loader
menu
© 2024 Eddyburg

segue)

L’organizzazione non governativa Oxfam è nata 64 anni fa ad Oxford come “Comitato per alleviare la fame nel mondo” e oggi è una federazione internazionale di 12 sezioni che operano in 75 paesi; esiste anche una sezione Oxfam Italia. Oxfam, proprio nei giorni scorsi, ha pubblicato un documento (consultabile gratuitamente in Internet) che getta nuova luce sui rapporti fra produzione agricola e alimentare e alterazioni ambientali, soprattutto modificazioni del clima dovute alle immissioni nell’atmosfera dei “gas serra”.
I due principali responsabili del lento inarrestabile riscaldamento del nostro pianeta, sono l’anidride carbonica (CO2) e il metano; quando si nominano questi gas il pensiero corre subito ai fumi delle centrali termoelettriche che bruciano combustibili fossili (la sola centrale di Cerano, vicino Brindisi, immette nell’atmosfera circa 15 milioni di tonnellate all’anno di CO2), alle caldaie delle case, ai gas di scappamento degli autoveicoli, agli sfiati nell’atmosfera dei pozzi metaniferi.

In realtà al riscaldamento globale contribuisce per circa un quarto del totale anche la produzione di cibo, quella complessa catena di rapporti che va dai campi coltivati, alle stalle, fino ai negozi e alla nostra tavola.

Apparentemente la produzione alimentare dovrebbe essere “neutrale”, dal punto di vista del bilancio planetario della CO2, perché “porta via” dall’atmosfera la CO2 che utilizza, insieme all’acqua e grazie all’energia solare, per formare i vegetali per fotosintesi; la stessa CO2 ritorna nell’atmosfera in seguito al metabolismo degli animali e degli esseri umani.

In realtà non è affatto così; intanto la natura “fabbrica”, con la fotosintesi, i vegetali senza occuparsi di quello che è utile per i nostri commerci; della biomassa vegetale esistente nei campi soltanto una parte, spesso meno del 40 percento, diventa cibo. Nelle piante di mais, i semi da cui trarre la farina e l’olio sono soltanto circa il 30 percento; delle olive l’olio rappresenta soltanto meno del venti per cento. La biomassa restante, che ammonta ad alcuni miliardi di tonnellate all’anno nel mondo, trova in parte impiego nell’alimentazione del bestiame e in parte viene restituita al terreno dove si decompone liberando CO2, ma anche altri gas serra. Inoltre la lavorazione dei campi comporta una modificazione della struttura del suolo che contribuisce anch’essa al peggioramento del clima.

Ma soprattutto le operazioni agricole richiedono l’impiego di macchinari che usano carburanti che emettono CO2 nell’aria; inoltre le elevate rese dei raccolti sono possibili con l’impiego di crescenti quantità di concimi contenenti azoto, fosforo, potassio, per la cui fabbricazione vengono impiegati combustibili fossili che emettono anche loro CO2 nell’atmosfera. Non solo: i concimi azotati svolgono la loro funzione di nutrizione delle piante attraverso complesse reazioni microbiologiche e chimiche, durante le quali si liberano ossidi di azoto, altri gas che contribuiscono, con la CO2 e il metano, al riscaldamento del pianeta. In una spirale: più rese agricole, più meccanizzazione, più concimi, peggioramento del clima.

Lo studio di Oxfam ha mostrato che i cinque principali raccolti --- riso, mais, soia, palma, grano --- contribuiscono ad immettere ogni anno nell’atmosfera circa quattro miliardi di tonnellate di gas serra, il 10 percento del totale mondiale. Alcune piante, come il riso, producono metano proprio nei processi di coltivazione.

Ma il cammino dai campi alla tavola è ancora molto lungo. Circa un terzo delle sostanze nutritive dei raccolti agricoli viene impiegato per l’alimentazione del bestiame. La vita degli animali da allevamento restituisce in parte la CO2 all’atmosfera, ma la “fabbricazione” di carne, di latte, di uova è accompagnata anche dalla liberazione di altri gas serra che vanno dal metano dei bovini a quello che si forma nella decomposizione microbiologica degli escrementi animali.

Molti prodotti agricoli vengono trasportati a grandi distanze. L’olio di palma, prima di arrivare nei dolciumi, percorre ottomila chilometri via mare. L’Italia importa mais dall’America, grano dal Canada, latte dalla Germania, zucchero dalla Francia, viaggi che richiedono combustibili e immissioni di altra CO2 nell’atmosfera.

I prodotti agricoli a questo punto entrano in processi industriali nei quali vengono macinati, miscelati, sottoposti a processi di conservazione, inscatolati e infine trasportati dalle industrie ai negozi e da questi a casa nostra e ai trattamenti di cucina, tutte operazioni accompagnate da emissioni di gas serra.

L’agricoltura è, quindi, fonte di alterazioni climatiche, ma è anche prima vittima delle stesse: l’aumento della siccità e le piogge eccessive che allagano i campi distruggono i raccolti; l’agricoltura intensiva impoverisce la fertilità dei suoli.

L’analisi dell’Oxfam mostra che le alterazioni climatiche, derivanti dalla produzione di cibi più raffinati e abbondanti per una minoranza della popolazione mondiale, rendono più scarsi e costosi gli alimenti disponibili nei paesi più poveri. Molti di questi sono costretti a cedere le proprie terre alle grandi società che praticano quelle coltivazioni intensive e distruttive che consentono di fornire a basso prezzo le materie prime per gli sprechi dei ricchi.

Sono denunce fatte anche molte volte e in varie sedi internazionali dal papa Francesco. Si tratta non di pensare ad un improbabile ritorno all’agricoltura contadina, ma di passare dalla agricoltura industrializzata intensiva e inquinante ad una agricoltura ”ecologica”, come ha messo in evidenza il bel libro di Pier Paolo Poggio Le tre agricolture, apparso di recente. La soluzione del problema alimentare dei poveri è l’unica condizione per estirpare la violenza che ci sta travolgendo.

(continua la lettura)

"Non c'era un posto per loro" nell'affollata e opulenta Betlemme e Giuseppe e Maria col bambino trovarono rifugio solo in una grotta fredda: mi tornano sempre in mente queste parole del Vangelo di Luca quando penso a tutti i poveri e poverissimi per i quali “non c'è un posto” in cui rifugiarsi, a cominciare da casa nostra: basta vedere le persone ammassate nelle “Rosarno” d’Italia, negli scantinati di edifici abbandonati come l’ospedale Forlanini di Roma.

Più di mille milioni di persone abitano nelle “Rosarno” del mondo, dai campi di concentramento di esuli e rifugiati, alle tendopoli di lavoratori immigrati e sfruttati, alle capanne e baracche delle periferie del terzo mondo, spesso vicino a discariche di rifiuti, ai ricoveri provvisori delle persone in fuga dalla fame, dalle guerre, dalla siccità, vittime dei cambiamenti climatici, rifugi circondati da polvere, sporcizia e acqua di fogna, senza acqua potabile e al buio.

Non è possibile avere una vita libera e dignitosa se si è privi di una casa decente e, davanti al grave problema di chi è privo perfino di un rifugio, già nel 1976, quarant’anni fa, le Nazioni Unite hanno sentito il bisogno di indire a Vancouver una conferenza internazionale sull'abitare per capire che cosa si può fare per soddisfare questo fondamentale bisogno umano che viene subito dopo il bisogno di cibo e di acqua e che si fa sempre più pressante a mano a mano che aumenta la popolazione dei miserabili del pianeta.

Dopo Vancouver le Nazioni Unite hanno costituito una speciale agenzia, Habitat, con sede a Nairobi, e hanno organizzato una seconda conferenza “Habitat II” a Istanbul nel 1996. La terza si terrà a Quito nell’Ecuador, nel dicembre di quest’anno. Per cancellare le migliaia di “Rosarno” del Nord e del Sud del mondo occorre un enorme sforzo internazionale: conoscitivo, prima di tutto (dove sono i senza-casa della terra, quanti sono, di che cosa hanno bisogno ?), finanziario, tecnico scientifico, politico.

Diffondere abitazioni decenti, far crescere villaggi e città umane soprattutto nei paesi poveri, è premessa indispensabile per sconfiggere i grandi mali delle società umane: violenza, sfruttamento dei bambini, prostituzione, diffusione della droga, epidemie, AIDS.

Anche nei paesi avanzati e industriali come il nostro esiste un problema di abitazioni, con drammatiche contraddizioni: ci sono abitazioni vuote, terze case abitate per pochi giorni all’anno, ci sono costruzioni belle e confortevoli e anzi di lusso, quelle che ci occhieggiano dalle riviste patinate, ci sono nuovi quartieri di case invendute, ci sono famiglie senza casa o sfrattate a cui i bassi redditi non consentono di affittare né tanto meno comprare una casa, ci sono i senza-casa.

L’industria dell’edilizia fa fatica ad avviarsi perché orientata a costruzioni adatte per un “mercato” a sua volta in crisi. Quelli che erano i grandi progetti di edilizia popolare si scontrano con la mancanza di soldi dello Stato.

E poi c’è quel miliardo di persone dei paesi poveri e poverissimi che non hanno un rifugio decente. La risposta alla loro domanda richiede tecniche completamente differenti da quelle a cui siamo abituati noi. Bisogna inventare soluzioni semplici, case costruibili con materiali esistenti sul posto, resistenti alle tempeste e all'attacco dei parassiti e dell’umidità.

La purificazione delle acque, la distribuzione di acqua di decente qualità per l'alimentazione e per usi igienici, modeste attrezzature, come gabinetti e docce, possono contribuire a fermare la diffusione di epidemie e salvare milioni di vite.

Per tante zone occorre energia; l'energia del sole e del vento, spesso abbondante nei paesi poveri e poverissimi, può essere messa al servizio dei bisogni umani: penso a piccoli generatori di elettricità, a livello di villaggio, per l'illuminazione, per i frigoriferi in cui conservare i medicinali, per sollevare, purificare e dissalare le acque, per semplici sistemi di telecomunicazioni che avvertano gli abitanti dell'avvicinarsi di tempeste e diffondano istruzione per adulti e bambini.

In questa sfida potrebbero trovare utilizzazione materiali riciclati per la costruzione di prefabbricati, e tutto questo potrebbe creare occasioni di lavoro anche per i paesi industriali. Purtroppo le università e i grandi centri di ricerca sono assenti da questa grande gara per lo sviluppo di tecnologie "appropriate", adatte al miglioramento delle condizioni dell'abitare dei poveri.

Esistono alcuni piccoli centri di sviluppo e diffusione di tali tecnologie; molte iniziative sono prese da associazioni religiose cattoliche e protestanti e di volontariato che operano nei paesi poveri e ne conoscono e fanno conoscere le richieste di abitazione e servizi igienici.

Se non si vuole ragionare in termini di solidarietà e di aiuto dei paesi poveri si consideri che il potenziale enorme “mercato” di nuove “tecnologie della solidarietà” potrebbe attrarre l’interesse di tante imprese in cerca di nuovi sbocchi.

Si parla tanto di rallentare il flusso migratorio che sta premendo dai paesi poveri e una soluzione continuamente ripetuta è quella di aiutare i poveri nei loro paesi di origine. Il primo concreto aiuto consisterebbe nell’offrirgli la possibilità di costruire sul posto, con materiali locali e con saperi locali, i beni più indispensabili, come casa, acqua, servizi igienici, energia.

Una rivoluzione della speranza che non è soltanto un'operazione caritativa: se i paesi industriali non ascolteranno la voce dei poveri saranno travolti da violenze, pressioni migratorie e sociali, conflitti, generati dal loro egoismo e che tale egoismo finiranno - giustamente - per travolgere.

L'articolo è inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno

... (continua la lettura)

in occasione dell’apertura della Conferenza delle Nazioni Unite di Stoccolma sul tema: “L’uomo e l’ambiente”. Quest’anno le Nazioni Unite propongono come tema la lotta al commercio illegale di specie vegetali ed animali e di loro parti come le zanne di elefante o le pelli di tigre. Un problema importante perché tale commercio è alimentato dal bracconaggio e da operazioni illegali e criminali che provocano la perdita della biodiversità da cui dipendono la stessa sopravvivenza delle specie, alla lunga della nostra stessa specie.

La giornata mondiale dell’ambiente rappresenta una occasione per leggere ancora una volta, tutte insieme, le forme in cui l’ambiente viene modificato, le cause delle modificazioni, i danni umani e anche gli effetti economici che le violenze all’ambiente provocano.

La prima cosa che viene in mente riguarda le modificazioni climatiche i cui effetti sono sotto gli occhi di tutti, anche in questi giorni di fine primavera; da Parigi a Bari, da Milano alle campagne tedesche e romene. Piogge improvvise cadono su città di asfalto e su campi supersfruttati e l’acqua non trova più le sue strade naturali di scorrimento e dilaga nelle cantine, esplode dalle fognature, distrugge coltivazioni agricole pregiate. Ormai, con buona pace dei negazionisti, non c’è più dubbio che tali violenze climatiche derivano dalla continua, crescente modificazione della composizione chimica dell’atmosfera, la quale, a sua volta è dovuta non a punizioni divine, ma ad azioni lecite e anzi lodevoli: all’uso dei combustibili con cui oltre un miliardo di autoveicoli sulle strade del mondo trasportano persone e merci e tengono in moto l’economia, con cui le fabbriche producono cose utili e benefiche come acciaio per la costruzione delle abitazioni, dai lussuosi grattacieli del Golfo Persico, alle periferie che continuamente si espandono per ospitare miliardi di persone, in Cina come a Milano, in Africa come in California.

I gas che modificano il clima vengono dall’agricoltura che assicura il cibo che “consumiamo” ogni giorno, dai campi coltivati con concimi e trattori, agli allevamenti del bestiame che fanno arrivare proteine pregiate sulle mense del mondo.

Se ci spostiamo dalle modificazioni climatiche agli incendi che devastano tante zone della Terra, dai boschi che circondano le ville dei divi in California, a Pantelleria, alle grandi foreste brasiliane, indonesiane, africane, si vede che tali incendi lasciano il suolo nudo ed esposto all’erosione da parte delle piogge. Incendi e distruzioni forestali che spesso sono intenzionali per lasciare spazio a speculazioni edilizie o a nuove coltivazioni o a miniere da cui estrarre preziosi minerali, operazioni che spesso rispondono alla richiesta di “cose buone”. La estensione delle coltivazioni di palme nel sud-est asiatico permette di soddisfare la domanda dell’olio di palma che entra in molti alimenti e del biodiesel, quel surrogato ”ecologico” del carburante diesel ricavato dal petrolio. Oppure i nuovi spazi, “liberati” dalle foreste, consentono di ottenere lo zucchero da trasformare in alcol usato come carburante “ecologico” al posto della benzina, o di estrarre due miliardi e mezzo di tonnellate all’anno di minerale di ferro che sarà poi trasformato in un miliardo e mezzo di tonnellate di ferro e acciaio, che sono cose buone e utili.

Tutte le cose buone e i “servizi” come la conoscenza, le telecomunicazioni, la difesa della salute, la possibilità di muoversi, richiedono dei beni materiali che vengono tratti dalla Terra, modificandola, e inevitabilmente comportano la restituzione alla Terra delle acque usate, addizionate di sostanze nocive per la vita, di gas, di scorie solide, un flusso di circa 250 miliardi di tonnellate all’anno di materie, corrispondenti ad un “peso” di circa 35 tonnellate all’anno per ogni persona che abita la Terra (500 volte il peso del corpo). Inutile dire che questo numero, oltre ad essere una grossolana approssimazione, è un valore medio; molti abitanti della Terra si appropriano delle sue ricchezze molto di più e molti altri se ne appropriano in quantità molto minore.

L’”ambiente” che le Nazioni Unite e i governi del mondo intendono difendere viene, insomma, continuamente attraversato da un flusso di materiali che trasformano la biosfera, che è cosa buona, in tecnosfera, il mondo degli oggetti capaci di soddisfare la richiesta dei “consumi” umani, che sono cose buone, come ci ripetono ogni giorno i governanti. Consumi che anzi dovrebbero aumentare per tenere vivace l’economia mondiale, ma la cui produzione e uso modificano inevitabilmente e negativamente proprio quello stesso ”ambiente” che diciamo di voler invece difendere.

Con strani effetti finanziari; l’aumento dei consumi fa aumentare la massa di denaro in circolazione e i danni ambientali, la distruzione del suolo, le alluvioni, gli inquinamenti, fanno aumentare la massa di denaro in circolazione per risarcire gli alluvionati, per costruire impianti di depurazione o pannelli solari o automobili elettriche e così via. La Terra ci rimette sempre e i soldi crescono sempre.

Le precedenti brevi considerazioni non hanno alcun fine moralistico né raccomandano necessariamente comportamenti di austerità merceologica, anche se una critica dei “consumi” figura in maniera quasi ossessiva perfino nell’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco; sono semplicemente avvertimenti degli effetti che l’attuale comportamento merceologico determina sulla Terra e sul suo ambiente. Tanto per saperlo.


