che l’intervallo è più lungo (gennaio 2000-aprile 2004) si può tentare una stima verosimile di consumo di suolo. Nel periodo 2000-2007 si stima che siano stati consumati dagli 8000 ai 9000 ettari. Ricordando che la disponibilità di suolo trasformabile prevista dalla legge 11 è di 9358 ettari nel decennio 2000-2010, si può facilmente intuire come il fenomeno delle varianti nel periodo ponte abbia pressoché esaurito la disponibilità del nuovo ciclo di pianificazione inaugurato da Pat e Pati.
Gli interventi a variante sono generalmente sparsi, senza una visione di insieme, con strategie private di valorizzazione, assunti come ‘dati’ nei quadri conoscitivi e nei nuovi schemi strutturali. A rendere la situazione ancor più critica è la riapertura dei termini. In data 12/7/2008 il Consiglio regionale del Veneto ha approvato un nuovo testo di modifica alla legge 11 che riapre i termini per la presentazione di ulteriori varianti, semplici e a sportello unico, ai sensi della precedente legge urbanistica. Ciò annuncia un nuovo ‘massimo’ con effetti disastrosi per il territorio e l’ambiente anche in zone meno compromesse, come quelle collinari della ‘città del pedemonte’. Le previsioni dei nuovi Pat e Pati, che nei prossimi anni in numero considerevole concluderanno l’iter di approvazione, si andranno a sommare a quanto trasformato o reso trasformabile dalle varianti, rischiando di vanificare ogni ipotesi di contenimento di consumo di suolo e di riqualificazione dell’esistente che la legge 11 riconosce tra i suoi principi generali.
Lo stato in cui si trova il territorio regionale e le condizioni operative della stessa pianificazione motiverebbero l’avvio di un periodo decennale di moratoria, eccezionale sospensione del corso dei termini per l’adempimento delle obbligazioni di piano riconoscendo che la distruzione del territorio è assimilabile a pubblica calamità. In questo periodo tutti i nuovi strumenti urbanistici potrebbero essere calibrati sul parametro ‘consumo nullo di suolo aggiuntivo’ e ridisegnate le armature ambientali, infrastrutturali e storico-culturali per aree vaste o per i 39 ambiti di paesaggio riconosciuti dal nuovo Ptrc (2008-9). Valutazioni in contesti locali dimostrano come moratoria e ‘consumo zero’ non producano effetti depressivi sul ciclo edilizio, ma lo qualifichino in modo più integrato con il ciclo economico generale, la spesa pubblica e la fiscalità locale.
A questo punto ritorna con maggiore pertinenza il quesito: cosa significa che i poteri pubblici ‘tirano i remi in barca’ quando la situazione evidenzia come gli strumenti di pianificazione del territorio e gli strumenti di pianificazione urbanistica risultano così sovra esposti a pressioni edificatorie? In realtà, i poteri pubblici non tirano affatto i remi in barca, ma si comportano spesso da vettori privilegiati e diffusi dei processi di edificazione con intuibili effetti su paesaggio, ambiente ed economia.
Con queste brevi notazioni credo di aver interpretato almeno lo spirito della giornata, offrendo la disponibilità della Facoltà di pianificazione a svolgere con chi presidia il territorio (e ne ha cura) attività di analisi e studio. E’ con queste osservazioni continue che si riesce a capire come funzionano i meccanismi reali, quali siano i limiti e le responsabilità della pianificazione e come si possono costruire dispositivi di risposta più attenti alla tutela e alla giustizia.
Questo Convegno fa seguito al Forum sociale europeo che si è tenuto a Malmö nel settembre scorso. Quest’anno alcune organizzazioni della CGIL hanno promosso, insieme a eddyburg e all’associazione ZONE onlus, due incontri di lavoro sul tema del diritto alla città e della Città come Bene Comune. In quella sede, insieme a un gruppo di associazioni internazionali e di vari paesi europei, si è deciso di avviare la costituzione di un Forum permanente sui problemi della città e del territorio, della casa e degli altri aspetti delle politiche urbane e territoriali. È stato elaborato un documento (che è in distribuzione) e si sono decise alcune iniziative comuni. La prima scadenza comune che si è decisa è quella nell’ambito della quale si pone questo convegno. Si è deciso infatti di organizzare, in concomitanza con l’incontro dei ministri degli Stati Europei che si tiene a partire da oggi a Marsiglia, una serie di iniziative – dovunque sia possibile organizzarle – dedicate ad affrontare i temi di cui oggi discuteremo insieme.
I Ministri che si riuniscono a Marsiglia (cito dal comunicato dell’Unione europea) sono quelli “preposti alle politiche abitative e urbane e allo sviluppo urbano, alla pianificazione territoriale e alla politica di coesione”. L’obiettivo è “individuare i possibili contatti territoriali da creare tra le azioni portate avanti dagli enti locali, dagli Stati e dall'Unione europea. I ministri discuteranno concretamente tanto della componente sociale e ambientale quanto di quella urbana e regionale. L'obiettivo annunciato è quello di stimolare e rafforzare il lavoro trasversale sulle politiche settoriali il cui coordinamento sul territorio è indispensabile allo sviluppo sostenibile e all'inclusione sociale”.
In tutte le città d’Europa la fase del neoliberalismo ha innescato processi di mercificazione e privatizzazione del territorio e della città, aggravando i problemi sociali: quelli legati alla segregazione ed emarginazione delle fasce più deboli della popolazione (a partire dagli immigrati), alla riduzione dei livelli raggiunti dal welfare urbano (a partire dal problema della casa), alla privatizzazione di tutto quello che è in grado di produrre rendita ai poteri economici (dai trasporti ai servizi).
Tutto ciò ha provocato e sta provocando tensioni sociali e reazioni di difesa e resistenza in moltissime aree di tutti i paesi europei. Si tratta il più delle volte di movimenti e lotte locali, prevalentemente legati agli sfratti e alla privatizzazione degli spazi pubblici. Queste azioni incontrano forti difficoltà a raggiungere risultati positivi anche perché la loro debolezza e il loro localismo devono affrontare strategie e poteri che sono sovranazionali, globali.
Esse, del resto, raramente trovano sponde efficaci nei partiti politici: questi, soprattutto nel nostro paese, hanno abbandonato da tempo una azione seria e strategica nel campo delle politiche urbane. Anzi, in Italia si è demolito giorno per giorno, spesso in una logica bipartisan, quelle riforme che erano state raggiunte nel decennio che ha fatto seguito al grande sciopero generale per la casa, la città, i servizi e i trasporti del 19 novembre 1969, indetto dai sindacati dei lavoratori.
Da qui il tentativo di costruire, a partire dai movimenti nella società e dalle crescenti esigenze di fasce sempre più estese della popolazione, delle alternative. Un’altra città è possibile. Una città nella quale si realizzi il principio del diritto alla città, del diritto all’uso aperto e libero degli spazi pubblici, all’uso di una casa a prezzi commisurati al reddito, a un ambiente sano e piacevole, all’assenza di recinti, segregazioni, ghettizzazioni, ad un sistema locale di welfare universale.
Questi temi e questi obiettivi sono da tempo all’attenzione della rete delle Camere del Lavoro. Come la maggior parte di voi sa, le Camere del Lavoro sono le strutture della CGIL confederali e territoriali. Sono le strutture che uniscono gli interessi e le lotte delle diverse categorie (delle diverse federazioni) che hanno sede in un determinato territorio. Sono insomma le cerniere tra gli interessi dei lavoratori (di tutti i lavoratori) e il territorio. Questioni come la casa, i trasporti, i servizi pubblici, la sanità, la qualità dell’ambiente e della vita sono questioni che interessano in modo vitale i lavoratori, e che possono essere comprese e affrontate solo affrontando i problemi del governo del territorio nel suo insieme collegando gli interessi specifici dei lavoratori in quanto tali con quelli di tutti i cittadini – anzi, di tutti gli abitanti che vivono e lavorano in un determinato ambito territoriale.
Perciò la decisione di organizzare questo convegno, che consideriamo una tappa del nostro lavoro. Di un lavoro che, come rete delle Camere del lavoro abbiamo iniziato nel 2004 con un seminario per riflettere su questo nostro maggiore impegno nelle politiche urbane e territoriali. Abbiamo proseguito, come vi ho detto, partecipando attivamente al Forum sociale europeo di Malmö. Proseguiremo nei prossimi mesi con altre iniziative di approfondimento e di azioni nella società.
Nella giornata di oggi abbiamo articolato gli interventi in tre sessioni. Nella prima Salzano e Mancini presenteranno le tematiche generali così come sono emerse nel Forum di Malmö. Poi quattro interventi di esperti illustreranno altrettanti argomenti di merito, centrali per l’attuale condizione della città: non si tratta di tutte le questioni che ci stanno a cuore ma – come ho detto – consideriamo questa una prima tappa di un lavoro che svilupperemo. Nella terza sessione i rappresentanti delle Camere del lavoro che hanno aderito a questa iniziativa esporranno le loro esperienze ed esigenze. Se tutti rispetteranno i tempi stabiliti alla fine avremo la possibilità di un buon dibattito.
Ringrazio fin d’ora tutti i partecipanti, a cominciare dal preside della facoltà di Pianificazione del territorio, il prof. Patassini che ci ha messo a disposizione questa sede per i nostri lavori.
Nella cultura e nella storia del movimento operaio quello che oggi decliniamo con il termine di “bene comune” è stato sempre reso con quello di “interesse generale”. C’è sempre stata, infatti,una certa diffidenza nel far proprio tale termine, ritenuto più affine alla cultura del solidarismo cattolico, in quanto non includente, apparentemente, la polarizzazione sociale derivante dal conflitto fra le classi.
È stato merito del movimento altermondista l’aver riscoperto e disvelato la carica e la portata rivoluzionaria del termine, che è diventato l’emblema e il programma di grandi movimenti globali per la difesa dei beni comuni e dell’acqua in particolare, e che ha pervaso anche i movimenti nati nell’occidente per la difesa di diritti e beni sociali fondamentali (acqua, salute, istruzione, servizi pubblici, ambiente, ecc.) contro le striscianti e incombenti privatizzazioni che caratterizzano l’economia della globalizzazione.
Oggi il termine “ beni comuni “è quasi di normale uso nel linguaggio sindacale e politico. Anzi c’è il rischio di un suo uso mistificatorio e manipolatorio per assorbirne, svuotandola, la sua carica innovativa e rivoluzionaria. Ci sono poi politici ed amministratori che usano il termine per legittimare pratiche tutt’altro che coerenti e orientate alla difesa del bene comune.
È questo il caso del destino che vivono le nostre città, divenute spesso anche nelle mani di amministratori di centro-sinistra, teatro di operazioni che hanno sconvolto il loro assetto urbano, sociale, ecologico, con qualche sottovalutazione dei loro effetti anche da parte del movimento operaio e sindacale: la crescita, anche edilizia, delle città è stata vista, in qualche caso, come occasione di sviluppo e quindi apportatore ( effimero) di benessere, di ricchezza e di occasioni di lavoro. Una maggiore consapevolezza critica dello “sviluppo“ è senz’altro maturata negli ultimi tempi nel movimento sindacale. Il fatto stesso che siamo in grado di riunirci a convegno fra importanti camere del lavoro della Cgil per discutere sulla idea di città come bene comune, ci racconta di quanti passi si siano fatti nell’abbandono di una visione economicista della città. Ed è, questa, una consapevolezza che travalica i confini del nostro paese e investe in qualche modo una preoccupazione più generale sul futuro e sul destino delle città, in Europa e nel mondo.
Il modello dello sprawl urbano, imperante negli anni del liberismo più sfrenato, viene oggi sottoposto a rivisitazione critica nella progettazione urbana delle grandi città europee. Contro i suoi alti costi, viene oggi privilegiato un modello urbano fondato sul contenimento del consumo di suolo, sul riuso, sulla cooperazione di area vasta tra comuni e sulla guida delle istituzioni pubbliche, in alternativa alla deregulation urbanistica che aveva imperversato nei decenni precedenti.
La Cgil di Roma e del Lazio ha iniziato un processo di riflessione sulle trasformazioni dell’area metropolitana romana e sulle contraddizioni in essa emergenti, per porle al centro di una rinnovata funzione di rappresentanza sociale del sindacato confederale.
La Conferenza sulle periferie nella città metropolitana del gennaio scorso ha indagato in particolare su come le trasformazioni produttive e del mercato del lavoro romano hanno inciso nella nuova configurazione urbana e sulla “diffusione” della città nel territorio; sul rapporto tra rendita finanziaria, immobiliare ed espansione urbana; su quello tra processi di valorizzazione immobiliare, crisi alloggiativa e caro-fitti; sulla trasformazione multietnica della città, sulle politiche di accoglienza degli immigrati e sui conflitti che provocano con le popolazioni residenti; sulle pratiche partecipative dei cittadini e sul governo di prossimità. Ha in sostanza messo i riflettori su quello che è stato definito come “ modello Roma”, svelandone le contraddizioni, i meccanismi di sviluppo, le profonde disuguaglianze sociali e le tante forme di emarginazione e di disagio urbano di cui era portatore o a cui non aveva saputo dare risposte.
Il risultato delle ultime elezioni a Roma ha consegnato la sua amministrazione per la prima volta dal dopoguerra alle destre. Ed è stato decisivo il voto popolare delle sue periferie più estreme, delle nuove periferie periurbane. Le cause di questa disfatta risiedono, infatti, nel disagio e nel malessere sociale ed urbano crescenti, rimasti senza risposte. I consensi e i voti alle forze del centro sinistra diminuivano, infatti, in proporzione allo distanza dal centro della città. Perché ?
La città di Roma ha visto, come tutti sanno, negli ultimi anni una forte crescita della sua economia. Lo vediamo nei dati della crescita del PIL, della ricchezza pro-capite, e della movimentazione turistica nazionale e internazionale. Ma il motore di questo sviluppo conosciuto come “Modello Roma” è stato trainato dalla valorizzazione finanziaria, immobiliare, turistica del centro storico e dal settore delle costruzioni attraverso l’espansione della città nell’Agro romano e nel territorio metropolitano. Ed stata la rendita finanziaria, intrecciata con quella immobiliare, a guidare e a ridisegnare la nuova composizione sociale e urbana della città. I valori immobiliari nella città sono cresciuti a dismisura ( + 10% annui dal 2001 al 2007), in particolare nel centro storico, accentuando così il fenomeno della fuga degli abitanti verso le periferie, e dalla città verso i comuni più esterni, a costi più contenuti.
Dal 1991 al 2007 la popolazione residente nella città è passata da 2.733.908 a 2.705.603, quella della provincia da 3.695.961 a 4.013.057. Nel periodo, oltre 200.000 romani circa si sono trasferiti dalla città consolidata verso le periferie più estreme e verso i comuni dell’hinterland provinciale.
Il nuovo PRG di recente approvato prevede nuove edificazioni per complessivi almeno 70 milioni di m3 da spalmare nelle 18 nuove centralità urbane e metropolitana previste. Le cosiddette nuove centralità sono in realtà prive di una funzione strategica nel modello policentrico di sviluppo previsto per la città, come fu in qualche modo l’idea irrealizzata del defunto progetto SDO ( Sistema Direzionale Orientale); ma si rivelano essere in realtà nuovi poli di espansione urbana nelle nuove periferie e di consumo di suolo intorno a grandi centri commerciali, incentivando così un modello diffusivo di sviluppo della città oltre il GRA, con nuove periferie fatte di quartieri-dormitorio, privi o carenti di servizi pubblici e privati fondamentali, scarsamente o per nulla serviti da reti di trasporto pubblico.
Nel frattempo a Roma si contavano, nel 2005, 249.000 abitazioni in più rispetto al numero delle famiglie (erano 199.000 nel 2001). Il rincaro medio dei prezzi di vendita tra il 2001 e il 2006 è stato del 44,1%, quelle degli affitti del 73,8%. I costi di locazione hanno raggiunto nel 2006 un canone medio di 195 euro a mq.: in sei anni è quasi raddoppiato. L’incidenza del canone su un reddito familiare di 30.000 euro annui in una periferia si stima essere mediamente del 37%, in presenza di estesi processi di svalorizzazione del lavoro e di crescita della diseguaglianza sociale.
Negli ultimi anni (dati UBS) la retribuzione oraria lorda di un lavoratore a Roma è ormai quasi ultima nell’Europa a 15, al livello della Grecia. La crescita delle retribuzioni si è concentrata nel settore immobiliare e dell’intermediazione finanziaria, fra professionisti e consulenti, costruttori e immobiliaristi. Il lavoro dipendente ne è rimasto invece escluso.
I dati annuali dell’associazione italiana Private Banking collocano Roma e il Lazio al secondo posto in Italia per la presenza di famiglie Super Ricche, dopo la Lombardia, con un patrimonio di almeno 500.000 Euro, escluso il patrimonio immobiliare. Ovviamente Roma ne è la maggiore beneficiaria, portandola così ad essere la città più diseguale d’Italia nella distribuzione del reddito, di cui sono vittime in particolare le donne, i giovani, e l’esercito dei lavatori poveri del terziario e dei servizi, in gran parte precari e a part-time involontario.
Le nuove forme del disagio sociale e urbano richiedono nuove politiche e, soprattutto, un nuovo orientamento anche da parte del movimento operaio e sindacale. Occorre intervenire sulla qualità dello sviluppo locale e territoriale.
Ciò implica la necessità di misurarsi con nuove ed inedite forme di rappresentanza che leghi la rappresentanza del lavoro al territorio e a quella per un modello condiviso di sviluppo urbano; unifichi la rappresentanza del lavoro standard col disagio sociale e la precarietà del lavoro, in particolare, nelle grandi aree urbane, relazionandosi con le tante forme di resistenza civica e sociale che sono cresciute in questi anni nelle nostre città.
Si diffondono sempre più, infatti, anche nei quartieri più periferici di una città come Roma, movimenti di reti e associazioni civiche che si battono contro l’inurbamento ingiustificato e la cementificazione del territorio, per una mobilità sostenibile, per diffondere una cultura e una pratica della solidarietà per i più deboli, per il diritto all’abitare, per affermare un controllo democratico e partecipato sull’uso del territorio e degli spazi pubblici nelle trasformazioni urbane. Nel corso delle ultime due consiliature oltre 90 mila cittadini hanno sottoscritto undici delibere d'iniziativa popolare, testimonianza della volontà dei cittadini di essere protagonisti delle scelte che riguardano il governo del proprio territorio.
Urge quindi anche una riforma e un rinnovamento nella sfera della nostra rappresentanza e della decisione politica. La rappresentanza sociale del lavoro deve integrarsi a livello territoriale con la rappresentanza delle comunità locali ed assumere il paradigma del bene comune con cui declinare la propria funzione nella difesa e promozione dei beni pubblici fondamentali e dei diritti di cittadinanza, nella difesa del territorio e della vivibilità urbana, nel farsi promotore di una economia sostenibile e di una città solidale .
Credo che la nuova confederalità di cui parliamo e la nuova dimensione territoriale che deve assumere l’iniziativa del sindacato e della Cgil, deve fare i conti con il problema della sua rappresentatività sociale oltre gli steccati del lavoro classico di tipo fordista .
La contrattazione territoriale deve assumere il paradigma della città come bene comune. Ciò implica anche che le nostre cdlt devono diventare più rappresentative nei confronti delle comunità locali, rafforzando il loro rapporto col territorio e i cittadini. È ciò che la Cgil di Roma si propone di fare attraverso una vertenzialità diffusa da promuovere in tutte le articolazioni del suo vasto territorio metropolitano per dare voce e rappresentanza al disagio e alle contraddizioni emergenti, aprendosi alla partecipazione delle comunità locali e delle reti sociali e civiche presenti. Così come ci proponiamo di lanciare una grande vertenza sulla politica dell’abitare che dia risposte alla domande diverse di uso della città e di inclusione sociale attraverso un grande programma di edilizia pubblica e popolare che faccia perno sul riuso delle aree pubbliche dismesse e sulla riqualificazione e rifunzionalizzazione del patrimonio immobiliare esistente, senza un ulteriore consumo di suolo nella campagna romana. Ciò implica fare del decentramento dei poteri e della rappresentanza lo strumento per una politica che promuova la partecipazione dei cittadini e delle forze sociali al governo democratico del territorio, per affermare un’idea di sviluppo della città fondata sull’economia solidale, sulla valorizzazione delle risorse e delle culture locali, sulla difesa e la promozione dei beni comuni, nonché sulle funzioni di eccellenza legata ai poli della ricerca di cui è ricca la città, capaci di inverare un vero policentrismo urbano e metropolitano.
Non c’è idea ri-fondativa della città se non sostenuta da una idea di pianificazione urbanistica contro la deregulation liberista che ha imperversato in questi anni. Non c’è città senza cultura e pratica della solidarietà, senza un ideale di comunità, nutrito anche dei valori del lavoro e della storia del movimento operaio e sindacale.
Mauro Alboresi
Proporre un’idea alta di pianificazione del territorio
Credo si possa affermare che abbiamo dato vita ad un confronto importante, fecondo.
Abbiamo evidenziato i contenuti del 5° Social Forum Europeo tenutosi a Malmoe lo scorso mese di settembre, sottolineato il comune obiettivo di “cambiare l'Europa”, di affermare cioè un processo di Unione Europea basato innanzitutto su di una dimensione sociale condivisa, senza la quale, perdurando un approccio essenzialmente economico/finanziario, lo stesso è destinato a rifluire, ad essere messo in discussione.
Credo possibile esprimere soddisfazione per come siamo stati parte attiva al Forum relativamente a temi “centrali” per la dimensione sociale che perseguiamo, per come abbiamo cercato, cerchiamo di dare continuità alla nostra azione, anche trovandoci oggi in concomitanza con l'incontro internazionale di Marsiglia, per la dimensione operativa quotidiana alla quale tendiamo. Siamo consapevoli che nel porre la questione della “città come bene comune”, come parte, appunto, di una vertenza sociale europea, affrontiamo un tema cruciale, diversamente articolato, nei diversi Paesi ed all'interno di essi.
L'analisi che facciamo ci dice molto delle differenze e delle difficoltà in campo, di una crescente spinta, anche e soprattutto “dal basso”, a contrastare molti dei processi in atto, a rivendicare risposte alternative ai tanti problemi presenti. Abbiamo parlato, parliamo del quanto la “deriva” liberista abbia permeato, permei le politiche che attengono al territorio, al suo governo, al suo sviluppo, alle condizioni dei suoi abitanti. Sottolineiamo che, oggi, può aprirsi una nuova fase, conseguente anche alla messa in discussione dell'ideologia liberista. Anche e soprattutto in conseguenza della crisi del capitalismo finanziario globalizzato si riprende a parlare di quale ruolo dello Stato, a partire dalla economia.
Lo Stato nelle sue articolazioni, “il pubblico” deve, può riprendersi (le situazioni sono assai diverse) il governo del territorio, della città. Il “pubblico” deve proporsi di incidere sempre più nei processi, non in nome di un vago interesse generale, quanto nella convinzione che è innanzitutto un progetto che assume la centralità della persona, i diritti di cittadinanza, il bene collettivo come proprio riferimento che va perseguito.
Per ciò, per definire proposte coerenti, adeguate, occorre avanzare una idea alta di pianificazione del territorio, del tessuto urbano, e per questa via è possibile e necessario promuovere una reale partecipazione democratica alla determinazione dei processi. Abbiamo parlato di politiche di sviluppo sostenibile, di trasporto pubblico, di politiche abitative, di integrazione, di sistema di welfare (in termini generali e correlati al territorio), sostenendo giustamente che tutto questo deve essere tenuto assieme, che tutto questo deve, può produrre quella coesione sociale che in tante nostre esperienze (abbiamo addirittura potuto parlare di “modelli) si è dimostrata necessaria, funzionale allo sviluppo qualificato del territorio, del Paese.
Ci siamo spinti, opportunamente, a prospettare soluzioni di merito alternative ed evidenziamo come sia opportuno ricercare e praticare, al fine della loro affermazione, relazioni, sinergie, alleanze con chi, condividendo le necessità sottolineate, è in campo. Non siamo, non possiamo essere autosufficienti.
La contrattazione confederale territoriale
Si inserisce in questo contesto l'azione che diverse Camere del Lavoro, tra i soggetti promotori della odierna iniziativa, sviluppano con sempre maggiore determinazione da alcuni anni e che chiamiamo contrattazione confederale territoriale. Una esperienza importante che, come sottolineato, ha l'obiettivo di tutelare i diritti ed i redditi dei lavoratori, dei pensionati, della parte più debole della popolazione e, più in generale, di garantire loro una sempre maggiore qualità di vita.
Non casualmente tra i principali temi oggetto della contrattazione confederale territoriale vi sono l'assetto, lo sviluppo, la qualificazione del territorio. Si tratta di una contrattazione che ha come interlocutori diversi livelli istituzionali, nonché vari soggetti di rappresentanza sociale, quali, ad esempio, le associazioni datoriali, alle quali chiediamo responsabilità sociale. Tale contrattazione, come sottolineato, va per noi sempre più intrecciata con quella che si sviluppa nei luoghi di lavoro.
Per quanto ci riguarda, infatti, ai fini della tutela delle condizioni dei soggetti che puntiamo a rappresentare, ciò è sempre più necessario. Occorre comprendere e far comprendere che non può esservi un prima ed un dopo, una disgiunzione, che tutto ciò non può che relazionarsi strettamente, è interconnesso.
Altrettanto significative sono le esperienze concrete con le quali si misurano gli altri soggetti oggi presenti. L'idea di uno sviluppo territoriale diverso, di uno sviluppo urbano che assume la “città come bene comune”, come dimostrato, non è una idea astratta, bensì una idea che poggia su solide basi, che innanzitutto parte da quei bisogni, da quella dimensione sociale che si avverte come necessaria.
Molte sono le proposte emerse, proposte concrete, che per tanta parte è opportuno proporci di calare, debitamente, nei diversi contesti della nostra azione, chiamando innanzitutto il pubblico, le sue articolazioni, la politica a misurarsi con esse. Sono molti oggi, almeno nella nostra articolata esperienza italiana, gli strumenti, gli atti pianificatori agiti, agibili. Anche oggi ci siamo detti che, spesso, si ha la sensazione che tra loro si rincorrano, si sovrappongano, anziché integrarsi. Abbiamo sottolineato che, spesso, la loro gestione politica è di breve respiro (giocata nel breve lasso di tempo del mandato amministrativo), che lì si vive in maniera non adeguata, non realmente funzionale agli obiettivi dichiarati, spesso piegandoli al contingente, ad una ricerca, a volte spasmodica, del consenso di tutti nel nome del presunto “interesse generale”, finendo con l'allontanare, col procrastinare le soluzioni dichiarate necessarie, possibili.
Qualificare la pianificazione, gli strumenti, le relazioni funzionali a ciò, è sicuramente tra gli obiettivi che sottolineiamo, che ci proponiamo. Qualcosa è stato fatto, molto resta da fare. Quella che noi perseguiamo non è una mera operazione di ingegneria istituzionale, che somma diverse realtà, bensì un processo condiviso, partecipato di riassetto, di riequilibrio delle competenze, che rilanci, consolidi le autonomie locali, la rappresentanza dei cittadini.
La città non è un luogo da usare, ma da vivere
Per noi la città non è un luogo da usare, ma da vivere. Siamo per contrastare processi nei quali le separatezze, con il loro inevitabile carico di potenziali conflittualità, crescono quanto più sono diversi e divisi i luoghi ed i tempi della vita, del lavoro, delle relazioni.
