loader
menu
© 2024 Eddyburg

bilanciamoci online, 21 novembre 2016 (c.m.c.)

Perchè questa quasi-guerra fratricida? Qual’è la ragione così urgente che ha mosso la dirigenza del Partito democratico e del Governo ad imporre una campagna referendaria su questa riforma della Costituzione, così frettolosa, così imperfetta, e soprattutto così divisiva? Perchè decenni di manicheismo da guerra fredda tra comunisti e democristiani non hanno diviso così fortemente il paese come questo referendum che cade in un tempo post-ideologico? Propongo due ordini di risposte a queste domande, uno che cerca di capire la filosofia di questa proposta di revisione, e uno che cerca di valutare l’impatto di questa campagna referendaria sulla cittadinanza.

Fatti e Miti

Hanno detto i suoi promotori che è la storia a chiedere questa riforma; lo chiedono trenta (per Renzi settanta) anni di tentativi di cambiare la nostra democrazia, troppo pluralista e assembleare, troppo orizzontale e poco attenta alla governabilità. Ma nessuno sa esattamente che cosa questo significhi, anche perchè la storia siamo noi, e quindi è il presente, questo presente, che vuole questa riforma. Figlia di questo presente, la filosofia sulla quale riposa questa riforma è poco amante dell’intermediazione, del pluralismo e di quella complessità che - ce lo siamo dimenticato? - è la società liberale e democratica stessa a generarla.

Questa filosofia riposa su due miti: velocità di decisione e semplificazione per aiutare la velocità. E si impone, o cerca di imporsi, con un metodo che è ad essi coerente: insofferente per il dissenso, violento nel linguaggio, dominatore nell’uso monopolistico dei mezzi di informazione, e plebiscitario nella forma del consenso chiesto ai cittadini. Per chi mastica un poco di filosofia politica lo scenario è Schmittiano.

Da che cosa sono supportati i miti della velocità e della semplificazione? Non da prove fattuali, ovviamente. Certo, non sul fronte della “velocità” di decisione; anche perché questo governo di coalizione ha dimostrato di riuscire in pochi giorni a sopprimere diritti del lavoro che resistevano almeno dal 1970. Velocissimo è stato anche il precedente governo Monti nell’approvare la riforma delle pensioni e addirittura nell’inserire la norma del pareggio di bilancio nella Costituzione. La velocità in queste riforme amate dai “mercati” (e molto poco digeribili per quei democratici che assegnino a questa parola un valore superiore a quello della sigla di un partito) è stata possibile la Costituzione vigente. Quindi perchè?

E che dire del mito della “semplificazione”? Se semplificare comporta approntare mezzi per l’attuazione celere delle decisione, allora il problema è risolvibile con regolamenti nuovi, sia parlamentari che della burocrazia. Perchè andare ai poteri fondamentali dello Stato? Perchè, probabilmente, il mito della semplificazione è coerente a una visione dirigistica del potere politico, che sta davvero stretto a una costituzione democratica com’è la nostra.

Semplificare può voler dire molte cose e nulla insieme. L’argomento piace molto ai populisti di tutti i continenti e tempi: e sta per superamento della fatica del dover cercare mediazioni e consensi, secondo il mito molto dirigistico di snelline le rappresentanze, di sfoltire i protagonisti dei processi decisionali, per contenere i tempi di decisione e togliere ostacoli a chi decide. È un mito ben poco democratico, e non perchè la democrazia significa perdere tempo, ma perchè, come scriveva Condorcet, non si fida di chi vuol dare più potere all’organo di decisione, il governo, un argomento di cui «sono lastricate le strade verso la tirannia».

Senza bisogno di andare così lontano come Condorcet, possiamo tuttavia nutrire seri dubbi che una semplificazione decisionale sia sicura per chi crede nel potere di controllo, limitazione e monitoraggio, ovvero sorveglianza. Chi propone questa riforma non ha un’idea molto positiva della democrazia, ritenendola troppo esosa in termini di tempo e troppo esigente in termini di controllo. Ecco perchè ci propone una riforma che depotenzia la democraticità della nostra Costituzione.

Resa meno democratica, ovvero, meno rappresentativa delle diverse istanze, territoriali o politiche, e più interessata a localizzare la sede apicale della decisione trascinando gli organismi collettivi invece di essere da questi trascinato: non a caso nella proposta di revisione ha un posto di rilievo il principio della temporalità stabilita dal Governo, che può predeterminare i tempi di discussione del Parlamento e chiedere che esso sospenda i suoi ordinari lavori per occuparsi prima e subito dei suoi decreti. L’implicita ammissione è che colpa della lentezza e della complessità sia il Parlamento, e tutti gli “organi assembleari” come con fastidio chiamano la democrazia rappresentativa i dirigisti. Contro “l’assemblearismo” è in effetti da settant’anni che gli insoddisfatti della democrazia tuonano nel nostro paese, a partire proprio dalla Consulta.

Distanza dei cittadini e poteri accentrati

La revisione della Costituzione pone inoltre problemi molto seri quanto al rapporto istituzioni e cittadini. Su questo aspetto pochi si sono soffermati e propongo qui alcune riflessioni.

Le ragioni per non sostenere questa proposta di revisione sono di vario genere: da quelle relative al merito (a come ridisegna il Senato, le funzioni delle Regioni e la relazione tra i poteri dello Stato) a quelle più direttamente politiche o di prudenza politica. Su queste seconde non si discute mai abbastanza. La Costituzione di uno stato democratico dovrebbe avere uno sguardo lungo, essere pensata in relazione non all’oggi ma a qualunque tensione o problema possa succedere domani.

Questa prospettiva ha reso la Costituzione italiana vigente un’ottima Costituzione, capace di reggere molti stress: gli anni di piombo, impedendo che le istituzioni si facessero convincere dal canto delle Sirene che chiedevano governi di emergenza, sospensione dei diritti e stato di polizia; e poi l’assalto da parte della corruzione dei partiti prima e del patriomalismo berlusconiano poi. Se l’opinione, anche politica, ha spesso tentennato, le istituzioni hanno tenuto la barra diritta perchè la Costituzione ne disegnava i poteri e le funzioni in maniera tale che nessuna di esse potesse prendere sopravvento o avere un potere superiore.

Se la nostra democrazia ha tenuto e la stabilità è stata garantita nel corso degli anni nonostante i diversi governi (un problema da attribuirsi semmai al sistema elettorale) è stato perchè le istituzioni hanno tenuto. E questo è dimostrato dal fatto che il declino di legittimità dei partiti e degli attori politici non ha scalfito la fiducia dei cittadini nelle istituzioni, perchè queste non hanno dato l’impressione di essere dominate completamente dai partiti. Vi è da temere che un Senato composto per voto indiretto alimenti nei cittadini l’impressione che la loro incidenza sulle istituzioni sarà più debole mentre il potere di decisione degli attori politici più opaco e fuori dal loro controllo. Il rischio è che le istituzioni siano a poco a poco percepite come proprietà di chi le occupa; che la distanza tra istituzioni e società aumenti. E con essa che cresca il senso di illegittimità delle istituzioni.

Inoltre, pensata in funzione di neutralizzare esecutivi ingombranti (scritta in funzione anti-fascista), la Costituzione del 1948 si presenta come molto ben corazzata contro i nuovi populismi. Decentrare il potere e spezzarne la tendenza alla concentrazione (con un governo che impone i tempi e l’agenda al Parlamento) è mai come in questo tempo essenziale a fermare i tentativi di assalto che possono venire dalle forze nazional-populiste. Questo non è il tempo migliore per una Costituzione che concentra i poteri e indebolisce i controlli e il ruolo delle opposizioni.

Negli Stati Uniti ci si preoccupa in questi giorni degli effetti che potrà avere l’accumulo di potere e l’allineamento sotto un unico partito di tutti i poteri dello Stato: la Casa Bianca, il Congresso, il Senato e la maggioranza della Corte Suprema. Indubbiamente la governabilità e la velocità delle decisione saranno facilitate con l’amministrazione Trump e la sua maggioranza granitica. Ma siamo convinti che questo sia desiderabile?

Una campagna velenosa

Chi si è schierato con Renzi, leggiamo spesso sui quotidiani, ha rischiato il linciaggio morale. D’altro canto che si è schierato contro Renzi ha perso amici e si è trovato/a classificata con i Casa Pound o gli anti-sistema e con i populisti di tutte le risme. Una guerra di parole e dichiarazioni fratricida, come non si era visto neppure con la proposta di riforma lanciata dal Governo Berlusconi. Forse perché la lotta è ora tutta a sinistra o tra chi in modi diversi si sente vicino al PD, questa campagna ha avuto il sapore di una piccola guerra civile, di una guerra civile di parole. Ricordiamo il caso Roberto Benigni, il primo a scatenare questa guerra.

Rispondendo alla domanda di Ezio Mauro se non avesse paura di passare per ‘renziano’ confessando di votare Sì al referendum costituzionale, Benigni la scorsa primavera ha rivendicato il diritto di votare come pensa e non per conformarsi a chi non si conforma. E il diritto di votare implica il diritto di schierarsi: «Non voglio rimanere neutrale, lavarmene le mani dicendo che faccio l’artista, voglio essere libero. E la libertà non serve a nulla se non ti assumi la responsabilità di scegliere ciò che credi più giusto».

Risposta pertinente perché coerente ai due principi aurei della democrazia liberale e non plebiscitaria: votare con la propria testa e non con quella del leader, e rivendicare il valore del voto che è e non può che essere partigiano. Voto schierato non voto plebiscitario. E’ questa la distinzione che oggi è difficile fare e mantenere. All’origine della difficoltà vi è stata la decisione di Renzi di identificare il Sì con la sua persona e il suo governo, trasformando il No automaticamente in un giudizio sulla sua persona e in una causa di instabilità politica. Chi non sta dalla sua parte è messo nell’”accozzaglia” degli sgradevoli.

Questa trappola ci ha impedito di battagliare da “partigiani amici”, come direbbe Machiavelli, e ci ha fatto essere “partigiani nemici”. I primi sono quelli che si schierano nella libera competizione delle idee per favorire o contrastare un progetto politico. I secondi sono quelli che personalizzano la lotta politica mettendo nell’arena pubblica non le ragioni pro e contro un progetto, ma le rappresentazioni colorite delle tipologie di chi sta da una parte e dell’altra. I primi si rispettano come gli avversari di una battaglia legittima, i secondi si offendo e creano le condizioni per un risentimento che sarà difficile da dimenticare.

È da anni, da quanto Berlusconi “scese in campo”, che la lotta politica ha preso la strada dello stile teatrale, della rappresentazione estetica – con forme mediatiche che hanno lo scopo di colpire le percezioni per mobilitare le emozioni e rendere la contesa radicale, non dialogica. Di creare identificazioni non forti nelle convinzioni ideali ma forti nella vocalizzazione e nella pittorica rappresentazione. Come se ogni battaglia fosse l’ultima, come se la catastrofe e il diluvio seguissero ad una vittoria o ad una sconfitta. È questo stile populista del linguaggio estetico e tutto privato (ingiudicabile con la ragione pubblica) che ha corroso negli anni la nostra abitudine alla lotta partigiana, trasformandola in un Colosseo, uno spettaccolo che vuol vedere il sangue che colora di rosso l’arena.

Le ragioni a favore o contro sono spessissimo passate in secondo piano. Questo succede soprattutto oggi che siamo in dirittura di arrivo. Per cui i blog e i social network assalgono chi si schiera con il Sì come fosse un rinnegato, e offendono mortalmente chi vota No come fosse un nazi-fascista, un “falso” partigiano. A chi vota Sì è affibbiato il titolo di lacchè del potere, a chi vota Nò è appiccicata l’immagine della “palude”. Chi vota Nò sarebbe per la conservazione e chi vota Sì sarebbe per l’innovazione e intanto non si riesce a spiegare senza essere sbeffeggiati e sbeffeggiare che cosa si vuole preservare e che cosa di desidera innovare.

Siccome i sacerdoti del Sì non possono vantare, proprio come quelli del No, alcuna privilegiata saggezza, sarebbe stato opportuno mettere sul tappeto le questioni reali implicate in questa battaglia sulla nostra Costituzione: il carattere di questa nuova versione della Costituzione e gli effetti che potrebbe generare, soprattutto se accoppiata con l’Italicum (una legge dello Stato il cui peso ingombrante è stato accantonato da Renzi con la promessa verbale a Gianni Cuperlo, di rivederla dopo il 4 dicembre). Dicevano i teorici e i politici settecenteschi che hanno teorizzato e/o scritto le costituzioni che queste devono essere scritte per i demoni non per gli angeli. E come Peter sobrio che scrive le regole per Peter ubriaco, le carte di regole e di intenti servono proprio per esorcizzare e contenere il potere, in particolare quello istituzionalizzato, nell’eventuale occorrenza che venisse tenuto da mani sconsiderate.

Come Benigni, anche altri sostenitori del Sì riconoscono che il nuovo Senato è pasticciato; diversi, anche nel Pd, si preoccupano degli effetti combinati della riforma con l’Italicum, che contrariamente a quanto succede per i sindaci premia non chi ha raggiunto il cinquanta per cento ma il quaranta per cento. E’ legittimo farsi queste domane e voler discutere di queste questioni. E’ legittimo che i cittadini democratici si preoccupino di sapere quando potere resterà a loro, quanta forza avrà la loro voce.

E invece, il clima è da mesi rovente, rabbuiato dalla retorica del plebiscito. Il manicheismo fa spettacolo ma non fa prendere decisioni sagge – la deliberazione democratica deve poter contare sul fatto che si entra in una discussione con un’idea e se ne può uscire con un’altra. Ma in questa campagna referendaria abbiamo dismesso i panni della discussione: ciascuno alla fine resta dell’idea che aveva all’inizio, mentre gli incerti e gli indifferenti saranno probabilmente più colpiti da una battaglia personalizzata che ragionata. Chi sta con Renzi e chi sta contro Renzi. Tutti ci siamo fatti e ci facciamo conformisti. A questo si giunge quando la Costituzione è fatta oggetto plebiscitario, o usata come un programma elettorale – per contare nemici e amici. Di costituzionale vi è davvero poco. Figuriamoci se questo fosse stato il clima dei Costituenti! Avremmo avuto la guerra civile non settant’anni di vita civile.

Quale che sia l’esito, dopo il 4 dicembre 2016 il nostro sarà un paese più diviso. Cui prodest?

«Noi votiamo No, anche se lo stesso faranno molti altri che hanno idee politiche opposte alle nostre; non sono loro l’oggetto del voto del 4 dicembre, ma la legge fondamentale del Paese: la Costituzione italiana».

libertàgiustizia online, 21 novembre 2016(c.m.c.)

Se Gad Lerner può dire di votare Sì nonostante Renzi, altri possono dire di votare No nonostante molti di coloro che votano No abbiano idee politiche non condivisibili. In altre parole, il voto sul referendum costituzionale non è un voto su o contro Renzi: e infatti c’è chi vota Sì, come Lerner, pur distinguendosi da Renzi. E’ vero anche l’opposto: si può votare No pur non avendo le stesse idee politiche di molti coloro che votano No.

Il referendum sulla Costituzione taglia trasversalmente le idee e le appartenenze e, nonostante lo abbia promosso il Governo Renzi, l’opposizione a quella proposta del suo Governo non si identifica necessariamente con il giudizio sul Governo. Il referendum non si propone di “mandare a casa” Renzi. Non è un plebiscito su di lui e sul suo esecutivo.

Dunque, distinguiamo la legge fondamentale da chi la usa. Noi votiamo No, anche se lo stesso faranno molti altri che hanno idee politiche opposte alle nostre; non sono loro l’oggetto del voto del 4 dicembre, ma la legge fondamentale del Paese: la Costituzione italiana.

IGiandomenico Crapis il manifesto, 20-21 novembre 2016

DALLA CARTA NATA DALLA RESISTENZA
ALLO STATUTO ALBERTINO
di Mario Agostinelli e Giuseppe Vanacore

«Referendum. Se vince il sì alle riforme, alla camera siederanno deputati di regia, scelti dal governo e dai capipartito. E il nuovo senato non elettivo indebolirà i diritti sociali»
In base alla superiorità della Camera «elettiva» e l’invenzione di un senato di nominati (camera di seconda mano) senza legittimazione territoriale diretta, come si attuano i diritti sociali che la Costituzione ha programmato nella prima parte e ha posto in gestione a istituzioni locali autonome, partiti e forme associative riconosciute nella seconda? Uno stravolgimento che determina la definitiva soluzione di continuità con l’attività legislativa costituzionalmente orientata e che a partire dagli anni ’60 aveva prodotto la legge sul divieto di licenziamento (legge 604/66); lo Statuto dei lavoratori (legge 300/700); la riforma delle Autonomie locali (legge 382/75); l’abolizione dei manicomi (legge 180/78); la riforma delle pensioni, la riforma sanitaria (legge 833/78). Tantissime le norme che condizioneranno in senso negativo il nostro sistema democratico, con dissimulazioni che talvolta appaiono come un vero e proprio raggiro.

Innanzitutto non è vero che si abolisce il bicameralismo: è vero altresì che il senato non è più elettivo. La ragione non emerge mai con chiarezza nei dibattiti: eppure è semplice: l’articolo 57 della Costituzione attuale afferma che i senatori sono eletti a suffragio universale su base regionale.

Questa norma impedisce una legge elettorale con un premio di maggioranza a livello nazionale. Ed è per questa ragione – di inconsistenza di rappresentanza – che Renzi è approdato alla decisione di abolire l’elezione diretta del senato, prevedendone invece la nomina da parte dei consigli regionali. Ogni funzione del senato sarà così di puro complemento alla dinamica partitico-politica in corso in quel momento, senza alcun collegamento con la rappresentanza diretta e l’autonomia dei territori.

Con questa riforma costituzionale i livelli essenziali (non minimi!) di assistenza (Lea), enucleati della riforma sanitaria e posti a presidio del diritto alla tutela universale della salute (art. 32 Cost.) non assurgono a criterio costituzionale e si riducono a una scaramuccia tra il governo centrale e regionale all’atto della finanziaria.

Fuorviante l’obiezione che elevarli a tale rango rischierebbe poi di limitarli, perché è noto che i Lea rappresentano la garanzia di uguaglianza su tutto il territorio nazionale, tanto che un domani di fronte a tentativi di tagli – come è già successo – costituirebbero una robusta difesa e un argine invalicabile sotto il quale non sarebbe possibile andare. E’ bene sapere che il vincolo del pareggio di bilancio in costituzione vuol dire, invece, che l’esercizio di diritti fondamentali dipenderà dalle risorse correnti disponibili, mentre l’individuazione delle prestazioni sanitarie e sociali essenziali verrà affidata semplicemente ad un provvedimento amministrativo di competenza del governo, con una funzione solo residua e caritativo-compensativa delle Regioni. Sanità a gogò e privatizzazioni quindi, come voleva Formigoni.

Con l’alibi della semplificazione, si affidano alla legislazione esclusiva dello stato, la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale della energia (materia finora concorrente), nonché le infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione. Anche il governo del territorio diventa di competenza esclusiva dello stato, così come la tutela e la sicurezza del lavoro (applicatelo alla TAV o alla discarica delle scorie, all’Ilva o a Seveso!).

Di fatto alle Regioni – a parte pochi residui – non spetterà la potestà legislativa sulla generalità delle materie: morte quindi all’alternativa di società fatta di «formazioni sociali» e di autonomie che sta scritta nella prima parte della Costituzione.

Ma c’è un’ultima osservazione che non ci deve sfuggire, la guerra. L’innovazione esplicita è che il senato, secondo l’articolo 78 della nuova Costituzione, viene escluso dal partecipare alla deliberazione della guerra e al conferimento al governo dei relativi poteri, in base a una gestione riservata al primo ministro e ai suoi deputati. E ciò è molto strano, perché il senato dovrebbe rappresentare le realtà territoriali (anche se in forme non dirette), dove ci sono le case e i corpi delle persone che più di tutti sarebbero colpiti dalla guerra.

Rendiamoci conto di un tremendo paradosso: rimane il bicameralismo, quello dello Statuto Albertino, ma con un rovesciamento. Con la riforma proposta, la camera dei deputati diventa lei la camera alta. Con l’Italicum in essa siederanno infatti dei deputati di nomina «regia», che cioè saranno nominati dall’alto, ovvero dal governo e dai capipartito, e sarà così assicurata la continuità del potere, e sotto l’ombrello dei minor costi della politica, si farà garante che tutto resti com’è.

Il senato, che si presentava come il punto forte della «riforma» rivela invece la sua funzionalità a colpire la democrazia sociale della Costituzione antifascista. Grazie a Renzi che ci sta dando tutto il tempo per compiacerci del No.

A RETI UNIFICATE,

IN TV RENZI SI FA IN QUATTRO
di Vincenzo Vita

«Il parabolico. Premier Millecanali è riuscito a battere Berlusconi»

L’esposto presentato dal Comitato per il No al referendum costituzionale sulle violazioni della par condicio di questa campagna in corso è davvero il minimo sindacale. La costante negazione di un corretto diritto all’informazione meriterebbe qualche attenzione generale in più. Anche da parte delle forze di sinistra, che talvolta sembrano ignorare la gravità di quello che accade.

Stiamo parlando della torsione filogovernativa di grande parte dei media. Questi ultimi, oggi persino in misura maggiore rispetto all’età berlusconiana, sono diventati una componente di una sorta di sistema politico allargato, piuttosto che un rigoroso contropotere.

Ecco il perché si è sentita l’esigenza di ricorrere allo strumento dell’esposto, cui l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni è tenuta a rispondere, e non con qualche richiamo flebile e burocratico.
La legge 249 che istituì l’Agcom introduce meccanismi sanzionatori affidati ad un organismo che si voleva “cattivo” e determinato. La normativa sulla par condicio è aggirata bellamente attraverso la costante presenza nelle reti e nelle testate di Renzi, il quale usa molti travestimenti: statista europeo, presidente del consiglio, leader di partito, esponente di punta del Sì.