L'articolo è inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno

(continua la lettura)

Alla maggior parte degli Italiani il nome “Montalto di Castro” dice poco; alcuni hanno notato, andando veloci lungo la linea ferroviaria Roma-Genova, questo nome sul muro di una stazione; i più curiosi, guardando fuori dal finestrino, dalla parte del mare, avranno visto in lontananza quattro grossi edifici con un grande, alto camino: una centrale elettrica che, negli anni ottanta del secolo scorso, è stata al centro di vivaci polemiche ecologiche. A dire la verità le centrali di Montalto di Castro sono state due, una nucleare che non è mai stata neanche completata, e quella a olio combustibile che ha funzionato pochi anni e oggi è chiusa. Dopo la grande crisi del 1973, quando il prezzo del petrolio aumentò di dieci volte in pochi anni, il governo italiano avviò dei piani energetici che prevedevano la costruzione di numerose centrali nucleari distribuite in varie parti d’Italia. Cominciò una vivace contestazione antinucleari e rimase in piedi soltanto il progetto di una centrale nucleare da 2000 megawatt, del tipo ad acqua bollente simile a quella che era in funzione a Caorso (Cremona), da localizzare nel Lazio, quasi al confine con la Toscana, in una pianura occupata da campi coltivati, vicino al mare.

Un progetto nato sotto una cattiva stella perché nel 1979 si verificò negli Stati Uniti il primo grave incidente alla centrale nucleare di Three Mile Island, con fusione del nocciolo contenente l’uranio, il plutonio e gli elementi radioattivi formatisi nel processo. Furono avviate inchieste sulla sicurezza nucleare e, nonostante le proteste e i dubbi, il governo italiano decise di iniziare ugualmente la costruzione della centrale di Montalto. Sfortunata davvero, perché nel 1986 si verificò l’altro gravissimo incidente nucleare alla centrale ucraina di Chernobyl. Grande spavento, altre commissioni, altre inchieste parlamentari, in Italia un referendum bocciò la scelta nucleare e nel 1989 fu deciso di abbandonare a metà la costruzione della centrale di Montalto. Fra opere già fatte, fra risarcimento di danni per i contratti in corso, eccetera, il tutto è costato ai cittadini italiani l’equivalente di alcuni miliardi di euro attuali.

Come se non bastasse, sulla base di previsioni errate dei consumi di elettricità, nel 1990 nella stessa località è stata iniziata la costruzione di un’altra centrale, questa volta alimentata ad olio combustibile, con una potenza quasi doppia di quella della defunta centrale nucleare. La centrale, dell’ente elettrico statale, è entrata in funzione nel 1992, ma nel frattempo, grazie ai lauti incentivi dello stesso stato, sono stati costruiti moltissimi impianti che producono la stessa elettricità dal Sole, dal vento e anche dai rifiuti. L’Italia è così venuta a disporre di elettricità in quantità molto superiore a quella richiesta per cui i governi hanno deciso di chiudere le proprie centrali termoelettriche più vecchie, ma anche quella recentissima di Montalto. In tale centrale la produzione di elettricità è scesa, fra il 2004 e il 2006, cioè dopo appena una dozzina di anni di vita, a 12 miliardi di chilowattore all’anno (la metà di quella possibile) ed è continuata a diminuire fino alla chiusura, nel 2011, dopo appena diciannove anni. La centrale di Montalto è ora un rudere che attende una qualche utilizzazione. Qualcuno parla di farne un grande inceneritore di rifiuti, altri di utilizzare lo spazio per il famoso deposito delle scorie nucleari, circa 100 mila tonnellate di materiali radioattivi e pericolosi sparsi per l’Italia, uno scottante problema da decenni irrisolto.

Intanto la centrale è la, nella pianura, ferma. Ogni volta che muore una fabbrica, anche se era sbagliata, anche se per anni i suoi fumi hanno contribuito ai mutamenti climatici, dovrebbe essere un lutto nazionale. Erano belle e grandi caldaie e turbine, costate acciaio e lavoro, erano grandi strutture di cemento costruite da centinaia di lavoratori, in cui erano impiegati centinaia di tecnici e operai. Una fabbrica che chiude è occupazione perduta, sono famiglie che perdono un reddito, ma soprattutto porta con se speranze deluse. Le imprese non perdono mai i soldi, sanno a chi fare pagare i loro errori, i manager escono di scena sempre con lauti premi. E’ il paese che rimane impoverito e ferito e deluso.

Nel caso di Montalto di Castro siamo poi di fronte a dolori e sprechi che potevano essere evitati. Si sapeva che la centrale nucleare era una scelta sbagliata, lo aveva denunciato il movimento antinucleare; anche la costruzione di una così grande centrale termoelettrica era in contraddizione con la scelta governativa di incentivare la produzione di elettricità da fonti rinnovabili. Per evitare futuri errori e sprechi sarà bene che la politica energetica ed industriale prenda decisioni non sotto la pressione di miopi interessi finanziari, ma precedute da corrette analisi e previsioni di che cosa il paese ha realmente bisogno, come è opportuno soddisfare queste necessità e con processi che assicurino duraturi posti di lavoro. Magari ascoltando anche un poco le voci critiche.

Il lavoro deriva dalla produzione di merci, industriali e agricole, e da servizi, i quali richiedono anch’essi sempre “cose” materiali. Le merci e i servizi non sono tutti uguali; alcuni inquinano l’ambiente, altri fanno male alla salute, e la storia mostra che spesso i processi inquinanti e nocivi dopo poco devono essere abbandonati lasciandosi alle spalle terre desolate e dolore.


L'articolo è inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno

... (continua la lettura)

di non avere adeguatamente informato e protetto il caporalmaggiore Salvatore Vacca, morto di leucemia a 23 anni per essere venuto in contatto con uranio impoverito durante la campagna di Bosnia del 1998. Il metallo tossico era usato nei proiettili dalle forze NATO di cui il giovane Vacca faceva parte.

L’uranio è un metallo molto pesante (pesa un terzo più del piombo, quasi come il tungsteno), durissimo ed è piroforico: quando un proiettile contenente uranio urta ad alta velocità un corpo metallico (per esempio la corazza di un carro armato), raggiunge altissime temperature, si ossida e il calore liberato è sufficiente a far fondere la corazza di un carro armato o di una fortificazione. Durante l’urto e l’ossidazione una parte dell’uranio si libera sotto forma di finissime particelle di metallo o di ossido che ricadono tutto intorno al punto dell’impatto. L’uranio non solo è radioattivo, ma è anche tossico.

L’uranio era già stato usato dall’esercito nazista durante la seconda guerra mondiale, quando scarseggiava il tungsteno impiegato nei proiettili penetranti. Nel suo libro di memorie il ministro degli armamenti della Germania nazista Albert Speer ha scritto: «Nell’estate del 1943 sono cessate le importazioni di minerali di tungsteno dal Portogallo: ho perciò ordinato di usare le riserve di uranio, circa 1200 tonnellate, per la fabbricazione di proiettili penetranti, dal momento che era stato accantonato il progetto di costruire la bomba atomica». L’impiego dell’uranio come metallo per proiettili penetranti, già presente nelle fertili menti degli ingegneri tedeschi, è rimasto limitato fino a quando non è diventato disponibile in grandi quantità come sottoprodotto delle attività nucleari negli Stati Uniti. La produzione di energia nelle centrali nucleari e nelle bombe atomiche dipende dall’uranio, un elemento che è presente in natura con due isotopi, uguali dal punto di vista chimico, ma con un differente numero di protoni nel nucleo: l’uranio-235 (presente in concentrazione di appena lo 0,7 percento), e l’uranio-238, il più abbondante. Le centrali nucleari liberano calore sottoponendo a “bombardamento” con neutroni l’uranio contenente circa il 3 o 4 percento di uranio-235; le bombe nucleari liberano l’enorme quantità di energia esplosiva in seguito all’urto con neutroni dell’uranio contenente circa 90 percento di uranio-235.

La separazione dei due isotopi si ottiene facendo passare i rispettivi fluoruri allo stato gassoso attraverso speciali “filtri” che lasciano passare prevalentemente il più “leggero” isotopo uranio-235; in queste operazioni di ”arricchimento” dell’uranio-225 si formano dei residui di uranio “impoverito”, costituito quasi esclusivamente dal più “pesante” isotopo-238 (contenente soltanto circa lo 0,2 percento di uranio-235).

Nel corso di mezzo secolo, nei paesi in cui si sono svolte attività industriali di “arricchimento” dell’uranio - Stati Uniti, Francia, Unione Sovietica (l’attuale Russia), e altri - si sono accumulate grandissime quantità di uranio ”impoverito”, mezzo milione di tonnellate negli Stati Uniti, oltre un milione di tonnellate nel mondo, come sottoprodotto e scoria degli impianti di diffusione gassosa. Il complesso militare-industriale ha così pensato che era un peccato buttare via tutti questi residui di uranio-238 e gli ingegneri militari si sono così ricordati che l’uranio impoverito si presta bene per la fabbricazione di proiettili penetranti, è migliore del tungsteno e, proprio per il suo carattere di sottoprodotto industriale, costava meno del tungsteno stesso. Si trattava, insomma, del recupero e riciclo di un rifiuto, secondo i principi della migliore “economia circolare” !

Con l’unico inconveniente che l’uso militare dell’uranio impoverito, radioattivo anche lui e tossico, rappresentava una fonte di pericolo e contaminazione delle persone e dell’ambiente; non solo sono contaminati i combattenti nemici, ma anche i combattenti che l’hanno usato e i civili che percorrono strade o territori in cui permangono residui di polvere di uranio, di questo “metallo del disonore”, secondo il titolo di un documentato libro sull’uso militare dell’uranio impoverito.

Durante la guerra del 1991 in Iraq l’esercito americano ha usato e disperso nell’aria e sul suolo circa 500.000 chili di uranio impoverito; molti soldati americani sono stati contaminati e hanno manifestato una speciale malattia, la “Sindrome del Golfo” con effetti anche mortali. Molti reduci americani hanno chiesto e ottenuto dei risarcimenti dal loro governo.

E’ stato stimato che oltre tremila militari italiani nelle forze NATO in missione di pace in Bosnia e nel Kosovo siano stati esposti al metallo tossico usato nei proiettili dei cannoni e dei carri armati e che oltre trecento siano morti per questa causa. Molti reduci hanno chiesto giustizia al governo italiano senza successo. Soltanto dopo 14 anni una qualche giustizia è stata resa almeno al caporalmaggiore Vacca.

Ci sarà una città o un paese che intitolerà una via o una piazza ai “Caduti di guerra avvelenati dalle armi del proprio esercito”? Senza contare che nessuno aiuterà a riconoscere le malattie, dovute ad una così subdola causa, comparse negli abitanti dell’Iraq meridionale, o negli abitanti della ex-Jugoslavia, una volta che sono tornati nelle loro terre devastate e contaminate; chi li aiuterà a guarire, chi riconoscerà la causa della loro morte nell’uranio radioattivo, “brillante” frutto di una tecnologia che non si ferma neanche davanti ai danni alla vita di persone inermi e all’ambiente?

L'articolo è inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno

(continua la lettura)

Vi immaginate una repubblica con poco più di 50 mila abitanti che cita in tribunale il gigante mondiale, gli Stati Uniti? Per trovare questa repubblica, denominata delle Isole Marshall, dovete prendere un mappamondo, guardare l’immenso Oceano Pacifico, cercare proprio a metà, fra l’Australia e le Isole Hawaii, all’altezza dell’equatore; farete fatica a riconoscere un puntino che indica una catena di isole coralline, distanti fra loro centinaia di chilometri; è questo il territorio della minuscola repubblica di cui parlo. Sarà stato perché negli anni quaranta del secolo scorso erano state affidate come “mandato” agli Stati Uniti, sarà stato perché erano lontane da altri paesi abitati, sta di fatto che sono state scelte per condurre una serie di esplosioni sperimentali di bombe atomiche americane.

Anche se così lontane da tutti, le isole Marshall hanno avuto una interessante storia; già tremila anni fa sono state visitate da marinai e pescatori provenienti dalle coste dell’America meridionale, dall’Australia e dall’Asia orientale, che percorrevano il mare sterminato con zattere capaci di resistere alle tempeste oceaniche. Sono state poi scoperte dai navigatori europei, spagnoli, prima di tutto, poi inglesi fra cui il capitano John Marshall che visitò le isole nel 1788 e le dette il proprio nome; le isole rimasero proprietà spagnola fino al 1884 quando la Spagna “le vendette” alla Germania. Rimasero tedesche fino alla prima guerra mondiale quando i giapponesi le occuparono e ne ebbero il mandato fino alla seconda guerra mondiale, durante la quale furono occupate dagli americani che vi costruirono una base militare.

La prima bomba atomica, dopo quelle di Hiroshima e Nagasaki, fu esplosa nel luglio 1946 nell’isola di Bikini, una corona di rocce coralline intorno ad una laguna nella quale furono poste varie navi militari in disarmo, per vedere che effetto la bomba avrebbe fatto su una flotta. Affondarono tutte e l’America esultò per la potenza della nuova arma, un avviso per l’Unione Sovietica con cui era cominciato una “guerra fredda”. La bomba di Bikini fu battezzata ”Gilda” dal nome della protagonista di un omonimo film di successo interpretato dall’”esplosiva” bellezza di Rita Hayworth; uno stilista chiamò “bikini” il costume di bagno in due pezzi che permetteva alle signore di esporre i propri “esplosivi” attributi femminili. Solo dopo molto tempo si sarebbe saputo che le polveri radioattive gettate nell’atmosfera dalle bombe atomiche e nucleari esplose nelle solitarie isole Marshall, a Bikini fra il 1946 e il 1958 e ad Eniwetok dal 1948 al 1958, avrebbero provocato centinaia di morti per tumori. La bomba termonucleare usata nel marzo 1954 nel test “Bravo” aveva una potenza distruttiva equivalente a quella di 13 milioni di tonnellate di tritolo (cinquecento volte superiore a quella della bomba di Hiroshima) e polverizzò una parte del suolo corallino dell’isola di Bikini.

Gli Stati Uniti risarcirono con soldi gli abitanti che erano stati spostati dalle loro isole, spesero cifre enormi per “grattare” via il suolo contaminato dalla radioattività; alcuni abitanti furono riportati sul luogo e alla fine gli fu riconosciuta, nel 1986, la sovranità sulle loro travagliate isole che ora hanno una bandiera, un piccolo parlamento e un seggio all’assemblea delle Nazioni Unite.

Nel frattempo i vari paesi dotati di bombe nucleari, hanno continuato a collaudare i loro arsenali facendo esplodere circa duemila bombe nucleari nell’atmosfera e poi nel sottosuolo e hanno continuato a perfezionare e tenere in funzione le bombe esistenti, oggi oltre 10.000 in nove paesi, Stati Uniti, Russia, Cina, Regno Unito, Francia, India, Pakistan, Israele, Corea del Nord. Altre bombe nucleari sono distribuite in altri paesi, fra cui l’Italia che ”ospita” bombe termonucleari americane a Ghedi (Brescia) e Aviano (Pordenone).

Dal 1968 esiste un trattato di non proliferazione nucleare (NPT) firmato da tutti i paesi (ad eccezione di Israele, India, Pakistan e Corea del Nord) che avrebbe dovuto limitare la fabbricazione di armi nucleari e anzi, nel suo articolo VI, impone a tutti gli aderenti di procedere ad un totale disarmo nucleare, un impegno mai rispettato, con la scusa che il possesso di armi nucleari da parte di un paese scoraggia altri da usarle, il principio della deterrenza. Ricordando quello che avevano sofferto, gli abitanti delle isole Marshall si sono arrabbiati e hanno deciso di intraprendere delle azioni legali contro i paesi nucleari. Hanno cominciato a fare causa al governo degli Stati Uniti presso un tribunale della California per violazione del NPT di cui è firmatario; il tribunale ha respinto l’accusa ma si sono messi in moto delicati problemi di diritto internazionale. Come se non bastasse la Repubblica delle Isole Marshall ha denunciato presso la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja tutti i nove stati nucleari per la violazione degli obblighi di disarmo imposti da una precedente sentenza della stessa Corte.

Il dibattito è in corso ed è un peccato che non se ne parli in Italia. Di disarmo nucleare ha parlato invece Papa Francesco nel messaggio inviato nel dicembre 2014 alla Conferenza di Vienna sull’”impatto umanitario delle armi nucleari ricordando che «le armi nucleari hanno il potenziale di distruggere noi e la civiltà», le armi nucleari come tali, non quelle di un paese o dell’altro paese, proprio per il solo fatto di esistere, e ha concluso: «Un mondo senza armi nucleari è davvero possibile». Speriamo che qualcuno lo ascolti.