Rivendichiamo nuovi scenari e nuove politiche, aventi l'obiettivo di riattrarre cittadini, di non spingerli verso la periferia, la provincia e che, quindi, ricerchino un diverso equilibrio nell'assetto urbanistico tra alloggi, servizi, insediamenti produttivi e commerciali, spazi comuni, in un'ottica che miri a ricucire le fratture presenti nel territorio.
Diciamo basta alla corsa ad una edificazione che sta letteralmente distruggendo ogni spazio utile, che tutto soffoca ed abbruttisce, senza portare alcun miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini con minori possibilità (e sono sempre di più) ma, anzi, peggiorandole sensibilmente.
Ciò che sta alla base della nostra azione, dell'azione che ci proponiamo di qualificare è la città a misura delle persone, dell'ambiente, una città della politica partecipata, degli scambi, ossia una città ove le scelte nascono perseguendo tali obiettivi,in altre parole “una città come bene comune”.
Dare continuità alla nostra azione è quindi un obiettivo, soprattutto una necessità, tutti abbiamo sottolineato, sottolineiamo che un buon punto di partenza è consolidare, ampliare il più possibile questo nostro confronto, questo nostro stare assieme che, come auspicavamo, ha dato molte risposte.
Edoardo Salzano
Una cerniera tra il lavoro e il territorio
Le basi del lavoro gettate dal primo gruppo di relazioni (quelle di Somma, Baioni, Marson, Gibelli) sono state davvero utili. Gli interventi delle Camere del lavoro si sono tutti riferiti ai temi trattati, sottolineandone questo o quell’altro aspetto sulle base delle concrete esperienze di lavoro. Ringraziamo tutti gli amici che le hanno svolte e hanno lasciato un materiale utile ai partecipanti, e non solo a loro. Mi sembra che in questo senso il nostro convegno sia stato un caso positivo di applicazione di un corretto rapporto tra pensiero e azione, tra competenze culturali e intervento sociale: due realtà che rimangono sterili se sono separate.
Per me è stata particolarmente interessante la serie degli interventi delle Camere del lavoro, perché mi hanno dimostrato quali frutti stia cominciando a dare il lavoro avviato dalla CGIL nel 2006, con l’iniziativa del seminario a Montesole. E mi sembra che dagli interventi siano venute indicazioni sul lavoro da fare: sulle difficoltà incontrate, su nuove esperienze di coinvolgimento dei lavoratori e degli altri cittadini e abitanti per esplorare varie facce dell’organizzazione del territorio, sui conflitti e sui modi di gestirli. Far comunicare tra loro queste esperienze mi sembra un risultato molto utile di incontri come questo.
Naturalmente – e questo lo sapevamo in partenza – non abbiamo affrontato tutti gli argomenti che si pongono. E ce n’è uno che è emerso dal dibattito e sul quale vorrei brevemente soffermarmi. É un tema importante, è un anello necessario nelle trasformazioni del territorio, quelle negative come quelle positive: le Imprese. Evocava il tema Alboresi, nel suo intervento di stamattina, quando parlava della necessità di “coinvolgere le associazioni d’imprese”; e vi accennava Pivanti, quando criticava il ruolo della cooperazione nella contrattazione delle scelte urbanistiche.
Salario, profitto, rendita
Mi veniva in mente un episodio significativo di molti anni fa. Roma, 1970, il sindaco Luigi Petroselli costruì un trasparente accordo con le imprese edilizie della capitale, che accettarono – per dirla schematicamente – di abbandonare la rendita per puntare solo al profitto. Accettarono di impegnarsi in una grande operazione di costruzione di edilizia pubblica e sociale lavorando sulle aree del Peep, previamente espropriate. Erano anni molto diversi da quelli di oggi. Allora erano i fratelli Agnelli, Gianni e Umberto, padroni della Fiat e di molto altro, che dichiararono che occorreva combattere la rendita fondiaria. Avevano compreso che la rendita è letale per la città e anche per il profitto d’impresa, aumenta il prezzo della casa, accresce la congestione, incide sul costo della vita dei lavoratori e quindi sollecita fortemente le rivendicazioni salariali: se il salario spinge e devo cedere qualcosa, per non ridurre il profitto devo spingere a ridurre la rendita.
Tempi molto lontani dai nostri. Allora nella sinistra (e non solo) la distinzione tra salario, profitto, rendita era ben chiaro. Così il carattere parassitario della terza componente del reddito, e quindi la necessità di contenerla e ridurne gli effetti. La rendita non può essere eliminata da ciclo economico, dicono gli economisti. Ma può essere ridotta o accresciuta dalle politiche urbanistiche, e si può ottenere che una parte consistente di essa torni alla collettività – le cui decisioni e i cui investimenti la generano. Oggi, anziché proporsi di combattere l’appropriazione privata della rendita e ridurne il peso, la si considera (da parte di tutte le forze politiche dalla destra al centro ex sinistra) come un “motore dello sviluppo”. Ma la tendenza si può invertire, i danni del “briglia sciolta agli immobiliaristi” sono ormai evidenti.
La questione delle risorse
Collegato a questo tema ce n’è un altro che è stato evocato: la questione delle risorse. Ragionare sulle risorse è certamente necessario. Ma io non accetto che si dica “non possiamo fare i Peep, non possiamo espropriare le aree perché non ci sono risorse”. Non è vero. Le risorse ci sono per salvare le banche (e la cosa può avere una sua ragionevolezza), per realizzare opere inutili o assolutamente non prioritarie (pensiamo al ponte sullo stretto di Messina a livello nazionale, e al veneziano ponte di Calatrava a livello locale). Non è ammissibile che non ci siano per acquisire le aree necessarie per l’edilizia pubblica.
Ma veniamo al punto più importante delle conclusioni di un evento come questo bellissimo convegno (e ringrazio ancora molto tutti quelli che sono intervenuti, e la Camera del lavoro di Venezia che lo ha organizzato). Mi sembra che siano emersi temi da approfondire, con successive iniziative analoghe a questa, e azioni che si possono condurre.
I temi.
Oscar Mancini proponeva di lavorare nell’immediato, con ulteriori iniziative germinate da questo incontro, su due argomenti:
1. La casa, che è indubbiamente – oltre che un’emergenza – un nodo rilevante di quel complesso di temi che stanno all’interno di quello del diritto alla città. Quasi tutti gli interventi lo hanno ripreso, avanzando anche proposte interessanti (come quella di rilanciare la cooperazione a proprietà indivisa, come ricordava Pivanti). Nell’approfondire la questione abitativa, come qualsiasi altra questione, continueremo a non perdere di vista l’unitarietà delle questione urbana e delle politiche necessarie per ciascun suo aspetto.
2. I servizi pubblici, questione sollevata tra gli altri da Guietti, che costituisce un aspetto generalmente trascurato delle politiche urbane, e che invece è un tema centrale se si vuole che la città non sia una merce e che l’uguaglianze di tutti gli abitanti sia un requisito fondamentale da raggiungere. La battaglia contro la privatizzazione dell’acqua coglie uno dei settori che si vogliono sottrarre alle regole dei beni comuni, ma non è l’unico.
Le azioni.
Mi sembra che dagli interventi delle Camere del lavoro siano emerse esperienze di grande interesse, tutte ispirate a una visione nuova del sindacato. Un sindacato che si costituisce come cerniera tra il lavoro e gli abitanti della città e del territorio (Chiloiro). Un sindacato che utilizza i Consigli di zona e la Lega dei pensionati per conoscere il territorio, spiegarlo ai suoi abitanti, agire, mobilitare su di esso, senza timore di affrontare i temi caldi del rapporto tra popolazione indigena e immigrati (Pivanti, Alberini). Un sindacato che pretende di discutere i bilanci comunali e che si attrezza per spiegare ai cittadine quale truffa i governanti compiono quando fanno credere di regalare un nuovo ospedale e nascondono il prezzo che i cittadini pagheranno per la sua realizzazione (Castagna). Un sindacato che sa rivendicare la necessaria coerenza delle azioni sul territorio (Alboresi) e sa che “non c’è idea rifondativa della città se non sostenuta da un’idea di pianificazione contro la deregulation urbanistica” (Castronovi). Un sindacato che perciò non chiede di discutere il piano regolatore per dire la sua su questa o quest’altra previsione (come a Carpi), ma per capire a favore di chi è fatto, per quale tipo di sviluppo è disegnato, quali interessi serve e quali colpisce: perché, come ci ricordava Patassini, non bastano l’urbanistica e la pianificazione, servono la buona urbanistica e la buona pianificazione.
E mi sembra che sia stata giustamente sottolineata dalle esperienze la funzione educativa del lavoro compiuto sul territorio. L’informazione che viene ammannita ufficialmente è deforme, travisa la verità, nasconde le cose, gli interessi, le ricadute delle proposte di governo. Occorre far capire, negli interventi proposti e praticati nella città e nel territorio, chi paga e chi guadagna, come hanno fatto a Padova. Altrimenti chi combatte la mercificazione della città rimane in minoranza. Ferron raccontava che la vicenda della lotta contro la centrale termoelettrica di Montecchio Maggiore, che ha visto la CGIL promotrice del coinvolgimento di larghi strati della popolazione: quella esperienza – diceva - ha indotto i cittadini a cambiare lo sguardo verso il territorio, haa aiutato nel necessario coimpito di superare l’atteggiamento troppo diffuso, che dal fatalismo (“non si possono cambiare le cose”), passa alla delega (“tanto decidono loro”), e poi si trasforma in uno sterile mugugno.
Il primo obiettivo, immediato, è rendere noto il lavoro che abbiamo fatto, e quello che c’è dietro, che qui è emerso: il lavoro compiuto dalla Camere del lavoro della CGIL. Cominceremo a farlo con gli atti del convegno, che Chiloiro si è impegnato a pubblicare tempestivamente (non appena tutti avranno mandato il testo del loro intervento). Del resto, la pubblicazione degli atti e la circolazione dei suoi materiali è un modo per raggiungere l’obiettivo che lui stesso proponeva. “fare della CGIL un luogo di riflessione, verifica, critica, proposta per uscire dal neoliberismo, luogo positivo per vivere la cittadinanza in tutte le sue dimensioni”.
Il modello neoliberista si manifesta, nella città e nel territorio, in gravi forme di esclusione fisica, economica e sociale che provocano disagio generalizzato e frammentazione del tessuto urbano e sociale, minando il significato stesso di città. Per reagire al suo affermarsi e al consolidarsi occorre comprendere i fenomeni in atto e gli effetti, devastanti, delle politiche urbane e territoriali di questi ultimi decenni, mettere in evidenza le contraddizioni, le conseguenze negative e le bugie del neoliberalismo.
Il neoliberismo ha ben dimostrato di saper utilizzare e sfruttare la città, il capitale collettivo della città, per mantenersi.
Ha innescato la logica della concorrenza a tutti gli ambiti possibili, e l’avvio della competizione territoriale trova manifestazioni concrete attraverso la definizione di nuove istituzioni, la sperimentazione di nuove forme di governance urbana e l’elaborazione di nuove politiche, con la partecipazione di un’ampia gamma di attori locali, precedentemente esclusi dai processi di governo. Ha allargato la sua sfera d’azione inglobando nel circolo consumistico sempre più beni comuni che diventano quindi merci e ha adattato le città all’esigenza dell’accumulazione flessibile trasformando masse di lavoratori in precari e indebolendo la solidarietà di fabbrica. Non solo, ha controllato e controlla abilmente il capitale simbolico delle città, i cui elementi diventano potenti strumenti pubblicitari per i produttori di ambienti costruiti. Più autori sostengono che le città stanno diventando gli incubatori delle maggiori strategie ideologiche attraverso cui la dominanza del neoliberismo si mantiene, mobilitando lo scenario urbano per una crescita economica orientata verso il mercato e il consumismo.
In Italia poi, in modo del tutto particolare, il neoliberalismo (che il titolo di questa sessione definisce “straccione”) sfrutta in modo accentuato tutte le rendite di posizione (a cominciare da quelle immobiliari) che una politica incompetente lascia loro mietere a dismisura, e anzi accresce con scelte urbanistiche finalizzate alla “valorizzazione” delle aree.
Le profonde e sistemiche trasformazioni in atto nel territorio e nei suoi possibili usi, molteplici e conflittuali; l’insorgere di nuove istanze e temi che nascono dall’emergere di nuovi soggetti sociali e dal presentarsi di vecchi e nuovi problemi, bisogni, contraddizioni e valori; il superamento a tutte le scale dei confini amministrativi e nazionali dei processi economici ed ambientali in atto e quindi la stretta correlazione tra svolgimenti locali e globali, tutto ciò rende questa domanda di sapere e comprensione assai complessa.
Per dare un contributo in questa direzione, abbiamo scelto alcuni temi che riteniamo oggi centrali per provare a dipanare questa complessità e dai quali possiamo partire per ricominciare a riflettere e far convergere saperi ed esperienze provenienti dai diversi campi.
Il primo contributo, di Paola Somma, affronta il problema della sconnessione e frammentazione della città contemporanea neoliberista, e chiarisce come questa caratteristica sia al tempo stesso un requisito e un effetto delle varie forme di espulsione e segregazione. Queste separazioni, fisiche e sociali nel tessuto urbano, che scaturiscono dai comportamenti individuali ma anche dalle scelte della pianificazione e delle politiche pubbliche in generale, minano il significato e l’essenza stessa della città. Gli stessi programmi di rigenerazione e riqualificazione urbana hanno trasformato o ambito a trasformare le nostre città, o parti di esse, avendo come obiettivo una migliore vivibilità, qualità, sostenibilità ed integrazione, si sono resi responsabili di produrre separazioni e discriminazioni. Da una parte coloro che ne hanno beneficiato e dall’altro coloro che da questo ipotetico miglioramento delle condizioni dell’habitat sono stati esclusi, privati, emarginati, creando profonde disuguaglianze tra i segmenti della popolazione.
La casa, è uno dei più evidenti indicatori di diseguaglianze. Sono sempre di più le persone per le quali diventa difficile trovare un alloggio ad un prezzo commensurabile alle proprie capacità di spesa. Così come crescono coloro che hanno ricorso al mutuo per l’acquisto di una casa e poi si sono trovati in enormi difficoltà nel ripagarlo. Eppure avere un’abitazione è uno dei bisogni fondamentali dell’uomo, è un caposaldo di quel diritto alla città di cui si parla sempre più spesso. Nel corso degli anni ‘60 e ‘70 le lotte dei lavoratori avevano portato a risultati importanti, a riforme significative. Il problema della casa è appunto l’oggetto del secondo contributo. Mauro Baioni ci illustrerà come siamo arrivati a questa situazione, come oggi si declina il disagio abitativo, chi colpisce e come si configura la domanda e l’offerta di abitazioni. Anche attorno a quello che non sembrerebbe un problema, ma che invece lascia in difficoltà migliaia di famiglie, giovani e immigrati con un basso reddito, circolano falsità e ingenuità, che vanno superate con dati alla mano e ragionamenti coerenti. Ma non basta. Occorre, e Baioni ci aiuterà in questo, individuare alcuni cardini su cui impostare delle politiche della casa nuove, capaci di soddisfare i bisogni di una popolazione in trasformazione e di affrontare i problemi di una città che è sempre meno in grado di ospitare tutti.
Il terzo contributo, portato da Anna Marson, è un affondo su un’area geograficamente più circoscritta, cioè quella del Veneto, ma affronta al tempo stesso una questione più ampia, che non riguarda solo la città e il suo territorio, ma il futuro della società stessa. Raramente parlando di territorio e di quali trasformazioni per il futuro si riesce ad evitare una parola come “sviluppo”. Il Veneto, e tutta l’area padana, sono interessate da una serie di trasformazioni territoriali dominati da una idea di “sviluppo” che è risultato nefasto sia per l’ambiente che per le condizioni di vita dei suoi abitanti. E per “sviluppo del territorio” si intende, ancora, continuare la costruzione di strade, autostrade, raccordi e svincoli, capannoni, case e casette, piazzali, supermercati e centri commerciali – anche quando non servono, anche quando sarebbe possibile recuperare, riutilizzare, ri-urbanizzare aree già sottratte al ciclo della natura. La domanda che le abbiamo rivolto è proprio questa: è possibile una logica diversa nel governare il territorio e programmare le sue trasformazioni?
Per concludere questa sessione abbiamo portato una questione: quello del livello di pianificazione più adeguato per affrontare problemi e politiche, quelle della casa, dei trasporti, dei servizi, che non sono governabili all’interno dei singoli comuni. Essi, infatti, interessano spazi territoriali che vanno al di là dei confini amministrativi. Eppure, gran parte delle decisioni controllabili con la pianificazione sono racchiuse negli stretti confini della pianificazione comunale. Su questo tema alcuni elementi di riflessione ci vengono dal contributo scritto di Cristina Gibelli che avete in cartella, e che in sua assenza è qui brevemente presentato da Edoardo Salzano. Verranno illustrate le ragioni dell’importanza della pianificazione di scala intermedia e le difficoltà in cui si trovano oggi la pianificazione provinciale e le provincie in Italia. Così come non mancheranno i riferimenti ad altri possibili interlocutori e strumenti, sperimentati e praticati in Europa, utili per recuperare questo importante anello nel processo di pianificazione e governo delle trasformazioni delle nostre città e territori.
Prima di dare inizio agli interventi di questa sessione vorrei sinteticamente inquadrare il percorso che ha portato la Rete delle Camere del Lavoro CGIL ad essere presente al ESF di Malmoe , ad aderire promuovere l’appello che ci ha portato a questa Conferenza.
Utilizzando la metafora teatrale di Edoardo Salzano per definire il mestiere dell’urbanista , sottolineo che si è trattato di un percorso che ha portato negli ultimi 15 anni, con modalità diverse, molte Camere del Lavoro e Strutture Regionali della CGIL a trasformarsi da spettatori imbarazzati occasionalmente coinvolti sul palco/territorio ad uno dei soggetti che compartecipa alla realizzazione del progetto teatrale/territoriale che assieme a tanti altri dovrebbero trovare nell’urbanista il regista/coordinatore.
Si può datare l'inizio di questa esperienza alla fine degli anni novanta dopo la chiusura dell’esperienza dei grandi partiti storici italiani e della loro funzione di rappresentanza e mediazione sociale nazionale e territoriale.
Non dimentichiamoci che le scelte di politica sociale ed economica che ci hanno portato nell’area Euro furono allora concordate fra Governo tecnico , Sindacati ed Organizzazioni datoriali.
Si parlava in quegli anni di supplenza sindacale di un ruolo politico nazionale vacante ed analogamente, nelle città dove più forte era stata l’esperienza partecipativa, ciò ha iniziato a tradursi nel rapporto a livelli diversi con gli Enti locali in primis, nella definizione dei Bilanci e della pianificazione territoriale, coinvolgendo anche con l'Associazionismo locale e i movimenti o i gruppi di interesse collettivo.
I fatti del G8 di Genova, la partecipazione al successivo ESF di Firenze, l’adesione ai movimenti contro la guerra sono stati un volano che, assieme ed una profonda e sofferta riflessione su ciò che avveniva attorno e dentro alla fabbrica, ha portato nel 2004 un gruppo di Camere del lavoro , da Torino a Matera, quindi da Nord a Sud, a ritrovarsi e onfrontarsi su una concezione dell'attività sindacale in cui non è solo l’impresa era centrale ma anche il sistema territoriale.
Per strutture sindacali come le nostre fu un passaggio di discontinuità ed innovazione, ed il percorso di elaborazione fu molto impegnativo, in particolare nel trovare connessioni funzionali fra la contrattazione nei luoghi di lavoro e quella territoriale. Un processo non ancora consolidato in CGIL: siamo infatti una sorta rete elastica che si allarga o si restringe su varie parti del territorio nazionale.
Non voglio sovrappormi a quanto illustrato da Oscar Mancini , anche perché chiederò sintesi ai compagni che porteranno comunicazioni su esperienze di diverso tipo, a testimonianza dello sforzo di costruzione di piattaforme territoriali condivise, di sussidiarietà nei confronti delle istanze istituzionali, di partecipazione e sostegno a mobilitazioni di difesa del territorio e dell’ambiente.
Abbiamo lanciato un segnale di discontinuità nel momento che abbiamo scelto di iniziare un percorso di rappresentanza del lavoratore e del pensionato non solo come appartenente alla comunità di fabbrica o di ufficio, ma anche a quella della comunità cittadina/territoriale .
A chi come me ha vissuto da giovane nella “Bologna laboratorio di partecipazione” questa scommessa sindacale, di non piegarsi nella propria azione solo al contingente, dà un senso di continuità con le lotte e le conquiste degli anni sessanta e settanta ricordate da Edoardo Salzano.
Contribuire a ri-progettare il futuro, difendere i beni comuni di oggi per i cittadini di domani, perché possa dispiegarsi un altro modello di economia riconsegna un senso strategico al nostro "fare", attenua le frustrazioni vissute nell’ultimo quarto di secolo edonistico e neoliberista , dà ulteriori motivazioni a chi lavorando in CGIL ha scelto nella vita di essere un soggetto di rappresentanza sociale.
Nell'ambito della nostra esperienza di contrattazione confederale territoriale il tema dello sviluppo urbano e delle sue caratteristiche è fortemente presente. l nostro obiettivo è quello di affermare una sempre maggiore capacità di governo degli strumenti di programmazione, assicurando innanzitutto un rapporto coerente, organico, tra i diversi livelli istituzionali (regionale, provinciale, comunale) che ne sono responsabili.
Abbiamo concordato nel tempo, con le diverse Amministrazioni Locali (51 Comuni nella provincia), sulla necessità della coerenza complessiva delle scelte di pianificazione urbanistica dei Comuni (PSC) con il Piano Triennale di Coordinamento Provinciale (PTCP) ed in particolare, entro i riferimenti dati anche dal PTR regionale, di:
- avviare processi di riqualificazione urbana per ridurre l'ulteriore consumo del territorio;
- integrare le zone di espansione urbana con i trasporti pubblici per ridurre l'uso dell'auto;
- contrastare la rendita fondiaria ed i fenomeni speculativi, e nei nuovi comparti urbanistici accrescere le dotazioni territoriali e l'edilizia sociale;
- prevedere per i nuovi interventi un'alta efficienza energetica e l'uso razionale delle risorse;
- favorire forme di partecipazione dei cittadini e delle associazioni, attraverso l'attivazione di laboratori di progettazione urbanistica.
Qualche importante risultato è stato conseguito ma molto resta da fare, resta forte la convinzione di non riuscire ad incidere come e quanto necessario. Da tempo la questione delle politiche abitative ha assunto anche in tante nostre realtà territoriali il carattere di vera e propria emergenza. Del perchè sempre più tale questione si è imposta alla attenzione generale molto è stato detto. Essa è parte integrante delle "questioni sociali" di tutti i paesi dell'Unione Europea (della stessa "Agenda di Lisbona") del nostro Paese, della nostra dimensione regionale e provinciale.
I soggetti che soffrono maggiormente di queste condizioni e verso i quali è necessario orientare le politiche sono molteplici, ascrivibili alla parte più debole della popolazione, a quella cioè che più di altre ha risentito, risente delle politiche affermatesi:
- anziani, spesso soli, i quali oltre a risentire del fattore economico necessitano di soluzioni abitative diverse da quelle tradizionalmente intese e di specifici servizi connessi all’abitare, sul fronte dell’accessibilità e della sicurezza;
-adulti soli con minori a carico, in riferimento al fatto che negli ultimi anni vi è stato un aumento rilevante di questa tipologia familiare;
- giovani coppie, le quali hanno grande difficoltà ad accedere al mercato della locazione privata a causa della sua onerosità e della precarietà lavorativa, in mancanza di basi finanziarie garantite dal retroterra familiare di provenienza;
- lavoratori provenienti da altre regioni e/o stranieri, che a causa dei salari bassi e medi sono costretti a situazioni abitative inadeguate o a sostenere costi di affitto superiori al 50/60% del proprio reddito. Per i lavoratori extracomunitari al fattore economico si aggiunge spesso l’ulteriore difficoltà rappresentata dai pregiudizi;
- lavoratori stagionali impiegati prevalentemente in agricoltura;
- famiglie monoreddito, impossibilitate a sostenere l’incidenza dei canoni di mercato sul reddito percepito;
- studenti fuori sede, costretti a situazioni abitative inadeguate, di scarsa qualità e di sovraffollamento a fronte del pagamento di canoni speculativi;
- soggetti marginali, che in mancanza di un reddito certo e/o in presenza di patologie fisico/psichiche non hanno alcuna possibilità di accedere ad un mercato che non sia protetto oltre che dell’aiuto dei servizi sociali.
Al di là delle peculiarità delle diverse tipologie di utenza considerate, i tratti comuni sono davvero rilevanti ed attengono alla quantità e qualità dell'offerta in rapporto alla domanda.
Siamo di fronte ad una domanda che è essenzialmente riconducibile ad alloggi di qualità ad un prezzo accessibile, siano essi in proprietà od in affitto, con una ovvia rilevante prevalenza di quest'ultima tipologia quale conseguenza della situazione alla quale si faceva riferimento.
Occorre intervenire con sempre maggiore determinazione: l'emergenza casa, se non risolta, è, oggettivamente, la negazione di un basilare diritto di cittadinanza, fattore di esclusione, ostacolo alla promozione individuale, limite per lo sviluppo economico-sociale del territorio, con tutto ciò che questo comporta.
Rispondere alla domanda abitativa attraverso una adeguata politica dell'offerta rimanda innanzitutto al ruolo dei diversi soggetti, al tema del chi fa che cosa.
In Italia da tempo manca una politica governativa all'altezza delle aspettative. Molto è già stato detto, le scelte del Governo di centro-destra mettono in discussione le poche esperienze e gli strumenti di intervento in materia consolidati . Il tanto enfatizzato “piano casa” allo stato non c'è, ma è possibile pensare che avrà, comunque, il carattere di inadeguatezza sottolineato a fronte delle poche anticipazioni conosciute.
Le scelte operate a livello regionale, ancorchè articolate, si configurano come una risposta importante e coerente ma insufficiente.
Occorre una politica così riassumibile:
- definizione e finanziamento di programmi atti ad aumentare considerevolmente la dotazione di abitazioni in affitto, privilegiando il recupero e la valorizzazione del patrimonio edilizio esistente;
- rilancio ed incremento del fondo sociale di sostegno all'affitto per le famiglie a basso reddito;
- ridefinizione degli interventi incentivanti e disincentivanti del soggetto pubblico, attraverso la rimodulazione delle leve contributive e fiscali a governo del rapporto con il privato.
Occorre quindi proseguire con determinazione in tale direzione, rivendicando una diversa politica da parte del Governo, misurandosi con le possibilità della finanza regionale, chiamando la Provincia ad una forte azione di coordinamento, consolidando il rapporto con i Comuni, individuando via via gli strumenti più opportuni.
Occorre anche chiamare tutti gli operatori economici interessati ad assumere decisioni convergenti verso l'obiettivo dichiarato. Da tempo insistiamo perchè si affermi la responsabilità sociale delle imprese, perchè queste concorrano alla infrastrutturazione sociale del territorio, condizione decisiva per il suo stesso sviluppo.
Le politiche che mirano a risolvere o a ridurre l’incidenza del problema casa devono quindi necessariamente essere diversificate sia dal punto di vista degli strumenti da utilizzare, sia in riferimento alle diverse condizioni socio - economiche dei soggetti cui sono dirette.
Affrontando l'emergenza casa, come Sindacato abbiamo posto particolare attenzione ai migranti.
Il tema casa/immigrati, infatti, ci rimanda a problemi di grande complessità, innanzitutto ad affrontare il disagio estremo di chi è senza una casa. E' un problema che ci costringe a fare i conti con l’assenza di adeguate strutture di accoglienza e con la necessità, da parte delle amministrazioni locali, di elaborare una progettualità condivisa a livello metropolitano, anche per fare fronte al rafforzamento della pressione migratoria che le previsioni di sviluppo demografico danno per certa.