È così che salta ogni conteggio delle presenze radiotelevisive. Renzi, infatti, quando parla sembra una star delle telepromozioni, in cui il conduttore del programma a un certo punto apre il siparietto pubblicitario, forte della presa sul pubblico del programma stesso.

Sono forme sofisticate di manipolazione, che le istituzioni preposte alla vigilanza dovrebbero sorvegliare. E punire, quando necessario. Le ultime due settimane prima del voto sono decisive nella formazione dell’opinione elettorale. Ecco, quindi, che si esige un comportamentale adeguato alla bisogna. Adesso, subito. Altrimenti, come già è accaduto in passato, il «riequilibrio» è richiesto a cose fatte.

Un punto, poi, merita un chiarimento. Il concetto di «riequilibrio». Con l’invito a Matteo Salvini, Fazio non pareggia la presenza della scorsa domenica di Renzi. Renzi è il Sì. Salvini, con rispetto parlando, non sintetizza le ragioni del No.

Serviva uno dei costituzionalisti prestigiosi che diedero vita alla campagna contro la revisione della Costituzione. O il presidente dell’Anpi, altrettanto decisivo. La forma è sostanza. E viceversa. O Salvini è una sineddoche, la parte per il tutto? Insomma, la Rai e Fazio non possono cavarsela così. Siamo seri.

RENZI A RETI UNIFICATE:
«IL NO UN’ACCOZZAGLIA»
ESPOSTO BIS ALL’AGCOM
di Maria Teresa Accardo

«Le mille balle blu. Nei Tg Rai il governo da solo doppia tutti gli altri protagonisti. Dal premier pioggia di insulti: "Non voterei no neanche ubriaco". Il Comitato all’autorità garante: intervenire subito, negli ultimi giorni cruciale un’informazione»

Una presenza del governo in tv «abnorme», una «vistosa violazione delle leggi» sulla par condicio durante le campagne elettorali. È durissimo, ma soprattutto molto dettagliato il nuovo esposto del Comitato per il No che arriva all’Agcom, dopo il «buffetto» imbarazzante che la stessa autorità negli scorsi giorni aveva impartito alle tv in cui dilaga la presenza del fronte del Sì. Soprattutto grazie ai suoi massimi esponenti, premier e ministri. L’esposto, il secondo, è firmato dai costituzionalisti Alessandro Pace e Roberto Zaccaria, e dai rappresentanti del No Alfiero Grandi e Vincenzo Vita. È corredato da tabelle che vale la pena léggere con attenzione per verificare quella che viene definita «la vistosa sovraesposizione del presidente del consiglio e di esponenti del governo nell’informazione diffusa dalla concessionaria pubblica», con particolare riferimento ai principali Tg (Tg1, Tg2, Tg3, RaiNews). Una situazione particolarmente delicata, visto che siamo a meno di due settimane dal voto e cioè nel cruciale momento in cui gli «indecisi» si fanno un’idea di cosa votare. Spesso grazie alla tv.

Il «tempo di antenna», cioè la somma del tempo di notizia e quello di parola, di Renzi e del governo in totale «è superiore al 42 per cento». Nel dettaglio: «Nelle tre edizioni principali dei telegiornali Rai di domenica 13, lunedì 14, martedì 15 e mercoledì 16, il presidente del consiglio ha avuto rispettivamente 62 secondi di tempo di parola, 63 secondi, un minuto e 34 secondi ed un minuto e 22 secondi. Una quantità di tempo di parola che da sola doppia quella totalizzata da tutti gli altri soggetti politici».

Ormai siamo all’ultimo miglio della campagna referendaria. Per questo il Comitato chiede all’Autorità di intervenire «prontamente ed incisivamente» per ripristinare il diritto dei cittadini a «un’informazione imparziale». Anche per evitare il ridicolo delle sanzioni a futura memoria, quelle che arrivano fuori tempo massimo a voto celebrato, grande classico dell’autorità garante dell’era berlusconiana.

Ma se in tv il premier fa un gioco sempre più duro grazie a direttori compiacenti, anche fuori non scherza. I sondaggi, che lo penalizzano (da ieri non sono più pubblicabili) gli suggeriscono di tentare il tutto per tutto per la rimonta. E quindi via a insulti, sarcasmi, sfottò all’indirizzo del fronte del No: altro che «restiamo al merito della riforma», i suoi comizi ormai sono show che finiscono per aizzare gli spettatori contro gli avversari politici. Come ieri a Matera. Il premier ha definito il No «l’ennesima accozzaglia di tutti contro soltanto una persona». Renzi si rivela sempre più un talento da palco: ammiccamenti, persino imitazioni (D’Alema è il bersaglio preferito): «Stanno mettendo insieme un gioco delle coppie fantastico. Meglio di Maria De Filippi. Abbiamo fatto capire a Berlusconi e Travaglio che si vogliono bene a loro insaputa, D’Alema e Grillo, uno che sostiene la politica e uno l’anti politica. E poi Vendola e La Russa», ieri ha detto. Poi però, stavolta a Caserta, gli è toccato fermare i suoi dal cacciare in malo modo un signore che lo contestava. Al grido già sentito (alla Leopolda) «fuori, fuori». Poco prima aveva detto, a proposito dei referendum propositivi: « Se uno vota 5 Stelle come fa a votare No? Nemmeno ubriaco». I deputati M5S replicano a stretto giro: Renzi mette insieme volti diversi?, «Agli italiani basta vedere la sua faccia per sapere quale sia la scelta giusta».

Lo scontro a distanza si fa molto ruvido anche dentro il Pd. Roberto Speranza, in tour in Sicilia per difendere le ragioni del No, replica al segretario: «Accozzaglia? Siamo di fronte alla solita arroganza, quella del ’Ciaone’ pronunciato dopo il referendum sulle trivelle a cui parteciparono oltre 15 milioni di italiani». Da sinistra Pippo Civati intanto invoca una parola da Romano Prodi, storico leader dell’Ulivo. Lo fa da Bologna, dove ieri ha riunito i suoi per la manifestazione «Per noi è no». Accanto a lui c’era Silvia Prodi, la nipote dell’ex premier. Il quale ex premier da settimane è dato ’ tendenza No’. Lui però non parla: e questo lo salva dagli attacchi forsennati che Renzi riserva ai protagonisti della sinistra di ieri che non votano Sì «per riprendersi le poltrone di prima».

PERCHÉ LA RIFORMA È DANNOSA
DA UNA PROSPETTIVA FEMMINISTA
di "Femministe per una Costituzione Fica"

«Con il nostro No ci uniamo ad altri soggetti insubordinati ed esclusi, a chi cerca vie d’uscita dal precariato, a chi vuole accogliere i migranti e a chi costruisce reti di intimità e cura al di fuori della famiglia nucleare!»

“Il 4 dicembre mi tengo libera. Io voto no”: è uno degli slogan che lanciamo come “Femministe per una Costituzione Fica”. È un invito esplicito a non astenersi e a votare No, perché “questa riforma ci tocca e quando le donne dicono No, è No”.

In cosa il No femminista è diverso dagli altri No
Una riforma come quella proposta ostacola il nostro agire politico come femministe, perché riduce gli spazi di democrazia e confronto. Limita la politica a una questione di governabilità e rafforza i poteri dell’esecutivo, espressione di una minoranza che si fa maggioranza schiacciante e decide per tutti. Come femministe lavoriamo nei territori per avere maggiore partecipazione, per creare alternative all’autoritarismo, al maschilismo che ancora dilaga nei posti di lavoro e nei luoghi della politica, alle misure di austerità che con tagli alle spese sociali e con privatizzazioni colpiscono le donne più degli uomini. Per tutto questo diciamo “no” e da qui partiamo per rinnovare la nostra attuale Costituzione. Sono altre, infatti, le modifiche alla Costituzione che potremmo sostenere: dall’eliminazione del pareggio di bilancio all’inserimento di una chiara formulazione del diritto alla casa, alla riscrittura dell’articolo 29 che definisce la famiglia “società naturale”, fino a chiarire che il lavoro su cui si fonda la Repubblica non è solo quello produttivo, ma anche quello riproduttivo.

I punti più dannosi della riforma da una prospettiva femminista

Con questa controriforma torniamo a una concezione del potere come qualcosa che appartiene a un piccolo gruppo di persone che con una legge elettorale iper-maggioritaria può facilmente ottenere una maggioranza decisiva alla Camera dei deputati (340 su 630 seggi). Sarà solo questa Camera a dare la fiducia al governo e a deliberare lo stato di guerra. Sarà un’artificiosa maggioranza a controllare l’elezione del presidente della repubblica, dei giudici costituzionali e dei membri laici del consiglio superiore della magistratura. In altre parole, non ci saranno contrappesi al “capo” – come lo chiama l’Italicum – che “guida” la lista che vince le elezioni. Il Senato diventerà una farsa, dovendo rappresentare istituzioni territoriali svuotate di ogni autonomia dal governo centrale. L’unica cosa certa è che non avremo più il diritto di eleggere i componenti del Senato. Non si tratta delle “dittatura della maggioranza”, ma dello strapotere di una minoranza. Per di più questa minoranza approverà le leggi secondo procedimenti legislativi molto complessi. Sarà sempre più difficile quindi esercitare alcun controllo politico. Questa riforma infatti parla una lingua burocratica che allontana la cittadinanza dalla cosa pubblica. Noi invece troviamo fondamentale che la Costituzione sia scritta in un italiano facilmente comprensibile a tutte/i.

Il nostro No si coalizza con il No di altri gruppi
Con il nostro No ci uniamo ad altri soggetti insubordinati ed esclusi, a chi cerca vie d’uscita dal precariato, a chi vuole accogliere i migranti e a chi costruisce reti di intimità e cura al di fuori della famiglia nucleare. Non abbiamo niente a che spartire con chi, come Salvini e Adinolfi, strumentalizza questo voto per perseguire campagne razziste e omofobe. Noi ci uniamo a tutte le donne, gli uomini e le soggettività che assumono il conflitto fra i sessi come un terreno per lottare contro altre diseguaglianze e discriminazioni. Diciamo No con chi si batte contro il verticalismo del potere, le facili guerre, il parlamento ostaggio del governo, lo svilimento del diritto di voto, l’aumento dei procedimenti legislativi, i governi di false maggioranze. E poi, non dimentichiamoci, che questa è una riforma voluta da un governo sostenuto da un parlamento eletto con una legge elettorale già dichiarata incostituzionale.

Per noi, questa volta, è importante non astenersi

Quello del 4 dicembre non è un voto per elezioni amministrative o politiche. Per alcune di noi è difficile trovare rappresentanza istituzionale e, quindi, l’astensione o l’annullamento della scheda elettorale può sembrare la scelta migliore. Questo referendum è diverso. Non solo non c’è quorum, ma si vota per respingere una controriforma che, in nome della governabilità e dell’efficienza, renderà l’Italia sempre più facile preda dei biechi interessi, nazionali e sovranazionali, delle politiche di austerità neoliberiste indirizzate dalle grandi società finanziarie come J.P.Morgan o dai gruppi alla Bilderberg. L’attuale Costituzione resta una delle migliori al mondo, per i suoi contenuti, le finalità e anche per la forma. La Costituzione, infatti, deve essere facilmente comprensibile a tutte e tutti in modo che ciascuna possa verificare che venga rispettata e attuata. Una Costituzione illeggibile, quale quella profilata dalla riforma, è utile solo a chi vuole evitare che si rivendichino i diritti e i principi in essa garantiti. Noi vogliamo andare oltre, non possiamo certo tornare indietro.

REFERENDUM, UNA LETTERA APERTA
A FABIO FAZIO
di Giandomenico Crapis

Caro Fazio, Lei è garbato, è simpatico, duetta alla perfezione con Littizzetto, ha varato con scelta indovinata un gradevole talk show con Salemme, Marzullo e Frassica, ha ripreso, sia benedetto, il «Rischiatutto» di Bongiorno. Lei invita gli attori e le attrici che piacciono, gli artisti emergenti, i cantanti che vanno, gli scrittori che vendono, gli sportivi di successo. Con loro la conversazione è piacevole, leggera, divertente, a volte anche interessante. Insomma, Fazio, Lei fa un bel programma, complimenti, e i risultati gliene danno atto. Però quando sceglie di cimentarsi con la politica Lei non funziona più. Di Pietro direbbe che con la politica Lei non ci «azzecca» niente. Tanto che, non di rado, quando invita i politici inciampa, scatena il caso, combina qualche guaio.

Invita Renzi, come la scorsa settimana, in piena par condicio elettorale: una dimenticanza. E l’Agcom l’ha bacchettata. La dimenticanza, perdipiù, è recidiva, infatti era successo anche a maggio scorso: altra ospitata, altra polemica, altro intervento Agcom, perché anche allora c’erano elezioni amministrative alle porte. Ancora: nel 2014 ci sono le primarie Pd per la scelta del segretario. E Lei che fa? Decide di offrire il palcoscenico della sua trasmissione ai candidati: Renzi, naturalmente, poi Cuperlo. Ma dimentica Civati, che però non se la prende più di tanto e le risponde con l’ironia.

Insomma pare proprio che quando Lei ha a che fare con par condicio o campagne elettorali, insomma con la politica, si confonda, sfiori l’incidente, perda d’un tratto quell’equilibrio che invece dispensa altrove con sapienza. Quella che la porta a selezionare per il suo programma un parterre di ospiti sempre nuovi, scelti con cura ed attenzione.

Virtù che smarrisce quando ha a che fare con i politici. Per dire: il premier in un anno è venuto da Lei già tre volte: non le sembra sinceramente un po’ troppo per una trasmissione della domenica sera? Faccia uno sforzo di fantasia e se proprio deve invitarli, questi politici, vada a scovare quelli meno noti, il cui lavoro magari meritevole si svolge lontano dal teatrino e senza riflettori. Le riuscirebbe molto meglio.

Anche perché, poi, Lei è troppo gentile, tanto educato, così poco incline al contraddittorio vivace, per avere a che fare con la politica. Sicchè lo spettacolo non è mai all’altezza: se alla star di turno basta far raccontare qualcosa di sé e dell’ultimo disco (o film, o libro), al politico devi pur rivolgere qualche domandina cattiva, impertinente, guardi che perfino Vespa lo fa. Metterlo, magari un pochino, in difficoltà. Una cosa che non è mai stata nelle sue corde.

La comprendiamo, ognuno ha il suo carattere. Ma se inviti Renzi per fagli fare uno spot per il sì, e l’Agcom ti rimprovera, poi devi invitare per il No un esponente del maggior partito di opposizione, e se non c’è Grillo puoi chiamare pur sempre Di Maio, che è vicepresidente della Camera, o un Di Battista, ma non Salvini. È l’abc del giornalismo. Altrimenti sorge il dubbio che tutto ciò non accada a caso, ma sia il frutto di una strategia. E noi questo non lo vogliamo pensare.

Veda Fazio, Lei ci piace molto quando fa quello che sa fare, meno quando si mette a fare cose che non sa fare. Ci perdoni l’impertinenza se ci permettiamo di rivolgerLe, con sincerità ma con affetto, un dolce rimprovero: lasci perdere la politica. Non fa per Lei.

Sarebbe interessante se qualcuno dei fautori del SI contestasse argomentatamente queste lucide affermazioni. Ma forse la maggioranza degli italiani preferisce stare sotto padrone e pensare meno.

La Repubblica, 19 novembre 2016

AMICI lettori, pensate davvero che la “riforma” costituzionale Renzi-Boschi-Verdini non costituisca un pericolo per le vostre libertà? Provate a ragionare su questi ineludibili dati di fatto.

Oggi in Italia vi sono tre schieramenti che ottengono grosso modo il 25/30% dei voti (il resto si disperde tra forze minori). Poiché ormai un terzo degli italiani non va a votare (e il fenomeno è in crescita), con la “riforma” suddetta e la concomitante nuova legge elettorale (sia nella versione Italicum che, forse ancora peggio, in quella “corretta Cuperlo”), chi rappresenta solo il 17/20% dei cittadini otterrà una schiacciante maggioranza assoluta in Parlamento (di nominati, dunque fedeli al Capo “ perinde ac cadaver”), il controllo della Corte Costituzionale, del Consiglio Superiore della Magistratura (da cui dipendono tutte le nomine ai vertici di Procure Tribunali e Cassazione), la scelta del Presidente della Repubblica (e la possibilità di facile impeachment nel caso non piacesse più e non si “allineasse”), il controllo della Rai, tutte le nomine delle Authority di “garanzia” (Consob, Privacy, ecc.), oltre ovviamente al governo.

Potrebbe vincere Renzi, potrebbe vincere Grillo, potrebbe vincere la destra- destra (in declinazione Berlusconi/ Salvini o Berlusconi/Parisi, a seconda degli umori di Arcore). Io voterò M5s, come faccio già da tempo, ma avrei paura se a questa forza andassero i poteri previsti dalla contro-riforma (chiamiamola col suo nome, vivaddio!) Renzi-Boschi-Verdini. E ne avrebbero anche i “cinquestelle”, responsabilmente, visto che hanno proposto una legge elettorale “proporzionale corretta” (tipo Spagna e in parte Germania) e sono impegnati per il No.

Perché con la contro-riforma costituzional-elettorale (le due cose sono inscindibilmente intrecciate proprio nel disegno dei promotori), un leader da 17/20% di consenso dei cittadini avrebbe un potere che sfiora quello di Putin e di Erdogan, senza necessità di ricorrere alla galera e alla violenza. E, ripeto, chi sia questo leader dipenderebbe da spostamenti minimi di voti (nel caso del turno unico saremmo addirittura alla roulette). Davvero questa prospettiva non vi gela il sangue?

Se non vi fa paura vuol dire che avete superato in atarassica serenità zen il più “disincarnato” dei monaci orientali, il che sarà magari ottimo per la vostra psiche e le vostre future reincarnazioni, ma per il funzionamento di una democrazia è micidiale. In ogni democrazia fondamentale è il rispetto delle minoranze, le garanzie per i bastian-contrario, i diritti civili e gli spazi di comunicazione reale di quella minoranza delle minoranze che è il singolo dissidente. Niente di tutto questo resta in piedi con le contro-riforme Renzi-Boschi-Verdini.

Vi flautano nelle orecchie: ma è il prezzo da pagare per l’efficienza, per la velocità del processo legislativo. Davvero ci siete cascati? Non l’avete ancora letto l’articolo 70 controriformato? Claudio Santamaria lo ha recitato in pubblico, alla manifestazione indetta da MicroMega con Maltese, Rodotà, Zagrebelsky, Carlassare, Ovadia e tanti altri, lo ha letto come si conviene a un grande attore e come esige la punteggiatura di quella pagina e mezzo (attualmente l’articolo 70 è di una riga): un incomprensibile labirinto mozzafiato di commi e sottocommi, su cui i giuristi hanno già dato una dozzina di interpretazioni diverse, una sbobba procedurale che garantirà ricorsi su ricorsi fino alla Corte Costituzionale. Santamaria ha detto che sembrava scritta da Gigi Proietti in uno dei suoi momenti satirici di grazia. Forse, ma certamente con la collaborazione del notissimo e manzoniano dottor Azzeccagarbugli.

Vi sventolano davanti agli occhi lo specchietto per le allodole dei costi della politica che diminuiscono, davvero ve la siete bevuta? Qualche decina di milioni in meno: costa assai di più ogni settimana semplicemente tener in vita l’ipotesi del Ponte sullo Stretto (se poi, con il Sì nelle vele, lo costruiranno davvero, saremmo a una tragedia da piangere per generazioni). E se i senatori saranno un pochino di meno, in compenso i politici regionali e comunali che andranno in quegli scranni godranno del premio più ambito per i troppi politicanti che della politica fanno mercimonio e profitto: l’amatissima immunità. I costi della politica si tagliano in radici riducendo a zero le migliaia e migliaia di consigli di amministrazioni delle “partecipate”, le migliaia e migliaia di consulenze di nomina politica, il groviglio ciclopico di enti inutili, e insomma i milioni di persone che “vivono di politica”, e lautamente, per meriti che con il merito hanno ben poco a che fare.

Millantano che con il Sì combatterete la Casta, ma la Casta sono loro, ormai, il giglio magico e le sue infinite propaggini, l’indotto di nuovi piccoli satrapi messo in moto dalle Leopolde, le incredibili mediocrità assurte a posizioni apicali, le imbarazzanti nullità innalzate nell’Olimpo dell’intreccio affaristico- politico, che ormai fanno apparire uno statista perfino Cirino Pomicino.

Col No, il No che conta, vince invece la società civile di questo quarto di secolo di lotte. Che ha come programma l’unica grande riforma necessaria: realizzare la Costituzione, che i conservatori di sempre hanno bloccato, edulcorato, sfigurato, avvilendola nella camicia di forza della “Costituzione materiale”, democristiana prima, del Caf (Craxi Andreotti Forlani) poi, infine di Berlusconi (che con le sue televisioni ammicca al Sì e a chiacchiere sta col No, il solito piede in due scarpe), e oggi del suo nipotino Renzi.

Se col tuo voto vincerà il No, amico lettore, non ci sarà nessuna instabilità, semplicemente diventerà inevitabile un governo di coerenza costituzionale, e si aprirà la strada per l’unico rinnovamento di cui l’Italia ha bisogno, quello che porta scritto “giustizia e libertà” e come stella polare ha l’eguaglianza incisa nella Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza.

«Disperati per la mancanza di credibili argomenti di merito, i sostenitori del Sì sono ripiegati nella loro ultima ridotta: occorre comunque votare a favore della riforma, anche se si tratta di un cambiamento peggiorativo, perché altrimenti cade il governo e arrivano i barbari (variamente incarnati da Grillo o Salvini)».

il manifesto, 19 novembre 2016

Il ragionamento è sorprendente. E non tanto perché, se davvero il Paese è costretto al bivio tra una riforma dannosa e un populismo pericoloso, occorrerebbe anzitutto chiamare a risponderne chi – Renzi – lo ha irresponsabilmente messo in questa condizione. Davvero sarebbe una consolazione rimanere nelle mani di una persona tanto incapace e spregiudicata?

Ma, soprattutto, la posizione sorprende perché, per evitare un pericolo ipotetico ed evitabile oggi, crea un pericolo reale e inevitabile domani.