L'articolo è inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno

(continua la lettura)

“Economia circolare” è un termine diventato di moda da alcuni anni per descrivere le tecnologie di riciclo dei rifiuti e le tecnologie “verdi”, presentate come grande novità. In realtà in tutte le società umane, a cominciare da quelle antichissime, il riutilizzo delle cose usate e dei residui è stata pratica non solo saggia, ma necessaria per sopravvivere in un mondo in cui le risorse materiali disponibili sono sempre state limitate. Un dimenticato episodio di economia circolare riguarda la Puglia e la sua importante produzione di olio di oliva. L’olio di oliva è un alimento ottenuto nei paesi mediterranei, da almeno tremila anni, macinando le olive; la pasta omogenea risultante viene poi pressata facendone colare l’olio insieme ad una parte dell’acqua dalla quale l’olio è poi separato. Il contenuto di olio è di circa 15-20 chili per ogni 100 chili di olive; dalla spremitura restano circa 40-50 chili di un panello umido (la sansa) contenente ancora circa 2-3 chili di olio.

La sansa per secoli era considerata un rifiuto, buttata via o bruciata o dispersa nel terreno, anche con qualche beneficio perché contiene piccole quantità di sali potassici. L’imprenditore pugliese Vito Cesare Boccardi (1835-1878), durante un viaggio in Germania, intorno al 1865 venne a conoscenza della possibilità di estrarre il grasso dalle ossa mediante solfuro di carbonio. Il solfuro di carbonio è un liquido volatile, con odore sgradevole, infiammabile e tossico da respirare, che era stato ottenuto nel 1796 dal chimico tedesco Lampadius scaldando insieme pirite di ferro (solfuro di ferro) e carbone; si libera così un vapore facilmente condensabile, il solfuro di carbonio, appunto, con formula CS2, un atomo di carbonio legato a due atomi di zolfo, che si rivelò subito un buon solvente dei grassi.

I primi brevetti per l’estrazione del grasso dalle ossa, anche questa un’operazione di economia circolare, di recupero di materie commerciabili da un sottoprodotto della macellazione, erano stati assegnati al chimico francese Edouard Deiss già nel 1855.

Poco dopo la ditta tedesca C.O.Heyl di Moabit, alla periferia di Berlino, estraeva con solfuro di carbonio olio dai pannelli di vari semi oleosi. Boccardi (1835-1878) pensò di applicare il processo alle sanse di oliva per ottenere olio da trasformare in sapone, in un suo sansificio a Molfetta. Sorsero in breve tempo vari stabilimenti che operavano con ciclo integrale: estraevano olio dalle olive, poi recuperavano dalle sanse l’olio residuo usando come solvente il solfuro di carbonio che essi stessi producevano.

Nel 1869 con capitali francesi fu creata a Bari la “Società delle olierie e saponerie meridionali”, diretta dai signori Marius Gazagne e Sarlin; lo stabilimento, sito nella zona dell’attuale Fiera del Levante, produceva solfuro di carbonio e olio di sansa. Un articolo del 1883 afferma che la fabbrica produceva ogni giorno 1200 chili di solfuro di carbonio e 7000 chili di olio di sansa. A Milazzo nel 1873 la ditta Zirilli produceva anch’essa solfuro di carbonio e olio di sansa. Nel 1883 simili stabilimenti esistevano, oltre che in Puglia e in Sicilia, anche in Toscana.

Si ha notizia che imprenditori pugliesi presentarono, con successo, nelle esposizioni merceologiche, dei campioni di olio di sansa al solfuro. Dapprima l’olio di sansa, di colore verde intenso per la clorofilla che veniva estratta insieme all’olio, era considerato non adatto ad uso alimentare e veniva impiegato per la fabbricazione del sapone, apprezzato perché, per il suo elevato contenuto di acido oleico, permetteva di ottenere dei saponi meno duri di quelli ottenuto con grassi ricchi degli acidi palmitico e stearico. L’”olio al solfuro” era oggetto di esportazione, specialmente negli Stati Uniti; un saponificio di Milwaukee fondato nel 1864 da un tale Caleb Johnson, nel 1898 diede il nome “palmolive” al sapone, dal caratteristico colore verde, fatto con gli acidi grassi dell’olio di sansa di oliva italiano. La fabbrica fu poi assorbita dal saponificio Colgate e il nome “Palmolive” è ora marchio di fabbrica di questa multinazionale dei detergenti.

Queste operazioni di antica economia circolare non erano prive di inconvenienti: I sansifici che producevano olio al solfuro erano soggetti a esplosioni e incendi ed erano inclusi fra le industrie esposte a rischio di incidenti rilevanti, da localizzare fuori dalle città. Per questo motivo già agli inizi del Novecento il solfuro di carbonio fu sostituito con benzina o altri idrocarburi meno pericolosi.

Con vari perfezionamenti è stato possibile eliminare colore e sapori sgradevoli dall’olio di sansa e farne un olio adatto ad usi alimentari. Con successo, perché già negli anni trenta del Novecento era prevista la vendita di olio alimentare di sansa, il cui prezzo era inferiore a quello dell’olio di pressione, col quale poteva anche essere miscelato, nel qual caso era denominato “Olio di sansa e di oliva”. Il favore ricevuto dall’olio di sansa presso i consumatori meno abbienti spinse gli industriali dell’olio di oliva a chiedere ai vari governi di applicare all’olio di sansa una imposta di fabbricazione che ne facesse avvicinare il prezzo a quello degli oli di pressione, naturalmente con le proteste dei proprietari dei sansifici che erano in genere piccoli stabilimenti diffusi nelle zone di produzione delle olive.

L’olio di sansa è ancora prodotto e commerciato; le sanse esauste, dopo l’estrazione dell’olio, trovano impiego come miglioratori del terreno o come combustibili, altra prova che l’economia può operare a cicli sempre più chiusi.

L'articolo è inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno

(continua la lettura)

La maggior parte dei paesi ha sottoscritto, con una grande cerimonia, gli accordi, presi a Parigi nel dicembre 2015, per rallentare il lento continuo aumento della temperatura del pianeta Terra, responsabile dei mutamenti climatici e a sua volta provocato dall’immissione nell’atmosfera di gas, detti “gas serra”, provenienti dalle attività umane. Per la maggior parte i gas serra sono costituiti dall’anidride carbonica CO2 liberata dalla combustione dei combustibili fossili, carbone, petrolio e gas naturale, che sono le fonti di energia usate in maggiore quantità nel mondo, dall’incendio delle foreste, dalla produzione di cemento. Altro gas serra è il metano che sfiata dai pozzi di gas naturale o che si libera dalla putrefazione di rifiuti agricoli e urbani, e altri gas serra derivano da processi industriali. Nel mondo ogni anno circa 35-40 miliardi di tonnellate di CO2 si aggiungono a quelle già esistenti nell’atmosfera; in Italia circa 400-450 milioni di tonnellate all’anno di CO2 vengono immessi nell’atmosfera planetaria.

Per rallentare il riscaldamento planetario sono previste delle specie di multe (“carbon tax”), tanti euro per ogni tonnellata di gas serra immessi nell’atmosfera da una industria o da un paese, soldi che dovrebbero servire in parte ad aiutare i paesi poveri ad avviarsi allo sviluppo economico e sociale con tecnologie meno inquinanti e rispettando il proprio ambiente.

Trattandosi di soldi, i governi, le banche, le compagnie di assicurazioni, le imprese, enti di ricerca, ma anche associazioni ambientaliste, cercano di prevedere di quanta energia ciascun paese avrà bisogno e quali fonti energetiche poco inquinanti farà bene a utilizzare. In questi ultimi tempi si stanno moltiplicando analisi e previsioni di consumi energetici che prendono il nome di piano, strategia o, più modernamente, “roadmap” (che sarebbe come dire la strada che occorrerebbe percorrere per ottenere un certo risultato).

Tutti questi piani, al fine di diminuire le emissioni di gas serra per “stare dentro” i vincoli di emissioni imposti dagli accordi di Parigi, prevedono di sostituire una parte dei combustibili fossili con le fonti energetiche rinnovabili: solare, eolico, idroelettrico, con carburanti derivati da prodotti agricoli, con la combustione negli inceneritori (ora chiamati “termovalorizzatori”) dei rifiuti (promossi a fonti rinnovabili), e di diminuire i consumi totali di energia con la ristrutturazione degli edifici, con la diffusione dei servizi informatici, eccetera,

La maggior parte delle fonti rinnovabili però produce essenzialmente energia elettrica che oggi in gran parte è ottenuta bruciando l’inquinante carbone (oltre dieci milioni di tonnellate all’anno solo nelle centrali termoelettriche italiane). Ma l’elettricità prodotta con le meno inquinanti fonti rinnovabili costa di più di quella ottenuta dalle fonti energetiche fossili e i maggiori costi di produzione devono essere rimborsati ai proprietari di pannelli fotovoltaici, di pale eoliche o di termovalorizzatori sotto forma di soldi tratti facendo pagare di più l’elettricità ai consumatori i quali, in un certo senso, devono pagare per quello che sarebbe il loro diritto: respirare aria pulita e non essere alluvionati.

L’energia, sotto forma di calore e di elettricità, ”serve” a produrre merci e ad assicurare servizi: a trasformare il minerale in acciaio, il grano in pane e pasta, a muovere le automobili, a scaldare le case e ricaricare i telefonini, insomma a tutte le cose della vita quotidiana. A modesto parere di un merceologo, per prevedere e indicare di quali e quante fonti di energia avrà bisogno un paese nei prossimi anni e con quale inquinamento, sarebbe bene cominciare dal fondo, cioè dall’analizzare di quali e quante merci e servizi si prevede che un paese abbia bisogno.

Ciascun prodotto o servizio può essere ottenuto, infatti, con diversissime quantità e tipi di energia. Per restare al caso dell’acciaio, che è al centro di tanti problemi in Puglia, la stessa tonnellata di acciaio può essere prodotta con carbone, con gas naturale, o con l’elettricità, con diverse quantità di energia tratte da diverse fonti e con diversi effetti inquinanti. Una persona può percorrere un chilometro con un’automobile economica, con un SUV, con un treno o con un autobus, in ciascun caso con quantità e tipi di energia diversissimi e con diversi inquinamenti, eccetera. La quantità di merci e servizi di cui i cittadini di un paese hanno bisogno dipendono dal numero di abitanti e dalla loro età: gli anziani hanno bisogno di meno motociclette dei giovani e hanno bisogno di maggiori spazi ricreativi e assistenza medica; l’invecchiamento della popolazione impone modifiche nella richiesta di nuove abitazioni e nei relativi consumi di cemento e piastrelle; le mode inducono a modificare la richiesta di alimenti, di tessuti, di mobili. Tutti fenomeni da cui dipende la richiesta di energia.

Nei piani energetici che ho visto in circolazione, in generale mancano le informazioni sulle previsioni dei fabbisogni di merci e servizi, al di là di una generica promessa di chimica o tecnologia “verde”. Per quanto ne so, solo il rapporto 213/2015 dell’ISPRA (l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) conteneva le previsioni dei consumi di elettricità, addirittura al 2050, basate sulle previsioni della richiesta e della produzione di alcuni prodotti: acciaio, alluminio, prodotti chimici industriali, prodotti farmaceutici, cemento, laterizi, carta, prodotti alimentari e tessili. Le previsioni sono sempre difficili, ma vanno pur fatte ricordando che in futuro, piaccia o no, le società umane hanno bisogno di oggetti, di energia e anche di cieli meno inquinati.

L'articolo è inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno

(continua la lettura)

A trent’anni di distanza da quel 26 aprile del 1986 giornali e televisioni ricordano il grave incidente che porta il nome di Chernobyl; in quella cittadina dell’Ucraina, allora sovietica, che nessuno aveva mai sentito nominare, in uno dei quattro reattori della centrale nucleare, per l’interruzione della circolazione dell’acqua di raffreddamento si verificò la fusione del “nocciolo”, un insieme di tubazioni di acciaio che contenevano grandi quantità di atomi radioattivi: uranio, plutonio e i loro prodotti di fissione che il mondo avrebbe imparato a conoscere per nome: cesio, stronzio, iodio radioattivi.

A causa dell’altissima temperatura la grafite che circondava il nocciolo si incendiò e poi si verificò un’esplosione che scaraventò nell’aria una nube di polveri e gas con una radioattività equivalente a quella di circa 100.000 chilogrammi di radio; le polveri ricaddero in parte intorno alla centrale e poi si dispersero nei cieli dell’Europa centrale e arrivarono fino in Italia. Grande spavento e confusione e risposte contraddittorie alle domande degli Italiani: la radioattività della nube fuoriuscita dalla lontana centrale rappresentava un pericolo per la nostra salute ? dove ? che cosa bisognava mangiare e che cosa bisognava evitare ?

Le conseguenze ambientali, economiche e politiche dell’incidente di Chernobyl furono grandissime. Le fiamme e i fumi fuoriusciti dal tetto scoperchiato di quella centrale segnarono di fatto la fine dell’avventura nucleare italiana e anche nel resto del mondo fecero svanire il sogno dell’elettricità illimitata a basso costo. Da allora le oltre 400 centrali nucleari esistenti nel mondo hanno continuato a produrre elettricità; alcuni reattori sono stati chiusi anticipatamente, qualche nuovo reattore è stato anche costruito. Da alcuni anni la produzione mondiale di elettricità nucleare è in continua diminuzione, dal 14 percento della produzione mondiale di energia elettrica nel 2000, all’attuale meno del 10 percento. Della scelta atomica ci restano le crescenti quantità di scorie radioattive prodotte dai reattori nucleari militari e commerciali, che nessuno sa dove sistemare, una eredità che lasciamo alle generazioni future.

Ma la tragedia di Chernobyl ebbe anche altri volti che sono rimasti poco noti o dimenticati. Mi riferisco agli operai, ingegneri, volontari, pompieri, presenti o venuti dalle città vicine, che si adoperarono con i pochi mezzi a disposizione, nella grande confusione di strutture contorte e crollate, per spegnere l'incendio e che, per fermare la fuoriuscita di materiale radioattivo, esposero le loro vite a radiazioni mortali; morirono quasi tutti, così come morirono i piloti degli elicotteri che, a ripetizione, sorvolarono il reattore ancora in fiamme per gettare al suo interno centinaia di migliaia di tonnellate di sabbia e cemento e piombo, in modo da fermare la reazione nucleare che procedeva ancora.

Se non ci fosse stato il loro sacrificio, la radioattività delle polveri e gas che si sparsero e ricaddero in Europa avrebbe avuto conseguenze ben più disastrose. La storia è raccontata da Grigori Medvedev nel dimenticato libro Dentro Chernobyl, pubblicato nel 1996 dalle edizioni La Meridiana di Molfetta, un libro che dovrebbe essere letto nelle scuole perché è una specie di Cuore del ventesimo secolo. Il libro di Igor Kostin, Chernobyl, confessioni di un reporter, Ega Editore, Torino, contiene una ulteriore drammatica documentazione fotografica delle ore e delle settimane della grande paura e degli sforzi dei tecnici e degli operai impegnati a fermare la fuoriuscita della radioattività. Qualche città italiana avrebbe fatto bene a intitolare una strada o una piazza ai "martiri di Chernobyl", agli eroi che, in quelle terre lontane, a prezzo della loro vita, evitarono che fossimo contaminati in modo molto più grave e salvarono tante delle nostre vite.

Il disastro fu accompagnato da episodi di generosità e solidarietà internazionale. Il chirurgo americano Robert Gale, specialista di trapianti di midollo osseo, corse subito in Ucraina e per molto tempo operò i malati più gravi; anche questa storia è raccontata in un libro dello stesso Gale e in un film dal 1991, "Chernobyl", del regista Anthony Page, che ancora circola in qualche televisione e che meriterebbe di essere visto da tanti italiani.

Le zone intorno al reattore di Chernobyl, rese inabitabili a causa dell’elevata radioattività, furono fatte sgombrare dalla popolazione; molti abitanti di tali zone erano stati avvelenati dalla nube radioattiva; in Ucraina molti che allora erano bambini e ragazzi portano ancora nel corpo le conseguenze di tale contaminazione; per anni alcuni di questi bambini hanno trascorso dei periodi di vacanza in Italia, ospiti di organizzazioni di volontariato.

Qualche anno dopo, nel 2011, in Giappone si verificò un’altra catastrofe nella centrale nucleare di Fukushima. Un maremoto provocò l’interruzione della circolazione dell’acqua di raffreddamento di tre reattori e anche lì i reattori esplosero e provocarono l’immissione nell’ambiente di polveri con una radioattività equivalente a quella di circa 25.000 chilogrammi di radio. Anche a Fukushima, molti operai, ingegneri e tecnici sacrificarono la propria vita per cercare di fermare la fuga verso l’ambiente esterno delle polveri, salvando quindi dalla morte molti abitanti delle zone vicine. Eroi sconosciuti anche quelli come quelli di Chernobyl di cui Medvedev, nel libro prima citato, scrisse: "Gli eroi e i martiri di Chernobyl ci hanno fatto comprendere l'impotenza dell'uomo di fronte a ciò che l'uomo stesso crea, nella sua presunzione di onnipotenza".

