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Sono rimasto sorpreso e amareggiato nel leggere su eddyburg gli articoli di Silvia Ronchey e di Federico Ruozzi su Don Lorenzo Milani tratti da la Repubblica del 21 aprile. Due articoli che vorrebbero essere simpatetici col Priore ma alla fine lasciano l’insopprimibile sensazione del fraintendimento e persino della complicità, per quanto involontaria, alla ennesima stigmatizzazione del Priore di Barbiana.

L’articolo di Ruozzi – curatore dei due volumi delle opere complete di Don Milani in uscita presso Mondadori – pur scritto nel tentativo di smorzare una polemica tipicamente da società dello spettacolo sulle pretese preferenze sessuali del Priore, finisce con l’alimentare una discussione tanto pruriginosa quanto priva di appigli. Chi sa dove stanno i punti nodali della vicenda biografica del Priore – e per la quale fa ancora largamente testo il magnifico scavo di Neera Fallaci uscito ormai quarantatre anni fa – sa anche che nelle mutande di Don Milani non c’è mai stato nulla da scavare e che il farlo implica necessariamente una scelta, appunto, spettacolare, pruriginosa e tendenzialmente stigmatizzante. Una scelta da quotidiano italiano mainstream, appunto, e dalla quale chi tiene all’insegnamento milaniano dovrebbe opportunamente tenersi a distanza.

Ma sorprende ancor più l’articolo di Silvia Ronchey, che vorrebbe a sua volta costituire un atto di apprezzamento verso l’esistenza e l’insegnamento del Priore.

Il primo elemento che lascia interdetti è la torsione cui viene sottoposta la figura di Don Milani, che diventa una sorta di eroe libertario, o per meglio dire un liberale che sarebbe stato bene nel circolo degli “Amici del Mondo”. Una semplificazione in tono con la cultura di origine di Repubblica, ma che riduce intollerabilmente la complessità, la scandalosa complessità di un uomo che fu senz’altro un grande borghese ma che si distaccò dalla sua classe sociale in più modi, decidendo anzitutto di accettare l’appartenenza a una fede e a una Chiesa e pagandone le conseguenze fino in fondo. Una scelta e una lezione allora come oggi estremamente difficili da comprendere e da accettare: ma una scelta in ogni caso radicalmente opposta a quella di coloro che vedono nell’assoluta centralità dell’individuo l’alfa e l’omega di ogni logica sociale.

Più in generale quel che sconcerta è che per trasformare Don Milani in eroe borghese e libertario Ronchey forza intollerabilmente la biografia del Priore in più punti, finendo persino per dare spago ai più recenti epigoni della sua antica catena di detrattori. L’insistenza sull’ebraicità della sua famiglia e persino sua, ad esempio, laddove entrambi i genitori erano e rimasero sempre rigorosamente agnostici e lontani da qualsiasi forma di appartenenza a comunità religiose, mostra la volontà di assimilare il Priore a una figura canonica dell’immaginario liberale novecentesco come l’intellettuale di cultura ebraica. La sottolineatura - peraltro sulla scorta della lettura di Alberto Melloni, direttore della pubblicazione del volume di Tutte le opere - della pretesa distanza di Don Milani da quello che sarebbe stato il ’68 e dell’abusiva appropriazione da parte di quest’ultimo di Lettera a una professoressa - dalla quale deriverebbe persino “la sistematica decostruzione del sistema scolastico” - cancella con un tratto di penna tutto l’enorme lavoro che nella scuola fecero, proprio sulla scorta della lettura della Lettera e del clima di rinnovamento del ‘68, migliaia di maestri e di maestre democratici, oggi dimenticati e umiliati da una “buona scuola” che ha tutti i tratti del recupero della scuola di classe contro cui il Priore si batté con tenacia, intelligenza e coraggio.

La figura del ribelle individualista viene valorizzata da errori grossolani come la pretesa che siano le reazioni ecclesiastiche a Esperienze pastorali a “rafforzarlo nel convincimento che l’unica possibile resistenza sia l’inappartenenza” e che da ciò derivi l’esilio di Barbiana, laddove basta addirittura scorrere la voce “Lorenzo Milani” di Wikipedia per sapere che il libro esce ben quattro anni dopo il trasferimento a Barbiana. E, scegliendo fior da fiore la combinazione di errori fattuali e costruzione di un profilo di comodo, torna nell’articolo di Ronchey proprio l’oggetto della polemica pruriginosa e stigmatizzante che impazza sulla stampa mainstream.
Ronchey si spinge infatti a parlare del giovane Milani come un di “artista bohémien dalla non celata omosessualità nella Firenze di fine anni Trenta”, un cammeo che farebbe del diciassettenne una sorta di fascinoso Keith Haring ante litteram ma che è sbagliato in ogni sua parte. Bisogna andare appena un po’- ma non troppo - oltre il profilo Wikipedia per sapere infatti che il ragazzo si avvicina per la prima volta alla pittura solo nell’estate del 1941 sotto la guida, si, di un maestro residente a Firenze ma mentre vive a Milano ormai da otto anni e che tutta la sua attività di artista rimane confinata in uno studio milanese affittato dai genitori e abbandonato nella primavera del 1943 al manifestarsi della vocazione religiosa. Da dove poi spunti la “non celata omosessualità” - peraltro decisamente smentita poche righe oltre da Ruozzi - non è dato sapere.

Fa ulteriormente riflettere, infine, il fatto che questo Don Milani inventato – e costruito su basi così fragili e contraddittorie – venga presentato in un articolo dal solenne titolo “Chi è stato davvero Don Lorenzo Milani”.

Quel che viene da pensare è che a quasi settantantacinque anni dalla sua scelta di vita e a cinquant’anni dalla sua morte il Priore di Barbiana resti ancora e sempre un personaggio altamente indigesto e indigeribile. Un personaggio difficile da capire e da accettare, un esempio esigente che chiama a delle vocazioni che sono sempre state e restano di estrema difficoltà: oltre i suoi tempi e - mi viene da dire - molto oltre i nostri tempi. Un modello che richiama i cattolici - e i credenti in generale - a un tipo di fede e a degli stili di vita assai ardui da abbracciare nella loro asperità, nel loro rigore e nella loro inattualità. Ma un modello, anche, che richiama chiunque voglia stare nel mondo a scelte non meno radicali e non meno inattuali: stare dalla parte degli ultimi in un’epoca dominata dal potere bruto e dall’immaginario neoliberista è oggi un’impresa veramente eroica. Altro che l’“inappartenenza come unica possibile resistenza” accarezzata dal quotidiano fondato da Eugenio Scalfari.

Ampia analisi dell'insegnamento della Scuola di Barbiana, del ruolo che ebbe sulla vita culturale dell'epoca , sugli equivoci e i fraintendimenti di molte interpretazioni e sulla sua verità e utilità.

Internazionale online, 16 aprile 2017


"A questo punto mi occorre spiegare il problema di fondo di ogni vera scuola. E siamo giunti, io penso, alla chiave di questo processo perché io maestro sono accusato di apologia di reato cioè di scuola cattiva. Bisognerà dunque accordarci su ciò che è scuola buona. La scuola è diversa dall’aula del tribunale. Per voi magistrati vale solo ciò che è legge stabilita. La scuola invece siede fra il passato e il futuro e deve averli presenti entrambi." Don Lorenzo Milani, Lettera ai giudici

Nel maggio del 1967 esce per la piccola casa editrice fiorentina LEF un libro dal titolo Lettera a una professoressa. L’hanno scritto don Lorenzo Milani e gli alunni della scuola di Barbiana, una canonica del Mugello a pochi chilometri da Firenze. Un luogo sperduto dell’Appennino, afflitto, ancora negli anni del miracolo economico, dalla miseria e dall’arretratezza. Un luogo di esilio dove don Milani è arrivato il 7 dicembre del 1954, a 31 anni. Niente acqua, né luce, né una strada per arrivarci. Ci vivevano quaranta anime.

Eppure in pochi anni, grazie a questo prete, Barbiana diventa un luogo conosciuto da tutti, e non solo in Italia. Nasce lì, nel 1958, Esperienze pastorali, visto da molti come concreto e profetico contributo al Concilio Vaticano II, immediatamente messo all’indice dalla curia romana che, pur non vietandolo ufficialmente, ne impedisce la pubblicazione. Da Barbiana, nel 1965, parte un invito alla disobbedienza rivolto ai parroci militari. Un testo, pubblicato dal periodico comunista Rinascita e ricordato come L’obbedienza non è più una virtù, che porterà in tribunale don Milani e gli causerà addirittura una condanna dopo la morte.

E sempre a Barbiana nasce il testo più noto di don Milani e della sua scuola, Lettera a una professoressa, autentico livre de chevet di una generazione. “Libretto rosso” del movimento del sessantotto italiano, vademecum di ogni insegnante democratico per anni. Visto oggi come anello centrale di una riflessione sulla necessità di riformare il sistema educativo, che sfocerà nelle grandi battaglie per la scuola degli anni settanta. Ma visto, anche, come l’inizio della fine di tutto: dell’autorità degli insegnanti, della voglia di studiare dei ragazzi, dello stare in disparte dei genitori, come l’inizio, insomma, del “donmilanismo”.

“Noi abbiamo costruito negli anni, grazie anche alle idee di don Milani, una scuola che non insegna più nozioni”, ha scritto Paola Mastrocola. E in un articolo di Sebastiano Vassalli si può leggere: “La mitica scuola di Barbiana (…) era in realtà una sorta di pre-scuola (o di dopo-scuola) parrocchiale, dove un prete di buona volontà aiutava come poteva i figli dei contadini a conseguire un titolo di studio, e se non ci riusciva, incolpava i ricchi”.

Un invito a organizzarsi


Lettera a una professoressa è dunque diventato un libro manifesto, ma non nel modo auspicato dai suoi autori. Eppure il libro è cristallino: non è, né vuole essere, un testo scritto per i ragazzi che vanno all’università, né per i loro genitori, ma per i genitori di chi, all’università, non ci arriverà mai. La lettera è un invito a organizzarsi. Perché la scuola pubblica, così come l’hanno conosciuta i ragazzi di Barbiana e non solo, è una scuola per ricchi, per i “Pierini d’Italia”. La riforma delle scuole medie del 1963 non aveva modificato questa situazione. La scuola di don Milani è una denuncia nei confronti di governi cattolici che per tutto il dopoguerra hanno occupato il ministero della pubblica istruzione (6 ministri laici su 34).

Don Milani sa bene che il suo non è un progetto di riforma ma una testimonianza, scritta in prima persona plurale, con un noi che ha nomi e cognomi. “So che a voi studenti queste parole fanno rabbia”, scrive alla giovane Nadia Neri in una delle sue lettere più belle, “che vorreste ch’io fossi un uomo pubblico a disposizione di tutti, ma forse è proprio qui la risposta alla domanda che mi fai. Non si può amare tutti gli uomini. Si può amare una classe sola (e questo l’hai capito anche te). Ma non si può nemmeno amare tutta una classe sociale se non potenzialmente. Di fatto si può amare solo un numero di persone limitato, forse qualche decina forse qualche centinaio”. E ancora:

"La scuola non può essere che aconfessionale e non può essere fatta che da un cattolico e non può esser fatta che per amore (cioè non dallo Stato). In altre parole la scuola come la vorrei io non esisterà mai altro che in qualche minuscola parrocchietta di montagna oppure nel piccolo di una famiglia dove il babbo e la mamma fanno scuola ai loro bambini."