Iniziamo dal primo. Nessuno può realmente sapere cosa accadrà il 5 dicembre in caso di vittoria del No, se Renzi si dimetterà o resterà al suo posto. In questi giorni sta cercando in tutti i modi di drammatizzare la situazione, ma quale realmente sarà il quadro politico all’indomani del referendum, quale la posizione delle diverse forze politiche, quali i convincimenti del Presidente della Repubblica è impossibile prevederlo.

Molto dipenderà anche dalla misura della sconfitta del Sì, perché, qualora fosse limitata, Renzi potrebbe pur sempre rivendicare un risultato superiore rispetto all’attuale consistenza del suo partito. Il punto fondamentale, in ogni caso, è che con la prevalenza del No occorrerà riscrivere le leggi elettorali per Camera e Senato, essendo il quadro elettorale attuale calibrato sulla vittoria del Sì.
Sul tavolo c’è già la proposta dei 5 Stelle, molto ben congegnata dal punto di vista tecnico e, soprattutto, largamente connotata in senso proporzionalistico (sia pure con soglie di sbarramento implicite piuttosto elevate). Anche Forza Italia, attraverso Silvio Berlusconi, ha lasciato intendere una propensione per la proporzionale. Se anche il Pd muovesse in questa direzione, svaporerebbe qualsiasi rischio che una eventuale vittoria delle forze populistiche possa tradursi in un loro governo incontrastato, perché la loro consistenza elettorale è ben lontana dalla maggioranza assoluta dei consensi. È questo che ci si aspetta da una forza politica responsabile: che, una volta individuato un pericolo, metta in campo le strategie atte a scongiurarlo. Tanto più, se si tratta di strategie a portata di mano… Detto più nettamente, se vincesse il No nessun panico è giustificato: si faccia una riforma elettorale sul modello proporzionale e si torni al voto. Quale che sarà il risultato, nessuno avrà le leve del potere a sua completa disposizione.

Tutto il contrario se vince il Sì. Il cambiamento di Costituzione creerebbe infatti un’incredibile concentrazione di potere nelle mani del partito di maggioranza e, in particolare, del suo “capo”, che si ritroverebbe alla guida sia del governo sia della maggioranza parlamentare. L’esecutivo, vero nuovo fulcro del sistema, otterrebbe i poteri necessari a condizionare sia l’attività del Parlamento (grazie al voto a data certa) sia l’attività delle regioni (grazie alla clausola di supremazia affidata al governo anziché, com’era nella Costituzione del 1948, al Parlamento). Persino l’autonomia degli organi di garanzia – Presidente della Repubblica, Corte costituzionale, Csm – ne risulterebbe gravemente compromessa, a causa delle modalità di elezione o dei vincoli posti alle loro modalità di funzionamento.

Insomma: dalla vittoria del Sì scaturirebbe un sistema del tutto squilibrato, avulso dalla tradizione del costituzionalismo, più simile a quel che si vede oggi in Russia o in Turchia che all’assai più ponderato presidenzialismo statunitense. Certo, con il Sì Renzi resterebbe al suo posto, ma quale certezza c’è che lo steso accada anche dopo le elezioni politiche del 2018? Lo scenario è apertissimo e nessuna persona di buon senso, dopo l’elezione di Trump, può escludere a priori una vittoria delle forze populiste. Un esito che, a quel punto, con il nuovo sistema costituzionale, metterebbe il vincitore in condizione di governare l’Italia per 5 lunghissimi anni, senza incontrare ostacoli di sorta.
Ecco allora che, a prendere sul serio la preoccupazione che vanno esprimendo i sostenitori del governo, se ne ricava un potente argomento a favore del No. Chi davvero è preoccupato che le elezioni possano essere vinte da una forza politica che reputa pericolosa (quale essa sia), chi davvero teme il ripetersi in Italia di un caso Trump, non può far altro che votare No, perché il No è l’unica garanzia che, anche se dovesse vincere il peggior politico del mondo, chi accede al potere non si troverà in condizione di poter fare quello che vuole.
«Il sostituto del processo Stato-mafia, Nino Di Matteo, spiega, stavolta da Palermo, perché si batte per il no al referendum: "Obbedisco solo alla Costituzione, non ai gove

rni"». Il dubbio online, 18 novembre 2016 (c.m.c.)

«Noi non facciamo spot. Parliamo della riforma costituzionale, certo, ma proponiamo discussioni di merito». Michele Pagliaro fa di mestiere il sindacalista: è il segretario della Cgil Sicilia. Annuncia l'incontro palermitano che di lì a poche ore, mercoledì pomeriggio, vedrà sul banco degli oratori il pm antimafia Nino Di Matteo. Titolo: "Le nostre ragioni del no". Promotore, con l'organizzazione di Susanna Camusso, l'Associazione nazionale partigiani, rappresentata dal presidente Carlo Smuraglia.Location austera come si conviene: la sede della Società di Storia patria, nel cuore del capoluogo siciliano.

Ma con Di Matteo non ci si limita mai alla sobria accademia. C'è sempre un tocco di appassionato furore, che neanche stavolta il magistrato fa mancare. L'apice arriva quando il sostituto che rappresenta l'accusa al processo Stato-mafia spiega perché lui, magistrato, attacca a testa bassa la riforma e suoi promotori: «Ci sono momenti in cui un magistrato ha il dovere etico di esprimersi: io non dimentico di aver giurato fedeltà alla Costituzione, non obbedienza ai governi o ad altre istituzioni politiche, né alle persone che rivestono, alcune volte anche indegnamente secondo il mio parere, le cariche istituzionali».

Toni da crociata, che trovano ispirazione nell'idea del giudice come paladino estremo della Costituzione, illustrata mesi fa da un altro pm palermitano, Roberto Scarpinato: «La magistratura deve vigilare sulla lealtà costituzionale delle contingenti maggioranze di governo», disse a Repubblica il procuratore generale, «e fra più interpretazioni possibili della legge, deve privilegiare quella conforme alla Costituzione». Fino a impedire che, di quest'ultima, le «maggioranze» possano arrivare ad alterare i principi fondamentali.

Di Matteo come Scarpinato, dunque: guardiano estremo della democrazia, pronto a battersi contro gli altri due poteri dello Stato. Certo sarà inevitabile d'ora in poi leggere all'interno di tale quadro ideologico i diversi aspetti della vita pubblica del pm Di Matteo, dalle sue accuse al processo sulla "trattativa" alla sua aspirazione a far parte della Direzione nazionale antimafia (è di nuovo in lizza per uno dei 5 posti di sostituto, dopo aver rifiutato di esservi trasferito d'ufficio dal Csm).

E diventa d'altra parte difficile ricordarsi che Di Matteo è un pubblico ministero quando dice, come ha fatto sempre giovedì a Palermo, che «la riforma è stata adottata e votata da un Parlamento eletto con una legge elettorale dichiarata illegittima dalla Consulta» e che «un Parlamento così eletto non è moralmente legittimato a modificare la Costituzione». Nessuno in platea gli chiede di indicare il punto in cui la Carta parla di legittimazione morale a riformarla.

All'incontro organizzato da Cgil e Anpi, il pm ha sfoderato tutto l'armamentario oratorio già visto in recenti altre uscite referendarie, a Firenze per esempio: la riforma firmata da Matteo Renzi e Maria Elena Boschi, dice, «segue un percorso di sostanziale restaurazione, una svolta in senso autoritario». La magistratura deve schierarsi in prima linea per impedire che sia portata a termine l'offensiva contro le istituzioni democratiche. Anche perché la riforma produrrebbe sul potere giudiziario «gravi conseguenze».

Comprometterebbe in modo irreparabile il «delicato equilibrio, fondamento di ogni democrazia, del principio di separazione dei poteri: c'è il rischio di sbilanciarlo», appunto, «a vantaggio del potere esecutivo rispetto a quelli legislativo e giudiziario». La maginot è la Costituzione che non va «cambiata» ma semplicemente «applicata», a partire da quella che evidentemente per il pm della "trattativa" è l'architrave dello Stato moderno: «Considerare mafia e corruzione come negazione dei principi costituzionali e principali fattori di inquinamento della democrazia».

Il merito di cui parlava il povero segretario della Cgli Pagliaro resta schiacciato dalla metapolitica: Di Matteo si limita all'ormai consumata tesi per cui «non si può scindere il giudizio sulle modifiche alla Costituzione da quello sulla legge elettorale, che sacrifica il principio di rappresentatività sul totem della stabilità dei governi». Spunta se non altro uno slogan originale: «Si passa da un bicameralismo perfetto a uno confuso». Perché? «Il Senato continuerà ad esistere: si ingenererà una confusione totale sull'impiego part time di consiglieri regionali e sindaci, che dovranno svolgere entrambe le cariche».

Tutta qui, la nuova Costituzione che Renzi vorrebbe far ingoiare agli italiani. «L'unica certezza sarà l'acquisizione di spazi di immunità penale per consiglieri e sindaci, che, senza voler colpevolizzare in maniera generalizzata, sono largamente interessati da indagini e processi in corso». Ecco. E qui interverrà la magistratura inquirente igiene del mondo. Senza neppure dover forzare la legge all'interpretazione più fedele alla Carta, come predica Scarpinato.

il manifesto, 18 novembre 2016
Non mancano, apparsi negli ultimi mesi, studi seri che affrontano, in punto di diritto e nella loro rilevanza politica, le questioni sollevate dalla attuale proposta di riforma costituzionale che interviene su quasi cinquanta articoli della Carta.

Si tratta di contributi ai quali può opportunamente far ricorso chi voglia acquisire i termini e gli argomenti sui quali è impostata e viene articolandosi la discussione in corso e intenda farsi, pertanto, un’opinione ponderata in vista dell’imminente referendum. Quegli studi seri mettono bene in luce gli intendimenti che orientano le correzioni che si vogliono apportare al dettato e allo spirito della Costituzione. Detto in estrema sintesi: depotenziare il ruolo centrale del parlamento e conferire poteri accresciuti all’esecutivo.

Tale il nucleo della riforma. Che poi, nella fattispecie, questa opzione di principio si affermi in un articolato denso di idiotismi giuridici, quindi foriero di complicanze facilmente prevedibili (si pensi solo al nuovo Senato: modalità della sua composizione; funzioni; competenze; sue relazioni con la Camera dei deputati) è da imputare alla scarsa e difettiva qualità della cultura del legislatore, ovvero alla rozzezza di un ceto politico ampiamente espresso da clientele corrotte e per lo più selezionato in virtù di legami personali (non per caso si tratta di un parlamento eletto con una legge dichiarata incostituzionale).

Sta di fatto che la scelta che opera al rafforzamento della funzione esecutiva è, nella torsione che muta la figura costituzionale del presidente del Consiglio dei ministri (Art. 95) in capo del Governo, bene interpretata dal primo ministro in carica. Si dirà che, nel caso di Matteo Renzi, non mancano elementi caricaturali, nella mimica e nei gesti e più nell’eloquio e nella fraseologia. Ma sarebbe un errore attribuirli ad un tratto solo caratteriale. Molti osservano in lui l’esercizio di doti brillanti, se virtù sono l’astuzia e la spregiudicatezza, ma di poco momento e di un costrutto illusionistico che rasenta l’irresponsabilità.

Anche la qualità dei capi è varia e diversa la loro durata. Si vuol dire che la figura del Capo, in politica, vive di sottolineature e di accentuazioni. Esse debbono connotare in modo riconoscibile prese di posizione e decisioni espresse secondo un tratto personale che, di necessità, pur se a varie gradazioni e a intensità diverse, si afferma e cresce da una retrostante radice apodittica. Il capo interpreta.

In politica più che attore è autore. E anche la qualità degli autori varia. Valga il vero. Nella quotidiana discussione che agita in gran crescendo la campagna referendaria in corso, uno dei cavalli di battaglia prediletti di Renzi è il seguente: da oltre trent’anni si ammette che è necessario intervenire sulla Costituzione.

Dopo tanta inconcludenza oggi, grazie a un Capo del Governo che non si fa intimidire dai cacadubbi, ecco, la riforma si fa. Un taglio definitivo col passato di un’aula parlamentare tanto ciarliera quanto inetta. Una riforma che apre al futuro. Questa ricostruzione è – coerentemente, va detto – una caricatura operata da Renzi in veste di autore di storia. Dicevamo di contributi seri che val la pena leggere. Mi sia permesso consigliarne uno che si deve a Giuseppe Cotturri, pubblicato da Ediesse. Alludo a “Declino di partito. Il Pci negli anni Ottanta visto da un suo centro studi”, prefazione di Maria Luisa Boccia. Si può apprezzare qui, illustrato nel corso di un quindicennio, il ricchissimo, esemplare lavoro di ricerca analitica, di elaborazione teorica e giuridica e di coinvolgimento di soggetti politici e sociali svolto sulla riforma della Costituzione dal “Centro studi e iniziative per la Riforma dello Stato” presieduto da Pietro Ingrao.

». il manifesto, 6 novembre 2016 (c.m.c.)

Era un Matteo Renzi che nella sua second life vuole essere Carlo Conti, e l’accoppiata Boschi-Nardella che gioca a chi le spara più grosse con risultati spassosi, gli unici momenti effervescenti della seconda giornata della Leopolda si vivono in piazza San Marco. Qui, a chilometri dalla vecchia stazione, il migliaio di movimentisti che hanno raccolto l’appello “Firenze dice No” cerca di avviare comunque un corteo, vietato dalla Questura che per l’occasione ha fatto le cose in grande: 800 agenti presidiano la kermesse renziana, altre centinaia in assetto antisommossa bloccano ogni pertugio che da San Marco porti anche lontanamente in direzione della Leopolda.

La missione impossibile di andare perlomeno in direzione del Duomo si risolve in cinque, dieci minuti di tensione. Da una parte i manifestanti, a volto scoperto per il 99%, che gettano arance, mandarini, ortaggi e qualche sasso verso le forze dell’ordine, con fumogeni e petardi a fare da contorno. Dall’altra parte si risponde con due, tre robustissime cariche a suon di sfollagente, e un bel po’ di lacrimogeni che fanno tanto atmosfera. Risultato: tre agenti contusi, altrettanto ammaccati una ventina di giovani manganellati, un singolo fermato. «Scontri drammatici», titolano i telegiornali a reti unificate. «Prove generali della nuova democrazia dopo la riforma costituzionale?», annota Nicola Fratoianni di Sinistra italiana.

Ecco la manifestazione vista con gli occhi del sindaco Nardella: «Manifestare il dissenso è un diritto, sfasciare una città è ignobile e inaccettabile«. Lo «sfascio della città» non esiste: il corteo si incammina poi verso piazza Santissima Annunziata – unico luogo permesso dalla Questura per manifestare – e da lì si dirige verso l’Arno passando per piazza d’Azeglio, Sant’Ambrogio e Borgo la Croce. Vie dello shopping, illuminate e con tutti i negozi aperti. E intatti. La manifestazione si chiude di fatto in piazza Beccaria, quando comincia a piovere troppo forte e il caotico traffico del sabato, a stento bloccato per qualche minuto dai vigili, esonda come l’Arno del 4 novembre 1966.

Di fronte al giochino pomeridiano della Leopolda – le “Bufale del No” – condotto dal duo Boschi-Richetti e con i quattro prof del Sì (Ceccanti Minelli Vassallo Clementi) a far la parte del notaio Peregrini, non c’è da stupirsi che fra il pubblico sia tutto una smanettare di smartphone, per vedere in streaming cosa sta succedendo fuori. Nondimeno l’ineffabile ministra Boschi offre autentici pezzi di bravura: «Meglio cinque minuti in più per leggere il nuovo articolo 70 della Costituzione, e cinque anni in meno per approvare una legge». I bastonati dal jobs act, dalla legge Fornero e dalle altre leggine approvate anche dal Pd a tambur battente, dal fiscal compact al pareggio di bilancio in Costituzione, si sentiranno presi per i fondelli. Ma tant’è.

Ancora Maria Elena Boschi superstar, in risposta alla molto presunta “bufala” secondo cui la riforma sarebbe stata scritta sotto la spinta delle banche d’affari: «Il referendum è decisivo. La riforma la scriviamo noi, cittadini e cittadine, non gli speculatori e i banchieri». Evidentemente, per Boschi, l’ormai celebre report di Jp Morgan sulle costituzioni troppo “socialiste” dei paesi del Mediterraneo è solo un fake, messo in giro da chi non ama il governo. Gran finale sulla legge elettorale: «Dopo che non si faceva da dieci anni, noi ci siamo riusciti».

L’allieva Boschi non riesce comunque a superare il maestro Renzi, che doveva parlare solo la domenica ma si è subito accorto che la kermesse stentava. Di qui la decisione di salire sul palco già nella serata di venerdì, per accontentare una platea di umore ben diverso rispetto agli anni dell’assalto al cielo di Palazzo Chigi. Il bis in apertura della sessione “costituzionale”, con l’immancabile attacco alla minoranza Pd: «Sono tanti quelli che l’hanno votata, e poi hanno cambiato idea…». Come lui con la tramvia (nemmeno mezzo metro in cinque anni da sindaco…), quando accusa la sindaca romana Raggi «di bloccare le metropolitane, le tramvie, di bloccare il paese».

Prigioniero della sua immagine allo specchio, l’inquilino di Palazzo Chigi batte e ribatte sullo stesso tasto: «Per ripartire bisogna cambiare la Costituzione». E via con gli interventi di “imprenditori, professionisti, studenti” che magnificano l’opera riformatrice del governo e innalzano il mantra: «Cambiamento, cambiamento, cambiamento». Del resto, se fino ad oggi ha funzionato, perché non continuare?

La ragione che già di per sé sola dovrebbe indurre gli elettori a votare No nel prossimo referendum costituzionale, è che il Parlamento eletto per la XVII legislatura è stato dichiarato radicalmente illegittimo dalla Consulta, avendo l’abnorme premio di maggioranza previsto dal Porcellum determinato un’«eccessiva sovra- rappresentazione della lista di maggioranza relativa», in violazione della rappresentanza elettorale, della parità del voto dei cittadini e della stessa sovranità popolare (così la Corte costituzionale nella sentenza n. 1 del 2014).

Infatti, per limitarci agli esempi più rilevanti, grazie al Porcellum, il Pd anziché 165 seggi ottenne 292 seggi, mentre il PdL anziché 148 seggi ne ottenne 97, la lista Monti anziché 57 ne ottenne 37 e il M5S anziché 166 ne ottenne 108. In forza degli ovvii fondamentali principi delle democrazie parlamentari, avrebbe quindi dovuto disporsi l’immediato scioglimento delle Camere da parte del Presidente della Repubblica e la convocazione dei comizi elettorali per un nuovo Parlamento.

Tuttavia la Corte costituzionale - alla luce dell’altrettanto ovvio principio secondo il quale le leggi elettorali sono «”costituzionalmente necessarie”, in quanto “indispensabili” per assicurare il funzionamento e la continuità degli organi costituzionali» - opportunamente avvertì che lo scioglimento delle Camere non avrebbe potuto avvenire se non dopo l’approvazione di nuove leggi elettorali, rispettose della rappresentanza elettorale e della parità del voto.

Pertanto, le leggi che fossero state successivamente approvate nella XVII legislatura - ancorché viziata - , avrebbero dovuto essere considerate legittime grazie al «principio fondamentale della continuità dello Stato» e dei suoi organi costituzionali (così, ancora, la Corte): un principio che però - si badi bene - non si pone, né si può porre, come “alternativo” al principio democratico: irrispettoso del voto popolare come fonte di legittimazione dell’operato delle Camere. Il che è tanto vero che nelle ultimissime battute della sentenza n. 1 del 2014, la Corte, nel richiamare gli articoli 61 e 77 della Costituzione, fa chiaramente comprendere che il principio della continuità avrebbe potuto valere tutt’al più per pochi mesi.

Ciò nondimeno, appena quattro mesi dopo la pubblicazione della sentenza della Consulta e due mesi dopo la costituzione del suo governo, il premier Renzi dava irresponsabilmente inizio ad un percorso di riforma costituzionale, che le opposizioni immediatamente e ripetutamente criticarono, in via preliminare, sia al Senato (e poi anche alla Camera), perché il disegno di legge Boschi si poneva in plateale contrasto con la sentenza della Corte costituzionale. Notevole e assai importante, in tal senso, è il documento contenente la questione pregiudiziale posta dai senatori Crimi, Endrizzi, Magili, Morra e altri (M5S), presentato il 4 luglio 2014, ovviamente respinto dalla maggioranza.

È bensì vero che, in quei primi mesi del 2014, lo scioglimento anticipato delle Camere avrebbe portato alle stelle lo spread nei confronti del Bund tedesco e quindi in quel momento era sconsigliabile. Tuttavia altro è continuare, nell’ordinaria funzione legislativa e di controllo, con un Parlamento delegittimato, ma per un periodo limitato del tempo, altro è l’azzardo istituzionale di dare inizio ad una mega riforma costituzionale con un Parlamento viziato dall’«eccessiva sovra-rappresentazione della lista di maggioranza relativa», con parlamentari “nominati” insicuri di essere rieletti e perciò esposti alla mercé del migliore offerente (le migrazioni da un gruppo all’altro sono state ben oltre 300!).

Non sto qui a ricordare le palesi violazioni procedurali che hanno costellato il procedimento di riforma costituzionale (irrituali sostituzioni di componenti della Commissione Affari costituzionali del Senato, privazione delle opposizione del diritto di avere un relatore di minoranza, applicazione del metodo del “super canguro” per porre fuori gioco gli emendamenti delle opposizioni, e così via) che hanno abbassato il disegno di legge Boschi a livello di una qualsiasi legge ordinaria, né sto a lamentare ancora una volta le plateali violazioni costituzionali poste in essere dalla riforma Boschi da me ripetutamente evidenziate in questo giornale.

È infatti sufficiente ricordare che questa riforma - pasticciata e incostituzionale perché viola l’elettività diretta del Senato, il principio di eguaglianza e di razionalità nella composizione del Senato, la rilevanza costituzionale delle autonomie regionali e così via - è stata criticata da ben dieci ex presidenti e da dieci ex presidenti della Corte costituzionale. Il che non era mai accaduto finora.