L'articolo è inviato contemporaneamente a La Gazzetta del MEzzogiorno

... (continua la lettura)

, inteso come acque, aria, foreste, suolo, esseri viventi. Non a caso il Ministero si chiama per la “tutela” dell’ambiente; il braccio scientifico di tale ministero si chiama Istituto Superiore per la ”Protezione” e la Ricerca Ambientale (ISPRA). Infatti l’ambiente deve essere tutelato e protetto dalle attività umane e, in qualche caso, da eventi “naturali” come terremoti o eruzioni vulcaniche. Le alterazioni di origine umana derivano da interessi contrapposti, spesso o talvolta entrambi legittimi: chi produce merci utili e occupazione e chi protesta per i fumi che escono dai camini; chi costruisce una casa in montagna e chi protesta per il taglio dei boschi, eccetera.

La protezione dell’ambiente, da parte della pubblica amministrazione e da parte di associazioni o movimenti di ecologisti e ambientalisti, presuppone “la conoscenza” delle sue condizioni e delle sue modificazioni e questa può essere acquisita soltanto esaminando libri e documenti sparsi in numerosi posti, più o meno facilmente accessibili. Una associazione ecologica può contrastare l’inquinamento di un fiume soltanto se conosce tutti i suoi caratteri, la localizzazione e il tipo delle attività inquinanti, la natura delle scorie che finiscono nelle acque, i danni alla vita acquatica e alla salute delle persone che, a valle, traggono dal fiume l’acqua da bere. Si tratta, di conoscenze chimiche, fisiche, geologiche, biologiche, contenute in libri e relazioni spesso raccolti da enti e uffici pubblici, anche se raramente si sa dove si trovano.

E’ stata quindi molto opportuna l’iniziativa della dott. Anna Laura Saso, dell’ISPRA prima ricordato, di raccogliere a Roma, il 15 aprile scorso, presso la Biblioteca Nazionale, i responsabili delle principali agenzie e istituzioni invitandoli a “raccontare” il ricco patrimonio di libri e documenti relativi all’ambiente esistenti nelle loro biblioteche e in quale modo ogni cittadino vi può accedere. Tanto per cominciare, lo stesso ISPRA possiede nella sua biblioteca libri e relazioni proprio nello specifico tema ambientale, così come in ciascuna regione le varie agenzie locali per la protezione ambientale possiedono biblioteche con la documentazione relativa soprattutto al territorio in cui operano.

Chi fosse interessato allo difesa del suolo ha a disposizione una biblioteca e una cartografia del territorio che risale al 1867; subito dopo la nascita del Regno d’Italia è stato infatti creato il Comitato, poi Servizio Geologico d’Italia che ha studiato la geologia del nostro paese e che ha raggiunto un prestigio internazionale per le molte campagne di indagini geologiche svolte in tutto il mondo. Dall’esame delle carte geologiche, redatte nel corso di un secolo e mezzo, in parte consultabili in Internet, è (sarebbe) possibile capire dove “non” avrebbero dovuto sorgere quartieri residenziali, edifici, strade, stabilimenti industriali a causa della franosità del suolo e del pericolo di alluvioni. E, volendo, le amministrazioni pubbliche potrebbero sapere dove simili opere non dovrebbero essere autorizzate in futuro.

Nel 1927 fu creato Il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) che coordina le ricerche scientifiche italiane attraverso diecine di laboratori propri o presso le Università. Il CNR in novanta anni ha raccolto una vastissima biblioteca contenente libri e collezioni di riviste in tutti i campi scientifici, in gran parte direttamente legati all’ambiente. Nel 1934 fu creato l’Istituto Superiore di Sanità che possiede una enorme documentazione sulle fonti di inquinamento e sui loro effetti sulla salute degli Italiani; un’altra importante biblioteca ambientale si trova presso l’ENEA, l’agenzia nata nel 1952 per le ricerche nucleari e ora specializzata nelle nuove tecnologie energetiche e ambientali. Il convegno sulle biblioteche ambientali ha messo in evidenza che una parte, continuamente crescente, delle conoscenze sullo stato, sull’evoluzione e sulle alterazioni dell’ambiente, sparse in questi e altri enti pubblici, è disponibile in Internet e diventa quindi accessibile a coloro che riconoscono e vogliono contrastare le violenze alla natura e al territorio. E’ stata anche costituita una associazione di “amici” delle biblioteche ambientali.

Un altro aspetto importante riguarda il recupero delle biblioteche e degli archivi di privati, persone o anche associazioni o gruppi che sono stati attivi nelle lotte ambientali. Qualcosa è stato salvato, come l’archivio dell’urbanista Antonio Iannello da parte del Comune di Napoli, quello dello scrittore Antonio Cederna a Roma; rischia la dispersione la biblioteca di Fabrizio Giovenale, uno dei fondatori di Legambiente, in locali sotto sfratto alla periferia di Roma; la Biblioteca Motolese si trova a Taranto nel Quartiere Tamburi, a ridosso dei fumi dell’ILVA. Molte altre raccolte private di libri e documenti ambientali sono confinate in luoghi poco accessibili e moltissime sono andate perse. La Fondazione Luigi Micheletti di Brescia da venti anni va, letteralmente, “alla caccia”, di libri e archivi ambientali privati, a pericolo di dispersione, che raccoglie nella sua biblioteca-museo sulla storia contemporanea; un patrimonio che, in parte, aspetta di essere catalogato e inventariato e che rappresenta una fonte di studio e ricerca per comprendere molti eventi della storia dell’ambiente attraverso le testimonianze dei protagonisti. A causa della miopia delle istituzioni pubbliche alla Fondazione mancano soldi per le persone e per lo spazio di archiviazione, un peccato perché soltanto la conoscenza degli errori passati permetterebbe di prevedere, prevenire ed evitare errori e costi ambientali futuri. Come ha scritto Shakespeare, “il passato è prologo”.

L'articolo è inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno

(continua la lettura)

Alcune settimane fa è morto a Gerusalemme, all’età di 98 anni, Harry Tabor, al cui instancabile lavoro, negli ultimi settanta anni, si devono i principali progressi nell’utilizzazione dell’energia solare. Tabor era nato a Londra nel 1917 e, dopo la laurea in ingegneria, nel 1947 fu impegnato nel lavoro di trasformazione delle navi mercantili, residuati bellici, in navi passeggeri per l’immigrazione clandestina degli Ebrei in Palestina (un episodio del genere è raccontato nel film Exodus del 1960, con Paul Newman). Conoscendo le sue capacità, Ben-Gurion, il primo ministro del nuovo stato di Israele, nato nel 1948, lo chiamò in Israele per creare e dirigere l’Istituto Nazionale di Fisica che, sul modello di quello britannico, affiancò il governo per le informazioni di carattere tecnico-scientifico. Scarsità di acqua e di energia erano i fattori limitanti dello sviluppo del nuovo stato e il Sole poteva contribuire a soddisfare queste due necessità.

La prima impresa di Tabor fu la progettazione di scaldacqua solari: una lamiera sulla quale sono saldate delle serpentine è coperta da una lastra di vetro e poggia su uno strato di materiale isolante che evita la dispersione del calore. L’acqua fredda entra dal basso e si scalda passando nelle serpentine del pannello esposto al Sole; l’acqua calda sale spontaneamente, senza bisogno di motori, in un serbatoio isolato da cui viene prelevata ed entra nella casa. Gli scaldacqua solari erano stati inventati molti decenni prima, ma Tabor ne aumentò l’efficienza usando lastre metalliche da lui studiate, rese “selettive” con uno speciale trattamento di cromatura che ne faceva aumentare la capacità di assorbire la radiazione solare rendendo minime le perdite di calore. Il successo commerciale degli scaldacqua solari, oggi diffusissimi in Israele, è stato possibile perché possono essere venduti soltanto se rispettavano certi standard di qualità, proposti proprio da Tabor, che ne assicurano la durata e l’efficacia. Lo scarso successo degli scaldacqua solari in Italia è stato in gran parte dovuto proprio alla mancanza di una standardizzazione e di controlli di qualità.

Il secondo passo del lavoro di Tabor fu dedicato alla progettazione di un motore, funzionante con un ciclo termico inventato dall’ingegnere scozzese William Rankine (1820-1870), basato sull’evaporazione e la condensazione di un fluido organico come la benzina, scaldato a temperatura abbastanza bassa, come quella ottenibile nei pannelli solari. Il primo motore solare, costruito in collaborazione con Lucien Bronicki, fu presentato alla Conferenza delle Nazioni Unite sulle nuove fonti di fonti di energia che si tenne a Roma nel 1961. La radiazione solare era raccolta da un ingegnoso pannello contenuto in un tubo trasparente di plastica gonfiabile. Bronicki creò in Israele una società Ormat per la costruzione di motori Rankine che sono venduti in tutto il mondo per lo sfruttamento di fonti di calore a bassa temperatura come quelle geotermiche o quelle che si creano negli “stagni solari”.
Gli stagni solari, inventati anch’essi da Tabor, consistono in vasche profonde pochi metri, contenenti acqua dolce, sul cui fondo viene creato un sottile strato di acqua ad alta concentrazione salina. La radiazione solare attraversa l’acqua superficiale e scalda l’acqua salina sul fondo; questa non si miscela con quella sovrastante e si comporta come un vero e proprio semplicissimo collettore di calore raggiungendo temperature di alcune diecine di gradi, sufficienti per azionare un motore e produrre elettricità. Gli “stagni solari” attrassero grande curiosità e attenzione; uno di questi fu costruito nella saline di Margherita di Savoia negli anni ottanta del Novecento, ma fu poi abbandonato dopo un paio di anni; gli stagni solari in Israele funzionano ancora oggi.

Il lavoro di Tabor nel campo solare fu sempre rivolto alla ricerca di soluzioni semplici per i bisogni di paesi emergenti, al servizio delle necessità umane. In questa direzione si possono ricordare i progetti di fornelli per la cottura di alimenti con il calore solare concentrato da piccoli semplici specchi fatti con pezzi di lamiera e i distillatori per trasformare, col calore solare, l’acqua di mare in acqua potabile. Semplici soluzioni furono progettate per il funzionamento di frigoriferi solari “da villaggio” e per la progettazione di case raffreddate e ventilate senza bisogno di macchine. Tabor propose perfezionamenti delle celle fotovoltaiche e studiò la teoria dei concentratori a specchi stazionari, che non hanno bisogno di essere continuamente orientati verso il Sole.

Ciascuna iniziativa stimolava imprese commerciali e creava occupazione. A un intervistatore che gli chiedeva quali cose “non avesse fatto”, Tabor rispose: “i soldi”. Viveva infatti in una modesta casa di Gerusalemme con la moglie Vivienne che aveva sposato nel 1947. Una risposta su cui riflettere in questo momento in cui sembra che il fine delle energie rinnovabili in Italia sia soltanto quello di “fare soldi” per i costruttori, i venditori e anche per gli acquirenti.

Nel suo impegno civile Tabor fu determinante per la istituzione del centro di ricerche solari presso l’Università Ben-Gurion di Bersheba nel deserto del Negev. Le principali pubblicazioni di Harry Tabor sono state raccolte in un libro pubblicato, in occasione del suo ottantesimo compleanno, dalla International Solar Energy Society di Friburgo, in Germania; ne raccomando la lettura soprattutto a chi cerca stimoli per le molte altre cose che il Sole può fare per il progresso umano.

L'articolo è inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno

(continua la lettura)

Il 23 marzo di ogni anno si celebra la giornata mondiale dell’acqua per ricordare l’importanza di questa sostanza, che è risorsa naturale, alimento, mezzo di produzione, e da cui tutto dipende. Non a caso è la ventunesima parola che figura nel primo libro della Bibbia, quello della creazione di tutte le cose. L’acqua occorre per togliere la sete a uomini e animali, per fare crescere le piante; per gli esseri umani, poi, l’acqua, visibile ed invisibile, è presente dovunque, è indispensabile per fini igienici, è necessaria per il funzionamento delle fabbriche e delle centrali elettriche e delle raffinerie di petrolio, eccetera.

La giornata dell’acqua è anche un’occasione per conoscere meglio il ciclo di una sostanza che non sta mai ferma: evapora dai mari, ricade al suolo sotto forma di neve e di pioggia, passa attraverso i campi, le città, le valli. Sulla superficie dell’Italia cadono ogni anno circa 250 miliardi di metri cubi di acqua; circa il 60 percento di questa evapora dalla superficie e dalla vegetazione e circa 120 miliardi di metri cubi di acqua ogni anno scorrono, instancabili, nei fossi, torrenti, fiumi e tornano al mare dopo aver raccolto sali e rocce del terreno e rifiuti, incontrati nel loro cammino. Ogni anno in Italia circa 20 miliardi di metri cubi di acqua sono prelevati dalle sorgenti, dal sottosuolo o dai fiumi per irrigare i campi, circa 5 per usi industriali e circa 10 per il rifornimento delle famiglie, ma di questi ultimi soltanto poco più di 5 miliardi di metri cubi all’anno arrivano nelle nostre abitazioni, venduti da circa 3000 aziende; una perdita altissima di acqua e troppi gestori che non riescono ad assicurare una distribuzione adeguata. Prima di arrivare nel nostro rubinetto l'acqua viene analizzata e subisce vari trattamenti, imposti da severe norme europee che prescrivono, a fini igienici, quali sostanze possono essere presenti nell'acqua potabile e quali sono rigorosamente vietate.

Quale uso fa ciascuno di noi di questi cinquemila milioni di metri cubi di preziosa acqua potabile ? La beviamo, prima di tutto, in ragione di circa un metro cubo all’anno per persona, circa 60 milioni di metri cubi all’anno. Una accorta propaganda ha diffuso l'idea che l'acqua del rubinetto “non è buona" e che è meglio bere l’acqua in bottiglia, per la maggior gloria di quelli che la vendono, assicurandosi alti profitti. “Grazie” a questo incantamento gli italiani consumano ogni anno 12 milioni di metri cubi di acqua in bottiglia che costano alle famiglie circa tre miliardi di euro all’anno; così va questo mondo. L'acqua del rubinetto viene impiegata per cuocere la minestra o gli alimenti (ma conosco dei furbi che cuociono anche la pasta con acqua in bottiglia), e poi viene usata per lavare il corpo, magari solo per una sciacquatina delle mani, per pulire gli utensili di cucina, gli indumenti, per scaricare i rifiuti giù dal gabinetto, per annaffiare strade e terrazze o lavare le automobili. Acqua preziosa, ad elevato grado di purezza, che viene così buttata via, sprecata.

Adesso immaginiamo di fare un viaggio accompagnando i 5000 milioni di metri cubi di acqua usata dalle famiglie, giù dal lavandino o dagli scarichi dei gabinetti. Viaggio sgradevole ma utile perché ci porta a verificare lo stato della fognature - se ci sono - e a conoscere i depuratori. In Italia ce ne sono circa 10.000, ma soltanto la metà di questi depuratori pratica un trattamento appena soddisfacente e soltanto 2000 trattano le acque usate con un processo ”avanzato” che assicura una buona eliminazione delle principali impurità; anche questo mostra l’irrazionalità e la frammentazione di questo delicato sistema, essenziale per la difesa dell’ambiente e della salute. Alla fine del viaggio fra fogne e depuratori troviamo un fango maleodorante e dell'acqua usata che, in genere, viene gettata in qualche fiume o nel mare; eppure molte acque usate, se depurate in maniera efficace, potrebbero essere utilizzate in agricoltura.

La legge dice che tutte le acque, superficiali e sotterranee, sono pubbliche e costituiscono una risorsa da salvaguardare e utilizzare secondo criteri di solidarietà, anche tenendo conto delle aspettative e dei diritti delle generazioni future. Dopo parole così belle e nobili, la legge consente che delle acque “pubbliche” possano appropriarsi imprese nelle quali sono presenti ingenti capitali privati, che le vendono ai cittadini, secondo criteri di profitto finanziario, per cui l'acqua costa di meno dove è più abbondante e facile da ottenere e costa di più dove è scarsa: bella solidarietà! La legge dice che occorre risparmiare acqua, ma ben poco viene fatto per spiegare ai cittadini che l'acqua è scarsa in assoluto e lo diventerà anche dove oggi apparentemente è abbondante, a causa dei cambiamenti climatici che stanno alterando vistosamente la circolazione dell’acqua sia a livello planetario, sia a livello di singoli paesi.

