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«Vorrei esprimere preoccupazione per lemisure antiterrorismo che Commissione e Consiglio stanno discutendo, e sui rischidi una legislazione emergenziale che - in nome dei valori - oppone Stato didiritto e sicurezza», ha detto Barbara Spinelli rivolgendosi alcommissario Dimitris Avramopolos durante la miniplenaria di Bruxelles. «Parlo di rischi, di misure giàannunciate da Stati membri: di monitoraggio e rimozione di siti internet, diimpedimenti alla libera circolazione nell'area Schengen, della raccoltasproporzionatamente lunga di dati dei passeggeri (PNR), che questo Parlamento ela Corte europea di giustizia hanno già respinto. Molte di queste misureesistevano prima dei terribili attentati in Francia: non li hanno impediti».

«Parlo del falso legame stabilito, intante scuole e tanti luoghi pubblici, fra terroristi e comunità musulmane», ha continuatol’eurodeputata, alludendo in particolare alla circolare recentemente emessadall’assessore alle Politiche dell’istruzione della Regione Veneto, in cui igenitori degli alunni musulmani vengono invitati a “prendere distanza” dagliattentati di Parigi. «Parlo della grave tendenza generale - s'è vista giàdopo l'attentato alle Torri gemelle - a parlare di guerra contro il terrorismo.Questa non è una guerra».
Nello stesso giorno,Barbara Spinelli ha avviato i procedimenti per depositare un’interrogazione sullacircolare veneta che chiede ai presidi di attivarsi perché «allaluce della presenza dei tanti alunni stranieri nelle nostre scuole e deiloro genitori nelle nostre comunità» è necessaria una condanna del «fatto terroristico di matriceislamica» euna presa di distanza da «una cultura che predica l’odio verso la nostracultura, la nostra mentalità, il nostro stile di vita, fino ad arrivareall’estremo gesto terroristico».
La domanda rivolta alla Commissione è chiara: «Visto il sollevarsi di politicheislamofobiche adottate a livello nazionale e locale da Stati membri, laCommissione ritiene di sviluppare una strategia di integrazione nazionaleeuropea al fine di promuovere un dibattito inclusivo sulle rispettive qualità eprincipi guida, secondo il motto dell’Unione: “unità nella diversità?”»

«Non c’è stata nessuna istigazione. De Luca ha invitato alla disobbedienza, anche militare, contro un’opera che appartiene a un’altra epoca, che è contro gli interessi di tutti, da quelli della gente che lassù vive a quelli economici del Paese, per finire agli interessi dell’ecologia, dell’ambiente».

Il Fatto Quotidiano, 28 gennaio 2015 (m.p.r.)


Marco Revelli, piemontese, torinese, anti Tav, è storico, sociologo, autore di centinaia di pubblicazioni. Docente universitario. Un intellettuale, insomma. Contrario al Tav, anche lui. «Sì», dice al Fatto, «anche io oggi mi sento sotto processo, proprio come Erri. Credo che quella contro di lui sia una follia giudiziaria, un fatto di costume, se vogliamo. È una brutta pagina, quella che si apre. E indica il decadimento di una città, Torino, di una regione, il Piemonte, e di un’intera popolazione, quella della Val di Susa, che è obbligata a disobbedire. Non ha scelta, deve difendersi».

Anche lei Revelli fa sue le parole per le quali De Luca oggi va a processo?
Assolutamente sì. Mi sento alla sbarra, come e con lui. L’ho espresso anche io tante volte quel concetto. Il concetto di disobbedienza civile, come Gandhi ci ha insegnato. Ma non solo Gandhi.

Cosa avrebbe fatto contro la legge Erri De Luca?
Non lo so. Lo dobbiamo capire. Aspettiamo il processo anche per capire chi sono coloro che avrebbe istigato.

È stato un errore?
No. L’errore lo hanno commesso i magistrati.

Lei le ripete quelle parole?
Certo che sì, sono anche mie. Ma le ho ripetute più volte, in altre sedi, forse in altri termini, ma con lo stesso fine di Erri.

Tutti gli intellettuali oggi sono a processo?
Tutte le persone che usano l’intelletto per aprire la mente di quelli che sono più pigri o semplicemente disinteressati. Di quelli che non sanno. Questo è il mestiere dell'intellettuale e questo è quello che ha fatto De Luca.

Se venisse condannato sarebbe un brutto precedente?
Io vado addirittura oltre, dico che non può nemmeno essere un precedente il fatto che sia stato messo sotto inchiesta perché il Tav è un’aberrazione non ripetibile. Non potrà accadere.

Ma l'istigazione è sempre stata reato.
Ma non è istigazione quella di Erri. Non c’è stata nessuna istigazione. Ha invitato la gente a difendere la loro terra, è lo Stato che si è cacciato in un tunnel dal quale non riesce a uscire. E questa tormenta è finita col travolgere anche le parole molto sensate che ha espresso De Luca. Perché ha invitato alla disobbedienza, anche militare, contro un’opera che appartiene a un’altra epoca, che è contro gli interessi di tutti, da quelli della gente che lassù vive a quelli economici del Paese, per finire agli interessi dell’ecologia, dell’ambiente. Non stiamo facendo una battaglia contro lo Stato in quanto tale, ma contro un'opera che i governi hanno voluto. Questa è una differenza fondamentale.

Non è un cattivo maestro?
L’insegnamento cattivo, e mi dispiace dirlo, oggi arriva dalla parte opposta, dallo Stato. La Torino-Lione è nata in un mondo e in un tempo che non esistono più. Indifendibile.

Proviamo a pensare a una condanna nei confronti di De Luca.
Spero proprio che non sia così. Che a un certo punto si faccia strada la ragione. Erri non ha mai detto ‘armatevi e andate all’attacco’. Non ha detto niente di tutto questo. Ha invitato legittimamente a difendersi la gente da un grave errore che cammina sopra le loro teste. E questo è il suo mestiere di scrittore.

De Luca stesso, in un'intervista al Corriere della Sera, ha usato un paragone molto forte, ha detto «non è che Reinhold Messner, che istigava con il suo lavoro a scalare le montagne, è responsabile di tutte le morti in alta quota». Concorda?
Sì, credo sia semplificata e pacata come risposta. Io sarei andato anche oltre.

«L’economia è la volpe libera nel pollaio che priva della libertà le galline. La disuguaglianza è aumentata e un individuo povero è un individuo debole».

La Repubblica, 27 dicembre 2014

NEL 2003, Tzvetan Todorov stilò un inventario dei valori, una lista di buone intenzioni che l’Europa ha tentato di esportare nel mondo con la stessa risolutezza con cui ha esportato automobili, ortaggi o tecnologia dell’alta velocità. Non è che inventasse nulla, era tutto già più o meno scritto nelle nostre carte dei diritti, nelle nostre costituzioni: la libertà individuale, la razionalità, la laicità, la giustizia. Sembrava ovvio. Oggi, tuttavia, Todorov vede allontanarsi quei valori come quel punto all’orizzonte che sembrava raggiungibile e invece riappare di nuovo lontano. «Quando diciamo valore, non significa che tutti lo rispettino, è più un ideale che una realtà, un orizzonte verso il quale siamo diretti», dice. «In questo momento, tuttavia, questi valori sono minacciati».

Il filosofo bulgaro naturalizzato francese, Premio Principe delle Asturie per le Scienze Sociali nel 2008 e una delle voci più influenti del continente, colloca il punto di svolta, la curva in cui tutto è svanito, non nella crisi scoppiata nel 2008, ma nella caduta del Muro di Berlino e nella rottura, a partire da quel momento, dell’equilibrio tra le due forze che devono convivere in una democrazia: l’individuo e la comunità.

Vale ancora il suo inventario dei valori? La libertà dell’individuo, per esempio?
«La nostra democrazia liberale ha lasciato che l’economia non dipenda da alcun potere, che sia diretta solo dalle leggi del mercato, senza alcuna restrizione delle azioni degli individui e per questo la comunità soffre. L’economia è diventata indipendente e ribelle a qualsiasi potere politico, e la libertà che acquisiscono i più potenti è diventata la mancanza di libertà dei meno potenti. Il bene comune non è più difeso né tutelato, né se ne pretende il livello minimo indispensabile per la comunità. E la volpe libera nel pollaio priva della libertà le galline».

Oggi, quindi, l’individuo è più debole. Quale libertà gli rimane, allora?
«Paradossalmente è più debole, sì, perché i più potenti hanno di più, ma sono un piccolo gruppo, mentre la popolazione si impoverisce e la disuguaglianza è aumentata vertiginosamente. E gli individui poveri non sono liberi. Quando non è possibile trovare il modo di curare la tua malattia, quando non puoi vivere nella casa che avevi, perché non la puoi pagare, non sei più libero. Non puoi esercitare la libertà se non hai potere, e allora diventa solo una parola scritta sulla carta ».

Eppure, l’uguaglianza è un valore fondativo delle nostre democrazie. Abbiamo bisogno di un nuovo contratto sociale?
«Se non si può rispettare, un contratto sociale non è una gran cosa. L’idea di uguaglianza è ancora presente alla base delle nostre leggi, ma non sempre viene rispettata. Il tuo voto conta quanto il mio ma l’obiettivo della democrazia non è il livellamento, quanto piuttosto offrire lo stesso punto di partenza a tutti in quanto uguali davanti alla legge, perché i soldi non comprano la legge. Ma questo principio non si rispetta. Guardate quello che hanno appena approvato i legislatori degli Stati Uniti: hanno moltiplicato per dieci i soldi che possono spendere per una campagna elettorale. Chi non ha soldi non potrà godere della libertà supplementare di spendere riservata a quelli che ce li hanno. È questo pericolo di una libertà eccessiva di pochi che impedisce l’uguaglianza di tutti».

Quando i diritti diventano una realtà formale, che cosa ci rimane?
«Ci rimane la possibilità di protestare, di rivolgerci alla giustizia. Non bisogna cambiare i principi, perché sono già scritti, ma abbiamo visto che ci sono molti modi per schivarli ed è necessario che il potere politico non capitoli di fronte alla potenza di quegli individui che infrangono il contratto sociale a loro favore. L’idea di resistenza mi sembra fondamentale nella vita democratica. Bisogna essere vigilanti, la stampa deve svolgere un ruolo sempre più importante nel denunciare le violazioni dei partiti, bisogna che la gente possa intervenire, ma so che questo richiede di essere sufficientemente vigilanti, coraggiosi e attivi ».

Lei parla della gente, ma il potere non deve cambiare? Che cosa possiamo aspettarci da poteri molto locali di fronte a una realtà globalizzata?
«Dobbiamo rafforzare le istanze europee, perché l’economia è globalizzata. L’Unione Europea è il più grande mercato del mondo, con 500 milioni di cittadini attivi e di consumatori con una grande tradizione nell’equilibrio tra difesa del bene comune e libertà individuale. Se facciamo vivere questa tradizione europea, se permettiamo che esistano organi più efficaci e attivi nell’Unione, potremo affrontare l’evasione fiscale, i paradisi fiscali e anche decisioni fondamentali come quelle sull’approvvigionamento energetico».

Ha fiducia nella sua leadership? In leader capaci di offrire l’impunità fiscale per attirare gli evasori nel loro territorio, come ha fatto Juncker in Lussemburgo?
«Se non ci fidiamo di loro devono prendersi le loro responsabilità. Il Parlamento, così come li ha eletti, dovrebbe poterli destituire ».

Nel 2008, definì i paesi occidentali come i «paesi della paura» rispetto ai paesi dell’appetito, del risentimento o dell’indecisione. Non siamo vittime di tutto questo?
«Le devastazioni causate dalla paura sono state immense, come abbiamo visto nel rapporto del Senato degli Stati Uniti sulle torture della Cia o nel caso Snowden, che ha rivelato che l’America controllava il telefono di Angela Merkel, come se lei potesse rappresentare una minaccia. L’idea che si possa legalizzare la tortura è uno shock per chi crede nel valore della democrazia e gli europei l’hanno accettata docilmente. Le rivelazioni di Snowden sono molto inquietanti per il principio che c’è dietro, il principio di uno Stato quasi totalitario che raccoglie tutte le informazioni possibili sui suoi cittadini, come facevano il Kgb o la Stasi in paesi totalitari come l’Urss o la Germania dell’Est. Allora si usava un sistema di delazioni anonime oggi divenuto arcaico, perché la tecnologia rende più facile raccogliere informazioni, ma in tutto questo le libertà individuali si riducono a una chimera ».

Quale sarà l’Europa dopo la crisi?
«Non so se la crisi finirà, sappiamo che le economie non obbediscono a spinte razionali, ci sono spinte di passione o di follia, spinte che sfidano tutti i pronostici, forse scomparirà nel 2015, o forse mai, o potremmo restarci dentro per altri dieci anni».

Traduzione di Luis E. Moriones © 2-014 Berna González Harbour ( Ediciones El País, Sl)

«Il pro­blema è che chi già detiene posi­zioni di potere è molto restio a cederle e ha molte armi per difen­dersi. Tanto più in poli­tica, dove da tempo è giunta al ver­tice una classe diri­gente «pura», priva d’ogni con­tatto con la società».

Il manifesto, 19 dicembre 2014 (m.p.r.)

Molto oppor­tu­na­mente il Capo dello Stato ha pun­tato il dito, nel suo discorso del 10 dicem­bre all’Accademia dei Lin­cei, con­tro alcune forme, sgan­ghe­rate e scia­gu­rate, di con­durre la lotta poli­tica nelle aule par­la­men­tari, nelle piazze e sui gior­nali di que­sto paese. Se non che le sue parole a un certo punto si fer­mano. Per il Capo dello Stato la pru­denza è d’obbligo. In una sta­gione infuo­cata, non è il caso di ecci­tare i già dif­fi­cili rap­porti tra le forze poli­ti­che. Ma se lui ha da esser pru­dente, è un segno di con­si­de­ra­zione nei suoi riguardi pren­dere spunto dalle sue parole per appro­fon­dire l’argomento. Che non è affatto semplice.

Il Pre­si­dente, se è per­messo sem­pli­fi­care, è risa­lito alla crisi del ’92–94 impu­tan­dola ad «abusi di potere, catene di cor­ru­zione, inqui­na­menti nella sele­zione dei can­di­dati a inca­ri­chi pub­blici e in gene­rale nei mec­ca­ni­smi elet­to­rali». Dopo quella crisi, tut­ta­via, una salu­tare opera di risa­na­mento sarebbe stata a suo dire intra­presa, con­se­guendo «risul­tati non certo irri­le­vanti». Qual­cosa, il Pre­si­dente Napo­li­tano rico­no­sce, «allora mancò». Ma la cri­tica anti­po­li­tica si è osti­na­ta­mente rifiu­tata di rico­no­scere sia i risul­tati allora con­se­guiti, sia gli «impe­gni con­creti e ulte­riori passi sulla via del rinnovamento».

Ma pro­prio su que­sta affer­ma­zione è legit­timo avan­zare dubbi. Per­ché se Mani Pulite san­zionò un vistoso e pro­tratto deca­di­mento della vita pub­blica, il ven­ten­nio suc­ces­sivo è stato molto peg­gio. Anzi: c’è motivo di rite­nere che le rispo­ste allora alle­stite, ovvero, nelle parole del Pre­si­dente, il «rime­sco­la­mento assai vasto dei gruppi diri­genti dei par­titi, addi­rit­tura con la scom­parsa o disper­sione di alcuni di essi» e «la riforma delle leggi elet­to­rali per il Par­la­mento e per i Comuni», anzi­ché miglio­rare la situa­zione l’abbiano aggra­vata. Il Pre­si­dente non può forse dirlo, ma l’Italia sta uscendo con le ossa rotte — eco­no­mi­ca­mente e moral­mente — da un ven­ten­nio «ber­lu­sco­niano» di cui gli scan­dali romani sono solo la più recente, ma forse non l’ultima, manifestazione.

Ci sarebbe cioè da stu­pirsi se, dopo vent’anni di così disa­stroso mal­go­verno, non fos­sero com­parse «rap­pre­sen­ta­zioni distrut­tive del mondo della poli­tica». Ha ragione il Pre­si­dente a ricor­dare che non tutto è andato storto. Nel Mez­zo­giorno, ad esem­pio, si sono regi­strati apprez­za­bili pro­gressi nella lotta al cri­mine orga­niz­zato. Ma non si può negare che gli ita­liani media­mente stiano peg­gio e che la vita pub­blica sia afflitta da inef­fi­cenze e fal­li­menti d’ogni sorta. Il costo del ven­ten­nio che il paese sta pagando è altis­simo. Sap­piamo bene che tutto si regge: il mal­go­verno ha impe­dito di affron­tare ade­gua­ta­mente il declino indu­striale, il debito pub­blico è cre­sciuto a dismi­sura per­ché il paese non cre­sceva e spre­cava per ragioni di con­senso e in malaf­fare. Adesso le spie­tate misure di risa­na­mento impo­ste dall’Europa stanno stran­go­lando l’economia e l’intera società. E gli unici rimedi pare siano l’abolizione del Senato, un’ inde­cente legge elet­to­rale, la rimo­zione manu mili­tari dell’art. 18 e le Olim­piadi a Roma nel 2024.

Pre­si­dente, come si fa a non essere anti­po­li­tici in que­ste con­di­zioni? Eppure, Napo­li­tano una parte di ragione ce l’ha. L’antipolitica si nutre dei fal­li­menti della poli­tica, ma pure dei discorsi irre­spon­sa­bili pro­nun­ciati con­tro di essa. Discorsi che oggidì pos­siamo attri­buire a Grillo e a Sal­vini, ma che sono stati pro­nun­ciati anche da molti altri. Chi è senza pec­cato, sca­gli la prima pietra.

L’antipolitica risale a molto indie­tro nel tempo. Era anti­po­li­tica già il movi­mento refe­ren­da­rio dei primi anni 90. È stato anti­po­li­tica il leghi­smo, ma anche il ber­lu­sco­ni­smo, che l’ha anzi por­tata al governo. E, per venire a casi più recenti, Renzi non scherza affatto in mate­ria. Non lesina espres­sioni offen­sive nei con­fronti degli avver­sari poli­tici e non rispar­mia dema­go­gici appelli al popolo sovrano. A ben vedere, un po’ di anti­po­li­tica l’ha fatta anche Lei, Signor Pre­si­dente, quando, col­las­sato il ber­lu­sco­ni­smo, anzi­ché seguire la via mae­stra delle urne, com­mis­sa­riò la poli­tica chia­mando a Palazzo Chigi un Sommo Tec­nico, che aggiunse disa­stro a disastro.

Come se ne esce? La ricetta è tanto sem­plice quanto irrea­liz­za­bile. Rimet­tendo in moto eco­no­mia, società e poli­tica. Una delle ragioni della cor­ru­zione dila­gante è lo stallo dell’economia, le cui classi diri­genti cer­cano di rifarsi cor­rom­pendo la poli­tica dei loro insuc­cessi sul mer­cato, esat­ta­mente come invece che fare impresa fanno finanza. Non solo gran parte della classe poli­tica, ma anche una buona parte della classe diri­gente eco­no­mica sarebbe da cam­biare. Il pro­blema è che chi già detiene posi­zioni di potere è molto restio a cederle e ha molte armi per difen­dersi. Tanto più in poli­tica, dove da tempo è giunta al ver­tice una classe diri­gente «pura», priva d’ogni con­tatto con la società, cre­sciuta den­tro le atti­vità rap­pre­sen­ta­tive e di governo e mai ado­pe­ra­tasi nella cura della mili­tanza e dell’elettorato. Renzi incarna que­sto modello come nes­sun altro. Solo che il modello del poli­tico «puro» è in giro da un pezzo. Dagli anni 70 in poi, allor­ché pure nel Pci il par­tito degli ammi­ni­stra­tori tra­volse quello dei mili­tanti. Le ragioni dell’antipolitica comin­cia­rono a mon­tare in quel momento. Gli ammi­ni­stra­tori, era suc­cesso già nella Dc e nel Psi, ave­vano meno remore morali dei mili­tanti. La que­stione morale ber­lin­gue­riana fu archi­viata. Gli scan­dali si acce­le­ra­rono, crebbe il malu­more e qual­cuno comin­ciò a caval­carlo semi­nando anti­po­li­tica. Lo caval­ca­rono anche ammi­ni­stra­tori e aspi­ranti ammi­ni­stra­tori di tutti i par­titi - spe­cie i poli­tici «puri» - con un pre­ciso obiet­tivo: deci­dere e non mediare, ossia libe­rarsi di tutti gli oneri che com­porta una poli­tica social­mente radi­cata. Prag­ma­ti­smo anzi­ché ideologia.

Accan­to­nata quella che Rita Di Leo ha defi­nito la politica-progetto, la cre­scita dell’antipolitica diventò incon­te­ni­bile. Anzi, è dive­nuta un flo­rido busi­ness. Le riforme isti­tu­zio­nali dei prima anni 90, le sug­ge­stioni lea­de­ri­sti­che che hanno ali­men­tato, l’abbattimento degli obso­leti e buro­cra­tici con­trolli di lega­lità, figlie dell’antipolitica, non hanno curato il malaf­fare, ma l’hanno aggra­vato. E Grillo e Sal­vini, signor Pre­si­dente, non sono i soli che ci spe­cu­lano sopra.

LEFT, 13 dicembre 2014

Succede anni fa: una delegazione dei comitati del centro storico di Roma espone al prefetto un “dossier” fitto di abusi, irregolarità, palesi illegalità, con una mappa di catene di ristoranti e pizzerie che sono qui solo napoletane, là solo calabresi o siciliane. Il prefetto prende atto e tutto continua come e peggio di prima. Fino al solito magistrato che pazientemente individua la matrice malavitosa di quelle reti di locali di ristorazione, le sottrae alle varie mafie ponendole sotto amministrazione controllata. Erano legali quelle licenze? Quante attività illegali ci sono? Chi le controlla? Il Comune di Roma? La Camera di commercio? La Prefettura? Nei mesi scorsi la giunta Marino e il I° Municipio, incalzati da campagne molto pressanti dei Comitati e di Nathalie Naim, consigliere del Municipio (Lista civica per Marino) hanno riportato ordine nella invasione selvaggia dei tavolini, ridando un volto accettabile a piazza Navona e dintorni. Pochi giorni dopo, in qualche strada, tavolino “selvaggio” è ricomparso. Non c’è un vigile urbano che, a piedi o in bicicletta, passi a controllare ogni giorno e faccia rispettare leggi e regolamenti. La stragrande maggioranza dei vigili romani sta negli uffici, come la stragrande maggioranza dei dipendenti dell’Ama pur aumentati di migliaia di unità con la Parentopoli targata Alemanno-Panzironi e C.

Piccoli esempi? Mica tanto, e poi proprio questa illegalità diffusa e incontrollata è il brodo di coltura più fertili per il “pizzo” di massa (di cui molto si parla molto anche a Roma), per i lavori abusivi tutti in “nero”, per lo spaccio di droga, per tanti favori reciproci dei più pericolosi fra criminali e politici. Di fronte alla marea maleodorante che rischia di sommergere il Campidoglio provenendo dall’era Alemanno, dalle alleanze sistematiche fra “neri” e malavitosi organizzati, con qualche esponente del Pd però che figurerebbe “a libro paga”, possiamo soltanto alzare l’indice accusatore chiedendo ogni sorta di azzeramenti? O non dobbiamo anche analizzare le cause di simili percorsi perversi, le elusioni palesi delle regole e porvi al più presto rimedio?

Ha sostenuto di recente il presidente della commissione nazionale anti-corruzione, Raffaele Cantone - già paragonato da Maurizio Gasparri uno dei “vecchi” ormai delle centurie neofasciste - al dittatore cambogiano Pol Pot: «Dopo Tangentopoli si è smantellato completamente il sistema dei controlli amministrativi, in alcuni casi sono stati privatizzati, si è sventrato il sistema dei controlli sugli enti locali». Ma chi gli fa eco? Cantone accusa la depenalizzazione del falso in bilancio, le prescrizioni troppo brevi, l‘autoriciclaggio che rendono impuniti e impunibili tanti reati di corruzione, peculato, concussione. E conclude: «La lotta alla corruzione non può essere lasciata soltanto al giudice penale». Oggi è così. Quindi, fa bene Renzi a proclamare «Via tutti i corrotti». Ma farebbe ancor meglio ad approvare la riforma della giustizia col falso in bilancio, l’autoriciclaggio e prescrizioni meno brevi. Da domani. E non invocare o attuare - come con lo Sblocca Italia - una “semplificazione” che elimina controlli tecnici invece fondamentali. Più che mai.