Il suo, dunque, non è neppure un modello da imitare, come in molti ancora oggi pensano. Eppure, nella sua esemplare essenzialità, questo piccolo esperimento pedagogico che si traduce in una scuoletta di montagna e nella pubblicazione di un libro, poco più di un opuscolo, diventa la scintilla di una rivoluzione. E ancora oggi mobilita il ricordo, innesca passioni, divide e fa litigare, si fissa nella memoria collettiva come un punto di passaggio epocale quando si parla di scuola ma anche di giovani, generazioni, movimenti.

Questo perché fin da pochi mesi dopo la sua pubblicazione il libro acquista una vita completamente autonoma, Lettera a una professoressa è, infatti, il risultato di anni di lavoro e riflessione sulle storture del sistema scolastico italiano e per questo è un libro degli anni sessanta, ma si pone anche l’obiettivo di dire basta con questo ritardo nell’adempimento del dettato costituzionale che vorrebbe il diritto allo studio uguale per tutti. Per questo viene subito adottato dal movimento studentesco.

Su Lettera a una professoressa si fanno seminari in tutte le università occupate; alla Biennale di Venezia del 1968 diventa uno spettacolo teatrale contro l’autoritarismo. Gli insegnanti lo usano per sperimentare nuove forme di didattica; a Roma, all’acquedotto Claudio, don Sardelli fonda una scuola popolare ispirata all’esperienza di Barbiana. Viene definito un libro maoista. Gianni Rodari e il Movimento di cooperazione educativa gli dedicano scritti e riflessioni. Tutti coloro che hanno a cuore il problema dell’educazione si confrontano con Lettera a una professoressa.

Il ruolo di maestre e maestri


In molti dimenticano che il libro riguarda la scuola dell’obbligo e non il liceo o l’università. La questione dell’obbligo scolastico è più di ogni altra la cartina di tornasole di ogni sistema che voglia dirsi democratico. A fine anni sessanta è ampiamente disattesa, dalle famiglie ma anche dallo stato che consente un doppio binario scolastico, per chi ha tutte le parole a casa, può fare ripetizioni, e chi non può. Lettera a una professoressa diventa il vademecum dei primi, ma per fortuna ha ricadute importantissime anche sulla vita dei secondi.

Questo grazie alle maestre e ai maestri che trasformano la scuola primaria italiana, e grazie ai linguisti che colgono l’originalità radicale dell’esperienza di Barbiana: il cuore della lettera e di tutto l’insegnamento di don Milani non sta nel non bocciare, o nel disobbedire, quanto nel ben più impegnativo dare tutti gli usi della parola a tutti. La lingua non è mai statica, né unica né definita o definibile una volta e per sempre: strati e stati si accavallano e convivono; quando uno di essi vince (quando cioè l’innovazione da eterodossa viene accolta come ortodossa), i puristi si sforzano di conservarlo, i grammatici di descriverlo, i maestri di insegnarlo.

Lettera a una professoressa va oltre tutto questo perché coniuga la questione della lingua, che è questione antica, ai cambiamenti della società postindustriale nella quale un analfabeta, come dice un vecchio contadino alla Rai degli anni sessanta, “è cieco”. “La scuola siede tra il passato e il futuro”, scrive don Lorenzo Milani, “e deve averli presenti entrambi”.

Scrive Oronzo Parlangeli, filologo, nel lontano 1969: "È colpevole e stupida l’omertà di chi fa dipendere la propria fama dalla percentuale, o dalla massa, dei promossi e non invece dal livello della preparazione dei promossi. Coloro i quali bocciano solo per il gusto di bocciare sono criminali pericolosi e sadici, ma altrettanto pericolosi sono coloro i quali (o per far carriera o per pecoronismo gerarchico o per smania di passar per novatores) promuovono tutti e pretendono che tutti siano promossi: anche per costoro dovrebbe esserci un’azione penale o il manicomio. "
Eppure i ragazzi della scuola di Barbiana hanno scritto: "Gli onorevoli costituenti credevano che si patisse tutti la voglia di cucir budella o di scrivere ingegnere sulla carta intestata (…) Tentiamo invece di educare i ragazzi a più ambizione. Diventare sovrani! Altro che medico o ingegnere”. Il fatto, continua il filologo, è che abbiamo confuso il sacrosanto diritto allo studio con lo stupido diritto alla laurea. Persino la rivolta degli studenti che era e dovrebbe essere generosa contestazione giovanile contro le ipocrisie e i vaniloqui, rischia di adulterarsi o si è già adulterata in uguali ipocrisie e vaniloqui (anche se di segno contrario) e in una perniciosa ricerca del diciotto, quale… minimo sindacale garantito. E i riformatori politici, che già tremavano sotto l’impeto della violenta, ma sacrosanta protesta di chi non è integrato nel sistema (e perciò dice ciò che pensa), ebbene, possono tornare a baloccarsi con esiziali alchimie partitocratiche.

Amen. Bastano queste poche righe per raccontare l’impatto del libro, i suoi fraintendimenti, lo svuotamento dell’aspetto più radicale del suo messaggio, la strumentale sovrapposizione delle sue tesi con quelle di una parte del movimento studentesco. Oggi la sua rilettura viene fatta in nome dell’antisessantottismo e assume una funzione antidemocratica. I primi a mettere in discussione l’utilità della lettera sono stati proprio i professori “democratici” che l’hanno letta e usata per anni: letta, usata e non capita. Nel 1978 un articolo sul manifesto pone il problema: come comportarsi con i ragazzi del 1977? Bisogna bocciarli. Quindi don Milani aveva torto…

Consapevole di queste strumentalizzazioni, nel 1982 padre Ernesto Balducci si chiede: “Ha ancora un senso riproporre all’attenzione pubblica Lorenzo Milani?”. E ancora: “Il limite di fondo della proposta milaniana è oggi più visibile: non è possibile chiedere alla scuola-istituzione quel che invece può offrire una scuola spontanea animata da un maestro ‘carismatico’. In quanto è un servizio reso a tutti i cittadini, secondo le regole oggettive dello stato di diritto, la scuola di stato non può essere progettata facendo affidamento sulla eventualità della ricchezza soggettiva degli educatori”.

Ma, aggiunge, la contrapposizione fittizia creatasi tra l’umanità della scuola di Barbiana e la disumanità della scuola istituzionale è una balla, la riforma del 1974 risponde proprio all’idea milaniana che la scuola debba essere l’espressione della comunità civile in tutte le sue componenti, un invito ai genitori a organizzarsi, appunto, dentro la scuola pubblica: “Ecco perché la scuola di Barbiana, se vezzeggiata come un modello ideale, può favorire inerzie utopistiche o fughe nel privato. Essa non è un modello, è un messaggio, e il messaggio non si imita mai, è sempre un appello a nuove creazioni”.

Giovanni Miccoli, scomparso da poco e tra i più efficaci interpreti del priore di Barbiana, ha scritto: "Parlare o scrivere di don Milani è estremamente difficile. C’è il pericolo di appiattirne l’immagine, di semplificarne i contorni, assimilandolo frettolosamente all’una o all’altra delle grandi contrapposizioni che segnavano allora, e in parte segnano ancora oggi, la società italiana."

Appiattirne l’immagine, semplificarne i contorni per ridurlo a fenomeno comprensibile, catalogabile, replicabile. Come poi, puntualmente, è stato fatto, e continua ad essere fatto.

Viene in mente, pensando a don Lorenzo Milani, quanto scriveva Alberto Arbasino su Pier Paolo Pasolini in un articolo pubblicato su Il Giorno nel 1964: “Una larga sezione della nostra cultura gli ha deferito questo incarico, di rischiare a nome di tutti: perché è vero che chi scandalizza i puri di cuore va sacrificato a nome della collettività (che è rimasta a casa a godere a soffrire)”. Don Milani rischia davvero a nome di tutti. La sua stessa vita viene sacrificata sull’altare dello scandalo quando scrive Esperienze pastorali, in anni nei quali ai parroci è chiesto soltanto di leggere commenti alla scrittura, riassunti del catechismo e poi via a dir messa in latino.

Lui, invece, sceglie la parola, la lettura, insegna a vagliare, criticare, stabilire confronti, a scegliere la fonte, il documento. Al fine di sentirsi ognuno responsabile di tutto, come è scritto nella Lettera ai giudici: "Dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto. Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande I care. E il motto intraducibile dei giovani americani migliori. ‘Me ne importa, mi sta a cuore’. E il contrario esatto del motto fascista ‘Me ne frego’“.

Viene in mente, pensando a Lorenzo Milani, quello che scrive Alex Langer di Ivan Illich: “Qualcuno ne rimane deluso e lo trova ‘poco organico’, altri ne ricavano spunti decisivi per orientare la propria visione del mondo”. E allora il tentativo di renderlo sistematico, comprensibile, di decifrarlo, e farlo diventare di volta in volta un marxista in nuce, un proto sessantottino, la voce profetica della rivolta, ma anche appunto l’istigatore di risentimento sociale, l’invidioso, lo sciatto. L’icona, il martire, il folle, il presuntuoso, il più grande intellettuale italiano del novecento. Che fatica.

A don Milani invece dobbiamo molto, moltissimo, in termini di categorie analitiche, negli anni della “buona scuola”, del ritorno alla bocciatura, della farsa dei crediti formativi, della selezione non più di classe ma altrettanto spietata tra vincenti e perdenti (oggi si chiama meritocrazia), in termini di contributo alla riflessione, di contestualizzazione storica di fenomeni che appaiono immutabili.

Nessuna nostalgia


Tornare a don Milani, a Lettera a una professoressa e ai ragazzi di Barbiana ha un senso niente affatto nostalgico. Ben poco di affascinante c’è nella figura di un prete, burbero e autoritario, borghese e anti intellettuale, profondamente critico nei confronti della scuola pubblica. Ma non si tratta di questo. Nessuno oggi vuole fare l’errore di chi salì a Barbiana nel 1967 con la Lettera ai giudici in una mano e Herbert Marcuse nell’altra, sperando di trovare un guru, inventandosi di averlo trovato. Scoprendo in Lettera a una professoressa il viatico per la rivoluzione.

Bisogna rileggere Lettera a una professoressa a partire dalle proprie domande e dalle proprie esperienze, inserendola però all’interno di un contesto troppo spesso messo in ombra, da una lettura miope della figura di don Milani, essendo la sua eredità assolutamente non mediata dalla sua voce, ma solo da quella dei suoi eredi. Don Milani è morto infatti a 44 anni nel giugno del 1967, un mese dopo l’uscita del volume, alla fine di una lunga e dolorosissima malattia.