Eppure i consumi di acqua potrebbero diminuire con una adeguata riprogettazione delle lavatrici, dei rubinetti, dei macchinari industriali, dei gabinetti, in modo da ottenere lo stesso effetto e servizio con meno acqua. Le scuole - è da lì che comincia l’informazione delle persone che saranno destinate a vivere in città assetate - sono la prima frontiera per far conoscere il problema, ma anche il fascino della circolazione e dell’uso dell’acqua, la più indispensabile fonte di benessere della vita individuale e urbana.

L'articolo è inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno

(continua la lettura)

Una primavera, quella di trent’anni fa, segnata da un gran numero di guai che, se non altro, servirono, se così si può dire, a migliorare le leggi e i controlli sulla salute e sull’ambiente. L’anno era cominciato con la pubblicazione dell’elenco delle industrie “a rischio” di incidenti; una direttiva della Comunità Europea aveva stabilito che tutti i paesi membri avrebbero dovuto fare un inventario delle industrie in cui avrebbero potuto verificarsi incidenti rilevanti, come quelli di Meda/Seveso in Lombardia, di Manfredonia in Puglia, di Bhopal in India.
Erano definite “a rischio” le fabbriche che al loro interno contenevano sostanze tossiche o esplosive in quantità superiori a certi limiti; un primo elenco delle industrie a rischio italiane fu redatto all’inizio di quel 1986 e, benché il governo lo avesse tenuto segreto, divenne presto pubblico e mostrò che l’Italia era piena di fabbriche pericolose di cui le popolazioni non sapevano niente. Cominciò allora una battaglia perché le autorità sanitarie e ambientali (era stato da poco istituito il primo ministero dell’ambiente) provvedessero a imporre procedure e controlli per una maggiore sicurezza e informazione dei lavoratori e degli abitanti del territorio circostante.
Nel marzo dello stesso anno fu scoperta una frode del vino che costò la vita a molte persone. Nel vino, come tutti sanno, è presente, in concentrazione fra 8 e 15 percento, alcol etilico che si forma dagli zuccheri dell’uva durante la fermentazione, quel delicato processo che assicura la qualità del vino il cui prezzo dipende, fra l’altro, proprio dalla quantità di alcol presente. Una delle frodi consisteva nel sottoporre a fermentazione uve scadenti aumentando artificialmente la gradazione alcolica o per aggiunta di zucchero al mosto o per aggiunta di alcol etilico.

Nel passato era stata anche praticata la frode di aggiungere al vino alcol metilico sintetico, una sostanza simile all’alcol etilico, ma tossica, e il cui prezzo era inferiore a quello dell’alcol etilico; per evitare questa frode, sull’alcol metilico era applicata una imposta che ne faceva aumentare il prezzo. Per qualche motivo tale imposta era stata annullata nel 1984 e un produttore di vino pensò di approfittarne facendo aumentare fraudolentemente la gradazione alcolico del suo vino con l’aggiunta del velenoso alcol metilico. Alcuni consumatori morirono, altri divennero ciechi. La frode ebbe grande effetto sull’opinione pubblica che si rese conto delle sofisticazioni a cui era esposta e pretese nuove più severe leggi e più diffusi controlli merceologici.
Proprio negli stessi giorni fu scoperto un diffuso inquinamento delle acque sotterranee che finiva per interessare anche l’acqua potabile distribuita dagli acquedotti. In varie città dell’Italia settentrionale i laboratori di analisi rilevarono che l’acqua che arrivava nelle case era contaminata da rifiuti industriali tossici provenienti da fusti presenti nel sottosuolo; i fusti col tempo si erano corrosi e il contenuto si era disperso nel terreno fino a raggiungere le falde idriche sotterranee. L’opinione pubblica cominciò a chiedersi quante altre discariche abusive esistessero in Italia, quali pericoli ci fossero bevendo l’acqua che usciva dal rubinetto e ci si accorse che effettivamente era pratica abbastanza diffusa disfarsi dei rifiuti tossici e pericolosi seppellendoli nel terreno; era appena l’inizio della scoperta delle discariche abusive di rifiuti tossici di cui ancora adesso stiamo verificando la diffusione e la pericolosità.
Era anche un periodo in cui il diserbo del mais era praticato su larga scala con vari erbicidi fra cui l’atrazina e quello del riso con bentazone, molto efficaci ma tossici; queste sostanze, dopo essere state sparse nei campi, finivano nel sottosuolo e raggiungevano e inquinavano i pozzi da cui veniva prelevata l’acqua potabile.

In quel marzo 1986 una direttiva della Comunità Europea sulla qualità dell’acqua potabile aveva stabilito che la concentrazione degli erbicidi nell’acqua non avrebbe dovuto superare 0,1 microgrammi per litro; se la concentrazione fosse stata superiore, l’acqua non avrebbe potuto essere distribuita dagli acquedotti. Finalmente i laboratori addetti ai controlli ambientali in tutta Italia cominciarono ad analizzare nelle acque anche sostanze che fino allora erano state trascurate.
Ma il peggio stava per arrivare: mentre era vivace la contestazione dei programmi governativi di costruzione di centrali nucleari nel Mantovano, in Puglia, in Piemonte, nel Lazio, il 26 aprile 1986 in un reattore nucleare di uno sconosciuto paese dell’Ucraina (allora parte dell’Unione Sovietica), chiamato Chernobyl, si verificò un incidente che provocò un incendio e poi un’esplosione. Il reattore si scoperchiò e ne uscì una nube che disperse nell’atmosfera una grande quantità di elementi radioattivi, con una radioattività equivalente a quella di mezzo milione di chilogrammi di radio, che ricaddero nelle zone vicine e in parte, trascinati dal vento, raggiunsero la Germania e l’Italia settentrionale. Le autorità persero la testa: occorreva o no vietare l’uso di verdure, latticini e carne ottenuti in zone su cui erano ricadute le sostanze radioattive ? Ancora più disorientata l’opinione pubblica: come faceva una massaia a sapere che cosa poteva o non doveva comprare per non essere contaminata dai misteriosi atomi provenienti da migliaia di chilometri di distanza ?

Vale la pena ricordare gli eventi di quei lontani anni perché fecero aumentare la consapevolezza nei confronti dell’ambiente e della salute, due beni che possono essere difesi soltanto migliorando le strutture pubbliche di controllo ma soprattutto la conoscenza, da parte dei cittadini, di quello che succede intorno a loro.

Questo articolo è inviato contemporaneamente alla Gazzetta del Mezzogiorno

Qualche giorno fa si è ricordato su questo sito quanto sia importante, per governi e imprese, guardare al futuro e chiedersi quali conseguenze potrebbero avere le decisioni che prendiamo oggi. Tale importanza appare ancora più grande alla luce di uno degli eventi più disastrosi della storia, l’incidente alla centrale nucleare giapponese di Fukushima, avvenuto cinque anni fa. E’ stato scritto e sarà scritto molto, articoli, ricerche sperimentali, volumi, sopra le cause e lo svolgimento dell’evento; un terremoto di anomala intensità, in fondo al mare al largo della costa nord orientale del Giappone, ha provocato un’onda marina di molti metri di altezza che ha invaso la costa arrivando fino ai quattro reattori nucleari che azionavano una grande centrale elettrica; una interruzione dell’erogazione dell’elettricità ha impedito il flusso dell’acqua di raffreddamento delle barre contenenti l’uranio e il plutonio che, esposti ad un flusso di neutroni, stavano trasformandosi lentamente liberando grandissime quantità di calore. Il calore, a sua volta, generava il vapore che azionava le turbine e gli alternatori della centrale elettrica.

Nel momento in cui è cessato il raffreddamento delle barre di tre dei reattori (il quarto era inattivo), la temperatura di queste barre metalliche è aumentata in maniera incontrollata, la reazione fra metalli incandescenti e acqua ha provocato la formazione di idrogeno, un gas combustibile che si è incendiato in forma esplosiva; altre parti metalliche sono fuse e parte degli elementi radioattivi si sono sparse all’interno dei reattori continuando a liberare calore. Dei coraggiosi lavoratori, alcuni pagando con la vita il proprio impegno, sono riusciti a isolare la materia incandescente e a diminuire almeno la diffusione nell’ambiente delle sostanze radioattive; comunque è risultata contaminata e inabitabile una vasta superficie intorno ai ruderi della centrale nucleare, fino a poco prima orgoglio della tecnologia. In questi anni grandi quantità di acqua, prelevata dal mare, sono state restituita al mare inquinate con elementi radioattivi e si sono disperse nell’Oceano Pacifico; grandi quantità di acqua radioattiva sono ancora contenute in serbatoi; grandi quantità di rottami altamente radioattivi sono ancora all’interno dei reattori e continuano ad emanare radioattività e calore e continueranno ad emanare radioattività e calore per secoli e, in qualche caso, per millenni, in attesa di una qualche “sepoltura”.

L’incidente di Fukushima segnò l’inizio della fine delle centrali nucleari commerciali; furono cancellati in fretta e furia i progetti di costruzione di quattro centrali nucleari che il governo italiano aveva previsto qualche mese prima; furono fermate molte centrali nucleari in funzione nel mondo. I volonterosi sostenitori dell’energia nucleare continuano aa affermare che è un errore abbandonare questa fonte di energia che fornisce elettricità senza immettere gas serra nell’atmosfera; che appropriate innovazioni tecniche potranno ridurre i rischi di futuri incidenti simili a quelli che si sono già verificati a Three Mile Island negli Stati Uniti nel 1979, a Chernobyl in Ucraina nel 1996 e a Fukushima in Giappone nel 2011. A parte considerazioni ambientali, per restare soltanto alla questione dei soldi, pochi conti mostrano però che i perfezionamenti nelle centrali nucleari faranno aumentare il costo dell’elettricità a livelli insopportabili, e superiori a quelli dell’elettricità fornita perfino dalle centrali fotovoltaiche solari.

L’evento di Fukushima induce però a interrogarci sul problema più generale della fragilità della tecnologia e dei suoi affetti sulla vita umana. Gli esseri umani hanno bisogno di “cose” materiali, che sia cibo, o lavatrici, o scarpe o edifici; ciascuna di queste ”cose” (vogliamo chiamarle “merci” ?) deve essere progettata e fabbricata prima di arrivare a chi la dovrà usare. Il progetto deve prevedere, con uno sguardo al futuro, quanta materia occorre nella fabbricazione, e quali effetti la fabbricazione ha sui lavoratori e sull’ambiente, quali effetti l’uso avrà sugli acquirenti, e quali effetti lo smaltimento dopo l’uso avrà sull’ambiente. Attenzione al “futuro”, qualità delle ”cose”, benessere umano e ambiente sono i fattori che stanno alla base del “progetto”. C’entrano poi anche i soldi; quali processi costano meno soldi, quali possono produrre “cose” vendibili a più basso prezzo e quali assicurano maggiori profitti ai fabbricanti. Il lettore avrà notato che non ho usato la comune parola “consumatore” perché l’acquirente delle merci non le consuma, ma trasforma le molecole delle varie componenti in altre molecole e sostanze che finiscono, prima o, poi, nell’”ambiente” naturale, nell’aria, nelle acque, sul suolo.

Il fallimento dell’energia nucleare sta proprio nel fatto che le centrali nucleari sono state progettate senza tenere adeguatamente conto di ciò che avrebbe potuto avvenire non solo nei reattori, ma nei reattori collocati in quel particolare luogo; senza tenere conto che le sostanze radioattive che si formano sono una fonte di inquinamento durante il funzionamento e soprattutto dopo la fine della vita delle centrali. L’Italia sta per essere investita dal dibattito su dove sistemare le scorie radioattive, rimaste dopo i pur pochi anni di durata dell’avventura nucleare italiana ma sufficienti per costringere governi e cittadini a chiedersi come progettare dei cimiteri capaci di contenerle senza danni “per il futuro”, un futuro di secoli e millenni. Il grande pensatore Albert Schweitzer (1875-1965), premio Nobel, per la Pace 1952, scrisse una volta che la sopravvivenza umana dipende dalla capacità di “prevedere e prevenire”: queste parole dovrebbero essere tenute presenti ogni volta che governi e imprese fanno baldanzosamente scelte tecnologiche che avranno effetti sulla vita e sull’ambiente. E tutte ne avranno.

Si veda anche, di Giorgio Nebbia, L'uomo ha perso la capacità di prevedere

(continua la lettura)

L’Università delle Nazioni Unite di Tokyo e altre associazioni scientifiche hanno deciso di proclamare il primo marzo, “Giornata mondiale del futuro”. Tutte le persone e le società umane si sono sempre interrogate sul “futuro”: che cosa succederà “domani”, “fra un anno”; gli agricoltori si chiedono se pioverà, i negozianti si chiedono se venderanno le loro merci; ogni persona si chiede se sarà ricca, o felice e quanto a lungo vivrà. La saggezza popolare suggerisce che “il futuro è nelle mani di Dio”, però qualche tentativo di previsioni va fatto non tanto su quello che succederà quanto piuttosto su quello che potrebbe avvenire in futuro, sui futuri possibili e sulle relative conseguenze positive o negative. A partire dall’Ottocento ogni notizia di qualche nuova invenzione o scoperta scientifica ha stimolato gli scrittori a immaginare quali effetti avrebbero potuto avere “in futuro”, previsioni più meno fondate o affidate alla fantasia ad alimentare la fortunata corrente delle opere di “fantascienza”.

Una delle più importanti correnti di studi sul futuro ha riguardato la crescita della popolazione di un paese, un problema che interessa le compagnie di assicurazione e che ha dato vita alla “matematica attuariale”, disciplina che ha avuto famosi docenti anche nell’Università di Bari. Si è poi visto che le stesse “leggi” che descrivono l’andamento delle popolazioni umane sono in grado di descrivere la nascita, crescita, declino e scomparsa delle popolazioni di tutti gli animali e ne è nata, negli anni trenta del Novecento, una fiorente corrente di “ecologia matematica”, che avrebbe fornito gli strumenti di previsione per i successivi “studi sul futuro”.

A poco a poco alcuni governi hanno cominciato a organizzare degli uffici per decidere le proprie politiche economiche sulla base di previsioni: di quante case o patate o trattori o automobili avrà bisogno il paese ? Il primo esempio fu offerto dal governo bolscevico che, appena insediato in Russia, organizzò l’ufficio dei piani quinquennali, il Gosplan, il grande centro di studi sul futuro che ispirò simili iniziative negli Stati Uniti e anche ricerche in Italia: Giorgio Mortara, dell’Università Bocconi di Milano, pubblicò, dal 1921 al 1937, quindici volumi, uno all’anno, di “Prospettive economiche”. Solo con qualche forma di previsione è possibile rendersi conto in tempo dei mutamenti in atto, in modo da correggere le previsioni successive.

Ma una vera attenzione “scientifica” per immaginare il futuro, anzi i futuri possibili, è cominciata dagli anni cinquanta del secolo scorso con la scoperta dell’energia atomica, la tensione fra paesi capitalisti e comunisti, la diffusione delle bombe nucleari, la rapidissima espansione della produzione industriale e dei consumi. In questo periodo il francese Bertrand de Jouvenel (1903-1987), uomo politico ed economista, ha creato un centro di ricerche sul futuro chiamato, appunto, “Futuribles”, futuri possibili, che ha stimolato studiosi di molti paese al punto che gli “studi sul futuro” hanno trovato accoglienza anche in alcune università.

Negli anni settanta il famoso libro I limiti alla crescita del Club di Roma, è stato il più discusso esercizio di analisi del futuro; il libro conteneva delle previsioni, basate su analisi statistiche e matematiche, di quello che avrebbe potuto succedere se fosse continuata la “crescita” della popolazione mondiale, della produzione industriale e dei conseguenti inquinamenti e impoverimento delle risorse naturali, al ritmo che aveva caratterizzato i decenni precedenti. Il libro prevedeva un peggioramento delle condizioni di vita di un pianeta sovraffollato e suggeriva di ripensare l’ideologia “della crescita”. Quasi contemporaneamente fu costituita la Federazione Mondiale per gli Studi sul Futuro, presieduta per molti anni dalla più importante scienziata italiana in questo campo, Eleonora Masini, che organizzò la prima conferenza mondiale sul Futuro a Frascati nel 1973 (i preziosi atti sono ormai purtroppo introvabili), e ha insegnato per molti anni “Previsioni sociali” all’Università Gregoriana di Roma.

La distensione internazionale, il miglioramento delle condizioni di vita e degli affari, hanno poi fatto accantonare per anni l’interesse per gli studi sul futuro che sta risorgendo un po’ adesso anche perché i cambiamenti climatici hanno spinto a chiedersi che cosa “può succedere” se continuerà il lento progressivo aumento della temperatura terrestre. Qualcosa sembra muoversi anche in Italia dove è stato creato da qualche anno a Napoli un “Istituto Italiano per il Futuro”.