Difatti, se anche si riesce in questo “repulisti” generale e profondo, come prevenire in futuro che si riformi la marea nera di una corruzione che, nonostante Tangentopoli, si insinua quasi ovunque inquinando la vita democratica e inceppando la macchina già ansimante dell’economia e dei servizi? Nessuno o quasi si è posto il problema dei controlli preventivi sulle amministrazioni, sugli eletti, sulle delibere (sempre più di giunta e sempre meno di consiglio). Proviamoci. Nel dopoguerra, fino alle Regioni, cioè al 1970, esistevano le Giunte Provinciali Amministrative (Gpa), esecrate dagli amministratori comunali e provinciali, soprattutto da quelli di sinistra perché i prefetti risultavano, specie negli anni ’40 e ’50 fortemente legati alla Dc. Eravamo ancora allo Stato “verticale”, all’Italia dei prefetti, fortemente restrittiva anche se la corruzione politico-amministrativa era assai più limitata. Se c’erano grandi scandali, erano nazionali, come quello della Federconsorzi, dei mille miliardi del suo debito sanato, di fatto, dallo Stato. Quelli locali erano collegati alla speculazione, già forsennata, sulle aree fabbricabili.

Con le Regioni, nel 1971, sono stati istituiti i Coreco, organismi di controllo decentrati, che dovevano rendere virtuose le Regioni e gli enti provinciali e locali. Illusione. Ben presto sono stati trasformati da organismi tecnici in organismi politici e addio controlli penetranti. E’ successo di tutto. Poi sono spariti. La riforma del Titolo V della Costituzione del 2001 (sciagurata come poche) ha messo sullo stesso piano “orizzontale” Comuni, Province, Regioni e Stato. Tutte le istituzioni dovevano “autocorreggersi”, magari chiedendo pareri preventivi alle Corti dei conti regionali. Questa “autocorrezione” si è rivelata una utopia. In conclusione, esiste un problema di efficienza, rigore e tempestività nei controlli tecnici. Pochi ma strategici e penetranti. Ma esiste anche un problema di controlli politici, interni agli organismi di governo. Una volta il controllo lo esercitavano le opposizioni nelle assemblee elettive. Ma, con le elezioni dirette di sindaci e “governatori”, come sono ridotte? Lascio la parola a Manin Carabba presidente emerito della Corte dei conti: «Restano le esigenze di rafforzare le assemblee elettive, la democrazia ha bisogno di esse, e noi ne abbiamo visto il totale svuotamento, nei Comuni e nelle Regioni». E poi: «I Consigli regionali sono in condizioni terribili di vacuità e di perdita di peso». Il governo Renzi tende a rendere impossibili i controlli delle Soprintendenze su edilizia e territorio e si appresta a nominare i segretari comunali quali fiduciari dei sindaci e delle giunte senza più selezionarli per concorso. Via altri controlli “neutrali”. Perché o per chi? Non credo per i cittadini.

Una puntuale risposta ai critici di un articolo della politologa. Il dibattito sulle forme e sulla sostanza della democrazia nell'età del dominio del danaro e della mascheratura populistica.

Micromega, 2 dicembre 2014
La democrazia ha dei fondamenti individualistici e procedurali che il populismo non riesce a rispettare e anzi manomette nel profondo. Ma l’errore dei critici del proceduralismo democratico è soprattutto di renderlo corresponsabile di quelle ingiustizie sociali ed economiche che invece sono generate nelle nostre società contemporanee dal dominio incontrastato del capitalismo finanziario.

Rispondo brevemente alla replica dei miei critici ringraziandoli di aver discusso le mie idee con la stessa sincera radicalità con la quale ho discusso e discuto le loro. Non entrerò nel merito delle varie critiche per non scrivere un trattato. Mi limiterò ad avanzare alcune risposte circa il metodo o l’approccio che ci divide. Per esempio, ci sarebbe da discutere molto puntualmente la lettura proposta da Lorenzo Del Savio e Matteo Mameli della democrazia, delle procedure, del rapporto costituzione/politica, e società/stato. Ci sarebbe anche da discutere – e fortemente dissentire – sulla concezione davvero problematica di rappresentanza che i miei due interlocutori propongono, una visione arcaica e anche, se mi è consentito, poco attenta e con evidenti imprecisioni. Ma, appunto, preferisco rispettare le condizioni che mi sono data: ovvero discussione sul metodo.

Comincerò dalle osservazioni di John McCormick, che questa volta pertengono direttamente al mio libro sulla Democrazia sfigurata, con l’accusa di essere un lavoro polemico nello stile e nelle argomentazioni, e perfino poco magnanimo con gli autori che discute e critica. Devo confessare che non capisco questa critica, per due ragioni almeno. Prima di tutto poiché la critica di essere polemica mi è rivolta da un maestro di polemica: ricordo a questo proposito l’articolo di McCormick “Machiavelli and Republicanism” uscito sulla rivista Political Theory nel 2003, costruito interamente intorno e a partire dalla polemica contro la Cambridge School (sulla cui raffigurazione i membri di quella scuola non si sono probabilmente riconosciuti). In sintonia con quell’approccio contro-argomentativo (che egli chiama polemico) McCormick ha costruito la sua visione del repubblicanesimo di Machiavelli e di quello romano. Dunque, il maestro dovrebbe essere più comprensivo con l’allieva!

In secondo luogo, non mi è chiaro perché egli identifica la critica delle idee con la polemica. Nei mei capitoli critici non inveisco contro alcuno, né offendo nessuno. Isolo invece alcune idee e poi cerco di mostrare perché sono in tensione o in contraddizione con i principi democratici; mostro che esiste una pluralità di interpretazioni della democrazia che rendono le classiche definizioni, per esempio quella solo deliberativa o quella solo schumpeteriana, non soddisfacenti. Mettere in evidenza la pluralità delle interpretazioni e mostrare come le proposte epistemiche, o quelle populiste o quelle plebiscitarie non siano malattie, ma forme della democrazia, sue possibili espressioni facciali, se così si può dire: questo è quel che cerco di fare.

Ovviamente restringere in un capitolo la critica di una corrente di pensiero porta con se il rischio di semplificazione; ma è un rischio che si può e a mio parere si deve correre. Per esempio, per sviluppare l’analisi critica delle teorie epistemiche (che non sono qui un oggetto di discussione ma vorrei menzionare) mi concentro su uno o al massimo due autori distillando dai loro scritti principali il nucleo della teoria stessa che è il seguente: le teorie procedurali puramente politiche falliscono nel giustificare il dovere morale di obbedire alle decisioni collettive perché questo dovere può derivare solo dall’assunto che i risultati politici corrispondono a uno standard oggettivo di “verità”. Se la procedura non è orientata a produrre risultati veri non riesce a essere legittimata, anche se la decisione che genera è formalmente legittima. La parola “verità” è al centro della mia obiezione, che intende sostenere la specificità della deliberazione politica (che al massimo genera verosimiglianza, ma non verità) e la ragione per la quale la democrazia ha bisogno di un’arena pubblica nella quale ciascun cittadino si senta libero di partecipare e tratti gli altri come eguali, e nella quale la sorgente delle opinioni e delle informazioni può portare i partecipanti tutti a cambiare idea e a farlo senza interruzione. La libertà è allora il motore di questo meccanismo, non la ricerca della verità. Questa critica non mi pare oltraggiosa o ingenerosa.

La politica, come la discussione pubblica, presume un modello di razionalità che è endogeneamente discorsivo e per questo bisognoso di essere aperto alla diversità non solo come punto di partenza (come pensano gli epistemici) ma anche come punto di arrivo: ci sono differenze di visioni o interessi o di valori che non verranno mai risolti in una unica soluzione. La libertà e il pluralismo sono endogeni, fondamentali. Lo stesso argomento che vale per la democrazia vale per la rappresentanza politica la quale, come anche ha dimostrato Bernard Manin, non può esistere senza una comunicazione aperta e pubblica tra cittadini e istituzioni.

Questa è la figura della democrazia come diarchia alla quale mi riferisco cercando di integrare la concezione procedurale e la concezione deliberativa. Quindi, la valutazione delle procedure democratiche deve essere fatta badando a considerare che cosa esse promettono: non promettono soluzioni vere o corrette ma soluzioni che tengono aperta sempre la possibilità di cambiare, e quindi di rinnovare il dibattito e le maggioranze. Democrazia include il dissenso come sua condizione (il principio di maggioranza presuppone l’opposizione), e questo contraddice la visione epistemica e anche, a mio modo di vedere, la visione populista.

Se il populismo al potere è capace di tener fede a questi criteri di pluralismo e dissenso, allora esso accetta i fondamenti della democrazia rappresentativa, e quindi non è niente altro che una forma più intensa di maggioranza (una larga maggioranza tanto da essere a volte quasi consensuale). Ma allora, come isoliamo il populismo da altre visioni di democrazia? Che cosa esso ha di specifico che ce lo fa riconoscere rispetto a una maggioranza più intensa (un aspetto del libro che non viene discusso per nulla dai miei critici e che a mio modo di vedere è invece un tema molto importante)? Che cos’altro esso è, se non magari un’uscita dai fondamenti individualistici della democrazia costituzionale? E questo mi sembra che i suoi sostenitori vogliono che sia. Ma se così è, allora il populismo ha l’ambizione di creare il governo della maggioranza – questa è la sua vocazione. E qui può essere situata, come a me sembra, l’origine dei suoi problemi rispetto ai diritti e al pluralismo.

McCormick, come Del Savio e Mameli, mi accusa di non riconoscere che il populismo ha avuto diverse coniugazioni. E questo è davvero ingeneroso! Poiché dedico diverse pagine a distinguere tra forme d’essere dei movimenti (popolare e populista non sono la stessa cosa) e poi a riconoscere come il populismo abbia avuto diverse storie in diversi contesti (il caso degli Stati Uniti, per esempio). Più attenzione alla lettura e meno animosità sarebbe stata auspicabile. Di fatto, i miei critici trasformano le mie idee in polemica per poterle controbattere meglio.

Comunque, del populismo m’interessa vedere i problemi, non le cose che sono andate bene (come mi invita a fare invece McCormick). Perché è dalle cose andate male che possiamo meglio vedere gli attriti del populismo con la democrazia costituzionale. Scrive McCormick: “Urbinati è preoccupata dall’inesistenza di meccanismi di accountability iscritti nella logica del populismo, e dunque dalla possibilità che i molti – o più verosimilmente i loro demagoghi – possano usare appelli alla legittimità esistenziale del ‘popolo’ in modo da giustificare l’abrogazione delle norme democratiche e costituzionali. Ma questa preoccupazione è eccessivamente allarmista”. E perché sarebbe “eccessivamente allarmista”? E poi, che cosa vuol dire “eccessivamente”? Quale è il limite dell’allarme affinché di essi ci si debba preoccupare? Ci sono esperienze storiche effettive che devono far pensare alle contraddizioni messe in moto dai movimenti populisti quando diventano forze di governo. Non si tratta dunque di allarmismo (eccessivo o blando) ma di contraddizioni rispetto alla democrazia nella sua complessità, che non è solo regola di maggioranza, ma principio che regola, accetta e rispetta l’opposizione perché il suo fondamento è il rispetto della volontà e dell’opinione del cittadino singolo, non della massa.

Un esempio? La Lega Nord di Salvini: questo è un movimento populista che ha tutti i tratti della democrazia antiliberale. E che dire del movimento che in Ungheria ha conquistato la maggioranza e cambiato la costituzione per darle un carattere maggioritarista (ha McCormick mai letto la nuova costituzione ungherese?). Questi movimenti dimostrano l’esistenza di una interpretazione anti-individualista dei diritti e delle garanzie nel senso che essi interpretano diritti e garanzie come possessi della grande maggioranza, non degli individui (e quindi di chi non ha il potere del numero) perché interpretano la democrazia come il volere del popolo maggioritario, senza possibilmente intralci di diritti e contrappesi. In questa interpretazione, la massa è l’attore, non le sue componenti individuali, non i cittadini appunto (è questa la ragione della mia insistenza sulla dimensione isonomica della democrazia, che la forma rappresentativa non cambia o sovverte).

Ora: è vero che molto spesso, e soprattutto oggi, i movimenti populisti sono il segno di un malessere sociale ed economico. I sistemi liberali sono stati sepolti dai fascismi anche a causa di radicali crisi economiche che hanno impoverito larghe fasce di popolazione. Oggi siamo di nuovo in una situazione di grande sofferenza di molti. È di questa enorme diseguaglianza economica che le democrazie devono preoccuparsi. La politica populista è un segno di questa debolezza, ma dubito fortemente che possa essere la soluzione. Non lo è in Ungheria, non lo è stata in Venezuela. E non credo che la Lega Nord o il partito di Le Pen siano la soluzione che può salvarci dall’ingiustizia economica e sociale. Certo, ci sono anche populismi ‘buoni’ – vi prego di dirmi quali sono e ne discutiamo. In Europa, una democrazia che mette la massa o la nazione o il popolo tutto prima delle sue componenti è un problema, non ci ha mai dato soluzioni buone.

Se ci interessa, come interessa a miei interlocutori e a me, parlare della mutazione antiegualitaria delle società democratiche, dobbiamo portare il discorso oltre la politica e le sue procedure. Dobbiamo evitare di dare alla democrazia responsabilità che sono del sistema economico di capitalismo globale. Il populismo di oggi è il riflesso della debolezza degli stati nazionali, che non hanno più il potere di ordinare, di contrattare, di costruire piani industriali o piani energetici, che non riescono a fare politiche di redistribuzione e di giustizia sociale perché i loro esecutivi e i loro parlamenti sono stretti sotto il ricatto degli interessi bancari. Potremmo dire che le tensioni sociali che crescono ogni giorno sono il segno del compromesso che si è rotto tra lavoro e capitale, un compromesso che, dopo la Seconda guerra mondiale, ha accompagnato la nascita delle democrazie europee. All’interno di quel contesto, quello degli stati nazionali, capitale e lavoro erano due attori sociali ben organizzati e protagonisti di una trattativa non a perdere, non a somma zero.

La fine della Guerra Fredda, che comunque imponeva dei confini al mondo, ha cambiato il volto alle nostre società. Finché sulla mappa c’erano quei confini, all’interno del nostro mondo era possibile da parte di chi lavorava fare richieste e riuscire a ottenere risposte. Non essendo un mondo globalmente aperto, non era possibile accedere alle forze lavoro a costo zero del quarto o del quinto mondo per accumulare più profitti. Quei confini – per coloro che stavano dentro il primo mondo, dove era rinata la democrazia – hanno creato benessere, hanno reso possibile il controllo e l’esercizio del potere democratico, e l’equilibrio tra le classi. Il mondo aperto è un mondo maledetto per chi non ha potere. Un mondo senza confini ha serie difficoltà ad essere governato con l’arma del diritto e a coltivate l’eguaglianza su cui riposa la democrazia. Un mondo senza confini è una buona cosa per chi ha potere economico. È pessima per chi quel potere non ce l’ha. Ad esempio, per quella fascia di popolazione che si trova a competere con altri lavoratori, come quelli cinesi o del sud-est asiatico o africani, i quali potere non ne hanno, e nemmeno diritti sociali e sindacali, e che fanno concorrenza al lavoro occidentale protetto da diritti.

Qui sta il nocciolo del problema che i movimenti populisti mettono in luce, ma risolvono nel modo peggiore possibile quando puntano il dito accusatore contro gli immigrati, e propongono di togliere i diritti a chi non è parte della comunità di identici. Quando ridefiniscono gli spazi della politica in un modo tutto identitario: il pianerottolo davanti casa loro, la vita nel quartiere, nella regione, nella nazione. E allora, il diverso (chi parla un’altra lingua, chi ha una religione di minoranza, chi parla un dialetto non identico) diventa il nemico. E intanto chi ha il potere di manovrare le decisioni resta nell’ombra, lontano e invisibile.

Per molti populisti nostrani, il nemico è il vicino di casa, l’immigrato, il musulmano, il rom. Il populismo diventa quindi l’uso dell’ideologia del popolo da parte di una leadership determinata, che nel nome di quell’ideologia giustifica politiche di esclusione e autoritarie. Un’oligarchia di pochi, insomma, che cerca l’appoggio di una larga maggioranza, e spesso lo trova, quando questa maggioranza è fatta di cittadini di una nazione che soffrono una decurtazione dei diritti e del benessere. Certo, è un appoggio che si guadagna anche facendo cose lodevoli: Peron ha creato la classe media argentina, ha costruito una forte classe di dipendenti statali, ha creato per loro condizioni materiali di vita dignitose, ha dato loro le scuole … il tutto, a spese di tante altre cose, a partire dalla libertà politica, dalla divisione dei poteri, dal governo della legge … Insomma, il populismo può certamente essere un “grido di dolore”, come scrive McCormick, ma raramente può essere una cura buona a quel dolore.

Se si pensa che la diseguaglianza economica sia il problema, allora occorre andare oltre le proposte procedurali. Torniamo a parlare di lotta di classe: questo mi sembra più pertinente delle proposte molto problematiche come la costruzione per legge di due classi, quella dei pochi e quella dei molti (e quanti gradini sono ammessi tra i molti? E perché la soglia del reddito proposta da McCormick per discriminare pochi e molti dovrebbe essere accettata per buona?). Queste politiche “romane” o massificanti sono problematiche, non meno discrezionali di quelle esistenti e classiste perché introducono altri piani di discrezionalità che forse sono peggiori dei rimedi.

È quindi forviante portare sul terreno delle procedure un problema che è economico e di classe. Si pensa davvero che togliendo il libero mandato si porti giustizia nella società come pensano Del Savio e Mameli? Si pensa davvero che sostituendo il referendum e il plebiscito alle elezioni dei rappresentanti si risolva il problema del dominio del capitalismo finanziario sugli stati? La storia ci dà esempi contrari: alla democrazia plebiscitaria si sono rivolti proprio coloro che nel nome degli interessi del popolo o della nazione hanno tratto profitto per sostituirsi alla vecchia classe dirigente. La posizione di Del Savio e Mameli è oltre che lacunosa, ingenua. Ed è un’aporia. Infatti, da un lato mi accusano di voler usare le procedure per difendere lo status quo capitalistico (!!) e di proporre una democrazia non sostanziale ma formale e procedurale, dall’altro propongono di risolvere la diseguaglianza di classe con soluzioni che sono solo procedurali (Marx li criticherebbe di riformismo ingenuo). Insomma accusano me di difendere il capitalismo, perché difendo il mandato libero e poi, invece di andare con coraggio dove le loro premesse li potrebbero portare (cioè a Stato e rivoluzione di Lenin), propongono semplicemente di riscrivere l’Articolo 3 della Costituzione italiana!

Ma se davvero le procedure sono così di poco conto, se mi si accusa di difendere lo status quo perché sostengo che la democrazia vive nelle procedure, allora non si capisce perché i miei critici finiscano per proporre di riformare le procedure (appunto mandato imperativo e plebiscito). Ma, con buona pace della loro volontà riformatrice, io penso che dobbiamo preferire l’attuale dicitura dell’Articolo 3 della nostra Costituzione. La nuova dicitura è infatti cosi aperta all’interpretazione discrezionale da lasciare ai magistrati o alla maggioranza o alla forza un potere interpretativo esorbitante. Ecco il testo modificato del secondo comma dell’Articolo 3: “E’ dunque compito della Repubblica rimuovere quelle diseguaglianze economiche e sociali che interferiscono con l’eguale partecipazione dei cittadini all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese…”. L’espressione “quelle diseguaglianze che interferiscono” è una porta spalancata alla discrezione – infatti chi lo decide quali sono “quelle” diseguaglianze che “interferiscono” con l’eguale partecipazione? Una costituzione dovrebbe consentire di risolvere i dissensi non di scatenarli: questa riscrittura sarebbe una iattura e la porta aperta alle ostilità, poiché in una democrazia nessuno ha in mano la bilancia politica per decidere senza ombra di dubbio “quali siano” quelle diseguaglianze che “interferiscono” sulla decisione volontaria di partecipare (o di non partecipare?). Alla riforma dell’Articolo 3 proposta dai nuovi populisti dovremmo preferire la dicitura di Lelio Basso, che non era un populista ma un proceduralista politico, per tanto molto attento alle condizioni della partecipazioni politica. Tra le quali, il denaro.

Secondo i miei lettori, quello del denaro privato in politica sarebbe solo un piccolo problema, anzi un non problema. Eppure, noi stiamo assistendo ad una trasformazione oligarchica della politica che si fa strada immettendo soldi privati: questo si ricava dalla privatizzazione dei partiti, dalla privatizzazione dei deputati eletti, dalla privatizzazione dei mezzi di informazione. Di fronte a questi scempio del pubblico e della politica democratica, i populisti non si scompongono: a loro interessa che si facciano più plebisciti e più referendum!

.Sbilanciamoci.info, 14 novembre 2014

I poteri forti sono, secondo alcuni, quelli che superano le leggi finora valide a favore di altre ancora più forti e assolutamente obbligatorie anche se non sempre conosciute. Spesso si tratta di un potere esterno fortissimo che viene riconosciuto e accettato o sopportato per causa maggiore; sovrapposto alla normale dinamica degli affari e degli affetti per evitare maggiori sofferenze, maggiori guai. In economia e in politica c'è il caso proverbiale del «quarto partito» richiamato da Alcide De Gasperi sul finire degli anni quaranta del secolo scorso, come molto più forte degli altri tre: socialisti, comunisti, democristiani. Ma correva allora la piccola Italia della Ricostruzione e della Guerra Fredda. In un mondo ben più vasto e terribile di quello meschino di economia e politica, di democrazia e guerra, vale sempre il famoso comando di Virgilio al traghettatore che protestava: «Caron non ti crucciare: / vuolsi così cola dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare». È il canto III dell'Inferno dantesco: già allora la nostra cultura sapeva dell'esistenza di poteri superiori e inconoscibili, e aspettava tempi migliori.

Oggi i poteri forti, economici e culturali, poteri di classe, sono travestiti da Europa. La povera Europa è descritta attentamente nei testi che pubblichiamo in questo speciale: c'è una burocrazia bruxellese senza sentimenti, una finanza crudele, un apparato industriale che, multinazionale e remoto come è, forse risponde a regole ancor più sconosciute. Sono gli articoli di Azzolini, Baranes, Pullano a consentire un rapido sguardo. Poi si parla di poteri più lontani (Diletti), o anche più interni (Martiny), ma pur sempre inarrivabili. Tutti insieme essi descrivono leggi, disposizioni, regolamenti, procedure, abitudini che limitano le nostre scelte nazionali - da dentro oltre che da fuori - ma applicano poteri che valgono anche per noi, a scanso di guai peggiori.

O almeno così crediamo, visto che una minoranza sempre più consistente di nostri connazionali è molto insoddisfatta della situazione attuale e del futuro prossimo venturo che si delinea. Così non teme il cambiamento e sarebbe pronta a rischiare tutto. Decisa, insomma, a scambiare un po' del tranquillo benessere di oggi con una pericolosa e malsicura democrazia, che è l'aspirazione di domani. Il mondo dei poteri forti e sconosciuti da una parte, quello del futuro indecifrabile e molto incerto dall'altra. I poteri sconosciuti cui inchinarsi di qua; e di là altri poteri, difficili da decifrare ma portatori di una magnifica futura democrazia. O rassegnarsi ai poteri forti e sconosciuti o affidarsi agli incerti profitti di un futuro attraente, democratico, ma imprecisato. Tertium non datur.

Ma siamo sicuri che sia così? Se ci dessimo tutti da fare per sostenere e difendere i poteri deboli? Difficile immaginare eresia più invereconda. Gli autori di solito scrivono di poteri deboli per irriderli, per farne un rimprovero alla comunità imbelle che non riesce a esprimere i poteri forti che essi ritengono necessari e che in realtà bramano. I poteri deboli sono invece la capacità di resistere alle oppressioni dei poteri forti, di decidere per sé e per i figli di pochi anni, di andare e di venire. Di imparare e divertirsi, di scegliere e di lavorare, di non essere infastiditi dagli altri, con l'impegno, d'altro canto di non infastidire alcuno.

L'Europa allora sarebbe un paese magnifico, un Erasmus generalizzato, accogliente, nel quale ciascuno può «coltivare il proprio giardino», come suggeriva di fare, con un bel po' di ottimismo, il nostro amato tedesco di Westfalia, francese, concittadino europeo, Candide.