Piuttosto è doveroso sottolineare che, nonostante la sua gravità, la violazione della sentenza della Corte e l’illegittimità della XVII legislatura sembrano esser state “rimosse” dalla memoria dei sostenitori del Sì (penso all’intervista di Giorgio Napolitano del 10 settembre su questo giornale) o, quanto meno, “dimenticate” dai sostenitori del No (alludo a Massimo D’Alema, che ritiene che la XVII legislatura andrebbe sciolta alla sua scadenza del 2018!).

La gravità dell’accaduto è invece tale da configurare - qualora l’esito del referendum fosse positivo - un “fatto eversivo” della vigente Costituzione, che pertanto inciderebbe, con la forza del “potere costituente”, sui rapporti Stato-Regioni (e quindi sulla forma di Stato), sulla forma di governo nonché sulla stessa Parte prima della nostra Costituzione.

Cioè sulle forme di esercizio della sovranità popolare, sul principio di eguaglianza, sulla libertà di voto e sugli stessi diritti sociali. Il che avverrebbe grazie ad un Parlamento privo di contro- poteri, con un Senato ridotto ai minimi termini e incapace di funzionare e con i diritti delle opposizioni rimesse ai regolamenti parlamentari alla mercé della maggioranza.

«Nessuno è in grado di spiegare quali siano le differenze tra la "valorizzazione" (su cui potrà legiferare solo lo Stato) e la "promozione" (su cui lo potranno fare anche le Regioni): ed è facile prevedere che, ove la riforma fosse approvata, si aprirebbe una nuova stagione di feroce contenzioso».

La Repubblica 28 ottobre 2016 (c.m.c.)

Con il referendum d’autunno saremo chiamati a decidere anche del futuro dell’ambiente e del patrimonio culturale della nazione. Non molti lo sanno, perché il dibattito sulla riforma costituzionale non ha finora lasciato spazio all’analisi dell’impatto che essa avrà su quest’ambito cruciale. Eppure i cambiamenti del riparto delle competenze tra Stato e Regioni introdotti dal nuovo articolo 117 comportano conseguenze rilevanti.

Come è ben noto, l’assetto attuale di quell’articolo è frutto della riforma del titolo V della Carta promossa nel 2001 da un Centrosinistra sotto la pressione dell’assedio secessionista della Lega. Schizofrenicamente, esso mantiene allo Stato la «legislazione esclusiva» in fatto di «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali», ma assegna alla legislazione concorrente delle Regioni la «valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali ».

Una mediazione che ha funzionato solo sulla carta: perché i confini tra la tutela e la valorizzazione sono impossibili da fissare in teoria, e a maggior ragione in pratica. Infatti l’unico risultato di quella riforma è stato un enorme contenzioso tra Stato e Regioni, che ha intasato per anni la Corte Costituzionale e ha finito per intralciare pesantemente il governo del patrimonio culturale.

Una riforma di quella riforma era dunque auspicabile: purché riuscisse a risolverne i guasti optando con decisione per una soluzione (statalista o regionalista), o almeno dividendo le competenze con chiarezza.

Non è questo, purtroppo, l’esito della riforma su cui siamo chiamati a votare. Perché, se da una parte l’articolo 117 ricompone l’unità naturale assegnando (condivisibilmente) allo Stato la legislazione esclusiva su «tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici », dall’altra lo stesso articolo assegna, contraddittoriamente, alle Regioni la potestà legislativa «in materia di disciplina, per quanto di interesse regionale, delle attività culturali, della promozione dei beni ambientali, culturali e paesaggistici».

Esattamente come nel caso, ben più noto, dell’iter legislativo tra Camera e nuovo Senato, anche in questo settore la riforma crea più incertezza e confusione di quante non riesca a eliminarne. Sia che le intendiamo (come dovremmo) in senso culturale, sia che le intendiamo (come accade normalmente) in senso commerciale nessuno è infatti in grado di spiegare quali siano le differenze tra la «valorizzazione» (su cui potrà legiferare solo lo Stato) e la «promozione» (su cui lo potranno fare anche le Regioni): ed è facile prevedere che, ove la riforma fosse approvata, si aprirebbe una nuova stagione di feroce contenzioso.

Ma cosa ha in mente il riformatore che prova a introdurre in Costituzione la nozione di promozione? Un’analisi del lessico attuale della politica mostra che siamo assai lontani da quel «promuove lo sviluppo della cultura» che, d’altra parte, i principi fondamentali (all’articolo 9) assegnano esclusivamente alla Repubblica (intesa come Stato centrale, come chiarisce la lettura del dibattito in Costituente). Tutto il discorso pubblico del governo Renzi dimostra che «promozione» va, invece, intesa in senso pubblicitario, come sinonimo di marketing. E anzi, i documenti ufficiali del Mibact arrivano a dire apertamente (cito un comunicato del 2 maggio) che il patrimonio stesso è «uno strumento di promozione dell’immagine dell’Italia nel mondo».

Se, dunque, la promozione è questa, è difficile capire perché, in uno dei pochi interventi del governo su questo punto della riforma (il discorso del ministro Dario Franceschini all’assemblea di Confindustria), si sia affermato che la riforma diminuirebbe la spesa, per esempio impedendo alle Regioni di aprire uffici promozionali all’estero: quando, al contrario, l’invenzione di una competenza regionale proprio in fatto di promozione apre le porte a una stagione di spesa incontrollata.

La grave approssimazione con cui il riformatore si è occupato di patrimonio culturale risalta particolarmente quando si consideri la determinazione e la coerenza con cui egli ha, invece, affrontato il nodo delle competenze — strettamente collegate — in materia di governo del territorio e dell’ambiente: competenze da cui vengono rigidamente escluse le Regioni, cui pure è affidata la redazione e l’attuazione dei piani paesaggistici.

L’articolo 117, infatti, riserva senza equivoci allo Stato la legislazione in fatto di «produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia e di infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione d’interesse nazionale e relative norme di sicurezza; porti e aeroporti civili, di interesse nazionale e internazionale». Tutte materie, queste, che l’articolo 116 esclude esplicitamente da quelle su cui le Regioni potrebbero in futuro godere di «particolare autonomia»: laddove lo stesso articolo continua, invece, ad ammettere che essa possa investire i beni culturali e il paesaggio.

La ratio di queste norme era stata anticipata dallo Sblocca Italia del governo Renzi, che la Corte ha giudicato incostituzionale proprio dove ha estromesso la voce delle Regioni da materie sensibili per la salute dei cittadini come gli inceneritori, o le trivellazioni: uno degli obiettivi della nuova Costituzione è evidentemente proprio quello di impedire, in futuro, referendum come quello sulle trivelle.

E non è dunque un caso che la campagna del Sì si apra riesumando la più insostenibile delle Grandi Opere: il Ponte sullo Stretto di berlusconiana memoria. Insomma: se si tratta di decidere come consumare il suolo, le Regioni vengono escluse. Ma vengono invece riammesse al banchetto della mercificazione del patrimonio culturale. C’è evidentemente del metodo in questa, pur confusa, revisione costituzionale: ma è un metodo che rafforza le ragioni di chi si appresta a votare no.

Un confronto tra Raniero La Valle e Michele Serra su un argomento rilevante del dibattito politico di queste settimane; nonché sul futuro di noi tutti.

La Repubblica, 26 ottobre 2016, con postilla


LA DOMANDA
di Raniero La Valle

CARO Serra, su “L’amaca” di domenica scorsa, lei si è mostrato d’accordo — e la ringrazio — con la mia “spiegazione” (citata da Micromega), secondo cui la Costituzione renziana è il punto d’arrivo di una restaurazione consistente nel trasferire la sovranità dal popolo ai mercati, concetto da lei definito “folgorante” per quanto è vero. Ma poiché ciò si sarebbe già realizzato da tempo, segnando una sconfitta della sinistra, nella quale lei stesso si annovera, i trenta-quarantenni di oggi non farebbero che prenderne atto. Secondo questa tesi la riforma Boschi-Renzi non farebbe che tradurre in norme questa nuova realtà, e questa sarebbe la ragione per votare “Sì” a questa innocente proposta. Ne verrebbe dunque confermato che il popolo non è più sovrano, sovrani sono i mercati e la nuova Costituzione invece di permettere e promuovere la riconquista della sovranità al popolo, la consegnerebbe, irrevocabile, al Mercato. E poiché le Costituzioni sono destinate a durare, questa è la scelta che noi, sconfitti, lasceremmo a determinare la vita delle generazioni future.

È molto sorprendente che questa posizione (implicita ma negata nella propaganda ufficiale) sia ora resa esplicita e formalizzata su Repubblica. Certo, non c’è niente di disonorevole in una sconfitta politica. Ma nel passaggio dello scettro dal popolo ai signori del Mercato non c’è solo la sconfitta della sinistra, c’è la sconfitta di tutto il costituzionalismo moderno e dello stesso Stato di diritto: il popolo sovrano è il cardine stesso della democrazia e della Costituzione. Mettere super partes la nuova realtà per cui esso è tolto dal trono, sottrarre questo mutamento alla lotta politica, accettarlo come un fatto compiuto e finale, non è solo un efficientismo da quarantenni, è una scelta. E se a farlo è la sinistra, non è solo una sconfitta, è una caduta nella “sindrome di Stoccolma”, è un suicidio, ma col giubbotto esplosivo addosso, che distrugge insieme alla sinistra la politica, la democrazia e la libertà.

LA RISPOSTA
di Michele Serra

CARO La Valle, io credo che la riforma Boschi- Renzi non c’entri nulla con la perdita di sovranità del popolo e il trionfo dei mercati. Credo preveda un blando rafforzamento dell’esecutivo, una semplificazione (sperata, chissà se realizzabile) degli iter legislativi e un pasticciato rimaneggiamento del Senato che sarebbe stato molto meglio abolire per passare a un sistema monocamerale. Credo, insomma, che si tratti di una riforma tecnico-istituzionale sulla quale è assurdo scaricare il peso di mutamenti strutturali della società e dell’economia (la “sovranità dei mercati”) già avvenuti da tempo, nonostante gli sforzi, a volte generosi a volte solo presuntuosi, di una sinistra che non ha retto l’urto del cambiamento e forse di quel cambiamento, in qualche caso, neppure si è avveduta.

Credo anche che di quei mutamenti strutturali della società occidentale, in specie della fine della centralità operaia e del lavoro salariato a tempo determinato, Renzi non sia certo il fautore, né, per dirla con una battuta, l’utilizzatore finale. Al massimo gli si può imputare di esserne il gestore a cose fatte, ma al pari di TUTTA la politica corrente, che appare succube degli assetti economici e con un margine di intervento minimo. Veda un poco, come vicenda amaramente esemplare, il pochissimo che è riuscito a fare il governo di sinistra-sinistra insediatosi in Grecia con la speranza, evidentemente eccessiva, di un cambiamento paradigmatico rispetto alle politiche di austerità imposte dall’Unione Europea.

Infine, per utilizzare il suo stesso metro di valutazione, le dirò che la “sovranità del popolo” non mi pare sia stata efficacemente rappresentata e tutelata dai precedenti assetti normativo-funzionali delle nostre istituzioni, a meno che i 62 governi (in neanche settant’anni) che hanno preceduto questo siano da considerarsi il sintomo di una estrema vivacità politica del popolo italiano.

postilla

Una risposta davvero deludente quella di Michele Serra. Ecco un altro che crede nella “fatalità” di una politica che si accoda agli eventi invece di cercar di guidarli, magari contrastandoli. Ecco un altro che crede nel primato della difesa dell’economia data (l’ultima incarnazione del capitalismo) su ogni ricerca di possibili alternativa. Ed ecco un altro che parla della riforma Renzi-Boschi senza averla studiata, se scrive, come scrive, di leggervi una semplificazione degli iter legislativi; e che comunque non la legge nel contesto in cui viene imposta, se scrive di un “blando rafforzamento” dell’esecutivo, e non del consolidamento di un processo avviato da Renzi fin dal giorno del suo impadronirsi del PD.

Deludente infine quando poi misura la “sovranità popolare” nel numero di governi succedutisi in 70 anni, anziché nel suggello che la Costituzione del 1948 seppe dare al lavoro iniziato dai tempi della rivoluzione borghese (come ricorda La Valle), ripreso e sviluppato con la Resistenza e condotto a un primo traguardo nella comprensione del valore della democrazia come strumento per la costruzione di una società pluralista.

«o». libertàgiustizia,

Va premesso che chi ha redatto il presente documento non è contrario ad ogni riforma costituzionale, ma ritiene che una riforma costituzionale meriti approvazione solo se non si limita a rispettare la lettera dell’art. 138 sulla “revisione della costituzione” ma sia conforme allo spirito dell’intera Carta costituzionale del 1948.

Dichiarare che questa conformità è mantenuta perché la prima parte di quella Carta, che ne definisce i principi, non è stata toccata, è una falsità, perché ovviamente la seconda parte, sull’”ordinamento della Repubblica”, discende dalla parte sui principi. La riforma costituzionale Renzi-Boschi concerne l’assetto statale complessivo, perché limita notevolmente le autonomie locali e regionali, invece di perseguire l’obbiettivo originario di un rapporto equilibrato fra queste autonomie e il potere dello Stato centrale. Anche al di là della sua connessione piuttosto stretta con la legge elettorale denominata Italicum essa sancisce in un modo forse definitivo la crisi di un sistema che voleva essere prima di tutto parlamentare.

La riforma non fa nulla per dare spazio all’iniziativa dei cittadini nel costituirsi in quei corpi intermedi come partiti e sindacati che sono anch’essi manifestamente in crisi e nel regolare la vita democratica al loro interno; non fa nulla per limitare il peso crescente che ha il potere economico e finanziario rispetto a quello politico; tanto meno si cura dell’attuazione di quei principi della carta del 1948 che continuano ad essere poco effettivi.

Infine la nostra Carta fondamentale dovrebbe essere un documento nel quale tutti possano riconoscersi, mentre è manifesto che la riforma sottoposta a referendum è divisiva: il Si o il No prevarranno di poco, e se prevarrà il Si i contrari alla riforma tenderanno a non più riconoscersi nella Carta modificata, se prevarrà il No i favorevoli alla riforma tenderanno a considerare la Carta non modificata come un documento invecchiato e pertanto non meritevole di rispetto.

La prima riserva concerne dunque il metodo: una riforma costituzionale che abbia il massimo consenso deve essere fatta coinvolgendo per quanto è possibile tutte le forze politiche (non semplicemente Berlusconi e i suoi) e tutte le associazioni (come Libertà e Giustizia) che hanno interesse ad una buona riforma, e dando ascolto ai costituzionalisti più reputati – i quali invece per la maggior parte hanno aderito ad un documento di critica della riforma costituzionale – e ad altre persone che sono intervenute con loro proposte.
Com’è stato giustamente rilevato nel documento ora citato, «la Costituzione, e così la sua riforma, sono e debbono essere patrimonio comune il più possibile condiviso, non espressione di un indirizzo di governo e risultato del prevalere contingente di alcune forze politiche su altre.»

Non solo non si è proceduto nel modo suddetto, ma è evidente (nonostante quanto sostengono certi suoi fautori come l’ex-presidente Napolitano) che la riforma non discende da un’iniziativa autonoma del Parlamento ma è di iniziativa governativa. La conseguenza di questo modo di procedere così partigiano è che il referendum ha inevitabilmente conseguenze sulla sorte del governo,

Una seconda riserva concerne la scrittura degli articoli facenti parte della riforma: alcuni di essi (come l’art. 70) sono un esempio di scrittura per lo meno laboriosa, fra l’altro con rimandi ad altri articoli e commi. Non si è compreso che la Carta costituzionale ha funzione di indirizzo, mentre i punti più o meno dettagliati di procedura effettiva vanno stabiliti con legge ordinaria. E’ in gioco anche la qualità della nostra legislazione: almeno le principali leggi della Repubblica, a cominciare ovviamente dalla Costituzione, dovrebbero essere scritte in modo da essere comprensibili a tutti i cittadini, mentre vari osservatori notano un continuo peggioramento di quella qualità.

Quanto sta avvenendo è che i parlamentari rinunciano in modo crescente alla loro funzione di legislatori, affidando questo compito al governo, il quale a sua volta si avvale di funzionari, sicché la legislazione è in mano alla burocrazia che si rivolge a se stessa e non ai cittadini. Renzi, prima di diventare premier, predicava la semplificazione, poi si è zittito sul tema. (Non è l’unico e il primo a parlare di semplificazione: memorabile fu il falò di leggi inutili di Calderoli, che, se non fosse stato una burla carnevalesca, ci avrebbe in effetti lasciato del tutto senza leggi.)

Semplificare non è … semplice: richiede idee chiare sugli intenti di una legge in rapporto anche alle altre leggi vigenti, guardando dunque alla coerenza dei testi rispetto a tali intenti. Una funzione che avrebbe potuto essere esercitata da un Senato riformato è appunto di occuparsi della revisione, non semplicemente delle leggi appena approvate dalla Camera, ma di tutte le leggi vigenti, in modo da assicurarne l’uniformità od omogeneità e la comprensibilità, ovviamente riducendo sostanzialmente il loro numero (ogni nuova legge si aggiunge alle vecchie, con una crescita mostruosa del corpus legislativo che non ha paralleli in altri paesi europei).

I conflitti piuttosto frequenti che ci sono fra Stato e Regioni dipendono in larga misura dal fatto che anche queste legiferano senza curarsi di eventuali incompatibilità con le leggi nazionali, sicché pure in questo campo si impone una revisione. Una divisione chiara delle competenze fra Stato e Regioni tramite riforma costituzionale è certamente opportuna, ma risolve solo in parte i problemi. Quanto al famoso ping-pong fra Camera dei deputati e Senato deplorato da Renzi, esso è comunque evitabile con qualche riforma molto semplice (per esempio affidando l’armonizzazione delle leggi come approvate dalle differenti camere ad una commissione mista).

Una terza riserva concerne l’impostazione complessiva della riforma: si tratta di una riforma scombinata. Il nuovo Senato viene detto essere delle autonomie territoriali per come è composto: lo è, in certa misura, sul modello tedesco, ma quella tedesca è una Repubblica federale (Deutsche Bundes-Republik), cioè il nuovo Senato dovrebbe rappresentare un passo verso il federalismo. Invece la revisione del titolo V va in senso contrario, verso un rafforzamento del centralismo, a scapito di ogni autonomia.

A peggiorare le cose viene mantenuta l’autonomia delle regioni a statuto speciale, il cui riconoscimento nell’immediato dopoguerra aveva delle ragioni storiche che, almeno in gran parte (forse con la sola eccezione dell’Alto Adige), sono venute meno, con evidente sperequazione fra le regioni che perdono di autonomia e quelle che la mantengono in pieno. Non si può dire, per fare un esempio, che la regione Sicilia sia stata così bene amministrata da meritarsi questo trattamento speciale. Sono dunque fusi insieme tre sistemi politici di orientamento contrastante: un Senato che rappresenta autonomie quasi inesistenti; centralismo a scapito delle autonomie; autonomie che sussistono per alcune regioni.

A complicare ulteriormente le cose il terzo comma, modificato, dell’art. 116 prevede che, con apposita legge (approvata da entrambe le Camere), ad una certa regione che lo richiede sia concessa una certa maggiore autonomia (rispetto alle altre), purché «sia in condizione di equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio». Ma realizzare tale equilibrio non dovrebbe essere una libera facoltà per singole regioni che viene premiata concedendole maggiore autonomia ma dovrebbe essere un obbligo per tutte le regioni – un obbligo che in effetti è sancito dall’art. 119 ma che, come si sa, è poco rispettato. (Questo comma, salvo l’indicazione di tale condizione, è una sorta di retaggio della riforma del 2001.)

La rappresentatività di un Senato non ottenuto per elezione diretta è ovviamente contestabile; anche la sua composizione poco omogenea (tre categorie diverse: senatori nominati dal Presidente della Repubblica “per altissimi meriti” – cosa ci stanno a fare in un senato delle autonomie? – , consiglieri regionali e sindaci) lo è, come lo è il fatto che l’attività del Senato, che pur riguarda questioni impegnative, sia ridotta ad un lavoro part-time per persone che svolgono un’altra attività.

E’ stato denunciato da vari osservatori (a cominciare dai citati costituzionalisti) che la divisione di competenze fra le due camere è mal definita, per cui presumibilmente darà luogo a dei conflitti o comunque a complicati procedimenti legislativi. Il famoso risparmio nei costi della politica, oltre a non poter costituire un fine prioritario ma un fine in rapporto alle prestazioni, sarebbe stato meglio realizzato con una riduzione di numero sia dei senatori che dei deputati (nessuno dei difensori della riforma ci ha spiegato perché è indispensabile mantenere a 630 il numero dei deputati).

A questo modo si avrebbe un sistema più equilibrato (particolarmente desiderabile quando ci sia da eleggere il presidente della Repubblica), considerato che è ben possibile attribuire al Senato delle competenze utili che la Camera non possiede. Oltre alla competenza già sopra indicata esso potrebbe avere anche la competenza di esercitare una effettiva supervisione sull’attuazione delle leggi: spesso le leggi approvate dal Parlamento, anche perché debbono essere accompagnate da decreti che tardano, rimangono lettera morta o quasi o sono attuate in modo del tutto insoddisfacente, senza che nessuno se ne preoccupi, come se l’unico compito del Parlamento fosse quello di legiferare, legiferare, legiferare … le conseguenze sono lasciate alla provvidenza o al zampino del diavolo.

Come già sopra rilevato, ci si dovrebbe preoccupare anche della piena attuazione della Costituzione del 1948. (Per esempio poco viene fatto per attuare l’art. 9, secondo il quale «la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. – Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.»)