A ben pensare ogni governo, ogni impresa dovrebbero cercare di capire le tendenze future dei fenomeni da cui dipendono le loro decisioni; un lavoro difficile perché “esplodono” continuamente nuovi fenomeni imprevisti. Mezzo secolo fa si prevedeva una rapida crescita della popolazione mondiale; oggi stiamo assistendo, in molti paesi, ad una diminuzione delle nascite, ad un aumento degli anziani, alla necessità di “importare” lavoratori stranieri. Quaranta anni fa il governo italiano aveva previsto di costruire sessanta centrali nucleari e adesso non ce ne è neanche una. Le compagnie petrolifere continuano a estrarre petrolio i cui consumi sono rallentati. Venti anni fa la transizione dal comunismo ad un capitalismo di stato ha trasformato la Cina in un gigante che invade col suo acciaio e i suoi pannelli solari tutto il mondo e costringe alla chiusura le fabbriche europee. Perché non sono stati capiti in tempo i segni di tali mutamenti ?

A mio modesto parere gli “studi sul futuro” dovrebbero diventare disciplina di insegnamento e oggetto di ricerca in tutte le università; ne trarrebbero vantaggio governi e imprese, nell’insieme tutta la società e anche l’ambiente naturale.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiono

(continua a leggere)

Qualche giorno fa un gruppo di miserabili baracche (ghetto, lo chiamavano) abusive occupate da molti anni da lavoratori stagionali a Rignano Garganico (vicino a Foggia), è stato distrutto dal fuoco con tutte le poche miserabili cose degli occupanti. Per loro sembra che la Regine Puglia avesse in programma una qualche diversa sistemazione che comunque è arrivata tardi. Quello di Rignano è solo uno delle centinaia di rifugi precari per lavoratori che si spostano da un luogo all’altro per la raccolta di prodotti agricoli, con miserabili paghe, esposti al ricatto dei “caporali”. Non ci sono dati statistici sul numero di lavoratori extracomunitari, ma anche comunitari, che vengono o vivono nel nostro paese, alcuni regolari, altri clandestini, e sulle loro abitazioni, talvolta rifugi precari, talvolta case sovraffollate, affittate a prezzi esosi. Gli italiani hanno bisogno di questi lavoratori ma li detestano se addirittura non li odiano, e manca una politica che renda meno disumana la situazione di questo nostro “prossimo”.

Si tratta di persone che abbandonano i loro paesi e le loro famiglie a causa dell’impoverimento delle loro terre, talvolta per colpa dei mutamenti climatici, che fuggono dalla miseria, talvolta dai conflitti o dalle persecuzioni etniche, o dalla mancanza di lavoro per la chiusura di fabbriche o miniere. Poveri che premono ai confini dei paesi nei quali sperano di avere occupazione e che li respingono e costringono a vivere in ghetti, appunto come quello di Rignano. Storie di miseri che hanno segnato tutto il Novecento e questo secolo e che sono sommerse, non hanno voce.

Una qualche mobilitazione di intellettuali in loro difesa si ebbe ottanta anni fa negli Stati Uniti, durante la grande crisi iniziata nel 1929. Negli anni venti del Novecento si era verificata una grande tragedia ecologica; le terre, una volta fertili, degli stati centrali, Oklahoma, Arkansas, Texas, del grande paese, erano state sottoposte a eccessivo sfruttamento; tempeste di vento asportavano la poca terra fertile ancora rimasta, i piccoli agricoltori non potevano più pagare i debiti e le banche si appropriavano della loro terre per destinarle a colture intensive. Milioni di famiglie furono gettate nella miseria e costrette ad emigrare ad ovest verso la fertile California, dove speravano di trovare lavoro. Qui i grandi proprietari terrieri si servivano di “caporali”, proprio come da noi oggi, per reclutare operai disposti a lavorare alle paghe più basse, senza sicurezza, in ricoveri di fortuna.

Nel 1933 gli americani elessero alla presidenza degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt (1882-1945), un anziano signore colpito in giovane età dalla poliomielite, ridotto a muoversi in carrozzella, ma determinato a far uscire il suo paese dalla crisi con un nuovo patto sociale, il “New Deal”. Per affrontare il problema dei migranti Roosevelt, poche settimane dopo l’insediamento, nominò Rexford Tugwell (1891-1979), professore di economia alla Columbia University, una eccezionale figura di difensore dei diritti civili, a capo della “Rural Resettlement Administration”, l’agenzia federale col compito di creare dei villaggi di accoglienza dei lavoratori immigrati in California e di aiutarli a ottenere lavoro sfuggendo al ricatto dei proprietari terrieri e dei loro sgherri.
Una testimonianza di questa impresa è stata data da John Steinbeck (1902-1968), giornalista del San Francisco News, che aveva lavorato come contadino insieme ai migranti e ne conosceva quindi dolori e difficoltà. Il suo giornale pubblicò nel 1936 una serie di articoli di denuncia col titolo: Gli zingari dei campi (Harvest Gypsies), che furono poi trasformati nel romanzo Furore (1939) da cui fu tratto l’omonimo film del 1940 con la regia di John Ford e l’interpretazione di Henry Fonda.

E’ la storia della famiglia Joad costretta ad abbandonare la piccola fattoria dell’Oklahoma e ad affrontare, su uno scalcinato furgoncino, carico delle poche masserizie, la lunga strada verso ovest; dopo varie peripezie e dopo aver attraversato l’ostile deserto dell’Arizona, all’arrivo in California gli Joad si scontrano con la dura realtà: i “caporali”, le basse paghe, l’ostilità degli abitanti e della polizia, passando da un ghetto all’altro alla ricerca di un ricovero. Finalmente la famiglia raggiunge uno dei campi della Resettlement Administration dove sembra trovino un momento di quiete, acqua corrente, gabinetti e delle docce con acqua calda. I proprietari terrieri mandano dei provocatori per creare disordini nella speranza di far intervenire la polizia per cercare di smantellare quel campo che faceva sfuggire gli immigrati allo sfruttamento. La Rural Resettlement Admninistration fu da molti considerata una iniziativa “comunista” che Roosevelt però difese con coraggio

Le disavventure della famiglia Joad sono fin toppo simili a quelle che abbiamo sotto gli occhi, facendo finta di non vedere. Poveretti che cercano rifugio in Europa, lavoratori clandestini che affollano le nostre campagne, specialmente nel Mezzogiorno, esposti a ricatti e costretti in rifugi che sono adatti più a bestie che ad esseri umani, in una società incapace di indignarsi benché sia grazie a loro che possiamo avere cibo abbondante sulle nostre tavole. La lotta al caporalato e alla precarietà del lavoro dovrebbe essere la bandiera di qualsiasi governo civile e non è questione di soldi ma di visione sociale della politica. Partirà in Italia, in Puglia, un “New Deal” come quello rooseveltiano con iniziative saldamente ispirate alla soluzione di concreti problemi, insieme, di occupazione e umani e ambientali?

L'articolo è stato inviato contemporaneamente a la Gazzetta del Mezzoggiorno
Riferimenti
Sull'argomento l'autore ha già scritto su eddyburg Dalla Puglia nasce (di nuovo) il New Deal italiano?. Vedi anche l'articolo di eddyburg che integra i ricordi evocati da Giorgio Nebbia con quello di un grande pugliese, Giuseppe Di Vittorio.

(continua a leggere)

Le lunghe settimane di caldo di questo inverno hanno riportato all’attenzione dei cittadini e dei governanti, nazionali e locali, il problema dell’inquinamento dell’aria delle città. In questi ultimi anni molte città si sono dotate di centraline in grado di misurare la concentrazione di alcune delle sostanze presenti nell’atmosfera e possono controllare se tali concentrazioni superano i limiti al di là dei quali gli inquinanti possono essere dannosi alla salute degli abitanti. Si è così visto che in un numero crescente di città, grandi e piccole, la concentrazione delle PM10, le “particelle” con diametro inferiore a 10 millesimi di millimetro, supera per molte settimane il limite massimo giornaliero di 50 microgrammi per metro cubo di aria. Le principali fonti di PM10 sono state riconosciute nella combustione dei carburanti nei mezzi di trasporto e negli impianti di riscaldamento degli edifici: come rimedio è stato necessario imporre un qualche limite (sia pure molto modesto) alla circolazione di auto e camion in alcune ore e in alcuni giorni, e alla temperatura degli edifici.

Sono le leggi dell’ecologia a spiegare che dei limiti esistono nel funzionamento degli ecosistemi e anche la città è un ecosistema, sia pure artificiale, un organismo, con un suo metabolismo, che “vive” in uno spazio limitato. Nella città entrano materiali ed energia: acqua, alimenti (verdura, carne, cereali, cibo in scatola, eccetera), carta, materie plastiche, carburanti, materiali da costruzione; una parte di tali materiali resta "immobilizzata" entro la città: mobili, libri, i mattoni e il cemento negli edifici: la maggior parte dei materiali e dell'energia in entrata viene però rapidamente "consumata", cioè rielaborata --- per questo parlavo di “metabolismo urbano” --- e perciò trasformata in varie sostanze di rifiuto: quelle gassose come anidride carbonica, ossido di carbonio, polveri, anidride solforosa e altre, finiscono nell'atmosfera; i rifiuti organici e inorganici finiscono nelle fogne e vengono "esportati" fuori dalla città; i rifiuti solidi sono portati agli inceneritori e alle discariche, generalmente esterni alla città. Le scorie delle attività urbane --- a differenza di quelle che si formano negli ecosistemi naturali --- sono per lo più costituite da sostanze estranee ai cicli naturali e peggiorano la qualità dell'aria, delle acque, del suolo in cui vanno a finire.

In quanto ecosistema la città ha una sua popolazione, di esseri umani e di mezzi di trasporto, che cambia nelle varie ore del giorno; la mattina la città comincia a gonfiarsi di vita e di attività umane che aumentano col passare delle ore mentre la sua atmosfera si riempie di gas nocivi e le fogne di liquami, fino alla sera quando la città si sgonfia e raggiunge uno stato di quiete, per poche ore, per ricominciare la mattina dopo. La popolazione e le attività e le funzioni vitali di una città variano nei differenti mesi dell'anno. A causa del suo spazio limitato la città ha una “capacità ricettiva” di presenze umane, di traffico, di attività e di rifiuti; se questi superano certi valori la città non sa più dove mettere automobili, case e rifiuti e si verificano malattie e caos.

Per restare al caso dell’inquinamento dell’aria, se la quantità delle sostanze inquinanti che escono dai tubi di scappamento delle auto e dai camini degli impianti di riscaldamento supera quella che la massa di aria è in grado di disperdere o diluire, in particolari condizioni climatiche, la loro concentrazione diventa così alta da arrecare danno agli abitanti, proprio come sta avvenendo adesso per le PM10 in molte città dove circolano “troppi” autoveicoli rispetto a quelli che la città può sopportare. La quantità e il tipo di agenti inquinanti, a loro volta, dipendono dalla qualità delle materie usate. Ad esempio i diversi tipi di carburanti per autoveicoli --- benzina o diesel --- bruciando immettono nell'atmosfera composti molto diversi; le massime emissioni di agenti inquinanti per ciascun autoveicolo sono fissate dalle norme EURO, anche se la scoperta di recenti frodi ha mostrato che le quantità di inquinanti effettivamente immessi nell’aria da alcuni carburanti e autoveicoli può essere superiore a quanto dichiarato dai fabbricanti.

La vera soluzione delle crisi urbane, di inquinamento e di congestione del traffico, va cercata in un rilancio della cultura urbanistica, nella progettazione delle città tenendo conto dei bisogni di spazio, di mobilità e di salute dei cittadini e non del profitto dei proprietari dei suoli. I centri storici delle nostre città non sono in grado di sopportare il carico di traffico e inquinamento a cui sono sottoposti perché occupano lo stesso spazio di quando sono nati nel Medioevo o nell’Ottocento. Una moderna pianificazione urbana deve prevedere una diversa distribuzione nel territorio di abitazioni, uffici, scuole, centri commerciali, parcheggi e la riprogettazione dei trasporti pubblici. Certi servizi possono essere svolti lontano dai centri urbani, così come certi lavori possono essere svolti in uffici decentrati nelle zone abitative di periferia. Un alleggerimento dell’inquinamento dell’aria dovuto al traffico sarebbe realizzabile incentivando più lavoratori o studenti che fanno lo stesso percorso ad usare lo stesso mezzo di trasporto non solo per risparmiare qualche soldo, ma come contributo alla difesa della salute del prossimo. Insomma l’inquinamento urbano si sconfigge più con la capacità degli amministratori di conoscere, prevedere e prevenire il funzionamento delle loro città che con l’attesa di piogge che puliscano l’aria dalle polveri.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno

(continua a leggere)

150 anni fa il naturalista tedesco Ernst Haeckel (1834-1919) “inventò” il nome “ecologia” (dalle parole greche ecos, casa, comunità, ambiente e logos, descrizione) per indicare lo studio e la conoscenza dei rapporti fra gli esseri viventi e l’ambiente circostante. Ad ispirarlo era stata l’avventura umana e scientifica dell’inglese Charles Darwin (1809-1882); appassionato di biologia fin da ragazzo, dopo gli studi universitari, Darwin ebbe la fortuna di essere assunto, nel 1831, a ventidue anni, come assistente scientifico del capitano della nave Beagle che il ministero della marina britannico aveva incaricato di un viaggio lungo le coste dell’America meridionale e nelle isole del Pacifico, per conoscere risorse naturali vegetali, animali e minerali, e luoghi importanti per i futuri commerci del paese. In tale lungo viaggio, terminato nel 1836, Darwin ebbe modo di osservare i caratteri di specie vegetali e animali, molte fino allora sconosciute, e come i loro caratteri fossero influenzati dall’ambiente, dal clima e dalle risorse fisiche e biologiche disponibili.

Il nome ecologia ebbe fortuna fra i biologi ma restò poco diffuso nel grande pubblico. Nei decenni successivi furono approfonditi gli studi su numerosi ecosistemi, ma l’ecologia ebbe una “età dell’oro” (come l’ha chiamata l’ecologo italiano Franco Scudo (1935-1998)) negli anni venti e trenta del Novecento, dall’incontro fra biologi e matematici. Una multinazionale di scienziati, l’americano Alfred Lotka (1880-1949), l’italiano Vito Volterra (1860-1940), il sovietico Giorgi Gause (1910-1986), il russo-francese Vladimir Kostitzin (1883-1963), descrisse le “leggi” che regolano i rapporti fra diverse specie e popolazioni e il cibo e lo spazio disponibile.

Secondo l’adagio popolare che i pesci grandi mangiano i pesci piccoli, effettivamente nel mare i pesci di alcune specie (predatori) si nutrono di quelli di altre specie (prede); quando le prede sono abbondanti aumentano anche i predatori, ma se i predatori mangiano troppe prede, il numero delle prede diminuisce e diminuiscono anche i predatori che trovano meno cibo, con cicli di oscillazioni delle rispettive popolazioni. In altri casi gli organismi di due specie “collaborano” in “simbiosi” scambiandosi cibo e sostanze utili; oppure convivono facendosi concorrenza (proprio come le imprese in un mercato “economico”) per nutrirsi dello stesso cibo limitato; oppure una specie, quella dei parassiti, si nutre a spese di un’altra che ne soffre.

L’ecologia spiega anche perché una popolazione che vive in uno spazio e con cibo limitati, cresce fino a un certo ”limite” e poi decresce; e descrive i flussi di materia e di energia con cui i vegetali sono capaci di nutrirsi da soli (autotrofi) usando i gas dell’atmosfera e l’energia solare; come gli animali (eterotrofi) vivono soltanto nutrendosi di vegetali o anche di altri animali, e come, infine, le spoglie di vegetali e animali vengono rielaborate da organismi decompositori che liberano sostanze utili ad altra vita, tutti protagonisti dell’affascinante e terribile dramma della vita. In quello stesso periodo, nel 1924, fu creata anche la prima (rimasta unica fino al 1970) cattedra italiana di ecologia nell’Università di Perugia.

Dopo la fine della seconda guerra mondiale l’ecologia aiutò a interpretare nuovi fenomeni: ci si chiese se la popolazione umana avrebbe potuto continuare a crescere rapidamente in un pianeta di dimensioni limitate; i rifiuti dei crescenti consumi umani stavano intossicando la natura; nuovi prodotti, come i pesticidi e le scorie nucleari, mettevano in pericolo la vita sull’intera Terra.