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Per chi non la conoscesse, basterebbe dire che Nadia Urbinati, riminese, è titolare della prestigiosa cattedra di scienze politiche alla Columbia University di New York. O che nel 2008 è stata insignita del titolo di Commendatore al merito della Repubblica Italiana, per aver «dato un significativo contributo all'approfondimento del pensiero democratico e alla promozione di scritti di tradizione liberale e democratica italiana all'estero». Pochi, meglio di lei, insomma, possono offrirci gli strumenti per leggere in filigrana quel che sta accadendo in questi difficile fase della storia dell’Italia che, sperando sia passeggera, continuiamo a definire crisi. E che più passa il tempo, più genera frustrazione, disillusione, rabbia.
Professoressa Urbinati, le botte agli operai della Thyssen, gli scontri di Tor Sapienza, l’aggressione a Salvini, l’assalto alla sede del Partito Democratico a Milano, così come le molte altre contestazioni di piazza di queste settimane. Che lettura dà dei tanti episodi di rabbia e violenza di queste ultime settimane?
Apparentemente non c’è un nulla che li lega: sono tutti fatti autonomi l’uno dall’altro, portati avanti da soggetti che rappresentano specifici problemi. Tuttavia, ognuno di loro, oltre a denunciare un problema, punta il dito verso una politica che non è in grado di risolverlo.
Come mai la politica è impotente, oggi?
Potremmo dire che la tensione sociale sono il segno del compromesso che si è rotto tra lavoro e capitale, un compromesso che, dopo la seconda guerra mondiale, ha accompagnato la nascita delle democrazie europee. All’interno di quel contesto, quello degli Stati-nazione, capitale e lavoro erano due attori sociali ben organizzati e protagonisti di una trattativa non a perdere.
Poi è arrivata la globalizzazione…
E’ arrivata anche la fine della Guerra Fredda. Che coi suoi Muri e le sue Cortine di Ferro, imponeva dei confini al mondo. Finché sulla mappa c’erano quei confini, all’interno del nostro mondo era possibile da parte di chi lavorava fare richieste e riuscire a ottenere risposte. Non era un mondo aperto, quello. Non si poteva accedere alle forze lavoro a costo zero del quarto o del quinto mondo. Quei confini - per coloro che stavano dentro il primo mondo, dove era rinata la democrazia - hanno creato benessere, hanno reso possibile il controllo e l’esercizio del potere democratico, e l’equilibrio tra le classi.
Sta dicendo che, almeno per noi, era meglio quando c’era il Muro di Berlino?

Sto dicendo che un mondo senza confini ha serie difficoltà a essere governato con l’arma del diritto e a coltivate l’eguaglianza, di cui la democrazia è fatta. E che questa, per chi ha potere economico, è un’ottima notizia. È pessima, invece, per chi quel potere non ce l’ha. Ad esempio, per quella fascia di popolazione che si trova a competere con altri lavoratori come quelli cinesi o del sud est asiatico, che potere non ne hanno e nemmeno diritti sociali e sindacali. Che fanno concorrenza al lavoro occidentale protetto da diritti. Che sono un “nemico” lontano e invisibile.
Come mai gli stati hanno accettato questo stato di cose? Perché non hanno difeso quel benessere?
Oggi sono altre le entità che impongono i loro obiettivi e le loro agende agli stati: la Commissione Europea e ancora prima le Banche centrali e i mercati finanziari. Si tratta di decisioni, peraltro, che non hanno di mira la crescita di benessere dei cittadini dei loro stati, ma il profitto per pochi e l’impoverimento per molti. In nome della stabilità monetaria, della diminuzione dei tassi d’interesse. In nome di qualcosa che è rilevante certamente per tutti, ma pesa su qualcuno molto meno che su qualcun altro. E soprattutto assomiglia a un diktat che non dà possibilità di scelta, che impone una decisione. La cosa più grave è un’altra, però.
Quale?
Che non c’è più un referente politico sovrano come lo Stato, rispetto al quale chiedere e avere diritti e sottostare a obblighi. Chi non ha altro potere se non la propria capacità lavorativa, le proprie mani o la propria mente, non può vivere senza confini; e se vuole vivere sena essere dominato dai forti deve poter contare su uno Stato che abbia il monopolio dlla forza e del potere di decisioni su alcuni dominii di vita sociale. Al contrario, la finanza e le grandi multinazionali senza confini ci vivono benone e non hanno nè stati nè patrie.
Perché senza confini è così difficile fare politica?
Perché la politica ha bisogno di uno spazio delimitato. È in luoghi circoscritti che si formano gli obblighi e diritti e che si sedimentano memorie e abiti. Affinché ci sia politica, c’è bisogno di un contraltare, di un noi e di un loro, di una dimensione definita e controllabile. Perlomeno, ad aver bisogno di luoghi è la politica democratica. Quella dispotica può farne senza problemi a meno. Come diceva Montesquieu, basta un despote per governare la grande Asia.
E chi è questo monarca dispotico?
La finanza e le grandi corporation sono i nuovi stati, giganteschi potentati globali, le nuove signorie di questo nuovo medioevo. Il problema, semmai, è che noi siamo dentro questo gioco, non ne siamo fuori. Siamo consumatori, siamo correntisti, siamo piccoli azionisti di questi nuovi poteri. Accettiamo di essere sudditi, invece di ribellarci, ma abbiamo bisogno di dare sfogo alla nostra rabbia. Così ridefiniamo gli spazi in cui possiamo agire: il pianerottolo, la vita sotto casa, il quartiere. In quei luoghi non c’è finanza, non ci sono corporation. In quei luoghi il nemico diventa il vicino di casa, l’immigrato, il musulmano, il rom.
È una rabbia, questa, che può trovare risposta nel populismo?
Per alcuni è l’unica risposta. La crisi dei partiti tradizionali che rappresentano interessi ha aperto la strada a un altro tipo di rappresentanza. Se le tecnocrazie gestiscono il potere, i populismi danno voce a una domanda politica che non ha ruolo, né spazio.
La politica darà anche voce a parole, a quella domanda. Tuttavia, nella pratica, interviene a favore delle tecnocrazie e delle multinazionali. Ad esempio, pensiamo a Matteo Renzi quando dice che dobbiamo cambiare le regole del lavoro per attrarre investimenti…
Anche la politica populista è debole. Riflesso della debolezza degli stati che non hanno più il potere di ordinare, di contrattare, di costruire piani industriali o piani energetici. L’unica cosa che i governi possono fare, con le corporation, è accontentarle. Certo, non possiamo offrire loro l’assenza di leggi sul lavoro che c’è nel sudest asiatico, perché qui abbiamo una tradizione di diritti e garanzie che stenta a piegarsi e a morire. Tuttavia, la direzione che stiamo prendendo è quella della contrazione dei diritti, non certo quella della loro espansione. E l’ideologia è già in moto a convincerci che quelli non sono diritti ma privilegi e che chi ha diritti è il nemico dei disoccupati.
D’accordo, però anche oggi ci sono lavoratori che hanno molti diritti e altri che non ne hanno alcuno. Non pensa che più che togliere i diritti, si stia cercando di ridefinirli?
E sicomme c’è precarietà la strada da prendere è rendere tutti precari? Creare eguaglianza nel niente? Quando sento parlare di ridiscutere o ridefinire il diritto al lavoro, mi viene da rabbrividire. Un diritto o c’è o non c’è. Se sono libero di esprimere solo alcune mie opinioni, io non godo del diritto di libertà di parola. Ridiscutere il diritto del lavoro vuol dire, molto semplicemente, che la contrattazione torna a essere un fatto privato tra deterntori di profitto e lavoratori, che non è più una relazione da stabilire secondo principi o regole pubblici, che insomma non deve sottostare a criteri d giustizia ed equità ma solo a criteri di profitto.
Non a caso tutti i sindacati, quelli dei lavoratori come quelli delle piccole imprese, sono in crisi nera…
Oggi il sindacato ha perso potere da un punto di vista contrattuale e sta tornando ad essere come lo ottocentesche società di mutuo soccorso: un’associazione di persone che si aiutano tra loro, ma che non riescono a negoziare diritti e tutele con la controparte. In altre parole: non possono chiedere perché non hanno il potere della trattativa. I lavoratori possono solo aiutare se stessi.
Di fatto, la politica sta attaccando anche il versante mutualistico, però. Nella legge di stabilità c’è un taglio di 150 milioni di euro del fondo per i patronati, che offrono servizi di assistenza e previdenza ai cittadini…
Ogni forma aggregativa, anche quella mutualistica, può diventare nel tempo una forza di negoziazione. Ecco perché anche i patronati sono sotto attacco. Quel che mi stupisce è che la sinistra non riesca a dire nulla su tutto questo. Nata sul lavoro e per rappresentare gli interessi di chi lavora (quasi tutti, cioè), oggi non sa nè pare volere elaborare un’alternativa a questa situazione.
Ad esempio?
Ad esempio, potrebbe spingere affinché l’Europa diventi una federazione politica, uno Stato post-nazionale che abbia la forza di contrattare con la finanza e con le multinazionali, invece che lasciarla morire avvitata nei trattati intergovernativi e tenuta in mano da tecnocrati.
Secondo lei è questo il destino che toccherà agli stati-nazione? Scomparire dentro nuovi stati post nazionali?
Lo stato nazione ha svolto una funzione importantissima negli ultimi secoli, sorto sulle ceneri del Sacro romano impero. Ora però gli Stati Uniti d’Europa sono una necessità: penso a Hobbes che nel Leviatano mostrava come l’unica soluzione se si voleva superare l’anarchia e la lotta di tutti contro tutti era istituire un potere sovrano; diversamente la nostra vita sarebbe stata breve, pericolosissima, terrificante e brutta. Oggi ci troviamo di fronte alla necessità di un Leviatano europeo.
Se il nostro destino non sarà l’Europa, quale sarà? Il Sudamerica dei caudillos e dei generali?
Il populismo è l’uso dell’ideologia del popolo da parte di una leadership deterninata, che nel nome di quell’ideologia giustifica politiche autoritarie e eslusionarie, anche razziste e discriminatorie. Un’oligarchia di pochi, insomma, che gode sull’appoggio di una larga maggioranza. È un appoggio che si guadagna anche con cose buone, intendiamoci: Peron ha creato la classe media argentina, ha costruito una forte classe di dipendenti statali, ha creto per loro condizioni materiali dignitose, ha dato loro le scuole.. Il tutto, a spese di tante altre cose, a partire dalla libertà politica, dalla divisione dei poteri, dal governo della legge…
Pensa a Peron, quando sente parlare di Partito della Nazione?
Non so se chiamarlo populista, ma nel Partito Democratico di Renzi c’è la visione di una società senza conflitti, in cui ognuno deve accettare il proprio ruolo e stare al proprio posto. È una politica di ordine, in cui chi reclama qualcosa in più è da combattere, perché non accetta lo stato delle cose, si pone al di fuori del perimetro della nazione.
Ci può essere un partito della nazione senza autoritarismo?
Questa è già una proposta autoritaria. È un’idea che abbiamo in pochi, però. Perché questo è in fondo un autoritarismo blando, poco aggressivo, seducente. È come se Renzi fosse il nostro compagno di banco, l’amico di gioco, il burlone che twitta.
Parafrasando Orwell, Renzi è un po’ come una specie di «grande amico»…
La personalizzazione dei rapporti di potere è a volta pericolosa e sempre spiacevole. Sembra che non ci debba essere più distanza tra cittadini e potere e che questo sia segno del superamento di ogni forma di autoritarismo. Ma è vero il contrario: la distanza nostra dal potere è uno schermo dal potere, oltre a consentirci di vederlo e valutarlo con più riflessività, evitando il coinvolgimento emozionale. Allo stesso modo, lo è la lentezza rispetto alla mistica della decisione veloce.
Come mai la lentezza dovrebbe essere un antidoto all’autoritarismo?
Uno dei padri fondativi delle costituzioni moderne, che è Condorcet, presentando all’Assemblea nazionale la costituzione che aveva scritto disse che il problema serio del controllo democratico era (ed è) quello di impedire e smontare l’argomento dell’immediatezza. Il dispotismo vive di ideologia dell’immediatezza. Il senso del Parlamento è proprio quello di moderare la velocità delle decisioni che invece l’Esecutivo propone. Se la decisione dev’essere immediata, come sul campo di battaglia, a decidere è il generale. Lo scriveva già Macchiavelli: le deliberazioni hanno bisogno di tanti, ma la decisione spetta solo al singolo.

LLei usa molte metafore belliche. Qualche tempo fa fu proprio il New York Times a definire la crisi come la terza guerra mondiale combattuta senza armi…
Ricordo bene e credo che abbia ragione. Magari non ce ne rendiamo conto, ma siamo in guerra. E in guerra non si fanno domande, non si pongono questioni. In guerra i diritti sono privilegi. La richiesta di chiarimenti è sabotaggio. La cosa paradossale è che ci siano queste richieste di incremento del potere dell’esecutivo quando, con la crisi degli stati, l’oggetto del contendere è così esiguo e gli stati hanno davvero poco potere di decidere. In ogni caso, noi non ci opponiamo perché avvertiamo il senso della crisi e perché sappiamo che le nostre armi - dai partiti ai sindacati - sono spuntate. Infine quelle decisioni celeri sono dure negli effetti per la maggioranza non per tutti, e il decisionismo deve fare ingerire la pillola ad ogni costo, con l’ideologia del fare e del decidere, e con i manganelli se alcune frange della popolazione resistono.
Che differenza c’è, per lei, tra conflitto e rabbia?
Il conflitto politico è mediato. Dev’essere pensato, sviluppato, teorizzato. Devi convincere le persone a essere parte in causa, dar loro la visione e la speranza di un futuro migliore. La rabbia, invece, è immediata, legata al tuo bisogno “qui e ora” e non protesa al futuro. Non aspetti una rivolta che ti porti un futuro migliore: semplicemente, vuoi che i rom se ne vadano dal tuo quartiere, che i musulmani stiano a casa loro, che i vecchi cedano la pensione ai giovani. Tutto l’armamentario delle passioni identitarie viene squadernato perché l’altro versante, quello economico, è impervio. Lì non si combatte più perché la guerra è finita. Ed è persa. E i poveri sconfitti si avventano su altre prede.

Tutti i nomi (per ora) della rete del potere occulto che avvolge quanto resta della democrazia italiana.

L'Espresso online, 23 ottobre 2014Luca Lotti è “lampadina”, il sottosegretario dal carattere fumantino, considerato del terzetto quello più difficile da avvicinare. Marco Carrai è l’imprenditore immerso nei suoi affari, ma più disponibile ad ascoltare lamentele e richieste. L’avvocato Alberto Bianchi è lo “zio saggio”, il mediatore per eccellenza, colui che sa ammorbidire i dissidi e trovare la quadra. Insieme Luca, Marco e Alberto formano quella che deputati e brasseur d’affari chiamano “la trinità”, il gruppo scelto a cui Matteo Renzi ha affidato la creazione di un nuovo sistema di potere che, all’ombra di Palazzo Chigi, deve gestire nomine pubbliche, dossier delicatissimi e interessi economici del Paese.

Negli ultimi mesi la rete di relazioni della trimurti si sta espandendo come una supernova, tanto che la supremazia della vecchia “ditta” (così veniva chiamato il sodalizio tra Gianni Letta e Luigi Bisignani, che ha patteggiato un anno e sette mesi per associazione a delinquere nell’ambito dell’inchiesta sulla P4) è ormai un lontano ricordo: la rottamazione della coppia che ha amministrato la cosa pubblica durante il regno di Silvio Berlusconi è (quasi) terminata. Così da febbraio lobbisti, consulenti d’azienda e battitori liberi si affannano per salire sul carro giusto. Telefonate, appuntamenti nei bar del centro storico di Roma, pressioni sui parlamentari di riferimento: entrare fin d’ora nelle grazie dei decisori è fondamentale, visto che chi resta fuori dai giochi mette a rischio non solo gli interessi della sua azienda, ma anche potere personale e lo stipendio.

Gli uomini neri

Nella vulgata comune il lobbista è ancora sinonimo di intrallazzo. L’iconografia lo dipinge come un maneggione in blazer, come l’uomo nero che smista mazzette per velocizzare una pratica o spingere un emendamento. La cronaca giudiziaria non ha migliorato la loro “reputation”: la seconda Tangentopoli, la P4, gli scandali che stanno martoriando l’Eni e la Finmeccanica, i traffichini alla Valter Lavitola, le tangenti del Mose, tutto ha contribuito a rilanciare l’assioma “lobbista uguale faccendiere”. Un luogo comune che danneggia i professionisti degli affari istituzionali, che spesso e volentieri non solo difendono interessi legittimi (come fanno associazioni di categoria e sindacati), ma servirebbero al legislatore per avere dati e informazioni corrette su business cruciali. Non è un caso che la categoria, a Washington come a Bruxelles, sia da lustri rispettata e regolamentata.

L’Italia, anche in questo campo, è molto indietro. Sia per colpa del Parlamento, che da trent’anni annuncia una legge sulla trasparenza delle lobby che non ha mai visto la luce, sia perché i protagonisti della persuasione si comportano spesso come trent’anni fa, quando il costruttore Gaetano Caltagirone rivolgeva all’andreottiano Franco Evangelisti l’immortale «A Frà, che te serve?». Non è un caso che il dossieraggio per fregare i colleghi resta pratica assai diffusa, così come l’opacità nei rapporti con la politica e la “black propaganda” attraverso cui si tenta di distruggere l’immagine di un concorrente grazie a giornalisti ingenui o compiacenti.

La Trinità


I protagonisti della nuova leva renziana non sono stati coinvolti in indagini giudiziarie. Almeno nel penale.
Partiamo da Carrai. Che insieme a Lotti, Bianchi e al ministro Maria Elena Boschi è nel ristretto board della Fondazione Open, cuore e cassa del meeting della Leopolda. Nonostante le voci lo diano in uscita dal “giglio magico”, per il premier resta un punto di riferimento imprescindibile. Più riflessivo di Lotti, timido e mingherlino, rampollo di una famiglia di costruttori molto cattolica, nel 2009 ha deciso di lasciare la politica attiva diventando imprenditore L’apparenza inganna, perché Carrai nel tempo libero continua a raccoglie fondi per le campagne elettorali del premier e tesse relazioni a tutto campo.
Non solo con ambasciatori e politici americani e israeliani, come è noto, ma con tutti i banchieri del Paese: da Fabrizio Palenzona a Lorenzo Bini Smaghi, è a lui che i finanzieri devono fare riferimento.Molti lobbisti della rete che sta mettendo in piedi il giovane Marco li ha invitati al suo matrimonio: a festeggiare lui e la consorte Francesca Campana Comparini c’erano anche alcuni emergenti, come Filippo Maria Grasso, Pasquale Salzano e la “lobbista del papa” Francesca Chaouqui.
Tutti in carriera, e determinati a farne ancora di più: se Grasso, 35 anni, è da tempo nel cerchio magico di Tronchetti Provera in Pirelli, legatissimo a Pippo Corigliano dell’Opus Dei e pizzicato nelle intercettazioni della P4 per aver messo in contatto l’ex ministro Stefania Prestigiacomo e Luigi Bisignani (Grasso vanta relazioni internazionali di alto livello in paesi cruciali come Russia, Brasile e Turchia, nonché stretti rapporti con le forze di polizia), Pasquale Salzano, classe 1973, è il napoletano che ha preso da poco la guida delle relazioni istituzionali all’Eni, al posto di Leonardo Bellodi.
Scelto direttamente dal nuovo numero uno del colosso petrolifero Claudio Descalzi, Salzano è un diplomatico, ha lavorato con Romano Prodi e ha già capito che il suo sarà un compito difficile: a poche settimane dalla promozione il suo capo è stato subito indagato per corruzione internazionale dalla procura di Milano. Con il governo, però, per ora Salzano parla poco: Renzi e Descalzi si scrivono sms ogni due giorni, scavalcando ogni possibile intermediazione.

Piccoli Letta crescono

Al matrimonio di Carrai anche una delle facilitatrici più ambiziose del momento, la Chaouqui. Figlia di un egiziano che se n’è andato di casa quando era ancora bambina e di una insegnante calabrese di San Sosti, s’è trasferita qualche anno fa nella Capitale in una topaia di 15 metri quadri sopra un garage. Ha fatto la babysitter per pagarsi l’affitto e le tasse della Sapienza, poi ha scalato tutte le gerarchie della città in pochi anni. Grazie alle entrature della contessa Marisa Pinto Olori del Poggio (ambasciatrice di San Marino che l’ha praticamente adottata e presentata a decine di vescovi e cardinali), e a un rapporto personale con il cardinale George Pell, il segretario di Stato Pietro Parolin e Bergoglio in persona. Tra un pranzo per vip organizzato su una terrazza in San Pietro (tra gli invitati anche Carrai) e un appuntamento a Santa Marta, Chaouqui sta pure curando gli investimenti italiani di due multinazionali asiatiche.

L'epurazione

Scaltri e rapidi ad apprendere l’arte di Richelieu, Carrai Bianchi e Lotti non conoscono ancora le logiche e i riti dei vecchi potentati. Cresciuti tra le colline toscane, diffidano dei salotti alla Jep Gambardella dove «prima si magna e poi si intrallazza». Qualcuno, inoltre, ha loro segnalato che sarebbero state proprio quelle élite ad aver pompato a dismisura sui media il caso della casa fiorentina di Carrai in cui ha vissuto Renzi per qualche mese. Arrivati sotto il Colosseo i tre decidono dunque di guardarsi le spalle, di non frequentare i bar di via Veneto dove i lobbisti chiacchierano tra crodini e gin-tonic, e di annientare prima possibile la ragnatela costruita dai venerabili maestri della Seconda Repubblica.

L’epurazione parte a maggio. Cadono come birilli Stefano Lucchini, ras all’Eni da sempre fedele a Bisignani, e Leonardo Bellodi, l’uomo ombra di Paolo Scaroni, esperto di missioni a cavallo tra business e intelligence. Oggi Lucchini ha già trovato un nuovo ufficio a Banca Intesa, mentre sembra che Bellodi voglia aprire - insieme a Scaroni e l’ex ad di Siram Giuseppe Gotti - una sede italiana di un importante fondo di investimento Usa. Anche Gianluca Comin, ex capo delle relazioni istituzionali dell’Enel e ganglio cruciale del vecchio sistema, dopo aver perso la poltrona si è buttato nel privato: oggi ha una scrivania nella sede dello studio legale Orrick, e collabora per la multinazionale dei farmaci Novartis, finita nella bufera per una multa da 92 milioni comminata dall’Antitrust e bisognosa di lobbisti in grado di ridare smalto alla reputazione dell’azienda. Dei vecchi leoni solo Fabio Corsico e Giuliano Frosini possono vantare eccellenti rapporti con il nuovo establishment: il primo, da 10 anni factotum di Francesco Gaetano Caltagirone e manager di punta della Fondazione Crt, è stato messo nel board di Terna dalla Cassa depositi e prestiti; Frosini, un passato da bassoliniano, amico di Enrico Letta e Maurizio Lupi nonché foundraiser per Comunione e Liberazione, ha lasciato Terna per tornare a seguire gli interessi di Lottomatica, ma è stato piazzato dal governo Renzi nel nuovo cda di Trenitalia.

I lobbisti in cerca d’autore, invece, non si contano: se Franco Brescia della Telecom per ora è saldo al suo posto, Marco Forlani (figlio del democristiano Arnaldo) è uscito da Finmeccanica a luglio, mentre Paolo Messa (ex consigliere del ministro Corrado Clini, indagato per una vicenda di corruzione) sta tentando la fortuna bisbigliando suggerimenti al potente Gianni De Gennaro, presidente Finmeccanica ed ex capo della polizia. Costanza Esclapon, contrattualizzata dalla Rai e amica di Lucchini, sta invece difendendo con le unghie il suo capo Luigi Gubitosi dagli attacchi della stampa. Renzi sembra però aver già deciso le sorti del direttore generale di Viale Mazzini, che dovrà cambiare azienda alla scadenza della nomina, prevista per marzo. In pole per il suo posto il “giglio magico” si sta dividendo tra l’ex Mtv Antonio Campo Dall’Orto e il numero uno della compagnia telefonica H3G Vincenzo Novari, per cui tifano Luca Lotti ed Ernesto Carbone.

Chi sale e chi scende

«Lobby» è una parola d’origine medioevale. Viene da “laubia”, cioè “loggia”, “portico”. Ma nell’immaginario significa clan, camarilla, combriccola che persegue i suoi interessi a scapito di quelli della collettività. L’azione dei gruppi di pressione in Parlamento, l’assenza di qualsiasi regola di condotta, i rapporti amicali e di scambio con i politici e i partiti, però, non sono un luogo comune. Perché definiscono il tipo di lobbismo che in Italia va da sempre per la maggiore. Se Bisignani (che ha cambiato ufficio, ora è in via Po, e tenta di dire la sua attraverso il buon rapporto con Denis Verdini e la famiglia Angelucci) è metafora negativa, i nuovi ciambellani di Renzi non hanno ancora del tutto cambiato verso, soprattutto nel modo di agire. «Nei ministeri non si fidano di nessuno, e gestiscono da soli tutti i dossier.