Il problema dei percorsi di stabilizzazione impongono a noi ed al soggetto pubblico l’attenzione alle esigenze di integrazione sociale, da attuarsi sia attraverso appropriate scelte urbanistiche, sia attraverso la individuazione degli alloggi da assegnare a queste famiglie, sia attraverso la definizione di equilibrati criteri di assegnazione degli stessi.
A tale proposito ci opponiamo al tentativo del centro-destra di introdurre criteri di assegnazione differenziati tra cittadini italiani e immigrati, insistiamo perchè la discriminante sia il bisogno.
Ci siamo posti l'obiettivo di garantire, anche e soprattutto all'interno degli immobili di edilizia pubblica, la massima coesione possibile, favorendo la compresenza di nuclei familiari di etnie e nazionalità diverse e di cittadini italiani, convinti come siamo che occorre apprendere dalle esperienze negative manifestatesi in tanti contesti che di ciò non hanno tenuto conto.
Per quanto ci riguarda, in sintesi, occorre mettere in campo una politica sempre più incisiva in grado di rispondere all'emergenza casa, di fare della qualità dell'abitare una parte decisiva di un progetto di sviluppo urbano che sia attento alla qualità della vita ed alla sostenibilità ambientale. Ciò significa innanzitutto agire sul territorio con politiche coerenti.
Cercherò di darvi un’idea di questa esperienza rimandando poi la necessità di approfondire anche sui testi, se ci sarà la possibilità di riprodurli. Li ho inviati e quindi spero che in un qualche modo si riuscirà a metterli a disposizione.
Reggio Emilia è una città, un territorio che dal punto di vista socio-economico e politico è molto simile alla realtà che Pivanti vi ha presentato per Modena questa mattina. Tant’è vero che qualche anno fa si parlava addirittura di una città lineare composta da Parma, Reggio Emilia e Modena senza soluzione di continuità. Reggio Emilia però in questi ultimi anni ha sviluppato una sua particolarità che è quella della forte concentrazione di immigrati. Vi cito solo due numeri giusto per darvi la dimensione del problema:
oggi Reggio Emilia intesa come Comune di Reggio Emilia, perché l’esperienza che vi presenterò è relativa al Comune di R.E., ha un totale di 19.000 extracomunitari regolari, divisi soprattutto in una fascia di età tra i 20 e i 45 anni che, tra coloro che sono più insediati, ovviamente, vede una forte presenza di ricongiungimenti familiari di donne e bambini. Di questi 20.000 grosso modo sono immigrati regolari e quindi aggiungendoci tranquillamente un altro 25% almeno di irregolari; ebbene un terzo di essi si concentra, si è venuto a concentrare come residenza, in due quartieri confinanti della città, che lambiscono un pezzo del centro storico, più il quartiere che dalla stazione ferroviaria si sviluppa nelle sue adiacenze. Questo ha causato negli anni un fenomeno migratorio nei due sensi. I primi insediati richiamavano amici, parenti di successiva stabilizzazione, mentre i cittadini che vi risiedevano da prima, (quello è un quartiere popolare che è nato dietro la stazione dalla ricostruzione post bellica fino agli anni ’70, fino agli ultimi interventi edilizi con grossi palazzi con 20-30 appartamenti, ciascuno di 100/110/120 metri quadri, con una tipologia anche piuttosto antiquata), sono andati a cercare occasioni di abitazione secondo loro più qualificata in altre zone della città. Gli spazi lasciati vuoti venivano riempiti dalle ondate di stranieri che si collocavano nelle varie vie a seconda delle comunità e/o delle zone di provenienza, costruendo negli anni pian piano un tessuto urbano che viene chiamato dai cittadini reggiani in un pezzo la china town, un altro pezzo la città dei magrebini, con i loro negozi, i kebab, si è creata una realtà che ad oggi vede praticamente convivere anziani e extracomunitari. Questa situazione ha creato, bisogna essere onesti, nel tempo una serie di problemi di convivenza. Ci sono stati anche degli episodi di delinquenza e un degrado costante delle strutture.
La cosa è sfociata tra la metà del 2007 e l’inizio del 2008 in una situazione di forte tensione, anche alimentata da una polemica che è partita sugli organi di informazione locali, soprattutto da parte dei commercianti del centro storico, che denunciavano tra le varie cose, appunto l’incuria, il degrado, la presenza degli extracomunitari, la criminalità, la percezione di insicurezza e quindi, il centro storico che si svuota, i reggiani che fuggono, le attività economiche che vanno in malora.
Una campagna, come dicevo, alimentata dagli organi di informazione locali, oltre che dalle forze politiche del centro destra, tanto è vero che negli ultimi mesi, essendo venuta a mancare dopo le elezioni la gran parte di questa polemica, è venuta a calare molto anche la percezione del senso di disagio che, fino a qualche mese fa, sembrava pervadere tutta la città. In ogni caso si è ritenuto che questa concentrazione di immigrati in una unica zona della città fosse un fattore sicuramente in grado di creare disagio.
Reggio Emilia ha un assessorato che si intitola “Coesione e sicurezza sociale” che tra l’altro ha cambiato Assessore pochi mesi prima dell’inizio di questa esperienza, e con questo assessorato ci siamo provati ad interrogare su che cosa si poteva tentare di fare per rispondere a questo stato di cose.
Abbiamo iniziato noi e loro in modo autonomo a fare intanto degli incontri sul territorio per cercare di capire quali erano i problemi reali e cercare di enuclearli da quello che era la polemica generale. Dico noi e loro in modo distinto, perché loro hanno contattato i cittadini nei vari centri di relazione (davanti al supermercato, nel circolo sociale), noi abbiamo iniziato dai nostri referenti più prossimi nel territorio, la Lega SPI. Lega SPI che per un certo periodo è stata il ricettacolo della percezione del disagio, nel senso che i nostri compagni pensionati iscritti alla CGIL da 50 anni, assolutamente democratici e partecipativi, però sono stati i primi che in un modo più forte hanno denunciato questo problema della convivenza, questa equazione che presenza di extracomunitari è uguale a criminalità, è uguale a degrado, i valori immobiliari degli appartamenti che avevano comperato e che volevano lasciare ai loro figli che erano crollati, fino ad arrivare in qualche riunione, a qualche assemblea, non dico che volassero le sedie, ma ci siamo arrivati vicini.
Abbiamo cercato di iniziare a dare un contributo ad entrare nel merito e nel dettaglio di questa realtà e a cercare di coinvolgere tutti coloro che erano interessati a mettere sullo stesso tavolo i problemi e vedere come se ne poteva uscire. Ovviamente supportati dall’assessorato coesione e sicurezza sociale che si faceva tramite nei confronti degli altri pezzi dell’amministrazione, perché la cosa che abbiamo capito subito è che non c’erano possibilità e soldi per fare opere in grande stile. Per esempio, nel mezzo di quel quartiere c’è un palazzone di 50 appartamenti tutti sub-affittati in modo irregolare, dove dentro succede di tutto, la soluzione migliore ci siamo detti sarebbe quella di trovare un’altra collocazione a queste persone e fisicamente demolire questo immobile, lo abbiamo messo anche come una delle cose da fare dentro la programmazione territoriale, ma voi capite che per fare questo occorre una quantità di risorse economiche e di capacità di governo del territorio immane.
Abbiamo cominciato a ragionare di cose che si potevano fare con pochi o con nessun soldo, semplicemente facendo funzionare meglio la macchina amministrativa, mettendo in contatto pezzi che fra di loro non si parlano e facendo ragionare queste persone con i cittadini. Vi faccio degli esempi che potrete ritrovare e che sono poi il tessuto di questo patto per la riqualificazione di questa zona. Esempi molto semplici.
La polizia di prossimità. Abbiamo definito un gruppo di vigili urbani che hanno aperto una sede in un negozio vuoto di questo quartiere, che sono presenti lì, che girano sempre loro, che contattano i cittadini, che ne ricevono le lamentele e le segnalazioni, e che fanno da interlocutore rispetto al resto della macchina amministrativa. Per esempio, c’è il ragazzino che rompe la lampada nel parco, loro telefonano subito all’apposito servizio comunale per farla sostituire; il signore anziano che denuncia che nell’appartamento di fianco ha sentito una rissa alla sera e allora si va a vedere col gestore dei servizi a chi è intestata quell’utenza, quante persone ci abitano realmente, si cerca di intervenire. Momenti di mediazione nelle assemblee di condominio, cominciando a spiegare, per esempio diffondendo assieme al Sunia una piccola guida tradotta nelle principali lingue su quali sono le regole di convivenza in un condominio, oppure col gestore dell’igiene ambientale una guida anche quella tradotta in varie lingue, che spiega come funziona la raccolta differenziata dei rifiuti e perché non bisogna buttare tutti i rifiuti dietro al palazzo, ma invece bisogna usare i cassonetti e come usarli.
Cioè abbiamo cercato da un parte di spiegare agli abitanti fra virgolette autoctoni che sentivano la perdita di possesso del loro pezzo di quartiere, che coloro che erano lì non erano tutti delinquenti, ma che avevano delle culture diverse e che spesso non conoscevano il tipo di regole e di cultura che governavano il funzionamento del nostro tessuto sociale. E, dall’altra parte, invece, anche un’azione educativa nei confronti dei nuovi cittadini per cercare di fargli conoscere le realtà delle altre etnie, soprattutto per permettergli di capire e di discernere quello che è un comportamento che deriva, appunto, da una cultura, da quello che è veramente invece un fenomeno di degrado. Cominciare a distinguere chi occupa un appartamento perché ospita il parente che è in attesa di regolarizzazione, da quell’appartamento di fianco dove invece c’è un giro di prostituzione governato da una criminalità organizzata e che si cerca di colpire e di sconfiggere.
Cercare di attivare delle mediazioni. Per esempio succede spesso che nei condomini ci siano le utenze centralizzate, succede spesso che una famiglia, magari extracomunitaria, pensa che non sia tenuta a pagare le spese di condominio e allora magari viene il fornitore del gas e stacca la fornitura a tutto il condominio appunto perché centralizzata. Prima succedevano liti che vi lascio immaginare, adesso si cerca di prevenire il conflitto, di discutere, di cercare di spiegare a chi non paga la sua parte di bolletta, le spese di condominio del perché la cosa mette in crisi tutti gli altri e quindi anche il suo rapporto, e si cerca di costruire anche un atteggiamento positivo negli altri, nei confronti di chi riesce a dimostrare che si trova effettivamente in una situazione economica di non possibilità, magari temporanea, di assolvere ai suoi compiti.
Era nata una discussione sul fatto che i kebab facevano puzza e disturbavano. I clienti buttavano le cartacce davanti al negozio, facevano rumore fino a tarda notte davanti ai kebab. Anche qua abbiamo convenuto un regolamento municipale per il funzionamento di queste realtà, però abbiamo anche fornito i mezzi per la raccolta differenziata, li abbiamo convinti che c’era una possibilità di integrazione. Lo stesso per i phone-center ed i negozi di cibo etnico.
Il passaggio attuale adesso, superata la crisi, cominciato a far parlare tra di loro le persone delle varie nazionalità, è quello di cominciare a favorire l’integrazione. Ci siamo messi a disposizione con la Federconsumatori per fare dei corsi di educazione al consumo, d’accordo con il supermercato che sta lì nel quartiere; ci siamo messi a disposizione con il nostro ufficio stranieri a cercare di utilizzare il locale di un centro sociale comunale che c’è lì per fare una qualche piccola permanenza con l’ufficio stranieri per il disbrigo delle pratiche dei permessi di soggiorno e di ricongiungimento famigliare, o per vedere di mettere in piedi dei corsi di italiano per extracomunitari, stiamo - assieme anche all’Acer, (ex IACP) che gestisce molti condomini in quella zona, al Sunia e a Federconsumatori - organizzando delle piccole feste di condominio dove magari l’extracomunitario porta il suo tipo di cibo e lo mette assieme a quello dei reggiani.
Tutta una serie di iniziative che, a fianco a quelle che fanno funzionare meglio la macchina comunale, che fanno essere presenti meglio i servizi comunali in quella zona, partendo dal basso, partendo dalla, scusate il termine, incavolatura dei cittadini locali, che avevano minacciato che non avrebbero più votato le amministrazioni, stiamo pian piano costruendo dal basso, con poca spesa, una esperienza di partecipazione che (se avremo modo vi faremo vedere i materiali e le evoluzioni di questa cosa), sta costruendo un modello che stiamo pensando di estendere ad altre zone un po’ meno problematiche della città.
Anzitutto buongiorno. Inizio con alcune premesse perché Modena, la Camera del Lavoro, sta lavorando sull'obiettivo di portare circa 300 compagne e compagni a ragionare sul proprio lavoro e il territorio, sull’intreccio che esiste fra lo sviluppo, la sua qualità, la caratteristica del lavoro, il welfare nel territorio. La ragione, tutto sommato, è scontata, anche se le difficoltà sono enormi. La ragione è semplice perché in una parte dei dati modenesi, che mostrano ciò che è avvenuto in città e nella provincia, sono facilmente riscontrabili i fenomeni descritti nelle relazioni di questa mattina. Anzi, su alcune questioni ci sono aggravanti.
Segnalo che la tendenza demografica, per la provincia di Modena, prevede in sei /sette anni anni il passaggio da 600 mila residenti a 670 mila, quindi saremmo a +70 mila. A questo dato si aggiungeranno, giustamente, circa 10 mila migranti che sono in attesa di regolarizzazione e 5/6 mila migranti clandestini. Questo fenomeno comporterà, sul piano dei diritti, un ulteriore processo, ovviamente di richieste di ricongiungimento familiare.
Accanto ai dati demografici, ve ne sono altri altrettanto chiari. E sono quelli che documentano un vistoso aumento del precariato. Siamo a circa 35 mila lavoratori precari più 4.000/4.500 partite IVA in edilizia, cioè persone costrette a mettersi in proprio per continuare a svolgere lo stesso lavoro, a cui si aggiungono 6/7.000 persone che lavorano in cooperative spurie.
Quindi il dato di “crescita” di Modena in questi anni è stato un dato pesante. E non di meno pesante il progetto, l’idea, con cui i Comuni intendevano e intendono governare il futuro. Nella idea dei comuni modenesi, tutti insieme, il progetto può portare ad un ulteriore incremento di circa 80 mila residenti nell’arco di 6/7 anni, al massimo nel 2020. Il che vuol dire che in 11/16 anni questo territorio passerebbe da 600 / 670 mila residenti ormai attuali, a 750.000 residenti. Ora però si tratta di vedere come si ragionerà anche in relazione alla fase di crisi economica che stiamo vivendo.
Le ragioni di questa scelta di espansione demografica possono essere diverse. La prima sta nella venuta meno di un percorso democratico, nel progressivo abbandono di una idea di programmazione che parte dallo sviluppo, dal lavoro, dal welfare. Un'altra è l’accettazione, da parte di tante amministrazioni, a governare le ricadute senza porsi il problema del programmare lo sviluppo. Ciò per una serie di ragioni politiche, ma anche di vincoli che stamattina sono stati richiamati: amministrativi, difficoltà finanziarie e altro.
L’uso del territorio in sintonia con lo sviluppo sostenibile,il tema dei beni comuni a partire dall'acqua, la qualità del lavoro, la quantità e qualità del welfare e le cose che qui sono state giustamente sottolineate, per assurdo, con questo dato di crescita hanno subito un processo di intensificazione, ulteriore accelerazione o crescita eccessiva: ho bisogno di più servizi, uso gli oneri urbanizzazione per finanziaria la spesa sociale, poi riparto utilizzando di nuovo il territorio per poter governare il bilanci. In questo senso noi troviamo PRG diversi, perché alcuni anni fa, molti comuni hanno completato il PRG, lo stesso Comune di Carpi che ha cambiato la vecchia idea e la stessa discussione del PSC.
Questo è uno dei dati da cui siamo partiti e accanto a questo dato sono rimasto impressionato quando tornando dalla esperienza regionale di Bologna chiedemmo al Comune di Carpi di presentare il Piano Regolatore che non era stato presentato al sindacato. Lo facemmo in Camera del Lavoro a Carpi e rimasi colpito dal fatto che le compagne e i compagni parlavano delle strade, delle connessioni, non si interrogavano invece su un dato: ”ma lì chi ci viene, chi ci abita, per quale tipo di sviluppo, in che direzione andiamo”.
Ed è cominciato un lavoro complicato che ci ha visto costruire, in primo luogo, una piattaforma come CGIL, per poi rielaborarla in modo unitario .Vi assicuro che il risultato non è stato un grande risultato. Diciamo che sul piano dell’idea dello sviluppo del territorio, la CGIL è rimasta per molti aspetti isolata. C’è stato un profondo disinteresse.
Io, che insieme a tanti altri compagni, sono di quelli che negli anni ’70 partecipava alla discussione, alla costruzione del PRG partendo dal presupposto di cosa ci va dentro, perché, per quali finalità mi sono attivato. Allora abbiamo provato a lavorare partendo da alcuni dati e riflessioni per avere l'idea di come sia possibile riuscire a invertire questa tendenza.
Uno: governo unitario del territorio. Unione, Associazione dei Comuni, cose scontate o apparentemente scontate in un area dove il governo è un governo del centro sinistra, ma non è così. Anche laddove i Comuni sono divisi da una semplice tabella, Sassuolo-Fiorano la zona delle ceramiche, l’idea di un governo unitario del territorio, la riorganizzazione di quella realtà, non passa contestualmente nella testa dei Comuni. Per noi invece questo aspetto è fondamentale se vogliamo governare le politiche del lavoro, della casa, il welfare e le ricadute sulle condizioni di vita delle persone; come è fondamentale ragionare di ASP e dell’insieme dei servizi, sanità e quant’altro. Questa è una prima grossa difficoltà su cui noi vogliamo agire e dirò come.
Due: costruire un’idea di politica e di alleanze, oltre che di rottura, ovviamente. L’alleato principe che abbiamo, pur registrando le dovute differenze, è la Provincia, che sta costruendo il Piano territoriale di coordinamento provinciale sulla base del quale cerca di introdurre elementi di riduzione della crescita o di programmazione. Segnalo che in questa operazione trova la reazione negativa di tutti i comuni. Io non so se la posizione assunta dalla CGIL abbia aiutato la Provincia nelle relazioni coi comuni, non credo. E’ una battuta però per dire che dall’altra parte, ovviamente, ci sono gli interessi dei costruttori, del sistema delle imprese, dello stesso movimento cooperativo. Lo dico anche perchè credo che nella nostra riflessione occorrerà riprendere un tema un tempo caro, quello delle cooperative a proprietà indivisa, all’Unicapi e quant’altro, che non sono più finanziate, mentre continuano altre operazioni.
Penso che una parte del movimento cooperativo abbia affiancato alla sua attività quella immobiliare che nasce molte volte dall’uso del territorio, che è quello della contrattazione sulla base della perequazione urbanistica: ti faccio questi servizi e tu mi dai queste cubature . Noi crediamo di dover rilanciare il PEEP in quanto tale, sapendo che questo territorio però è già stato in parte disegnato nelle sue prospettive edificatorie.
Noi abbiamo bisogno di costruire il processo opposto. Per questo abbiamo messo insieme gruppi di funzionari, compagni delegati dei luoghi di lavoro e pensionati, che partendo dalla loro realtà, per zona geografica, cominciano sulla base di un percorso formativo, a interrogarsi su che cosa c'è, quali sono le variabili e il dato della crescita, come facciamo la politica di accoglienza/rispetto/integrazione, cosa significano i fenomeni demografici e migratori in rapporto alla domanda e all'offerta di nuovi nidi e materne, ai processi di integrazione e al rispetto che deve esistere nel territori; cosa significa il” precariato “ in questa condizione e se si può parlare di sviluppo, di qualità;, se si può cominciare a dire quello che non va fatto, le cose di cui non abbiamo bisogno .
Immagino che alla fine usciremo con un ragionamento condiviso che sostiene la necessità di non sottrarre ulteriormente al territorio, non abbiamo bisogno che il territorio sia fonte di speculazione, abbiamo bisogno di un processo diverso, che si misuri con i temi posti dalla globalizzazione e dalla nuova divisione internazionale del lavoro, capace di confrontarsi sia con l'Europa e i grandi mutamenti in atto, sia con il tema del territorio e delle risorse.
Abbiamo bisogno di sviluppare politiche vertenziali e rivendicative che vedano il nesso tra arredo urbano e coesione sociale, politica industriale e mercato del lavoro, welfare e politiche di rispetto, integrazione e accoglienza per l'immigrazione e non solo,ecc.
Perché 300 persone coinvolte? Semplicemente perché sono il numero di persone disponibili che abbiamo nelle zone. Con quale obiettivo ? Noi vorremmo fare, prima in ogni zona, poi a livello provinciale nel periodo compreso tra febbraio e marzo 2009, la” Conferenza di Zona” sui temi dello sviluppo, welfare, uso del territorio, risorse, in modo da” condizionare”, uso questo termine, le campagne elettorali del 2009 provando a dire come CGIL, quello che noi pensiamo, dentro alla nostra autonomia e partendo dai soggetti chei rappresentiamo.
Guardate che sarà un lavoro complicato e difficile. Ce lo dice anche l'esperienza passata allorquando due anni fa su questo tema e su un altro che (la nuova tassazione attraverso l’aumento della addizionale Irpef) abbiamo fatto i presidi sotto i Comuni .Vi assicuro che esiste mal di pancia sul tema dell’autonomia e sul presidiare i Comuni, che sono poi in effetti Comuni retti da Amministrazioni per i quali molti di noi votano; è stato complicato e difficile far digerire la possibilità del conflitto ma penso che oggi siamo ad un livello più alto di autonomia ed elaborazione.
Il percorso nelle zone è partito, molti stanno già ragionando su quelle dimensioni dell'impatto sul loro territorio. Ovviamente a pieno titolo nella discussione c’è il tema della casa. Il dato che sta emergendo è che, pur facendo accordi di perequazione, le case sono in affitto al 30%; si regge bene se le case dopo 8 anni non vengono vendute, altrimenti quel cittadino in affitto è costretto a comprare o ad uscire. I gruppi di lavoro attivati quindi stanno unificando elementi di critica e di valutazione che nascono dal basso, critica e valutazione che deve poi tornare nei luoghi di lavoro per raccordare questa attività.
Mi illudo che tutto sia facile? Penso di no. Mi illudo che tutto sia perfettamente uguale ed omogeneo? Anche questo no, penso che si possa costruire, dentro un ragionamento che guarda l’Europa, dentro un ragionamento che guarda la globalizzazione, temi richiamati nel percorso formativo, una nostra visione autonoma e critica dello sviluppo, che mettiamo al servizio, innanzitutto della CGIL e del territorio, e che deve diventare una piattaforma.
Questa è la cosa che stiamo provando a fare .A questa ne affiancheremmo un’altra, che come CGIL ancora non abbiamo deciso, ve l’anticipo, si tratta di fare un blog che si chiamerà LAST, lavoro, ambiente, sviluppo, territorio - lavoro, ambiente, scuola, territorio - lavoro, ambiente, servizi, territorio.
Aperto a tutti i soggetti che, valutata l’idea, (LAST sta anche per ultima occasione, lo sappiamo benissimo) sono disponibili a esprimere un parere, una valutazione, un contributo e a sentire quello che non solo la CGIL ma persone, personalità e soggettività sono disponibili a fare. Questo è un servizio che mettiamo ad disposizione nel territorio. Ci rivolgeremo ovviamente a lavoratori, ancora a delegati, a dirigenti, a ingegneri, ad architetti, perché l’altra preoccupazione che avvertiamo è il silenzio di una parte degli architetti.
In un territorio come Modena, che per anni ha costruito un Piano Regolatore nel modo sopradescritto, che è stato alla base anche di un' idea di programmazione in Emilia Romagna, penso al cosiddetto “sviluppo policentrico” - era Germano Bulgarelli, ex-Sindaco di Modena, l’assessore competente - Modena ha rischiato e rischia di perdere quella storia, quella cultura e quella tradizione. Noi pensiamo invece che ci siano ancora le personalità e le volontà per condividere il progetto e far ragionare in termini diversi.
Grazie.
Vicenza è diventata famosa negli ultimi due anni a causa della vicenda della nuova base militare USA all’aereoporto Dal Molin; una vicenda complicata e ancora aperta. I cittadini, i comitati, le associazioni che si battono per opporsi a questo progetto, anche se ora sono appoggiati finalmente dall’amministrazione comunale con il sindaco di centro sinistra, eletto quest’anno dopo due amministrazioni di centro destra, si trovano di fronte a forze ben più potenti e a poteri non sempre identificabili.
Questa vicenda è emblematica di come una questione locale assuma anche un valenza globale, anche perchè tocca direttamente ed ha posto sotto gli occhi di tutti diversi temi: quello della democrazia, prima di tutto, e del diritto dei cittadini di essere informati, conoscere e discutere le scelte che li riguardano, il rapporto tra i cittadini e le istituzioni, il tema della partecipazione e quindi ‘la Politica’, e il tema del consumo del territorio e dei beni comuni, la città, la tutela dell’ambiente ed il diritto alla salute, il tema della pace ecc. Certo è che questo progetto (meglio dire minaccia) che grava sulla città ha dato vita ad uno straordinario movimento di partecipazione e mobilitazione dei cittadini che ha già prodotto un cambiamento ed una maggiore consapevolezza, al di là di quale possa essere la conclusione.
C’è anche un altro aspetto che ci riguarda direttamente e cioè il ruolo attivo della CGIL ed il rapporto che si è creato tra la Camera del Lavoro e i comitati (il movimento) dei cittadini che si sono impegnati contro la costruzione della nuova base.
La vicenda della Centrale termoelettrica di Montecchio Maggiore
Volevo però parlare oggi di un’altra storia; una vertenza più piccola e limitata rispetto al ‘Dal Molin’, iniziata qualche anno prima e che ha avuto una conclusione positiva. Una storia che ha proposto esattamente le stesse caratteristiche e gli stessi temi che prima ho citato.
Inizia a novembre 2001; anche in questo caso era in carica il governo Berlusconi; in Regione Veneto c’era Galan e anche a Montecchio Maggiore era in carica un sindaco di centro destra (a cui è poi subentrato l’attuale sindaco di centro sinistra alle elezioni amministrative del 2004). Il governo aveva presentato il piano per accelerare la liberalizzazione e privatizzazione del mercato di produzione di energia elettrica, quello poi conosciuto come ‘Decreto Marzano’ (l’allora Ministro delle attività produttive) o ‘Decreto sblocca centrali’ del febbraio 2002, che avrebbe dovuto superare i tempi e i vincoli delle procedure di Valutazione di impatto ambientale e di autorizzazione. A seguito di questo furono presentati in Italia centinaia di progetti di nuove centrali da parte di società private, ben al di là di un qualsiasi ipotetico fabbisogno energetico.
Apprendiamo da alcune fonti, nel mio caso dalla CGIL, che una società privata (Marubeni-Euganea Energia) ha presentato un progetto per la costruzione di una mega-centrale termoelettrica da 800 MW a Montecchio Maggiore. Anzi i progetti sono addirittura due perché ce ne un altro presentato da Ansaldo in un altro comune (Montorso), ma sempre ai confini di Montecchio Maggiore; progetto abbandonato già nel corso dei due anni successivi.
E qui il primo commento sul tema informazione e democrazia. Fino a quel momento non c’era stata nessuna informazione da parte dell’amministrazione comunale ne verso i cittadini ne verso il Consiglio benchè, come si è appreso più tardi, il sindaco avesse già avuto un incontro con i proponenti del progetto.