Un aspetto del rafforzamento del centralismo sta nell’abolizione delle province. Non è affatto ovvio che una riforma del genere, che sta venendo attuata in modo pasticciato, sia necessaria: le province sussistono per esempio nella vicina Svizzera, come unità amministrative intermedie fra i cantoni e i comuni, sotto il nome di distretti (Bezirke), senza che nessuno si sogni di abolirle. Una misura così drastica è apparsa opportuna, e incontra un largo favore, perché c’è stata una crescita eccessiva nel numero delle province e nel personale addetto, spesso scelto come si sa con criteri clientelari. Si elimina così l’effetto del male e non la sua causa. Del resto le province non sono state abolite del tutto, ma sostituite dalle cosiddette Città metropolitane (a tralasciare caritatevolmente il fatto che le Province di Trento e Bolzano continuano a sussistere) di numero assai più ridotto, con funzioni amministrative proprie, sicché non se ne contesta l’utilità.

La situazione è simile nel caso delle regioni, che anch’esse si sono espanse a dismisura nei loro poteri e nel loro personale, perfino stabilendo delle sedi di rappresentanza all’estero. (Oltre a riportare le province al loro numero originale o anche ad un numero più piccolo, si potevano accorpare alcune regioni, che in qualche caso equivalgono ad una o due province.)

Alcuni dei poteri ad esse concessi dalla non felice riforma del titolo V della Costituzione del 2001 sono eccessivi, perché è certamente desiderabile che ci sia una legislazione nazionale abbastanza uniforme: è singolare infatti che istituzioni di uno stesso Stato abbiano sistemi elettorali diversi, e non è opportuno che chi svolge attività (per esempio di trasporto) in più regioni debba sottoporsi a normative discrepanti, con perdita di tempo (come minimo) in adempimenti burocratici. Ma probabilmente sarebbe stato opportuno tornare, almeno in parte e con opportuni aggiornamenti, al testo della Costituzione del 1948, che era ben studiato nello stabilire un equilibrio fra potere centrale e poteri regionali. E’ prevalsa invece la solita volontà di nuovismo.

Deve poi essere rimarcato che, siccome gli amministratori delle Città metropolitane ex-province e i senatori del Nuovo Senato sono eletti in modo indiretto e non direttamente dai cittadini, alla crescita di centralismo si unisce una riduzione della partecipazione democratica. (Anche se non si tratta di una modifica della Costituzione, c’è da segnalare che questo ritorno al centralismo si manifesta anche nell’attribuzione di nuovi poteri ai prefetti tramite la legge Madia, fra l’altro ponendo alla loro dipendenza le Soprintendenze preposte alla tutela del paesaggio e dei beni culturali.)

Per il resto, la questione non è tanto quella di togliere poteri alle regioni e alle province, come se lo Stato centrale fosse sempre in grado di svolgere al meglio le funzioni finora ad esse affidate, ma di istituire un sistema di controlli volto a scoraggiare abusi. Un tipo di controllo desiderabile concerne le loro finanze: il governo Monti ha introdotto l’innovazione di obbligare le regioni a sottoporre i loro bilanci alla Corte dei Conti; ma questa innovazione diventa veramente significativa solo se i responsabili dei bilanci fuori controllo sono sottoposti a sanzioni, in primo luogo pecuniarie: se un Presidente di regione sa che, se sgarra, ci rimette di tasca propria, voglio vedere se non sta attento alle spese fino al centesimo! Infine non si può fare a meno di notare che, non tramite la riforma costituzionale, ma di fatto (com’è stato denunciato per esempio da Cacciari), i comuni stanno perdendo gran parte dei loro poteri a favore dello Stato centrale.

Ciò riguarda in primo luogo i loro bilanci (che ovviamente debbono essere tenuti anch’essi sotto controllo), perché, con l’abolizione della tassa sulla prima casa, una fonte di finanziamento autonomo è stata eliminata. (Che le tasse sulla casa vadano ai comuni è il sistema che prevale in Europa e che ha una sua ratio, anche perché li incentiva nella lotta all’evasione fiscale. L’europeismo di facciata di Renzi non è accompagnato da atti conformi.) Il quadro dunque è chiaro: anche un federalismo molto temperato non ha più spazio.

Una riforma mancata. Renzi cita a merito della sua riforma il non avere toccato i poteri del presidente del Consiglio dei ministri, a differenza della riforma costituzionale voluta dal Governo Berlusconi e che venne bocciata al referendum del 2006. Tuttavia quella riforma, oltre a toccare altri equilibri, aumentava i poteri del premier in maniera eccessiva, fra l’altro mettendo in sua mano il potere di scioglimento della Camera che dà la fiducia al governo.

Il potere di sostituzione dei ministri, esercitato con l’accordo del Presidente della Repubblica e motivato di fronte al Parlamento, è sulla linea di quanto avviene in altri paesi pienamente democratici e trova la sua ovvia giustificazione nel garantire una ragionevole efficienza al sistema: i ministri che fanno bene vanno promossi, quelli che fanno male vanno sostituiti. (Per esempio l’art. 64 della Costituzione tedesca prevede espressamente che i ministri siano designati e destituiti [entlassen] dal Presidente della Repubblica su proposta del Cancelliere.) Il motivo reale per il quale Renzi ha rinunciato a questa riforma non è tanto quello dichiarato di voler evitare la critica di attribuire un eccessivo potere a se stesso come premier – questo potere non è eccessivo – quanto quello che essa gli è apparsa inutile. Inutile dal suo punto di vista, perché della situazione in cui si troveranno coloro che gli succederanno non si cura.

Una ragione di questa inutilità è quella sulla quale si sono appuntate le critiche di coloro che si dicono contrari a questa riforma se non viene cambiata la legge elettorale: la coincidenza della figura del premier con quella del segretario di un partito che, se vincesse le elezioni, otterrebbe la maggioranza assoluta alla Camera, ha l’effetto, dato il suo potere di scelta dei candidati alle elezioni, di renderlo dominus quasi assoluto su quella stessa maggioranza. Non si può trascurare il fatto che è in corso un processo di involuzione dei partiti che tendono sempre più a trasformarsi in comitati elettorali dell’aspirante premier. Ma c’è anche un’altra ragione, che sembra essere sfuggita al più dei critici della riforma: sta avendo luogo comunque una forte concentrazione del potere politico a Palazzo Chigi.

All’interno del Consiglio dei ministri contano solo quei ministri che vanno d’accordo col suo presidente, mentre gli altri sono tagliati fuori da decisioni importanti (si ricorderanno le lamentele della Guidi quando era ministra). Inoltre il premier ha messo insieme tutto uno staff di collaboratori che lo mettono in grado di elaborare lui l’intera politica del governo, per cui il Consiglio di ministri ha sempre più la funzione di approvare decisioni già prese altrove. Basti pensare alla politica economica del governo: è sotto gli occhi di tutti (o almeno di tutti coloro che vogliono vedere) che questa viene elaborata a Palazzo Chigi (anche i responsabili di una spending review mai attuata veramente rispondono al premier e non al ministro dell’economia) e che il povero Padoan ha il compito ingrato di fare tornare i conti e di contrattare condizioni più favorevoli con Bruxelles – oltre a trovarsi reclutato nella campagna a favore della riforma costituzionale.

C’è da domandarsi se un sistema così ad personam sia desiderabile sia in se stesso, come se bastasse un unico cervello per affrontare i problemi del paese, sia per il futuro, quando il presidente del Consiglio che verrà dopo Renzi (il quale ha comunque promesso di ritirarsi dopo due mandati) si troverà a gestire una macchina di governo poco padroneggiabile. Invece di un aumento dei poteri ottenuto in modo surrettizio è preferibile un aumento dei poteri più limitato e alla luce del sole.

Le due ragioni, messe insieme, mostrano indubbiamente che è in corso un processo di concentrazione del potere politico nelle mani del presidente del Consiglio, con uno sviluppo in senso ‘monarchico’ (‘monarchia’ nel senso prima di tutto letterale di ‘governo di uno solo’), anche nello stile di governo adottato: elargizioni o regalie concesse a suo piacimento dal sovrano ai vari gruppi di cittadini-sudditi (senza curarsi della crescita del debito pubblico), mentre non sono rispettati gli impegni dello Stato (stipendi tenuti bloccati al di là di una situazione eccezionale di emergenza, ritardi nei pagamenti dovuti per servizi resi all’amministrazione pubblica, ecc.). Il rischio per il futuro è quello di un’involuzione non tanto (come qualcuno paventa) in senso oligarchico quanto nel senso di una dittatura dolce o morbida (soft dictatorship), resa possibile da un uso spregiudicato dei mezzi di comunicazione (va ricordato che i principali dittatori del secolo scorso disponevano quasi solo della radio per fare pervenire i loro messaggi ad un pubblico vasto).

Altra riforma mancata: credo che i costituenti abbiano commesso un serio errore nell’affidare il sistema elettorale da adottare a legislazione ordinaria, senza richiedere una maggioranza qualificata ed una procedura più complessa, alla stregua di una legge costituzionale. Il cambiamento di legge elettorale incide sulla vita politica non meno che certe modifiche della costituzione. Così, come di fatto è talvolta avvenuto, ogni maggioranza parlamentare può cambiare la legge a suo piacimento, per ottenerne un proprio vantaggio. Una nuova legge elettorale che venga discussa in Parlamento andrebbe anche sottoposta in modo automatico al vaglio della Corte costituzionale (e non con la procedura prevista dalla riforma Renzi-Boschi).

Non si può non osservare, a proposito delle due riforme mancate ora segnalate, che nel caso di vittoria del Sì il governo non avrà alcun interesse a favorire una modifica dell’attuale legge elettorale, che ha effetti così distorsivi, salvo che non venga obbligato a questo da una sentenza della Corte costituzionale.

Una terza riforma mancata: è singolare il seguente nuovo comma dell’art. 71: «Al fine di favorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione delle politiche pubbliche, la legge costituzionale stabilisce condizioni ed effetti di referendum popolari propositivi e d’indirizzo, nonché di altre forme di consultazione, anche delle formazioni sociali. Con legge approvata da entrambe le Camere sono disposte le modalità di attuazione.» L’articolo della Costituzione che riguarda i referendum popolari è il 75, e sarebbe bastato modificare la sua dizione, precisando appunto che i referendum possono essere non solo abrogativi ma anche propositivi, per ottenere il risultato (l’articolo già precisa i casi in cui un referendum non è ammesso). Tale modifica sarebbe stata opportuna, perché è abbastanza chiaro che i costituenti avevano delle forti riserve verso questo istituto per l’abuso che se ne è fatto nei regimi fascisti.

Così com’è il comma citato presenta equivocamente come cosa fatta quella che è solo una riforma costituzionale promessa. La carta costituzionale così modificata credo costituirebbe un unicum al mondo: una legge che non stabilisce nulla ma promette o contempla come desiderabile una futura legge che non si sa quando, e se mai, verrà approvata. Su quello che passa per la testa di un legislatore che redige una legge del genere si può solo speculare.

Al fine così dichiarato di favorire la partecipazione dei cittadini alla determinazione delle politiche pubbliche vengono incontro, ma solo in apparenza, alcuni altri provvedimenti previsti dalla riforma. Il primo riguarda le leggi di iniziativa popolare previste sempre dall’art. 71 (attuale comma 2). Una modifica in senso indubbiamente positivo è che si garantiscono tempi certi (anche se non determinati, perché stabilirli spetta ai regolamenti parlamentari): attualmente queste leggi sono lettera morta, perché non vengono quasi mai discusse, tanto meno approvate. (E’ uno scandalo che non avrebbe mai dovuto verificarsi.) Ma viene notevolmente innalzato il numero di firme richieste per la presentazione di una legge del genere: da 50.000 a 150.000, come se ci si aspettasse un’improbabile inondazione di leggi di iniziativa popolare.

Evidentemente ciò che si concede con una mano si toglie con l’altra. Il secondo provvedimento concerne il citato art. 75 che regolamenta i referendum popolari solo abrogativi: di fronte al fatto che questi referendum spesso risultano nulli perché non è stata raggiunta la maggioranza degli aventi diritto, invece di abbassare il quorum (per esempio dal 50 al 40 %), si elimina la richiesta di un quorum nel caso in cui le firme raccolte siano 800.000 invece di 500.000. Non si vede perché i referendum che soddisfano a questo requisito meritino un trattamento speciale, quando manifestamente è una questione di organizzazione e quando per partiti e associazione che non dispongano di molti mezzi è già difficile arrivare alle 500.000 firme autenticate.

Una quarta riforma mancata: l’art. 67, che nella versione non modificata suona «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato», e che viene riproposto quasi identico ma cancellando “rappresenta la Nazione” (come se fra le due cose non ci fosse un rapporto), ha bisogno di essere ripensato di fronte ai talvolta anche scandalosi cambi di casacca da parte dei parlamentari. La norma citata si ispira alla molto ottimistica convinzione che i parlamentari sono tutti o quasi tutti dotati di una viva coscienza morale e che, se lasciati liberi di seguirla, opereranno al meglio nell’interesse della Nazione.

Nella realtà prevalgono gli interessi particolari (della propria circoscrizione, del proprio partito, ecc.). Una restrizione che si può proporre (non escludo che si possa proporre di meglio) è che chi abbandona il partito o gruppo (lista civica, ecc.) col quale si è presentato alle elezioni può solo aderire ad un gruppo indipendente e non ad un altro partito o ad un gruppo di diverso orientamento, e tanto meno può entrare a fare parte del governo (se non ne fa già parte).

Come si può vedere, una restrizione del genere non concerne le decisioni che il parlamentare prende di volta in volta ma il suo orientamento politico generale, che è quello in base al quale si era presentato alle elezioni: è contestabile infatti l’idea che egli non debba rispondere in alcun modo di fronte al proprio elettorato, al quale si è presentato con un certo programma (non basta che egli corra il rischio di non essere confermato a successive elezioni).

C’è anche un altro aspetto da rilevare: il frequente ricorso alla votazione di fiducia da parte di tutti i governi recenti ha un effetto ricattatorio sui componenti della maggioranza (‘se non voti la fiducia, il governo cade e c’è il rischio di andare ad elezioni anticipate’), sicché la libertà sancita dall’art. 67 viene di fatto annullata. La richiesta del voto di fiducia (salvo ovviamente alla presentazione di un governo), come la verifica del numero legale, dovrebbe essere uno strumento a tutela delle minoranze, sicché questo abuso andrebbe represso.

Come si può vedere, questa è una materia delicata, che concerne il modo in cui funziona il Parlamento, sicché, in occasione di una riforma costituzionale, si sarebbe dovuto dedicare ad essa una notevole riflessione, per cercare le soluzioni migliori. (C’è da aggiungere che qualche giurista ha notato che, siccome i senatori del Senato riformato non rappresentano più la Nazione, la norma in questione non dovrebbe più applicarsi ad essi.)

Come si può vedere, in questo documento, a differenza della maggior parte dei documenti di critica della riforma costituzionale, ci si sofferma anche sulle riforme mancate. Non è un procedimento scorretto, perché, una volta che si ponga mano ad una riforma del genere, si deve riflettere seriamente su ciò che ha veramente bisogno di essere cambiato, sicché le riforme mancate sono come dei peccati di omissione, che non sempre sono meno gravi degli altri.

Naturalmente sarebbe eccessivo ed ingiusto sostenere che in questa riforma costituzionale non c’è niente di buono. Questo vale per esempio per la restrizione del potere del Governo di adottare decreti legge e, insieme, la determinazione di tempi certi per il voto della Camera sui progetti del Governo che ne caratterizzano l’indirizzo politico. (Tuttavia c’è anche il rischio, segnalato da alcuni costituzionalisti, di ridurre lo spazio all’iniziativa legislativa dei singoli parlamentari.) Vale anche per la soppressione del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (CNEL) con l’abrogazione dell’art. 99, dato che questo organo si è rivelato di quasi nulla utilità. (Ma è ridicolo dare tanto rilievo a questa soppressione, presentandola come uno dei caposaldi della riforma.) L’art. 97, comma 2 modificato, sancisce opportunamente l’obbligo di trasparenza delle amministrazioni pubbliche.

Tuttavia serve molto di più (e può essere sufficiente) una legge ordinaria che stabilisca regole precise di trasparenza, in primo luogo obbligando le amministrazioni pubbliche a rendere accessibili (almeno su rete) bilanci precisi, dettagliati e comprensibili al pubblico, che così potrebbe esercitare una funzione di controllo.

Infine, è opportuno il nuovo comma dell’art. 64 secondo il quale “i regolamenti delle Camere garantiscono i diritti delle minoranze parlamentari”, ma ovviamente è da vedere in che modo questa prescrizione troverà attuazione, data anche la sua indeterminatezza. C’è dunque del buono, ma quanto di buono la riforma contiene non può compensare quanto deve suscitare delle serie riserve.

In conclusione, che la riforma costituzionale Renzi-Boschi non sia la migliore possibile viene spesso concesso anche dai suoi sostenitori che, di fronte a critiche, sono indotti a dire, con qualche imbarazzo, che essa “è perfettibile”. Per un verso si afferma che questa è l’ultima occasione per riformare la Costituzione, per un altro verso, nell’affermare che quanto proposto è perfettibile e nel redigere il citato comma dell’art. 71, si auspica una prossima nuova riforma costituzionale per rimediare a ciò che appare insoddisfacente o incompleto.

Ovviamente tutto ciò che è opera dell’uomo è perfettibile, ma i costituenti non sentivano l’esigenza di giustificarsi a questo modo, perché avevano dedicato le loro migliori energie per ottenere un buon risultato. Tale risultato non è ottenuto se per evitare il bicameralismo perfetto si riduce il Senato ad un’istituzione striminzita ed umbratile: sarebbe stato ancora meglio abolirlo del tutto e ampliare i compiti della Conferenza Stato-Regioni.

Si potrebbe ritenere che si stia dando troppa importanza ad un documento scritto come la Carta costituzionale. Tuttavia c’è da replicare che, quando attorno ad un documento del genere si crea un ‘patriottismo costituzionale’, cioè una condivisione di ideali ed obbiettivi, come avviene negli Stati Uniti (dove c’è fin troppa riluttanza ad introdurre modifiche anche piccole alla Carta), ciò fa non poca differenza per una nazione.

Si può aggiungere che la Germania è riuscita ad uscire senza troppe scosse da un regime simile a quello fascista dal quale è uscita l’Italia anche perché si è dotata di una buona Carta costituzionale, che nessuna persona seria là propone di modificare in modo radicale. (S’intende, nessuna Carta costituzionale può fare miracoli: anche quella della Repubblica di Weimar era buona, ma non ha impedito l’ascesa del nazismo; però il nazismo non ha avuto la forza e il coraggio di proporre una propria Carta costituzionale e si è limitato a sospendere l’esistente adducendo uno stato di emergenza.) E’ nel nostro paese che le forze politiche di vario colore non pretendono semplicemente di aggiornare in modo puntuale e ragionevole la nostra Carta ma ambiscono a sovvertirne l’impianto di fondo. Si va dalla Bicamerale del 1997-99 presieduta da Massimo D’Alema, passando per la riforma del titolo V (1999-2000), per arrivare alla riforma voluta dal Governo Berlusconi (2004-2006).

Fra quest’ultima e quella voluta dal Governo Renzi, che per certi aspetti è una contro-riforma del titolo V, ci sono degli evidenti punti di contatto, e solo il fatto che i poteri del presidente del Consiglio dei ministri non sono toccati (come si è visto, solo nella Carta costituzionale e non nella realtà) può creare l’impressione che sia molto diversa. Lungi dall’essere questa l’ultima occasione per riformare la Costituzione questi precedenti fanno pensare che, se questo tentativo fallisse, presto ce ne sarà uno nuovo, sulla stessa linea.

Questa pervicacia nel voler riformare (in effetti sconvolgere) la Costituzione del 1948 – riforme, riforme, riforme è la parola d’ordine di ogni governo, come se tutte le riforme fossero un bene (la scuola è ormai stata riformata un bel po’ di volte e nessuno può sostenere che è migliorata) – riflette un profondo malessere del paese, che si vuole curare non cercando di individuarne le cause ma con espedienti illusionistici.

Intervista a Paolo Maddalena, vice presidente Emerito della Corte Costituzionale: "Passiamo da una democrazia parlamentare a un governo presidenziale. Sul piano giuridico è un grave errore perché oligarchia e democrazia sono forme di Stato diverse".

libertàgiustizia, 22 ottobre 2016 (p.d.)

“Macché semplificazione e tagli a sprechi, le ragioni della riforma vanno indagate altrove: Renzi si è piegato alla volontà dei poteri forti, Jp Morgan ci ha dettato le modifiche costituzionali”. Dalla voce non sembra stia parlando un ottantenne. Ragiona, analizza e spiega le motivazioni per le quali sta sostenendo la campagna del NO al referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre. Paolo Maddalena, vice presidente Emerito della Corte Costituzionale, è uno dei massimi esperti in materia. Lo contattiamo telefonicamente, combattivo, ha desiderio di sviscerare nel dettaglio la riforma per convincere soprattutto gli indecisi al voto.

La riforma voluta dal presidente Matteo Renzi riduce il numero dei senatori, stabilisce nuovi rapporti tra Stato e Regioni, oltre a semplificare l’annosa questione della burocrazia e cancellare carrozzoni come il Cnel… Cosa non la convince?
Sono spot propagandistici, senza alcuna logica. La riduzione dei costi e la semplificazione non si raggiungono col soffocamento del Senato, uno degli organi massimi dell’espressione della sovranità popolare. Tra l’altro la Ragioneria di Stato ha smentito i numeri del governo e, con la riforma, si risparmierebbero soltanto 51 milioni. Ci sono altri modi per racimolare soldi. Anche la questione dello snellimento dell’iter legislativo è mendace. Agli esami degli atti i tempi si allungheranno.