Si tratta, come suggerisce don Luis Corzo, di riprendere in mano Lettera a una professoressa e collocarla nel tempo, e poi rileggerla partendo dalla propria esperienza personale: “Far ricorso alla propria esperienza leggendo la sua, avvicinarsi a essa con le risposte e le domande che già ci incombono dentro, decisi a confrontare con lui le nostre ragioni più autentiche e profonde, quelle che cerchiamo in lui. Tali ragioni non sono né idee né consegne intransigenti, ma crivelli, filtri per l’azione, punti di vista e, in definitiva, libere opzioni”.

Crivelli, filtri per l’azione, punti di vista e, in definitiva, libere opzioni. Come ha scritto Gianni Rodari: “Tutti gli usi della parola a tutti. Mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico. Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo”.

Un’intervista di Antonello Caporale a un teologo sui generis, Vito Mancuso: un discorso fuori dai cori, sulla Chiesa cattolica oggi, papa Bergoglio la guerra e l’Islam Una visione poco dialettica dello scontro tra due culture.

Il Fatto Quotidiano, 15 aprile 2017

«Vito Mancuso Il teologo e scrittore dopo il lancio della MOAB (Mother Of All Bombs): “Neanche Bergoglio ha il coraggio di chiedere al mondo di cambiare”»

Domani è Pasqua, è la Resurrezione. Domenica scorsa ci siamo scambiati il ramoscello d’ulivo: il segno della pace. Due giorni fa – solo per ricordare l’ultimo atto della più sanguinosa stagione bellica che interseca quella drammatica della migrazione secolare – Donald Trump ha ordinato lo sganciamento della più devastante bomba non atomica, la MOAB. E ieri Marine Le Pen ha ingiunto al Papa di non “immischiarsi”, di non aprire bocca sul tema dell’immigrazione.

C’è ancora religione? L’irrilevanza sociale della fede nei Paesi con i più alti standard di vita è anche questione civile? Così risponde Vito Mancuso, teologo.
«Questo pomeriggio alle tre (ieri per chi legge ndr) si commemora la morte di Cristo. Un tempo suonavano le campane, si spogliavano gli altari. È il giorno del digiuno. Oggi lei sente un cambio nella vita quotidiana? Tutto è come sempre”.

Non c’è più religione, questo vuol dire?
«La religio ha radice lessicale profonda. Significa legame. Religio come grande legame sociale. Romolo fonda Roma ma è Numa Pompilio, grazie alla religione, a costruire la sua identità. Perdere la fede significa far vacillare l’identità e dunque mettere in crisi la natura della propria civiltà. La religione ci permette di individuare un bene superiore, un bene comune che sopravanza quello dei singoli. Ci tiene stretti dentro quella cornice generale. Invece oggi siamo messi così.»

Il cattolicesimo diviene burocrazia, la preghiera un rito, la parola del Papa pura consolazione.
«Sì, fu un’illusione già di Giovanni Paolo II di immaginare che pesare all’interno dei movimenti potesse significare cambiare i rapporti di forza. Rischiamo di essere una religione senza popolo.

Eppure Francesco è amato, ascolta gli ultimi, continua a pronunciare messaggi rivoluzionari.
«Un grande generale ha bisogno di un grande esercito. Invece il Papa è solo, la Curia cos’è? Dov’è?

La Chiesa cattolica è irrimediabilmente sfigurata da una classe dirigente, chiamiamola così, non all’altezza?
«Senta: laddove i preti sono sull’altare riescono a muovere le comunità. A Bologna il nuovo vescovo, un bergogliano, sta rivoluzionando il rapporto della città con la sua Chiesa. Invece altrove è tutto un rito stanco. »

È responsabilità del Papa non riuscire a mutare il volto della sua Curia e la sua reputazione?
«Certo che sì. Come può chiedere al mondo di cambiare se non se la sente di affrontare la crisi di fiducia che esiste dentro il suo piccolissimo Stato? Oramai sono passati quattro anni dalla sua elezione. Il Papa ha il potere di fare ciò che ancora non fa.»

Perché non lo fa?
«Perché non se la sente, perché teme forse di andare troppo al di là. Ma in questo modo, la fede
 perde quella
capacità di attrarre. Prima mi
parlava di Trump
e della sua superbomba. Quando
ho conosciuto la
notizia non ho avuto
un sussulto di stupore. Purtroppo me lo aspettavo. Ma come reggere all’urto di queste personalità così enormemente pericolose se l’Occidente si presenta smarrito? E come pensa la società di superare la crisi
che la sta scon-
volgendo se
non c’è un simbolo, un mo-dello a cui far
riferimento? I
giovani, come
dice il titolo
del bel libro di
Michele Serra, restano
sdraiati sul divano. Non
hanno niente
in cui credere, e nulla a cui somigliare. Assenti, semplicemente così.»

Papa Francesco è accusato di assumere atteggiamenti populisti. Un’esibizione di povertà, un grande teatro.

«Di populismo fu accusato anche Giovanni Paolo II. Ma indicare un’idea a una massa enorme di persone con un messaggio breve è un’opera gigantesca. Sono popolari, altro che!»

Però l’esercito, cioè la Curia...
«È quello che è.»

L’atrofia della Chiesa produrrà scompensi anche geopolitici?
«Il declino di una religione è segnato dal declino demografico di chi la professa. I segni ci sono tutti. E la forza interiore di una civiltà, la sua capacità di costruire stili di vita condivisi produce anche la forza della resistenza. Quando perdi l’identità perdi anche la tua civiltà.»
Sta dicendo che l’Islam vincerà.

«La storia insegna. Mettiamo da parte i fanatismi e le devianze che esso produce e diciamoci la verità: l’Islam sta vincendo la partita.»

Biografia
Vito Mancuso Dottore in Teologia sistematica, ha studiato tra Milano, Napoli e Roma. Nel 1986 è stato ordinato sacerdote nel Duomo
di Milano: l’anno dopo ha chiesto però di essere dispensato. Oggi è sposato
e ha due figli. A favore di contraccezione e fecondazione assistita, non accetta alcuni dogmi cattolici: l’origine dell’anima,
il peccato originale 
e la dannazione dell’Inferno

«Quando l’instabilità della vita è strutturale, la fermezza dello spirito raggiunge vette impensate». Postfazione di

Utopie della vita quotidiana di Luigi Zoja Conversazione con Lucilio Santoni. comune-info, 3 aprile 2017 (c.m.c.)

Cosa vuol dire possedere una vita improntata alle utopie quotidiane, quelle che ogni giorno impediscono la catastrofe e, goccia dopo goccia, scavano la pietra dell’indifferenza e della meschinità? Quelle utopie permettono, altresì, di vergognarsi piuttosto che di indignarsi. Spingono ad ammirare più che a voler essere ammirati.Credo che alla base di tutto ci sia una passione per la fragilità, cioè per la poesia delle cose. Un’aderenza alle esperienze più autentiche, come l’avventura, il corpo, l’amore, lo sguardo.

Una ricerca spinta nei luoghi più nascosti e assorti, dove c’è senso di provvisorietà, di passaggio, pieni di gente che cammina e arriva ben oltre la meta che si era prefissata. Con la pace nel cuore e l’inquietudine nella mente. La gioia di avere un porto verso cui navigare e la tristezza di non raggiungerlo mai. Fare piazza pulita delle certezze da quattro soldi, dell’arroganza e dell’altruismo a buon mercato. E arrivare, invece, a quel pozzo profondissimo dove il denaro, il potere, la forza, la moda, la retorica, si liquefanno per lasciare spazio a un fiume di domande che, solo, può rendere la terra un luogo ospitale e il vicino un essere attraente del quale si desidera l’amicizia. Abbandonare la frenesia del fare per concedere terreno alla cortesia, alla gentilezza, alle parole dolci e agli sguardi scrupolosi.

Non c’è bisogno di capipopolo, di opinionisti, di dirigenti, di burocrati, di presidenti. C’è bisogno di chi ama la vita, di chi si fa cambiare la pur amata vita da un libro, di chi guarda i gatti negli occhi e vi si riconosce, di chi contempla il creato e nulla gli chiede. C’è bisogno di riconoscere che quel che conta davvero è avere un domani ricco di una teoria lunghissima e dolcissima di strette di mano. Il vero peccato mortale non è quello di commettere il male: è quello di non riconoscere il bene, cioè non riconoscere il valore delle donne e degli uomini che valgono, che sono più avanti di noi sulla strada della vita buona.

L’evanescenza della quotidianità ansiogena può essere riscattata, l’angustia del miserabile muoversi solo per interesse privato può essere dimenticata, osando confrontarsi con i grandi temi della vita, affondando la ricerca nell’intensità spirituale, lasciando che il cuore s’immerga nel mare dell’infinito. Allora le giornate potranno riempirsi di quelle utopie che Luigi Zoja chiamerebbe minimaliste. I piccoli gesti quotidiani non saranno più destituiti di senso, anzi, si configureranno come aperture verso frontiere di libertà. Le parole, poche e misurate, ci condurranno all’ultimo respiro, col senso della pace, della terra e dell’armonia. Ci chiuderemo in casa e scoperchieremo il tetto per guardare il cielo.

Sottrarsi all’opinione comune, tacere quando gli altri parlano e gridare quando gli altri tacciono; incamminarsi su sentieri impervi e solitari, schivando l’abusivismo della modernità, arrivando all’unica patria possibile: quella di chi sa di essere gettato sulla terra, con radici deboli e spesso marce, eppure desideroso di dare frutti commestibili per tutti. Tali frutti nascono solo su piante consapevoli di avere come padri una stirpe di nomadi, stranieri, spaesati, esiliati, maestri dell’interrogazione, dello stupore dell’ospitalità, del distacco dalla normalità.

Ed essi crescono tra gli anfratti, le crepe, i terreni sconnessi, tra lingue minoritarie, dai suoni rudi, tra dialetti incomprensibili, parlati da viandanti, da furibondi e da contemplativi, che abitano case dalle finestre rotte e con porte fuori dai gangheri. Quando l’instabilità della vita è strutturale, la fermezza dello spirito raggiunge vette impensate. E allora non importa se intorno ci sarà poca gente, ci saranno erbacce e tuguri, animali randagi e negozi chiusi, scuole cadenti e spiagge deserte. In quei luoghi potremo comunque frugare per cercare la vita: nella disperazione la speranza, nella solitudine una promessa.

Luigi Zoja ama l’America Latina. Un suo grande figlio, Leonardo Boff, ama parlare di “intelligenza spirituale”, unica facoltà che possa sposare il Cielo con la Terra. Vale a dire: agire nel quotidiano come se ci si stesse misurando con l’assoluto. Camminare nelle strade di tutti i giorni cercando di riconoscere le farfalle che mettono le ali ai piedi. Scrutare bagliori di umanità mescolati a scintille di desiderio; sporcarsi con il fango mentre si è intenti a lanciare pensieri nello stagno del futuro. In definitiva: amare incessantemente, perché la vita è l’incessante.