Ci ritroviamo una sera con un gruppo di amici e decidiamo subito di:
raccogliere quante più informazioni possibili per conoscere il progetto e ciò che sta avvenendo,
condividere il più possibile le informazioni e coinvolgere altre persone (amici, conoscenti…),
fare qualcosa insieme e non subire passivamente l’ennesimo scempio calato dall’alto.
Da quel momento in avanti abbiamo iniziato ad incontrarci regolarmente costituendoci, fin dai primi mesi successivi, in un coordinamento dei comitati che ha raggruppato e rappresentato i primi gruppi sorti spontaneamente a Montecchio Maggiore, in alcune frazioni di Arzignano, Montorso ecc. e alcune associazioni già presenti nei sedici comuni dell’area. Da allora, la nostra base operativa e luogo delle riunioni diventano i locali della parrocchia di Tezze di Arzignano, ai confini con Montecchio Maggiore, proprio vicino al luogo dove avrebbe dovuto sorgere il cantiere.
Il contesto territoriale
Per capire meglio occorre partire da una breve fotografia della realtà dell’Ovest vicentino che si identifica grosso modo con il distretto della Concia e con i 16 comuni aderenti ad un progetto di risanamento ambientale finanziato anche dalla UE (Progetto Giada), attivato proprio perché il territorio presenta già da tempo una situazione di squilibrio ambientale (superamento dei parametri di legge) e la necessità di ridurre gli impatti e le emissioni inquinanti soprattutto in acqua e aria.
Definito dal Piano territoriale di coordinamento provinciale di Vicenza, come un: “…territorio che ha conosciuto uno sviluppo caotico caratterizzato dalla quantità e diffusione degli insediamenti produttivi, con pesanti ripercussioni per le risorse ambientali, per la salute dei cittadini e per la sostenibilità complessiva dell'ambiente”. Una fotografia per altro ben descritta nel testo della mozione, presentata e votata quasi all’unanimità in Consiglio regionale il 30 luglio 2002, per respingere la costruzione della centrale termoelettrica, in cui è reso esplicito il grado di stress ambientale dell’Ovest Vicentino.
Anche in passato, proprio a partire da questa situazione, ci sono stati gruppi spontanei, associazioni, e anche forze politiche di sinistra, che si sono impegnati sui temi ambientali. Segno che i movimenti e la partecipazione che attivano, sono carsici e per questo possono anche riemergere quando sembrano spariti. Certo, spesso questo avviene purtroppo solo quando c’è un innesco, una ‘minaccia’, come in questo caso.
La Centrale termoelettrica, se realizzata, avrebbe avuto un impatto notevole per le caratteristiche proprie ma soprattutto per la situazione del contesto in cui si sarebbe collocata. Non sarebbe certo stato questo progetto a ‘rovinare’ un presunto paradiso naturale, perché il territorio, come dicevo, è già stato ampiamente compromesso, nei decenni passati, in nome dello sviluppo a tutti i costi e senza regole; ma certo rappresentava proprio il ‘simbolo’ di quel tipo di sviluppo.
I fatti
La storia si snoda durante quasi sei anni (il No definitivo arriva a fine settembre 2007). All’inizio non avevamo molta fiducia di riuscire a vincere una lotta contro forze ben più potenti, con appoggi politici ed in sostanza contro un progetto già deciso. Va detto però che via via che acquisivamo competenza e conoscenza e che sentivamo crescere l’appoggio dei cittadini, di forze sociali e amministrazioni, anche grazie ad un’opera costante di informazione, è cresciuta anche la fiducia e la determinazione.
In realtà sono stati sei anni di alti e bassi, un alternarsi di momenti di fiducia e di speranza a momenti di rabbia e preoccupazione.
Mesi di continue mosse e contromosse, come una partita a scacchi, con a volte il classico tentativo di chi ha potere di usare, a proprio vantaggio, tutte le relazioni e i passaggi stretti delle normative (un esempio può essere la riapertura dell’iter completo, dopo la presentazione del primo progetto, con altri due progetti modificati e presentati proprio a ridosso delle ferie di agosto per rendere complicata la presentazione di contro-osservazioni entro i termini).
Una partita, con da un lato i cittadini rappresentati dai comitati e associazioni e dall’altro la società privata, ed in mezzo una serie di altri soggetti che si sono schierati pro o contro ed altri ancora che hanno condotto un gioco estremamente ambiguo, sostenendo nel chiuso delle stanze il progetto della società privata e magari in pubblico dichiarare il sostegno ai cittadini.
Il percorso
Molti momenti significativi, come singoli passi fondamentali di un percorso che ci ha portato alla chiusura positiva della vertenza, penso ad esempio:
- alle varie assemblee pubbliche con la presenza di esperti da noi invitati, sempre molto partecipate ed in particolare la prima assemblea, ha dato il via alla protesta ad aprile 2002, con la presenza di un funzionario sindacale della CGIL Regionale e di un esponente di Medicina Democratica;
- alla raccolta di migliaia di firme, portate poi in Regione, affinché non venissero prese decisioni sulla testa e contro il parere dei cittadini
- al coinvolgimento dei consigli comunali, provinciale e regionale con l’adozione di ordini del giorno contrari alla realizzazione del progetto
- alla straordinaria partecipazione popolare alle due manifestazioni svoltesi a Montecchio Maggiore, ed in particolare la seconda egrande manifestazione nella serata del 25 settembre 2003 con la presenza di circa 20.000 persone.
E poi ancora la ‘calata’ a Venezia del 30 luglio 2002 (importante il sostegno organizzativo della CGIL), con 25 pulmann e circa 2000 persone, con striscioni preparati dalle varie contrade e con centinaia di cartelli con i ben noti simbolo e scritta, durante la quale i sindaci ed una delegazione dei comitati sono stati ricevuti dalla Giunta e dal Consiglio Regionale che ha poi votato una mozione, sopra riportata, per impegnare la Giunta a bocciare il progetto della centrale di Montecchio Maggiore. E il successivo incontro a Roma tra una delegazione dei comitati ed il Ministro delle Attività produttive.
Mi sembra utile sottolineare alcuni temi che hanno caratterizzato l’esperienza.
Un aspetto culturale:
Una prima battaglia abbiamo dovuto sostenerla sul piano culturale, nel rapporto con i cittadini, per riuscire a superare una sorta di atteggiamento caratterizzato da ‘fatalismo’ e ‘delega’ sempre presenti (salvo poi lamentarsi). Un atteggiamento che rivela però anche la difficoltà ad impegnarsi, a spendere qualcosa del proprio tempo, ad essere cittadini consapevoli che partecipano in prima persona; ben espresso nelle frasi: “Ormai hanno già deciso…”. “Cosa possiamo farci?...” ecc..
La seconda considerazione è che tutta la vicenda è stata anche una ‘grande scuola’, una esperienza formativa; soprattutto per noi, cioè per chi era più direttamente impegnato. Lo studio del progetto ci ha ‘costretto’ ad approfondire i temi e le caratteristiche anche tecniche, non solo dell’impianto in quanto tale, ma anche del contesto, cioè del nostro territorio, dei suoi insediamenti, delle sue caratteristiche, dei suoi limiti, dei suoi carichi inquinanti ecc. Ci ha costretto a ‘vedere’ e ‘leggere’ il territorio in cui viviamo e che sicuramente non conoscevamo in modo così approfondito; in fondo ci ha spinto anche ad ‘amarlo’ un po’ di più ed a sentircene responsabili.
Abbiamo dovuto imparare le normative e le leggi che regolano questi processi ed anche i meccanismi economici che li sottendono. Il tutto anche attraverso il confronto con esperti nei vari ambiti che abbiamo potuto conoscere e con cui abbiamo interloquito.
Abbiamo dimostrato che i cittadini possono saper tenere testa, sul livello di conoscenza tecnico/scientifica, anche a chi si crede depositario della cosiddetta “verità” scientifica. Un esempio di tutto questo è stato il dibattito in una TV locale in cui i portavoce dei comitati e l’assessore del comune di Arzignano, hanno ribattuto punto per punto alle false “verità” dei proponenti la centrale. I movimenti possono creare informazione e conoscenza scientifica.
La rete di relazioni
un altro aspetto importante, di questa ‘scuola’ è stato l’ambito delle relazioni, con una dinamica che potrei definire sia interna che esterna.
Interna, con il mettersi insieme di gruppi e persone più attive e disponibili nei vari comuni (il coordinamento dei comitati) ed esterna nel rapporto con i cittadini, attraverso un continuo impegno di informazione e di coinvolgimento ma anche con le forze politiche e sociali, le istituzioni
La logica è stata appunto quella di allargare il più possibile la rete di relazioni ed il consenso, confrontandoci con le varie forze sociali e sindacali del territorio, con le parrocchie, le categorie economiche, le amministrazioni locali, provinciale e regionale, con le forze politiche a tutti i livelli, anche quello nazionale, con i Ministeri competenti a livello nazionale, con vari esperti ecc.
La partecipazione straordinaria dei cittadini ed il loro sostegno ci hanno permesso di allargare progressivamente il fronte amministrativo, sociale, politico, che ci ha appoggiato; ma penso sia più corretto dire che le due cose si sono alimentate a vicenda.
Si sono schierati fin da subito con i comitati la CGIL, i parroci della zona, le associazioni di volontariato. Ma, gradualmente, già nei primi mesi successivi all’avvio, hanno appoggiato la protesta anche quasi tutte le amministrazioni locali e i Consigli Comunali, le altre forze sindacali e alcune associazioni di categoria (Coldiretti, il mandamenti locali dell’associazione Artigiani e dell’API…)
Avevamo invece contro l’Associazione Industriali di Vicenza (anche se alcuni imprenditori locali hanno dato l’appoggio ai comitati), e la Camera di Commercio. Con sullo sfondo l’atteggiamento, inizialmente, non ‘super partes’ di una TV locale di proprietà dell’Associazione industriali. TV che del resto ha avuto modo anche recentemente di distinguersi per lo stesso atteggiamento contro il movimento e i comitati NO DAL MOLIN.
Sul versante più propriamente politico ci sono state forze politiche locali che si sono schierate con i Comitati; alcune fin da subito (le forze di centro sinistra ed anche la Lega Nord). Altre invece, come Forza Italia, che con una vera e propria torsione a 180°, prima a favore del progetto (del resto la sede della società proponente era negli stessi locali della sede di FI a Vicenza) e poi, almeno ufficialmente, contro visto il forte rischio di perdere consensi.
La fantasia
Accanto alle classiche iniziative come le assemblee pubbliche o le manifestazioni, mi sembra utile sottolineare anche un altro aspetto e cioè quello della ‘fantasia’, o per usare un termine più di moda, della ‘creatività’, cercando sperimentare anche forme diverse, sempre con lo scopo di far arrivare il messaggio, di coinvolgere ed informare quante più persone possibile e di tener viva l’attenzione sul tema. Alcune delle iniziative che potrei citare sono ad esempio: le migliaia di bandiere bianche con il logo e la scritta NO ALLA CENTRALE appese nelle case del territorio; una ‘lezione’, tenuta da due portavoce dei comitati, ai ragazzi dell’istituto tecnico conciario di Arzignano; la preparazione di un nostro Carro per il carnevale sul tema con cui abbiamo sfilato nei vari comuni della zona; la spettacolare discesa in corda doppia dal campanile di Montecchio Maggiore, effettuata da due amici alpinisti che hanno srotolato un grandissimo striscione verticale con la scritta “NO ALLA CENTRALE per legittima difesa”, durante la manifestazione a Montecchio.
Oppure le decine e decine di e-mail e telefonate che abbiamo immediatamente attivato contro una TV locale per un suo servizio contro i comitati. Contestazione che ha dato vita alla tavola rotonda di riparazione con le due parti a confronto, di cui parlavo prima e, ovviamente, anche il sito internet.
Le motivazioni
C’è stata sicuramente, almeno per una parte di cittadini, soprattutto una preoccupazione ‘locale’, legata al non vedere peggiorare il proprio contesto; ma al fondo, almeno per una parte di noi, credo ci sia stata anche un’altra motivazione che è diventata via via più chiara e consapevole; cioè l’esigenza di fare qualcosa e di opporsi per contrastare la logica che vede poteri economici più o meno grandi che, in nome della realizzazione dei propri interessi privati, vedono il territorio solo come ‘risorsa’ da sfruttare e non esitano a sacrificare altri ‘interessi’ delle comunità locali che sono quelli, ad esempio, di non veder irrimediabilmente compromesso il proprio territorio, l’ambiente naturale e messa a rischio la salute e la qualità della vita.
Una logica che diventa evidente a livello locale quando vengono presentati progetti i cui effetti sono immediatamente percepibili da tutti i cittadini, ma che in generale è la stessa che sembra ormai governare fenomeni ben più ampi a livello globale.
Del resto la vicenda della Centrale Termoelettrica ha evidenziato come, forse qui più che in altre zone, si sia manifestato il punto di rottura dell’equilibrio tra sviluppo economico, consumo del territorio, sostenibilità ambientale e qualità del vivere.
Da parte dei cittadini, sembra essere cresciuta una maggiore consapevolezza, si sta sempre più manifestando il disagio di vivere in un ambiente stressato ed emerge la domanda di porre in atto azioni di risanamento e soprattutto la necessità di porre limiti.
In sintesi direi che l’esperienza fatta ha contribuito a cambiare un po’ lo ‘sguardo’ dei cittadini verso il territorio. Da luogo visto come un insieme di tanti piccoli spazi privati; anzi, il proprio piccolo spazio privato e per il resto uno spazio ‘anonimo’ a cui si resta pressoché indifferenti, ha iniziato ad essere riconosciuto (parafrasando il titolo del convegno di oggi) come un ‘bene comune’ che riguarda tutta la comunità.
Anche a fronte del percorso fatto e dell’esperienza e sensibilità maturate il coordinamento dei comitati anticentrale ha deciso di costituirsi formalmente, nel 2005, in associazione permanente “Per lo sviluppo e(ti)co-sostenibile dell'Ovest Vicentino”; dove il nome mette insieme sia la dimensione ecologica legata alla difesa dell’ambiente, sia quella sociale con una domanda di partecipazione e di democrazia.
L’associazione infatti, continua a riunirsi e ad occuparsi dei temi legati al territorio, alla tutela dell’ambiente, alla qualità della vita, ai rischi per la salute dei cittadini e più in generale alla necessità di ripensare il concetto di sviluppo con un nuovo equilibrio sia dal punto di vista sociale che dell’ambiente naturale e delle risorse, per non scaricare costi insostenibili sul futuro. Dal 2006 sono state organizzate assemblee pubbliche e incontri con gli amministratori locali ed esperti, sul tema dell’urbanistica e delle infrastrutture, dell’inquinamento atmosferico e del trattamento delle acque e fanghi del distretto conciario, sul trattamento dei rifiuti.
Va detto però, che a di là delle relazioni con gruppi ed associazioni in ambito locale, non c’è stato un ‘mettersi in rete’ con altri movimenti a livello più ampio, anche se una nostra delegazione ha partecipato ad un forum nazionale organizzato a Firenze nel 2004 che ha raggruppato i vari movimenti e comitati attivi in Italia sul tema dell’energia e dell’ambiente.
Infine un ultimo punto; come dicevo sopra, la partecipazione di molte persone alle assemblee informative, i dibattiti, le manifestazioni, i vari volantini ecc. hanno fatto emergere e crescere una maggiore consapevolezza nella comunità locale sui temi dell’ambiente, dell’inquinamento e della salute.
Una indagine effettuata nel 2007, da una società specializzata, su un campione di 1000 cittadini della valle del Chiampo ha posto come prima domanda: “Qual è il problema più urgente del territorio in cui vive?” Le risposte evidenziano come i 2/3 dei cittadini mettano al primo posto: inquinamento, rovina del paesaggio, traffico. Mentre è citato da circa il 10% il problema della criminalità, dei servizi sanitari e della disoccupazione.
Da tener conto che in zona c’è una significativa presenza di cittadini stranieri con punte che superano il 20% in qualche comune e c’è una forte presenza e propaganda della Lega Nord sul tema della sicurezza. Aggiungo che, a livello Veneto, sempre secondo la società che ha effettuato l’indagine, al primo posto viene citato il problema della criminalità e sicurezza.
Le iniziative e le battaglie attorno ai temi concreti del territorio, dell’ambiente e della qualità della vita possono cambiare anche la cosiddetta ‘percezione’ dei cittadini rispetto ai problemi e fanno emergere domande che possono aiutare a cambiare le priorità su cui si fonda il consenso politico.
Vorrei, a premessa, ribadire il mio pieno consenso alla impostazione che è alla base della esperienza e del confronto di una rete significativa di Camere del Lavoro della CGIL. Impostazione più volte richiamata da diversi interventi e che ha al centro il processo di integrazione tra la contrattazione in azienda e la contrattazione nel territorio, in particolare quella rivolta ad affrontare i temi del salario “sociale” e dei beni comuni di cittadinanza.
Il confronto tra diverse esperienze è importante e necessario. Infatti mentre la contrattazione in azienda, anche se vive una fase di rilancio, aggiornamento, in particolare sui temi dei cambiamenti e dell’organizzazione del lavoro, sui processi di frammentazione del lavoro attraverso nuove esperienze contrattuali come la contrattazione di sito, ha un suo impianto definito nelle attuali regole contrattuali, per certi versi una sua esigibilità, la contrattazione sociale territoriale è invece oggi tutta da conquistare ed affermare con un ruolo più generale del sindacato confederale. Le esperienze concrete e la loro socializzazione sono importanti come terreno delle buone pratiche, ma lasciano aperte delle questioni di fondo sul processo democratico che hanno, a mio avviso, un peso determinante sulla efficacia di una qualificata contrattazione territoriale.
Mi riferisco da una parte agli strumenti più sindacali della contrattazione territoriale che riguardano la partecipazione nella fase di costruzione delle piattaforme, dei lavoratori e dei pensionati, la validazione delle piattaforme e, dall’altra, alla verifica dei risultati e dell’efficacia economica e sociale degli accordi e, non da ultimo, alla costruzione di ponti, di reti con i movimenti sociali del territorio.
Ho voluto partire da qui perché nella mia esperienza confederale di questi anni, il lavoro svolto sui diversi piani, ancora molto parziale, ha scontato e sconta tuttora le difficoltà derivanti dalla mancanza di opportune soluzioni ai nodi problematici sopra richiamati e che è importante invece affrontare con pratiche ed anche regole strutturate.
Venendo al percorso di lavoro sperimentato nella nostra esperienza di CGIL di Venezia. Siamo partiti prima di tutto dalla costruzione di una nostra elaborazione generale sui temi della città di Venezia. Le conferenze sulla città del 2001 e del 2006 volevano essere una sintesi della nostra elaborazione, del nostro punto di vista sui temi della città in base al quale avviare una fase di confronto/concertazione con l’Amministrazione Comunale e non solo.
La Conferenza del 2001 ipotizzava già nella sua impostazione un “Nuovo patto per vivere e lavorare in una città coesa, solidale, sostenibile”, proposta che non è stata raccolta in quella fase, mentre la Conferenza del 2006 “Vivere e lavorare a Venezia” voleva con “la consapevolezza della nostra rappresentanza di parte, contribuire partendo da una analisi delle criticità, ad una progettualità di sistema che non si intravedeva ancora nella Amministrazione Locale”.
La Conferenza del 2006 ha messo le basi per due importanti “accordi quadro” il primo dei quali ha riguardato i temi di “uno sviluppo sostenibile e di qualità” sottoscritto con l’Amministrazione Provincia e Unindustria. Sui temi delle politiche sociali, si è sottoscritto invece un “accordo quadro sulle politiche sociali di qualità nella provincia di Venezia” coni Presidenti delle Conferenze dei Sindaci delle ULSS della provincia, con il Sindaco di Venezia e con il Presidente dell’Amministrazione Provinciale.
Erano entrambi due Accordi Quadro di linee e indirizzi generali, a mio avviso, accordi molto positivi dal punto di vista della qualità e dei contenuti e che andavano e mi permetto di dire ancora, vanno gestiti.
Sottolineo tra i contenuti più qualificanti l’obiettivo del dialogo, dell’incontro sul campo ed in particolare per noi sulla vita industriale di Porto Marghera, della cultura operaia con la cultura ambientalista, come auspica Asor Rosa nel testo richiamato dall’intervento di Oscar Mancini. L’Accordo Quadro sui temi dello sviluppo locale, sulla gestione del mercato del lavoro, sulla sicurezza, ha incontrato un forte limite nei soggetti firmatari in particolare Confindustria, e qualche resistenza, difficoltà, nelle relazioni confederali con le rispettive categorie, ma, soprattutto, una incapacità del livello istituzionale di saper sfruttare questa opportunità. Sapendo, tra l’altro, che la scelta dell’interlocutore istituzionale, l’Amministrazione Provinciale, rispondeva anche a quella ipotesi di lavoro prospettata nella comunicazione di Cristina Gibelli.
Ha prodotto comunque diversi accordi di settore, soprattutto sulla situazione di Porto Marghera attraverso un riallineamento istituzionale che ha coinvolto Regione, Provincia e Comune di Venezia, arrivando ad un accordo che, come CGIL, non abbiamo sottoscritto per una valutazione di merito sulle prospettive ambigue e negative della riconversione di Porto Marghera.
Sui temi del mercato del lavoro ci siamo trovati di fronte alla mancanza di volontà della Amministrazione Provinciale di raccogliere una sfida alta per una gestione “strutturata e forte” del mercato del lavoro veneziano e sembra che questa disponibilità si stia manifestando solamente in questa fase, a fine legislatura.
Mentre, anche sulla spinta dei gravi episodi di infortuni mortali, siamo riusciti a definire una piattaforma unitaria sulla sicurezza nel lavoro e a pervenire a primi importanti accordi nel Porto di Venezia e nell’edilizia, anche se questo tema non è ancora diventato patrimonio culturale, sociale e politico della città. Una priorità non solo dei lavoratori coinvolti.
L’Accordo Quadro sulle politiche sociali doveva essere propedeutico alla definizione di specifiche piattaforme per le singole ULSS della provincia, per la contrattazione sociale con i Comuni a partire dal confronto sui bilanci preventivi per poi affrontare le diverse politiche di settore. Ad oggi abbiamo già varato una piattaforma unitaria con l’ULSS 12 veneziana ed è in corso la trattativa sui singoli punti. E’ in via di definizione la piattaforma unitaria per le alre 3 ULSS della provincia. Stiamo parlando di piattaforme confederali costruite, discusse con il Sindacato Pensionati e con la Categoria, ma che scontano, in particolare per la tenuta dei rapporti unitari, i limiti di una loro socializzazione più ampia, di una validazione e verifica formale che faccia diventare questi obiettivi, propri di una comunità cittadina o almeno di tutto il mondo del lavoro che rappresentiamo.
Sul versante invece delle politiche sociali dei Comuni stiamo stabilizzando un metodo di lavoro che si basa sulla definizione di indirizzi generali, su piattaforme locali e comunali, sulla stipula di accordi e non solo di “verbali di incontro” ed in particolare stiamo cercando di rendere sempre più evidenti le nostre priorità e la necessità di una efficacia verificabile e condivisa della nostra iniziativa sindacale.
Se dovessi brevemente, anche raccogliendo i temi qualificati dell’iniziativa di oggi, esprimere una mia personale valutazione, mi sentirei di dire che la cosa più importante per la CGIL da fare nella prospettiva della contrattazione territoriale, sia quella di aprire il sindacato, la CGIL al confronto più ampio ed articolato con i soggetti collettivi che agiscono in città e nel territorio e l’iniziativa di oggi è per me un segnale importante in questa direzione. C’è una Amministrazione pubblica che sta accentuando i caratteri di una difesa autoreferenziale del proprio operato amministrativo che noi contestiamo per molti aspetti nel merito e nel metodo. Si muovono in città gruppi, associazioni, comitati che non sempre contribuiscono alle finalità di coesione sociale e politica e di sintesi più avanzate, condizionati troppo dalle scadenze elettorali. Si ha spesso la sensazione che gli interessi di parte siano agitati “contro” invece che proposti per costruire una sintesi più larga e più avanzata, lasciando sullo sfondo la necessità di una sintesi per una vera coesione sociale.
Sarebbe importante come mi sembra auspichi Anna Marson, se, come CGIL, come sta avvenendo nella partita nazionale, dove la CGIL può rappresentare il luogo di riflessione, verifica critica e proposta per uscire da questa crisi del liberismo con un modello di sviluppo sostenibile socialmente e ambientalmente, con un rafforzamento del valore sociale del lavoro, anche nel territorio avvenisse questo cioè che il luogo della CGIL potesse essere un luogo aperto, positivo, di costruzione di una proposta alta e positiva di vivere la cittadinanza in tutte le sue dimensioni a partire da quella del lavoro.
Parlare di città come luogo delle espulsioni e delle segregazioni all’interno di un convegno dedicato alla città come bene comune può sembrare un controsenso.
Se, però, si considera che le due definizioni descrivono sinteticamente due ipotetiche situazioni estreme, due modelli contrapposti, mai perfettamente riscontrabili nella realtà, ma rispetto ai quali è possibile valutare la struttura di ogni specifica città, il tema acquista rilevanza, perché consente di riconoscere il distacco tra l’aspirazione alla città come bene comune e l’esperienza quotidiana, di individuare gli ostacoli che si frappongono al raggiungimento dell’obiettivo, di preparare una efficace strategia operativa.
Far diventare la città un bene comune, infatti, richiede una serie di azioni coerenti, individuali e collettive, basate, oltre che sulla condivisione di questo ideale, sulla consapevolezza di una diffusa e crescente tendenza a trasformare la/le città in merce a disposizione solo di quelli che possono permettersi di pagarne il costo, in luogo dove la frammentazione sociale viene facilitata o perpetuata dalla sconnessione fiisca.
Che la città non sia un ammasso di edifici, di strade, di individui, ma un organismo solidale nel significato letterale del termine - sia cioè composta di elementi collegati uno all’altro, ognuno dei quali è essenziale per il funzionamento complessivo - è una nozione ampiamente condivisa dal punto di vista teorico, ma che non si traduce in adeguati interventi progettuali e procedure amministrative.
Al contrario, la sconnessione è, allo stesso tempo, un prerequisito e un risultato delle molteplici forme di espulsione, segregazione, autosegregazione che stanno scardinando la società. Come qualsiasi fenomeno di separazione sociale, esse sono l’esito dell’intreccio e della sovrapposizione di aspirazioni individuali, di comportamenti e di scelte indotte dal mercato, di decisioni politiche e istituzionali. Ed è da queste ultime, dalle loro motivazioni e dai loro effetti, che è opportuno partire, se si vuole evitare che la svalutazione in corso dell’idea di città come bene comune, e dello stesso concetto di bene comune, produca ulteriori danni. Per la loro estrema pervasività e apparente neutralità, infatti, le politiche delle pubbliche istituzioni hanno un ruolo decisivo nel favorire, assecondare, consolidare la segregazione nelle sue diverse accezioni.