La generazione del “Sessantotto” scoprì nell’ecologia la bandiera di una contestazione della società dei consumi e del relativo inquinamento, della congestione delle megalopoli, dei nuovi veleni. L’apice dell’attenzione per l’ecologia si ebbe nel 1970 e la nuova parola significò aspirazione a “cose buone”, pulite. I venditori non persero tempo ad appiccicare il nome “ecologia”, ai detersivi, alla benzina, ai tessuti. Diecine di cattedre universitarie cambiarono nome e presero il nome di “ecologia”. L’ecologia entrò in Parlamento e ci fu perfino un breve “Ministero dell’ecologia”, ben presto soppresso; solo dopo vari anni sarebbe stato istituito un ministero ma questa volta “dell’ambiente”. Una rivista critica Ecologia sopravvisse solo due anni. Ben presto il potere economico riconobbe che questa gran passione per l’ecologia li costringeva a cambiare i cicli produttivi, a depurare i rifiuti, e a guadagnare di meno e la nuova parola fu bollata come ”sovversiva”. L’attenzione per l’ecologia declinò presto e nuovi aggettivi più accattivanti comparvero come “verde”, “sostenibile” e, più recentemente “biologico”, da associare al nome di prodotti commerciali che un venditore vuole dimostrare “buoni”.

E la povera ecologia che fine ha fatto, in questi anni in cui proprio le conoscenze ecologiche sarebbero in grado di suggerire azioni per contrastare l’erosione del suolo e i danni degli inquinamenti, per il corretto smaltimento dei rifiuti, nell’interesse del principale animale della Terra, l’”uomo” ? Ci voleva Papa Francesco per ricordare l’importanza dell’ecologia, come “ecologia umana”, nella sua enciclica Laudato si’. Io spero che gli ecologi, quelli veri, ritrovino la passione di far conoscere ad alta voce il contenuto e gli avvertimenti della loro disciplina la cui conoscenza, soltanto, offre le ricette per rallentare i guasti ambientali, a cominciare dagli inarrestabili mutamenti climatici. Dalla cultura ecologica trarrebbero stimolo e beneficio i legislatori, i governanti e anche gli economisti dal momento che i soldi si muovono soltanto accompagnando il flusso, ecologico, appunto, di materie prime, di merci e di rifiuti, attraverso l’ambente naturale abitato dall’uomo.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno

(continua la lettura)

Una biblioteca che chiude dovrebbe essere considerato sempre un lutto nazionale. Nel momento in cui viene sbandierato il ruolo dell’Italia e di Roma come portatrici della bellezza e della cultura, gli amministratori del Comune di Roma non esitano a mettere a repentaglio l'esistenza della biblioteca Fabrizio Giovenale che ha tenuto accesa la luce della cultura nella lontana periferia della città, in un popoloso quartiere fra le vie Nomentana e Tiburtina, antiche zone industriali di cui rimangono oggi vuote fabbriche abbandonate.

La biblioteca Fabrizio Giovenale si trova in Via Fermo Corni presso il Centro di Cultura Ecologica. Nato un quarto di secolo fa in una prima sede provvisoria, il Centro ha ospitato incontri e lezioni di una delle ultime Università Verdi animate, fra l’altro, proprio dall’architetto Fabrizio Giovenale, figura centrale della cultura ambientale e urbanistica. Vice presidente di Italia Nostra, fra i fondatori della Lega Ambiente, scrittore e giornalista, Giovenale è stato instancabile educatore e animatore di migliaia di persone in tutta Italia sui problemi dell’ambiente, del territorio, della città.

Nel 2003 il Centro ottenne dal Comune di Roma, tramite convenzione, la gestione di una vecchia stalla che, ristrutturata e attrezzata con scaffali e computer, è divenuta sede della biblioteca, federata con le Biblioteche di Roma. Negli anni la biblioteca ha ospitato importanti mostre e convegni, centinaia di ore di didattica ambientale, eventi letterari, teatrali, cinematografici e musicali, mettendo in contatto i cittadini con personalità della cultura, del volontariato sociale, dell'arte e dello spettacolo. La biblioteca si è via via arricchita di libri e documenti donati anche dagli studiosi che la frequentavano e dagli studenti che depositavano le loro tesi di laurea preparate studiando nelle sale della biblioteca.

La biblioteca del Centro di Cultura Ecologica si è ulteriormente arricchita quando, alla morte di Giovenale, nel 2006, i familiari hanno voluto donarle le carte, i documenti e i libri scritti e letti dal grande urbanista. A questo fondo iniziale si sono aggiunte altre donazioni di materiale archivistico spesso unico. Non una semplice biblioteca, quindi, ma un importante archivio storico del movimento ambientale, dell’evoluzione del pensiero ecologico in Italia, della storia delle periferie. Il Centro ha voluto intestare a Fabrizio Giovenale la biblioteca.

La convenzione tra il Comune di Roma e una associazione del quartiere, grazie alla quale la biblioteca ha potuto esistere come presidio culturale nella periferia nord est di Roma, si conclude alla fine dell'anno. Ora gli amministratori di un Comune senza sindaco comunicano ai cittadini, agli studenti e agli operatori che se vogliono tenere aperta la biblioteca dovranno pagarsela di tasca propria, altrimenti si chiude!

Ritengo ingiusto e scandaloso che la capitale d'Italia non sia in grado di assicurare la vita di una biblioteca che costituisce un servizio essenziale per una delle periferie della città. Ci saranno motivi amministrativi che inducono il Comune alla sua decisione, ma l’effetto è un’ulteriore offesa alla cultura, a chi studia l’ambiente denunciando l’inquinamento, il dissesto idrogeologico, la congestione urbana, l’abusivismo edilizio, l’abbandono dei parchi, l’erosione delle spiagge, che caratterizzano il nostro paese.

(continua a leggere)


La ruota smette di girare

il sole tramonta
con amarezza.

Sono le prime righe di una poesia che lo scrittore inglese Ian Mcmillan ha scritto in occasione della chiusura, nei giorni scorsi, dell’ultima miniera sotterranea di carbone del Regno Unito, quella di Kellingley, nello Yorkshire, Inghilterra nord orientale. Finisce così un’era cominciata nel Medioevo quando si è scoperto che il carbone poteva sostituite il legname come fonte di calore, salvando così i boschi dalla distruzione. Il carbone è stato il motore della rivoluzione industriale in Inghilterra e poi in Germania, Francia e negli altri paesi europei e poi negli Stati Uniti.
In Inghilterra sono state fatte le principali scoperte che hanno spianato la strada al trionfo del carbone. Già nel Seicento si è visto che il carbone fossile, estratto dalle miniere, si prestava alla produzione di ferro e acciaio per trattamento del minerale molto meglio del carbone di legna, e nei primi anni del Settecento fu scoperto che risultati ancora migliori si potevano avere trasformando, per riscaldamento in camere di acciaio chiuse, il carbone fossile in carbone coke, più resistente alla pressione. Era così possibile costruire forni (gli altiforni) di maggiori dimensione e produrre ferro di migliore qualità e con minori costi. La chimica ha permesso poi di scoprire che i gas che si liberavano insieme al coke bruciavano con una fiamma luminosa; nei primi anni dell’Ottocento cominciava la diffusione delle lampade a gas e “la luce”, proprio quella alla cui celebrazione era stato dedicato l’anno che sta finendo, illuminava le strade, le case, le biblioteche, le fabbriche.

Una storia travagliata perché ben presto si è scoperto che la combustione del carbone era fonte di inquinamento, che l’estrazione del carbone dalle miniere sotterranee era accompagnata da crolli ed esplosioni e morti dei lavoratori, condannati ad una vita faticosa all’oscuro, in mezzo alle polveri. Le dure condizioni di lavoro e i miseri salari imposti dai primi spietati campioni del capitalismo spinsero i minatori a dar vita alle prime organizzazioni sindacali, a imparare parole come sciopero e lotte per nuovi diritti e dignità. Poche merci come il carbone hanno stimolato gli scrittori nella denuncia delle miserevoli, dolorose e pericolose condizioni di lavoro. Il libro Il re carbone (1917) del socialista americano Upton Sinclair (1878-1968) e i due romanzi Le stelle stanno a guardare (1935) e La cittadella (1937) del medico inglese Archibald Cronin (1896-1981) stimolarono le autorità per un maggior rigore nel controllo della sicurezza dei lavoratori delle miniere di carbone.

L’uso del carbone provocava la liberazione di polveri che si rivelarono mortali; l’esistenza degli idrocarburi aromatici policiclici cancerogeni fu scoperta cercando le cause del tumore che si manifestava negli operai delle cokerie e negli spazzacamini che venivano a contato con la fuliggine. D’altra parte il lavoro nelle miniere assicurava un salario alle famiglie più povere che lasciavano i campi alla ricerca di meno misere condizioni di vita. In questo mondo di contraddizioni il carbone continuava il suo cammino trionfale, estratto in quantità sempre maggiori al punto che l’economista inglese William Stanley Jevons (1835-1882) nel 1865 scrisse il libro Il problema del carbone, affermando che se fosse continuato lo sfruttamento delle miniere inglesi un giorno le riserve di carbone si sarebbero esaurite.

Le scoperte di altri giacimenti, a profondità sempre maggiori, ha permesso all’Inghilterra di continuare a estrarre carbone fino ad un picco di produzione di 290 milioni di tonnellate all’anno nel 1913. A partire dal 1950 comincia il declino del carbone inglese ed europeo non per l’esaurimento delle riserve ma per la comparsa di un invadente e aggressivo concorrente come fonte di energia, il petrolio. Fra le cause del declino del carbone c’è anche la difficoltà di trasporto; essendo un combustibile solido il carbone deve essere caricato su navi e treni carbone in maniera scomoda e costosa, mentre il petrolio che è un liquido e, ancora di più poi, il gas naturale, appunto un gas, possono essere trasportati mediante condotte o navi in modo molto meno costoso.

Benché l’Unione Europea sia nata nel 1950 come Comunità del carbone e dell’acciaio, il carbone europeo ha subito, nella seconda metà del Novecento, un continuo declino; le ferree leggi del libero mercato hanno portato alla progressiva chiusura delle miniere sotterranee in Belgio, Francia, Germania; in Inghilterra le prime drastiche chiusure si ebbero nel 1984 con il governo conservatore e l’ultima chiusura è delle settimane scorse. Una storia piena di luci e di ombre e non fa meraviglia che gli ultimi minatori abbiano salutato con malinconia la perdita del posto di lavoro che non era solo un salario, ma anche l’orgoglio di aver fatto la storia del mondo contemporaneo.

Il carbone comunque non è scomparso dalla scena delle fonti di energia, con i suoi otto miliardi di tonnellate estratti nel mondo, quasi la metà in Cina, seguita da Stati Uniti, India, Australia, e tanti altri paesi che sul carbone basano il loro impetuoso successo economico; la Germania estrae carbone da miniere a cielo aperto. Le riserve di carbone e lignite nel mondo ammontano a circa mille miliardi di tonnellate; dal carbone dipende ancora gran parte della produzione di acciaio, di elettricità, di prodotti chimici. Con tutti i suoi limiti per motivi ambientali, il re non è morto.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno

. (continua la lettura)

I partecipanti alla conferenza sul clima di Parigi hanno concluso i lavori con un accordo per limitare il riscaldamento globale. Hanno parlato di quanti gradi potrà aumentare la temperatura media del pianeta entro qualche improbabile data del futuro e soprattutto di tanti soldi, chi li deve spendere e chi li prenderà. Fra i tanti argomenti poco spazio ha ricevuto il rapporto fra cibo e clima, un rapporto bivalente. Il cibo ha come unica fonte l’agricoltura che produce i vegetali per fotosintesi utilizzando l’anidride carbonica dell’atmosfera, il principale fra i “gas serra” responsabili delle modificazioni climatiche; l’agricoltura opera, quindi, come depuratore di parte dei gas emessi dai camini e dalle automobili. La biomassa di prodotti agricoli adatti, direttamente o indirettamente, all’alimentazione umana nel mondo è dell’ordine di dieci miliardi di tonnellate all’anno.

Intanto va chiarito che ci sono due modi di accedere al cibo; gli alimenti che ci sono familiari, la pasta, la carne, i formaggi, i grassi, la verdura che acquistiamo nei negozi, sono stati ottenuti da una agricoltura industrializzata che fornisce prodotti agricoli in grande quantità, di elevata qualità e a basso prezzo con impiego di energia ricavata da combustibili fossili e con conseguente liberazione nell’atmosfera di gas serra in quantità molto maggiore di quella eliminata dalla fotosintesi dei vegetali. L’agricoltura industrializzata impiega macchinari che richiedono energia nella fabbricazione e nell’uso; concimi ottenuti per sintesi con consumo di energia e liberazione di gas serra, e che si trasformano nel terreno liberando altri gas serra come ossidi di azoto; occorrono poi navi e treni e camion (e energia) per il trasporto dei raccolti dai campi alle industrie di trasformazione e la produzione degli alimenti finali richiede processi di conservazione, trasformazione, inscatolamento, distribuzione, tutte operazioni che richiedono energia. La carne e i latticini e le uova, con le loro proteine di elevata qualità nutritiva, sono ottenuti da animali che sono stati nutriti con una parte dei prodotti vegetali e, durante la loro vita, tali animali hanno prodotto altri gas serra, alcuni, come metano, nella loro digestione, altri liberati dalla decomposizione degli escrementi.

Non solo; molti prodotti agricoli pregiati possono essere ottenuti soltanto con monocolture e pascoli che richiedono crescenti spazi che vengono recuperati, soprattutto nei paesi più poveri, distruggendo le foreste spontanee che sono uno dei sistemi naturali per eliminare dall’atmosfera una parte dei gas serra. E ancora: le modificazioni della superficie terrestre alterano anche loro lo scambio di energia fra la Terra e il Sole, con conseguente aumento della temperatura dei continenti. Insomma l’agricoltura industrializzata, capace di assicurare a circa un terzo dei terrestri, abitanti nei paesi economicamente più avanzati, cibo di buona qualità e abbondante, contribuisce anch’essa, insieme ai trasporti e alle industrie e alle centrali, al riscaldamento del pianeta e ai mutamenti climatici; tali cambiamenti provocano, in alcune zone, piogge improvvise che allagano i campi coltivati, in altre zone siccità, in altre ancora alterazioni dei cicli biologici naturali che favoriscono la diffusione di parassiti sempre più difficili da combattere: il tutto con perdita di preziosi raccolti. Insomma se si assicura più cibo per alcuni, si compromette la disponibilità di cibo per loro stessi e per tutti, in una reazione a catena.

Gli altri due terzi degli abitanti della Terra sono i poveri dei paesi avanzati, e i poveri dei paesi emergenti come India, Cile, Brasile, e i poveri e poverissimi dei paesi che chiamiamo “arretrati”, in Asia, Africa, America meridionale; questi poveri ricavano cibo da una agricoltura contadina che soddisfa il fabbisogno locale senza alimenti in scatola o esotici, spesso con raccolti scarsi e con alimenti meno nutritivi. Questi abitanti della Terra non contribuiscono praticamente alle modificazioni climatiche ma sono i primi a subirne i danni nella maniera più grave. Le tempeste tropicali spazzano via i raccolti dei loro miseri campi, la siccità inaridisce i campi e li trasforma in terre sterili. Mentre, quindi, un terzo dei terrestri è danneggiato dai cambiamenti climatici provocati dal progresso e dal benessere della “civiltà”, avendo in cambio almeno un cibo abbondante e adeguato, gli altri due terzi, esclusi dalla “civiltà” industriale e merceologica, hanno soltanto dei danni e diventano ancora più poveri.

Alcuni mesi fa numerosi studiosi si sono riuniti a Brescia, su iniziativa del Museo dell’Industria e del Lavoro MusIL e della Fondazione Micheletti, per discutere sul futuro dell’agricoltura e hanno analizzato i caratteri delle varie agricolture (gli atti sono raccolti nel volume Le tre agricolture, pubblicato da Jacabook). L’agricoltura contadina è quella più esposta ai danni dei cambiamenti climatici; quella industriale assicura maggiori quantità di cibo ed è causa e vittima, nello stesso tempo del riscaldamento planetario. La produzione di cibi “biologici” senza concimi e pesticidi, la diffusione dell’uso di prodotti agricoli locali “a chilometri zero”, sono alcune possibili soluzioni. Ma la salvezza per i nove miliardi di persone che abiteranno la Terra nella metà di questo secolo è possibile soltanto con una “terza agricoltura ecologica” che recuperi un rapporto fra coltivatori e consumatori riconoscendo la centralità della “terra”, in grado di assicurare cibo alla crescente popolazione in armonia con i cicli e le leggi della natura. E, come diceva Bacone, la natura soddisfa i bisogni umani solo se le si ubbidisce.