Dal bar degli utopisti ognuno può guardare il cielo, la patria fatta di nuvole, che si disperdono e ricompongono, cancellano le forme eppure rimandano all’azzurro. Chi in quel bar decide di passare un minuto o una vita per costruire un bel sogno, decide di impegnarsi nelle cose di ogni giorno, fra gli amici e gli stranieri, per andare verso il futuro, quel futuro per il quale prova nostalgia.

«il manifesto
Cosa c’è di così drammaticamente ripugnante nell’assassinio del ragazzo ventenne di Alatri davanti una discoteca? Questa volta non si tratta dell’ennesimo caso di femminicidio cui la cronaca nera ci ha (ahimé!) «abituati».

La vittima è un uomo, anzi un poco più di adolescente che ha avuto il torto (se così si può chiamare) di reagire a qualche strattone, a qualche sopruso davanti (la motivazione originaria non è ancora chiara) il bancone del bar della discoteca, mentre era in compagnia della sua ragazza.

La disputa o l’offesa che sia, sarebbe dovuta concludersi al più con qualche spintonata e invece c’è stato il morto, per di più massacrato da un branco (così si chiama oggi a dimostrazione del deficit di umanità) di altri giovani ragazzi. L’indignazione è scontata, come l’annunciata fiaccolata; lo è meno l’omertà dei cittadini (almeno sul primo momento), o il desiderio di vendetta. È facile indignarsi, chiedere che vengano inflitte pene esemplari ai mascalzoni di turno, ancorché noti teppisti in libera circolazione considerata la precedente condanna di uno di loro.

Più difficile è capire da quale immensa frustrazione è scaturita quella rabbia cieca e assassina. Deve essere stata, per quei ragazzi del branco, una giornata «eroica», l’eroismo dell’indecenza: «gliel’ha abbiamo fatta pagare a quello; adesso il paese sa chi siamo!»
Il branco ha avuto il suo giorno di gloria che ha riscattato serate e serate di «sbatti il muretto», di canne, di alcol, di noia, come capita di vedere, di venerdì e sabato notte, passando veloci in auto per le grandi città: capannelli di ragazzi davanti ai bar, centinaia quasi, col bicchiere in mano a parlare, di che? Ecco il punto! Non ne sappiamo niente (ma non per questo vogliamo assolvere i violenti addossando le colpe alla società). Ma questa violenza diffusa, fattasi molecolare, ci interroga al di là del drammatico episodio di cronaca nera.

Non sappiamo come ragiona una persona giovane che non trova lavoro; non sappiamo cosa passa per la testa di un ragazzo cui è stato rubato il futuro e per quanto si darà da fare, non troverà mai un lavoro decente, avrà difficoltà a formare una famiglia e gli sarà negato anche il desiderare di fare figli.

Noi non lo sappiamo, perché le nostre raffinate analisi politiche non raggiungono questo mondo di disperazione, di totale deprivazione di tutto, perfino dei desideri. E così è caccia all’albanese di turno, o, come in questo caso, allo sventurato bravo ragazzo che ha protestato al bar per quello che riteneva uno sgarbo, e che ancora pensava di far valere le sue ragioni e non mostrarsi codardo davanti alla sua giovane compagna (e almeno questa volta non sarebbe questione di possesso, semmai di antica galanteria maschile).

C’è qualcosa di più profondo che non una semplice manifestazione della «peggio gioventù», che chiama in causa noi adulti. Che cosa passa per la testa di ragazzi che hanno rinunciato a studiare e a trovare lavoro? Il Sig. Poletti ha fatto la sua analisi politica da gran sindacalista che è stato: andassero a giocare a calcetto o a cercare lavoro all’estero. O si massacrassero tra loro questi inutili giovani cui nessuno desta attenzione: vite da scarto come chiamava Bauman queste figure invisibili prodotte dalla barbarie neoliberista e dalla sua ideologia della totale libertà senza limiti. Come quella di massacrare per gioco, o per vincere la noia, o per esibire un trofeo, una giovane vita appena ventenne.

Noi non abbiamo la più pallida idea di come si possa pensare e agire in una simile disperazione fatta ancora più cieca da una mancanza di cultura che possa fornire almeno qualche protezione dallo scatto di ferocia. Perché queste vite precarie sono anche afone, incapaci di esprimere il loro dolore, le loro sofferenze, i loro sentimenti. Ci stiamo abituando a tutto in questa epoca di grande realismo: è reale vedere mogli, amanti e compagne sgozzate da compagni gelosi e invidiosi, è reale contare, ogni giorno – spietata statistica -, le vittime di quei disperati che attraversano il Mediterraneo. E reale vuol dire normale: tutto ciò che accade è reale e tutto ciò che è reale è anche normale.

Sembra che il sindaco di Alatri abbia dichiarato alla televisione di non sapere dell’esistenza di quel locale nel suo paese; un paese di 29.000 abitanti, mica una metropoli. Anche questo è normale: che un sindaco di un piccolo comune ignori l’esistenza di una discoteca nella sua comunità.

Ma è poi una comunità questa? Perché se la tragedia arriva anche in questi piccoli paesi dove pensavamo che lo spirito di vicinato, quello di comunità, li mettesse al riparo dalla violenza della grande città, luoghi dove queste cose non sarebbero potute mai accadere, allora c’è qualcosa che non va nel clima del Paese fattosi incattivito, imbarbarito. E una fiaccolata non basta a dare risposta, tantomeno un desiderio collettivo di vendetta.

«Che cosa accade quando l’identità non è solo memoria del passato e specchio del presente, ma anticipazione di un futuro attraverso processi che prescindono dall’autonomia e dall’intenzionalità della persona interessata?».

la Repubblica, 31 marzo 2017, con postilla

Quando arrivano notizie che possono riguardare direttamente o indirettamente le nostre informazioni personali, dovremmo ormai sapere che non si tratta mai di vicende di poco conto, e che non basta considerarle solo dal punto di vista, pur rilevante, della privacy.

Così è per il recentissimo voto con il quale il Congresso americano ha ridotto in maniera radicale la tutela delle persone in relazione al trattamento dei loro dati, che ora possono essere raccolti, elaborati e fatti circolare senza che sia necessario ottenere preventivamente il consenso dell’interessato. Una decisione che ha provocato molte reazioni, che tuttavia non sono sufficienti per fugare le preoccupazioni per il futuro e che, comunque, non può essere sottovalutata limitandosi a sottolineare che la situazione italiana si colloca in un contesto, quello europeo, che si distingue da quello americano proprio per quanto riguarda gli strumenti di tutela di cui gli interessati possono servirsi.

È vero che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea considera la tutela dei dati personali come un diritto fondamentale, collocandolo nella parte da essa dedicata alla libertà. E che si insiste nell’affermare che «noi siamo le nostre informazioni». Ma questi riconoscimenti, in sé assai importanti, non sono sufficienti. Bisogna prendere le mosse dai mutamenti determinati dal fatto che la persona e il suo corpo sono ormai entrati a far parte della dimensione digitale, sì che proprio il corpo si presenta come un oggetto perennemente connesso per le informazioni che continuamente produce e trasmette.

Così non si determina soltanto una diversa percezione della stessa fisicità, ma diventano possibili anche violazioni gravi della libertà e della dignità della persona, se l’utilizzazione di informazioni altrui avviene senza specifiche e adeguate regole e tutele di cui gli interessati possono direttamente servirsi.

Chi può possedere e utilizzare legittimamente le informazioni? Il solo interessato o chiunque sia in condizione di servirsene? Un interrogativo, questo, che finisce con il riguardare la stessa libera costruzione della personalità, alla quale si riferiscono esplicitamente il paragrafo 2 della Costituzione tedesca e l’articolo 2 della Costituzione italiana e che per la sua ineliminabile attitudine dinamica certamente non può essere amputata del futuro, sottratta al potere individuale, mettendo così in discussione gli stessi principi fondativi dell’ordine costituzionale, in primo luogo quelli di dignità e autodeterminazione.

Arriviamo così ad alcune domande più puntuali, che rendono immediatamente percepibili le diverse questioni da affrontare. Che cosa accade quando un ininterrotto fluire di informazioni fa sì che l’identità sia sempre più spesso costruita e “posseduta” da altri? Che cosa è divenuta l’identità dopo il passaggio dal Web 1.0 al Web 2.0, dove la persona è immersa nelle reti sociali? Che cosa sta diventando l’identità nell’età del Web 3.0, di quell’”Internet delle cose” che si accinge non solo a moltiplicare la produzione e l’utilizzazione delle informazioni, ma sprigiona una capacità trasformativa del modo in cui essa è costruita? E che cosa accade quando l’identità non è solo memoria del passato e specchio del presente, ma anticipazione di un futuro attraverso processi che prescindono dall’autonomia e dall’intenzionalità della persona interessata?

Vi è un punto comune a tutte queste domande, che può essere sintetizzato ricorrendo ad un altro interrogativo: chi possiede o può possedere i nostri dati? Interrogativo che investe l’intera discussione sull’identità nei tempi moderni, e richiama l’attenzione sulle diverse modalità attraverso le quali si manifesta il tema della sua costruzione e gestione. Il punto estremo di questo processo può essere così rappresentato: l’identità si separa dalla consapevolezza e dall’intenzionalità della persona alla quale è riferita. L’identità si fa “oggettiva”, in qualche modo si spersonalizza?

Emerge una tensione tra costruzione/appropriazione dell’identità da parte di soggetti diversi dalla persona interessata e crescenti opportunità/bisogno di “mettere in scena” se stessi. Le implicazioni istituzionali di questa tensione sono evidenti. Dove si colloca il baricentro della garanzia giuridica, quale è il criterio di bilanciamento tra interessi/ diritti in conflitto? L’identificazione concreta di questi interessi e diritti si è venuta progressivamente complicando.

Il saldo punto d’avvio è stato rappresentato dal riconoscimento alla persona del diritto fondamentale «di accedere ai dati raccolti che la riguardano e di ottenerne la rettifica» (Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, articolo 8.2).

Si può dire che il passaggio dei dati personali nel potere/disponibilità di altri, in forme legittime, non ha come conseguenza l’esclusione della persona interessata. E non siamo di fronte soltanto ad un diritto di conoscenza, ma pure di controllo, nell’ambito di una situazione complessa che può essere definita anche come “cultura del disvelamento”.

Si realizza così una distribuzione di poteri, alcuni dei quali consentono alla persona interessata di intervenire attivamente nella gestione del bene costituito dai suoi dati in particolare grazie allo strumento della “rettifica”, la cui concreta operatività è stata ampliata non solo da interventi legislativi, ma soprattutto da prassi interpretative che l’hanno collocata in una dimensione che non riguarda la sola eliminazione di errori.