Così la trasparenza è un optional, e il rischio di caos e approssimazione è elevatissimo», racconta il numero due degli affari istituzionali di un’importante impresa di Stato. «Ai tempi di Enrico Letta potevamo coordinarci con l’ambasciatore Armando Varricchio e con il suo consigliere Fabrizio Pagani. Ora, invece c’è un vuoto assoluto»Per la cronaca, Varricchio è stato depotenziato a semplice burocrate, mentre Pagani è stato spedito a via XX Settembre, come capo della segreteria del ministro Pier Carlo Padoan. Era proprio Pagani uno dei commis di Stato più influenti: se ai consiglieri di Stato è stata messa la museruola, nei palazzi contano ancora molto Salvatore Nastasi, ex enfant prodige di Gianni Letta e potentissimo direttore del ministero della Cultura, e Antonio Agostini, un passato nei servizi segreti, ex direttore dei ministri Gelmini e Clini, diventato qualche settimana fa numero uno dell’Isin, l’authority per la sicurezza nucleare.

Il vecchio e il giovane


Quando Carrai ha qualche dubbio sul da farsi, telefona ad Alberto Bianchi. Sessant’anni, pistoiese, Bianchi è un riservato avvocato, esperto in diritto commerciale e fallimentare, con un grande studio a Firenze. Ma, soprattutto, è l’uomo che da 15 anni sussurra buoni consigli ai tre ragazzini di belle speranze, Renzi, Lotti e Carrai, che ha allevato intuendone ambizioni e capacità. Liberale convinto e anticomunista, un fratello (Francesco) stimato da Giovanni Bazoli e da poco piazzato alla Fondazione Maggio Fiorentino, lo “zio saggio” siede nel cda dell’Enel e ha un peso specifico notevole. Non solo nella fondazione Open di cui è presidente e di cui ha scritto lo statuto, ma su ogni nomina che conta: pare sia lui ad aver imposto Francesco Starace all’Enel. Dei tre tenori è l’unico che ha beccato una condanna (seppure in primo grado): secondo la Corte dei Conti Bianchi - quando era commissario straordinario dell’Efim spa (una delle holding delle vecchie Partecipazioni statali finita in bancarotta) - avrebbe causato un danno erariale di 4,7 milioni di euro.

Ma dei tre campioni di Renzi quello che i lobbisti sognano di agganciare per primi è Luca Lotti. Nato nel 1982, sottosegretario all’editoria a Palazzo Chigi, è delegato a tutti i rapporti informali del premier. Maestro nell’anticipare i desiderata del “principale” di cui esegue gli ordini senza discutere, ha messo il suo zampino in tutte le partite più delicate. Prima le nomine delle società pubbliche (il nuovo capo delle relazioni istituzionali di Poste, Giuseppe Coccon, a Lotti deve moltissimo), poi ha sfilato le deleghe del Cipe al ministero dell’Economia. Se prima i vescovi e i cardinali parlavano con Gianni Letta, ora devono incontrare lui. Dagli uomini d’affari che vogliono avere buone entrature con il governo, invece, Lotti manda due imprenditori di fede renziana come Andrea Conticini e Andrea Bacci. Tra una partita di calcetto alla Cecchignola e un appuntamento sotto la galleria “Alberto Sordi”, c’è solo un obiettivo che “lampadina” non è riuscito ancora a raggiungere: le deleghe ai servizi segreti. Per le barbe finte l’ex consigliere di Montelupo ha un chiod o fisso, e per strappare l’incarico al sottosegretario Marco Minniti farebbe follie. Per ora Renzi gli ha detto di no. Così, con gli 007 dell’Aisi e dell’Aise, Lotti si incontra nei bar dietro Piazza di Pietra.

Una parola «adoperata per indicare dottrine e attività diametralmente opposte» (Gaetano Salvemini

) esaminata in fruttuoso dialogo tra una visione liberale ( Norberto Bobbio) e una visione marxista (Pietro Ingrao). la Repubblica, 29 ottobre 2014

TUTTI i concetti generali della politica - libertà, uguaglianza, giustizia, nazione, stato, per esempio - sono usati in significati diversi, con la conseguenza di confusioni inconsapevoli e di inganni consapevoli. Gaetano Salvemini, lo storico antifascista che Bobbio include nel pantheon dei suoi “maestri nell’impegno”, ha scritto:

«La parola democrazia è adoperata per indicare dottrine e attività diametralmente opposte a una delle istituzioni essenziali di un regime democratico, vale a dire l’autogoverno. Così noi sentiamo [parlare] di una cosiddetta “democrazia cristiana” che, secondo la Catholic Enciclopedia, ha lo scopo di “confortare ed elevare le classi inferiori escludendo espressamente ogni apparenza o implicazione di significato politico”; questa democrazia esisteva già al tempo di Costantino, quando il clero “dette inizio all’attività pratica della democrazia cristiana”, istituendo ospizi per orfani, anziani, infermi e viandanti.

«I fascisti, i nazisti e i comunisti hanno spesso dato l’etichetta di democrazia, anzi della “reale”, “vera”, “piena”, “sostanziale”, “più onesta” democrazia ai regimi politici d’Italia, della Germania e della Russia attuali [siamo nel 1940], perché questi regimi professano anch’essi di confortare ed elevare le classi inferiori, dopo averle private di quegli stessi diritti politici senza i quali non è possibile concepire il “governo dei popoli”».

Invito al colloquio è il titolo del primo saggio di Politica e cultura ( Einaudi), un’espressione che riassume l’intera attività politico-intellettuale di Bobbio. Ma, il colloquio, affinché non si svolga in acque torbide, deve sapere qual è l’oggetto e che cosa, per non intorbidirle, ne deve stare fuori. Per questo, una definizione è necessaria, ma una definizione troppo pretenziosa non aprirebbe, bensì chiuderebbe il confronto. Ecco l’attaccamento di Bobbio alle “definizioni minime”. Sono minime le sue definizioni di socialismo, liberalismo, destra e sinistra, ad esempio. Ed è minima la definizione di democrazia; potremmo anzi dire minimissima: a) tutti devono poter partecipare, direttamente o indirettamente, alle decisioni collettive; b) le decisioni collettive devono essere prese a maggioranza. Tutto qui.

Oltre che minima, questa definizione è anche solo formale: si riferisce al “chi” e al “come”, ma non al “che cosa”. Riguarda soltanto - come si usa dire per analogia -' le “regole del gioco”.

In uno scambio epistolare con Pietro Ingrao sul tema della democrazia e delle riforme costituzionali che ebbe luogo tra il novembre 1985 e il gennaio 1986 (P. Ingrao, Crisi e riforma del Parlamento, Ediesse), troviamo una dimostrazione di ciò a cui serve il “concetto minimo”. Serve, da una parte, a includere, e dall’altra, a escludere e, così facendo, a chiarire. I punti del contrasto riguardano quello che allora era il progetto d’Ingrao, descritto in un libro dal titolo significativo: Masse e potere (Editori Riuniti, 1977) che allora ebbe grande successo e che ora - mi pare - è dimenticato: la democrazia di massa o di base, unitaria e capace di egemonia. Ma gli argomenti chiamati in causa possono riguardare, in generale, tutte quelle che Bobbio avrebbe considerato degenerazioni della democrazia, alla stregua della sua definizione minima, come ad esempio, la “democrazia dell’applauso” di cui egli parla nel 1984, a proposito della conquista del Partito socialista da parte del suo segretario di allora), o la democrazia dell’investitura plebiscitaria e populista dei tempi più recenti.

Si prenda la “massa”. Bobbio chiede «che cosa si possa intendere mai per democrazia di massa di diverso da quel che s’intende per democrazia fondata sul suffragio universale»; che cosa si dica di più e di meglio «rispetto a quel che s’intende quando si parla di un sistema politico in cui tutti i cittadini maggiorenni hanno il diritto di voto »? Se non s’intende nulla di diverso, la democrazia di massa è perfettamente compatibile, anzi è la definizione formale della democrazia nella quale i cittadini possono riunirsi e associarsi per svolgere attività politica.

Ma non è tutto. Introdurre le masse al posto dei cittadini non lascia capire esattamente di che cosa si stia parlando e nella zona grigia dell’incertezza entrano atteggiamenti emotivi che difficilmente diremmo democratici. Ingrao usa espressioni come «irruzione delle masse nello Stato», «un fiume tumultuoso che rompe gli argini e spazza e travolge ciò che trova nel suo corso», all’azione diretta della folla. Massa può alludere a un corpo collettivo amorfo e indifferenziato, mentre il soggetto principe di un regime democratico è il singolo individuo. «In democrazia non ci possono essere masse: ci sono o individui, oppure associazioni volontarie di individui, come i sindacati e i partiti». In ogni caso, in democrazia gli individui pensano e vogliono a partire dalla propria autonomia morale. Sanno affrancarsi dalla “psicologia della massa” sulla quale si appoggiano e si sono appoggiati tutti i demagoghi d’ogni tempo e luogo.

E l’unità? Che senso ha l’appello all’unità che il Partito comunista di quegli anni insistentemente faceva proprio: compromesso storico, alternativa democratica, oggi Pd o, addirittura, Partito della Nazione? La democrazia è un regime d’insieme e «non può essere chiamato democratico [si può aggiungere: nazionale] in una delle sue parti se non costo di creare una notevole confusione. Se una di queste parti viene chiamata “democratica” [o nazionale] è segno che la si considera una parte che tende a identificarsi col tutto». L’unità sconfina nella unicità. La democrazia richiede “distinzioni”, cioè pluralismo. «Senza pluralismo non è possibile alcuna forma di governo democratico e nessun governo democratico può permettersi di ridurre, limitare, comprimere il pluralismo senza trasformarsi nel suo contrario». La sintesi è espressa da Bobbio in termini assai forti, perfino scandalosi: «La discordia è il sale della democrazia, o più precisamente della dottrina liberale che sta alla base della democrazia moderna (per distinguerla dalla democrazia degli antichi). Resta sempre a fondamento del pensiero liberale e democratico moderno il famoso detto di Kant: “L’uomo vuole la concordia, ma la natura sa meglio di lui ciò che è buono per la sua specie: essa vuole la discordia”».

E l’egemonia? Qui Bobbio confessa che si tratta d’un concetto che gli è “meno familiare”, ma ciò non gli impedisce di porre una domanda analoga a quella posta a proposito della “massa”: «Mi piacerebbe che qualcuno mi spiegasse in che cosa consista l’egemonia in un sistema democratico se non nella capacità di ottenere il maggior numero di voti […] Se qualcuno mi sa dire che cosa significhi in democrazia, entro il sistema di certe regole del gioco, conquistare l’egemonia, oltre al conquistare il consenso degli elettori, lo prego di farsi avanti».

Insomma: egemonia, massa, unità non appartengono al sistema concettuale del pensiero liberal-democratico e appartengono invece alla tradizione del pensiero marxista. Tutto si tiene in una concezione della democrazia che contraddice l’universo politico che, in fin dei conti, era anche quello di Ingrao del Partito comunista.

La forza elementare delle argomentazioni di Bobbio porta, alla fine, a una certa convergenza. Dice Ingrao e certo Bobbio avrebbe concordato (cito dalla lettera che conclude lo scambio): «”Democrazia minima”: dici tu. Ma anche quel livello minimo (eguaglianza formale nella libertà di voto) può realizzarsi senza chiamare in causa tutta una serie di condizioni, che riguardano libertà di voto, modalità di voto, contenuti del voto, conseguenze del voto, attuazione del voto? L’atto è quello. Ma il quadro - sociale, politico, statuale - entro cui esso si svolge è decisivo, perché esso possa essere non dico esaustivo (?), ma significante. Per “minima” che sia la democrazia, quel voto ha bisogno di un prima e di un poi che gli diano verità. Altrimenti la forma dell’uguaglianza rivela il suo limite, la sua debolezza di contenuto».
Questo dice Ingrao. Ma, chi potrebbe dissentire? Chiunque s’ispiri a una concezione liberale della democrazia — Bobbio in primis — non potrebbe non essere d’accordo.
Non è questa la sede per distribuire le ragioni e torti, anche se a me pare, sommessamente, che sia stato Bobbio a condurre Ingrao sulla sua strada, e non viceversa. In ogni caso, la definizione minima del primo si è dimostrata feconda di dialogo con il secondo.
«Quando si restringono i diritti di lavoro, salute e istruzione, si incide sulle precondizioni di una democrazia non riducibile a un insieme di procedure. Non sono i diritti a essere insaziabili, ma la pretesa dell'economia di stabilire i diritti compatibili».

La Repubblica, 20 ottobre 2014

Nel 1872, a Vienna, comparve un piccolo classico del liberalismo giuridico, La lotta per il diritto di Rudolf von Jhering, che Benedetto Croce volle fosse ripubblicato quasi come un anticorpo negli anni del fascismo. Oggi è più giusto parlare di lotta per i diritti, che si dirama dalla difesa dei diritti sociali fino alle proteste dei giovani di Hong Kong, e che può essere sintetizzata con le parole di Hannah Arendt, «il diritto di avere diritti», ricordate su questo giornale con diverso spirito da Alain Touraine e Giancarlo Bosetti (e che ho adoperato come titolo di un mio libro due anni fa).

Ma, per evitare che quella citazione divenga poco più che uno slogan, bisogna ricordarla nella sua interezza: «Il diritto ad avere diritti, o il diritto di ogni individuo ad appartenere all'umanità, dovrebbe essere garantito dall'umanità stessa». Così la fondazione dei diritti si fa assai impegnativa, esige una vera «politica dell'umanità», l'opposto di quella «politica del disgusto» di cui ci ha parlato Martha Nussbaum a proposito delle discriminazioni degli omosessuali, ma che ritroviamo in troppi casi di rifiuto dell'altro.

Quella del riconoscimento dei diritti è un'antica promessa. La ritroviamo all'origine della civiltà giuridica quando nel 1215, nella Magna Carta, Giovanni Senza Terra dice: «Non metteremo la mano su di te». È l'habeas corpus, il riconoscimento della libertà personale inviolabile, con la rinuncia del sovrano a esercitare un potere arbitrario sul corpo delle persone. Da quel lontano inizio si avvia un faticoso cammino, fitto di negazioni e contraddizioni, che approderà a quella che Norberto Bobbio ha chiamato «l'età dei diritti», alle dichiarazioni dei diritti che alla fine del Settecento si avranno sulle due sponde del "lago Atlantico", negli Stati Uniti e in Francia. È davvero una nuova stagione, che sarà scandita dal succedersi di diverse "generazioni" di diritti: civili, politici, sociali, legati all'innovazione scientifica e tecnologica. Saranno le costituzioni del Novecento ad attribuire ai diritti una rilevanza sempre maggiore. Ed è opportuno ricordare che le più significative innovazioni costituzionali del secondo dopoguerra si colgono nelle costituzioni dei "vinti", l'italiana del 1948 e la tedesca del 1949, che non si aprono con i riferimenti alla libertà e all'eguaglianza. Nella prima il riferimento iniziale è il lavoro, nella seconda la dignità. Si incontrano così le condizioni materiali del vivere e la sottrazione dell'umano a qualsiasi potere esterno.

Cambia così la natura stesso dello Stato, caratterizzato proprio dall'innovazione rappresentata dal ruolo centrale assunto dai diritti fondamentali. E si fa più stretto il legame tra democrazia e diritti. Con una domanda sempre più stringente: che cosa accade quando i diritti vengono ridotti, addirittura cancellati? Molte sono state in questi anni le risposte. Proprio la centralità dei diritti fondamentali nel sistema costituzionale ha fatto parlare di diritti "insaziabili", che si impadroniscono di spazi propri della politica e che, considerati come elemento fondativo dello Stato, espropriano la stessa sovranità popolare. Più nettamente, nel tempo che stiamo vivendo, i diritti sono indicati come un lusso incompatibile con la crisi economica, con la diminuzione delle risorse finanziarie.

Ma, nel momento in cui la promessa dei diritti non viene adempiuta, o è rimossa, da che cosa stiamo prendendo congedo? Quando si restringono i diritti riguardanti lavoro, salute e istruzione, si incide sulle precondizioni di una democrazia non riducibile ad un insieme di procedure. Non sono i diritti ad essere insaziabili, lo è la pretesa dell'economia di stabilire quali siano i diritti compatibili con essa. Quando si ritiene che i diritti sono un lusso, in realtà si dice che sono lussi la politica e la democrazia. Non si ripete forse che i mercati "decidono", annettendo alla sfera dell'economico le prerogative proprie della politica e dell'organizzazione democratica della società?

La riflessione sui diritti ci porta nel cuore di una discussione culturale che va al di là delle contingenze e rivela come i riferimenti alla crisi economica abbiano soltanto reso più evidente una trasformazione e un conflitto assai più profondi, che riguardano il modo stesso in cui si deve guardare alla fondazione delle nostre società. A Touraine sembra che le spinte provenienti dal sociale abbiano esaurito la loro capacità trasformativa e propone non soltanto di rimettere i diritti fondamentali al centro dell'attenzione, ma di operare uno spostamento radicale verso movimenti «etico-democratici», i soli in grado di porre in discussione il potere nella sua totalità e di «difendere l'essere umano nella sua realtà più individuale e singolare».

I diritti fondamentali «ultima utopia», come ha scritto Samuel Moyn, o pericoloso espediente retorico, che trascura la loro inattuazione anche quando sono formalmente proclamati e se ne serve per imporre con un tratto "imperialistico" la cultura occidentale, oggi il neoliberismo? Si può andare oltre queste contrapposizioni o dobbiamo piuttosto considerare la dismisura assunta dalla dimensione dei diritti che, secondo Dominique Schnapper, mette a rischio i fondamenti stessi della democrazia, vissuta troppo spesso come "ultrademocrazia", e a riflettere sulla forza delle cose che ha interrotto quella che Giuliano Amato ha definito "la marcia trionfale dei diritti"?

Tutti questi interrogativi confermano la necessità di analisi approfondite, che dovrebbero però tener conto di come il mondo si sia dilatato, spingendo lo sguardo verso culture e politiche che proprio ai diritti fondamentali hanno affidato un profondo rinnovamento sociale e istituzionale. È nel "sud del mondo" che ritroviamo novità significative, nella legislazione e nelle sentenze delle corti supreme di Brasile, Sudafrica, India. Basterebbe questa constatazione per mostrare quanto siano infondate o datate le tesi che chiudono la vicenda dei diritti fondamentali solo in una pretesa egemonica dell'Occidente. Al tempo stesso, però, l'attenzione per le costituzioni "degli altri" deve spingerci ad avere uno sguardo nuovo anche sul modo in cui i diritti fondamentali si stanno configurando nelle loro terre d'origine, a cominciare dai nessi ineliminabili e inediti tra diritti individuali e sociali, tra iniziativa dei singoli e azione pubblica.

I diritti non invadono la democrazia, ma impongono di riflettere su come debba essere esercitata la discrezionalità politica: proprio in tempi di risorse scarse, i criteri per la loro distribuzione debbono essere fondati sull'obbligo di renderne possibile l'attuazione. E, se è giusto rimettere al centro i diritti individuali per reagire alla spersonalizzazione della società, è altrettanto vero che questi diritti possono dispiegarsi solo in un contesto socialmente propizio e politicamente costruito. Qui trovano posto le riflessioni su un tempo in cui il problema concreto non è la dismisura dei diritti, ma la loro negazione quotidiana determinata dalle diseguaglianze, dalla povertà, dalle discriminazioni, dal rifiuto dell'altro che, negando la dignità stessa della persona, contraddicono quella "politica dell'umanità" alla quale è legata la vicenda dei diritti.

Seguendo questi itinerari, ci avvediamo di quanto sia improprio ragionare contrapponendo diritti e politica. Senza una robusta e consapevole politica, fondata anche sull'iniziativa delle persone, i diritti corrono continuamente il rischio di perdersi. Ma quale destino possiamo assegnare ad una politica svuotata di diritti e perduta per i principi?
Qualcosa di liberale (e non neoliberista) rispunta ancora, di tanto in tanto, dalle rotative del Corrierone. «Prima o poi doveva succedere: la democrazia parlamentare non sopravvive a periodi lunghi di paralisi».

Il Corriere della Sera, 10 ottobre 2014

Da molti punti di vista, quello di Renzi è un governo extra-parlamentare; forse il primo di una nuova era. Non solo perché il premier non siede in nessuna delle due Camere: c’era già il precedente di Ciampi, anche se gestito con altro stile. Ma per motivi più di merito.

Si moltiplicano infatti i luoghi di decisione politica esterna che il Parlamento non può rimettere in discussione: il Patto del Nazareno, un discorso nella Direzione del Pd, un incontro estivo con Draghi. La stessa ratifica parlamentare si fa al contempo obbligata (con la fiducia) e vaga (con la delega), trasferendo sempre più il potere legislativo all’esecutivo: come è avvenuto sulla riforma dell’articolo 18, di cui nei testi votati non c’è niente, e tutto resta affidato alla tradizione orale e agli impegni verbali.

Il parlamentare è ormai un’anima morta, legata al leader da un ferreo vincolo di mandato; il che, come in ogni servitù, lo induce alla rancorosa vendetta ogni volta che può agire in segreto, ad esempio col triste spettacolo della mancata elezione dei giudici della Consulta. In alternativa, se non è d’accordo, può solo disertare dal suo mandato (assentandosi o dimettendosi).

La stessa definizione di presidente del Consiglio non si addice più a Renzi, il quale pur essendo primus non è certamente più inter pares tra i suoi ministri, come testimoniato dalla performance di Giuliano Poletti sulla riforma del mercato del lavoro. Pur senza nostalgie per il regime parlamentare uscente, davvero impossibili, bisogna riconoscere che qui siamo oltre. È come se avessimo sostituito a vent’anni di mancate riforme istituzionali la biografia e la personalità di un leader di quarant’anni: una riforma costituzionale incarnata, in personam invece che ad personam.

Prima o poi doveva succedere: la democrazia parlamentare non può sopravvivere a periodi troppo lunghi di paralisi. A Bersani e D’Alema che protestano per l’andazzo odierno andrebbe risposto che ne sono in buona parte responsabili. Però non è detto che la nuova costituzione materiale che si sta delineando sia l’unica forma di post-democrazia possibile.

Non è vero che funziona così ovunque. Perfino in un regime presidenziale come quello statunitense i parlamentari hanno un incomparabile potere di condizionare le scelte dell’esecutivo. Perfino a Westminster le ribellioni in Aula sono all’ordine del giorno. Perfino in Germania la Merkel ha dovuto spesso ricorrere ai voti dell’opposizione per resistere alle defezioni interne della sua maggioranza. Istituti come la sfiducia costruttiva, sistemi elettorali basati sul collegio uninominale, o anche un presidenzialismo dotato di check and balances, consentono di avere insieme governi autorevoli e Parlamenti liberi.

Sarebbe il caso di pensarci per tempo. Perché democrazia è certamente decisione, ma è anche e soprattutto potere di controllare il potere. Ogni giorno, e non solo una volta ogni cinque anni.

Una lucida analisi dei poteri che, dissimulati nelle istituzioni dell'UE, stanno distruggendo la democrazia in Europa, e delle menzogne mediante le quali conquista il consenso delle maggioranze.

La Repubblica, 23 settembre 2014

«Quel che sta accadendo è una rivoluzione silenziosa - una rivoluzione silenziosa in termini di un più forte governo dell’economia realizzato a piccoli passi. Gli Stati membri hanno accettato - e spero lo abbiano capito nel modo giusto - di attribuire importanti poteri alle istituzioni europee riguardo alla sorveglianza, e un controllo molto più stretto delle finanze pubbliche». Così si esprimeva il presidente della Commissione Europea, José Manuel Barroso, in un discorso all’Istituto Europeo di Firenze nel giugno 2010.

Non parlava a caso. Sin dal 2010 la Ce e il Consiglio Europeo hanno avviato un piano di trasferimento di poteri dagli Stati membri alle principali istituzioni Ue, che per la sua ampiezza e grado di dettaglio rappresenta una espropriazione inaudita - non prevista nemmeno dai trattati Ue - della sovranità degli Stati stessi. Non si tratta solo di generiche questioni economiche. Il piano del 2010 stabilisce indicatori da cui dipende l’intervento della Ce sulla politica economica degli Stati membri; indicatori elaborati secondo criteri sottratti a ogni discussione da funzionari della CE. Se gli indicatori segnalano che una variabile esce dai limiti imposti dal piano, le sanzioni sono automatiche. Il piano è stato seguito sino ad oggi da nuovi interventi riguardanti la strettissima sorveglianza del bilancio pubblico, al punto che il ministero delle Finanze degli Stati membri potrebbe essere eliminato: del bilancio se ne occupa la Ce. Il culmine della capacità di sequestro della sovranità economica e politica dei nostri Paesi da parte della Ue è stato toccato nel 2012 con l’imposizione del trattato detto fiscal compact , che prevede l’inserimento nella legislazione del pareggio di bilancio, «preferibilmente in via costituzionale». I nostri parlamentari, non si sa se più incompetenti o più allineati sulle posizioni di Bruxelles, hanno scelto la strada del maggior danno - la modifica dell’art. 81 della Costituzione.