Molto schematicamente si può dire che:
- la società è costruita spazialmente, nel senso che le strutture spaziali che gli uomini creano non esistono indipendentemente dalla società che riflettono, ma possono amplificare certe tendenze e ridurne altre,
- l’ingiustizia e l’inequità sociale sono leggibili spazialmente. Non solo l’insediamento di un individuo o di un gruppo in una determinata parte di territorio e di città è in larga misura determinato dalla sua capacità a pagare, ma la localizzazione di attività di pregio o degradanti, la dotazione di infrastrutture e la erogazione di servizi secondo criteri e standard diversificati in funzione dei gruppi di popolazione ai quali sono destinati, lo spostamento di abitanti da una parte all’altra del territorio codificano e rafforzano ineguaglianza e discriminazione,
- la città segregata ha una forte persistenza nel tempo, perché la distribuzione o redistribuzione forzata della popolazione, la costruzione di barriere fisiche per separare un gruppo dall’altro, sono fenomeni che durano anche dopo l’eventuale cambiamento di leggi e norme che impediscono ad alcune categorie di popolazione di abitare in specifiche parti del territorio o le obbligano ad insediarsi solo in altre e ben delimitate porzioni,
- nel linguaggio corrente il termine segregazione viene spesso usato come sinonimo di segregazione residenziale. In realtà la gamma delle segregazioni è molto più articolata, ma l’esclusione dalla casa o l’esclusione attraverso la casa aggravano la frammentazione sociale e la segregazione residenziale è contemporaneamente una manifestazione di ineguaglianza ed un elemento che sostiene tale ineguaglianza.
Dal momento che la casa è uno dei più cospicui indicatori di ineguaglianza, perché status sociale, reddito, identità razziale e di classe sono intimamente legate con il tipo di alloggio, la sua localizzazione e le sue condizioni intrinseche e ambientali, è evidente che le vicende dell’edilizia residenziale pubblica e la selezione e destinazione di ambiti spaziali ad uso esclusivo di gruppi di popolazione omogenea secondo qualsivoglia criterio, forniscono elementi importanti circa gli atteggiamenti di una società in un determinato momento storico. D’altro lato, anche la segmentazione del mercato residenziale ci fa intravedere scenari preoccupanti perchè l’enorme diversificazione delle opportunità residenziali, a seconda del reddito e delle cosiddette “preferenze” di stili di vita, si accompagna ad una forte tendenza all’esclusione e all’autoesclusione,
- se le manifestazioni più odiose di segregazione suscitano, e del resto non sempre, indignazione, attorno alla segregazione in sé esiste un vasto e crescente consenso. Particolarmente apprezzati da m olti cittadini sono gli interventi il cui scopo dichiarato è la loro protezione, attraverso la separazione fisica, da coloro che hanno, o si presume abbiano, comportamenti devianti.
Infine, tra le forme, certo meno violente ma forse più subdole, di segregazione vanno incluse anche quelle che cercano di garantire “buone condizioni” a un determinato gruppo considerandone le esigenze in contrapposizione a quelle di tutti gli altri. Sempre più spesso si sente parlare di città dei bambini, degli anziani, delle donne, dei disabili, come se ciascuna di queste “categorie deboli”, identificate in base a un criterio anagrafico e/o di prestanza fisica, con l’eventuale correzione del livello di reddito, rappresenti un insieme omogeneo dai connotati e necessità così specifici da tradursi automaticamente in requisiti fisici e spaziali.
Si tratta, ovviamente, di fenomeni diversi dalla discriminazione che colpisce gli immigrati; pure essi contribuiscono all’affermazione dell’idea che la separazione sia non solo necessaria e innocua, ma positiva.
E dal punto di vista urbano/territoriale contribuiscono ad accentuare la tendenza a creare spazi destinati all’uso esclusivo da parte di una precisa categoria di popolazione le cui caratteristiche possono essere di volta in volta definite, come si trattasse di un gruppo di consumatori, piuttosto che progettare una città adatta a tutti, inclusiva, diversificata ma non frantumata.
Il progetto di frammentazione sociale di cui la città è contemporaneamente scenario e attore ha valenza economica, politica e simbolica. Per contrastarlo e modificarlo in senso democratico, non bastano generici appelli, ma è necessaria una sistematica opera di svelamento e divulgazione dei meccanismi che lo sostengono, nonché un’accorta e incisiva campagna di promozione di modelli alternativi.
Innanzitutto bisogna capire e far capire che progettare le città per renderle sempre più luogo di segregazioni ed espulsioni ha effetti dannosi e cumulativi sul tessuto sociale nel suo complesso.
La separazione produce inferiorità sociale, è il primo passo per la messa in opera di un sistema di ineguaglianze accumulate, è funzionale all’instaurazione di una società sempre più iniqua. Non a caso, da un lato si alimenta un atteggiamento popolar razzista le cui sanguinose conseguenze non fanno nemmeno più notizia, dall’altro si opera per una parallela disaggregazione dei legami sociali di classe e per la costruzione di città intrinsecamente divise.
In una città normale il conflitto esiste ed è visibile, ma non esclude la cooperazione; nella città divisa, invece, il conflitto è controllato, ma non esistono forme di solidarietà fra i “diversi” gruppi ed individui.
Nella prima il livello del conflitto si mantiene tollerabile grazie alla mediazione politica tra interessi diversi e legittimi. Nella città divisa, invece, dove la mediazione è sostituita dai rapporti di forza tra chi guadagna dalle divisioni e chi ne paga i costi, il conflitto può solo esssere represso od esplodere in forme violente, come infatti avviene. Sostanzialmente, segregare serve a discriminare.
Meno facile è definire l’integrazione, ma qualsiasi significato si dia al termine è certo che la mancanza di integrazione è inestricabilmente legata a un disequilibrio di potere. Le stesse politiche color blind, quindi, apparentemente neutrali, se non sono integrate e fortemente sostenute, non solo non producono una maggiore integrazione, ma possono avere effetti perversi, perché suscitano reazioni ostili dei gruppi che si sentono ingiustamente defraudati a presunto vantaggio dei «non aventi diritto/i».
Integrazione è una parola ombrello che significa molte cose: ridurre le differenze tra ricchi e poveri, dare eguali opportunità ad uomini e donne e a giovani e anziani nel mercato del lavoro, migliorare l’accesso all’educazione, alla sanità, alla casa, ai servizi sociali, promuovere il rispetto per altri sistemi di valori e la coesistenza di diversi stili di vita e tra i diversi gruppi etnici e le varie minoranze. L’integrazione presuppone l’esistenza di una città bene comune ed è un elemento che può facilitarne la costruzione.
1. Perché parliamo nuovamente del problema della casa
Negli ultimi dieci anni l’innalzamento dei prezzi di vendita e dei canoni di affitto delle abitazioni è stato di gran lunga superiore alla crescita dei redditi delle famiglie. Secondo una rilevazione effettuata da CRESME, nel periodo 1998-2005 i canoni sono cresciuti mediamente del 49% (ma nelle grandi città dell’80%), i prezzi di vendita del 51% (ma nelle grandi città del 60%) (Calimani).
Nello stesso periodo, i mutui per l’acquisto di una casa hanno spuntato le condizioni migliori di sempre, ma nonostante ciò molte famiglie si sono indebitate in modo eccessivo e per periodi troppo lunghi. Per di più, non appena si sono verificate tensioni sui mercati finanziari, l’accesso al credito è diventato più oneroso. Secondo Banca d’Italia, in soli 7 anni, dal 1997 al 2004, l’indebitamento complessivo delle famiglie per acquistare un alloggio è creciuto di ben 4 volte, passando da 40 a 160 miliardi di euro (Sbetti).
Anche pagare l’affitto è diventato un problema. Dieci anni fa è stata cancellata la legge 392/1978 che imponeva la moderazione degli affitti e oggi possiamo constatare gli effetti dell’impennata dei canoni . Si stima che per 1,7 milioni di famiglie l’affitto incida per oltre il 30% del reddito complessivo. E’ il caso, per esempio, di una famiglia che guadagna 20.000 euro netti l’anno (una busta paga sola, oppure due lavoratori precari) e paga un’affitto di 600 euro/mese (Calimani e Caudo 2008).
L’obbligo per i comuni di riservare dal 40 al 70% del fabbisogno abitativo decennale all’edilizia economico popolare è, di fatto, disatteso, nonostante siano tuttora in vigore le leggi che lo prevedevano (Brenna). L’edilizia sociale è pressoché azzerata: i finanziamenti statali sono esauriti, è stata imposta una stretta alla possibilità delle pubbliche amministrazioni di contrarre mutui, alcune sentenze della giurisprudenza particolarmente favorevoli per la proprietà privata hanno reso il ricorso agli espropri più oneroso e complicato. Secondo i dati ISTAT, nel 1984 le abitazioni costruite con contributi pubblici erano poco meno di 60.000, di cui la metà di proprietà pubblica; nel 2004, rispettivamente, 10.000 e meno di 2.000. (Sbetti e Calimani).
2. Domanda di abitazioni e mercato immobiliare
In Italia ci sono:
- molte più abitazioni che famiglie (rispettivamente 27 e 22 milioni);
- la più alta percentuale di abitazioni in proprietà dell’Europa, dopo la Spagna (16 milioni di abitazioni al 2001, più del 70%);
- una produzione edilizia molto sostenuta, in particolare nell’ultimo decennio (circa 300.000 nuovi alloggi ogni anno).
Perché, nonostante questi dati strutturali, la casa è tuttora un problema?
Certamente esiste una domanda crescente. Anche se la popolazione è complessivamente stabile, le famiglie aumentano in modo significativo e, conseguentemente, cresce il fabbisogno di abitazioni.
Tra il 2000 e il 2007 il numero delle famiglie è passato da 22 a 24 milioni (285.000 nuclei aggiuntivi ogni anno, dato non troppo distante dalla produzione di alloggi). In secondo luogo, le persone si spostano in cerca di un lavoro e di un futuro migliore: per questa ragione le montagne e le colline dell’Italia interna si spopolano, le aree metropolitane si espandono e accrescono i loro abitanti.
Cambiamenti così rilevanti giustificano l’esistenza di un fabbisogno, ma non bastano a spiegare perché le richieste non trovano una risposta adeguata.
Il nodo centrale sta nel fatto che la liberalizzazione del mercato della casa ha determinato un innalzamento generale dei valori immobiliari, elevato e continuo nel tempo. Costruire e rivendere le case è da molti anni un business redditizio e sicuro. Ssecondo diversi esperti, il ciclo immobliare che stiamo attraversando è il più lungo nella storia del nostro paese. Nei momenti di picco si sono vendute fino a 800.000 abitazioni in un anno: il mercato delle compravendite, quindi, è di gran lunga superiore a quello delle case in realizzazione ed è proprio nei passaggi di proprietà (a volte più d’uno per lo stesso alloggio) che si creano ingenti plusvalori. Il settore immobiliare ha drenato risorse dal sistema delle imprese, distraendole dagli investimenti nella catena produttiva , e attratto cospicui investimenti finanziari. In un circolo perverso, la rendita edilizia e quella finanziaria si sono alimentate a vicenda, fino al crack odierno che ha investito direttamente gli Stati Uniti e – di riflesso – l’Europa.
3. Chi soffre del disagio abitativo?
Sappiamo tutto dell’Isola dei Famosi. Molto meno della penisola degli anonimi. Per troppo tempo si è pensato che il disagio abitativo riguardasse solo gli ultimi nella scala sociale e solamente ora ci siamo accorti che coinvolge anche i “penultimi” e – in prospettiva – anche i “terzultimi”. Il disagio abitativo è spia di una progressiva retrocessione di strati crescenti della popolazione, confermata peraltro dagli indicatori sulla disuguaglianza di reddito, molto elevati e in aumento.
Tra gli ultimi ci sono i poveri, ovviamente . I senza casa sono circa 150.000, ma se guardiamo al reddito, possiamo considerare al di sotto della soglia di povertà il 12,7% della popolazione, cioè più di 7.000.000 di persone (la somma degli abitanti di Roma, Milano e Napoli oppure dell’intero Triveneto). Anche gli immigrati possono essere considerati al fondo della scala sociale: secondo l’ISTAT, sono poco meno di 3.000.000, ma secondo CARITAS sono ancora di più, quasi 4.000.000 (Caudo 2008, Calimani).
Al penultimo posto possiamo collocare:
- chi ha un lavoro nelle grandi città (magari precario) e cerca casa: come abbiamo detto, i valori immobiliari delle grandi città sono letteralmente schizzati verso l’alto in pochi anni;
- chi studia in città e non trova un ‘posto alloggio’: gli studenti fuori sede sono circa 650.000, ma i posti letto istituzionali sono solamente 54.000, appena l’8% della domanda;
- chi rimane da solo (divorziati, single, vedovi…), chi ha troppe persone da mantenere (famiglie monoreddito, famiglie con molti figli), chi è in difficoltà (oltre ai precedenti, anche anziani, ammalati, famiglie con disabili) e non può ‘produrre’ a sufficienza per pagarsi mutuo o affitto.
Quest’ultima lista non è affatto stabile. Anche i terzultimi, quelli che per ora non entrano nelle statistiche sul disagio, non appena il loro reddito dovesse calare potrebbero trovarsi in difficoltà, per l’incidenza del mutuo o del canone d’affitto. E, in una società selettiva, chi è in difficoltà rimane inesorabilmente indietro.
4. Come viene aiutato chi cerca casa?
Chi cerca casa, oggi, può contare solo sulle proprie forze. La politica della casa, in Italia, è nata agli inizi del novecento (la legge 251/1903 è il primo provvedimento promulgato allo scopo di facilitare la costruzione di case popolari), si è sviluppata in modo consistente a partire dagli anni sessanta (leggi 167/1962, 865/1971, 457/1978 – ultimo provvedimento organico di finanziamento), per esaurirsi alla fine degli anni novanta. Possiamo individuare nella legge 21/2001, riguardante il secondo programma di contratti di quartiere e la costruzione di 20.000 alloggi in affitto, l’ultimo provvedimento che ipotizza un finanziamento pubblico statale.
Nel frattempo, con il Dlgs 112/1998 molte funzioni e compiti amministrativi in materia di politica della casa sono stati trasferiti alle regioni senza però una corrispondente attribuzione di risorse. In un contesto complessivo di scarsa incidenza della spesa per la casa (nel 2008, 13 regioni su 20 hanno destinato a questo scopo meno dell1% del PIL regionale), le politiche attivate nelle diverse regioni presentano differenze crescenti, accentuando la frattura fra il centro-nord e il sud, dove l’investimento è tuttora legato ai fondi residui ex Gescal (CENSIS-Federcasa).
Possiamo suddividere le politiche della casa in due grandi filoni. Da un lato, si collocano gli interventi volti a sostenere la domanda. Mediante crediti agevolati, buoni casa, buoni affitto e simili, si aiutano le famiglie a cercare un alloggio alle condizioni di mercato. Per le ragioni spiegate in precedenza, questo tipo di sostegno viene – di fatto – vanificato dall’innalzamento dei canoni e dei prezzi di vendita.
Dall’altro lato si collocano gli interventi sull’offerta di abitazioni, consistenti:
- nella costruzione pubblica degli alloggi e loro assegnazione in affitto alle famiglie più disagiate (gli ultimi saranno i primi, se vogliamo… poi c’è sempre qualcuno che imbroglia, ma questa è un’altra storia);
- nell’agevolazione di imprese e cooperative che si impegnano a costruire alloggi da mettere in vendita o in affitto a prezzi concordati (edilizia convenzionata);
- nella regolazione degli affitti, mediante una definizione del canone legata a parametri sottratti alle dinamiche di mercato (il cosiddetto equo canone).
La costruzione pubblica di alloggi ha sempre avuto, sotto il profilo quantitativo, un ruolo marginale. Si è costruito molto meno del necessario, come testimonia lo scarto mai colmato tra domande presentate e alloggi assegnati. Nel biennio 2002-03, secondo un’indagine a campione condotta dal CRESME (117 comuni aventi una popolazione complessiva di oltre 15 milioni di abitanti), delle 126.671 domande presentate nel biennio 2002-2003 per l’assegnazione di alloggi di edilizia sovvenzionata, ne sono state soddisfatte solo 10.156, pari all’8% (Storto).
L’edilizia convenzionata ha ottenuto migliori risultati, in particolare nelle città dell’Italia centrale, ma non è stata in grado di ‘calmierare’ la crescita dei prezzi nelle aree a maggior tensione abitativa. Sia l’edilizia pubblica che quella convenzionata hanno subito una una forte contrazione negli ultimi anni: nel 1984 il loro apporto era pari al 23% della produzione edilizia, nel 2004 solamente all’8% (l’iniziativa delle cooperative si è dimezzata, quella del settore pubblico è crollata all’1%).
Per di più, con la legge 560/1993 è stata autorizzata la dismissione di parte del patrimonio immobiliare degli ex Istituti autonomi case popolari, che – al momento – ha prodotto una riduzione pari al 10%. Infine, la mancata gestione della legge sull’equo canone ne ha vanificato gli obiettivi e la percentuale di alloggi in affitto si è progressivamente ristretta: gli alloggi a canone sociale sono il 5% in Italia, contro il 17% in Francia, il 20% in Gran Bretagna, il 34% nei Paesi Bassi (CENSIS su dati EU).
In buona sostanza, il rapporto tra edilizia sociale e offerta in libero mercato è sempre più sbilanciato a favore del secondo.
5. Che fare. Per quali finalità e con quali strumenti rilanciare le politiche della casa
Il ministro Brunetta, in un suo recente intervento a Urbanpromo 2008, ha sostenuto che il problema della casa ha dimensioni limitate: durante il quinquennio del suo mandato occorrerebbe reperire 50.000 alloggi all’anno, una cifra corrispondente grosso modo al 20% della produzione edilizia complessiva. Poiché il patrimonio pubblico è di circa 1 milione di alloggi, ipotizzato che ai prezzi attuali per realizzare un nuovo alloggio se ne debbano venderne quattro (stima Federcasa), la svendita dell’intero (!) patrimonio potrebbe finanziare il soddisfacimento del fabbisogno. Sembra l’uovo di Colombo, ma le cose non stanno affatto così:
- il fabbisogno – come detto – è molto più ampio e tendenzialmente crescente in assenza di significative correzioni;
- molti inquilini non sono in grado di riscattare l’alloggio;
- il problema del degrado del patrimonio pubblico passerebbe dallo Stato alle famiglie, senza per questo essere risolto.
Vendere tutto, o meglio cartolarizzare, è necessario, secondo il ministro, per accrescere la possibilità di investimento della pubblica amministrazione. Questo è il presupposto del combinato disposto del nuovo piano casa e della valorizzazione degli immobili pubblici stabilito dalla legge finanziaria 133/2008, che a sua volta darà vita ad una nuova stagione di programmi in deroga ai piani urbanistici, con il loro corredo di ulteriori incentivi alla valorizzazione immobiliare (varianti urbanistiche, accordi di programma, trasferimenti di cubature e ulteriori premi edilizi) di cui abbiamo già constatato l’inefficacia e gli effetti negativi sulla vivibilità delle città.
E’ possibile fare tutt’altro, tenendo presente che certamente le risorse pubbliche non sono molte, ma nemmeno esigue come si tende a far credere. Innanzitutto le politiche della casa devono essere inquadrate all’interno di un più vasto e corente programma di azione pubblica che preveda di:
(1) Coniugare politica della casa e politiche per l’inclusione sociale. Casa e città sono intimamente legate tra loro. Abitare ha un significato molto ampio che non si esaurisce nella mera disponibilità di un alloggio e comprende la possibilità di fruire di servizi pubblici, di spazi e occasioni di incontro, di iniziative culturali (non fosse altro per emanciparsi dal pensiero unico ed elaborare un pensiero critico). Per rendere le persone ‘abitanti’ di una città occorrono politiche di accoglienza, di inclusione, di partecipazione. In Europa, la spesa media degli stati per finanziare politiche di inclusione sociale – comprendenti il contrasto al disagio abitativo – è pari al 3,8% del PIL e l’Italia è ultima con lo 0,2% (Calimani).
(2) Coniugare politica della casa e politica del territorio. La pianificazione territoriale non è un inutile orpello. La deregolamentazione urbanistica ha generato il mostro dello sprawl insediativo : abitazioni lontane dai posti di lavoro, pendolarismo sempre più intenso , collasso del sistema dei trasporti, disagi nell’organizzazione di vita delle persone. In assenza di risposte collettive, costi aggiuntivi gravano sulle famiglie, singolarmente costrette ad arrangiarsi. La politica della casa chiede alla politica del territorio di assicurare le condizioni strutturali del benessere:
- alla scala urbana, prendendosi cura della “dimensione pubblica” della città, affinché quest’ultima non si riduca ad un mero ammasso di case;
- alla scala territoriale, affrontando con decisione i problemi legati alle relazioni tra casa, luoghi di lavoro, trasporti e gestione dei servizi pubblici.
(3) Coniugare politica della casa e riassetto della finanza locale. La stretta finanziaria imposta alle amministrazioni locali si è scaricata per buona parte sulla politica della casa e della città, nell’errata convinzione che quest’ultima potesse essere delegata all’iniziativa privata.
Gli oneri di urbanizzazione sono stati utilizzati per assicurare il pareggio di bilancio delle amministrazioni locali, ammettendo in troppi casi la monetizzazione delle opere (meno verde, meno scuole, meno attrezzature pubbliche) per ragioni di cassa. Anche il contributo corrispondente al costo di costruzione, con il quale si sarebbe dovuto finanziare il risanamento del patrimonio edilizio esistente e degradato, è di norma dirottato ad altri scopi . Correzioni della politica nazionale sono quanto mai indispensabili, per ripristinare i canali di finanziamento saggiamente previsti negli anni settanta e incautamente soppressi, senza sostituirli con alcunché.
Per quanto riguarda la politica della casa vera e propria, si può fare tutt’altro che vendere il patrimonio pubblico e spingere le famiglie ad indebitarsi ulteriormente. L’obiettivo prioritario può essere riassunto con il seguente slogan: meno case sul “libero” mercato, più case accessibili. Si deve pretendere un’inversione di rotta radicale rispetto al ciclo immobiliare che abbiamo attraversato, governato dalla legge dell’offerta, Occorre ricostituire una quota significativa di abitazioni a canone o prezzo di vendita commisurato alla capacità di spesa delle famiglie. Oggi un alloggio su 15 è costruito in regime agevolato e uno su 100 è costruito dal pubblico: si tratta di uno squilibrio non accettabile.
Gli strumenti per riequilibrare l’offerta devono essere diversificati: non è necessario prevedere soluzioni troppo radicali (grandi acquisizioni pubbliche), troppo semplicistiche (edilizia sociale come standard, rigidamente fissato), eccessivamente uniformi (occorrono case ‘popolari’, posti letto per gli studenti, case in affitto per i lavoratori in trasferta; occorrono politiche differenziate per le grandi città e per i territori dello sprawl, eccetera). Non secondariamente dobbiamo ricordarci che abbiamo alle spalle un secolo di espansione edilizia. Il patrimonio abitativo si è moltiplicato, quello produttivo ingigantito: il recupero dell’esistente è prioritario rispetto ad ogni ulteriore crescita. A questo scopo, la riconversione delle aree dismesse (caserme, aree ferroviarie, altre grandi strutture – pubbliche e private) deve essere orientata alla realizzazione di edilizia sociale e di servizi pubblici, secondo rapporti equilibrati che tengano conto del contesto in cui si interviene.
Le grandi operazioni immobiliari devono produrre molti alloggi sociali, redistribuendo una parte significativa della rendita. A Milano, secondo un’indagine condotta da Roberto Camagni, i benefici pubblici connessi alle grandi trasformazioni urbane incidono per meno del 10% del valore complessivo degli immobili realizzati, a Monaco per circa il 30%. Nella città tedesca l’onere sostenuto dai privati ammonta fino a 2/3 (sic!) dell’incremento di valore stimato a seguito della trasformazione, concretizzandosi in:
- trasferimenti gratuiti di terreni, per realizzare strade e aree a verde e funzioni collettive e per “compensazione” di impatti, nelle vicinanze del progetto o in altre aree;
- risorse economiche che vanno a finanziare infrastrutture materiali e sociali;
- abitazioni sociali, per 1/3 del totale complessivo.
Ulteriori benefici possono essere prodotti facilitando l’incontro tra offerta di abitazioni non occupate e
domanda sociale: attraverso l’istituzione di fondi di garanzia (il comune prende in affitto dai proprietari gli alloggi e si fa garante del pagamento del canone) e di agenzie per la casa, i possessori di case possono essere invogliati ad affittare a canone controllato; peraltro, i redditi derivanti da affitti calmierati potrebbero essere detassati.
Infine, avendo scelto con attenzione dove intervenire (i piani urbanistici servono a questo), è possibile puntare ad una nuova stagione di finanziamento:
- della costruzione di alloggi popolari, accompagnata da politiche complessive di ‘accoglienza’ e di ‘inclusione’ per non ripetere gli errori del passato ;
- dell’edilizia ‘convenzionata’ (attraverso apposite convenzioni, è possibile ottenere benefici del tutto analoghi a quelli del programma promosso a Monaco di Baviera);
- del cosiddetto housing sociale, anche grazie al contributo del cosiddetto ‘capitalismo mite’, costituito da banche etiche, fondazioni e associazioni che, pur agendo nel mercato, non puntano alla massimizzazione del profitto ad ogni costo, bensì alla realizzazione di iniziative a sfondo sociale che assicurino il ‘pareggio di bilancio’ ovvero il ‘minimo rendimento’ necessario per finanziare l’operazione (DIPSU, CENSIS-Federcasa).
In molte regioni si stanno compiendo interessanti sperimentazioni che possono essere riprese e opportunamente trasformate in iniziative ordinarie ed è, probabilmente, dalle regioni più sensibili che può ripartire una politica della casa degna di questo nome.
Riferimenti bibliografici
Ilaria Boniburini (2008), Parole della città, in eddyburg.it .
Sergio Brenna (2008), Urbanistica ed emergenza abitativa, in eddyburg.it.
Luisa Calimani (2008) Abitare la città. Intervento all’assemblea nazionale degli amministratori locali di sinistra democratica, Firenze.
Roberto Camagni (2008), Il finanziamento della città pubblica, in Mauro Baioni (a cura di), La costruzione della città pubblica, Alinea, Firenze.
Giovanni Caudo, (2008) Case di Carta, in Mauro Baioni (a cura di), La costruzione della città pubblica, Alinea, Firenze.
CENSIS (2008), I nuovi termini della domanda abitativa, relazione di Stefano Sampaolo, Urbanpromo, Venezia.
CENSIS – Federcasa (2008), Social Housing e agenzie pubbliche per la casa, Dexia Crediop, in www.federcasa.it.
Vezio De Lucia (2006), Se questa è una città, Donzelli, Roma (1989 1° ed).
DIPSU - Università degli studi Roma Tre (2006), Nuova questione abitativa, nuove forme dell’abitare e la prospettiva dell’housing sociale, contributo al Rapporto sull’economia romana, Comune di Roma.
Maria Cristina Gibelli (2008) La dimensione sovracomunale in Italia e in Europa, in eddyburg.it.
Maria Cristina Gibelli, Edoardo Salzano, a cura di (2006), No sprawl, Alinea, Firenze.
Edoardo Salzano (1998), Fondamenti di urbanistica, Laterza, Roma-Bari.
Francesco Sbetti (2008), Nuovi strumenti e nuovi attori per la politica abitativa, Urbanpromo, Venezia.
Giancarlo Storto (2005), Le modifiche dello scenario istituzionale e le peculiarità del problema abitativo, atti della Conferenza regionale sulle politiche abitative, Firenze, 15 ottobre 2005, in www.rete.toscana.it.
In concomitanza con l’incontro a Marsiglia dei ministri europei per la casa e la città e sulla base delle decisioni comuni assunte all’European social forum di Malmö si terrà a Venezia un convegno sulla situazione attuale e sulle prospettive che si aprono al sindacato dei lavoratori e ai movimenti della società civile.