Muovendo da queste prime acquisizioni, si può ben dire che il tema della libera costruzione della personalità eccede la sola questione della identità. Se si riprende l’espressione “messa in scena”, non si può considerarla soltanto dal punto di vista della corretta rappresentazione pubblica della persona interessata, sia da parte degli altri soggetti che fanno circolare le sue informazioni, sia dal punto di vista del difficile e controverso diritto alla piena autorappresentazione. Con un ulteriore interrogativo sullo sfondo: quale rapporto tra sfera pubblica e sfera privata si determina per effetto di questi mutamenti?

postilla

Vance Packard, autore de I persuasori occulti (1957) è il sociologo americano che più chiaramente illustrò il nuovo potere della produzione di merci (delle grandi aziende capitalistiche) di manipolare i cervelli attraverso la pubblicità (e non solo) in modo di far nascere delle persone, ridotte a "consumatori", il desiderio di determinate merci. Il controllo dei dati personale è un ottimo strumento per potenziare la possibilità delle grandi imprese di inculcare nuovi desideri, bisogni, pulsioni nelle "teste impagliate" Vedi il poema di Thomas S. Eliot, Siamo gli uomini vuoti.

«Un percorso di letture sulla storia europea e sulle sue esperienze dell’estremo, dalla Shoah in poi. Antisemitismo, trincee, recinzioni: una tragica linea che va verso la negazione della vita. Genealogia di un dispositivo di potere che ha la capacità di proiettare sul presente elementi importanti di comprensione delle forme di potere contemporanee».

ilmanifesto, 26 marzo 2017

L’idea di recinzione si incontra con quella di confine che, a sua volta, rimanda a quella di contenimento. In un moderno Stato nazionale contenere implica il selezionare: qualcosa ma, anche e soprattutto, chi possa essere parte della comunità (di popolo, di stirpe, di razza, di «destino»), idea competitiva, nella moderna esperienza della politica, a quella di cittadinanza. Allora, il primo punto da cui partire è la ristampa, arricchita di nuovi suggerimenti di lettura, di un volume di Olivier Razac, Storia politica del filo spinato. Genealogia di un dispositivo di potere (ombre corte, pp. 158, euro 14). L’autore, maître de conférences in filosofia presso l’Università di Grenoble, ricostruisce letteralmente il reticolo storico del reticolato. Il filo spinato, infatti, non è solo uno strumento materiale per spezzare, dividere, infine separare per sempre i corpi ma anche un dispositivo simbolico che ha un fortissimo impatto sulle coscienze dei contemporanei.

NEL MEDESIMO TEMPO delimita il campo della protezione da quello del rifiuto, l’habitat di ciò che va tutelato dal contesto di quanto deve essere annientato.

Il filo spinato non vale solo per quanti sono trattenuti dentro gli spazi da esso rigidamente contrassegnati ma anche e soprattutto per coloro che lo osservano da fuori, celebrandone in tale modo la sua invalicabilità. Non è quindi un caso se esso compaia, sinistramente, in tre catastrofi della contemporaneità, quasi a volerne definire i lineamenti di fondo: i processi di colonizzazione dello spazio americano, a partire dal superamento della frontiera orientale; la parossistica recinzione dell’interminabile teoria di trincee, disegnata sui campi di battaglia immobili della Prima guerra mondiale; la tragica linea di delimitazione dei campi di concentramento e di sterminio nazisti. La questione alla quale il filo spinato rimanda da subito è la rottura della linea di continuità, nel diritto alla vita, tra ciò che è considerato umano e quanto, invece, viene ridotto a mero oggetto animato. Olivier Razac ci restituisce quindi il nesso tra controllo dello spazio attraverso la sua interruzione e il legame tra discontinuità e reificazione dell’umanità.

Un percorso parallelo è quello svolto da Götz Aly in Zavorre. Storia dell’Aktion T4: l’«eutanasia» nella Germania nazista, 1939-1945 (Einaudi, Torino 2017, pp. 261, euro 30), laddove la «selezione» delle vite «non degne di essere vissute» è ricostruita dall’autore, docente al Fritz Bauer Institut dell’Università di Francoforte, come percorso di ingegneria sociale e, nel medesimo tempo, manifestazione di rimozione della responsabilità all’atto stesso della sua esecuzione.

L’ASSASSINIO SISTEMATICO di duecentomila cittadini tedeschi, considerati un peso per lo Stato tedesco, perlopiù in ragione della loro condizione psichica, ritenuta irrecuperabile, fu parte integrante del percorso di disintegrazione della varietà umana che stava al nocciolo del progetto nazista. Aly ne ricostruisce i diversi passaggi: l’impostazione politica del «problema» del trattamento degli «incurabili», la dimensione burocratica dell’azione, l’intervento sistematico degli ordini professionali e della sanità pubblica, l’opera di comunicazione con le famiglie, la feroce e infelice dialettica tra abbandono, indifferenza, rimozione ma anche il fatalismo e il pudore che connotarono una parte dei congiunti, le famiglie, in generale il pubblico tedesco. Tra il 1939 e il 1945 una macchina di distruzione collettiva operò attivamente in tal senso, colpendo non solo le vittime ma adoperandosi in un complesso processo di desensibilizzazione e anestetizzazione collettiva.

A VOLERE RIBADIRE un principio fondamentale nella fascistizzazione delle società, dove la repressione e poi l’annientamento delle minoranze, ricondotte in questo caso alla condizione di minorati irrecuperabili, viene pensata e organizzata come strumento riordinativo della maggioranza, quella composta dai «sani». Questi ultimi non sono tali solo perché esenti da degenerazioni ereditarie o da patologie ritenute incurabili, esclusivo onere economico per la collettività, ma per la loro totale adesione ad un corpo collettivo, quello della nazione intesa come comunità di stirpe. Il dispositivo ideologico che sovraintendeva all’Azione T4 era solo uno degli anelli terminali di un ampio processo di radicalizzazione dell’azione biopolitica, portata ai suoi estremi risultati. E ne costituiva quindi la vera essenza.

All’autore non interessa la denuncia morale in sé ma la ricostruzione dei meccanismi che facevano parte di una macchina sterminazionista nel quale l’omicidio di massa veniva presentato dalle autorità pubbliche in quanto atto di «misericordia», coniugato alla necessaria «selezione» dei caratteri positivi della collettività. In altre parole, la morte dell’impuro, e del degenerato, come garanzia di vita dei «migliori».

Aly ci restituisce uno spaccato sia del sistema criminale di Stato sia del mondo delle vittime, molto presenti all’interno delle pagine del suo libro. Si concentra invece sull’ideologia antiebraica il volume di Steven Beller dedicato a L’antisemitismo (il Mulino, pp. 150, euro 13,50). Lo studioso, già Fellow del Peterhouse College di Cambridge e culturalmente attivo nel mondo anglosassone, si cimenta nel lavoro di definire e circoscrivere la cogenza interpretativa, e la funzionalità analitica, delle riflessioni sull’antisemitismo in età contemporanea.

CIÒ FACENDO, davanti alla messe gigantesca di studi così come ai diversi indirizzi interpretativi, Beller cerca di trovare una linea di equilibrio che storicizzi il pregiudizio antisemitico. Il problema, per qualsiasi studioso, al giorno d’oggi, non è infatti il difetto ma, piuttosto, l’eccesso di stimoli euristici. Non di meno, una questione di fondo è se l’esito sterminazionista sia stato in qualche modo già configurato, o comunque implicato, dalle forme precedenti di avversione antigiudaica oppure costituisca una frattura a sé, in quanto tale propria del Novecento.

Le riflessioni dell’autore non offrono risposte conclusive, assestandosi semmai sul versante della rassegna dei diversi contributi. Al riguardo la silloge delle sue riflessioni si raccoglie nell’affermazione per cui: «l’antisemitismo non è più un fenomeno isolato ma piuttosto è sostanzialmente una forma estrema di pensiero esclusivista moderno, con una logica condivisa da fondamentalismi e nazionalismi ».

Per integrare queste e altre considerazioni è anche utile un non meno recente volume del sociologo francese Pierre-André Taguieff, anch’esso intitolato L’antisemitismo (Raffaello Cortina, pp. 139, euro 13). Infine, Luca Peloso, studioso di filosofia, con L’esperienza dell’estremo. Vita e pensiero nei campi di concentramento (ombre corte, pp. 172, euro 15), lavorando sulla comparazione tra Lager nazisti e Gulag staliniani cerca di coinvolgere la riflessione filosofica nell’indagine storica e sociologica.

PIÙ CHE UN INTENTO storiografico l’autore in questo caso cerca di soddisfare alcune esigenze che hanno ad oggetto la narrabilità della prigionia in quelle condizioni estreme, soprattutto se dalla sua memoria derivano esigenze sia di comunicazione pubblica che di pedagogia civile.

La sfida, che rimanda direttamente all’oggi, e quindi ai sistemi analogici che adottiamo nell’interpretare quei passati non meno che alle categorie di razionalizzazione alle quali facciamo ricorso per ricondurre a senso ciò che altrimenti rischia di rimanere un’infinita insensatezza, invita alla rilettura dell’esperienza concentrazionaria attraverso diverse angolazioni disciplinari. Dalle quali, ancora una volta, ne deriva per il lettore il senso della incompiutezza, trattandosi di una storia che letteralmente precipita nel vuoto.

«Scritto il manifesto

Sembrano passati secoli, eppure sono passati solo cinquant’anni dal 1967, quando è stata pubblicata l’enciclica Populorum progressio, scritta da Paolo VI.

Tempestosi e ricchi di speranze quegli anni sessanta del Novecento; si erano da poco conclusi i lavori del Concilio Vaticano II che aveva aperto al mondo le porte della chiesa cattolica; era ancora vivo il ricordo della crisi dei missili a Cuba, quando il confronto fra Stati uniti e Unione sovietica con le loro bombe termonucleari, aveva fatto sentire il mondo sull’orlo di una catastrofe; i paesi coloniali stavano lentamente e faticosamente procedendo sulla via dell’indipendenza, sempre sotto l’ombra delle multinazionali straniere attente a non mollare i loro privilegi di sfruttamento delle preziose materie prime; la miseria della crescente popolazione dei paesi del terzo mondo chiedeva giustizia davanti alla sfacciata opulenza consumistica dei paesi capitalistici del primo mondo; nel primo mondo studenti e operai chiedevano leggi per un ambiente migliore, per salari più equi, per il divieto degli esperimenti nucleari.

In questa atmosfera il malinconico Paolo VI aveva alzata la voce parlando di nuove strade per lo sviluppo. Progressio, ben diverso dalla crescita delle merci e del denaro, la divinità delle economie capitalistiche.

L’enciclica sullo sviluppo dei popoli diceva bene che «il fine ultimo e fondamentale dello sviluppo non consiste nel solo aumento dei beni prodotti né nella sola ricerca del profitto e del predominio economico; non basta promuovere la tecnica perché la Terra diventi più umana da abitare; economia e tecnica non hanno senso che in rapporto all’uomo che esse devono servire».

La Populorum progressio metteva in discussione lo stesso diritto umano al «possesso» dei campi, dei minerali, dell’acqua, degli alberi, degli animali, che non sono di una singola persona o di un singolo paese, ma «di Dio», beni comuni come ripete papa Francesco nella sua enciclica Laudato si’ e continuamente.