Questi sequestri di potere a carico dei singoli Stati non sono motivati, come sostengono le istituzioni europee, dalla necessità di combattere la crisi finanziaria. I supertecnici della Ce (sono più di 25mila), ma anche di Fmi e Bce, mostrano di essere dilettanti allo sbaraglio. L’aumento del debito pubblico degli Stati dell’eurozona, salito dal 66% del 2007 all’86% del 2011, viene imputato dalle istituzioni europee a quello che essi definiscono il peso eccessivo della spesa sociale nonché al costo eccessivo del lavoro. Oltre a documenti, decreti, direttive, ad ogni occasione essi fanno raccomandazioni affinché sia tagliata detta spesa. Pochi giorni fa Christine Lagarde, direttrice del Fmi, insisteva sulla necessità di tagliare le pensioni italiane, visto che rappresentano la maggior spesa dello Stato. Dando mostra di ignorare, la dotta direttrice, che i 200 miliardi della ordinaria spesa pensionistica sono soldi che passano direttamente dai lavoratori in attività ai lavoratori in quiescenza. Il trasferimento all’Inps da parte dello Stato di circa 90 miliardi l’anno non ha niente a che fare con la spesa pensionistica, bensì con interventi assistenziali che in altri Paesi sono a carico della fiscalità generale.

Dinanzi ai diktat di Bruxelles, il governo italiano in genere batte i tacchi e obbedisce, a parte qualche alzar di voce di Renzi. Le prescrizioni contenute nella lettera del 2011 con cui Olli Rhen, allora commissario all’economia della Ce, esigeva riforme dello Stato sociale sono state eseguite. La “riforma” del lavoro di cui si discute in questi giorni potrebbe essere stata scritta a Bruxelles. Nessuno di questi interventi ha avuto o avrà effetti positivi per combattere la crisi; in realtà l’hanno aggravata. Combattere la crisi non è nemmeno il loro scopo. Lo scopo perseguito dalle istituzioni Ue è quello di assoggettare gli Stati membri alla “disciplina” dei mercati. Oltre che, più in dettaglio, convogliare verso banche e compagnie di assicurazione il flusso dei versamenti pensionistici; privatizzare il più possibile la Sanità; ridurre i lavoratori a servi obbedienti dinanzi alla prospettiva di perdere il posto, o di non averlo. Il vero nemico delle istituzioni Ue è lo stato sociale e l’idea di democrazia su cui si regge; è questo che esse sono volte a distruggere.

Si può quindi affermare che la Ue sarebbe ormai diventata una dittatura di finanza e grandi imprese, grazie anche all’aiuto di governi collusi o incompetenti? Certo, il termine ha lo svantaggio di essere già stato usato dalle destre tedesche, le quali temono — nientemeno — che la Ue faccia pagare alla Germania le spese pazze fatte dagli altri Paesi. Peraltro abbondano i termini attorno all’idea di dittatura: si parla di “fine della democrazia” nella Ue; di “democrazia autoritaria” o “dittatoriale” o di “rivoluzione neoliberale” condotta per attribuire alle classi dominanti il massimo potere economico.
Il termine potrà apparire troppo forte, ma si dia un’occhiata ai fatti. I poteri degli Stati membri di cui le istituzioni europee si sono appropriati sono superiori, per dire, a quelli dei quali gode in Usa il governo federale nei confronti degli Stati federati.

Le persone che decidono quali poteri lasciarci o toglierci, sono sì e no alcune dozzine: sei o sette commissari della Ce su trenta; i componenti del Consiglio Europeo (due dozzine di capi di Stato e di governo); i membri del direttivo della Bce; i capi del Fmi, e pochi altri. Tutti, intendiamoci, immersi in trattative con esponenti del mondo politico, finanziario e industriale, in merito alle quali disposizioni della direzione Ce impongono che i cittadini europei non ne sappiano nulla sino a che non si è presa una decisione. Non esiste alcun organo elettivo - nemmeno il Parlamento Europeo — che possa interferire con quanto tale gruppo decide.

Pare evidente che la Ue abbia smesso di essere una democrazia, per assomigliare sempre più a una dittatura di fatto, la cui attuazione - come vari giuristi hanno messo in luce - viola perfino i dispositivi già scarsamente democratici dei trattati istitutivi. La dittatura Ue potrebbe essere tollerabile se avesse conseguito successi economici. Italiani e tedeschi hanno applaudito i loro dittatori per anni perché procuravano lavoro e prestazioni da stato sociale. Ma le politiche economiche imposte dal 2010 in poi hanno provocato solo disastri. Quali sciagure debbono ancora accadere, quali insulti l’ideale democratico deve ancora subire, prima che si alzi qualche voce - meglio se sono tante - per dire che di questa Ue dittatoriale ne abbiamo abbastanza, e che se uscirne oggi può costare troppo caro è necessario rivedere i trattati, prima di assicurarci decenni di recessione e di servitù politica ed economica?

Il Fatto Quotidiano, 23 settembre 2104.

Chissà come saranno fischiate le orecchie ai vari Bersani, D’Alema, Civati, Fassina, Chiti, Bindi, Cuperlo, Cofferati e ai tanti altri che nel Pd non intendono piegarsi all’editto di Matteo Renzi sull’abolizione dell’articolo 18. E chissà come si comporterà adesso la minoranza formata dai 110 deputati e senatori democratici decisa a dare battaglia nelle aule parlamentari sul Jobs Act, ma anche sulla legge di Stabilità, quando ieri sera si è vista arrivare tra capo e collo il super editto di Giorgio Napolitano. Perché se il Colle intima lo stop ai “corporativismi e conservatorismi” che impediscono l’avvio di “politiche nuove e coraggiose per la crescita e l’occupazione” c’è poco da fare. O si piega la testa e ci si ritira in buon ordine o si prosegue la battaglia in un clima di caccia alle streghe.

Perché nella lunga storia repubblicana mai era accaduto che il confronto democratico nella stessa maggioranza e nello stesso partito subisse una pressione così prepotente e su materie sensibili come i diritti e il lavoro a opera del suo stesso e premier in combutta con il Quirinale. Appena la sinistra pd e la Cgil hanno provato a dire che sui licenziamenti senza garanzie non erano d’accordo, cosa del tutto naturale, è partita la katiuscia. Con tanto di videomessaggio alla nazione, Renzi si è scagliato contro la «vecchia guardia che vuole lo scontro ideologico», mentre con metodi da prefetto di disciplina la Serracchiani ha ricordato ai reietti «di essere stati eletti con e grazie al Pd» quando peraltro segretario non era Renzi, ma Bersani. Poiché non era bastato a fermare la fronda, ecco che scende in campo il capo dello Stato, che da tempo ha smesso i panni del super partes per schierarsi con il patto del Nazareno. Gli è andata bene quando ha spinto per la riduzione del Senato a ente inutile. Meno quando ha preteso l’elezione dell’indagato Bruno e di Violante alla Consulta. Adesso entra a gamba tesa nel dibattito interno del Pd e sulle decisioni del Parlamento. Metodi non da democrazia costituzionale, ma da libero Stato di bananas.

«La pro­po­sta di ini­zia­tiva legi­sla­tiva popo­lare rap­pre­senta dun­que l’indicazione di una nuova rotta. Un per­corso arti­co­lato che potrà essere imboc­cato solo se si saprà costruire un con­senso dif­fuso, uni­ca­mente se verrà accom­pa­gnato da un’ampia, con­vinta e attiva par­te­ci­pa­zione. Nulla garan­ti­sce infatti il suc­cesso».

Il Manifesto, 23 settembre 2014 (m.p.r.)

Ora vediamo chi vuole cam­biare dav­vero. L’iniziativa legi­sla­tiva popo­lare che vuole assi­cu­rare il rispetto dei diritti fon­da­men­tali anche nelle fasi di crisi eco­no­mica rap­pre­senta una pro­po­sta di vera rot­tura con il pas­sato. Non si limita a cri­ti­care l’introduzione del prin­ci­pio del pareg­gio di bilan­cio nella nostra Costi­tu­zione, si spinge a indi­care una strada alter­na­tiva. La riforma costi­tu­zio­nale appro­vata nel 2012 quasi all’unanimità dal nostro par­la­mento è pre­sto assurta a sim­bolo dell’incapacità della poli­tica di gover­nare i pro­cessi eco­no­mici e finanziari.

S’è trat­tato di una rispo­sta pura­mente ideo­lo­gica (il neo­li­be­ri­smo come unica razio­na­lità pos­si­bile) ad una crisi di sistema che ha con­ti­nuato ad avvi­tarsi su se stessa. Ora, con la pro­po­sta di modi­fica di tre arti­coli della Costi­tu­zione, si vuole cam­biare radi­cal­mente il punto di vista per ten­tare di uscire dalla reces­sione, che non è solo eco­no­mica, ma è soprat­tutto cul­tu­rale. Non è una pro­spet­tiva vel­lei­ta­ria quella che si pro­spetta. Si radica, invece, nel solco del costi­tu­zio­na­li­smo moderno, risco­pren­done le vir­tua­lità eman­ci­pa­to­rie. È alla sto­ria poli­tica e sociale che biso­gna rico­min­ciare a guar­dare, da tempo offu­scata dall’autoreferenzialità della poli­tica inca­pace di con­tra­stare la logica distrut­tiva del mer­cato spe­cu­la­tivo. Occorre tor­nare ai diritti.

Persi nei fumi dell’ideologia, tra­sci­nati dal vento impe­tuoso del tempo, troppo a lungo abbiamo scor­dato che alla base del vivere civile, a fon­da­mento del patto sociale, si pone il rispetto dei diritti fon­da­men­tali, non l’equilibrio finan­zia­rio. Se c’è una lezione da trarre dalla sto­ria poli­tica del costi­tu­zio­na­li­smo moderno è che la garan­zia dei diritti deve essere assi­cu­rata, altri­menti la società civile «non ha una costi­tu­zione» (così espli­ci­ta­mente nella dichia­ra­zione del 1789), e si torna allo stato di natura dove pre­vale la legge del più forte (eco­no­mi­ca­mente, oltre che mili­tar­mente). Solo l’hobbesiana pro­tec­tio può legit­ti­mare la richie­sta di oboe­dien­tia, solo il rispetto dei diritti può giu­sti­fi­care i doveri sociali. Nelle costi­tu­zioni del secondo dopo­guerra que­sto dato fon­da­tivo delle società moderne ha por­tato ad affer­mare il prin­ci­pio di «indi­spo­ni­bi­lità» dei diritti fon­da­men­tali ed il pri­mato della per­sona. Prio­rità da far valere anche sull’economia, soprat­tutto sull’economia, la quale non può essere rap­pre­sen­tata come espres­sione di un «ordine natu­rale», ma è anch’essa frutto di un «ordine giu­ri­dico». Dun­que, mani­fe­sta­zione di scelte di poli­tica eco­no­mica che con­for­mano un par­ti­co­lare assetto d’interessi, a disca­pito di altri. Opzioni — que­sto è il punto — che non sono com­ple­ta­mente libere.

E’ il nostro sistema costi­tu­zio­nale ad avere indi­vi­duando i prin­ci­pali limiti pro­prio nella «libertà, sicu­rezza e dignità umana», nell’esigenza di assi­cu­rare una «esi­stenza libera e digni­tosa», nei «doveri inde­ro­ga­bili di soli­da­rietà poli­tica, eco­no­mica e sociale». In que­sto senso può cer­ta­mente affer­marsi che in uno stato costi­tu­zio­nale «sull’economia pre­val­gono i diritti». Ed è entro que­sto con­te­sto costi­tu­zio­nale che si alter­nano i diversi cicli eco­no­mici, quelli più favo­re­voli e quelli meno.

È evi­dente, infatti, che l’espansione dei diritti richiede ingenti risorse eco­no­mi­che, per­tanto da tempo si rico­no­sce che i «diritti che costano» (pra­ti­ca­mente tutti i diritti hanno un costo) sono finan­zia­ria­mente con­di­zio­nati. Ciò non toglie però che anche in una fase di crisi eco­no­mica — soprat­tutto in fasi in cui le risorse sono limi­tate — diventa vitale assi­cu­rare una tutela pri­vi­le­giata ai diritti fon­da­men­tali, i quali devono pre­va­lere sulle garan­zie pre­state ad ogni altro inte­resse. Ed è que­sto il senso pro­fondo che si pone a fon­da­mento dell’iniziativa popo­lare. Essa rap­pre­senta una rot­tura di con­ti­nuità con il più recente pas­sato che ha invece inver­tito le prio­rità tra diritti e eco­no­mia, ponendo i primi al ser­vi­zio della seconda. Nel 2012 que­sta pre­tesa ha assunto le vesti della revi­sione costi­tu­zio­nale con l’inserimento di un prin­ci­pio «sov­ver­sivo» (in senso stret­ta­mente eti­mo­lo­gico) del sistema di garan­zia dei diritti costi­tu­zio­nal­mente defi­niti. Un prin­ci­pio che si è dimo­strato fal­li­men­tare per le stesse ragioni dello svi­luppo eco­no­mico, oltre che per la garan­zia dei diritti.

Non si tratta ora sem­pli­ce­mente di tor­nare indie­tro, bensì di svi­lup­pare nel segno del cam­bia­mento i diversi prin­cipi del costi­tu­zio­na­li­smo moderno. Ciò che si pro­pone è un altro approc­cio alla revi­sione costi­tu­zio­nale; diverso rispetto da quello sin qui pra­ti­cato da un ceto poli­tico intento a sman­tel­lare pro­gres­si­va­mente le con­qui­ste di civiltà che la lotta per i diritti ha sto­ri­ca­mente affer­mato e la nostra Costi­tu­zione ha giu­ri­di­ca­mente impo­sto. Con que­sta ini­zia­tiva si vuol dimo­strare che dalla Costi­tu­zione (dai suoi prin­cipi fon­da­men­tali) si può ripar­tire per tra­sfor­mare la società e la poli­tica ita­liana; che essa non è un osta­colo bensì il fat­tore di cam­bia­mento più vitale.

Non ser­vono molte parole per affer­mare un prin­ci­pio di cam­bia­mento radi­cale. Anche in que­sto può pla­sti­ca­mente rin­ve­nirsi una diver­sità di stile — che è anche di sostanza — con il revi­sio­ni­smo costi­tu­zio­nale che è alle nostre spalle. Si guardi a tutte le «grandi riforme» che, dalla Com­mis­sione bica­me­rale del 1993 ad oggi, hanno cer­cato di met­tere le mani sulla Costi­tu­zione: un pro­flu­vio di parole senza la soli­dità di un prin­ci­pio. Si esa­mini l’attuale pro­po­sta in discus­sione di modi­fica pre­sen­tata dall’attuale governo rela­tiva al senato e al Titolo V: un insieme di dispo­si­zioni informi, spesso tra loro in con­trad­di­zione. Si leg­gano i nuovi arti­coli scritti dai neo-revisori costi­tu­zio­nali (dal ridon­dante art. 111 all’ingestibile art. 117): lun­ghi elen­chi di incerto valore e dif­fi­cile appli­ca­zione. E, infine, si con­fronti nel merito la for­mu­la­zione ragio­nie­ri­stica e con­ta­bile del prin­ci­pio di «pareg­gio di bilan­cio» con quella pro­po­sta dall’iniziativa popo­lare: l’innovazione si sostan­zia nell’eliminazione di tutte le con­tro­verse regole di equi­li­brio finan­zia­rio, sosti­tuite dal lim­pido prin­ci­pio costi­tu­zio­nale del rispetto dei diritti fon­da­men­tali delle per­sone che deve con­for­mare la legge di attua­zione alla quale si rin­via per la defi­ni­zione dei vin­coli eco­no­mici (com­presi quelli di bilan­cio). Rea­li­sti­ca­mente non si esclude dun­que che quest’ultimi deb­bano ope­rare, si afferma «sem­pli­ce­mente» che que­sti devono ope­rare nel rispetto del prin­ci­pio di tutela dei diritti.

Un ritorno non solo al diritto, ma anche alla lun­gi­mi­ranza dei prin­cipi, che val­gono per il lungo periodo e non pos­sono venir schiac­ciati sulla con­tin­genza (eco­no­mica, poli­tica o cul­tu­rale). È sem­pre stata que­sta la forza delle costi­tu­zioni che aspi­rano «all’eternità», che non si limi­tano a legit­ti­mare la poli­tica, ma – con ben altra ambi­zione – pre­ten­dono di defi­nire il qua­dro e i limiti entro cui si dovrà poi svi­lup­pare la dina­mica poli­tica e il con­flitto sociale («l’essenza e il valore della democrazia»).

È del tutto evi­dente – almeno per chi prende sul serio i diritti – che le costi­tu­zioni neces­si­tano di essere attuate. Non basta cioè l’affermazione del prin­ci­pio (di pre­va­lenza dei diritti fon­da­men­tali delle per­sone, nel nostro caso) per­ché esso possa rite­nersi rea­liz­zato. La lunga lotta per l’attuazione costi­tu­zio­nale – che può assu­mere forme diverse e non tutte pre­ven­ti­va­mente deter­mi­na­bili – rap­pre­senta il cuore di quel che potremmo chia­mare il diritto costi­tu­zio­nale vivente. Non è pos­si­bile qui ricor­dare le mol­te­plici forme che ha assunto la con­ti­nua ten­sione tra costi­tu­zione e sua rea­liz­za­zione. Ciò che deve però almeno essere chia­rito è che anche la lotta per la rea­liz­za­zione dei prin­cipi è assog­get­tata al diritto. Tant’è che sarà un giu­dice (la Corte costi­tu­zio­nale) e non la poli­tica (il governo ovvero il par­la­mento) ad avere l’ultima parola.

Non tutto, dun­que, potrà venire risolto nep­pure con l’auspicata appro­va­zione di una legge costi­tu­zio­nale come quella pro­po­sta. Imme­dia­ta­mente dopo si dovrà pen­sare a come dare attua­zione al prin­ci­pio costi­tu­zio­nale nella legge gene­rale di con­ta­bi­lità e finanza pub­blica, cui si rin­via per la defi­ni­zione nor­ma­tiva dei vin­coli di bilan­cio; si ren­derà neces­sa­rio vigi­lare sulle pub­bli­che ammi­ni­stra­zioni che dovranno garan­tire la soste­ni­bi­lità del debito «nel rispetto dei diritti fon­da­men­tali delle per­sone»; si dovrà pre­ten­dere l’attribuzione di risorse pub­bli­che per gli enti ter­ri­to­riali, i quali dovranno assi­cu­rare la tutela dei diritti sociali e civili «comun­que suf­fi­cienti a garan­tire in cia­scuna parte del ter­ri­to­rio nazio­nale i livelli essen­ziali delle pre­sta­zioni». La riforma costi­tu­zio­nale non potrà di per sé far venir meno la nor­ma­tiva euro­pea di rigore finan­zia­rio e gli obbli­ghi che il nostro paese con­ti­nua a sot­to­scri­vere. Anche guar­dando all’Europa dun­que sarà neces­sa­rio ope­rare con stru­menti giu­ri­dici ade­guati che favo­ri­scano la par­te­ci­pa­zione dei cit­ta­dini e il supe­ra­mento delle poli­ti­che neo­li­be­ri­ste dei governi (una Ini­zia­tiva dei Cit­ta­dini Euro­pei – ICE – potrebbe essere seria­mente presa in considerazione).

La pro­po­sta di ini­zia­tiva legi­sla­tiva popo­lare rap­pre­senta dun­que l’indicazione di una nuova rotta. Un per­corso arti­co­lato che potrà essere imboc­cato solo se si saprà costruire un con­senso dif­fuso, uni­ca­mente se verrà accom­pa­gnato da un’ampia, con­vinta e attiva par­te­ci­pa­zione. Nulla garan­ti­sce infatti il suc­cesso. La rac­colta delle firme neces­sa­rie per incar­di­nare la discus­sione presso le camere, l’incerto seguito par­la­men­tare, le inat­tuali mag­gio­ranze richie­ste per l’approvazione della legge costi­tu­zio­nale sono tutti osta­coli che si frap­pon­gono alla volontà di un cam­bia­mento radi­cale dello stato di cose pre­senti. È però anche una grande occa­sione per risol­le­vare il capo e ten­tare d’uscire dai sot­to­suoli ove le forze disperse della sini­stra si sono rin­ta­nate. Un’oppor<CW-11>tunità per ripren­dere il filo di un discorso inter­rotto. Certo, può sem­pre dirsi che «avremo biso­gno di ben altro», di una stra­te­gia com­ples­siva, di sog­getti sociali con­so­li­dati, di orga­niz­za­zioni ade­guate, di lea­der rap­pre­sen­ta­tivi e auto­re­voli, di una società civile con­sa­pe­vole, di una cul­tura alter­na­tiva ege­mone, di una soli­da­rietà e un rico­no­sci­mento col­let­tivo. È vero, avremmo biso­gno di tutto que­sto. E in assenza di tali pre­sup­po­sti tutto è più com­pli­cato. Ma anche per que­sto è urgente ricor­dare che la garan­zia dei diritti fon­da­men­tali delle per­sone e la fis­sa­zione di limiti ai poteri dell’economia e della finanza rap­pre­sen­tano valori indi­spo­ni­bili entro uno stato di demo­cra­zia costi­tu­zio­nale. È neces­sa­rio ini­ziare a costruire un’altra idea di società civile, in cui il mer­cato si ponga al ser­vi­zio dei diritti. La pro­po­sta di legge costi­tu­zio­nale di ini­zia­tiva popo­lare è solo un primo movi­mento di una ancora ine­splo­rata stra­te­gia com­ples­siva; un pic­colo passo che però può aprire ad un radi­cale cam­bia­mento di rotta. Credo ci si possa pro­vare.
A chi esita, a chi ci chiede se in que­ste con­di­zioni dif­fi­cili valga la pena ancora impe­gnarsi, non pos­siamo che ripe­tere: «Que­sto tu chiedi. Non aspet­tarti nes­suna rispo­sta oltre la tua».

«La riforma che il Partito democratico si appresta a votare piace molto ai democratici minimalisti proprio perchè restringe al massimo il potere dei cittadini-attori (o sovrani) e amplia quello dei cittadini-arbitri». CRS

centroriformastato.org, 21 giugno 2014

E’ davvero conveniente creare una nuova casta di nominati?

All’inizio il problema era il bicameralismo perfetto ora è il bicameralismo. Questa riforma si orienta di ora in ora verso un radicale rifacimento dell’assetto istituzionale della nostra Repubblica. Due principi si stanno imponendo che reinterpretano il significato della rappresentanza e del suffragio: i cittadini sono sovrani dimezzati; il voto dei cittadini serve solo a formare una maggioranza. Infatti chi vuole ardentemente questa riforma, l’ha giustificata con questi due argomenti: un Senato eletto costa troppo e rende troppo lento il processo decisionale. Sono due argomenti molto problematici e essenzialmente ideologici, il primo per lo meno volgare e il secondo insofferente per la deliberazione democratica. Entrambi sono poco convincenti e per nulla comprovati. Sui costi: la democrazia costa al suo sovrano, che è fatto di cittadini che vivono del loro lavoro. Devono pagare per le funzioni pubbliche di cui lo stato democratico ha bisogno e spetta a chi svolge quelle funzioni essere attenti a limitare i costi. L’esito di anni di mal uso e abuso delle risorse pubbliche da parte di parlamentari dovrebbe essere affrontato riscrivendo le regole relative al loro uso delle risorse non cancellando un organo eletto, ovvero facendo pagare ai cittadini decurtandoli del loro potere di elezione. Sembra che la responsabilità prima dei costi della politica stia nel potere democratico: se non si votasse si spenderebbe meno. Questo è il senso del messaggio sui costi del Senato eletto.

Circa il secondo argomento, quello delle celerità decisionale: è un fatto che nei regimi democratici la tensione tra il potere esecutivo e quello legislativo sia fondamentale e permanente. Ma la tensione dovrebbe risolversi con il riconoscimento della priorità del secondo. La massima tocquevilliana per cui la democrazia si corregge con più democrazia dovrebbe quindi essere così interpretata: nell’equilibrio dei poteri (un bene che il costituzionalismo moderno ci ha regalato) occorre che il potere di proporre e fare le leggi sia centrale perché quello che direttamente discende dalla volontà dei cittadini. In una democrazia elettorale, fare le leggi comporta la centralità degli organi che ricevono autorità diretta dal suffragio. Circola tra i costituzionalisti l’idea che il cittadino sia arbitro.