Beh, però si pone fine alla “navetta” tra i due rami del Parlamento…

Su molte materie rimane obbligatorio l’esame di una e dell’altra Camera. In caso di divergenze di vedute tra Camera e Senato, il conflitto dovrà essere risolto dai due presidenti e, qualora non trovassero un accordo, la questione andrebbe fino alla Corte Costituzionale dove trascorrerà almeno un anno dalla sentenza. Un iter così, lo capisce chiunque, è lungo e assurdo.
Insisto, i fautori del Sì dicono che il Senato interverrà su poche leggi e soprattutto c’è l’occasione di superare il bicameralismo paritario, come già avviene in Francia e Germania. Lei è per difendere a priori il bicameralismo?
In dottrina il bicameralismo può essere imperfetto, alcune materie possono passare soltanto alla Camera e non al Senato. Il governo, invece, con tale riforma fa un pasticcio, il provvedimento è scritto male e pieno di incongruenze. Il Senato sarà formato da nominati, ovvero da sindaci e consiglieri regionali senza vincolo di mandato, tanto valeva eliminarlo del tutto e rimanere con una Camera Alta. Infine, la questione dei tempi di approvazione di una legge: è una questione di volontà politica, non di bicameralismo paritario. Quando la maggioranza ha deciso – si pensi all’introduzione del pareggio di Bilancio in Costituzione – ha modificato la Carta in poche settimane. Quando si vuole, le leggi vengono varate velocemente, anche adesso.
Quindi è falso che si sta ricalcando il modello del Senato tedesco?
La Camera dei Lander funziona diversamente. Nel testo della riforma si parla di “Senato delle Autonomie” ma nel dunque non ha competenze specifiche sui territori anzi schiaccia le autonomie locali.

Il pensiero di molti si può riassumere col giudizio: “Dopo anni di immobilismo, siamo di fronte a una riforma pasticciata ma sempre meglio di niente”. Come replica?

È una grande sciocchezza, meglio il niente al male. Questa riforma segna la fine della democrazia.

Veramente, come denuncia il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, siamo al rischio di una deriva oligarchica? Non le sembra di esagerare?

Renzi ha annientato i contrappesi creando un esecutivo forte. Ha tolto poteri al presidente della Repubblica il quale sarà, a conti fatti, eletto solo da 220 parlamentari, e ha ridotto le garanzie costituzionali alla Consulta. Nell’albero istituzionale ha tagliato le foglie facendo restare esclusivamente il tronco dell’esecutivo.

La legge elettorale – che prevede un rafforzamento dell’esecutivo – è uscita però dalla contesa referendaria e si ipotizza una modifica dell’Italicum.

Che si raggiunga una nuova legge elettorale entro il 4 dicembre è escluso da tutti, non c’è tempo. E l’Italicum è strettamente collegato con la modifica del titolo V: rischiamo un Senato esautorato di potere e una Camera con un premio di maggioranza “drogato”. Mi spiego meglio. Secondo l’Italicum, il ballottaggio si può vincere col 20/25 per cento del consenso degli elettori e ciò – considerando l’alto tasso di astensionismo – significa che il 10/15 per cento dei cittadini italiani vanno a costituire una maggioranza assoluta. Ribadisco, siamo alla distruzione della democrazia.

Ma la Costituzione si può modificare ed è migliorabile oppure dovrà rimanere così vita natural durante?

La nostra Carta è ottima e ha bisogno soltanto di piccoli ritocchi. Qui si fa una modifica che trasforma la forma di governo: passiamo da una democrazia parlamentare a un governo presidenziale. Sul piano giuridico è un grave errore perché oligarchia e democrazia sono forme di Stato diverse.

Scusi, governo presidenziale non è ben diverso dal dire oligarchia? Pensiamo agli Usa o la Francia, sono democrazie funzionanti…

Il problema è stabilire sempre il contrappeso al potere: negli Usa c’è il bilanciamento col Congresso se noi invece il Parlamento lo riduciamo ad un Senato di nominati ed esautorato di potere e ad una Camera che rappresenta una maggioranza del 10 per cento degli italiani, mi spiega dove sono i contrappesi?

Se vince il NO la situazione rimarrà così per anni, lo sa?

Non è vero, se vince il NO si mette in moto finalmente una forma di partecipazione popolare perché la gente sta capendo il quadro politico: siamo succubi di finanza, banche e multinazionali. E anche della Germania. Si capirà che l’Italia deve cambiare politica e riappropriarsi di se stessa. Noi stiamo svendendo il nostro territorio e la sovranità. Gli ultimi governi, dal 2011 in poi – i cosiddetti governi presidenziali – hanno perseguito le medesime politiche: al proprio interno il dominio dell’esecutivo e all’esterno l’assoggettamento ai diktat di Bce e Troika. Rischiamo di diventare come gli ebrei sotto la schiavitù di Babilonia.

La battaglia per la difesa della Costituzione si intreccia con l’Europa dell’austerity e per un ritorno alla sovranità popolare, sta dicendo questo?

Questa riforma, come tutte le leggi di Renzi, come il TTIP, come il CETA, e come molti regolamenti e direttive europee sono tutte a favore della finanza e contro gli interessi del popolo. E’ un passaggio di una storia che inizia negli anni ’80, si vuole capovolgere l’ordine sociale italiano. Non conta il valore della dignità umana, l’uomo diventa merce. Pensiamo allo Sblocca Italia: a favore della finanza, distrugge l’ambiente e regala i nostri territori ai profitti delle lobby.

Insomma, professor Maddalena, crede veramente che le Istituzioni europee, la Bce e le agenzie di rating abbiano fatto pressioni al governo Renzi per varare la riforma costituzionale?

JP Morgan l’ha chiesto esplicitamente con un documento del 2013, di 16 pagine: i governi del Sud Europa sono troppo antifascisti e democratici e vanno cambiati a vantaggio di un esecutivo forte col quale i mercati possono dialogare. Il Mercato è formato da un denaro fittizio – creato ad hoc da politici servitori – che ammonta a 1,2 quadrilioni di dollari, 20 volte il Pil di tutti gli Stati del mondo. Il processo di una finanza sana che passa per il percorso finanza-prodotto-occupazione-profitto-finanza, è sostituito da finanza-finanza. Qual è l’obiettivo finale?

Qual è?

Appropriarsi dei beni esistenti, soprattutto dei Paesi più deboli e periferici. E noi, ogni giorno, stiamo svendendo pezzi importanti del nostro territorio oltre a privatizzare beni comuni e diritti basilari. Ci impoveriamo. L’articolo I della nostra Costituzione dice che siamo una “Repubblica democratica fondata sul lavoro”, tra i recenti dati su disoccupazione e precarietà, possiamo affermare che stiamo spogliando il lavoro dalla sua funzione e sostituendolo col massimo profitto. E’ immorale e contro l’etica repubblicana.

Per difendere la nostra Costituzione bisogna rompere con l’Europa?

La tematica è controversa. Noi dobbiamo accettare la sfida europea ma non a prezzo della nostra miseria perché gli attuali manovratori di Bruxelles stanno privilegiando la Germania. L’Europa, a trazione tedesca, viaggia a due velocità: o si contrastano le disuguaglianze e si costruisce un’Europa più equa o andremo verso la nostra fine.

MicroMega online, 17 Ottobre 2016

L'ennesima trappola per la democrazia se vincesse il SI alla de-forma Renzi-Boschi: diventerebbe impossibile mettere in stato d'accusa il Capo dello stato.

il manifesto, 20 ottobre 2016

Nel confronto televisivo con Luciano Violante e poi successivamente in vari articoli, Tomaso Montanari ha giustamente evidenziato uno dei paradossi più clamorosi della deforma costituzionale nel suo intreccio con l’Italicum. Che consiste nella possibilità che l’elezione del capo dello stato dal settimo scrutinio in poi possa essere opera dei soli appartenenti al partito di maggioranza relativa, essendo questi comunque superiori ai tre quinti dei votanti.

Tralasciamo pure per un attimo il caso limite per cui, trattandosi di votanti e non di membri dell’assemblea, il nuovo capo dello stato potrebbe venire eletto con tre voti su cinque, purché gli altri parlamentari garantiscano il numero legale. Spostiamo invece l’attenzione su un altro articolo della nostra Costituzione – che la Renzi-Boschi non tocca e quindi ha richiamato minore attenzione – ovvero il 90, che disciplina la messa in stato d’accusa del capo dello stato dal parlamento in seduta comune.

Qui emerge un’altra possibilità inquietante. Fantapolitica? Di fronte alla totale irragionevolezza della modifica costituzional-elettorale in corso, sarebbe ingenuo invocare il principio di realtà. E’ vero che l’impeachment nella storia italiana è stato più evocato che attuato. I casi sono tre. Quello di Leone che minacciato di tale provvedimento a seguito dello scandalo Lockheed (l’acquisto dell’Italia di velivoli da guerra statunitensi) si dimise prima che il Pci desse corso alla procedura. Quello che sfiorò Scalfaro, a seguito dello scandalo Sisde, cui rispose a reti unificate con il famoso: «Non ci sto». Ma soprattutto quello antecedente riguardante Cossiga, che approdò alla presentazione formale della messa di stato d’accusa sulla vicenda Gladio, da parte del Pds, della Rete e di Rifondazione comunista, richiesta poi respinta dal Parlamento nel 1991. L’anno seguente lo stesso Violante, Pannella, Orlando e Dalla Chiesa chiesero nuovamente la messa in stato d’accusa di Cossiga per attentato alla Costituzione, senza però che questa approdasse al voto, perché Cossiga si dimise il 28 aprile del 1992. Come si vede qualche precedente c’è, e anche succoso.

Se vincesse il Sì il 4 dicembre e quindi l’Italicum rimanesse in vita – simul stabunt simul cadent – la maggioranza assoluta alla Camera sarebbe assicurata al partito di maggioranza relativa e il senato sarebbe composto da 100 membri. Per la eventuale messa in stato d’accusa del presidente della repubblica basterebbero altri 26 voti per raggiungere la soglia dei 366, che corrisponderebbe alla maggioranza assoluta dei membri del parlamento in seduta comune. E sarebbe davvero difficile – qui sì fantapolitico – che il partito di maggioranza relativa non disponesse di tali voti nel Senato dei dopolavoristi, anche se escludiamo dal novero per evidenti motivi i 5 senatori nominati dal capo dello stato.

La morale della favola è semplice, quanto sconcertante. Gli effetti dello sconvolgimento costituzional-istituzionale in corso rispetto alla massima carica dello Stato – comandante delle Forze Armate, presidente del Consiglio supremo di difesa, che dichiara lo stato di guerra deliberato dalla Camera, presidente del consiglio superiore della magistratura, dotato del potere di scioglimento delle camere – non sarebbero solo quelli che esso può essere eletto dal settimo scrutinio dai parlamentari di un solo partito, nel caso estremo nel numero più esiguo immaginabile, ma che potrebbe essere dismesso per volontà sempre dello stesso partito – il cui segretario coincide con la figura del Presidente del consiglio da lui indicato – e che opererebbe sotto questa spada di Damocle. Un vero e totale capovolgimento.

Una delle tante aberrazioni della rforma che Renzi e i suoi alleati vogliono imporci per obbedure all'ordine impartito nel 2013 dalla JP Morgan Chase & Co.

Huffington Post, 19 ottobre 2016

«Vogliamo una democrazia che decide», sostiene il fronte del Sì. «Anche noi! Ma decidere non vuol dire comandare, o dominare: avete costruito una dittatura della maggioranza, un sistema in cui chi vince prende tutto. Un sistema in cui non esistono più garanti terzi», ribattiamo dal fronte del No. È stato questo il leitmotiv del mio confronto con Luciano Violante, arbitrato venerdì scorso da Enrico Mentana. Un punto cruciale del dibattito ha riguardato l'elezione del presidente della Repubblica. Come il vecchio, il nuovo articolo 83 prevede che: «Il Presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento in seduta comune dei suoi membri». Solo che - se vincesse il Sì - il Parlamento sarebbe così composto: 630 membri della Camera (come ora: si sono ben guardati dal limitarne il numero, alla faccia della retorica del risparmio!), 95 senatori nominati dai consigli regionali (iddio sa come), fino a 5 senatori nominati dal presidente della Repubblica (durano sette anni, e dunque il loro numero al momento del voto è imprevedibile: dipende quando saranno stati nominati) e i senatori di diritto e a vita in quanto ex presidenti della Repubblica.

Immaginiamo dunque l'elezione del successore di Mattarella, e consideriamo il corpo elettorale più ampio possibile (augurando lunghissima vita a Giorgio Napolitano): 630+95+5+2, cioè 732 elettori.
Dobbiamo subito dire che, a legislazione attuale (dunque ad Italicum vigente), il partito di maggioranza avrà (per legge) 340 seggi alla Camera, e, diciamo, una maggioranza di 60 senatori (qua il dato è, per forza di cose, empirico: ma è una ragionevole proiezione del peso attuale del Pd): dunque un pacchetto di 400 voti.
«Ebbene, nei primi tre scrutini (come ora) per eleggere il Capo dello Stato ci vorranno i due terzi: 488. Il partito di maggioranza dovrebbe trovarne 88: il che implica un'alleanza politica di una certa ampiezza. Già, però, dal quarto al sesto scrutinio il quorum per l'elezione presidenziale scende ai tre quinti dei componenti: 440. E qua cominciano i problemi, perché basta una piccola 'aggiunta' (esempio non troppo astratto: un drappello di volenterosi verdiniani) per fare schiavo colui che dovrebbe essere il massimo garante di tutti.
«Ma la vera e propria crisi democratica si manifesta con ciò che viene previsto dal settimo scrutinio: quando basteranno i tre quinti dei votanti. Si tratta di un inedito quorum mobile: ma fino a che punto potrà abbassarsi? L'unico limite è quello imposto dall'articolo 64 della Costituzione (non toccato dalla riforma), che impone il numero legale: perché il presidente possa venire eletto è necessario che siano presenti la metà più uno dei componenti, cioè 367 elettori. Ora, i tre quinti di 367 è pari a 221: e dunque la nuova Costituzione prevede che dalla settima votazione il Capo dello Stato si elegga con una maggioranza minima di 221 voti, cioè con una maggioranza che è tutta nella disponibilità del singolo partito che avrà vinto le elezioni (340 deputati), anche se al Senato non dovesse avere nemmeno un seggio!
«Di fronte all'evidenza dei numeri, Violante ha risposto che si tratta di un'eventualità remotissima, perché alle elezioni presidenziali tutti sono presenti. Benissimo: ma allora perché la nuova Costituzione dovrebbe prevedere una simile stranezza? Come è ovvio, le Costituzioni dovrebbero evitare le trappole, non configurarne di bizzarre. Mentre qua si aprono scenari bizantini complicatissimi, fatti di giochi incrociati di assenze e presenze: una geometria dalle mille varianti che consegna un margine enorme alla peggiore politica, quella da corridoio parlamentare. A questo punto Violante ha ammesso che la ratio di questa bizzarra norma è evitare uno stallo nell'elezione presidenziale, perché questo potrebbe creare un danno all'immagine del Paese.
E così - dopo mille infingimenti, mille tentativi di negare l'evidenza - è finalmente emersa la verità. Che è questa: gli autori della riforma preferiscono consegnare la massima magistratura dello Stato all'arbitrio di un singolo partito, piuttosto che permettere che la sua elezione duri qualche giorno (perché di questo si tratta). E basterà ricordare che Sandro Pertini fu eletto al sedicesimo scrutinio per far capire come possa invece valer la pena di aspettare un po'. Se vince il Sì, il Presidente della Repubblica potrà dunque essere eletto solo dalla maggioranza creata a tavolino dall'Italicum. Sarà improbabile, ma è possibile: anzi, è esplicitamente previsto.
Ora, questo particolare cruciale rivela moltissimo dello spirito della riforma su cui siamo chiamati a votare. Una riforma che baratta decisionismo con democrazia, e che aumenta il potere della maggioranza senza aumentare le garanzie delle minoranze. È qui il suo carattere totalitario: letteralmente totalitario, nel senso che chi vince si prende tutto, e a chi perde non rimane alcuna tutela.
Accanto all'arroganza maggioritaria, la cialtroneria della scrittura: non si è fin qui notato che - a rigore - per il regolamento della Camera (quello che vige nelle sedute comuni dei due rami del Parlamento) il numero legale è distinto dal quorum richiesto per le votazioni di natura elettiva. Tra i presenti che rendono valida la seduta potrebbero essercene alcuni (o anche moltissimi) che non rispondono alla chiama, e non partecipano alla votazione: in pura teoria per eleggere il presidente della Repubblica basterebbero 3 voti su 5 votanti, purché ci siano 367 presenti a garantire il numero legale. Non accadrà mai? È molto probabile. Ma diventa davvero colossale l'arbitrio dei signori del voto parlamentare, che potranno agitare la minaccia di colpi di mano, fare uscire ed entrare dall'aula interi gruppi, pescare nel torbido: con i famosi 101 franchi tiratori che impallinarono la presidenza Prodi abbiamo imparato quanto l'elezione dell'inquilino del Quirinale possa essere velenosa e opaca.
Appare dunque plasticamente evidente come la riforma costituzionale che stiamo per votare sia stata scritta con sciatteria, ignoranza, inettitudine. Oltre che con colossale arroganza.
Il diavolo si nasconde nel dettaglio, ammesso che l'elezione del Capo dello Stato sia un dettaglio. E il 4 dicembre non vogliamo andare all'inferno.
Riferimenti
Sull'ordine impartito dal colosso finanziario JP Morgan ai governanti degli stati dell'Europa del sud vedi anche anche vedi l'articolo di Tomaso Montanari dell'aprile 2016,le 'nterviste a Stefano Settis, a Paolo Maddalena ed a Gustavo Zagrebelsky

,

». il manifesto, 19 ottobre 2016 (c.m.c.)

«Per un paese la Costituzione è il riferimento comune, una carta di identità di principi e valori in cui tutti si riconoscono. È il terreno comune su cui si può e si deve svolgere il dialogo. Una cosa è la discussione sulle leggi ordinarie, un’altra, tutt’altra, è la discussione sulle leggi costituzionali. Ma Renzi non tiene in conto questa fondamentale differenza».

È una forte preoccupazione quella che esprime il giurista Stefano Rodotà – già parlamentare, accademico, garante della privacy, teorico dei beni comuni, candidato alla presidenza della Repubblica, insomma ottant’anni intensi di passione politica a sinistra. In omaggio alla sensibilità del tema di cui ragiona, «il paese che rischia di essere lacerato da un governo divisivo», misura le parole con attenzione. Stava dicendo della Costituzione come terreno comune. «Ecco, invece oggi la Carta non è più guardata come tale. È come se oggi, nel pieno conflitto sulla modifica Renzi-Boschi, ciascuna delle parti finisca per identificarsi con una sua propria Costituzione».

Una modalità di conflitto, quello di questi mesi, che sembra l’esatto contrario di ciò che viene comunemente definito ’spirito costituente’?
La grande preoccupazione dei costituenti, anche negli anni successivi al 1948, è stata quella di non far diventare la Carta un tema di divisione. Tant’è che quando durante i lavori dell’Assemblea ci fu l’espulsione dal governo dei comunisti e dei socialisti, il lavoro comune sulla Carta non si interruppe.

Ma a dicembre ci sarà un referendum per approvare o bocciare la riforma. I conflitti di questi mesi non sono fisiologici di una logica binaria, giocata fra sì e no?
Solo in parte. A differenza di tutta la nostra storia precedente, oggi succede che il presidente del consiglio tende fortemente a identificarsi con la ’sua’ riforma e a sovrapporre le scelte che riguardano la stretta attività di governo con la ’sua’ riforma. Ma non può usare sulla Costituzione la stessa logica che userebbe per una legge ordinaria.

Quest’atteggiamento può avere conseguenze dal 5 dicembre in avanti, e cioè dal giorno dopo l’esito del referendum?
Naturalmente dipende da chi vince, è banale dirlo. Non demonizzo la lunga campagna referendaria da maggio a dicembre: la discussione è aperta e continua. Ma è il tipo di confronto ingaggiato dal governo che preoccupa: non dovrebbe mai scivolare nella delegittimazione dell’avversario, non deve perdere di vista appunto il ’terreno comune’, non dovrebbe promuovere una logica divisiva, che esclude chi non è d’accordo.

Sta dicendo che se vincesse il Sì potrebbe esserci una parte di questo paese che non si riconosce nella ’nuova’ Costituzione?
Sto dicendo che questo è il problema. Le Costituzioni hanno bisogno di legittimazione, i cittadini vi si devono riconoscere. Non sto dicendo ovviamente che tutti debbano condividerne ogni passaggio, ma tutti debbono sentirsi inclusi in quei principi e in quei valori. E questo processo non può essere ridotto una pura questione di maggioranza dei votanti. È un terreno delicato per un presidente del consiglio che ha deciso di fare in prima persona la battaglia per il Sì. Il rischio è che il 5 dicembre ciascuna parte dica ’io ho la mia Costituzione’. E la Carta anziché unire il nostro paese finirà per dividerlo.

Nel 2006, ai tempi del referendum confermativo della riforma di Berlusconi, il paese non appariva così diviso. Eppure quella riforma poneva il tema del federalismo spinto voluto dalla Lega. O è un’impressione dovuta al senno di poi?
No, è vero che all’epoca la lotta politica c’era ma la divisione non era così profonda. Le condizioni erano tutte diverse, la ’devolution’ chiesta dalla Lega in effetti appariva molto più preoccupante di quello che poi si è rivelata. Ma soprattutto Berlusconi e i suoi fecero una campagna imparagonabile a quella di Renzi per intensità, tensione e anche presenza pubblica. E poi c’è una differenza politica di fondo fra il Renzi di oggi e il Berlusconi di ieri. Oggi Renzi punta sulla vittoria per rafforzare, anzi persino costruire la sua identità. Legittimo, certo, ma questo lo porta a esasperare tutti i toni.

Molti contestano allo schieramento del No di essere composto per lo più di elettori di Grillo e di destra che voteranno contro Renzi ’con la pancia’, con buona pace delle approfondite ma elitarie analisi dei giuristi e dei costituzionalisti.
Qui c’è un altro punto della delegittimazione dell’avversario. Che significa ’votare con la pancia’? Renzi sta facendo una battaglia con toni più che arroganti e quindi è del tutto comprensibile che si diffonda una reazione individuale forte, diretta, emotiva. Che a qualcuno non appare mediata da sufficiente riflessione. Liquidare la ’pancia’ come un elemento non all’altezza del dibattito è una sottolineatura delegittimante. Schematizzo: il tema è se ti riconosco o no come interlocutore. Ed è la regola della democrazia.