L’enciclica Populorum progressio indica diritti e doveri dei popoli della Terra divisi nelle due grandi «classi» dei ricchi e dei poveri, ben riconoscibili anche oggi: i ricchi, talvolta sfacciatamente ricchi, dei paesi industriali ma anche quelli che, nei paesi poveri, accumulano grandi ricchezze alle spese dei loro concittadini; i poveri che affollano i paesi arretrati, ma anche quelli, spesso invisibili, che affollano le strade delle dei paesi opulenti, all’ombra degli svettanti grattacieli e delle botteghe sfavillanti.

La Populorum progressio fu letta poco volentieri quando fu pubblicata e da allora è stata quasi dimenticata benché le sue analisi dei grandi problemi mondiali siano rimaste attualissime.

I popoli a cui l’enciclica si rivolge sono, allora come oggi, quelli che lottano per liberarsi dal giogo della fame, della miseria, delle malattie endemiche, dell’ignoranza; che cercano una partecipazione più larga ai frutti della civiltà, una più attiva valorizzazione delle loro qualità umane; che si muovono con decisione «verso la meta di un pieno rigoglio».

L’enciclica denuncia il malaugurato (dice proprio così) sistema che considera il profitto come motore essenziale del progresso economico, la concorrenza come legge suprema dell’economia, la proprietà privata dei mezzi di produzione come un diritto assoluto, senza limiti né obblighi sociali corrispondenti. E condanna l’abuso di un liberalismo che si manifesta come «imperialismo internazionale del denaro».

In quegli anni sessanta era vivace il dibattito sulla «esplosione» della popolazione, in rapida crescita specialmente nei paesi poveri, e la domanda di un controllo della popolazione, resa possibile dall’invenzione «della pillola», aveva posto i cattolici di fronte a contraddizioni. Paolo VI ricorda che spetta ai genitori di decidere, con piena cognizione di causa, sul numero dei loro figli, prendendo le loro «responsabilità davanti a Dio, davanti a se stessi, davanti ai figli che già hanno messo al mondo, e davanti alla comunità alla quale appartengono». Il tema della «paternità responsabile» sarebbe stato ripreso nel 1968 dallo stesso Paolo VI nella controversa enciclica Humanae vitae e, più recentemente, da papa Francesco che ha detto che per essere buoni cattolici non è necessario essere come conigli.

Il progresso dei popoli è ostacolato anche dallo «scandalo intollerabile di ogni estenuante corsa agli armamenti», una corsa che si è aggravata in tutto il mezzo secolo successivo con la diffusione di costosissime e sempre più devastanti armi nucleari, oggi nelle mani di ben nove paesi, oltre che di armi convenzionali.

In mezzo secolo è cambiata la geografia politica; un mondo capitalistico egoista e invecchiato deve fare i conti con vivaci e affollati paesi emergenti, pieni di contraddizioni, e con una folla di poverissimi.

I poveri di cui l’enciclica auspicava il progresso, nel frattempo cresciuti di numero, sono quelli che oggi si affacciano alle porte dell’Europa per sfuggire a miseria, guerre fratricide, oppressione imperialista, per sfuggire alla sete e alle alluvioni, alla fame e all’ignoranza, quelli che i paesi cristiani non esitano a rispedire in campi di concentramento africani pur di non incrinare il loro benessere, magari dopo avere strizzato la vita e salute degli immigrati nei nostri campi. I pontefici dicano pure quello che vogliono; le cose serie sono i propri interessi e commerci.

Eppure è fra i poveri disperati e arrabbiati che trova facile ascolto l’invito alla violenza e al terrorismo; noi crediamo che la sicurezza dei nostri negozi e affari si difenda con altre truppe super-armate, con sistemi elettronici che si rivelano fragili e violabili, e invece l’unica ricetta, anche se scomoda, per rendere la terra meno violenta e più «adatta da abitare», sarebbe la giustizia.

esto estratto da "L’antropologia di fronte ai problemi del mondo moderno

" che raccoglie tre lezioni tenute a Tokyo nel 1986». la Repubblica, 15 marzo 2017 (c.m.c.)
Gli antropologi hanno molto da dire sulla procreazione artificiale, perché le società da loro studiate si sono poste tali problemi e hanno elaborato alcune soluzioni. Queste società, è vero, ignorano le tecniche moderne di fecondazione in vitro, di prelievo di ovuli o di embrione, di trasferimento, impianto e congelamento. Ma hanno immaginato e messo in atto formule equivalenti, almeno dal punto di vista giuridico e psicologico.

Permettetemi di fare qualche esempio. L’inseminazione grazie a un donatore ha il suo equivalente in Africa, presso i Samo del Burkina Faso. In questa società, ogni ragazza si sposa molto giovane, ma prima di andare a vivere con suo marito deve, per tre anni al massimo, avere un amante scelto da lei e ufficialmente riconosciuto come tale. Poi porterà al marito il primo figlio, nato dall’unione con l’amante, che sarà considerato il primogenito dell’unione legittima. Da parte sua, un uomo può avere più mogli legittime ma, se queste lo lasciano, egli rimarrà giuridicamente il padre di tutti i bambini che esse metteranno al mondo successivamente.

In altre popolazioni africane, il marito vanta un diritto anche su tutti i figli futuri, a condizione che tale diritto venga nuovamente sancito, dopo ogni nascita, dal primo rapporto sessuale post partum. Il rapporto designa l’uomo che sarà il padre legittimo del prossimo bambino. Un uomo sposato con una donna sterile può anche, dietro pagamento, accordarsi con una donna feconda perché questa lo faccia diventare padre. In questo caso, il marito della donna sterile è il donatore di seme, e la donna “presta” il suo ventre.

Presso gli indios Tupi-Kawahib del Brasile, che ho visitato nel 1938, un uomo può sposare simultaneamente o in successione più sorelle, oppure una madre e la figlia nata da una precedente unione. Queste donne crescono in comune i loro figli senza preoccuparsi affatto, mi è sembrato, del fatto che il bambino di cui si prendono cura sia il proprio o quello di un’altra delle spose del marito. La situazione simmetrica prevale in Tibet, dove più fratelli hanno in comune la stessa sposa. Tutti i figli sono attribuiti al primogenito, che viene chiamato “padre”, mentre gli altri mariti vengono chiamati “zio”. In questi casi, la paternità o la maternità individuale sono ignorate o non se ne tiene conto.

Torniamo in Africa, dove i Nuer del Sudan assimilano la donna sterile a un uomo. In qualità di “zio paterno”, questa riceve dunque il bestiame che rappresenta il “prezzo della fidanzata” (in inglese bride price) pagato per il matrimonio delle sue nipoti, e se ne serve per comprare una sposa che le darà dei figli grazie ai servizi remunerati di un uomo spesso straniero. Presso gli Yoruba della Nigeria, le donne facoltose possono acquistare delle spose, obbligandole ad avere rapporti con un uomo. Quando nascono dei figli, la donna, “sposa” di diritto, li rivendica, e coloro che li hanno procreati, se vogliono tenerli, devono pagarla profumatamente. In tutti questi casi, coppie formate da due donne che, letteralmente, chiameremmo “omosessuali”, praticano la procreazione assistita per avere dei figli di cui una delle donne sarà il padre di diritto, l’altra la madre biologica.

Le società senza scrittura conoscono anche equivalenti dell’inseminazione post mortem. Un’istituzione attestata da millenni (perché esisteva già presso gli antichi ebrei), il levirato, permetteva e talvolta imponeva che il fratello cadetto generasse in nome del fratello morto. Presso i Nuer sudanesi, di cui ho parlato, se un uomo moriva celibe o senza discendenza, un parente prossimo poteva prelevare dal bestiame quanto serviva per acquistare una sposa. Tale “matrimonio fantasma”, come dicono i Nuer, lo autorizzava a generare in nome del defunto, poiché questi aveva versato il compenso matrimoniale che permetteva la filiazione.

In tutti gli esempi che ho presentato, nonostante lo statuto famigliare e sociale del figlio si determini in funzione del padre legale (anche se quest’ultimo è una donna), il figlio conosce comunque l’identità del genitore e i legami di affetto che uniscono entrambi. Contrariamente a quanto crediamo, nel bambino la trasparenza non suscita il conflitto scaturito dal fatto che il padre biologico e quello sociale sono individui diversi.

Tutte queste formulazioni offrono altrettante immagini metaforiche anticipate delle tecniche moderne. Constatiamo in questo modo che il conflitto tra la procreazione biologica e la paternità sociale che ci imbarazza così tanto non esiste nelle società studiate dagli antropologi. Fuori da ogni esitazione, esse privilegiano il sociale, senza che i due aspetti si urtino nell’ideologia del gruppo o nello spirito degli individui. Se ho insistito a lungo su questi problemi è perché essi mostrano in maniera precisa, mi sembra, quale genere di contributo la società contemporanea può attendersi dalle ricerche antropologiche.

L’antropologo non propone ai suoi contemporanei di adottare le idee e i costumi di tale o talaltra popolazione esotica. Il nostro contributo è molto più modesto, e si esercita in due direzioni. Anzitutto, l’antropologia rivela che quanto consideriamo come “naturale”, fondato sull’ordine delle cose, si riduce a costrizioni e abitudini mentali proprie della nostra cultura. Ci aiuta dunque a sbarazzarci dei nostri paraocchi. In secondo luogo, i fatti che raccogliamo rappresentano un’esperienza umana molto ampia perché provengono da migliaia di società che si sono succedute nel corso dei secoli. Aiutiamo in questo modo a mostrare quelli che si possono considerare come degli “universali” della natura umana.

Ai giuristi e ai moralisti troppo impazienti, gli antropologi offrono consigli di liberalismo e di prudenza. Mettono in rilievo il fatto che anche le pratiche e le aspirazioni che turbano maggiormente l’opinione pubblica hanno il loro equivalente in altre società che non se la passano poi così male. Gli antropologi si augurano dunque che si lasci fare, e che ci si rimetta alla logica interna di ogni società per creare nel suo seno le strutture famigliari e sociali che si riveleranno vitali, o per eliminare quelle che faranno sorgere contraddizioni che solo l’uso potrà dichiarare insormontabili.

Intervista a don Luigi Ciotti. «È il caso di partire dalla parole. Alcune campagne che vengono fatte si alimentano contro i migranti, chi vive per strada o ha un diverso orientamento sessuale. Così si danno assurde giustificazioni a chi compie violenze contro gli emarginati».

la Repubblica, 12 marzo 2017, con postilla

«È il naufragio dell’umano e delle coscienze ». Don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele, presidente dell’Associazione Libera, invita a fermare le parole e a farsi domande.

Don Ciotti, la violenza contro chi non ha nulla rischia di diventare un rito macabro?
«È l’ennesimo segno di una disumanità enorme e noi dobbiamo chiederci quanto queste violenze siano frutto di un clima di egoismo, indifferenza e ostilità verso le persone più deboli o diverse. Persone fragili esposte all’indifferenza ma anche alla violenza verbale ».

Chi è fuori dalle regole fa più paura? O è il ritenere queste persone senza volto che li rende bersagli più facili?
«È il caso di partire dalla parole. Alcune campagne che vengono fatte si alimentano contro i migranti, chi vive per strada o ha un diverso orientamento sessuale. Così si danno assurde giustificazioni a chi compie violenze contro gli emarginati. Serve una dieta della parole».