Città e territorio - l’ambiente della vita dell’umanità -sono abbandonati dai poteri pubblici. Essi sono utilizzati esclusivamente per arricchire i loro padroni. I problemi sono lasciati marcire, se qualcuno non può trarre tornaconto dalla loro soluzione. L’ambiente e la sua tutela, l’accesso a una abitazione soddisfacente e a un prezzo ragionevole, l’utilizzazione dei servizi sociali indispensabili alla vita (scuola, salute, sport, ricreazione, cultura), sono lasciati sempre più alla mercè del mercato: vengono soddisfatte così le richieste di chi può spendere, restano inevase le domande della quota, continuamente crescente, di chi al mercato non può ricorrere.
Succede in Italia, e non solo in Italia. La privatizzazione dei beni comuni e delle utilità sociali è uno degli assi dell’ideologia e della politica del neoliberalismo. Dovunque – in misura maggiore o minore, con resistenze maggiori o minori da parte della società e delle istituzioni democratiche – la distruzione del “welfare territoriale” si accompagna a quella del welfare sociale. Entrambi, nella loro perversa sinergia, costituiscono l’altra faccia del processo parallelo di dequalificazione del ruolo del lavoro, e tutti agiscono pesantemente sulle condizioni di vita degli abitanti delle città e dei territori, la cui composizione demografica in questi anni è oggetto di profonde modificazioni dovute ai processi migratori .
.
Deboli sono ancora le resistenze, e la costruzione di alternative, a questi processi. Nella società sono vive, e danno luogo a reazioni interessanti e crescenti, le iniziative per la difesa dell’ambiente naturale e storico. Comincia appena a manifestarsi una protesta per la difficoltà di abitare, di godere di un’abitazione adeguata alle proprie esigenze. Si manifestano sporadicamente iniziative per la difesa di spazi pubblici minacciati dalla privatizzazione, e per la crescente segregazione degli abitanti appartenenti alle categorie più deboli. Il disagio per le condizioni dei trasporti pubblici, e per l’immane spreco di tempo e risorse preteso dalla mobilità per il lavoro e i servizi, non dà ancora luogo a significative proteste. Soprattutto, è debolissima la consapevolezza che tutti questi aspetti (l’ambiente, la casa, i servizi, i trasporti) sono tutti legati tra loro: sono componenti distinte ma non separate della politica del territorio, di quella politica del territorio che ha nella pianificazione, urbana e territoriale, il proprio essenziale strumento democratico di governo.
Su questi aspetti si è ragionato anche nelle recenti sessioni del Forum sociale europeo, constatando l’esistenza di un interesse diffuso ad affrontare il tema da parte di numerose associazioni, gruppi, comitati e organizzazioni presenti in ogni regione d’Europa. Si è deciso di costituire un forum permanente, centrato sullo slogan: “il diritto alla città deve essere garantito a tutti i suoi abitanti, e per ottenerlo la città deve essere considerata e organizzata come un bene comune”.
Le Camere del lavoro di Bologna, Ferrara, Modena, Padova, Reggio Emilia, Venezia, Vicenza insieme a eddyburg e all’associazione Zone onlus (con i quali hanno organizzato gli eventi sulla città al Forum sociale europeo), e alla facoltà di Pianificazione del territorio dell’Università Iuav di Venezia, organizzano un convegno per affrontare i temi sopra enunciati: per individuare le tendenze in atto e le possibili alternative, sia nell’insieme delle politiche urbane sia nelle loro diverse componenti.
Il convegno si aprirà con due interventi di carattere generale, che forniranno alcune coordinate della riflessione così come è emersa dal Forum sociale europeo. Successivamente saranno affrontati alcuni aspetti particolari della crisi della città e delle possibili risposte (la casa, la segregazione,la mobilità, l’ambiente, la pianificazione) sia da alcuni esperti sia dai rappresentanti del movimento sindacale. Gli obiettivi sono la crescita di una consapevolezza sempre più larga della situazione e della sua gravità e l’individuazione di azioni possibili, anche attraverso la contrattazione confederale territoriale, per una soluzione dei problemi alternativa a quella del mercato.
PROGRAMMA
9.30 Registrazione
10.00 Saluto del preside della facoltà di Pianificazione del territorio dell’Iuav: Domenico Patassini
Introduzione: Sergio Chiloiro
10,10 Sessione I: Dopo l’European social forum di Malmo
Coordina: Sergio Chiloiro
La città come bene comune: Edoardo Salzano
Città e lavoro, le due vittime del neoliberismo: Oscar Mancini
Proiezione di due filmati
11.00 Sessione II: L’Italia nella morsa del neoliberalismo straccione
Coordina: Ilaria Boniburini
La città come luogo delle espulsioni e delle segregazioni: Paola Somma
Realtà e prospettive per il problema della casa: Mauro Baioni
La dimensione sovracomunale in Italia e in Europa: Cristina Gibelli
Due modelli di sviluppo per il Nord-Est italiano: Anna Marson
12.20 Sessione III: Dalle città, dai territori, dai luoghi di lavoro
Coordina: Andrea Fabbri Cossarini
Interventi delle Camere del lavoro e dei movimenti della società civile
Bologna: Mauro Alboresi
Ferrara: Giuliano Guietti
Modena: Donato Pivanti
Padova : Andrea Castagna
13.00 Pausa buffet
14.00 Continua Sessione III
Interventi delle Camere del lavoro e dei movimenti della società civile
Reggio Emilia: Matteo Alberini
Venezia: Sergio Chiloiro
Vicenza: Maurizio Ferron
Roma: Antonio Castronovi
14.45 Dibattito
Coordina: Andrea Fabbri Cossarini
16.30 Conclusioni
Mauro Alboresi ed Edoardo Salzano
Premessa
L’ambiente sociale, politico, economico nel quale viviamo è ciò che nel mondo si definisce neoliberalismo: la fase attuale del sistema capitalistico-borghese. E’ il neoliberalismo (sul quale interverrà più ampiamente Oscar Mancini) la matrice culturale dell’opinione corrente, del pensiero unico inculcato alla gente, e soprattutto della strategia dal quale nascono le politiche urbane in tutt’Europa (e nel resto del mondo).
Le politiche urbane del neoliberalismo accentuano tutti i fenomeni di segregazione, discriminazione, diseguaglianza che esistono nelle città. Lo smantellamento delle conquiste del welfare urbano ne sono una componente aggressiva, soprattutto nel nostro paese dove – a differenza che altrove – non c’è mai stata un’amministrazione pubblica autorevole, qualificata, competente, e dove salario e profitto sono stati sistematicamente taglieggiati dalle rendite. Un’altra componente è la tendenziale privatizzazione d’ogni bene comune, nella città e nel territorio, che può dar luogo a guadagni privati: dall’acqua agli spazi pubblici, dall’università alla casa per i meno abbienti, dall’assistenza sanitaria ai trasporti. La città diventa una merce: nel suo insieme e nelle sue parti.
In tutt’Europa nascono perciò movimenti di protesta: spesso deboli, frammentari, episodici, qualche volta collegati in reti più ampie, anche internazionali. Si tratta di proteste che riguardano prevalentemente due temi: (1) la difesa dagli sfratti, dall’espulsione dalle case e dai quartieri sottoposti a processi di rigenerazione e riqualificazione che spostano gli abitanti originari nelle più lontane periferie; (2) la difesa di spazi pubblici (piazze, parchi, edifici pubblici) sottratti all’uso collettivo dall’edificazione o dalla privatizzazione.
Sono proteste che cominciano ad emergere nei forum sociali nei quali si esprimono le forze, culturali e sociali, che non credono che la globalizzazione del neoliberalismo porti benessere e felicità a tutti, e cercano altre vie per affermare i diritti dell’umanità.
Tra questi diritti riemerge un diritto antico, evocato alla fine degli anni 60 del secolo scorso da Henri Levebvre, ripreso da David Harvey e solo recentemente riapparso nelle parole d’ordine del movimento e nel lavoro dei ricercatori: il diritto alla città. Un diritto che spetta agli uomini e alle donne non in quanto singoli individui (anche se ciascuno ne è beneficiario) ma in quanto membri della società: in quanto cittadini o in quanto abitanti ancora privi del diritto di cittadinanza.
E’ un diritto che si concreta in due aspetti principali, dai quali tutti gli altri derivano:
1) Il diritto a fruire di tutto ciò che la città può dare (a partire dalla possibilità di incontro e di scambio, di utilizzare le dotazioni comuni, di abitare e muoversi destinando a queste funzioni risorse commisurate ai redditi);
2) Il diritto a partecipare al governo della città, ad esprimere, orientare, verificare, correggere, momento per momento, le azioni di chi è preposto all’amministrazione ed i loro risultati.
La tesi che abbiamo discusso e approvato al Forum sociale europeo è che la risposta positiva all’esigenza di diritto alla città è costituita dalla capacità di realizzare nel concreto quel modello di habitat dell’uomo che abbiamo definito “la città come bene comune”. E’ su questo che vorrei ora brevemente soffermarmi
LA CITTÀ COME BENE COMUNE
Città
Nell’esperienza europea la città non è semplicemente un aggregato di case. La città è un sistema nel quale le abitazioni, i luoghi destinati alla vita e alle attività comuni (le scuole e le chiese, le piazze e i parchi, gli ospedali e i mercati ecc.) e le altre sedi delle attività lavorative (le fabbriche, gli uffici) sono strettamente integrate tra loro e servite nel loro insieme da una rete di infrastrutture che mettono in comunicazione le diverse parti tra loro e le alimentano di acqua, energia, gas. La città à la casa di una comunità.
Essenziale perché un insediamento sia una città è che esso sia l’espressione fisica e l’organizzazione spaziale di una società, cioè di un insieme di famiglie legate tra loro da vincoli di comune identità, reciproca solidarietà, regole condivise.
Bene
La città è un bene, non è una merce. La distinzione tra questi due termini è essenziale per sopravvivere nella moderna società capitalistica. Bene e merce sono due modi diversi per vedere e vivere gli stessi oggetti.
Un bene è qualcosa che ha valore di per sé, per l’uso che ne fanno, o ne possono fare, le persone che lo utilizzano. Un bene è qualcosa che mi aiuta a soddisfare i bisogni elementari (nutrirmi, dissetarmi, coprirmi, curarmi), quelli della conoscenza (apprendere, informarmi e informare, comunicare), quelli dell’affetto e del piacere (l’amicizia, la solidarietà, l’amore, il godimento estetico). Un bene ha un identità: ogni bene è diverso da ogni altro bene. Un bene è qualcosa che io adopero senza cancellarlo o alienarlo, senza logorarlo né distruggerlo.
Una merce è qualcosa che ha valore solo in quando posso scambiarla con la moneta. Una merce è qualcosa che non ha valore in se, ma solo per ciò che può aggiungere alla mia ricchezza materiale, al mio potere sugli altri. Una merce è qualcosa che io posso distruggere per formarne un’altra che ha un valore economico maggiore: posso distruggere un bel paesaggio per scavare una miniera, posso degradare un uomo per farne uno schiavo. Ogni merce è uguale a ogni altra merce perché tutte le merci sono misurate dalla moneta con cui possono essere scambiate.
Comune
Comune non vuol dire pubblico, anche se spesso è utile che lo diventi. Comune vuol dire che appartiene a più persone unite da vincoli volontari di identità e solidarietà. Vuol dire che soddisfa un bisogno che i singoli non possono soddisfare senza unirsi agli altri e senza condividere un progetto e una gestione del bene comune.
Nell’esperienza europea ogni persona appartiene a più comunità. Alla comunità locale, che è quella dove è nato e cresciuto, dove abita e lavora, dove abitano i suoi parenti e le persone che vede ogni giorno, dove sono collocati i servizi che adopera ogni giorno. Appartiene alla comunità del villaggio, del paese, del quartiere. Ma ogni persona appartiene anche a comunità più vaste, che condividono la sua storia, la sua lingua, le sue abitudini e tradizioni, i suoi cibi e le sue bevande. Io sono Veneziano, ma sono anche italiano, e sono anche europeo, e anche membro dell’umanità: a ciascuna di queste comunità mi legano la mia vita e la mia storia.
Appartenere a una comunità (essere veneziano, italiano, europeo) mi rende responsabile di quello che in quella comunità avviene. Lotterò con tutte le mie forze è perchè in nessuna delle comunità cui appartengo prevalgano la sopraffazione, la disuguaglianza, l’ingiustizia, il razzismo, e perché in tutte prevalga il benessere materiale e morale, la solidarietà, la gioia di tutti. Appartenere a una comunità (essere veneziano, italiano, europeo) mi rende consapevole della mia identità, dell’essere la mia identità diversa da quella degli altri, e mi fa sentire la mia identità come una ricchezza di tutti. Quindi mi fa sentire come una mia ricchezza l’identità degli altri paesi, delle altre città, delle altre nazioni. Sento le nostre diversità come una ricchezza di tutti.
LA DIMENSIONE PUBBLICA NELLA CITTÀ EUROPEA
Nella storia
Nella città della tradizione europea sono sempre stati importanti gli spazi pubblici, i luoghi nei quali stare insieme, commerciare, celebrare insieme i riti religiosi, svolgere attività comuni e utilizzare servizi comuni. Dalla città greca alla città romana fino alla città del medioevo e del rinascimento, decisivo è stato il ruolo delle piazze: le piazze come il luogo dell’incontro tra le persone, ma anche come lo spazio sul quale affacciavano gli edifici principali, gli edifici destinati allo svolgimento delle funzioni comuni: il mercato e il tribunale, la chiesa e il palazzo del governo cittadino.
Le piazze erano i fuochi dell’ordinamento della città. Lì i membri delle singole famiglie diventavano cittadini, membri di una comunità. Lì celebravano i loro riti religiosi, si incontravano e scambiavano informazioni e sentimenti, cercavano e offrivano lavoro, accorrevano quando c’era un evento importante per la città: un giudizio, un allarme, una festa.
Dove la città era grande e importante, invece di un’unica piazza c’era un sistema di piazze: più piazze vicine, collegate dal disegno urbano, ciascuna dedicata a una specifica funzione: la piazza del Mercato, la piazza dei Signori, la piazza del Duomo. Dove la città era organizzata in quartieri (ciascuno espressione spaziale di una comunità più piccola dell’intera città), ogni quartiere aveva la sua piazza, ma erano tutti satelliti della piazza più grande, della piazza (o del sistema di piazze) cittadine.
Le piazze, gli edifici pubblici che su di esse si affacciavano e le strade che le connettevano costituivano l’ossatura della città. Le abitazioni e le botteghe ne costituivano il tessuto. Una città senza le sue piazze e i suoi palazzi destinati ai consumi e ai servizi comuni era inconcepibile, come un corpo umano senza scheletro.
Gli spazi comuni nel welfare state
Gli spazi comuni della città sono il luogo della socializzazione di tutti i cittadini. A differenza delle fabbriche (che nella società capitalistica diventano i luoghi della socializzazione dei lavoratori) gli spazi comuni della città sono il luogo della socializzazione di tutti: tutti gli abitanti possono fruirne, indipendentemente dal reddito, dall’età, dell’occupazione. E sono il luogo dell’incontro con lo straniero.
Nel XIX e XX secolo il movimento di emancipazione del lavoro, che nasce dalla solidarietà di fabbrica, si estende a tutta la città. Il governo della città non è più solo dei padroni dei mezzi di produzione: cresce la dialettica tra lavoro e capitale, nasce il welfare state. I luoghi del consumo comune si arricchiscono di nuove componenti: le scuole, gli ambulatori e gli ospedali, gli asili nido, gli impianti sportivi, i mercati di quartiere sono il frutto di lotte accanite, tenaci, nelle quali le organizzazioni della classe operaia gettano il loro peso.
L’emancipazione femminile accresce ancora il ruolo degli spazi pubblici destinati ad alleggerire il lavoro casalingo delle donne. In Italia è negli anno 60 del secolo scorso che, parallelamente al superamento al consistente ingresso delle donne nel mondo del lavoro della fabbrica e dell’ufficio, nasce una forte e vittoriosa tensione per ottenere, nei piani attraverso cui si organizza la città, spazi in quantità adeguate per le esigenze sociali dei cittadini
Non solo gli spazi pubblici, anche la residenza: la casa come servizio sociale
Nella città moderna anche l’abitazione diventa un problema che non può essere abbandonata alle soluzioni individuali. C’è (c’è sempre stata) l’esigenza di assicurare all’insieme degli interventi individuali e privati un disegno complessivo, delle regole certe, che contribuiscano a rendere la città qualcosa di diverso da un’accozzaglia di elementi dissonanti: a questo serve la regolamentazione urbanistica ed edilizia.
Ma questo non basta. Il prezzo dei terreni edificabili cresce senza tregua man mano che la città si estende, che aumentano le sue dotazioni di infrastrutture e servizi. L’aumento del valore dei suoli dipende dalle decisioni e dagli investimenti della collettività, ma in quasi tutti gli stati capitalisti esso (la rendita) va nelle tasche dei proprietari. Questo incide pesantemente sui prezzi delle costruzioni, in particolare delle abitazioni.
Nasce la necessità di governare il mercato delle abitazioni con interventi dello stato: case ad affitti moderati per i ceti meno ricchi, regolamentazione anche del mercato privato. Nascono vertenze nelle quali risuona lo slogan “la casa come servizio sociale”. Con questa parola d’ordine non si chiede che l’abitazione venga offerta gratuitamente a tutti i cittadini, ma che la questione delle abitazioni sia regolata da attori diversi dal mercato, incidendo sulla rendita e garantendo un equilibrio tra prezzo dell’alloggio e redditi delle famiglie.
LA CITTÀ COME BENE COMUNE
NELLA FASE ATTUALE DEL CAPITALISMO
Il primato dell’individuo sulla società
Oggi le cose stanno cambiando. Nei secoli appena passati sono accaduti eventi che hanno profondamente indebolito il carattere comune, collettivo della città. Si discute sulle cause del cambiamento. Ci si domanda perché hanno prevalso concezioni dell’uomo, dell’economia, della società che hanno condotto al primato dell’individuo sulla comunità, che hanno schiacciato luomo sulla sua dimensione economica (di strumento della produzione di merci), che hanno reso la politica serva dell’economia.
Le due componenti dell’uomo che ne caratterizzano l’individualità (quella privata, intima, e quella sociale, pubblica) avevano forse trovato un equilibrio, che si rifletteva nell’organizzazione della città: la vita si svolgeva nell’abitazione e nella piazza, nello spazio privato e in quello pubblico, senza barriere tra l’uno e l’altro. Oggi, con Richard Sennett, constatiamo con angoscia “il declino dell’uomo pubblico”. E nella città lo vediamo pienamente rappresentato.
E non trascuriamo le ragioni strutturali, a partire dal suolo urbano. Il suolo su cui la città era fondata era considerato patrimonio della collettività in molte regioni europee: il libro di Hans Bermoulli, La città e il suolo urbano, lo racconta in modo molto efficace. Nel XIX secolo, con il trionfo della borghesia capitalistica, in molti paesi dell’Europa è stato privatizzato. La speculazione sui terreni urbani ha portato a costruire sempre più edifici da vendere come abitazioni o come uffici, invece che servizi per tutta la cittadinanza, e a destinare sempre meno spazi agli usi collettivi.
Devastante è stata l’espansione della motorizzazione privata nelle aree densamente popolate, dove sarebbe stato preferibile adoperare mezzi di trasporto collettivi. Le automobili hanno cacciato i cittadini dalle piazze e dai marciapiedi.
Il bisogno dei cittadini di disporre di spazi comuni è stato strumentalmente utilizzato per aumentare artificiosamente il consumo di merci. Le aziende produttrici di merci sempre più opulente e meno utili hanno costruito degli spazi comuni artificiali: dei Mall o degli Outlet centers o altre forme di creazione di spazi chiusi: piazze e mercati finti, privatamente gestiti, frequentati da moltitudini di persone che, più che cittadini (quindi persone consapevoli della loro dignità e dei loro diritti) sono considerati clienti (quindi persone dotate di un buon portafoglio).
In Italia si è abbandonato ogni tentativo di ridurre il peso della rendita immobiliare. Si sono stretti legami forti tra rendita finanziaria e rendita immobiliare. Le grandi industrie (come la FIAT e la Pirelli) hanno dirottato i loro investimenti dall’industria alla speculazione immobiliare. Da oltre un decennio si è interrotto qualsiasi impegno dello Stato nel campo dell’edilizia sociale. Una proposta di legge presentata dai partiti che attualmente governato prevede addirittura di lasciare ai promotori immobiliari la realizzazione e gestione delle attrezzature pubbliche, e la stessa pianificazione urbanistica, che dovrebbe limitarsi ad accettare i progetti urna mistici presentati dalla proprietà immobiliare.
Tutto questo avviene nel quadro di una fortissima spinta verso le soluzioni individuali. Non solo si riduce il welfare state, ma si convincono i cittadini (attraverso il monopolio dell’informazione televisiva e l’onnipresenza della pubblicità) che raggiunge il benessere chi si arrangia per conto suo, calpestando le regole ed evitando di pacare le tasse. In Italia, negli ultimi venti anni, il declino dell’uomo pubblico è avvenuto in modo crescente.
Il modello della città del neoliberalismo
Come ha scritto Jean-François Tribillon, nel modello neoliberale
“- lo spazio urbano è costituito da mercati sovrapposti (i mercati dei suoli, degli alloggi, del lavoro, dei capitali, dei servizi …),scandito dai servizi collettivi (trasporti, polizia, sicurezza, amministrazione generale…) e dalla regolamentazione urbana;
- i gruppi sociali si collocano nello spazio urbano nei luoghi assegnati loro dalle dinamiche economico-sociali o dai processi di sfruttamento/oppressione di cui sono oggetto;
- lo spazio urbano è disseminato da attrezzature dell’economia globale: sedi delle grandi imprese, complessi alberghieri, centri congressi, banche internazionali…: questi feudi dell’economia globale costituiscono una città nella città, autonoma e dominatrice”.
Un potere sempre più concentrato e globalizzato risiede nei luoghi selezionati nelle città globali. I cittadini sono tendenzialmente ridotti a sudditi: il padrone è il Mercato, dove i forti schiacciano sistematicamente i deboli.
Il Mercato non deve essere disturbato: le regole sono un impaccio, devono essere ridotte al minimo: solo a far funzionare la città così come serve a chi comanda. La politica si riduce alla tecnicità disincarnata della gestione dell’esistente.
L’emarginazione, la segregazione, la rimozione diventano pratiche di pianificazione. I servizi collettivi sono finalizzati a garantire contro ogni tentativo di ribellione.
La distribuzione dell’informazione o organizzata per accrescere il consenso per il potere e per impedire che voci alternative possano farsi sentire.
Le conseguenze sociali
La realizzazione del modello neoliberalista, se arricchisce i ricchi, colpisce tutti quelli che ricchi non sono.
È colpito il lavoro dipendente, nelle fabbriche e negli uffici, dove il postfordismo ha dato luogo (come ha raccontato nella sua relazione Oscar Mancini) a un mercato del lavoro dove non solo i diritti, ma anche la condizione materiali dei lavoratori si sono fortemente indeboliti. Si riduce la sicurezza del lavoro, si riducono i salari, si riduce la solidarietà nel luogo del lavoro.
E' colpita la condizione delle donne, cui le attrezzature e i servizi promossi dal welfare state urbano fornivano strumenti essenziali per ridurre il peso del lavoro casalingo: dagli asili nido alla scuola, dall’assistenza ai malati e agli anziani alla ricreazione e allo sport.
È colpita la condizione dei giovani, che in un mondo dominato dall’individualismo, dall’assenza di motivazioni ideali e di solidarietà, in una società che non dà alcuna certezza di futuro, in una città privata della presenza di spazi pubblici adeguati, sono abbandonati alle tentazioni della fuga da se stessi mediante la droga e l’alcool, la trasformazione dello stress e della depressione nel vandalismo e nella violenza.
È colpita la condizione degli anziani, ai quali da una parte è tolto lo spazio per comunicare ai giovani le proprie esperienze e il proprio sapere, e dall’altra parte patiscono di diventare un peso per la faiglia, alla cui assistenza sono costretti a ricorrere.
È colpita la condizione delle giovani coppie e di chi, per ragioni di lavoro, deve abbandonare la residenza originaria, ed è costretto dal mercato inmnmobiliare ad abitare in luoghi lontani dal posto di lavoro e a impiegare parte consistente del suo tempo in mezzi di trasporto spesso inadeguati.
Sono colpiti, il generale, tutti i cittadini, ai quali la società neoliberale toglie via via gli spazi di partecipazione consapevole al governo, privilegiando la governabilità sulla democrazia, l’accordo discreto con i potenti alla trasparenza delle procedure,
COME RESISTERE, COME REAGIRE
Tre direttrici d’azione
Per resistere, per reagire, per iniziare a preparare una città diversa da quella che il capitalismo dei nostri tempi ci prepara, dobbiamo orientare l’azione lungo tre direttrici:
1. dobbiamo lavorare sulle idee, sulla conoscenza, sulla consapevolezza delle persone: informazione e formazione del maggior numero possibile di cittadini;
2. dobbiamo sostenere, incoraggiare e promuovere azioni dal basso per difendere i beni comuni là dove sono minacciati e per conquistarne di nuovi;
3. dobbiamo individuare e proporre esempi positivi, che dimostrino che una città diversa è possibile, che il potere e la partecipazione dei cittadini ad esso possono essere adoperati per rendere migliore e più giusto l’ambiente della vita dell’uomo.
La città come bene comune è la concezione
che permette di soddisfare il diritto alla città
Il tema della “città come bene comune” deve essere proposto come il centro di una concezione giusta e positiva di una nuova urbanistica e di una nuova coesione sociale, e come obiettivo dei conflitti urbani. La “città come bene comune” è una città che si fa carico delle esigenze e dei bisogni di tutti i cittadini, a partire dai più deboli. È una città che assicura a tutti i cittadini un alloggio a un prezzo commisurato alla capacità di spesa di ciascuno. È una città che garantisce a tutti l’accessibilità facile e piacevole ai luoghi di lavoro e ai servizi collettivi.
È una città nella quale i servizi necessari (l’asilo nido e la scuola, l’ambulatorio e la biblioteca, gli impianti per lo sport e il verde pubblico, il mercato comunale e il luogo di culto) sono previsti in quantità e in localizzazione adeguate, sono aperti a tutti i cittadini indipendente dal loro reddito, etnia, cultura, età, condizione sociale, religione, appartenenza politica, e nella quale le piazze siano luogo d’incontro aperto a tutti i cittadini e i forestieri, libere dal traffico e vive in tutte le ore del giorno, sicure per i bambini, gli anziani, i malati, i deboli.
Ed è una città nella quale le scelte di governo sono condivise dai cittadini, in cui essi partecipano alla gestione del potere non solo nel momento dell’elezione ma in ogni momento significativo delle scelte. Devono essere garantiti la trasparenza del processo delle decisioni sulla città e sul suo funzionamento, e la possibilità dei cittadini a esprimersi e ad avere risposte alle loro proposte. Tutto ciò richiede ai cittadini di imparare a conoscere gli obiettivi, gli strumenti, le procedure, le risorse mediante cui si agisce nella città: quelli che sanno (i tecnici, i sapienti) devono impegnarsi a fornire le loro conoscenze liberamente.
Realizzare e far funzionare una simile città è l’unico modo per realizzare, per tutti, il diritto alla città, nei due aspetti dell’appropriazione dell’uso della città (valore d’uso e non valore di scambio), e di partecipazione piena al suo governo.
Regole chiare, trasparenti, condivise
Controllo dell’uso del suolo e delle urbanizzazioni
La prima condizione perché ciò possa avvenire è che le trasformazioni della città (sia quelle che comportano opere sia quelle che si verificano solo con cambi d’uso e di proprietà) avvengano sulla base di regole chiare, definite in modo trasparente, applicate senza deroghe e favoritismi. Esse devono essere definite con la condivisione della maggioranza degli abitanti, i quali devono intervenire in quanto cittadini e non in quanto proprietari di terreno o di edifici.