Rovescio la domanda. Nel fronte del No, che spesso parla di un parlamento in parte o in tutto delegittimato dalla Corte costituzionale che ha cancellato la legge con cui è stato eletto e nominato, non c’è proprio la tendenza speculare, o la tentazione, di non riconoscere Renzi come interlocutore?
Direi che questo pericolo non c’è, sarebbe una forzatura. Renzi esagera nei toni, è arrogante, ma resta il presidente del Consiglio. Certo, il suo stile e il suo linguaggio, oltreché la sua proposta di modifica costituzionale, sta cambiando di fatto il suo ruolo rispetto ai predecessori. Ma nessuno trascura che è il presidente del consiglio e che, comunque composta, ha una maggioranza.

L’esito del referendum cambierà in qualche misura la vita politica italiana. I comitati del No sono impegnati non solo per la difesa dell’attuale Costituzione ma per la sua attuazione concreta. Che farete dopo il 5 dicembre, andrete avanti?
È un proposito che abbiamo pronunciato molte volte, e che ora potrebbe aver cambiato significato. Dipende dalle volontà, dalle persone che vorranno fare questa battaglia. Ma resta un fatto: il tema dell’attuazione della Costituzione ormai è stato posto, è emerso chiaramente, e in molti oggi sono consapevoli. Non potrà essere eluso.

«». il manifesto, 18 ottobre 2016 (c.m.c.)

La forma di governo è il modello organizzativo assunto dallo Stato per esercitare il potere sovrano. La novità del Titolo V riguarda la modifica della forma di governo. Essa, diceva Aristotele, per essere compresa deve essere ricondotta al suo fine.

In sanità abbiamo avuto diverse forme di governo organizzate in diversi modi per diversi fini.

Nel 1978 (riforma sanitaria) il fine è la salute e la forma di governo è la gestione centrale in forma di decentramento amministrativo (il ministero è la testa e regioni e comuni sono le braccia e le gambe).

Nel 2001 la strategia resta quella della salute ma la forma di governo viene modificata in senso federalistico-devolutivo (le regioni sono la testa le braccia e le gambe). Un disastro. Le regioni si rivelano enti insostenibili, non riescono a diventare regioni quindi veri enti di governo e vengono ridimensionate.

Il nuovo Titolo V prende atto di questo fallimento e prefigura una combine istituzionale che nel linguaggio sportivo si definirebbe un «biscotto»: una super concentrazione di poteri al ministero dell’economia, una riduzione di poteri delle regioni, uno svuotamento della funzione del ministero della salute.

Negando il ministero della salute e potenziando il ministero dell’economia, dalla salute si passa alla sostenibilità finanziaria. Aristotele va quindi letto in due sensi: la forma di governo definisce il fine ma anche il contrario.

A questo punto la domanda pratica: se il potere di spesa è nelle mani del ministero dell’economia e i poteri di organizzazione e di pianificazione dei servizi restano nelle mani delle regioni, il ministero della salute che fa? Quello che gli resta da fare sarebbe facilmente riducibile ad un dipartimento tecnico scientifico nulla di più.

Quindi la domanda vera è: perché il governo vuole de-sanitarizzare la sanità riducendo il ministero della salute ad un dipartimento tecnico-scientifico? O meglio perché pur riesumando il decentramento ammnistrativo in luogo della devoluzione, ai fini del diritto alla salute, non restituisce al ministero della salute i poteri necessari come una volta?

Risposta: perché il fine vero del nuovo Titolo V, per ragioni di sostenibilità, è negare l’art 32 della Costituzione. Il diritto alla salute per questo governo è finanziariamente insostenibile per cui non può che essere ridimensionato.

Costituzione contro Costituzione. Una tesi forte quasi temeraria che va dimostrata.

All’inizio del ’900 la salute pubblica era affidata al ministero degli interni perché la malattia a quei tempi era considerata un problema di ordine pubblico.

Nel 1958 si istituisce il ministero della sanità quale logica conseguenza di un cambio di strategia. Il fine era dare piena attuazione all’art.32 («La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività»). La malattia da problema di ordine pubblico in questo modo diventa un problema finalmente sanitario. Oggi la malattia non è né un problema di ordine pubblico né un problema sanitario ma solo una questione di spesa. In una fase sociale nella quale ci si ammala di più, si è curati meno e si campa non quello che potremmo e vorremmo campare.

Il significato del nuovo Titolo V è politicamente istituzionalmente e culturalmente regressivo e prefigura la forma di governo più adatta alle politiche di negazione dell’art 32. Oggi la ministra Lorenzin neanche si rende conto che votando Sì al referendum vota contro se stessa cioè contro l’istituzione che rappresenta votando per negare l’art 32 della Costituzione del quale lei dovrebbe essere la prima garante dal momento che il suo ministero fu istituito proprio per inverarlo.

«In un sussidiario per le quinte si spiega così il funzionamento delle Camere: “I deputati vengono scelti, i senatori indicati dalle Regioni”».

Il Fatto Quotidiano, 18 ottobre 2016 (p.d.)

Il potere legislativo è il potere di decidere le leggi, che sono le regole che valgono per tutta la nazione. In Italia è affidato al Parlamento, diviso in due Camere”.

E fin qui, la lezione di Costituzione e società presente su un sussidiario per le quinte elementari è corretta. Poi, la descrizione. “La Camera dei deputati: i suoi componenti sono eletti diretta mente dai cittadini con le elezioni”. E, anche in questo caso i bambini di 10 anni, possono dirsi soddisfatti. Un po’ meno quando si affronta il nodo della seconda camera. “Il Senato della Repubblica: i suoi componenti sono indicati dalle diverse Regioni in cui è suddiviso il territorio Italiano”.

Tutto questo è a pagina 85, nella sezione Geografia, che si occupa pure dell’Organizzazione politica dello Stato. Il libro, o meglio il sussidiario, si chiama Imparo facile ed è pubblicato dalla casa editrice milanese Cetem che è specializzata in prodotti per la scuola primaria fin dal 1945 e che fa parte del gruppo editoriale Principato. Nelle sue pagine (segnalate anche al Comitato per il No), la vittoria del Sì al referendum costituzionale di dicembre, e quindi la conseguente applicazione della riforma, è data per scontata. La causa, secondo chi lavora nel settore, è la probabilità del cambiamento. Così, chi deve redigere, scegliere e vendere i libri scolastici (che presumibilmente, non dovrebbero scadere, non almeno durante l’anno della loro adozione) si trova a fare una scelta.

Così, nel caso di una nuova edizione da lanciare nell'anno referendario, si scommette: e, in questo caso, si è scommesso sulla vittoria del Sì. Il Fatto ha provato a contattare sia la casa editrice che il curatore della parte che contiene questo testo. “Verifichiamo quanto segnalato e le faremo sapere in giornata”, la risposta di Cetem.

Non si tratta però di un evento isolato: già a maggio era stata pubblicata dalla Simone Editore una guida per gli studenti dal titolo La Nuova Costituzione spiegata ai ragazzi.

Anche in quel caso si parlava di modifiche e nuova forma. E l’autore – nonché editore – si era giustificato incolpando il redattore della sezione scolastica di una scelta poco felice. Impegnandosi a ritirare il volume. A rapida verifica, risulta ancora in commercio con lo stesso nome. Ma negli store, la sua presentazione è stata modificata: da “Testo che favorisce un primo approccio con la rivoluzione che l’anno prossimo investirà il nostro ordinamento costituzionale” a “Testo che favorisce un primo approccio con la rivoluzione che l’anno prossimo probabilmente investirà il nostro ordinamento costituzionale”. Un avverbio, ma che fa la differenza.

«Costituzionalisti e giuristi, una giornata di riflessione sulle ragioni del No. Rodotà: la convivenza è basata sui principi comuni. La riforma è divisiva. E dal 5 dicembre ciascuno potrebbe dire "la mia Costituzione". Carlassare: la maggioranza-minoranza pigliatutto? La legge Truffa non si spinse così avanti. Pace: modifica illegittima, eversione costituzionale fatta da un parlamento che doveva dimettersi».

il manifesto, 16 ottobre 2016
La Costituzione è un «terreno comune», il luogo in cui «soggetti diversi si confrontano e trovano le opportunità per la convivenza sulla base di principi comuni». E invece la riforma Renzi-Boschi, «divisiva nel merito e nel metodo con cui è stata votata» «mette a rischio proprio questo terreno comune. Per questo dal 5 dicembre potrà succedere che ciascuno dica ’la mia Costituzione’». L’allarme di Stefano Rodotà è di quelli impegnativi per un giurista.

Usa parole pesanti e lo fa davanti e insieme a un plotoncino di giuristi, costituzionalisti, esperti di diritto e filosofi della politica chiamati a Roma, alla sala Capranichetta, a confrontare le ragioni del No al referendum. Organizza la Scuola per la buona politica di Torino e la Fondazione Basso presieduta da Elena Paciotti, già presidente Anm (associazione nazionale magistrati) ed ex eurodeputata. «Non era successo niente di simile neanche durante il dibattito della Costituente, quando i comunisti e i socialisti furono esclusi dal governo ma i lavori proseguirono con la stessa logica del confronto», continua Rodotà. Non che le differenze di opinione in campo di principi costituzionali non siano previste, naturalmente.

Il dibattito della Costituente ne è formidabile testimonianza. Ma la logica seguita dal governo Renzi – una modifica costituzionale promossa dal governo è già un controsenso perché le Costituzioni hanno una funzione «contromaggioritaria», ricorda Paciotti, e cioè «di limitare l’accentramento del potere politico, separare i poteri pubblici, controllare quelli privati, garantire i diritti fondamentali dei cittadini e delle minoranze» – la logica di Renzi insomma «è quella di far prevalere il proprio punto di vista indebolendo le garanzie», spiega Lorenza Carlassare. In varie maniere, tanto più in combinato con l’Italicum (che è legge dello stato e anche con tutte gli auguri per la sua modifica al momento non può essere ignorata): «Indebolendo la rappresentanza delle minoranze, indebolendo le garanzie nell’elezione del presidente della Repubblica», attribuendo un premio di maggioranza a una minoranza, «cosa che non si permise di fare nel ’53 neanche Alcide De Gasperi» con la famosa legge Scelba detta ’legge truffa’ (il cui premio non scattò appunto perché nessuno raggiunse la maggioranza). Nella giornata «di riflessione» si parla anche di «tirannia della maggioranza» (Michelangelo Bovero), di «verticalizzazione del potere verso la figura del premier (Carlassare e altri), del confuso e confusivo nuovo bicameralismo e dell’improbabile rappresentanza territoriale affidata al nuovo senato (Mauro Volpi, Francesco Pallante, Valentina Pazé). Ma il filo rosso è per tutti l’idea di una Carta come «terreno comune» o, come dice Luigi Ferrajoli, «precondizione condivisa per il vivere civile», «patto di convivenza in cui tutti si riconoscono» sostituita – se vincesse il Sì – dall’idea esattamente opposta «del chi vince prende tutto, e chi vince non è neanche la maggioranza ma la maggiore minoranza». «Il rischio è altissimo», misura le parole un altro costituzionalista, Gaetano Azzariti: «Perdere un bene inestimabile, un valore supremo, quello che nel ’48 rappresentò una carta d’identità per un’Italia che usciva divisa e lacerata dalla guerra e dal Ventennio».

Rischio respinto da uno dei due discussant del Sì invitati al dibattito, Cesare Pinelli, che invita a non drammatizzare i toni e a ricordare che nel 2005 dopo la battaglia per il No al referendum sulla riforma Berlusconi «non ci siamo così divisi, oggi sta a tutti riuscire a conservare le ragioni dello stare insieme dopo il 4 dicembre». Ma nel 2005 era difficile trovare un costituzionalista a favore del pasticciaccio del Cavaliere. Lo stesso Pinelli rivendica di aver militato per il No all’epoca. Oggi è diverso, e questo stupisce soprattutto ora che anche dal partito di governo viene rivendicata la derivazione della modifica Renzi-Boschi da quella berlusconiana, ormai senza più disagio.

Se vincerà il No la riforma «così lontana dal costituzionalismo» sarà archiviata e con essa la stagione politica di cui è figlia. Anche se, avverte Azzariti, da quel No bisognerà ripartire per porre rimedio alla «crisi del parlamentarismo» e quella «della rappresentanza e dei rappresentati, bisognerà rimediare al lungo regresso che questa riforma vorrebbe costituzionalizzare».

Se invece vincerà il Sì, invece. quello dei fautori della maggioranza che è una minoranza «piglia tutto», la situazione sarà invece molto delicata. Da questa sala rullano tamburi: «La modifica è illegittima, anzi è eversione costituzionale», dice il professore Alessandro Pace, «una violazione di inaudita gravità» prodotta da «una legislatura drogata» dal premio di maggioranza attribuito dal Porcellum, «indegna di affrontare la revisione costituzionale».

Anche Pace usa parole pesanti. Non solo le sue, cita anche quelle del deputato a 5 stelle Vito Crimi: «La revisione è un azzardo costituzionale». O quelle assai più autorevoli del costituzionalista Giuseppe Ugo Rescigno all’indomani della sentenza della Consulta numero 1 del 2014 che dichiarò incostituzionale quel premio di maggioranza: «Mi stupisco che milioni di cittadini non siano scesi in strada per esigere l’immediato scioglimento di un parlamento illegittimo».

C

il manifesto, 15 ottobre 2016

Le bocche di fuoco dell’economia, della finanza, dell’impresa, delle tecnocrazie europee, persino i vertici dell’Inps, hanno enfatizzato il significato distruttivo che avrebbe il trionfo del no. Neppure la riesumazione del fantasma della repubblica dei soviet avrebbe ricevuto una delegittimazione così definitiva dalle agenzie del capitale.

Il bello è che i populisti al potere si sbracciano per dire che «con il no nulla cambia». E poi però, proprio alla vittoria dei gufi, attribuiscono dei mutamenti radicali di sistema che abbracciano la politica e l’economia. Gli elettori potrebbero sentirsi tentati dalla liberatoria opportunità di far saltare i brutti giochi dominanti.

A prendere in parola i poteri forti basta un No per dare l’assalto alle oligarchie e sconfiggere i registi dell’esclusione sociale, della contrazione della democrazia. Assaporando il colpo amaro della batosta, Renzi recupera una fissazione di Berlusconi e dice che chi è contro le sue riforme è spinto dal puro sentimento di odio (dovrebbe sapere che «farsi odiare non tornò mai bene ad alcuno principe»). C’è spazio per l’odio in politica?

Una delle coppie centrali nella analisi politica di Machiavelli è proprio lo scontro tra l’ambizione e l’odio. Alla volontà di potenza dei capi, che cercano di accumulare il dominio saltando ogni resistenza degli ordini e sfidando l’apertura al consenso, corrisponde una reazione dei molti, che cercano di preservare gli spazi di libertà e le occasioni di iniziativa popolare.

In questo scontro di civiltà politica che oggi si verifica tra la volontà di potenza di una cricca di provincia e le appannate risorse della partecipazione di una moltitudine, che si attiva per preservare la fondazione democratica degli istituti parlamentari, si è creato una eterogenea coalizione che i governanti chiamano «l’armata brancaleone».

Contro l’arroganza del comitato d’affari toscano si è realizzata una regola della politica. Tocqueville così la precisava: «In politica la comunanza degli odi costituisce quasi sempre la base delle amicizie». E la rottamazione, brandita da Renzi come una ideologia mistificante per estirpare la vecchia guardia, ha coagulato una infinità di odi che non aspettano altro che la dolce vendetta di dicembre.

Non basta però il giusto sentimento di odio coltivato dai ceti politici più responsabili, quelli decapitati dall’ignoranza sovrana oggi chiusa nel palazzo, per abbattere un pernicioso sistema di potere che cerca nel plebiscito la via del consolidamento. Per vincere bisogna tradurre il sapere tecnico dei costituzionalisti in un linguaggio diffuso, con slogan che orientano la massa. A questo servono i sindacati, i politici, le firme dei pochi giornali non piegati, gli artisti non conformisti.

Diceva Lenin che «la politica comincia laddove ci sono milioni di uomini che controllano le questioni con l’esperienza, la pratica, e non si fanno mai sedurre dai facili discorsi, non si lasciano mai deviare dal corso obbiettivo degli avvenimenti». Il governo populista di Renzi sta mobilitando ogni risorsa lecita e illecita per sopravvivere e con alluvionali spot nelle tv manipola i quesiti, falsifica le questioni e invita ad andare a votare come si conviene ad un plebiscito di regime.

Negli scontri politici non bisogna farsi deviare dai sondaggi che annunciano la vittoria e inducono a sottovalutare la forza dell’avversario. Machiavelli suggeriva un precetto: «A volerti ingannare meno, ed a volere portare meno pericolo, quanto è più debole, quanto è meno cauto il nimico, tanto più dei stimarlo». Con minacce, promesse di bonus, scambi e manipolazioni Renzi può ancora risalire e inseguire un sogno di potere. Lo scontro perciò si radicalizza e produce sentimenti che lui chiama odio.

L’odio contro un potere degenerato può vincere solo se lo sostiene la volontà di assestare un colpo al governo che ha strappato i diritti del lavoro, impoverito il pubblico impiego, condannato i giovani all’emarginazione, aziendalizzato la scuola e privatizzato la sanità. Grandi riforme che piacciono ai poteri forti oggi in angoscia per il duello sotto la neve.

«Dal Referendum del 4 dicembre dipende anche il destino della prima parte della Carta. Compito della sinistra è spiegarlo al Paese e preparare una strategia per rivitalizzare la Democrazia italiana».

centroriformastato online, 13 ottobre 2016 (c.m.c.)

Ci sono senz’altro molte e diverse ragioni per votare NO al Referendum del 4 dicembre. Non solo ragioni di sinistra, fortunatamente, ché altrimenti vincere il referendum sarebbe quasi impossibile. Compito di ciò che resta della sinistra politica italiana, però, se vuole fare dell’auspicata vittoria nei NO anche un momento ricostituente per sé e per le Istituzioni democratiche, è quello di spiegare al Paese e a quello che dovrebbe essere il proprio blocco sociale le ragioni specifiche del suo NO.

Ragioni che, perché sia efficace il contributo della sinistra alla campagna referendaria, devono necessariamente accompagnare quelle più “tecniche” e trasversali sulle tante disfunzionalità e illogicità presenti nel testo della contro-riforma Renzi-Alfano-Verdini.

Proviamo a dirla nella maniera più esplicita: il Referendum del 4 dicembre sulla modifica della seconda parte della Costituzione proposta dal Governo è in realtà un Referendum sul destino della prima parte della Carta, quella dei principi fondamentali (art. 1-12) e quella dei diritti e doveri dei cittadini (art. 13-54).

Questi infatti si leggono e si reggono solo in relazione all’assetto istituzionale e all’equilibrio tra i poteri disegnato nella seconda parte. La parte programmatica della Costituzione del ’48 indica un solco in base al quale orientare l’azione dello Stato le politiche dei Governi: un solco che parla di progressivo ampliamento della platea di accesso a risorse, diritti e potere. In sostanza: più uguaglianza, più libertà, più democrazia.

Nella prima fase della storia repubblicana dell’Italia (’48-’92) ciò si è per lo più verificato. Progressivamente, attraverso politiche di governo e atti riformatori, si andava realizzando ciò che comandava lo Spirito della Costituzione: dalla scuola media unificata all’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, dallo Statuto dei Lavoratori al regionalismo, dalla riforma del Diritto di Famiglia alla legge sul divorzio.

Non è vero, come dice certa propaganda, che non si facevano “le riforme”; si facevano certe riforme, che tendevano a rafforzare uguaglianza, diritti e democrazia. La contrapposizione politica e sociale, certamente tra alti e bassi e comunque passando per momenti conflittuali, portava a un graduale avanzamento delle condizioni di vita per i lavoratori, per le donne, per i giovani, per i più deboli. Esattamente come prescrive la prima parte della Costituzione.

La possibilità che questo avvenisse era data dal fatto che gli equilibri politici che avevano prodotto la Costituzione e l’assetto istituzionale che questa aveva definito erano tali da consentire che il punto di vista di grandi masse popolari risiedesse, con tutta la sua benefica vitalità, nel cuore delle Istituzioni grazie a un dispositivo incentrato su tre pilastri strettamente connessi tra loro che si alimentavano vicendevolmente: centralità del Parlamento, sistema elettorale proporzionale, protagonismo dei partiti di massa.

Quando la tendenza si invertì e si imposero le spinte restauratrici del neoliberalismo, che muovevano dalle classi dirigenti conservatrici sul piano internazionale e nazionale, iniziando ad allontanare l’orientamento dello Stato e delle politiche dei Governi dal solco della Costituzione, quando cioè si sono cominciati a restringere diritti e tutele per allargare gli spazi a disposizione degli spiriti animali del mercato, quando si è ricominciato a favorire privilegi e disuguaglianza, il processo fu innanzitutto segnato dall’attacco a quel dispositivo politico-istituzionale che garantiva la possibilità per le masse di essere realmente rappresentate nei luoghi del potere e così di poter incidere direttamente sulle scelte politiche: i partiti di massa sostituiti da partiti personali e dai partiti-azienda; il sistema proporzionale sostituito da distorsivi maggioritari sempre più lesivi del principio di rappresentatività.

A più riprese vennero messi in campo anche tentativi di contro-riformare la stessa Costituzione al fine di colpire la residua centralità del Parlamento, ultimo fondamentale pilastro del sistema voluto dai Costituenti.

La Costituzione del ’48 seppe resistere, sia in ragione di fattori legati alla contingenza politica sia perché in una parte larga del popolo italiano restava traccia di quel patriottismo costituzionale che per lungo tempo aveva accomunato le culture cristiano-democratiche, liberal-progressiste e social-comuniste.

Non è un caso che oggi il più violento e spregiudicato tentativo di manomettere l’assetto istituzionale fondato sulla centralità del Parlamento venga portato avanti a partire da un luogo -il principale Partito che si proclama erede di quelle tradizioni politiche- da cui è più facile dividere quello che è stato negli ultimi decenni lo “zoccolo duro” dell’ampio fronte sociale, politico e culturale che si è posto a guardia della Costituzione del ’48.