Quali parole sono abusate?
«Parole di odio che leggiamo ogni giorno anche sui social network. Ci vogliono parole autentiche, ma ferme e inequivocabili. Capaci di mordere le coscienze e esprimere dolore, compassione. Parola di condanna, se serve, ma anche speranza».

Come arginare questa ondata di odio verso gli ultimi?
«Parliamo di persone che vivono in strada perché non solo non hanno più la casa o hanno perso il lavoro, ma anche per conflittualità familiari. Viviamo anni di solitudine. E una delle povertà più gravi, a fianco di quella materiale e culturale, è quella relazionale, la solitudine che si dilata e diventa ansia, paura. Su questo bisogna lavorare».

Spesso i senzatetto rifiutano un ricoverano e scelgono la strada.
«C’è chi si autoesclude, ma ricordo che le direttive sociali europee insistono che il primo intervento per le persone che vivono in strada è fornire un riparo. Servono politiche di inclusione e di sostegno e non nuove discariche di essere umani. L’orizzonte è quello indicato da Papa Francesco. Parla di “periferie geografiche e esistenziali” e dice che bisogna uscire dalle incertezze e dagli egoismi facendosi viandanti di speranza per le persone escluse, emarginate e umiliate».

postilla

Difficile non mettere in relazionequeste parole di Don Ciotti con le parole che Matteo Salvini e i suoi seguaci inculcano nelle teste di troppi italiani - parole più incendiarie della benzina gettata dall'assassino di Palermo. Quando la violenza delle parole proveniva dal mondo degli sfruttati erano etichettata come incitazione alla violenza veniva condannata e repressa, ora che viene da altri mondi viene protetta dai ministri dell'interno: vedi Napoli. E vedi anche l'articolo di Alessandro Dal Lago in Orrore Umano

»

. la Repubblica, 3 marzo 2017 (c.m.c.)

Fin dal mito fondativo della sua storia, l’attività matematica si è suddivisa tra la ricerca e la divulgazione. Nella “Vita di Pitagora”, infatti, Porfirio racconta che «il maestro impartiva il proprio insegnamento a due categorie di persone: matematici e acusmatici. I matematici studiavano la parte più importante e approfondita della dottrina, mentre gli acusmatici si accontentavano dei fatti senza le spiegazioni».

Il “matematico” era in greco un letterale “apprendista”, che imparava attivamente il mestiere: l’analogo dell’odierno laureando, dottorando, ricercatore o assistente. L’“acusmatico” era invece un letterale “uditore”, che ascoltava passivamente l’insegnamento: l’analogo dell’odierno fruitore delle conferenze, degli articoli e dei libri di divulgazione. Una distinzione che Aristotele espresse concisamente nella dicotomia tra chi si preoccupa di “capire perché”, e chi si accontenta di “sapere che”.
Le prime testimonianze scritte di questa doppia attività di insegnamento ce le hanno lasciate Platone e Aristotele. Il primo ha scritto solo opere divulgative per una diffidenza nei confronti della scrittura, che gli faceva relegare l’insegnamento profondo all’oralità. Il secondo ha invece scritto sia opere divulgative che testi di ricerca, ma le prime sono andate perdute e ci sono rimasti soltanto i secondi. È interessante che entrambi i filosofi abbiano ritenuto di dover adottare, nella loro attività divulgativa, la forma dialogica.

Anche se spesso il dialogo platonico è fittizio, e l’interlocutore di Socrate è più una spalla che un comprimario: come l’ignaro schiavo al quale viene impartita, nel Menone, quella che è la prima testimonianza storica di una dimostrazione matematica che ci sia pervenuta. Non sappiamo invece come fossero i perduti dialoghi aristotelici, ma possiamo immaginare cosa ci siamo persi dal fatto che fu la lettura del Protrettico a convincere Cicerone a diventare un filosofo.
Anche la scienza, fin dal suo avvento, adottò la forma dialogica per la propria divulgazione.

Il Dialogo scientifico più famoso e importante è probabilmente l’omonima opera che Galileo Galilei pubblicò nel 1632, «dove ne i congressi di quattro giornate si discorre sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano, proponendo indeterminatamente le ragioni filosofiche e naturali tanto per l’una, quanto per l’altra parte». Come già i dialoghi platonici, però, anche quelli galileiani non sono affatto discussioni fra interlocutori alla pari: al contrario, uno dei due contendenti (Filippo Salviati) è il ventriloquo dell’autore, mentre l’altro (Simplicio) rivela fin dal nome il suo ruolo di utile idiota. Galileo incautamente mise in bocca a Simplicio alcune idee del papa Urbano VIII, che ovviamente si infuriò e gli diede il benservito con il processo del 1633, tra le accuse del quale c’era anche quella di «haver scritto in dialogo», oltre che in volgare, affinché tutti potessero capire.

All’epoca il Dialogo fu dunque letto e percepito non soltanto come una disputa scientifica, ma anche e soprattutto come uno scontro fra la scienza e la religione. La stessa cosa successe nell’Ottocento a proposito del dibattito su evoluzionismo e creazionismo, anch’esso passato alla storia per un dialogo: questa volta reale. Lo scontro si tenne in pubblico a Oxford il 30 giugno 1860, tra il biologo Thomas Huxley e il vescovo anglicano Samuel Wilberforce.

Oggi i religiosi meno ottusi di Wilberforce preferiscono saggiamente dirottare i dibattiti fra scienza e religione su livelli più astratti, e mantenerli su toni più amichevoli. Il campione di questi dialoghi è il Dalai Lama, che incontra regolarmente scienziati delle discipline più disparate, a Dharamsala in privato e altrove in pubblico, per discutere di possibili punti di convergenza tra il buddhismo tibetano e la scienza occidentale. Alcuni sono stati trascritti in libri che spaziano dalla cosmologia alle neuroscienze, con titoli che vanno da Il sonno, il sogno e la morte (Neri Pozza, 2000) a Emozioni che distruggono (Mondadori, 2003).

A volte il dibattito fra fede e scienza può avvenire direttamente tra scienziati, credenti e non. Un esempio di questo tipo di incontro è La variabile Dio. In cosa credono gli scienziati? (Longanesi, 2008), che registra il dialogo fra l’astronomo gesuita George Coyne, per venticinque anni direttore dell’Osservatorio Vaticano di Castelgandolfo, e Arno Penzias, premio Nobel per la fisica nel 1978 per la scoperta della radiazione di fondo.

Altre volte il dibattito si sposta sul confronto fra le “due culture”: scientifica, da un lato, e umanistica, dall’altro. Uno stimolante esempio è il Dialogo tra Primo Levi e Tullio Regge, tenuto nel 1984 e ripubblicato da Einaudi nel 2005. Anche se in questo caso sarebbe difficile confinare i due interlocutori nei ruoli di letterato l’uno, e scienziato l’altro: Levi lavorò infatti per tutta la vita da chimico, come testimoniano i racconti del suo famoso Sistema periodico, e Regge si divertì per decenni a produrre opere di arte computerizzata. Semmai, il loro Dialogo serve a sfatare il luogo comune che esistano appunto “due culture”, e che la scienza sia contrapposta, invece che complementare, all’umanesimo.

Il massimo esempio contemporaneo di scienziato-umanista è forse Werner Heisenberg, premio Nobel per la fisica nel 1932, che divenne uno dei padri della meccanica quantistica solo perché dovette decidersi a scegliere fra la musica, la filosofia e la fisica, tre discipline in cui brillò per tutta la vita. Per quarant’anni egli ha avuto dialoghi con molte menti brillanti come la sua, a partire da Einstein, e ne ha raccontati alcuni in Fisica e oltre. Incontri e protagonisti (Boringhieri, 1984). Il loro interesse anche umanistico è sottolineato dall’attenzione che ha dedicato al libro un teologo come Joseph Ratzinger in Fede, verità, tolleranza (Cantagalli, 2003).

Chi non desidererebbe esser “sesto fra cotanto senno”, quando si svolgono incontri di questo genere? A volte le manifestazioni culturali regalano al pubblico qualche rara occasione. Ma la rete permette ormai di osservare da vicino addirittura i dialoghi che si tengono fra i ricercatori, nel momento stesso in cui producono i loro risultati: medaglie Fields come Terence Tao e Timothy Gowers, ad esempio, gestiscono da anni dei blog nei quali discutono in chiaro problemi aperti, che a volte vengono risolti collettivamente con la partecipazione attiva del pubblico. O, almeno, di quella parte che non si accontenta di “sapere che”, e pretende anche di “capire perché”.

a Repubblica, 28 febbraio 2017 (c.m.c.)

Casi come quello di Fabiano Antonini, il dj Fabo, individuano il punto più intenso della libertà esistenziale, perché pongono non solo la questione di chi abbia il potere di scrivere il “palinsesto della vita”, di individuarne il perimetro, ma soprattutto fanno divenire ineludibile il problema di chi possa avere il potere di determinarne la durata, di stabilire se debba continuare o no l’essere nel mondo di una persona.

Ma l’area da governare non riguarda soltanto il fine vita, il morire, anche se qui il potere di scelta si fa più drammatico, perché estremo, irreversibile. È ben più vasta, comprende l’insieme delle decisioni riguardanti ogni momento dell’esistenza — dal suo inizio alla sua fine — e la determinazione dei casi e delle modalità che riguardano la possibilità di dare voce e potere anche a persone diverse dal diretto interessato.

La discussione di questi giorni, dominata, com’è inevitabile e pure giusto, da una forte emotività, potrebbe indurre a ritenere che si viva in una situazione caratterizzata dal disinteresse istituzionale, dall’assenza di significativi principi di riferimento. Non è così, e lo dimostra anche il linguaggio comune quando adopera espressioni come “morire con dignità”, dove il fatto naturale della morte è distinto dal processo del morire, che appartiene ancora alla vita, sì che è ben evidente la consapevolezza di persone e istituzioni della possibilità di intervenire in questo processo per associare il morire ad un principio ormai così fortemente collocato nella dimensione istituzionale, qual è appunto quello di dignità.

Fin dall’inizio, infatti, nel delineare il sistema istituzionale si è avuta piena consapevolezza dei rischi legati all’intervento nel mondo della vita, tanto che l’articolo 32 della Costituzione si chiude con queste parole: «la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». È una delle dichiarazioni più forti della nostra Costituzione, una sorta di nuovo habeas corpus, con il quale il moderno sovrano, l’Assemblea costituente, promette ai cittadini che non “metterà la mano” su di loro, sulla loro vita. Al centro del contesto istituzionale si pone quindi il consento informato della persona.

Proprio questa è la linea seguita dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 438 del 2008. Qui si legge che «la circostanza che il consenso informato trova il suo fondamento negli artt. 2, 13 e 32 della Costituzione pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute».

Le istituzioni, dunque, hanno una ben chiara responsabilità. Non possono limitarsi ad un riconoscimento formale, ma rendere effettivi questi diritti proprio perchè definiti fondamentali, rimuovendo gli ostacoli che ne rendono difficile o addirittura impossibile l’attuazione. L’intervento del Parlamento non dovrebbe portare soltanto ad un pieno riconoscimento del diritto all’autodeterminazione, ma evitare anche che l’autodeterminazione possa tradursi in solitudine della persona e in irresponsabilità delle istituzioni.