... (continua a leggere)

sui mutamenti climatici, responsabili di alluvioni, frane, allagamento delle città, avanzate dei deserti e fusione dei ghiacci. Finita la sfilata iniziale dei potenti della Terra, resta il lavoro di funzionari dei vari governi che cercano di inventare un qualche sistema per attenuare i danni del riscaldamento del pianeta diminuendo le emissioni nell’atmosfera dei “gas serra” che si formano nella combustione dei combustibili fossili: carbone, petrolio, metano. E’ questione di soldi: i paesi ricchi vorrebbero limitare i danni dei mutamenti climatici senza rinunciare alla crescita economica che è possibile soltanto con la produzione di sempre nuovi oggetti e macchine e abitazioni, cioè con crescenti consumi di energia e emissioni di “gas serra”; altri paesi, quelli poveri, chiedono che non vengano imposti limiti ai consumi di energia necessari per uscire dallo stato di miseria e sottosviluppo o che almeno siano previsti compensi per i loro sacrifici. In questo scontro di interessi, quelli della difesa dell’ambiente e quelli dei soldi, circola un movimento di “scienziati” e opinionisti che negano che il riscaldamento globale e i conseguenti mutamenti climatici siano dovuti alla produzione e al consumo, alle attività umane e merceologiche.

Alcuni negazionisti, che suppongo in buona fede, cercano degli errori scientifici nella descrizione delle cause dei mutamenti climatici elaborata dalla maggior parte dei loro colleghi; altri sono scrittori pagati dalle grandi forze economiche per ridicolizzare o negare proposte che potrebbero danneggiare i loro affari.

Tanto per cominciare i negazionisti sostengono che non c’è nessun cambiamento climatico significativo: estati calde e inverni freddi ci sono sempre stati anche in tempi recenti, nel secolo scorso o nell’Ottocento; per non andare poi a più lontani periodi in cui i ghiacciai avanzavano o diminuivano anche in Europa. Comunque, se effettivamente ci sono dei mutamenti, se è vero che c’è un lento, piccolo, continuo aumento della temperatura del pianeta e in particolare delle acque oceaniche, e che tale aumento provoca una parziale fusione dei ghiacci e fa aumentare il livello delle acque oceaniche e la frequenza delle tempeste tropicali e l’estensione delle zone aride e desertiche, tutto questo, secondo i negazionisti, non dipende dai gas emessi dalle automobili o dai camini delle centrali elettriche e delle industrie e solo la crescita economica e dei consumi può mettervi rimedio. Alcuni negazionisti, che pur ammettono l’esistenza di un riscaldamento planetario, lo attribuiscono ad innocui cambiamenti dell’attività solare; altri pensano che se aumenta la concentrazione nell’atmosfera dell’anidride carbonica, il principale dei “gas serra”, ne verrà un beneficio per l’agricoltura perché aumenteranno le rese dei raccolti.

Per diminuire le emissioni di “gas serra” i combustibili fossili possono essere sostituiti con altre fonti di energia, quelle rinnovabili e non inquinanti fornite dal Sole: elettricità ottenuta con pannelli fotovoltaici o con motori eolici, calore dalla combustione delle biomasse, cioè dei prodotti e sottoprodotti agricoli e forestali che ritornano sempre disponibili ogni anno con la fotosintesi. Alcuni zelanti negazionisti spiegano che non si può avere una società moderna con pannelli solari o con le forze del vento che forniscono elettricità soltanto in maniera intermittente e variabile a seconda delle stagioni, quindi ben diversa e più costosa di quella prodotta col carbone, col petrolio o col metano. Secondo i negazionisti, poi, chi propone di usare carburanti derivati dai prodotti agricoli vuole togliere il mais e il cibo dalla bocca degli abitanti dei paesi poveri, pur di fare un dispetto ai petrolieri.

L’amore per i poveri è un tema caro ai negazionisti; secondo loro, se si desse retta a chi, per rallentare un ipotetico riscaldamento globale, vuole diminuire il consumo di energia da combustibili fossili, si andrebbe incontro ad un mondo con meno macchine e servizi e calore e elettricità, ad un rallentamento della crescita economica che colpirebbe maggiormente le classi povere dei paesi industriali e gli abitanti dei paesi più poveri. Anzi alcuni negazionisti del riscaldamento globale fanno credere che nelle trattative per limitare le emissioni di gas dell’atmosfera ci sia un progetto delle classi abbienti per tenere arretrati e soggetti i poveri della Terra. In alternativa altri negazionisti sostengono che la proposta di rallentare i consumi e gli sprechi per limitare il riscaldamento globale è un progetto per realizzare una società mondiale comunista, di persone tutte uguali e parsimoniose. Ah, dimenticavo, ci sono poi quelli che si sono infilati nel dibattito sostenendo che il riscaldamento globale si può evitare conservando un alto livello di consumi se si usa l’energia nucleare che produce elettricità senza emettere gas serra, poco conta se, in compenso, produce scorie che restano radioattive e tossiche per secoli e millenni, da lasciare come condanna alle generazioni future.

Come modesto studioso dei processi di produzione e di consumo vorrei tranquillizzare i lettori che è possibile rallentare il peggioramento del clima conservando civiltà e benessere, con innovazioni tecniche e nuovo lavoro: una bella sfida per le giovani generazioni. A condizione però, questo sì, di una maggiore equità nella distribuzione dei beni materiali in modo da diminuire gli sprechi e migliorare le condizioni di chi oggi ha così poco. Una società meno ineguale è la premessa anche per sradicare la violenza.

L'articolo é stato inviato contemporaneamente a
La Gazzetta del Mezzogiorno-

Settanta anni sono un periodo lunghissimo; chi ha oggi venti anni ha, della seconda guerra mondiale, finita nel 1945, lo stesso ricordo che io ... (continua a leggere)

Settanta anni sono un periodo lunghissimo; chi ha oggi venti anni ha, della seconda guerra mondiale, finita nel 1945, lo stesso ricordo che io potevo avere, quando avevo venti anni, delle guerre di Indipendenza, cioè niente. Con la differenza che le guerre di indipendenza dell’Italia avevano lasciato conseguenze soltanto politiche, amministrative e sociali, mentre la seconda guerra mondiale coinvolge, a loro insaputa, i ventenni di oggi e quelli che verranno, per molte generazioni, con l’eredità politica e ecologica della bomba atomica. Per conservare questo ricordo proprio nel dicembre di settanta anni fa, pochi mesi dopo il bombardamento americano delle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, un gruppo di scienziati, colpiti dalla grande tragedia generata dalla “bomba” che loro stessi avevano contribuito a fabbricare, decisero di fondare un “bollettino” di informazioni, il Bulletin of the Atomic Scientists. Il fine era di avvertire il pubblico di quello che avrebbero potuto aspettarsi, nel male e nel bene, dalla scoperta dell’enorme energia che si libera dalla fissione del nucleo atomico. Per settanta anni, ogni mese, il Bulletin parla dei problemi delle armi nucleari ma anche delle conseguenze delle scoperte scientifiche che influenzano la vita dei terrestri, 2,3 miliardi di persone nel 1945, 7,2 miliardi di persone oggi.

A partire dal 1947 l’avvertimento dei pericoli è espresso con la immagine di un orologio, che appare sulla copertina di ogni numero, con le lancette che indicano i minuti, prima della mezzanotte dell’umanità, il giorno-della-fine-del-mondo, che restano se non si prendono provvedimenti. In mancanza dei quali l’umanità davvero rischia l’annientamento per la radioattività liberata dalla possibile esplosione di bombe atomiche, o per guerre, o per fame, o per catastrofi dovute agli sessi terrestri.

All’inizio la lancetta è stata messa a sette minuti a mezzanotte quando solo gli Stati Uniti possedevano le bombe atomiche; si avvicinò a tre minuti a mezzanotte nel 1949 quando anche l’Unione Sovietica dimostrò di possedere “la bomba”. La lancetta segnò due minuti a mezzanotte nel 1953, dopo l’esplosione della bomba H americana, e tornò indietro a dodici minuti a mezzanotte quando, nel 1963, Stati Uniti e Unione Sovietica decisero di far cessare le esplosioni nucleari sperimentali nell’atmosfera, limitandole alle esplosioni nel sottosuolo; negli anni successivi ci furono alterni rapporti fra le potenze nucleari “ufficiali” che erano diventate cinque: Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Unione sovietica e Cina, con l’aggiunta del misterioso arsenale nucleare di Israele. Nel 1991, dopo la distensione seguita al crollo dell’Unione Sovietica, l’orologio segnò diciassette minuti a mezzanotte, una boccata di speranza di pace, ben presto vanificata dall’entrata di India e Pakistan fra i paesi dotati di bombe nucleari.

I primi quindici anni del Ventunesimo secolo hanno visto nuovi pericoli di instabilità per la popolazione umana, anche se lentamente la Russia e gli Stati Uniti hanno deciso di smantellare una parte delle “vecchie” bombe nucleari. Si tratta di delicate operazioni tecniche che liberano grandi quantità degli esplosivi plutonio e uranio arricchito, in parte utilizzati come combustibili per le centrali nucleari commerciali, in parte esposti a incidenti, e a furti da parte di criminali e terroristi. Dalle sessantamila bombe nucleari esistenti nel mondo all’apice delle crisi internazionali, nel 1987, oggi esistono nel mondo “soltanto” circa 10.000 bombe nucleari, alcune delle quali in stato permanente di allerta.
Le bombe nucleari si deteriorano col tempo e le due principali potenze nucleari continuano ad aggiornare i loro arsenali; adesso i collaudi delle bombe non richiedono più esplosioni sperimentali ma possono essere fatti con altri metodi. Di recente è stato annunciato che le bombe nucleari a fusione americane B61, alcune delle quali sono depositate anche in Italia a Ghedi (Brescia) e ad Aviano (Pordenone), saranno perfezionate nel modello B61-12 con una spesa di dieci miliardi di dollari; così si allontana ancora di più la speranza che gli stati nucleari rispettino l’impegno, da loro sottoscritto col Trattato di non proliferazione nucleare, che impone, all’articolo VI, l’avvio di trattative per il disarmo nucleare totale.

Eppure un disarmo atomico sarebbe possibile; si è riusciti, pur dopo anni di dibattiti, a vietare le armi chimiche e quelle biologiche, perché non si dovrebbero vietare quelle nucleari? Il denaro risparmiato fermando le attività nucleari militari, centinaia di miliardi di dollari ogni anno nel mondo, permetterebbe di affrontare e risolvere almeno una parte dei problemi di miserie, di ingiustizie e di sottosviluppo, di fame e di mancanza di acqua e di suoli inariditi, che sono la vera radice della violenza internazionale.

Altre nuvole tempestose hanno infatti affollato il cielo rendendo possibili disastri, anch’essi planetari, dovuti al riscaldamento globale, e anche per questo l’orologio del Bulletin si è avvicinato, di recente, di nuovo a tre minuti dalla mezzanotte dell’umanità. Vedremo che cosa uscirà dal dibattito iniziato a Parigi per attenuare i peggioramenti del clima dovuti alla nuova “bomba atomica”: i gas inquinanti, figli dei nostri processi produttivi e dei nostri consumi e sprechi di energia, di minerali, di prodotti agricoli e di merci. Mi piacerebbe che di questi problemi si parlasse nelle scuole, nelle Università, nei partiti e, magari, nel Parlamento, al di là delle dichiarazioni di buona volontà. Miseria, migrazioni, disperazione, le madri del terrorismo, sono alle porte e non basta chiuderle. Bisogna aprire piuttosto, con coraggio, come raccomanda il Papa Francesco, le porte dei nostri cuori alla giustizia che è l’unica mamma della pace.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno

L’annuncio che il Papa Francesco darà inizio al Giubileo, domenica prossima 29 novembre, alcuni giorni prima che a Roma ... (continua a leggere)

L’annuncio che il Papa Francesco darà inizio al Giubileo, domenica prossima 29 novembre, alcuni giorni prima che a Roma, aprendo la “Porta Santa” della Cattedrale di Bangui, nella Repubblica Centrafricana, nell’ombelico del Continente Nero, sta portando all’attenzione mondiale questo quasi sconosciuto paese. Al suo arrivo a Bangui il Papa sarà accolto dal “presidente di transizione” che è una donna, Catherine Samba-Panza, laureata in legge nell’Università di Parigi II. La Repubblica Centrafricana ha una superficie doppia di quella dell’Italia e una popolazione di poco meno di 5 milioni di abitanti, in rapida crescita, la cui principale fonte di reddito, oltre all’agricoltura, è l’esportazione di diamanti e di legname pregiato.

La popolazione è molto povera perché è stata soggetta a continue invasioni e sfruttamento e violenze sia dai paesi vicini sia dalla Francia che, alla fine dell’Ottocento, aveva costituito una provincia coloniale Ubangi-Chari. Nel 1910 la zona era stata inglobata nell’Africa Equatoriale Francese in cui si erano precipitate le imprese private che producevano e esportavano cotone e diamanti. Durante la seconda guerra mondiale, quando la Francia venne occupata dai nazisti, nell’Africa Equatoriale Francese si rifugiò la Francia Libera, quella parte dell’esercito francese, guidata dal generale De Gaulle, che combatté al fianco degli Alleati contro la Germania ed ebbe l’onore di entrare per prima nella Parigi liberata nel 1944.

La Repubblica Centrafricana ottenne l’indipendenza nel 1960 e fu afflitta da lunghi periodi di instabilità dovuti a scontri fra etnie locali; nel 1965 prese il potere il colonnello Bokassa, bizzarro e megalomane dittatore che si proclamò “imperatore” nel 1972, sostenuto dalla Francia che aveva interesse a proteggere le imprese impegnate nello sfruttamento delle risorse naturali del paese: nel 1979 Bokassa fu sostituito da vari presidenti in lotta fra loro fino al gennaio 2014 quando assunse la presidenza la signora Samba-Panza, in attesa di nuove elezioni.

La Repubblica Centrafricana è uno dei paesi dell’Africa che non ha accesso al mare e confina a nord col Chad, ad ovest col Cameroon, a sud col Congo e con la Repubblica Democratica del Congo e a est con Sud Sudan e Sudan. La Repubblica Centrafricana è una specie di grande altopiano con foreste e savane, ricche di biodiversità, e si trova nello spartiacque dei bacini idrografici di due grandi fiumi, l’Ubangi che fa da confine fra la Repubblica Centrafricana e la Repubblica Democratica del Congo, e il Chari. Su alcuni degli affluenti sono state costruite delle dighe e delle centrali idroelettriche.

La Repubblica Centrafricana è coinvolta in un importante problema ecologico. Al nord del paese si trova il Lago Chad, che “appartiene” agli stati del Niger, della Nigeria, del Chad e del Cameroon; il lago Chad è stato uno dei più grandi laghi di acqua dolce, portata da numerosi fiumi fra cui il Chari, che compensano la continua evaporazione di acqua dovuta all’intensa radiazione solare; nel 1960 il lago, poco profondo, aveva la superficie di 25.000 chilometri quadrati (cento volte superiore a quella del Lago Maggiore in Italia) e le sue acque irrigavano i campi dei popoli vicini e consentivano attività di pesca. Per aumentare le rese agricole i prelevamenti di acqua per irrigazione si sono fatti sempre più intensi e questo, insieme all’evaporazione aumentata a causa dei mutamenti climatici, ha fatto diminuire la superficie del lago, oggi ridotta a 2.500 chilometri quadrati, il che compromette la sopravvivenza di milioni di persone, oltre ad alterare l’intero ecosistema della zona a sud del Sahara.

I paesi che condividono la superficie del lago e la Repubblica Centrafricana hanno costituito una Commissione per il Lago Chad che da anni studia come è possibile evitarne la scomparsa e restituirgli almeno una parte delle acque perdute. Una delle proposte prevede di trasferire una parte delle abbondanti acque dei fiumi che attraversano la Repubblica Centrafricana e che adesso vanno verso sud, nel fiume Ubangi e poi nel fiume Congo e infine nel mare, dirottandola attraverso una sistema di condotte e canali verso nord, nel bacino del fiume Chari e quindi nel Lago Chad. La soluzione sarebbe facilitata dal fatto che i fiumi del bacino del Congo scorrono ad una altezza di un centinaio di metri superiore a quella del lago e quindi una parte delle acque scorrerebbe verso il lago Chad in discesa, per gravità, in un flusso continuo. Da questo flusso di acque in discesa sarebbe anche possibile recuperare energia idroelettrica da utilizzare in parte per i servizi dei nuovi canali e in parte per dare vita a attività minerarie e industriali.

Il progetto di questa gigantesca opera di ingegneria idraulica per ora è fermo non tanto per i costi o per le difficoltà tecniche, quanto per i possibili rischi ambientali. Gli indubbi vantaggi economici, per l’agricoltura, l’allevamento e la pesca, e quelli ecologici del ritorno delle acque nel lago Chad, potrebbero essere annullati da modificazioni negativi dell’intero ecosistema con danni per l’agricoltura del Centrafrica. Sulla natura non si può intervenire con leggerezza e senza precauzioni.

C’è da sperare che il messaggio di solidarietà, di pace e di misericordia portato dal Giubileo che si aprirà in questo poverissimo paese lo aiuti a liberarsi delle divisioni, dai conflitti e dallo sfruttamento delle sue risorse e possa mettere le sue grandi ricchezze naturali al servizio dello sviluppo umano degli abitanti.

L'articolo è stato inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno
© 2024 Eddyburg