Questo è il senso più profondo della contro-riforma Renzi-Alfano-Verdini: completare l’opera, iniziata ufficialmente in Italia al principio degli anni ’90, di espulsione delle masse dai luoghi della decisione politica, dal cuore delle Istituzioni democratiche. Anche nella confusione del dibattito, infatti, appaiono chiari i tratti caratterizzanti dell’operazione che si sta tentando: compressione degli spazi di partecipazione e rappresentanza dei cittadini; verticalizzazione e accentramento del potere.

Tutto perfettamente coerente con quella tradizione del pensiero elitista e conservatore delle classi agiate che già negli anni ’70 parlava di un “eccesso di democrazia” e che da ultimo trova espressione dell’ormai famoso documento della JP Morgan sulle Costituzioni europee, oltre che nelle prese di posizione in favore del SI’ di importanti attori finanziari e grandi industriali.

Votare NO il 4 dicembre può e deve essere innanzitutto il nostro modo per respingere, come cittadini appartenenti a una comunità nazionale legati alla parte migliore della sua storia e come militanti di una parte che di quella storia è stata e può tornare protagonista, il tentativo finale di chiudere definitivamente i conti con il processo di avanzamento e progresso sociale avviato dalla Liberazione, dall’approvazione della Costituzione del ’48 e dal dispiegamento concreto di quell’idea alta che chiamavamo democrazia progressiva; chiudere i conti con la storia che le masse popolari organizzate dai partiti e dai movimenti socialisti, comunisti e cattolici hanno animato nel corso del Novecento.

Da questo punto di vista, la vittoria del NO può fare del Referendum un punto di svolta che sul fronte italiano inverte l’inerzia della guerra aperta contro il lavoro e la democrazia dalla contro-rivoluzione neoliberale. Ma, dopo aver respinto l’attacco, occorrerà far partire la controffensiva: imbracciando la bandiera del lavoro organizzato e della democrazia sostanziale, puntando come primo grande obiettivo strategico a fare di nuovo delle Istituzioni democratiche dei luoghi vivi, nei quali risuonino i battiti di una società quanto mai inquieta e sofferente.

Dopo la necessaria vittoria del NO, sulla quale siamo tutti chiamati a lavorare fino al momento in cui verrà chiuso l’ultimo seggio elettorale d’Italia, bisognerà avviare una battaglia strategica volta all’approvazione di una legge elettorale proporzionale che consenta alle forze politiche di ogni orientamento lo sforzo di ricostruirsi come partiti, cioè come organizzazioni rappresentative degli interessi, delle aspirazioni e delle istanze plurali di soggetti sociali reali. Partiti in grado di stare nella società e nelle Istituzioni, di organizzare il conflitto e praticare la mediazione.

Ciò che serve alla sinistra da qui al 4 dicembre è una strategia per il dopo. Proprio sulla capacità dei gruppi dirigenti e dei militanti della sinistra di mettere in campo -dentro e oltre la campagna referendaria- una strategia all’altezza delle sfide che abbiamo di fronte, si misureranno le possibilità di esistenza di una forza della sinistra in grado di essere utile al suo blocco sociale, alla rivitalizzazione della democrazia italiana e alla sua possibile riforma in senso progressivo.

Una strategia insieme realista e radicale, che guardi alle condizioni materiali del Paese e dei suoi ceti subalterni, alle tendenze di fase del sistema e allo stato di salute della democrazia in Italia e in Occidente. Senza lasciarsi ingabbiare né dalle logiche stanche del tatticismo politicista né dal ricatto delle compatibilità di sistema.

Prosegue il dibattito sulla democrazia e sulla de-forma costituzionale di Renzi SI, mah, non so, se.., forse NO, ma in fondo SI. La Repubblica, 9 ottobre 2016, con postilla

SONO stato molto contento come vecchio fondatore di questo giornale che il nostro direttore Mario Calabresi abbia deciso di aprire un dibattito sulle varie tesi che riguardano il referendum costituzionale che sarà votato dai cittadini il 4 dicembre prossimo e la vigente legge elettorale che molti (e io tra questi) considerano malfatta o addirittura pessima.

Il dibattito sulle nostre pagine è avvenuto anche perché Repubblica ha ricevuto una quantità di lettere e di messaggi via web su quei medesimi argomenti, esprimendo variamente il loro atteggiamento sul voto Sì o il voto No o l’astensione attiva (come l’ha definita Fabrizio Barca in un suo memorandum in circolazione nelle sezioni del partito democratico). Sono infine molto grato a Gustavo Zagrebelsky che ha dato il via a questa discussione nel suo incontro televisivo di qualche giorno fa con Matteo Renzi.

Desidero subito chiarire un punto: io non sono contrario al referendum per ciò che contiene e che in sostanza consiste nell’abolizione del bicameralismo perfetto. Esso esiste già in quasi tutti i Paesi democratici dell’Occidente, rappresenta un elemento a favore della stabilità governativa che non significa necessariamente autoritarismo: può significarlo però se la legge elettorale è fatta in modo da conferirgli questa fisionomia. Ragion per cui mi sembra onesto dichiarare fin d’ora quale sarà il mio voto al referendum.

Se il governo cambierà prima del 4 dicembre alcuni punti sostanziali della legge elettorale o quanto meno presenterà alla Camera e al Senato una legge elettorale adeguata che sarà poi approvata dopo il referendum, voterò Sì; se invece questo non avverrà o se eventuali modifiche a quella legge saranno di pura facciata, allora voterò No.

Coloro che non vedono (o fanno finta di non vedere) la connessione che esiste tra un Parlamento monocamerale e l’attuale legge elettorale sono in malafede o capiscono ben poco di politica ed oppongono il renzismo all’antirenzismo, cioè la simpatia o l’antipatia verso l’attuale presidente del Consiglio in quanto uomo. Evidentemente questo è un modo sbagliato di pensare. Ricordo a chi non lo sapesse o lo avesse dimenticato che Napoleone Bonaparte difese da capitano d’artiglieria dell’esercito francese (lui era stato fino ad allora di nazionalità corsa) il Direttorio termidoriano eletto dalla Convenzione dopo la caduta di Robespierre che aveva provocato la reazione di piazza dei giacobini. Questo avvenne nel 1795. Pochi anni dopo il 18 brumaio Napoleone decise di sciogliere il Direttorio, lo sostituì con il Consolato composto da tre Consoli due dei quali non contavano nulla e il terzo che era lui aveva tutti i poteri. Di fatto era l’inizio dell’impero che fu dopo un paio d’anni definito come tale.

Come vedete e già sapete gli umori cambiano secondo le circostanze sicché votare pro o contro deve riguardare soltanto il merito e non il nome di chi lo propone.

***

Fatte queste premesse debbo ora affrontare le questioni dell’oligarchia e della democrazia, che hanno diviso Zagrebelsky e me. Crazia è un termine greco che significa potere. Oli significa pochi, demos significa molti, cioè in politica popolo sovrano. Il potere a pochi o il potere a molti. Così dicono i vocabolari, così pensa la maggior parte della gente e così ha sostenuto Zagrebelsky nel suo dibattito con Renzi prima e con me due giorni dopo.

Al contrario io penso che la democrazia, di fatto, sia guidata da pochi e quindi, di fatto, altro non sia che un’oligarchia. Una sola alternativa esiste ed è la cosiddetta democrazia diretta che funziona attraverso il referendum. In quella sede infatti il popolo si esprime direttamente, ognuno approva o boccia con un voto di due monosillabi, il Sì e il No, il suo parere su un quesito. I singoli cittadini quando raggiungono il numero previsto dalla legge, possono presentare quesiti sotto forma di domanda e sottoporli al voto. Naturalmente quel Paese è uno Stato che ha una sua Costituzione la quale, preparata dai partiti o da un gruppo dei saggi, viene sempre approvata per via referendaria.

Tutto ciò premesso riguardo alla democrazia diretta, va detto che dirigere un Paese soltanto con i referendum è tecnicamente impossibile in Stati la cui popolazione ammonti a milioni di abitanti e convive con miriadi di Stati diversi con i quali esistono complessi rapporti di amicizia o di conflitto, scambi economici o sociali, pace o guerra. Pensare e supporre che tutta questa vita pubblica possa essere governata attraverso i referendum è pura follia e non si può parlare neppure in astratto di questa ipotesi.

Il dibattito dunque è un altro e le posizioni sono già state presentate: io sostengo che la vera democrazia non può che essere oligarchica, molti invece e Zagrebelsky per primo sostengono che quei due temi sono opposti e che non possiamo da veri uomini liberi che preferire i molti ai pochi. Quindi: partiti dove tutti i militanti determinano la linea, il Parlamento (bicamerale o monocamerale che sia) è la fonte delle leggi. Chi rafforza il Parlamento, eletto dalla totalità dei cittadini aventi diritto o comunque dagli elettori che usano il loro diritto di voto, rafforza la democrazia, cioè il governo dei molti.

Questo è dunque il dissenso che personalmente giudico soltanto formale e non sostanziale poiché non tiene conto della realtà. Naturalmente questa mia affermazione va dimostrata.

Gli elettori il giorno del voto hanno davanti a loro la lista dei candidati dei vari partiti. Qualche nome lo conoscono perché sono rappresentanti di quei partiti, ma la maggior parte di quei nomi è sconosciuta. Se comunque hanno scelto il partito per cui votano condividendone il programma o addirittura l’ideologia, votano quel partito e anche il nome di uno dei candidati. Ma chi ha scelto quei candidati?
Dipende dalla dimensione dei singoli partiti. Se sono di molto piccole dimensioni la scelta viene fatta dai leader e dai suoi consiglieri. Così avvenne quando Fini e poco dopo Casini decisero di abbandonare Berlusconi e così avvenne allo stesso Berlusconi che non ha mai avuto un partito. Forza Italia non fu mai un partito ma un gruppo di funzionari della società di pubblicità dello stesso Berlusconi. Così avvenne anche per Vendola e per i radicali di Pannella. Ma se il partito è di ampie dimensioni, come la Dc, il Partito socialista e quello comunista, la scelta avveniva nel Comitato centrale. Il Congresso, una volta terminato, si scioglieva dopo avere appunto eletto il Comitato centrale. Era questo il solo organo governante di quel partito, che eleggeva la direzione che a sua volta eleggeva il segretario.

Ho già fatto un elenco di nomi che guidarono quei partiti e quindi non mi ripeterò. Ricordo soltanto che mettendo insieme il Comitato centrale, i sindaci delle maggiori città ed i loro più stretti collaboratori, si trattava al massimo di un migliaio di persone. Il ponte di comando era quello, che decideva la linea del partito, i candidati e i capilista nelle elezioni amministrative e in quelle politiche.

Un migliaio di persone cioè indicavano i loro rappresentanti in Parlamento il quale rappresentava e tuttora rappresenta i milioni di cittadini che li hanno votati. Non è un’oligarchia di pochissimi che determinano la partecipazione di moltissimi i quali nel loro insieme rappresentano la sovranità del popolo e quindi il Demos che chiamano democrazia?

È sempre stato così, nella civiltà antica, medievale, moderna. L’alternativa è la dittatura.
Oligarchia democratica o dittatura: questa è stata, è e sarà il sistema politico dell’Occidente. Nelle altre parti del mondo la dittatura è la normalità con rare eccezioni di Paesi a struttura federale come l’India e l’Indonesia.

Per quanto mi riguarda non ho altro da aggiungere a quanto qui ho scritto. Se Zagrebelsky vorrà prendere atto o contestare queste mie conclusioni siamo ben lieti di leggerlo.

postilla

Oligarchiademocratica o dittatura: questo è stato, e sarà il sistema politicodell’Occidente, sostiene Eugenio Scalfari. La fede nelle sue convinzioni è cosìforte che il fondatore di Repubblica diventa profeta, e prevede che il futurosarà come il passato (per tutto il mondo, sembra di capire, poiché l’Occidente èil modello unico). Si avvicina così a Margareth Thatcher, che prometteva (ominacciava) che There Is No Alternative: il mondo è così com’è e sarà sempre,se non vi piace arrangiatevi. A differenzadi Winston Churchill Scalfari nonammette neppure che la democrazia che conosciamo sia piena di difetti.

Ma la suafoga a sostenere la bontà della sostanza della legge sottoposta al referendum lo spinge a cadere in apertecontraddizioni e a commettere alcuni pesanti travisamenti della realtà. Come avvienequando – pur essendo un fervido apostolo della democrazia rappresentativa -mostra di non accorgersi che il senato proposto da Renzi non è affattorappresentativo dei cittadini, ma solo dalle istituzioni substatuali. O quandofinge di non sapere che il Comitato centrale del PCI era solo una dellestrutture di quel partito nelle quali si discuteva, si decideva ai diversilivelli della vita politica, e si partecipava alle decisioni delle istanze nazionali.Oppure quando trascura il fatto che il bicameralismo non “perfetto” dellariforma Renzi, che dovrebbe sostituire quello “perfetto” attualmente in vigore,è così pieno di imperfezioni da essere, come molti studiosi hanno dimostrato,assolutamente paralizzante.
Nonè malizioso ritenere che la discesa in campo di Scalfari, in apparente difesadella materia in discussione, altro non sia che un goffo tentativo di proteggereMatteo Renzi dalle critiche dei “gufi”. Lo conferma del resto il fatto che per aderireal SI gli basterebbe la promessa di Renzi di modificare sostanzialmente l’Italicum.Come se non avesse imparato che il suo protetto è prodigo, oltre che di spotpubblicitari, di reiterate menzogne. (e.s.)

Dalle polemiche al ricorso al Tar: i sostenitori del No portano il quesito davanti ai giudici amministrativi. Il decreto Mattarella che fissa il voto il 4 dicembre non rispetterebbe la legge: testo troppo sommario. Il Quirinale replica agli avvocati: è stata la suprema Corte a validare quella formula (ideata dal governo)». il manifesto, 6 ottobre 2016

Le polemiche sulla scheda del referendum costituzionale prendono la strada della giustizia amministrativa. Arriva al Tar del Lazio un ricorso contro il decreto del presidente della Repubblica che ha indetto il referendum il 4 dicembre, stabilendo anche il testo del quesito. Testo che non riporta l’intero elenco degli articoli della Costituzione modificati o soppressi dalla riforma che gli elettori devono approvare o respingere – sono in totale 47 articoli -, così come previsto dalle legge che ha introdotto i referendum nel 1970. Ma solo una sintesi del contenuto del disegno di legge, soluzione già adottata in occasione dei due precedenti referendum costituzionali nel 2001 e nel 2006.

Si chiese allora ai cittadini di approvare o respingere le «modifiche al Titolo V» (2001) e le «modifiche alla seconda parte» della Costituzione (2006). Due quesiti sintetici eppure neutri, se paragonati a quello che il presidente del Consiglio Renzi ha cominciato a esibire in comizi e trasmissioni tv anche prima di fissare la data del referendum. Agli elettori, oggi, viene chiesto di approvare o respingere le «Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione». Una formula ingannevole, per i sostenitori del No. Secondo i quali il quesito contiene più gli auspici del governo che la realtà della riforma, visto che il bicameralismo non è affatto superato, vengono ridotti solo i senatori e non i deputati, il contenimento dei costi è al massimo una possibilità e la soppressione del Cnel è assai meno rilevante di una serie di novità costituzionali neanche citate, come la modifica dei quorum per l’elezione del presidente della Repubblica [e l'abolizione dell'elettività del Senato - ndr]].

I sondaggi sul referendum testimoniano di una grande incertezza, la preoccupazione degli avversari della riforma è che una quota di indecisi possa essere convinta, direttamente nell’urna, dal testo accattivante del quesito.

A firmare il ricorso al Tar sono due avvocati del comitato del No (Enzo Palumbo e Giuseppe Bozzi) e due senatori (Vito Crimi del M5S e Loredana De Petris di Sinistra italiana) che sono tra i firmatari della prima richiesta di referendum sulla riforma, ammessa dalla Cassazione il 6 maggio scorso. Una richiesta che per la verità era fatta indicando come testo da sottoporre a referendum lo stesso che adesso il No considera ingannatore. Ma, sostiene l’avvocato Palumbo, è proprio la legge sul referendum a distinguere tra il momento in cui si avanza la richiesta di referendum, dov’è consentita una indicazione generica della legge che si intende fermare con il referendum (articolo 4 della legge 352/70) e il momento in cui si stabilisce il quesito, che andrebbe scritto sulla scheda indicando tutti i punti della Costituzione soggetti a modifica, così come impone l’articolo 16 della stessa legge.

Il decreto del presidente della Repubblica che indice il referendum, invece, riporta solo il titolo del disegno di legge Renzi-Boschi, chiaramente concepito dal governo in vista del referendum e passato indenne attraverso il percorso – blindato – di approvazione parlamentare.

Il Quirinale, ieri, con una nota dell’ufficio stampa, ha scaricato la responsabilità sull’Ufficio centrale per il referendum della Cassazione, che ha svolto le verifiche formali sulle richieste di referendum: «Il quesito è stato valutato e ammesso, con proprio provvedimento, dalla corte di Cassazione e riproduce il titolo della legge approvato dal parlamento». «Ma la legge – è la replica dell’avvocato Palumbo – all’articolo 16 che il Quirinale nel suo decreto ha anche dimenticato di citare, indica in termini precisi e senza equivoci che il quesito dev’essere scritto citando gli articoli oggetto del referendum».

In realtà, già al tempo della prima richiesta di referendum, il vecchio democristiano Peppino Gargani, oggi schierato con il No, si era accorto che era il caso di riformulare la domanda alla Cassazione, ma la sua istanza era stata respinta dai giudici della suprema Corte che avevano già ammesso il referendum. A tempo di record: a maggio sembrava infatti che il governo volesse votare il prima possibile. E velocissimo dovrebbe essere adesso il Tar del Lazio, se volesse accogliere quest’ultimo ricorso: per confermare la data del 4 dicembre eventualmente cambiando il quesito resta poco più di una settimana.

È vero o no che la riforma Renzi-Boschi dell'assetto costituzionale delle istituzioni pubbliche è un vulnus grave alla democrazia in Italia? Le opinioni sono diverse, e per fortuna non tutti twittano e insultano invece di parlare. La Repubblica, 6 ottobre 2016, con postilla


LA RIFORMA
E L’ELEZIONE DEL PRESIDENTE

di Salvatore Settis

Distrattamente, Guido Crainz scrive su Repubblica di ieri che «si è considerato addirittura un la norma che in realtà innalza il quorum necessario per l’elezione del Presidente della Repubblica, portandolo dalla maggioranza assoluta ai tre quinti dei votanti, e quindi al di fuori della portata di chi governa (a meno di non ipotizzare un’assemblea letteralmente dimezzata nelle presenze, come ha fatto ieri Salvatore Settis)». Non è così. Nella Costituzione vigente, il Presidente si elegge coi due terzi dei voti degli aventi diritto (tutti i deputati e senatori) nei primi tre scrutini, con la maggioranza assoluta dell’intera assemblea dal quarto in poi. Secondo la riforma, il Presidente è eletto coi tre quinti dell’assemblea dal quarto al sesto scrutinio, coi tre quinti dei votanti dal settimo in poi (art. 83), il che vuol dire che gli assenti non si contano ai fini del risultato. Secondo l’art 64, «le deliberazioni del Parlamento non sono valide se non è presente la maggioranza dei componenti», dunque nell’assemblea che elegge il Presidente, composta di 630 deputati e 100 senatori, devono esservi almeno 366 presenti in aula. I tre quinti di 366, provare per credere, fa 220. Ergo, il Capo dello Stato potrebbe essere eletto da soli 220 votanti, e questo in un Parlamento dove, stando al vigente Italicum, il partito al governo avrà 340 seggi nella sola Camera: l’elezione pilotata del Presidente è dunque tutt’altro che «al di fuori della portata di chi governa». Crainz sembra credere che tante assenze non ci saranno mai. Ma se è così, perché prevederle in Costituzione?

LA RISPOSTA
di Guido Crainz

Salvatore Settis ribadisce tutto quello che avevo attentamente scritto: sino ad oggi dal quarto scrutinio in poi era necessaria la maggioranza assoluta dell’assemblea (ovviamente a disposizione di chi governa), con la riforma dal settimo scrutinio saranno necessari i tre quinti dei votanti (non raggiungibili da chi vince le elezioni). Settis ribadisce inoltre che l’elezione del Presidente della Repubblica potrà comunque essere pilotata: nel caso, appunto, che la metà dei senatori e dei deputati sia misteriosamente assente (e le assenze riducano soprattutto le fila degli oppositori). Le elezioni del Presidente della Repubblica vedono da sempre la presenza pressoché totale degli aventi diritto, come è naturale, e quindi l’ipotesi di un’aula letteralmente dimezzata mi sembra davvero poco plausibile: a meno che non si tratti di una scelta consapevole, volta a rendere meno dura la propria opposizione (e questa è la possibilità che quell’articolo apre). Nel suo recente libro, Costituzione!, Settis spiegava: “se al settimo scrutinio dovessero votare solo 15 fra deputati e senatori basteranno 10 voti” (p.16). Evidentemente ha tenuto poi conto dell’art.64 ed ha provveduto ad aggiornare la contabilità ma non il senso di quel che sostiene. A mio avviso “interpretazioni” come queste, relative a un nodo centrale come le figure e gli organi di garanzia, alimentano la paura di un Annibale alle porte e rendono incandescente un dibattito che dovrebbe rinsaldare invece il nostro “essere comunità”.

postilla

Crainz non s'è accorto che Annibale è gia
dentro le porte. Per rendersene conto basta leggere con pazienza i numerosi articoli che abbiamo inserito nella nostra cartella Renzi e il renzismo. E' da tempo che il regime feudale, avente al suo vertice Matteo I, si è consolidato, proseguendo con giovanile ardore e volpesca furbizia il cammino aperto da Bettino Craxi e Silvio Berlusconi, nella direzione tracciata tanti anni fa dalla Mont Pèlerin Society. La riforma Renzi-Boschi non cancella il Senato, ma lo rende un organo dei partiti anzicchè una rappresentanza degli elettori.

© 2024 Eddyburg