Questa riforma è figlia di questa interpretazione che va nella direzione di diminuire il valore e l’estensione del potere elettorale per porre l’accento sui poteri dello stato che il cittadino-arbitro osserva lavorare e giudica. Il cittadino-arbitro è come un giudice imparziale che sta fuori del gioco; i titolari della squadra sono i veri giocatori, non lui/lei. E i giocatori sono liberi di decidere che schema usare, quali ruoli rafforzare e quali indebolire. L’importante è che vincano. L’importante è che il cittadino-arbitro sappia a urne chiuse chi governerà, chi ha vinto. Poi i giochi sono tutti fatti da altri e il cittadino sta a guardare e alla fine del gioco decide se riconfermare quei giocatori o cambiarli. Questa visione della democrazia è così minima che accontenta chi ha una tradizionale allergia alla democrazia.
La riforma che il Partito democratico si appresta a votare piace molto ai democratici minimalisti proprio perchè restringe al massimo il potere dei cittadini-attori (o sovrani) e amplia quello dei cittadini-arbitri. In questa riforma spicca infatti la centralità dei giocatori e soprattutto di coloro che segnano, ovvero di chi fa: del potere esecutivo. Si restringe il dominio del potere legislativo (che è fatto anche di discussione e rappresentanza, non solo di decisione) nel senso che al voto dei cittadini si chiede di esprimere la maggioranza (a questo mira del resto la legge elettorale) e non tanto di vedere rappresentate le proprie idee o interessi; lo stesso vale per la Camera politica, alla quale anche è richiesto di sostenere il governo (della maggioranza) non tanto di controllare, mediare, discutere e se necessario fermare (insomma tutto quello che gli organi deliberativi dovrebbero fare). L’esito auspicato è l’identità della maggioranza monocamerale con l’esecutivo. I rappresentanti, con questa riforma, sono rappresentanti del volere della maggioranza. Si tratta di una riforma di stampo plebiscitario con la quale la bilancia del poteri pende verso l’esecutivo: il fare più che il discutere. Si approda al presidenzialismo senza dirlo. In questo quadro si iscrive la proposta di abolire il Senato eletto.

Perchè bisogna essere critici di questa proposta (che non significa abbandonare l’idea di una riforma del Senato che sappia attuare un parlamentarismo funzionale ovvero che abbia sia il potere di esprimere la maggioranza, e fare leggi, sia che a quello di rappresentare, controllare e infine fermare)? Non è forse vero che Matteo Renzo ha commentato la legge sulla responsabilità dei giudici passata alla Camera dicendo che al Senato la si cambierà? Dunque, anche lui deve ammettere che passare una legge al vaglio due volte consente di correggere errori e migliorare una decisione. Questo solo dovrebbe bastare a convincerci della rilevanza di avere due Camere. Si dice inoltre e insistentemente che un Senato eletto allunga i tempi della politica. Ma si potrebbe obiettare che l’Italia repubblicana ha prodotto un numero spropositato di leggi pur anche con un bicameralismo perfetto! Insomma questi argomenti sono molto poco convincenti. E veniamo così al nodo centrale di questa proposta: l’elezione indiretta dei membri del Senato delle Autonomie.

Cominciamo dall’osservare che volendo riformare la Costituzione, sarebbe opportuno porsi la seguente domanda: Perchè ci proponiamo di attuare questa riforma? Da quale esigenza siamo mossi e per ottenere che cosa? Questo livello preliminare di chiarezza sulle intenzioni è importante perchè consente di affrontare in maniera non approssimativa il problema, ovvero dargli organicità e coerenza. Indubbiamente, sono due le esigenze che giustificano una riforma la legge fondamentale della nostra Repubblica: rendere il sistema politico più trasparente e accountable (rispondenza), e renderlo più funzionale. La prima esigenza detta la legittimitá delle regole e procedure democratiche nell’era del costituzionalismo: neutralizzare e impedire l’arbitrio (anche della maggioranza eletta), e per questo rendere il potere dello Stato più efficacemente esposto al controllo e sapientemente bilanciato nei poteri che lo compongono, in modo che non ci sia accumulo in nessuno di essi.

Se questa è l’esigenza, l’elezione indiretta (la nomina da parte degli organismi di goveno comunale e regionale) del Senato della Repubblica va nella direzione contraria. Perchè l’elezione indiretta dei componenti di un organo deliberativo (o che partecipa comunque alle decisioni nazionali sebbene non a tutte) è opaca rispetto all’elezione per suffragio dei cittadini. Al contrario, attribuisce un enorme potere discrezionale ad alcuni grandi elettori (sì eletti per suffragio universale, ma per svolgere funzioni di governo territoriale) che in questo modo acquisterebbero un potere superiore a quello di tutti gli altri cittadini, in violazione al principio di eguaglianza politica. Si risolve questo vulnus togliendo al Senato il potere di dare e togliere fiducia al governo, ovvero gli si assegna un potere mezzo-sovrano. In questo modo, si dice, non si toglie nulla al potere dei cittadini e del suffragio. Vero: ma si crea un potere delegato nuovo e molto ampio. Il paradosso di questo Senato nominato è che avrà troppi poteri per essere composto di nominati e troppo pochi poteri per riuscire a controllare gli eletti. Introduce infine un arretramento palese rispetto al suffragio diretto, con un ritorno al XIX secolo quando il voto indiretto venne teorizzato e usato come argine alla democrazia e all’incalzante espansione del suffragio diretto e segreto. Oggi lo si rispolvera per risparmiare e velocizzare la decisione.

L’evoluzione della storia politica occidentale è andata in una direzione contraria a quella del voto indiretto; anche perchè è diventato in poco tempo un fatto provato che questo metodo di nomina serviva a generare e proteggere un’oligarchia social-politica, una classe di notabili sensibili agli interessi locali o di chi li nominava. A riprova di ciò potrebbe essere utile ricordare che il Senato degli Stati Uniti d’America fu nella prima fase della storia della federazione americana composto da nominati dagli Stati e diventò un istituto così corrotto e piegato agli interessi non controllabili dei potentati locali e dei notabili che controllavano le nomine da indurre il legislatore a riformarlo instituendo l’elezione diretta dei suoi membri. Quindi la strada semplificatrice e di risparmio che il Partito democratico promette rischia di produrre nuove sacche di corruzione e di privilegio. Un potere in mano ai grandi elettori locali anche se pagato con rimborsi sarà un’occasione di potere appetibile anche perchè fuori del controllo diretto dei cittadini e quindi meno scalfibile. Prevedibilmente si aumenterà la funzione repressiva e ai magistrati verrà dato un nuovo settore di controllo.

Un secondo argomento che si usa per giustificare questa riforma è che dobbiamo seguire modelli riusciti altrove, per esempio quello tedesco. Ma questo argomento è sbagliato e capzioso. La Germania è una federazione compiuta. Ha una Camera direttamente eletta dai cittadini tedeschi e una Camera dei Länder (Bundesrat). Quest’ultima è composta di membri non eletti a suffragio universale diretto, di esponenti dei governi dei vari Länder. Il fatto molto diverso che la federazione consente è che questa camera di nominati è per davvero espressione degli interessi dei Länder e infatti i suoi membri sono vincolati al mandato ricevuto dai loro governi locali per fare gli interessi di ciò di cui sono i rappresentanti (dei loro territori), in violazione del generale principio del divieto di mandato imperativo. L’Italia annacquerebbe il modello tedesco perchè non darebbe mandato imperativo ai rappresentanti dei territori – ma si potrebbe obiettare che in questo modo dà anche meno controllo e molto meno accountability. Se si vuole davvero fare un Senato delle regioni e dei territori occorrebbe avere il coraggio di approdare a un compiuto federalismo, appunto come in Germania. Diversamente, il libero mandato a membri di un Senato nominato dai territori finirà per ascrive un potere troppo grande, poco o nulla rispondente all’interesse dei territori, e troppo fuori controllo. Questo è il paradosso di un federalismo a metà e di un modello tedesco annacquato. Infine, non si tiene contro del fatto che la Germania ha mantenuto questa sua tradizione dall’Ottocento, non è retrocessa dal voto diretto a quello indiretto, come invece faremmo noi. La questione è anche di ragionevolezza e prudenza politica: dopo anni di condanne della casta ora si legittima la casta e si chiede agli italiani di devolvere il loro potere di elezione a funzionari ed eletti locali, piccoli potenti che le cronache quotidiane ci restituiscono come attori di una corruzione capillare ed espansa. E’ il risparmio una ragione sufficiente per rispolverare il voto indiretto o non invece la promessa implicita a una nuova generazione locale di prendersi velocemente una fetta di potere discrezionale? Un Senato che non risponde agli elettori perchè non deve comunque sfiduciare il governo è un Senato che ha comunque troppo potere per non generare una nuova oligarchia, una nuova casta.

Riferimenti
Si veda su eddyburg Abolire il senato? Prima del come vediamo il perché e L’accordo sulle riforme ha partorito un mostro giuridico, di Gaetano Azzariti, e Grasso: non abolite il Senato intervista di Liana Milella

Certi scritti è meglio pubblicarli tardi che mai. Questo, per esempio, che ci ricorda perché dobbiamo cambiare: nella nostra città, in Europa, nel mondo.

www.cadoinpiedi, 24 gennaio 2014
“Le nostre società stanno andando verso la plutocrazia. Questo è neo-liberismo” ha detto. La sfida del futuro? Non limitarci a osservare il corso degli eventi ed eliminare le istituzioni che perseguono il “tutto per noi stessi, niente per gli altri”.

Noam Chomsky, il maggior linguista vivente, l’autore del capolavoro Il linguaggio e la mente (Bollati Boringhieri, 2010), a 86 anni ha mantenuto una lucidità di pensiero che non lascia spazio a dubbi e illusioni. “Le nostre società stanno andando verso la plutocrazia. Questo è neo-liberismo” ha detto Chomsky.

LA DEMOCRAZIA E’ SCOMPARSA

Chomsky ha ricordato che “secondo uno studio della Oxfam, l’Ong umanitaria britannica, 85 persone nel mondo hanno la ricchezza posseduta da 3,5 miliardi di individui. Questo era l’obiettivo del neoliberismo” di cui parla come di “un grande attacco alle popolazioni mondiali, il più grande da 40 anni a questa parte”.

In Italia “la democrazia è scomparsa quando è andato al governo Mario Monti designato dai burocrati seduti a Bruxelles, non dagli elettori” spiega il linguista di Filadelfia, che vive vicino a Boston ed è a Roma con la raccolta di testi inediti in Italia su oltre 40 anni di lotte e pensiero I padroni dell’umanità (Ponte alle Grazie). Sono saggi politici dal 1970-2013 dove i principali accusati dello sfruttamento politico e delle guerre, dal Vietnam alla Serbia e all’Iraq, restano gli Stati Uniti e la società dominata dalle multinazionali.

L’EUROPA E’ AL COLLASSO

In generale “le democrazie europee sono al collasso totale indipendentemente dal colore politico dei governi che si succedono al potere perchè sono decise – sottolinea Chomsky – da banchieri e dirigenti non eletti che stanno seduti a Bruxelles. Questa rotta porta alla distruzione delle democrazie e le conseguenze sono le dittature”. “Mario Draghi – continua – ha detto che il contratto sociale è morto.
Ciò che conta oggi è la quantità di ricchezza riversata nelle tasche dei banchieri per arricchirli. Quello che capita alla gente normale ha valore zero. Questo è accaduto anche negli Stati Uniti ma non in modo così spettacolare come in Europa. Il 70% della popolazione non ha nessun modo di incidere sulle politiche adottate dalle amministrazioni”. E da chi è composto questo 70%? “Da quelli che occupano posizioni inferiori sulla scala del reddito. Quell’1% che sta nella parte superiore ottiene a livello politico ciò che desidera. Questa è la plutocrazia”.

INFORMARSI SOLO SUI BLOG E’ SBAGLIATO

Da sempre punto di riferimento per la sinistra internazionale, Chomsky nei suoi saggi invita a riflettere sulla manipolazione dell’opinione pubblica. Dei new media dice: “Hanno portato ad una maggior vivacità di opinioni rispetto ai media ortodossi” ma un effetto negativo è “la tendenza a sospingere gli utenti verso una visione del mondo più ristretta perchè quasi automaticamente le persone sono attratte verso quei nuovi media che fanno eco alle loro stesse vedute” ha sottolineato. “Se uno si informa solo sui blog le prospettive saranno molto più ristrette”. Inoltre, la proliferazione di informazioni ha avuto, secondo il linguista, come “contraltare la riduzione del livello dei reportage”.

GLI INTELLETTUALI HANNO LE LORO COLPE

Tra i pensatori più autorevoli del nostro tempo, Chomsky non risparmia critiche agli intellettuali che, spiega, “hanno tutte le responsabilità degli altri esseri umani: cercare di incentivare il bene comune e del resto del mondo”. La sfida del futuro è “non limitarci a osservare il corso degli eventi” e per farlo, conclude, “bisogna eliminare la struttura di quelle istituzioni che perseguono il ‘tutto per noi stessi, niente per gli altri’, non colpire il singolo perchè verrà semplicemente buttato fuori dal sistema”.

«Il populismo è il confine estremo della democrazia rappresentativa. Quando il populismo diventa potere di governo si corre il rischio di un’uscita dalla democrazia e dall’ordine costituzionale. Il populismo mette a rischio l’uguaglianza formale che le regole costituzionali hanno il compito di proteggere».

Micromega, 16 maggio 2014

In questo articolo, Nadia Urbinati riprende alcune tesi che sono elaborate in maniera più estesa e analitica nelle sue due più recenti monografie, Democrazia sfigurata: il popolo fra opinione e libertà (2014) e Democrazia in diretta: le nuove sfide della rappresentanza (2013).

Il populismo è un concetto molto impreciso, usato per descrivere situazioni politiche diverse tra loro e movimenti politici che perseguono obiettivi diversi, per esempio forme di partecipazione spontanea o partiti organizzati al fine di conquistare la maggioranza di un parlamento democratico. Per alcuni il populismo è solidaristico e inclusivo, per altri discriminatorio e insofferente verso i diritti individuali e le minoranze. Per alcuni esso mette a rischio le democrazie costituite, per altri esso inaugura nuove possibilità per la democrazia. Vi sono scienziati sociali che hanno sostenuto che il populismo ha aperto la strada a forme dittatoriali e scienziati sociali che sostengono che esso agevola la transizione democratica in paesi post-coloniali in quanto esprime le esigenze dei molti di vedere attuata una certa distribuzione della ricchezza e della proprietà della terra, precondizione senza la quale la democrazia non decolla. In quest’ultima accezione, il populismo ha ricevuto buona accoglienza nei paesi del continente americano. In America Latina, ilcaudillo che guida le masse di campesinos verso il governo del paese è una figura centrale nella storia della formazione tanto di movimenti populisti che di transizioni verso regimi democratici. Sempre dall’America, questa volta statunitense, viene l’altra esperienza che ha contribuito a leggere il populismo come espressione di democrazia: l’esempio del People’s Party di fine Ottocento che Michael Kazin ha anni fa rubricato come caso esemplare di riappropriazione della politica da parte del popolo americano (un processo già iniziato nel Settecento con il Great Awakening). Ma il populismo (e in Europa soprattutto) è anche identificato con movimenti non democratici e anti-democratici: il fascismo che emerse in Italia come mobilitazione populista per diventare regime anti-democratico; il più recente movimento etnocentrico della Lega Nord; e infine, i movimenti fascio-populisti che si stanno organizzando e mobilitando in queste settimane per conquistare seggi nel nuovo Parlamento europeo.

L’ambiguità del termine è confermata anche dai contributi precedentemente pubblicati su Micromega e rispetto ai quali propongo questa riflessione: John McCormick (Sulla distinzione tra democrazia e populismo) propone di leggere il populismo come “grido di dolore” della democrazia rappresentativa, un grido che può mobilitare tanto la destra quanto la sinistra (tornerò su questa immagine durkheimiana più avanti); Lorenzo Del Savio e Matteo Mameli (Sulla democrazia machiavelliana di McCormick: perché il populismo può essere democratico) sostengono che la distinzione più convincente per comprendere il ruolo del populismo nelle democrazie moderne è tra populismi solidaristici e populismi razzisti; quando e se solidaristici, i populismi possono avere “potenzialità” democratiche. Come rendere conto dell’ambiguità nell’uso di un termine tra l’altro così frequentemente usato, il fatto cioè che il populismo possa rappresentare tutto e il contrario di tutto?

Il termine populismo designa un fenomeno complesso e ambiguo. Più che un regime, esso è un determinato stile politico o un insieme di tropi e figure retoriche che possono emergere all’interno di governi democratici rappresentativi. La prima distinzione da fare quindi è tra movimento popolare e potere ovvero governo populista. È Occupy Wall Street un movimento populista o un movimento popolare di protesta? La risposta a questa domanda è sintomatica di questa distinzione. Alla fine del presente contributo emergerà perché Occupy Wall Street non è stato un movimento populista e perché il populismo è altra cosa dalla partecipazione democratica nelle forme e nelle procedure stabilite da una costituzione: libere elezioni a suffragio universale con voto segreto per eleggere rappresentanti, libertà di stampa, parole e associazione al fine di partecipare alla costruzione di opzioni politiche, conta dei voti secondo regola di maggioranza e quindi riconoscimento della minoranza (opposizione) come essenziale al gioco democratico (che non è né unanimità né consenso senza libera espressione del dissenso, di qualunque dissenso anche su questioni che la maggioranza ritiene buone e giuste).

Ora, dato il contesto di democrazia rappresentativa e costituzionale, è prevedibile che il tema del contendere è proprio la rappresentazione del popolo (l’ideologia del popolo) nella sua unità politica sovrana; per il populismo il popolo è definito sempre contro un’altra parte che al popolo appartiene formalmente ma non socialmente in quanto detentrice di un potere economico che è in eccesso rispetto a quello degli ordinari cittadini (la soglia che designa l’eccesso è un oggetto stesso del contendere, intraducibile in norma certa). “Popolo” e “grandi”, ci ricorda McCormick, è la classica e mai superata contrapposizione repubblicana che sta alla radice del populismo, e che McCormick rende come tensione tra uguaglianza formale e uguaglianza sostanziale. Dunque, il populismo non è il popolo ma una sua rappresentazione coniata o promossa da un leader o un partito-leader. Il populismo quindi può essere più di un semplice movimento politico dei molti se i suoi leader riescono a conquistare il potere dello Stato. Come anche McCormick mette in luce, il populismo è impaziente con le regole e le procedure di una democrazia rappresentativa parlamentare perché impaziente con la formalità del diritto: l’eguaglianza politica e per legge ovvero la libertà nel diritto sono categorie che il populismo contesta nel nome di una eguaglianza sostanziale. L’obiettivo polemico del populismo è una lettura giuridica e costituzionale della democrazia, quella appunto che sta alla base del sistema rappresentativo.

Come si è visto con l’approvazione della nuova costituzione ungherese (11 marzo 2013), l’aspetto inquietante del populismo emerge qualora esso abbia l’opportunità di passare da movimento (politico o di opinione) a potere di governo. Infatti, l’esito delle decisioni di un governo populista sarà verosimilmente quello di piegare lo Stato agli interessi del “popolo”, ovvero della sua parte maggioritaria contro quell’altra parte che è minoranza (sia essa economica o culturale o religiosa o etnica). Si potrebbe obiettare che essere contro la minoranza economica non è la stessa cosa che essere contro la minoranza religiosa o civile; si tratta però di un’obiezione debole perché chi ha il potere di decidere chi sia minoranza buona o cattiva ha un potere che è esorbitante e quindi insicuro per tutti. Il populismo ha impazienza verso i principi della democrazia costituzionale, a partire dai diritti individuali (e che proteggono tutte minoranze, anche quelle che possono nascere all’interno del gruppo maggioritario), alla divisione dei poteri e al sistema pluripartitico: insomma a quel che è la democrazia rappresentativa.

Come si intuisce, l’ideologia del “popolo” è centrale. Se per democrazia noi intendiamo il governo del popolo e per popolo intendiamo la volontà politica di “un gruppo sufficientemente esteso” di persone che sono unite da qualcosa di “sostanziale” – reddito, religione, cultura, ecc. – possiamo pensare, con McCormick, che il populismo sia la forma più completa di democrazia, in quanto esso è attento appunto a rappresentare il popolo nella sua totalità, come massa unita da un’equivalenza valoriale che, anche se non interpreta esattamente tutte le sue parti, le unisce in un’omogeneità superiore alle parti stesse (questa è l’idea di populismo come processo di costruzione dell’unità egemonica del popolo che ci ha proposto Ernesto Laclau). Ora, in questo caso, la qualità del populismo dipende da “che cosa” viene usato come termine di equivalenza che unisce le varie componenti di un popolo: se è la condizione economica dei meno abbienti, allora il populismo prenderà l’aspetto di una politica di giustizia sociale e di lotta per l’eguaglianza, mentre se è l’identità culturale, etnica e religiosa a costruire l’egemonia popolare, allora sarà più probabile che il potere populista prenda forme inquietanti di nazionalismo e razzismo. Ecco allora che la distinzione di McCormick e quella di Del Savio e Mameli si sovrappongono: gli uni e gli altri proponendo un’interpretazione di populismo che si identifica con la parte meno negativa di quel che può unificare una massa. Ma con quale criterio viene deciso il “buono” e il “cattivo” populismo se è il contesto a dettare la definizione? Ovvero come uscire dal contingentismo se la dimensione sociologica prende il sopravvento su quella giuridica e delle procedure?

Come si può intuire, la differenza tra le due possibilità – populismo di destra o di sinistra, populismo solidaristico e esclusionario – è soltanto ideologica: dipende cioè dalla narrativa o retorica che viene adottata. Dipende per esempio dal fatto che la destra europea razzista e populista oppure la sinistra europea solidarista e populista abbiano o non abbiano leader capaci; e dipende poi, secondo Del Savio e Mameli, dalle decisione prese dai governi o, come nel caso europeo, dall’Unione Europea, poiché se queste decisioni sono punitive per i molti c’è da aspettarsi che questi ultimi si mobilitino in forme populiste e giustamente reclamino politiche di giustizia sociale. La prima delle due possibilità è connaturata alla lotta politica nelle democrazie elettorali e soprattutto alla politica plebiscitaria con la quale i leader sono incoronati dalle masse. La seconda è decisamente priva di evidenza: non è per nulla scontato che una politica inegualitaria generi politiche populiste di sinistra. Come insegna la storia antica e recente, i pochi che dovrebbero pagare di più in proporzione a quel che pagano i molti, non se ne stanno con le mani in mano e dovendo cercare il consenso della maggioranza a politiche che sono in effetti contro gli interessi della maggioranza, non tardano a creare delle ideologie populiste che unificano il discorso e le masse intorno a temi altrettanto populisti ma capaci di neutralizzare le politiche redistributive: useranno, per esempio, il classico argomento della lotta contro gli immigrati, i comunisti e gli zingari (facendo delle minorante capri espiatori di problemi la cui causa è economica). Insomma dire che il populismo dipende dal contesto nel quale si sviluppa, e che quindi può essere di destra o di sinistra, non aiuta a capire che cosa esso sia né a giudicarlo alla luce di criteri normativi democratici.

Il populismo nasce all’interno della cornice della democrazia costituzionale, un’arena politica fondata sulle elezioni, il pluripartitismo e la regola di maggioranza (ovvero la libertà di poter propagandare le proprie idee senza rischio della propria sicurezza e per conquistare consenso). Il populismo può sorgere solo in questa cornice di libertà politica e civile, non dove non c’è democrazia (a meno che non si voglia rubricare come populista tutto quel che accade nell’universo politico, quindi anche i movimenti di rivolta, le rivoluzioni e le ribellioni). Proprio per evitare il rischio onnivoro che un termine impreciso contiene, quel che si dovrebbe tentare di fare è capire: a) se, una volta acquistato il potere di prendere decisioni, la maggioranza populista rispetterà le regole che le hanno permesso di vincere ovvero se vorrà accettare il rischio di perdere; b) se si asterrà dall’usare il sistema statale per favorire la sua parte contro l’opposizione sconfitta così da crearsi le condizioni per una rielezione assicurata; c) se non gestirà le nomine delle cariche dello Stato favorendo solo la sua parte; d) se non riscriverà la costituzione allo scopo di restare al potere più a lungo; e) se non userà il potere fuori dalle regole e contro i limiti stabiliti dalla costituzione. Siccome il populismo è critico della democrazia costituzionale e rappresentativa, mettere in conto che potrebbe operare in modo non legittimo è quanto meno doveroso.