La seconda condizione è che il governo cittadino abbia il pieno controllo sull’uso del suolo, delle urbanizzazioni, del loro uso, e che possa impiegare gli incrementi di valore degli immobili, derivanti dalle decisioni e dagli investimenti della collettività, alla realizzazione e al funzionamento delle opere che servono a tutti i cittadini.
Il governo pubblico delle trasformazioni del territorio, la pianificazione urbanistica, è il momento di sintesi della lotta per il diritto alla città e per la costruzione della città come bene comune.
Un punto di partenza
Per iniziare la costruzione di una città più giusta occorre combattere a partire dalle esigenze più sentite dalla popolazione: la difesa degli spazi pubblici minacciati dalla privatizzazione e dall’abbandono del welfare, la conquista o la difesa di un alloggio a prezzi compatibili con il reddito, la tutela del paesaggio e del patrimonio culturale sono già l’argomento di molte lotte nella città e nel territorio. . Occorre appoggiare, incoraggiare e promuovere le iniziative, aiutarle a mettersi in rete, a condividere obiettivi e strumenti.
In tutte le città d’Europa sono nati movimenti, associazioni, comitati che rivendicano una maggiore quantità e qualità di spazi comuni per rendere la città vivibile. Anche negli stessi Stati Uniti d’America si sono manifestate tendenze culturali e sociali per contrastare le conseguenze degli eccessi dell’individualismo. In molte città europee i fenomeni di degrado degli spazi comuni sono stati contrastati realizzando ampie zone pedonali, limitando il traffico automobilistico nelle città, sviluppando il trasporto collettivo , le piste ciclabili, i percorsi pedonali. Dove ciò non è accaduto la vita è diventata molto difficile soprattutto per le persone più deboli: i bambini, gli anziani, le donne.
Da questo insieme di esperienze nascono proposte interessanti sui requisiti che devono caratterizzate spazi pubblici vivibili: per il loro disegno e la loro forma, la loro connessione con la città e con il quartiere, le funzioni in essa ospitate (le più molteplici e varie, e prevalentemente finalizzate all’uso comune), sulle comodità e sugli arredi.
Le iniziative e le vertenze devono essere utilizzate non solo in vista dei loro obiettivi concreti e immediati. Esse devono aiutare a far crescere la consapevolezza del diritto alla città e della necessità e possibilità di concepire e realizzare la città come un bene comune.
Per concludere:
Un ricordo e un sogno
Per concludere, un sogno, come oggi è di moda: anzi, un ricordo e un sogno
Il ricordo: 19 novembre 1969, sciopero generale per la casa, i servizi, i trasporti. Lo ha già risordato Chiloiro nella sua apertura del convegno. Il sindacato dei lavoratori uscì decisamente dalla fabbrica, fu il motore dell’avvio di un processo di riforme che proseguì per tutto il decennio successivo.
Il sogno: che il movimento dei lavoratori riprenda nelle sue mani la vertenza per una città più giusta e perciò più bella, per un territorio tutelato nelle sue qualità e sottratto ai rischi, che incontri le altre componenti della società che si battono per gli stessi obiettivi.
Solo se diventiamo una moltitudine riusciremo a contrastare la strategia di chi vuole completare la riduzione della città a merce e dell’uomo a servo dall’incerto destino.
Un’improvvisa accelerazione di avvenimenti caratterizza il breve periodo di tempo che ci separa da Malmö: l’irrompere di un’inedita crisi finanziaria globale, l’elezione di un afroamericano alla Presidenza degli U.S.A., la ripresa in Italia di un movimento di lotta contro la politica del Governo e della Confindustria.
Con la crisi finanziaria siamo giunti ad un punto di rottura dell’attuale modello di sviluppo: il turbo capitalismo non funziona più. Sta sotto i nostri occhi l’esaurirsi del ciclo neoliberista che ha spremuto il plusvalore del lavoro riducendolo alla merce più vile e concentrando la ricchezza nelle mani di quella che Robert Reich - Ministro di Clinton – chiama la “superclasse”, la infima minoranza che possiede metà della ricchezza globale. Ecco la ragione della crisi. La crisi attuale è figlia del trionfo della globalizzazione dominata dal Washington consensus e del liberismo.
Siamo dunque ad un cambio di fase. La globalizzazione liberista a lungo vista come un fenomeno positivo in quanto avrebbe portato prevalentemente benefici in tutto il mondo ci consegna invece una recessione economica di non breve durata con pesanti conseguenze sui lavoratori di tutto il mondo.
La discontinuità rispetto alla fase precedente è evidente se si considera che la soluzione neoliberista è stata a tal punto assolutizzata come fosse l’approdo definitivo della storia del capitale ovvero la “fine della storia” tout court secondo l’ideologia dominante che si è affermata dopo la sconfitta del Socialismo.(Mario Tronti 2008)
Se è vero che il Capitalismo si giustifica non con le sue premesse ma con i suoi risultati appare evidente che questa crisi di inizio secolo mina la credibilità morale del “turbo capitalismo” (Giorgio Ruffolo 2008).
Ciò che sta succedendo nel mondo ci dice che la promessa di un’estensione universale del benessere è incrinata dall’esperienza di un mondo sempre più instabile e ingiusto. Negli ultimi venti anni è proprio l’allocazione delle risorse dell’economia guidata dai mercati finanziari che si è tradotta in un aumento delle diseguaglianze e in una devastante pressione sulle risorse naturali: in direzione opposta rispetto ai bisogni reali dell’umanità. Infatti, l’indice Gini sulle diseguaglianze relativo alla popolazione mondiale è aumentato negli ultimi 15 anni del 20%.
Se questi sono i risultati del ciclo avviatosi con le politiche thatcheriane e reaganiane si pone il quesito: che fare ? la ricetta liberista avrebbe suggerito: “hanno sbagliato paghino. Lasciamo al mercato di farli fallire”. Però nel momento in cui questi fallimenti sarebbero stati di dimensioni tali da far fallire il sistema è entrato in campo il ruolo degli Stati. Non saremo noi a dolercene. Però vi erano due opzioni: lo Stato poteva intervenire entrando nella proprietà delle banche (in alcuni casi è stato fatto) oppure prestare liquidità alle banche. E’ prevalsa la seconda ipotesi.
A pagare saranno dunque i contribuenti senza alcuna contropartita.(Giorgio Lunghini 2008)
Quale risposta può invece venire da sinistra ? se è difficile negare gli elementi di verità contenuti nel ritratto compiuto da Rossanda di una Sinistra che “di fronte alla più grossa crisi del Capitalismo dal ’29 non sa cosa proporre” non sarò certo io a colmare questa lacuna.
Consentitemi però con Laura Pennacchi di sottolineare che dalla drammatica lezione che la storia ci sta impartendo se da un lato non dobbiamo ricadere nello statalismo deteriore e autoritario, dall’altro non possiamo nemmeno ricavare l’idea che il nuovo intervento pubblico debba limitarsi alle regole, di cui pure c’è bisogno.
La crisi infatti non è solo regolatoria. E’, come abbiamo già detto, crisi di un modello intero di sviluppo che giunge ad esaurimento. Dunque, regole si ma anche politiche e programmi che facciano i conti con le cause: signoraggio del dollaro, sproporzione dell’indebitamento americano rispetto al reddito e della finanza rispetto all’economia reale; bassi salari e poco welfare; spesa militare e devastazione ambientale.
Una questione di enorme portata che implicherebbe un “drastico rovesciamento del complesso degli indirizzi macro e micro economici fin qui seguiti” (Laura Pennacchi, 2008).
Il rovesciamento è necessario per uscire dalla morsa nella quale ci costringe l’attuale modello di sviluppo. Come tra Scilla e Cariddi avvertiamo due pericoli simultanei: “la crisi minaccia la crescita che è considerata, oggi, l’irrinunciabile sostegno dell’economia. Dall’altro la crescita minaccia la sopravvivenza, che si basa sui grandi equilibri ecologici” (Giorgio Ruffolo, 2008).
Qual è il rischio maggiore? Quello della recessione o quello della sopravvivenza? Da questo dilemma è possibile uscire – per dirla ancora con Ruffolo – solo con un “radicale mutamento di paradigma: culturale e morale, prima che economico” ovvero il passaggio da un’economia insensata, senz’altri fini che il profitto, ad un’economia ecologicamente equilibrata, al servizio della società.
Un’altra economia è possibile se al criterio della massimizzazione si sostituisce quello dell’ottimizzazione nell’allocazione delle risorse.
Questo obiettivo non lo si può affidare al mercato. Esso richiede il ritorno della “programmazione” (bestemmia?) ovvero, in altri termini, della Politica.
In attesa di una nuova Bretton Woods che ridefinisca il nuovo ordine economico-finanziario globale ci pare ragionevole proporre tre indirizzi: Lavoro, risorse naturali, conoscenza. In questa triade c’è un’altra idea di società umana. Ne consegue per l’immediato:
Come proposto da “Sbilanciamoci”, l’Unione Europea e l’Italia dovrebbero finanziare, con risorse almeno pari a quelle destinate alla finanza, tre capitoli:
a.opere di tutela del territorio al posto di grandi opere devastanti, miglioramento di scuole e servizi sanitari pubblici, sistemi di trasporto urbano e regionale, miglioramento della qualità della vita;
b.un piano di costruzione e ristrutturazione di abitazioni di proprietà pubblica, che rimangano solidamente in mano pubblica, compreso il suolo su cui sorgono, da assegnare in affitto, con canoni commisurati al reddito, a giovani e famiglie a basso reddito;
c.incentivi pubblici a investimenti privati in energie rinnovabili e attività sostenibili dal punto di vista ambientale.
3. Un piano strategico di sostegno alla Scuola, all’università e alla ricerca che si muova nella direzione indicata dallo straordinario movimento che si è sviluppato negli ultimi mesi.
Come ha scritto Eddy Salzano la scuola è (era ?) ancora quello che resta dello spazio pubblico: un luogo di incontro, non interamente colonizzato dalla logica degli affari, dove diverse culture si possono incontrare. Per noi che ci occupiamo della città come bene comune “è significativo il fatto che il movimento di contestazione per la difesa degli spazi pubblici della formazione e della conoscenza abbia voluto (e dovuto) occupare anche gli spazi pubblici delle città: le piazze e le strade, le scuole e le università. Senza questa feconda occupazione il movimento non avrebbe potuto riconoscersi e quindi esistere, e neppure parlare al resto della società …” (Salzano 2008).
In sostanza si potrebbe dire senza spazi pubblici non c’è democrazia.
A Malmö
La realtà
Divaricazione tra crescita economica e benessere sociale
La società in cui viviamo ha consegnato il proprio futuro a un sistema fondato sull’accumulazione illimitata. Non appena la crescita subisce un rallentamento o si arresta, dilaga il panico. La capacità di sostenere il lavoro e di pagare lo stato sociale presuppone il costante aumento del prodotto interno lordo (PIL). La crescita però porta benefici soprattutto ai ricchi, è insostenibile dal punto di vista ambientale e sociale e si accompagna a una progressiva perdita di relazioni umane.
Esaminiamo sinteticamente i fatti:
1. Le statistiche sulla distribuzione del PIL tra capitale e lavoro ci dicono che negli ultimi dieci anni (in Italia negli ultimi trenta) la quota di reddito nazionale che va al lavoro dipendente è costantemente diminuita in tutti i paesi occidentali ed anche in quelli emergenti (Cina e India) e di converso è aumentata la quota di reddito nazionale che va al capitale.
2. Il “peso” ambientale dei nostri modi di vita e la loro “impronta ecologica” risultano insostenibili sia dal punto di vista dell’equità nei diritti di sfruttamento della natura che della capacità di rigenerazione della biosfera. I processi di trasformazione dell’energia non sono reversibili (seconda legge della termodinamica).
3. Al trionfo dell’economia corrisponde la progressiva scomparsa della dimensione sociale. La crescita della ricchezza si accompagna ad una progressiva perdita di relazioni umane fondamentali: amicizie,affetti, legami disinteressati.
4. I caratteri del neoliberalismo generano instabilità nei rapporti internazionali tuttora dominati dalla spirale guerra/terrorismo e dallo scontro latente tra le diverse “locomotive dello sviluppo”. La moltiplicazione e la diffusione geografica dei conflitti armati negli ultimi venticinque anni costituisce la continuazione della politica neoliberista “con altri mezzi”.
Dunque appare evidente che crescita economica e benessere sociale si stanno divaricando.
All’origine dei fenomeni succintamente descritti vi è la forma attuale assunta dal capitalismo. Un sistema economico sociale che ha innalzato sull’Olimpo una nuova divinità, sconosciuta sinora a tutte le religioni rivelate: il Dio Mercato che tutto mercifica.
Per una lunga fase in Europa il capitalismo, regolato e temperato dalla forza del movimento operaio e dalle sue espressioni sindacali e politiche, aveva prodotto un sostanziale miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro della classe operaia e dei ceti popolari. Compito del movimento sindacale e dei partiti della sinistra era quello di promuovere lo sviluppo perché solo attraverso una maggiore produzione di ricchezza si creavano le condizioni favorevoli per una migliore ripartizione della crescita.
La caduta del muro di Berlino arrivò come una conferma delle virtù superiori del capitalismo e aprì una nuova fase della sua storia: l’allargamento del mercato mondiale a tutti i paesi, il predominio della dimensione finanziaria su quella concreta, la riduzione del ruolo dello stato nazione e la creazione di un immenso, globalizzato, mercato del lavoro. Mezzo miliardo di lavoratori occidentali sono stati messi in concorrenza con un miliardo e mezzo di lavoratori orientali con la conseguenza che il lavoro si paga a prezzi sempre più bassi mentre le merci si pagano a prezzi dei paesi più “sviluppati”.
E così tutte le conquiste storiche del movimento dei lavoratori sono state velocemente messe in discussione. Esemplare la sconvolgente direttiva europea sull’allungamento degli orari di lavoro. Non solo, le politiche neoliberiste, nelle stesse società ricche, hanno generato nuove forme di povertà, marginalità ed esclusione sociale.
In sostanza, il welfare è stato, anche nell’Europa socialdemocratica, parzialmente smantellato e, soprattutto, è ripresa – dopo quasi mezzo secolo- una divaricazione/polarizzazione crescente tra le fasce di reddito medio alte e la maggioranza della popolazione.
Per dare una risposta al disagio sociale il Washington consensus continua a ripetere: bisogna rilanciare la crescita economica e reggere la competizione asiatica attraverso l’aumento della produttività del lavoro e il taglio della spesa sociale. La risposta dei principali governi europei si esprime attraverso la nota ideologia Sarkoberlusconiana: “se vuoi guadagnare di più devi lavorare di più”.
Entra in crisi il luogo di lavoro come luogo delle relazioni
Storicamente il luogo di lavoro, e la fabbrica in particolare, ha rappresentato il luogo d’incontro, di solidarietà, di rapporti sindacali, d’interessi comuni, di amicizia. Oggi la fabbrica è cambiata.
Tutte le forme di relazioni sociali sono diventate più rade e più fragili. Le attività di gruppo che hanno sempre formato una parte intrinseca della socialità del lavoro risultano difficili. Si stenta persino a mettere insieme una squadra sportiva. La ragione principale non sta nel cambiamento degli stili di vita: la causa principale sta nei contratti di breve durata, nel precariato, nella dispersione del lavoro, nell’affidamento a imprese esterne, diverse dall’impresa che controlla la fabbrica, di segmenti sempre più ampi del processo produttivo interno.
Oggi può accadere che su cento lavoratori in attività entro una fabbrica, ma anche in un cantiere, in un dato giorno, appena un terzo o un quarto siano dipendenti fissi dell’impresa cui la fabbrica stessa fa capo. Gli altri sono lavoratori che oggi ci sono ma domani, o tra una settimana o un mese, non ci saranno più, o verranno sostituiti da qualche faccia nuova. Per alcuni sarà scaduto il contratto, quale che fosse, da interinale, da apprendista, da collaboratore o da contratto a tempo determinato. Ad altri, dipendenti da imprese terze, subentreranno in fabbrica i dipendenti da nuove imprese.
La fabbrica così da luogo canonico di permanenza e stabilità, si trasforma in luogo di frettoloso passaggio. E’ un cambiamento epocale.
Nella vecchia fabbrica fordista tutto si faceva in casa. Tutti dipendenti a tempo indeterminato. Chi entrava in queste fabbriche spesso ci rimaneva una vita ed era dunque interessato a lottare per migliorare le proprie condizioni di vita e di lavoro. Si determinarono così le condizioni per lo sviluppo di una fortissima solidarietà di classe guidata da un’idea di uguaglianza.
Il postfordismo è il rovesciamento di questa impostazione. Conviene esportare fuori dalla fabbrica una serie di funzioni, si risparmia. È una corsa alla riduzione delle dimensioni produttive, la fabbrica snella tende a procurarsi all'esterno ciò che prima produceva all'interno.
La fabbrica si disperde sul territorio
Nasce così l'impresa a rete, il lavoro si disperde nel territorio. Prima le reti erano corte, distrettuali, oggi le reti diventano sempre più lunghe, tendono a stendersi ed articolarsi su scala planetaria, connettendo segmenti di produzione, saperi tecnologici e reti commerciali, dislocate magari in continenti diversi.
Il cambiamento è reso possibile dalla rivoluzione delle nuove tecnologie dell’I.C.T. che velocizzano le comunicazioni e dalla ricerca del capitale di luoghi di produzione a minor costo del lavoro.
Così la fabbrica postfordista esternalizza, il lavoro si disperde nel territorio. In molte regioni, come nel Nord Italia, nascono come i funghi i capannoni in mezzo alla campagna , dove il terreno costa meno.
La fabbrica just in time elimina il magazzino perché esso viaggia sulle nostre strade congestionate che a loro volta attirano attività commerciali, il tutto genera una mobilità multidirezionale delle merci e delle persone, quasi sempre su mezzi privati che congestiona il traffico e soffoca la nostra esistenza.
Una mutazione gigantesca, formata dalla somma di trasformazioni diffuse e capillari, ha investito negli ultimi decenni particolarmente il Nord Est d’Italia. Un diluvio di cemento che ha deturpato uno dei paesaggi più belli d'Europa. Si affermano nuovi modi di costruire. Le strade-mercato, una successione lineare di fabbriche ed edifici mostra che ha invaso ormai l’intera pianura padana. Più in generale, quello che un tempo era campagna è diventato un paesaggio reticolare della piccola impresa disseminato di case laboratorio. Nuovi monumenti suburbani crescono come funghi, sono i centri commerciali che sostituiscono le vecchie piazze cittadine.
Un modello di urbanizzazione costoso in termini di distruzione di suolo agricolo, di aumento di spese di energia e di tempo nonché insostenibile da un punto di vista ambientale e scarsamente competitivo rispetto ad altri modelli territoriali. Una dispersione insediativa per la quale gli americani coniarono il termine “ sprawl town”, letteralmente: città sdraiata sguaiatamente.
L’habitat dell’uomo diventa una marmellata
In sostanza, l’ambiente della vita dell’uomo diventa una marmellata; è sempre più privo di forma e memoria dei luoghi, è vissuto come alienante soprattutto dalle nuove generazioni. Ecco una delle cause della crisi del luogo dell’abitare.
Dalle città stanno scomparendo i luoghi d’incontro, anche per effetto della prepotenza del traffico automobilistico. Le piazze sistematicamente trasformate in parcheggi ne sono una manifestazione esemplare. Sono state il gioiello e il simbolo delle città come bene comune, come “casa della società” secondo la bella definizione di Salzano. “Hanno costituito il luogo nel quale gli abitanti diventavano cittadini, s’incontravano, si scambiavano informazioni, condividevano sentimenti ed emozioni: erano un crogiuolo di diverse esperienze, condizioni, età, mestieri. Oggi sono distrutte dall’invasione delle automobili. Analogo destino hanno avuto le strade. I grandi viali erano caratterizzati da grandi marciapiedi(…)..Le strade strette tra le case a due tre piani, nei paesi e nei centri storici, erano i luoghi dove i vicini si sistemavano a crocchio sulle sedie, fuori dall’uscio di casa per conversare” (Salzano, 2007).
Tutto ciò tende a divenire luogo di parcheggio. Tra i molti primati negativi, l’Italia ha anche la più alta quota di automobili private e la più bassa per traffico assorbito dai mezzi pubblici. Non solo perché non s’investe nel trasporto pubblico ma anche perché continua a mancare una pianificazione urbanistica tesa a contenere la dispersione insediativa e a favorire un’organizzazione del territorio fondata sulla vicinanza delle residenze ai luoghi quotidianamente frequentati (scuole, servizi, luoghi di lavoro), sulla conseguente facilità degli spostamenti pedonali e ciclabili e sulla coincidenza dei nodi del trasporto collettivo.
Le città si allargano, si “sdraiano sguaiatamente sul territorio”, perché tanti cittadini vanno a vivere in luoghi nei quali gli i prezzi delle case siano meno elevati di quelli nella città. Tutto ciò ha effetti pesanti sul sistema territoriale e su quello sociale: una crescita esponenziale della mobilità privata, una spinta vera all’isolamento, una segregazione dei ceti cui gli alti costi impediscono di accedere alla vita in citta.
Come riconquistare i diritti per la città e per il lavoro?
“La città può diventare di nuovo l’ambiente favorevole alla vita dell’uomo se saremo capaci di restituirle la sua natura originaria di casa della società: (…). La città nel suo insieme e le sue parti vitali devono quindi essere viste, sentite e organizzate come beni comuni. Beni quindi, e non merci: prodotti e servizi che valgono di per se, non in quanto possono essere scambiati con altri o con la moneta. Comuni quindi, e non individuali: elementi materiali e immateriali che solo temporaneamente e occasionalmente possono essere goduti o fruiti da uno dei membri della comunità, ma che appartengono alla comunità nel suo insieme.” (Salzano 2007).
Questi principi comportano la necessità di compiere determinate scelte. La principale è che le trasformazioni della città debbono avvenire secondo un piano, un disegno e un programma unitario rispondente agli interessi della collettività e non già - come oggi avviene correntemente in Italia – agli interessi della rendita immobiliare.
L’accesso alla casa per tutti – il diritto alla casa - e il diritto alla città per tutti è un grande tema, particolarmente in Italia: un tema controcorrente. Molte ordinanze dei “sindaci sceriffo” ci dicono invece che questi diritti oggi sono negati a chi per reddito o per etnia o per condizione sociale, per religione o per recente immigrazione è considerato pericoloso semplicemente perché diverso, e quindi emarginato e segregato in parti separate della città, nei nuovi ghetti. A questi corrispondono i “ghetti dei ricchi”: villaggi recitanti e video sorvegliati dove le famiglie benestanti si rinchiudono, segregandosi dalla paura di dover condividere i propri privilegi con gli abitanti delle aree vicine.
I costruttori della “fabbrica della paura” chiedono braccia per accudire i nostri vecchi e per i lavori più dequalificati nelle nostre fabbriche, ma una volta terminato il turno di lavoro si pretenderebbe che scomparissero dalla nostra vista. Essi sono ormai parte essenziale di un lavoro che si disperde in mille rivoli in un territorio sempre più ampio e contemporaneamente assistiamo ad una concentrazione finanziaria e dei centri di comando.
Questo cambiamento rende più ardua la tutela dei lavoratori non solo perché il lavoro è disperso nel territorio, ma anche perché all’interno dello stesso sito convivono lavoratori con contratti diversi. Dentro le mura di una stessa fabbrica lavorano lavoratori stabili con contratti a tempo indeterminato insieme a lavoratori somministrati a pseudo soci di pseudo cooperative super sfruttati, spesso impegnati nella logistica, e ancora tempi determinati e altre numerose forme di precariato. Questo fenomeno non riguarda solo l’industria, è pervasivo di tutti i settori produttivi e dei servizi pubblici e privati.
Le politiche contrattuali per il lavoro
In Italia, in questi ultimi anni, al blocco delle assunzioni nel pubblico impiego ha corrisposto l’esternalizzazione di molti servizi a privati e a pseudo cooperative, nei comuni e province, nelle Unità sanitarie locali, nello stato e nel parastato.
Nello stesso luogo di lavoro operano fianco a fianco lavoratori con diverse tipologie contrattuali e magari dipendenti da diverse imprese con la conseguenza che ad essi vengono riconosciuti diritti del tutto diversi sia sul piano salariale che sul piano normativo.
Molto spesso noi siamo in grado di contrattare solo per i lavoratori stabili e a tempo indeterminato. E così veniamo accusati di difendere i presunti privilegi dei lavoratori dotati di diritti a scapito dei giovani e dei precari. Prima frantumano il lavoro, lo deprivano di diritti e poi lo usano per erodere le mura della cittadella dei diritti.
Mentre noi vogliamo estendere i diritti a chi ne è privo, loro tentano di far credere che togliendo i diritti a chi ancora li ha, sia possibile migliorare le condizioni di chi non ne ha, quasi che la cosa funzionasse sulla base del principio dei vasi comunicanti.
Ma non basta la denuncia per difendere le nostre conquiste, occorre riqualificare la nostra contrattazione per riunificare ciò che l’impresa frammenta per indebolirci.
Rilanciare e riqualificare la contrattazione aziendale
In questi anni le condizioni di lavoro sono peggiorate. E’ necessario perciò riqualificare la contrattazione aziendale sull’organizzazione del lavoro, sui carichi, sui ritmi, sugli orari, sulla salute e la sicurezza.
La riconquista di un potere d’intervento delle rappresentanze sindacali unitarie nei luoghi di lavoro (R.S.U.) su questi temi è la condizione per esercitare nei fatti i diritti sanciti dalle leggi e dai contratti, altrimenti destinati a rimanere sulla carta. Così come è essenziale tornare a rivendicare quelle conoscenze ed informazioni che permettano di ricostruire il ciclo produttivo frammentato.
Ma non basta più la contrattazione nel luogo di lavoro, e dentro il luogo di lavoro, solo per il nucleo di lavoratori stabili. È indispensabile ricomporre tutto ciò che è stato decentrato, terziarizzato, esternalizzato attraverso una contrattazione di sito e di filiera, capace di ricomprendere tutto il ciclo del prodotto o del servizio, riunificando la rappresentanza unitaria dei lavoratori che vi sono coinvolti.
Una contrattazione che sappia parlare a tutta quella vasta variegata gamma di lavoratori che operano dentro lo stesso luogo di lavoro indipendentemente dal tipo di contratto o dell’impresa alla quale appartengono. Il tutto nel quadro di un rinnovato ruolo centrale del Contratto collettivo nazionale di lavoro con funzione sovraordinata. Questa è la sfida per il futuro. Alcune esperienze ci dicono che è possibile. E’ questo un segno di speranza per tutti noi.
La contrattazione sociale territoriale
Il secondo terreno d’iniziativa è rappresentato dalla contrattazione sociale territoriale, ovvero la connessione tra la contrattazione aziendale e il territorio, con un duplice obiettivo: riprendere il controllo sull’intero ciclo produttivo - ovvero l’intera filiera di fabbricazione di un prodotto o erogazione di un servizio spesso dispersa nel territorio -e la saldatura tra i diritti del lavoro e i diritti di cittadinanza in materia di salute, di scuola, di servizi sociali e via dicendo. A questo scopo alcune Camere del lavoro (strutture territoriali della CGIL) si sono dotate di Consigli di zona, organismi di partecipazione democratica dei delegati di luogo di lavoro. Altre, da tempo sviluppano una interessante contrattazione territoriale. Il territorio in quanto spazio fisico sempre più strettamente interconnesso con le dinamiche produttive diventa decisivo sia per riprendere il controllo della filiera sia perché la contrattazione di luogo di lavoro possa disporre di una iniziativa esterna in materia di formazione, ricerca, politica industriale. Oppure, per l’importanza di accompagnare la contrattazione del salario con una contrattazione sociale in grado di ottenere risultati su materie come gli asili nido, i servizi di assistenza, la sanità, la casa, i trasporti, i beni comuni prodotti dai servizi pubblici locali (acqua, ambiente, energia), l’integrazione dei migranti, la vivibilità urbana, anche attraverso la richiesta al sistema delle imprese di contribuire al finanziamento del welfare locale.
È un salto culturale, politico e organizzativo quello che noi proponiamo: la saldatura tra la contrattazione di secondo livello e la contrattazione nel territorio. È questa una proposta di allargamento del campo d’azione del nostro lavoro sindacale per tenere insieme il luogo di lavoro e la sua inscindibile relazione con il contesto territoriale, nei suoi diversi aspetti di organizzazione e pianificazione dello spazio urbano, di equilibrio ambientale, di qualità ed efficacia del welfare locale.
Perché nascondono il lavoro dipendente?
Da troppi anni viviamo in una realtà virtuale, quella che ci viene rappresentata dai media. Per anni ci hanno raccontato che gli operai erano una specie in via di estinzione e che più in generale il lavoro dipendente sarebbe stato destinato ad essere sostituito dal lavoro autonomo. Chi non capiva questi processi veniva dipinto come vecchio ed incapace di comprendere la modernità.
È successo esattamente il contrario: tra il 2000 e il 2006 gli operai sono aumentati del 13% raggiungendo quota 8 milioni, il 35% degli occupati. Nello stesso periodo gli imprenditori sono invece diminuiti del 34% passando da 525.000 a 346.000. Vale a dire la supposta centralità dell’impresa corrisponde all’esercizio di un comando di una minoranza che si restringe sulla maggioranza.
L’aumento del lavoro operaio, seppur diversamente distribuito tra agricoltura, industria e servizi si situa all’interno di una più generale tendenza all’espansione del lavoro dipendente in Italia, in Europa e nel mondo. Su un totale di 22 milioni e 900 mila occupati i lavoratori dipendenti in Italia risultano essere 16 milioni 900 mila, il 73, 5 %. Nel Veneto delle partite IVA la percentuale è addirittura superiore.
Dunque il lavoro dipendente non solo non scompare ma al contrario aumenta, si estende e si diversifica mentre come dice Censis, anche quest’anno abbiamo assistito ad una riduzione del lavoro autonomo. Perché allora ci rappresentano quotidianamente un’altra realtà?
La ragione è semplice. Se si riesce a far credere che la tendenza dell’economia è quella all’estinzione del lavoro dipendente, cade la necessità di rappresentarlo. Quindi cade anche la distinzione tra destra e sinistra che nella rappresentanza del lavoro trova la sua ragione costitutiva.
Ne consegue che per la politica diventa centrale la rappresentanza dell’impresa e del lavoro autonomo.
Gli operai non compaiono mai nel mondo delle immagini costruite dai media. Eppure, tutte le cose di cui siamo circondati e che usiamo quotidianamente sono uscite da una fabbrica. Di li vengono l’auto il frigorifero, il telefono e il televisore. Da una fabbrica sono usciti pure la tazzina di caffè che abbiamo sorseggiato e il tavolo su cui l’abbiamo posata, il computer col quale abbiamo scritto questa relazione e la carta su cui l’abbiamo stampata.
Le cose uscite da una fabbrica spesso (non sempre) ci rendono la vita più comoda. Ma quanto più cresce il numero di lavoratori globali e la ricchezza da essi prodotta tanto più il capitale ha bisogno di oscurare, manipolare e infine cancellare la presenza dei produttori di tale ricchezza. Scrive Paolo Ciofi: “La rutilante invasività dell’immane raccolta di merci penetra in tutti i pori della società e tenta di sedurci ogni istante dai teleschermi in ogni angolo del pianeta, ma dei lavoratori – della loro vita, dei loro pensieri, dei loro sentimenti, delle loro azioni – raramente si trova traccia. Non solo sui teleschermi, o nella realtà immaginaria costruita dai media secondo gli stereotipi dell’ideologia dominante. E non solo nel senso comune diffuso dalla cultura di massa, ma anche nell’assetto della società reale, come pure nei sistemi politici emersi dalla transizione del “secolo breve” verso il nuovo secolo. E’ il dominio onnivoro delle merci, cioè delle cose, sugli esseri viventi. Il massimo dell’alienazione” (Ciofi, 2008).
Infatti, anche l’originaria liberazione dai bisogni, conquistata con la crescita del reddito, muta la sua natura se si trasforma in una nuova schiavitù verso necessità crescenti e perennemente insoddisfatte. La creazione di nuovi bisogni a mezzo di bisogni – alimentata dalla nuova religione della crescita – somiglia alla ruota in cui corre inutilmente il criceto, per non generare frustrazione. La stessa rapidità con cui i beni si trasformano in rifiuti mostra come la positività originaria dello sviluppo degrada rovesciandosi nel suo contrario.
Al tempo stesso, la riduzione dei cittadini a puri agenti produttori e consumatori, per tenere insieme la macchina economica, corrode il tessuto connettivo della vita sociale, atomizza gli individui. Per dirla con Piero Bevilacqua, trionfa l’economia e muore la società (Bevilacqua, 2007). Un’inversione dei fini che si consuma sotto i nostri occhi. Con il dissolvimento della società anche i collanti ideali che hanno sinora tenuto insieme i partiti si disfano, lo stesso cemento di partecipazione e controllo, su cui regge la democrazia si sgretola. Ma nella società pulsa anche il cuore della nostra felicità terrena: la fitta rete di rapporti interpersonali, l’amicizia, la solidarietà, l’amore, il senso stesso della vita. La società, dunque è un bene inestimabile, un patrimonio storico che ereditiamo quale risultato di una gigantesca opera collettiva. E’ un bene tecnicamente irriproducibile che non si compra in alcun supermercato.
Un bene che non possiamo sacrificare sull’altare del Dio Mercato. Gli uomini e il loro benessere devono tornare ad essere il fine e non il mezzo, lo strumento di una crescita economica peraltro sempre più insostenibile per il nostro pianeta. Si riaffaccia dunque il tema del come e cosa produrre.
Vi sono segni di speranza?
Sul versante del lavoro rimane forte la volontà della CGIL di riaffermare il proprio ruolo di sindacato generale dei diritti e della solidarietà. Per noi rimane centrale il CCNL come strumento fondamentale di solidarietà tra grande e piccola impresa, tra nord e sud del paese.
Non possiamo accettare una deriva verso l’aziendalizzazione della contrattazione - e quindi del sindacato - pena un’ulteriore frammentazione delle tutele tra chi è più forte ed è in grado di difendersi e chi è più debole ed è esposto alla riduzione delle tutele. Lontana è invece, purtroppo, la necessaria prospettiva di una contrattazione su scala europea.
Sul versante della difesa del territorio, negli ultimi anni sono nati in Italia alcuni movimenti a forte caratterizzazione territoriale. La tendenza in atto è tesa a superare la loro connotazione localistica, individuando categorie interpretative più ampie entro cui collocare le loro rivendicazioni, e costruendo nel contempo una rete di collegamenti e di sinergie tra esperienze simili.
E’ il caso, ad esempio, delle lotte contro le centrali termoelettriche, le discariche e gli inceneritori, le grandi infrastrutture stradali e ferroviarie, la militarizzazione del territorio, la chiusura di presidi sanitari, la privatizzazione dell’acqua e il potenziamento del welfare locale.
Tali movimenti, sempre più diffusi, valorizzano forme di democrazia diretta per contrastare la privatizzazione e il saccheggio del territorio. Operano come insediamenti specifici a forte radicamento territoriale. Sviluppano forti legami sociali, rivendicano trasparenza e diritto all’informazione e si avvalgono di competenze tecnico scientifiche.
A fronte di una capacità dei movimenti di mettersi in rete non corrisponde ancora pienamente una capacità del movimento sindacale territoriale di porsi in una relazione feconda con essi. Il mondo del lavoro, tranne alcune importanti eccezioni, sulle questioni territoriali sembra procedere ancora su binari separati da quelli dei movimenti. Analogamente vi è un distacco da parte dei movimenti rispetto alle rivendicazioni propriamente sindacali.
I due mondi non si fondono appieno nel territorio. Tuttavia, in alcuni casi di maggiore resistenza e capacità creativa, alcune realtà locali acquistano una funzione emblematica, che esce dai confini propri ed entra nell’arcipelago delle lotte che acquistano tanta autonomia e tale continuità da rappresentare i semi riconosciuti di un’alternativa antineoliberista. Quando scatta questo innalzamento di livello, anche la separazione del mondo del lavoro e di altri soggetti si affievolisce e la ricomposizione produce un fatto politico che oltrepassa la vita e l’estensione sociale dei movimenti.(Agostinelli, 2008)
Un esempio è rappresentato da quello che è accaduto negli ultimi anni a Vicenza: un movimento sviluppatosi contro la militarizzazione della città. Partendo da un fatto locale (la realizzazione di una nuova base militare USA) il messaggio è diventato globale immediatamente e ovunque riconoscibile
Dopo essere stata palcoscenico della destra di Berlusconi e Bossi, un’altra Vicenza è scesa in campo. La città nella quale ho operato fino a qualche mese fa vive da oltre due anni in un fermento politico e culturale senza precedenti. In brevissimo tempo è diventata un luogo di partecipazione e di azione politica davvero sorprendente. L’incontro tra comitati civici, gruppi pacifisti, associazioni, singoli cittadini e, naturalmente, la Cgil, ha prodotto un movimento che ha riscosso simpatia e solidarietà su scala nazionale e internazionale. Un movimento costituito da una pluralità di soggetti di varia ispirazione politica e culturale, e da cittadini di diversa condizione sociale.
Senza rinunciare alle nostre differenze, abbiamo saputo dialogare e lavorare insieme per ribadire il nostro netto NO alla nuova base militare americana.
Che fare
Tre principi di fondo da cui partire per il domani
Sulla base dell’esperienza che ho vissuto a Vicenza, dove lotte sindacali e lotte cittadine si sono unificate per un obiettivo comune, traggo tre principi di fondo, che possono costituire la base per costruire un domani migliore.
La Terra. Intesa come difesa del nostro spazio sociale e ambientale, ma anche come difesa di un bene comune, della nostra identità collettiva, della nostra qualità della vita. La presenza di tante donne e mamme che portano i loro figli alle manifestazioni testimonia che questa lotta viene condotta anche in nome delle generazioni future.
La Pace. Intesa come ripudio della guerra, secondo il dettato della Costituzione italiana. Intesa anche come volontà dei vicentini di impedire che questa città sia trasformata nella base logistica più importante dell’esercito americano per i teatri di guerra del martoriato Medio Oriente.
La Democrazia. Intesa come volontà dei cittadini di non delegare il proprio destino a istituzioni sempre più autoreferenziali. L’esempio più clamoroso è quello dell’ex sindaco di Vicenza, il quale da un lato riconosce che la stragrande maggioranza dei cittadini è contraria alla base, e nello stesso tempo si fa di questa stessa base convinto assertore.
Il tema della difesa del territorio come bene comune, nell’accezione patrimonio fisico, sociale e culturale costruito nel lungo periodo, se messo in correlazione con le dinamiche del postfordismo, può essere terreno per costruire una moderna critica all’attuale fase dello sviluppo capitalistico.
Lo sfruttamento dell’uomo sulla natura è un aspetto del più generale sfruttamento dell’uomo sull’uomo e della conseguente ricerca di una diversa ragione dello sviluppo. Un discorso ecologico cioè non può essere disgiunto da un discorso sociale e viceversa.
Quindi se la coscienza di luogo è minacciata dalle devastazioni ambientali prodotte dal capitale, mi chiedo se su questo terreno non sia possibile costruire una nuova coscienza sociale: l’interesse generale contrapposto all’interesse egoistico di pochi.
È necessario un incontro tra il movimento sindacale e i comitati, le associazioni, i gruppi, spesso nati spontaneamente attorno a un evento, una minaccia, un progetto. Una nuova coscienza collettiva che nasca da questo incontro non può che essere fondata sulla consapevolezza dell’impossibilità del mercato di risolvere i problemi derivanti dal carattere intrinsecamente sociale e collettivo della città e del territorio, in contrasto con il carattere individualista proprio dell’ideologia che sta alla base del sistema capitalistico, ovvero dell’attuale sistema economico sociale.
Come ha detto recentemente Alberto Asor Rosa “La cosa, se si entra nel merito, è tutt'altro che semplice: una classe operaia ecologista ancora non s'è vista ma neanche s'è visto un militante ecologista capace di «pensare» la questione sociale contemporanea. E pure sempre più avanza la consapevolezza che il destino umano risulta dalla composizione, meditata e razionale, delle due prospettive e cioè, per parlarne in termini politici, dalla sovrapposizione e dall'intreccio del «rosso» e del «verde»” (Asor Rosa, 2008).
Le contraddizioni su cui far leva
Quali le contraddizioni su cui fare leva? Sul versante dei rapporti di produzione la contraddizione tra capitale e lavoro, seppur nelle nuove condizioni, non ha mai cessato di operare. Sul versante della difesa del territorio come bene comune ancora una volta faccio ricorso alle posizioni espresse da Salzano..
La privatizzazione del suolo urbano è la prima contraddizione tra il sistema economico sociale e la città perché chi governa in nome dell’interesse collettivo non è libero nelle sue operazioni.
La seconda contraddizione tra habitat umano e sistema capitalistico consiste nel fatto che quest’ultimo riconosce quale unico valore socialmente rilevante quello economico, inteso come valore di scambio, dimenticando completamente l’altra componente, ovvero il valore d’uso. In altri termini, le cose hanno valore, e quindi meritano di essere considerate, promosse, tutelate solo se possono essere comprate e vendute: non hanno valore in se. In una parola i beni sono ridotti a merce, il territorio è ridotto a merce.
La terza contraddizione è quella che nasce come questione ambientale. Aver ridotto l’intero ciclo economico alla produzione via via crescente di merci minaccia oggi la sopravvivenza delle stesse basi materiali sulle quali poggia l’esistenza dell’umanità sul pianeta terra.
“Ricostruire una città umana significa eliminare la congestione, restituire alle piazze la loro funzione originaria di luogo d’incontro, di scambio di esperienze, significa rendere accessibile per i deboli, come per i forti, i luoghi della vita collettiva ed i luoghi della vita privata, significa fare della città il luogo nel quale i differenti ceti, i differenti mestieri, funzioni sociali, differenti etnie, abitudini, culture si mescolano e si scambiano reciproci insegnamenti" (Salzano, 2007).
La visione è una linea di valorizzazione del lavoro, investendo nel fattore umano. Essa passa attraverso la riunificazione graduale del sapere e del lavoro, la ricomposizione in termini individuali e collettivi del lavoro parcellizzato e frantumato, la liberazione delle potenzialità creative del lavoro subordinato o eterodiretto. In sostanza una cooperazione conflittuale dei lavoratori al governo dell’impresa, partendo dalla conquista di nuovi spazi di autogoverno del proprio lavoro. La visione è un invito alla socialità, se possibile alla socievolezza, la città come luogo della libertà e della crescita personale. E’ una visione che, tradotta nel nostro linguaggio più consueto, si propone di affermare il diritto all’ambiente, alla mobilità, alla casa e ai servizi, al lavoro, alla salute, all’istruzione e alle opportunità formative e culturali.
Nel 2006, intervenendo a un convegno organizzato da Oscar Mancini sul Ptcp di Vicenza (Marson in Mancini.2007, pp.45-51) prefiguravo con funzioni euristiche due possibili scenari di riferimento possibili per il territorio veneto.
Il primo vedeva l’area centrale veneta attrezzata come luogo di transito e interscambio di persone e merci tra Est e Ovest (corridoio 5), tra vie di mare e Padania, tra Europa continentale e Italia centromeridionale. Nuove infrastrutture prevalentemente stradali e ulteriore urbanizzazione di suoli agricoli in prossimità delle stesse. Rischi degli investimenti scaricati sugli enti pubblici, impianti che generano rischi ambientali nei territori marginali.
Il secondo ipotizzava un restauro del territorio come patrimonio di collettivo, luogo di vita e di produzione di qualità, e cura delle eccellenze produttive e sociali. L’uno offerto da gran parte dei documenti ufficiali relativi allo sviluppo auspicabile per la Regione, il secondo da una molteplicità di esperienze di resistenza (alle distruzioni della memoria e del paesaggio, agli effetti del neoliberismo, ecc.) e innovazione (nelle relazioni sociali, nella produzione).
Mi chiedevo inoltre perché non si discutesse maggiormente di come fossero in prospettiva ripartiti, nell’uno e nell’altro scenario, i costi sociali, di genere e d’età, e i profitti. Ovvero perché non si chiarisse maggiormente, anche per i non addetti ai lavori, perché l’uno dovesse eventualmente essere preferito all’altro.
Nel frattempo, e in particolare negli ultimi mesi di questo anno 2008, si è resa manifesta la crisi della finanza creativa e delle economie da essa dipendenti. Con rare eccezioni, come l’incontro di oggi, non mi sembra tuttavia che se ne siano tratte le logiche conseguenze – nel dibattito politico ed culturale, meno che meno nel dibattito economico – per ciò che concerne i potenziali disastri del perseverare con un’urbanistica creativa (nel senso deteriore del termine) che continua a ignorare l’interesse collettivo.
Immagini presentate nei documenti ufficiali di pianificazione regionale, come quella del “terzo Veneto”, che ammiccano a un futuro non più agricolo né artigianal-industriale, non più città né campagna, mi sembrano riproporre un visioning conciliatorio di tutte le antinomie presenti, con la finalità di legittimare tutto e il contrario di tutto. Linguaggio creativo che copre operazioni spregiudicate, grazie al venir meno non solo di un quadro di regole generali, ma addirittura di una qualsivoglia coerenza linguistica. Si può dire una cosa e praticare l’esatto contrario, oppure dire cose contrarie a distanza di poche ore: la memoria collettiva sembra non svolgere più una funzione di selezione dell’attendibilità politica, o forse per funzionare ha bisogno di istituzioni che non esistono più, che sono state di fatto cancellate.
Nella stessa disciplina della pianificazione, in realtà, ho sempre più la sensazione che noi stessi docenti abbiamo contribuito – ancorché il più delle volte con inconsapevole buona fede – a produrre esiti fisici, concreti, non desiderabili per esserci eccessivamente persi nel considerare le dimensioni economiche e sociali nella loro generalità, anziché nelle ricadute specifiche sulla materialità dei nostri territori di vita quotidiana.
Territorio per noi è sì l’insieme degli attori e delle loro politiche, ma con riferimento alle piazze, alle case e alle campagne che ne vengono prodotte, e che anche attraverso la loro forma, la loro localizzazione, la loro dimensione rendono la nostra vita più o meno sociale, più o meno sostenibile, più o meno civile.
Il concetto di “civile” sintetizza a mio modo di vedere abbastanza bene la riflessione culturale (ebbene sì, innanzitutto tale) che dovremmo compiere rispetto ai disastri prodotti dal perseguire crescita e sviluppo, piuttosto che ricercare la giusta misura, una misura sostenibile e quindi sobria (garantire il necessario, esattamente il contrario dell’incitamento ai consumi diffuso anche stamattina dal Presidente del Consiglio italiano).
Non posso dunque esimersi dal criticare in qualche modo anche il titolo della relazione che mi è stata attribuita, anche se vi è chi argomenta che lo sviluppo non coincide necessariamente con la crescita, in quanto lo sviluppo può essere aggettivato come politico, sociale, e così via.
Mi sembra dunque opportuno mettere in guardia comunque dall’uso di questo termine, se vogliamo comunicare effettivamente qualcosa di nuovo.
“I discorsi sullo ‘sviluppo’, come nota Gilbert Rist (1996), traggono la loro forza dalla seduzione che esercitano, in tutti i sensi del termine: attrarre, piacere, affascinare, illudere, ma anche abusare, deviare dalla verità, ingannare…E si può dire che siano un elemento caratterizzante la ‘religione moderna’, una sorta di mitologia programmata” (Marson 2008, p.31).
La congiuntura attuale, di decrescita non programmata ma comunque in atto, può rappresentare una drammatica ma fertile occasione per riflettere su quali assetti del territorio siano sufficientemente civili per consentirci di vivere dignitosamente anche in condizioni di stagnazione, se non di vero e proprio declino esponenziale.
Non si tratta semplicemente di ripristinare gli “orti di guerra” o “le coltivazioni dei metalmezzadri”, che comunque male non fanno e anzi ci richiamano l’estrema utilità che ogni insediamento abbia una sua campagna di pertinenza, ma di riscoprire ciò che nel tempo lungo, attraverso vicissitudini economiche e sociali mutevoli, ha funzionato contribuendo alla riproduzione della vita e della convivenza civile.
E’ a questo punto forse superfluo chiarire come lo scenario che io ritengo auspicabile, lo scenario al quale dedico le energie di cui dispongo, sia il secondo fra quelli menzionati, dal momento che il primo è più espressione della finanza che investe in rendita fondiaria che di prospettive economiche seriamente fondate (Hesse 2006). Per rendere più possibile l’attuazione del secondo scenario cerco dunque di chiarire quali siano le mosse che è a mio avviso possibile mettere in campo.
Ho trattato di tutto ciò in un libro appena pubblicato, che si intitola “archetipi di territorio”. Non posso ovviamente riassumerlo nel tempo breve di questo mio intervento. Posso tuttavia cercare di richiamarne alcuni passaggi essenziali rispetto alle questioni fin qui menzionate e pertinenti rispetto al caso del Veneto.
Apparentemente si tratta di questioni poco pertinenti rispetto alla pianificazione e all’agire collettivo intenzionale. D’altronde, rispetto a questi aspetti, sarebbe doverosa e sufficiente una rivalutazione ed eventualmente un adattamento all’oggi delle politiche socialiste municipali di circa un secolo fa, e una riconsiderazione delle rivendicazioni sui servizi sociali come salario indiretto maturate a cavallo fra anni ’60 e ’70.
In realtà, ciò che mi appresto a richiamare rappresenta a mio avviso, me ne sono convinta nel tempo, dopo aver inutilmente sperimentato le vie del riformismo pianificatorio, un passaggio essenziale per riattivare energie sopite, per attivare riflessioni ed azioni non necessariamente basate su un’idea del Leviatano risolutore, dello Stato come risposta ai problemi collettivi, ma sulla responsabilizzazione anche individuale.
La prima questione è quella della perduta dimensione religiosa della terra, proprio in una regione che viene descritta come addirittura bigotta: terra divenuta suolo funzionale, dunque edificabile, inquinabile e quant’altro. Comportarsi civilmente nei confronti della terra (per esserne ricambiati con pari moneta, come si suole dire) significa riservarle il rispetto che si deve a una madre, prendersene cura, provarne empatia attraverso l’attenzione al paesaggio, la riduzione del ‘consumo’, la riscoperta delle terre comuni e dei beni che da essa ci possono essere regalati senza scambio monetario.
La seconda questione ha a che fare con le acque, di cui il Veneto è straordinariamente ricco. Tutte le nostre maggiori città sono cresciute in stretto rapporto con le acque: Venezia, ma anche Padova, Treviso, Vicenza, Verona, Rovigo e moltissime altre città minori. Acque oggi maleodoranti, spesso irraggiungibili, scarsamente utilizzabili, considerate un rischio anziché un dono. E le nostre sorgenti di risorgiva? Commercializzate dalla Nestlé. Perché mai dovremmo prendercene cura: per aumentare i profitti delle multinazionali? Che fine ha fatto la civiltà delle municipalizzate che circa un secolo fa garantiva a tutti gli abitanti l’approvvigionamento idrico? Sarebbe più facile convincere gli abitanti d’un luogo a prendersi cura delle proprie acque, se le sapessero loro.
E ancora, saltando altre questioni altrettanto importanti, i confini. Qui si tratta di affrontare un tabù della modernità, acquisendo consapevolezza che la perdita dei confini collettivi (la città infinita veneta) va necessariamente di pari passo con la moltiplicazione dei confini individuali, dei recinti di proprietà privata, che essendo privati possono essere difesi solo con le armi. Che ciò ci piaccia o meno. E l’assenza di confini, fa evaporare il centro, il luogo in cui posso confrontarmi con chi detiene il potere di rappresentarmi, lasciando solo i centri commerciali nei quali l’unica alternativa possibile è tra il consumare e l’astenermi dal farlo.
I sestieri veneziani, piuttosto che le parrocchie di qualsiasi nostra città, contribuivano a promuovere un senso d’appartenenza a una comunità proprio perché erano limitati, erano definiti a misura d’interazione sociale, avevano dei confini. Così come le città, i cui confini più che dalle mura (recinti sacri per tenere insieme la comunità, prima che per difenderla dai nemici) erano definite dalla campagna e dalle terre comuni.
Se i confini sembrano dunque un’esigenza imprescindibile della natura umana, una continuità della storia lunga, civili sono i luoghi che si danno dei confini collettivi, dei confini che responsabilizzano coloro che ci vivono nei confronti degli altri individui, non confini individuali entro i quali faccio ciò che mi pare, uscendone protetto dalla corazza dell’automobile.
La possibilità di andare a piedi, è civile: ma provate a percorrere a piedi le circonvallazioni urbane, le rotonde o gli svincoli che portano agli ipermercati! Sempre più costretti dalla necessità, dai fooddesert o da ciò che tende ad avvicinarsi ad essi. Un trasporto pubblico efficiente è civile: ma come si fa a servire con il trasporto collettivo un territorio urbanizzato in modo così diffuso? E poi bisogna crederci, nelle dotazioni collettive, e manutenerle (altrimenti gli scambi ferroviari sono sempre rotti, e i soffitti delle scuole crollano).
In questo nostro Veneto sempre più individualizzato, sono state erose anche attraverso le nuove forme delle urbanizzazioni quelle istituzioni sociali che generavano fiducia e sostegno sociale, all’origine del miracolo economico degli anni Settanta. Gli individui che sentono che tutto ciò non funziona, non produce benessere, non hanno oggi luogo dove ritrovarsi con loro consimili. Ben venga dunque il progetto delle Camere del lavoro di diventare luoghi di rete, di contaminazione, di riaggregazione della frantumazione sociale in essere.
Potremmo, e dovremmo, continuare a dialogare a lungo, con riferimento a territori specifici, a evidenze “sul campo”, per capire insieme quali siano i beni comuni, ovvero gli archetipi della convivenza civile, che anche in una prospettiva economica incerta e comunque sempre più drammaticamente polarizzata ci possono essere oggi e domani di supporto per vivere meglio, se non addirittura essenziali per sopravvivere, per dare forma e concretezza a una visione alternativa a quella che immagina il territorio quale supporto per lo sfruttamento dei differenziali di costo delle merci e degli esseri umani.
Riferimenti bibliografici
Hesse, Markus (2006) “Logistik Immobilien: von der Mobilitaet der Waren zur Mobilisierung des Raumes”, disP 167 (4), pp.41-51
Marson, Anna, “Scenari futuri per l’assetto del territorio veneto”, in O.Mancini (a cura di), Più piazze, meno cemento, Ediesse, Roma 2007
Marson, Anna (2008) Archetipi di territorio, Alinea, Firenze 2008.
Rist, Gilbert (1996),Le Développement. Histoire d’une croyance occidentale, Presses de Sciences Po, Paris