Quindi delle due l’una: o il governo retto da una maggioranza populista non opererà contro le regole costituzionali e allora questo non sarà altro che un nuovo governo, un caso cioè di normalità o politica ordinaria; oppure il governo populista cambierà la connotazione del regime costituzionale, dando luogo a una dittatura o una forma autocratica di regime. In questo secondo caso, chiamarlo populismo sarebbe inappropriato, perché si tratterebbe di una dittatura o autocrazia. L’uso delle regole da parte di un partito populista che ha conquistato la maggioranza è un elemento di giudizio molto importante proprio perché il populismo (di destra o di sinistra, solidaristico o esclusionario) si afferma criticando la struttura del sistema politico rappresentativo e costituzionale. Come ha scritto Benjamin Arditi, esso è la periferia estrema del regime democratico, oltre la quale c’è un altro regime, quello per esempio dittatoriale. Ecco dunque un importante tassello interpretativo: il populismo è un possibile modo di essere della politica praticata in una democrazia rappresentativa, un modo di interpretare il “popolo”, di unificare le varie esigenze interne a un popolo plurale intorno a un tema comune: questa è l’azione di un movimento populista che opera e continua a operare dentro le regole democratiche.

Ma se questa interpretazione ha un senso, allora non è per nulla chiaro come facciamo a distinguere questo processo di normalità politica da altri processi e movimenti peculiari alla normale dialettica politica democratica. Un esempio: anche i partiti socialisti e comunisti occidentali del Secondo dopo guerra conducevano una politica di unificazione dei vari interessi esistenti nel popolo per unirli intorno a un interesse comune: questa fu, per esempio, la politica dell’alleanza nazionale lanciata da Palmiro Togliatti (e che ha ispirato Laclau nella sua teorizzazione della costruzione egemonica populista); eppure sarebbe sbagliato sostenere che il Partito Comunista fosse un partito populista. Evidentemente questo processo politico di unificazione del popolo non è sufficiente a denotare il populismo, a meno che tutta la politica democratica non sia intesa come populista (questa è l’identificazione che propone Laclau, per il quale infatti populismo, politica e democrazia diventano una sola cosa). Ma questa equivalenza di termini è fallace proprio perché azzera le differenze nell’intento di spiegarle. Quindi identificare il populismo con la normalità della lotta ideologica in una democrazia non aggiunge nulla alla nostra conoscenza e non ci dice ancora che cosa sia il populismo.

Il populismo deve essere qualche cosa di diverso dalla politica democratica e dalla democrazia (ovvero dalla pratica ideologica normale di unificazione degli interessi di un popolo) e quindi dalla costruzione del consenso politico in vista di conquistare la maggioranza. A meno che non usiamo la parola populismo per descrivere la realtà effettuale, ma in questo caso tutto può essere incluso: populismi di destra o di sinistra, solidaristi o identitario, e così via. Se vogliamo elevarci dal discorso ideologico e cercare di capire un fenomeno politico allora dobbiamo cercare per quanto è possibile di estrarre dalle varie esperienze quelle specificità e costanti che ci consentono di dare un senso alla categoria “populismo”. Partendo da questa premessa ho cercato altrove di distinguere tra movimento popolare e populismo e per fare questo ho cercato di individuare alcune coordinate di orientamento (relative al populismo come potere, ovvero che aspira allo Stato): unificazione del popolo sotto un leader; trasformazione ideologica del conflitto in polarizzazione e quindi semplificazione della pluralità di interessi in opposizione binaria (“noi”/”loro”); e poi, quando e se il partito populista diventa partito di governo, se usa le risorse dello Stato per avvantaggiare la propria parte a danno dell’opposizione, quindi violando la divisione dei poteri (messa a repentaglio dell’autonomia del giudiziario) e dei diritti di libertà.

Si può quindi sostenere che il populismo vada oltre la “potenzialità democratica” dei movimenti. Tutti i movimenti possono o non possono avere potenzialità democratiche, e in questo senso il concetto di “potenzialità” è troppo lasco. Altrettanto insoddisfacente è appellarsi alla famosa espressione che Durkheim usò per il socialismo, ovvero il populismo come “grido di dolore” delle società democratiche rappresentative. In quanto “grido di dolore” il populismo non ci dice nulla su quale sia la ragione del dolore, né ci consegna una diagnosi, quindi non ci dice quale debba essere il movimento per correggere quel dolore. Il “grido” è un’indicazione della sofferenza, niente altro. E infatti, vi è una componente di dolore (come insoddisfazione e scontento) nel moto socialista come in quello populista, eppure sarebbe improprio dire che socialismo e populismo sono uguali in quanto gridi di dolore. A chi spetta la diagnostica e la cura? Diagnostica e cura mettono in moto competenze e azioni che sono esterne al “grido di dolore” e rispetto alle quali il popolo gioca il ruolo non dell’attore ma del paziente che consente ai leader di fare la diagnosi e di intraprendere la cura. Allora, perché criticare la democrazia elettorale di espropriare il popolo della sua voce se lo stesso appello al popolo del populismo lascia tanta latitudine di delega ai leader o ai tecnici dell’ideologia sulla diagnosi e la cura? Se il popolo grida, esso ha comunque bisogno di qualcuno che interpreti le sue grida. Per questo, viene il dubbio che la differenza tra populismi non sia altro che una differenza tra leader e le loro rispettive ideologie. È lo stesso McCormick che alimenta questo dubbio quando ci ricorda con buoni argomenti che la storia delle democrazie ha registrato demagoghi amici del popolo e demagoghi tiranni: dunque, la differenza tra populismo buono e populismo cattivo sta nella leadership, nel capo che rappresenta il “grido di dolore” del popolo paziente.

Abbiamo aggiunto così un importante tassello alla nostra conoscenza del fenomeno populista: il bisogno di un leader che unifichi o dia il senso ideologico di ciò che unisce il popolo. Senza questa leadership, senza l’apice cesarista (quella che ho altrove chiamato correzione mono-archica della democrazia) il movimento populista resta un movimento popolare come ce ne sono, e giustamente, tanti in un regime democratico: Occupy Wall Street o il movimento degli “indignados” sono casi di movimenti popolari di denuncia e di protesta ma non movimenti populisti. Occupy Wall Street rifiutò anzi ogni rappresentanza per mezzo di un leader e volle essere solo un’espressione di critica pubblica nel nome di un valore, quello dell’eguaglianza, che le società democratiche pretendono di incorporare. Chiamare questo tipo di movimenti “populisti” è sbagliato per la semplice ragione che, in questo caso, tutto sarebbe populista in democrazia. E allora che senso avrebbe usare il termine? Il fatto è che il populismo non presume solo e semplicemente l’esistenza di una massa di poveri o disoccupati; non basta il “grido di dolore” per denotarlo; esso presuppone un leader, e una macchina che produca un’ideologia che dia a quel grido un’unità rappresentativa finalizzata a uno scopo: la conquista del consenso per raggiungere il governo e prendere decisioni.

Vediamo dunque di capire perché il populismo è molto di più di un movimento popolare e perché ha senso temerlo. A questo fine torniamo al “grido di dolore” di un popolo che soffre. Dice McCormick: “Durkheim disse una volta che il socialismo è il grido di dolore della società moderna. Il populismo è ilgrido di dolore delle moderne democrazie rappresentative. Il populismo è inevitabile nei regimi politici che aderiscono formalmente ai principi democratici ma di fatto escludono il popolo dal governo”. Ecco dunque: il populismo non ha come punto fondante questioni di redistribuzione economica o di giustizia sociale, ma questioni di gestione del potere politico: è dunque una contestazione radicale alla democrazia rappresentativa in vista di una gestione diretta del governo da parte del popolo. Il quale se è economicamente oppresso dai pochi è perché non prende decisioni direttamente ma attraverso quei pochi che elegge. Quindi: il populismo si manifesta quando il popolo come entità sovrana c’è già e chiede che la sua autorità sia esercitata in maniera non indiretta. Per McCormick dunque populismo si identifica con la democrazia diretta (ovvero assemblea aperta a tutti i cittadini; lotteria per selezionare i magistrati; tribunali composti da cittadini comuni) in un contesto in cui questa non c’è più. Siccome nel nostro tempo questa forma di governo non può essere attuata come nell’Atene classica, è stata adottata la rappresentanza la quale, come Carl Schmitt e poi Bernard Manin hanno sostenuto (entrambi seguendo Montesquieu), è sinonimo di governo “aristocratico” o “oligarchico” ovvero dei pochi, in quanto fondato sulle elezioni. In sostanza, ci dice McCormick, in una democrazia rappresentativa è fatale che sorga il populismo: il quale “è l’altra faccia della medaglia della normalità politica nelle repubbliche elettorali”. Ecco che siamo tornati a quanto sosteneva anche Laclau: il populismo si indentifica con la politica e con la democrazia nei governi rappresentativi. Delle due l’una: o la politica è ordinaria routine (politica dei pochi con il consenso dei molti) oppure è l’opposto e cioè populista (politica dei molti contri i pochi, con o senza il loro consenso visto che i molti hanno la maggioranza comunque).

Ora, se la politica ordinaria opera secondo le norme formali (che garantiscono “l’uguaglianza politica formale” senza doverla tradurre in “eguaglianza socio-economica”), il sistema non ha scossoni. Ma quando la questione economica si fa pressante (il “grido di dolore”), allora l’uguaglianza formale (come la democrazia rappresentativa che si regge su di essa) mostra i suoi limiti. A questo punto, al popolo non resta che impossessarsi del potere per riportare equilibrio tra uguaglianza formale e uguaglianza sostanziale. Ciò che non è chiaro – e McCormick non aiuta a chiarire – è come si possa giungere a questo riequilibrio senza decisioni che limitano l’uguaglianza formale, ovvero senza violare i principi costituzionali e usare mezzi eccezionali per giungere alla realizzazione del fine desiderato (uguaglianza sostanziale). Ma a questo punto, la democrazia populista sarebbe un’uscita dalla democrazia costituzionale: mezzi e fini si separerebbero e con lo scopo di raggiungere il fine buono (uguaglianza sostanziale) il mezzo (violazione della legge) viene ad essere giustificato. Che sia Marx o Schmitt l’ispiratore di questa visione, è evidente che il populismo diventa a questo punto esterno alla democrazia costituzionale; non una forma politica interna alla democrazia, ma una trasformazione del regime da sistema nel quale gli attori politici prendono decisioni con la regola di maggioranza a sistema che dichiara essere il governo della maggioranza contro la minoranza (per ragioni “buone” come l’eguaglianza sostanziale). Il confine della democrazia è a questo punto oltrepassato.

In conclusione, possiamo dire che o il populismo non è altro che un movimento politico popolare, sacrosanto movimento di protesta (Del Savio e Mameli), per cui non è chiaro perché chiamarlo populismo; oppure è più di un movimento (McCormick) e in effetti una estrema tensione della democrazia rappresentativa verso una soluzione che rischia un’uscita dall’ordine costituzionale.

Qui il testo dell’articolo scaricabile in formato .pdf

Il manifesto, 23 aprile 2014

Ci si chie­deva spesso, decenni fa, nelle scuole e sui media, come fosse stato pos­si­bile che nel 1931, su oltre mil­le­due­cento docenti uni­ver­si­tari, solo una quin­di­cina avesse rifiu­tato di giu­rare fedeltà al fasci­smo; e come fosse stato pos­si­bile che con loro si fos­sero alli­neati migliaia di gior­na­li­sti, di scrit­tori, di intel­let­tuali — la tota­lità di quelli rima­sti in fun­zione — con­tri­buendo tutti insieme a costruire una solida base di con­senso alla dit­ta­tura di Mussolini.

Il con­te­sto è sicu­ra­mente cam­biato, ma forse il ser­vi­li­smo è rima­sto inva­riato. Oggi, senza nem­meno l’alibi di un’imposizione da parte di un potere auto­ri­ta­rio e incon­trol­lato, a cui peral­tro anche allora molti erano già ben pre­di­spo­sti, la corsa ad alli­nearsi con il potente di turno, magni­fi­can­done qua­lità e ope­rato, ha assunto da due decenni a que­sta parte un anda­mento a valanga; per poi accor­gersi, una volta usciti tem­po­ra­nea­mente o defi­ni­ti­va­mente di scena i desti­na­tari di tanta ammi­ra­zione, che i risul­tati del loro ope­rare — del loro «fare» in campo eco­no­mico, sociale, isti­tu­zio­nale e, soprat­tutto, cul­tu­rale — erano incon­si­stenti, nega­tivi, o addi­rit­tura dram­ma­tici. Ma rima­neva tut­ta­via, in alcuni angoli riser­vati del gior­na­li­smo car­ta­ceo e tele­vi­sivo, lo sforzo di un vaglio cri­tico delle misure assunte dai governi che lasciava uno spi­ra­glio alla legit­ti­ma­zione di un’opposizione.

Da qual­che mese, al seguito della caval­cata sul nulla di Mat­teo Renzi — «dà con una mano per pren­dere con l’altra» (e molto di più) è la sin­tesi del suo ope­rato — il coro delle ova­zioni si è fatto assor­dante; lo spa­zio che gli riser­vano gior­nali e tv è tota­li­ta­rio (come docu­menta l’osservatorio sulle tv di Pavia); i toni sono peren­tori; i rimandi alle sue polie­dri­che capa­cità incon­ti­nenti; il ser­vi­li­smo degli adu­la­tori dila­gante (papa Fran­ce­sco copia «lo stile di Renzi» ci ha infor­mato un noti­zia­rio). Non c’è più un regime fasci­sta a imporre que­sto alli­nea­mento; sono piut­to­sto que­sti alli­nea­menti a creare le solide pre­messe di un «moderno» auto­ri­ta­ri­smo. «Moderno» per­ché è quello auspi­cato dall’alta finanza, che ormai con­trolla la poli­tica e le nostre vite; come emerge anche da un docu­mento spesso citato della Banca J.P.Morgan che si sca­glia con­tro le costi­tu­zioni anti­fa­sci­ste e demo­cra­ti­che che osta­co­le­reb­bero il pro­fi­cuo svol­gi­mento degli «affari». È l’autoritarismo per­se­guito dalle «riforme» costi­tu­zio­nali ed elet­to­rali di Renzi, tese a can­cel­lare con pre­mio e soglie di sbar­ra­mento ogni pos­si­bi­lità di con­tro­bi­lan­ciare i poteri dei par­titi — o del par­tito — al potere: non solo in Par­la­mento, ma ovun­que; a par­tire dai Comuni, non certo aiu­tati a «fare», bensì para­liz­zati dai tagli ai bilanci e dal patto di sta­bi­lità per costrin­gerli ad abdi­care dal loro ruolo, che è for­nire quei ser­vizi pub­blici locali di cui è intes­suta l’esistenza quo­ti­diana dei cit­ta­dini. Renzi, come Letta, Monti e Ber­lu­sconi, vuole costrin­gerli ad alie­narli: come aveva fatto Mus­so­lini sosti­tuendo ai con­si­gli comu­nali i suoi prefetti.

Una riprova non mar­gi­nale di que­sto clima è il modo in cui stampa e media seguono la cam­pa­gna elet­to­rale euro­pea, con­fi­nan­dola inte­ra­mente in un con­fronto Renzi-Grillo (con Ber­lu­sconi ormai ai mar­gini) privo di con­te­nuti pro­gram­ma­tici e tutto incen­trato sulle diverse forme di «cari­sma» che i due lea­der esibiscono.

In que­sto con­te­sto il silen­zio calato sulla lista L’altra Europa con Tsi­pras, l’unica che si pre­senta con un pro­gramma per cam­biare radi­cal­mente l’Europa (che è l’argomento di cui è proi­bito par­lare) e non per abban­do­narla insieme all’euro, né per con­ti­nuare sulla rotta di quell’austerity difesa e votata fino a ieri come pas­sag­gio obbli­gato per tor­nare alla “cre­scita”. Della lista L’altra Europa stampa e tv hanno seguito e ingi­gan­tito le dif­fi­coltà incon­trate nel corso della sua for­ma­zione, per poi calare una cor­tina di silen­zio totale sulla sua esi­stenza e sui suoi suc­cessi. La venuta di Tsi­pras a Palermo, con un tea­tro pieno, la gente in piedi e mille per­sone rima­ste fuori ad ascol­tare, con una visita all’albero di Fal­cone accom­pa­gnato da cen­ti­naia di soste­ni­tori e con l’incontro con il sosti­tuto Di Mat­teo, non ha meri­tato nem­meno un cenno o una riga. Nem­meno la con­se­gna delle 220 mila firme rac­colte per con­sen­tire la par­te­ci­pa­zione della liste alle ele­zioni, un risul­tato su cui molti media ave­vano scom­messo che non sarebbe mai stato rag­giunto, ha avuto la minima men­zione. L’apertura della cam­pa­gna elet­to­rale al tea­tro Gobetti di Torino con la par­te­ci­pa­zione di Gustavo Zagre­bel­sky e altre cen­ti­naia di soste­ni­tori è anch’essa scom­parsa nel nulla. Quando si accenna di sfug­gita alla lista L’altra Europa, per lo più per deni­grare o sbef­feg­giare i tanti intel­let­tuali di valore che la sosten­gono — ribat­tez­zati “pro­fes­so­roni”; e solo per que­sto se ne parla — il suo pro­gramma viene assi­mi­lato a quello dei no-euro, dei nazio­na­li­sti o addi­rit­tura dei fasci­sti. Per­ché “se non si è con Renzi non si può che essere con­tro l’Europa”.

Il bara­tro in cui è pre­ci­pi­tato il gior­na­li­smo ita­liano si vede dal fatto che molti non rie­scono nem­meno a capire che si possa volere un’Europa diversa da quella che c’è; che è quella di Renzi, come lo era di Letta, di Monti e anche di Ber­lu­sconi e Tre­monti quando erano al governo. Eppure non è man­cato agli stessi gior­nali e tele­gior­nali lo spa­zio per occu­parsi del con­gresso del “nuovo” (il 14°) par­tito comu­ni­sta fon­dato da Rizzo, della pre­sen­ta­zione della lista elet­to­rale Sta­mina, della riam­mis­sione dei Verdi alla com­pe­ti­zione elet­to­rale anche senza aver rac­colto le firme (men­tre chi le ha rac­colte non ha meri­tato nem­meno una riga).

Il tutto viene com­ple­tato con la pre­sen­ta­zione di son­daggi che danno la lista per morta: sono i tre divul­gati dalle tv di regime, men­tre tutti gli altri son­daggi la danno due o tre punti al di sopra della soglia di sbar­ra­mento, ma non ven­gono resi noti. Io, che ho lavo­rato anche in una società di son­daggi, so bene come si fa ad orien­tarli (e anche a fal­si­fi­carli) e quanto con­tri­bui­scano a “orien­tare” e a mani­po­lare la realtà. Gior­nali occu­pati dalla stig­ma­tiz­za­zione della casta non fanno un cenno del fatto che siamo l’unica lista ad affron­tare que­sta cam­pa­gna elet­to­rale senza un euro di finan­zia­menti di stato o di pub­bli­cità. E così via. Poco per volta, e a volte imper­cet­ti­bil­mente, si sci­vola verso un nuovo regime e in que­sta tem­pe­rie per­sino le cri­ti­che all’operato di Renzi ven­gono pro­po­ste come ragioni per un soste­gno dovuto e ine­lut­ta­bile.

Tipico da que­sto punto di vista, per­ché rias­sume una para­bola che coin­volge un po’ tutti i com­men­ta­tori poli­tici che in qual­che modo devono misu­rarsi con numeri e dati che con­trad­di­cono fron­tal­mente le dichia­ra­zioni del lea­der, è l’editoriale (l’omelia set­ti­ma­nale) di Euge­nio Scal­fari com­parso sul numero pasquale di Repub­blica. In sostanza, vi si dice, gli 80 euro di Renzi sono una bufala senza coper­tura finan­zia­ria, che gli ser­virà per stra­vin­cere le ele­zioni euro­pee, anche se è basata un una serie di imbro­gli con­ta­bili che pre­sto ver­ranno alla luce. Ma — scrive Scal­fari, che pure, in mar­gine a una cri­tica alla riforma del Senato pro­po­sta da Renzi mani­fe­sta, senza sot­to­li­nearla, la con­sa­pe­vo­lezza che la sua riforma elet­to­rale stra­vol­gerà com­ple­ta­mente l’assetto demo­cra­tico del nostro paese — c’è da augu­rarsi comun­que che quell’imbroglio fun­zioni; per­ché così il governo si raf­for­zerà, recu­pe­rerà anche in Europa il pre­sti­gio per­duto e la cre­scita potrà ripar­tire. Il che mostra in che conto Scal­fari tenga “que­sta Europa”: quella a cui stiamo sacri­fi­cando le ormai molte “gene­ra­zioni per­dute” del nostro e di altri paesi, l’esistenza, la salute, la vec­chiaia e la vita stessa di un numero cre­scente di cit­ta­dini, di lavo­ra­tori e di impren­di­tori, e l’intero tes­suto pro­dut­tivo del nostro e paese. E mostra anche che idea abbia - e non solo lui - della cre­scita (il “flo­gi­sto” del nostro tempo, come lo chiama Luciano Gal­lino: tutti ne par­lano e nes­suno sa che cosa sia).

Ma soprat­tutto mostra dove porta que­sta teo­ria, o visione, o per­ce­zione, sem­pre più dif­fusa dai media e tra la gente, del governo Renzi come “ultima spiag­gia”. Così, quando si sarà com­piuto il disa­stro eco­no­mico, sociale e isti­tu­zio­nale a cui ci sta tra­sci­nando quella sua caval­cata fatta di vuote pro­messe, di truc­chi con­ta­bili e di nes­suna capa­cità di pro­get­tare un vero cam­bia­mento di rotta per l’Italia e per l’Europa, non si potrà più tor­nare indie­tro. È per que­sto che biso­gna fer­marlo qui e ora, a par­tire da un rove­scia­mento dei pro­no­stici — meglio sarebbe chia­marli auspici di regime — tutti a favore delle destre nazio­na­li­ste e raz­zi­ste masche­rate die­tro la cam­pa­gna anti-euro, o delle lar­ghe intese tra Ppe e Pse, con le quali la poli­tica eco­no­mica, fiscale e mone­ta­ria dell’Unione dovrebbe pro­se­guire indi­stur­bata il suo cam­mino di distruzione.

Una domanda e una risposta su cui è utile riflettere. L'interrogativo che resta aperto è: a che serve il movimento che riempie le piazze e non riesce a cambiare ciò che vorrebbe? E' solo testimonianza, o può preparare il futuro? E se la risposta è questa, quali sono le condizioni che mancano? Il Fatto Quotidiano, 15 aprile 2014

CARO COLOMBO, a brevi intervalli (e spessonello stesso tempo) vediamo maree di persone riunirsi in un punto o in un altrodel mondo per reclamare qualcosa di sacrosanto. A volte durano a lungo eottengono l'attenzione del mondo. Sbaglio o quasi sempre falliscono, e lamorale resta che è inutile mobilitarsi?
Rinaldo

HO SEMPRE CREDUTO che sia nobile, ma ancheinevitabile partecipare, quando sai e credi in coscienza, conoscenza e buonafede, che quella folla stia arginando un pericolo o tentando di impedirequalcosa di grave e irreversibile, oppure stia battendosi per un dirittofondamentale negato. Quando accade, vuol dire che si sta tentando di rompereuna catena di decisioni autoritarie, oppure che la democrazia apparentemente invigore, in realtà si è bloccata e si è trasformata in arbitrio.

Ma non vasempre così e non è sempre vero. Nel giro di poco tempo abbiamo visto le folleriempire immense piazze in Egitto, Tunisia, Turchia, Thailandia, Ucraina,Libia, Siria, Venezuela. In Siria la piazza è diventata spaventosa guerracivile, in Ucraina stava per diventare guerra del mondo, in Libia è diventataguerra di bande, negli altri Paesi nessuna folla ha vinto, neppure nelle“primavere arabe” dove pure, più che altrove, il protagonismo intelligentedella folla (e il ruolo delle donne) è sembrato sul punto di cambiare civiltà estoria. A quanto pare il fenomeno del momento sembra essere che anche la follapiù nuova e disinteressata e nobilmente antagonistica (motivata non dalsalvarsi ma dal cambiare in modo profondo) non ha un leader, non lo chiede enon lo propone.

A questo punto si profilano due cambiamenti. Uno è l'abbandono.I reduci tornano sconfortati dalla piazza che a mano a mano si vuota, con lapersuasione (che qualcuno di loro a volte ha pagato a caro prezzo) che “nonserve a niente”. L'altro è il presentarsi del leader senza folla. Si offre, disolito con un espediente di spettacolo, inventa qualcosa e chiede di seguirlo.Entra in gioco la Rete, non solo per Grillo. Molto avviene, anche senza laforte celebrazione che ne fa il Movimento 5 Stelle, in Rete e attraverso laRete. Crea un militantismo solitario, ognuno con il leader e immaginando unafolla di compagni di avventura politica che, anche quando si materializza inuna piazza, è molte volte più piccola di quella che in realtà esiste o sipresume in Rete. Grillo ha certamente affrontato con inaspettato successo(inaspettato anche per lui) la prima prova nella storia. Per sapere bisogneràaspettare questa seconda, delle elezioni europee. Sapere cosa?

Sapere se unapiazza vale l'altra. O meglio se è ormai vero che la piazza in Rete è la verapiazza e che l'altra, per quanto colorita e appassionata e disperata (penso alVenezuela in questi giorni) prima o poi finisce, e tornano conformismo esilenzio. Della prima piazza sappiamo tutto, dai suoi trionfi ai suoifallimenti. Della seconda non sappiamo niente. Accade qualcosa di profondamentediverso. Ma che cosa c'è dall'altra parte?
«Le ragioni dell'attuale crisi consistono nel capovolgimento del rapporto fra democrazia ed economia, frutto degli ultimi trent'anni di politiche neoliberiste dettate dall'ideologia che, secondo il suo rappresentante più rigoroso Robert Nozick, lo Stato si può giustificare solo se "minimale e limitato a far rispettare i contratti fra i privati"».

Il Sole 24 ore (proprio così), 29 dicembre 2013
Il nuovo anno significativamente cade nel centenario della prima guerra mondiale e impone un bilancio con almeno due diverse valutazioni. La prima è quella che l'attuale crisi non pare sostanzialmente difforme, ancorché non identica, rispetto a quelle precedenti, che si son ripetute in cicli ricorrenti, sicché in qualche modo poi, sia pur nel dominio della confusione e della paura, hanno trovato una soluzione.
La seconda è che si tratti invece di una crisi del tutto nuova, e che l'attendismo delle democrazie non sia in grado di risolverla, ma si richieda invece un cambiamento radicale nel governo del mondo, soprattutto a causa della totalitaria natura globale della crisi stessa.

Le crisi economiche negli ultimi cento anni si sono accompagnate a quelle profonde delle democrazie, le quali ne sono uscite sostanzialmente vittoriose, nonostante l'ignavia e il fatalismo che le caratterizza, come già aveva riconosciuto il loro maggior teorico Alexis de Tocqueville.

Così in molti Paesi le risposte alla grande depressione del '29 consistettero nell'abolizione di uno dei poteri fondamentali della democrazia, cioè l'autorità legislativa; abolizione comune nelle autocrazie totalitarie, dal fascismo, al nazismo, al comunismo. È pur vero che a volte la divisione dei poteri è pericolosamente rinnegata, anche attraverso prevaricazione di qualcuno dei tre poteri, più spesso quello esecutivo, con repressione dei diritti fondamentali che della democrazia costituiscono l'essenza.
Basterà, per chiarire il discorso, fare riferimento al recente ponderoso studio di Ira Katznelson (Fear Itself: The New Deal and The Origin Of Our Time - New York, 2013) dal quale risulta con chiarezza che il New Deal di Roosvelt nacque in un'atmosfera di assoluta incertezza sulla capacità e il destino della democrazia liberale, tant'è che lo stesso New Deal e la creazione di un'economia dello Welfare State fu possibile con l'intervento soprattutto dei membri del Congresso sudisti, ai quali venne garantita la permanenza di un sistema legale di segregazione razziale. L'incontrovertibile risultato raggiunto con la partecipazione alla seconda guerra mondiale è presentato come salvaguardia della democrazia americana attraverso profondamente ambigue alleanze con il sud degli Stati Uniti ante diritti civili e con l'Unione Sovietica di Stalin.

Le ragioni dell'attuale crisi consistono nel capovolgimento del rapporto fra democrazia ed economia, frutto degli ultimi trent'anni di politiche neoliberiste dettate dall'ideologia che, secondo il suo rappresentante più rigoroso Robert Nozick, lo Stato si può giustificare solo se «minimale e limitato a far rispettare i contratti fra i privati». Ciò ha portato a una spinta alla deregolamentazione del capitalismo finanziario, alla fuga dello Stato dalla protezione dei diritti umani, dalla salute all'istruzione, al lavoro, alla dignità della vita e a favore dell'esaltazione delle disuguaglianze.

Quel che può apparire strano, e che rende la presente crisi più complessa, è che le esigenze dell'economia, ridotta all'autogoverno del mercato globale, e di mancanza di una sovranità mondiale che ne imponga una regolamentazione, hanno ridotto anche la Giustizia a una fattispecie contrattuale. Deals de Justice è il titolo del recente libro di Garapon e Servan - Schreiber (2013), nel quale si chiarisce che le grandi multinazionali, qualora sospettate di violazione della legislazione anticorruzione americana e di criminalità economica, sono indotte a collaborare con il Department of Justice (DOJ) o con la Sec (Securities and Exchange Commission), per arrivare a un accordo (Deal) al fine di evitare un lungo e dispendioso giudizio. Siamo di fronte a una sorta di ossimoro, di un diritto senza giustizia, con l'attrazione nella competenza del potere esecutivo americano dell'ordinamento del commercio internazionale, dove le imprese sono tenute a svolgere costose autoinvestigazioni e a dichiarare le proprie violazioni, in contrasto con il Bill of Rights che garantisce il diritto di non incriminarsi. Può destare sorpresa che dal 1977 i dieci più importanti accordi transattivi con le autorità americane sono stati conclusi da nove multinazionali straniere e una sola americana, tanto da far credere che questo strumento di giustizia globale dei mercati serva a proteggere le imprese americane a discapito di quelle straniere e a far affluire non indifferenti somme di denaro al Tesoro americano.

Due ragioni di fondo della crisi della democrazia nella fase del neoliberismo: « l' esasperata e rozza ideologia dell'individualismo; la riduzione della politica a politicismo, a pura tecnica».

l'Unità, 28 dicembre 2013

Se c’è una cosa che colpisce nell'attuale dibattito politico è l'assenza di una riflessione sui limiti del potere, anche di quello democratico. Perciò va accolta con interesse la riflessione di Giuseppe De Rita sul Corriere della sera in cui si sottolinea, nel quadro di un ragionamento articolato, l’importanza dei poteri intermedi, senza i quali anche in democrazia non ci può essere effettiva rappresentanza. È una tesi in controtendenza rispetto alle correnti dominanti, e per questo va particolarmente apprezzata.

Ciò che oggi si valorizza è infatti l'idea di un potere, anche democratico, senza «limiti» (e uso volutamente questo termine), in assenza di gravità. E in questo quadro ciò che si sostiene è la funzione e il ruolo storico-politico del leader, del capo che non deve avere intralcio nella sua azione. Senza leader, si dice, non è concepibile la politica nel mondo contemporaneo: i partiti, le associazioni appunto, i corpi intermedi non hanno perciò altro compito che non sia quello di sostenere, in funzione subordinata, la missione del capo.

Ora, in questa tesi c’è un equivoco di fondo che non sempre, anzi quasi mai, viene chiarito: è almeno dalla fine dell’Ottocento che è stata riconosciuta, anche sul piano teorico, la funzione della «grande personalità» nella storia, che si è poi affermata nel Novecento sia negli Stati totalitari che in quelli democratici. Su questo punto, connesso all’imporsi delle masse, non c’è questione. Si tratta però di chiarire quali siano, specie in democrazia, i «limiti» del potere, anche di quello del leader. Naturalmente se si vuole restare in un regime di tipo democratico.

In verità, la discussione sui limiti del potere è connessa, fin dalle origini, alla riflessione sui caratteri dello Stato moderno, perfino presso i teorici dell'assolutismo. Tanto più che questo motivo è presente, fin dal 600, nei teorici della democrazia. Quando un autore come Spinoza riflette sullo Stato monarchico delinea subito il sistema di «consigli» che deve circondare, e limitare, l'autorità del sovrano, se non si vuole che la monarchia degeneri in tirannide. Ma anche nell'Ottocento un pensatore di prima grandezza come Tocqueville individua nell'associazionismo cioè nei corpi intermedi la barriera necessaria per impedire che la democrazia, di cui pur riconosce la necessità e la ineluttabilità, degeneri in dispotismo. In questo senso, si può dire che tutta la riflessione sullo Stato moderno nei suoi punti più alti è una lunga, e complessa, meditazione sui limiti del potere: perfino Bodin scrive pagine importanti su questo punto, considerandolo cruciale.

Richiamo questo tema, e questi nomi, non per gusto della citazione, ma perché essi ci conducono a quello che oggi è il centro del problema: il venir meno, anzi l’assenza, di una riflessione sui limiti del potere è un effetto diretto della crisi in atto dello statualità moderna. E in questo contesto è una conseguenza della crisi della democrazia, la quale vive e si sviluppa se è basata su un ampio e articolato sistema di bilanciamento e di controllo dei poteri, che non possono mai essere ridotti ad «unità», cioè al potere di un leader. Se e quando questo accade si esce dalla democrazia e si entra in un altro tipo di regime politico, qualunque sia il nome che gli si voglia dare: perché alla democrazia è connaturata l’idea del limite a tutti i livelli. Essa vive, e si sostanzia, del conflitto, ma in democrazia anche il conflitto per essere fecondo deve essere organizzato, cioè limitato.

Varrebbe la pena chiedersi perché oggi le cose siano arrivate a questo punto, e non solo in Italia. Ma certo in Italia questo processo degenerativo ha avuto ragioni specifiche legate ai caratteri del ventennio che si è ora concluso e alla degenerazione della politica e dell'agire politico. Se si volessero citare due elementi caratteristici di questo periodo si potrebbe dire che esso è stato caratterizzato da un lato da una esasperata e rozza ideologia dell'individualismo; dall'altro, da una riduzione della politica a politicismo, a pura «tecnica», sfociata alla fine e necessariamente, verrebbe da dire in una apologia dell’«amministrazione» con i risultati che si sono visti.

In questo ventennio la politica si è inaridita, ha perso radici, si è separata dalla gente, dalla vita quotidiana, si è messa da un 'altra parte, ha perso l'anima (direbbe Delors) provocando le reazioni che si sono viste nei giorni passati. Oggi forse il problema più grave della democrazia italiana è proprio questo discredito della politica. Eppure senza politica non c’è libertà, non c’è democrazia; ma senza «limiti» non ci sono né l’una né l’altra; non c’è vivere democratico senza «corpi intermedi»: partiti, sindacati, associazionismo in tutte le sue forme.

Sarebbe bene che le forze democratiche e di sinistra che hanno la responsabilità di non aver compreso la vastità e le implicazioni dei processi innescati nel ventennio passato ricominciassero ad interrogarsi sul valore e sul significato dei limiti del potere, senza disconoscere, ovviamente, la funzione del leader in una democrazia come quella contemporanea. Anzi, a differenza di quanto pensino, e sostengano, gli ideologi conservatori, in una democrazia liberale sono due lati dello stesso discorso.

«Il manifesto, 28 dicembre 2013

Oggi il Par­la­mento in Ita­lia non conta più nulla e non rie­sce a far nulla, con­ti­nua a pren­dere schiaffi senza che nes­suno se ne lamenti, nep­pure i diretti inte­res­sati. Schiac­ciate dal peso del soste­gno a un governo privo di un coe­rente indi­rizzo poli­tico, tenute in vita arti­fi­cial­mente, in attesa di una pre­si­denza di turno euro­pea, di impro­ba­bili riforme isti­tu­zio­nali e dello sta­bi­liz­zarsi del qua­dro poli­tico ter­re­mo­tato dopo le ultime ele­zioni, la per­dita di auto­no­mia delle camere è totale. Lo ave­vamo già segna­lato su que­ste pagine, ma vale la pena ricor­darlo: da che è ini­ziata que­sta legi­sla­tura le camere non sono riu­scite a eser­ci­tare nes­suno dei loro prin­ci­piali com­piti isti­tu­zio­nali.

Quello costi­tu­zio­nal­mente più deli­cato di ele­zione del capo dello stato s’è con­cluso con un incre­di­bile e diso­no­re­vole nulla di fatto. La scelta di con­fer­mare il vec­chio pre­si­dente, a seguito dell’accertata inca­pa­cità di eleg­gerne uno nuovo (Marini, Rodotà o Prodi che fosse), ha costi­tuito un’esplicita dichia­ra­zione di impo­tenza. Con­di­zione di ina­de­gua­tezza resa ancora più evi­dente dal discorso di re-insediamento di Napo­li­tano dinanzi alle Camere riu­nite, il quale non ha man­cato di richia­mare le debo­lezze dell’attuale sistema politico-parlamentare, men­tre i par­la­men­tari applau­di­vano.
Per non par­lare dell’incapacità mani­fe­sta di for­mare un governo dalle chiare con­no­ta­zioni poli­ti­che e di indi­vi­duare una mag­gio­ranza defi­nita. Fosse stata anche la neces­sità– o più pro­ba­bil­mente le sol­le­ci­ta­zioni pre­si­den­ziali da un lato e la paura di una fine trau­ma­tica della legi­sla­tura dall’altro — a indurre il Par­la­mento a con­fe­rire la fidu­cia prima al governo Letta-Berlusconi, poi a quello Letta-Alfano, ora a quello Letta-Renzi, certo non può negarsi che gli equi­li­bri all’interno del Par­la­mento e con il governo sono stati stra­volti. La stessa atti­vità all’interno delle camere non poteva che risentirne.
La fisio­lo­gica dia­let­tica tra mag­gio­ranza e oppo­si­zioni è stata scon­volta, sosti­tuita dalla con­cen­tra­zione nelle mani dei par­titi delle «lar­ghe intese» dei diversi ruoli politico-parlamentari: tutti (o quasi) a soste­nere il Governo, ma fino ad un certo punto, dovendo tutti riven­di­care la pro­pria diver­sità. Dun­que, svol­gendo tanto il ruolo di mag­gio­ranza quanto quello di oppo­si­zione.
In que­sto clima con­fuso le Camere non pos­sono che ope­rare senza diret­tive sicure, in modo ondi­vago. Non tanto l’inadeguatezza dei rego­la­menti par­la­men­tari, quanto l’impossibilità di una loro appli­ca­zione coe­rente allo spi­rito che deve ani­mare un’efficace atti­vità dell’organo legi­sla­tivo rende sem­pre più evi­dente la para­lisi del Par­la­mento. Non si può cer­ta­mente impu­tare alle regole par­la­men­tari, ad esem­pio, l’inettitudine dimo­strata nei con­fronti della riforma della legge elet­to­rale. È lo stato con­fu­sio­nale in cui versa la poli­tica oggi in Ita­lia che deve essere messa sotto accusa.

È anche vero che non è solo il Par­la­mento a ver­sare in uno stato coma­toso. Anzi esso è un riflesso della con­di­zione in cui versa la poli­tica. Con­cen­trata sui destini per­so­nali e sul ricam­bio gene­ra­zio­nale, attra­ver­sata da lotte fra­tri­cide per il pre­do­mi­nio nei feudi e nei ter­ri­tori tra­di­zio­nali della poli­tica poli­ti­cante, dispo­sta a sca­ri­care sugli altri (sog­getti o isti­tu­zioni che siano) le colpe del vuoto di una poli­tica nazio­nale.

Troppo facile diventa pren­der­sela con l’organo più debole in que­sto momento in Ita­lia. Il Par­la­mento, appunto. Così, il Governo sca­rica le Camere, sot­traendo a esse la deci­sione sul finan­zia­mento dei par­titi: l’emanazione di un decreto legge in mate­ria è dei giorni scorsi. Ora, il Pre­si­dente della Repub­blica bac­chetta il Par­la­mento per avere inse­rito norme ete­ro­ge­nee in sede di con­ver­sione di un decreto legge. Una prassi assai risa­lente e spesso uti­liz­zata, cio­non­di­meno cer­ta­mente da con­dan­nare. Ma siamo sicuri che il Par­la­mento sia l’unico col­pe­vole? Anche l’indicazione di una modi­fica dei rego­la­menti par­la­men­tari appare fran­ca­mente ridut­tiva rispetto alla gra­vità della crisi in atto, che coin­volge il sistema poli­tico nel suo com­plesso e i rap­porti tra i diversi poteri.
Come può, ad esem­pio, non con­si­de­rarsi il ruolo deci­sivo che ha eser­ci­tato il Governo in Par­la­mento, il quale ha con­tri­buito in modo deter­mi­nante a far appro­vare emen­da­menti ete­ro­ge­nei nel corso dell’iter di con­ver­sione del decreto, appo­nendo per­sino la fidu­cia all’ultima vota­zione; per poi fare una rapida mar­cia indie­tro, lasciando solo il Par­la­mento, unico desti­na­ta­rio delle repri­mende del capo dello stato.

Dovremmo tutti pre­oc­cu­parci dello stato in cui versa il nostro Par­la­mento, da esso dipen­dono le sorti della nostra demo­cra­zia. Dinanzi a tanta con­fu­sione l’accusa delle disfun­zioni non basta. Sarebbe auspi­ca­bile che qual­cuno si ergesse a difen­sore dell’istituzione par­la­men­tare e richia­masse anche gli altri poteri al rispetto della cen­tra­lità dell’organo della rap­pre­sen­tanza politica

Non si può continuare a privilegiare la governabilità sulla democrazia, soprattutto ora che il recente passato ha dimostrato che la riduzione della democrazia non assicura nemmeno una maggiore governabilità.

La Repubblica, 28 dicembre 2013

Vi sono temi che, tra bilancio e prospettive, consentono di gettare un primo sguardo sull’anno che verrà. Si può cominciare dalla riforma della legge elettorale, per la quale si parla di una proposta condivisa da presentare alla Camera, o addirittura da approvare in commissione, prima che siano pubblicate le motivazioni con le quali la Corte costituzionale ha dichiarato illegittime alcune norme del cosiddetto Porcellum. Ipotesi assai bizzarra, poiché potrebbe accadere che, una volta note le motivazioni, si riscontri qualche divergenza tra queste e il testo all’esame del Parlamento. Con evidente e immediato effetto di delegittimazione della riforma o, comunque, dando argomenti per comprensibili polemiche su una questione così controversa. Nella materia istituzionale è sempre pessima la tentazione di creare fatti compiuti, di pensare che si possa impunemente fare un uso congiunturale delle istituzioni, perché queste hanno un più profondo spessore, che fa poi riemergere la loro logica e rivela la debolezza di una politica frettolosa.

Non ci si può semplicisticamente trincerare dietro il fatto che il comunicato della Corte costituzionale ricorda che il Parlamento è legittimato a legiferare in materia elettorale. Un riconoscimento, peraltro ovvio, che tuttavia si trova in un contesto che ha messo in evidenza i due vizi di illegittimità accertati dalla Corte, riguardanti il premio di maggioranza, punto centrale delle discussioni in corso, e le liste bloccate. Questo vuol dire, per chiunque abbia la competenza linguistica minima per leggere un testo così chiaro, che il Parlamento deve rispettare i criteri che la Corte specificherà per evitare che la legge elettorale determini una distorsione inammissibile tra voti e seggi e faccia scomparire ogni possibilità per i cittadini di scegliere i loro rappresentanti. La legalità costituzionale vale a tutto campo, e la legge elettorale non può fare eccezione.

Le ragioni del fastidio verso la decisione della Corte sono due, ed è bene parlarne con chiarezza. Da anni ha finito con il prevalere una pericolosa forzatura culturale riassunta nella formula secondo la quale le elezioni servono ad investire il governo, respingendo sullo sfondo la loro funzione di dare rappresentanza aicittadini, sì che è sembrata e sembra ancora legittima qualsiasi manipolazione delle leggi elettorali per assicurare il primo obiettivo. Quando leggeremo le motivazioni della Corte, è presumibile che ci troveremo di fronte ad argomentazioni che, ripristinando la legalità costituzionale, indicheranno il corretto equilibrio tra rappresentanza e governabilità, mentre oggi l’attenzione è spasmodicamente volta solo a quest’ultimo fine.

Vi è poi l’insofferenza determinata dal timore che il sistema elettorale determinato dall’intervento della Corte ci riporti ad un inaccettabile proporzionalismo. Di nuovo una confusione tra questioni diverse. La Corte ha fatto il suo dovere, eliminando vizi di incostituzionalità determinati da una inammissibile prepotenza politica. Spetta ora alla politica trovare la corretta via d’uscita da una situazione di cui essa porta tutta la responsabilità. E deve farlo senza adoperare argomenti tipo «torneremo alla Prima Repubblica», che sottintendono un giudizio sulla cosiddetta Seconda come una fase di cui dovrebbero essere salvaguardati non si sa quali meravigliosi benefici, mentre è davanti agli occhi di tutti il disastro politico, culturale e sociale con il quale si sta concludendo. Un osservatore acuto come Carlo Galli ha messo in guardia contro questa rimozione del recentissimo passato, ricordando che «non sta scritto da nessuna parte che un sistema bipolare, forzato dalla legge elettorale, garantisca stabilità. Anzi, i nostri ultimi venti anni dimostrano il contrario».

Nessuna seria politica può essere disgiunta dalla consapevolezza storica e culturale, di cui bisogna dar prova discutendo anche di un’altra questione che già divide e suscita polemiche, quella riguardante un riconoscimento delle unioni tra persone dello stesso sesso. Il punto di riferimento, pure questa volta, ci porta verso la Corte costituzionale, che nel 2010 ha sottolineato la necessità di riconoscere i “diritti fondamentali” che spettano a quanti si trovano in questa condizione. Non è ammissibile, allora, che si rifiuti di affrontare questo tema chiedendo una moratoria su tutte le questioni “eticamente sensibili”. Questo è un altro retaggio della sciagurata stagione che abbiamo dietro le spalle, di cui dobbiamo liberarci senza ricorrere all’argomento sostanzialmente ingannevole del gradualismo — facciamo oggi un piccolo passo e poi si vedrà. Una linea che potrebbe essere considerata accettabile se un primo provvedimento facesse esplicitamente parte di una strategia più generale. Oggi, invece, vi è il concreto rischio che, in questo modo, si finisca con il certificare l’esistenza di una condizione italiana che preclude la possibilità di vere politiche dei diritti civili, sì che potremmo permetterci solo iniziative

al ribasso, nelle quali si riflettono le impotenze della politica e non le dinamiche reali della nostra società. Che cosa sarebbe avvenuto se questa logica riduzionista e minimalista fosse stata adottata al tempo del divorzio e dell’aborto?

Un ingannevole gradualismo, infatti, sarebbe oggi pagato con il rifiuto di considerare il fatto che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea ha previsto che le scelte riguardanti la costituzione di una famiglia non sono più dipendenti dalla diversità di sesso, che la Corte europea dei diritti dell’uomo si muove in questa direzione e che la nostra Corte di Cassazione, nel 2012, ha riconosciuto alle coppie omosessuali il diritto alle stesse tutele previste per quelle eterosessuali. Questo è ormai il contesto all’interno del quale considerare il problema, come confermano significativi dati di realtà, come quelli riguardanti le adozioni e l’omogenitorialità, di cui una seria discussione parlamentare deve tener conto.

Temi come questo non possono più essere affrontati in maniera reticente, perché riguardano il modo in cui si stabiliscono i rapporti tra istituzioni e società. E, visto che tanto si parla della necessità di riforme, invece di pensare solo a norme che limitano la rappresentanza, sarebbe il caso di occuparsi delle leggi di iniziativa popolare, per le quali è tempo di prevedere l’obbligo dell’esame da parte delle Camere. Sono già state presentate proposte in questo senso, vi è un cenno alla fine della relazione dei Saggi, e basterebbero modifiche dei regolamenti parlamentari. Si aprirebbe così un importante canale di comunicazione tra cittadini e Parlamento, dando un segnale concreto di attenzione per la volontà popolare, che troppe volte si cerca di azzerare anche quando si è espressa attraverso un referendum, come si è appena cercato di fare in Parlamento con il tentativo, per fortuna respinto, di imporre al Comune di Roma la privatizzazione del servizio idrico in contrasto con i risultati del referendum sull’acqua. Possibile che non ci si renda conto che al rifiuto della politica, sempre più marcato, si debba rispondere proprio progettando forme di coinvolgimento più diretto, che diano ai cittadini la consapevolezza che dalla politica possa venire un valore aggiunto che incontra i loro diritti e i loro bisogni?

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