Non solo per le donne, ma per tutti i generi vogliono che prevalga la volontà del curatore su quella curato, dello specialista sul cittadino: come per l'interruzione di gravidanza così per il diritto a lasciare la vita secondo la natura e la volontà della persona.

la Repubblica, 26 febbraio 2016Questa legislatura ha tolto l’Imu, forse aggiungerà le Dat. Un altro acronimo, figlio di una politica che ormai s’esprime soltanto a monosillabi. Significa “Disposizioni anticipate di trattamento”; significa perciò testamento biologico, per usare l’espressione che ci era divenuta familiare. Troppo semplice, meglio complicarne il suono. Ma in ultimo ci ronza in capo un dubbio: queste Dat saranno un diritto o un desiderio?

Dipende dalle attese, dalle pretese. Sta di fatto che il testamento biologico fu la promessa mancata della XVI legislatura; e meno male, perché il ddl Calabrò (approvato dal Senato il 26 marzo 2009) in realtà recava un elenco di divieti. Con le elezioni del 2013, ricomincia il tira e molla. Finché, nei giorni scorsi, la commissione Affari sociali della Camera molla: dopo 16 progetti di legge l’un contro l’altro armati, dopo 3200 emendamenti, approva un testo unificato. Con una maggioranza trasversale, che viaggia dal Pd ai Cinque Stelle.

Con l’ira funesta dei cattolici, che denunciano un voto frettoloso (in effetti, il Parlamento ne discute soltanto da 8 anni); ma infine con 5 articoli e con 28 commi che ci accordano il diritto di respingere le cure, incluse la nutrizione e l’idratazione artificiali, oggetto del contendere nel caso di Eluana Englaro. E quindi, se adesso l’aula della Camera non ne stravolgerà il dettato, anche l’Italia potrà dotarsi d’uno strumento che in alcuni Stati americani funziona dagli anni Novanta, in Olanda dal 2001, in Spagna dal 2002, in Francia dal 2005, nel Regno Unito dal 2007, in Germania dal 2009.

Meglio tardi che mai, disse quello studente novantenne mettendosi una laurea in tasca. Sennonché in questa circostanza l’università parlamentare ha inventato una nuova fonte del diritto, superiore alla legge, alla Costituzione, alla Dichiarazione dei diritti siglata dall’Onu: il codice deontologico. Portentosa innovazione, scaturita da un emendamento congiunto di un forzista (Palmieri) e una piddina (Carnevali), per comprimere l’efficacia vincolante delle Dat; hai visto mai, qualcuno potrebbe disporne in modo indisponente. Di conseguenza il medico (articolo 1, comma 8) rispetterà «ove possibile» le direttive del paziente; potrà disattenderle (articolo 3, comma 4) quando sopraggiungano «terapie non prevedibili» nel momento in cui quest’ultimo le aveva sottoscritte (un nuovo tipo di aspirina?); ne verrà infine affrancato (articolo 1, comma 7) se le disposizioni anticipate di trattamento contrastino con la «deontologia professionale».

Durante l’Ottocento veniva celebrata l’onnipotenza delle assemblee legislative. Ora ci tocca invece registrarne l’impotenza, anche davanti a regole private, quelle stabilite dall’Ordine dei medici. Che in primo luogo dettano norme volubili come ballerine: difatti il loro codice deontologico fu varato nel 1954, poi riscritto interamente nel 1978, nel 1989, nel 1995, nel 1998, nel 2006, nel 2014, fino alle due modifiche parziali approvate a maggio e a novembre del 2016. E in secondo luogo quelle norme suonano spesso ermetiche come una Sibilla. Così, l’articolo 17 vieta al medico, «anche su richiesta del paziente», d’effettuare atti intesi a «provocarne la morte». L’articolo 38, proprio in relazione alle dichiarazioni anticipate di trattamento, precisa che il medico dovrà verificarne la «congruenza logica», come un professore che ha il potere di promuoverti o bocciarti. Un altro paio d’articoli (16 e 39, oltre allo stesso articolo 38) dichiarano che il medico «tiene conto» delle volontà del paziente (cioè le conta, dopo di che fa un po’ come gli pare). Infine l’articolo 22 sancisce espressamente il diritto dei medici all’obiezione di coscienza, ultimo baluardo contro la coscienza dei loro pazienti.

Ecco, è esattamente questo il tarlo che divora le buone intenzioni, lasciandole in balia dei malintenzionati. Perché il rinvio al codice deontologico trasformerà ogni nostra decisione in una supplica al sovrano, dove il sovrano è l’Ordine dei medici. E perché l’obiezione di coscienza permetterà la fuga dai diritti sanciti dalla legge, ammesso che questa legge veda mai la luce. Non a caso la Costituzione italiana non le dedica un rigo, a differenza della Carta tedesca o spagnola. Si riferisce invece, in molti luoghi, al primato della legge. Ma ormai la legge non è più una cosa seria. È solo una finta, un’ammuina.

Definire un benessere ecologicamente sostenibile. Per immaginare un modo di vivere alternativo all'impero delle merci, occorre prima di tutto riflettere su ciò di cui abbiamo veramente bisogno».

il manifesto, "Le Monde diplomatique" 16 febbraio 2017 (c.m.c.)

Con un colpo di genio, il capitalismo del dopoguerra è riuscito a riorientare la volontà di cambiamento verso l’insaziabile desiderio di consumare. Questo modello si scontra ormai con un limite invalicabile: l’esaurimento delle risorse naturali. Per immaginare un modo di vivere al tempo stesso soddisfacente e sostenibile, non basta rifiutare l’impero delle merci. Occorre prima di tutto riflettere su ciò di cui abbiamo bisogno.

La transizione ecologica chiede di fare scelte nel campo dei consumi. Ma su quale base? Come distinguere i bisogni legittimi, che potranno essere soddisfatti nella società futura, dai bisogni egoisti e irragionevoli, che dovremo rinunciare a soddisfare? È la domanda che affronta il Manifeste négaWatt (Manifesto negaWatt), uno dei saggi di ecologia politica più stimolanti fra quelli di recente pubblicazione, scritto da specialisti dell’energia (1).

Un negaWatt è un’unità di energia risparmiata – «nega» sta per negativo. Grazie alle energie rinnovabili, all’isolamento termico degli edifici e all’accorciamento dei circuiti economici, è possibile secondo gli autori mettere in piedi un sistema economico ecologicamente sostenibile a scala nazionale e anche oltre. Anche allo stato attuale della tecnologia, la nostra società già dispone di importanti «giacimenti di negaWatt».

Il consumismo non è sostenibile, perché aumenta continuamente i flussi di materie prime e il consumo di energia. I suoi effetti alienanti sulle persone, inoltre, non hanno più bisogno di essere dimostrati. Una società «nega- Watt» è una società della sobrietà in cui alcune possibilità di consumo sono deliberatamente scartate perché considerate nefaste. Ma sulla base di quali criteri?

Per rispondere a questa domanda, gli autori del Manifeste distinguono fra i bisogni umani autentici, legittimi, che occorrerà dunque continuare a soddisfare, e i bisogni artificiali, illegittimi, dei quali occorrerà sbarazzarsi. Il primo gruppo comprende quelli definiti «vitali», «essenziali», «indispensabili», «utili» e «convenienti». I secondi quelli ritenuti «accessori», futili», «stravaganti», «inaccettabili», «egoisti».

A questo punto si pongono due problemi. In primo luogo, come definire un bisogno «essenziale»? Che cosa lo distingue da un bisogno «accessorio» o «inaccettabile»? E poi, chi decide?

Quali meccanismi o istituzioni conferiranno una legittimità alla scelta di soddisfare un determinato bisogno anziché un altro? Il Manifeste négaWatt non dice niente in merito.

Per rispondere a queste domande, è opportuno fare riferimento a due pensatori critici e pionieri dell’ecologia politica: André Gorz e Ágnes Heller, autori negli anni 1960 e 1970 di una teoria dei bisogni sofisticata e di grande attualità (2). Entrambi hanno affrontato questi temi a partire da una riflessione sull’alienazione, che può essere misurata sulla base dei bisogni autentici. In effetti, si è alienati rispetto a uno stato ideale al quale si cerca di tornare, o che si cerca di raggiungere.

Il concetto indica il processo mediante il quale il capitalismo suscita bisogni artificiali che ci allontanano da questo stato. Oltre a essere alienanti, la maggior parte di questi bisogni sono ecologicamente irrealistici

Un compito urgentissimo del nostro tempo

Che cos’è un bisogno «autentico»? Si pensa naturalmente alle esigenze dalle quali dipendono la sopravvivenza e il benessere dell’organismo: mangiare, bere, proteggersi dal freddo, ad esempio. Nei paesi del Sud del mondo, e anche del Nord, alcuni di questi bisogni elementari non sono soddisfatti. Altri, che lo erano prima, lo sono sempre meno. Fino a tempi recenti era normale respirare un’aria non inquinata; ma nelle megalopoli contemporanee è diventato difficile. Vale anche per il sonno.

Oggi, a causa dell’inquinamento luminoso, molte persone stentano ad addormentarsi, perché l’onnipresenza della luce nelle città ritarda la sintesi della melatonina (chiamata «ormone del sonno»). In alcuni paesi, la lotta contro l’inquinamento luminoso ha portato alla nascita di movimenti sociali che rivendicano il «diritto al buio» e chiedono la creazione di «parchi stellati» non inquinati dalla luce artificiale (3 ).

Anche l’esempio dell’inquinamento sonoro è molto significativo per tanti cittadini. Somme di denaro sempre maggiori sono destinate all’insonorizzazione delle abitazioni, per soddisfare un bisogno – il silenzio – prima gratuito. Queste nuove spese sono suscettibili di ridurre il tasso di profitto, ma al tempo stesso offrono fonti di guadagno, per esempio per le imprese specializzate.

Non tutti i bisogni «autentici» sono di ordine biologico. Amare ed essere amati, acquisire conoscenze, dare prova di autonomia e creatività manuale e intellettuale, prendere parte alla vita pubblica, contemplare la natura... Sul piano fisiologico, se ne può certo fare a meno. Ma questi bisogni sono contestuali a una vita umana degna di essere vissuta. André Gorz li chiama «bisogni qualitativi»; Ágnes Heller, «bisogni radicali».

I bisogni qualitativi o radicali si fondano su un paradosso. Il capitalismo, benché sfrutti e alieni, produce alla lunga un certo benessere materiale per importanti settori della popolazione. In tal modo libera gli individui dall’obbligo di lottare quotidianamente per assicurarsi la sopravvivenza.
Nuove aspirazioni, qualitative, acquistano dunque importanza. Ma, man mano che diventa più potente, il capitalismo ne impedisce la piena realizzazione. La divisione del lavoro chiude la persona in funzioni e competenze anguste per tutta la vita, impedendo il libero sviluppo della gamma delle facoltà umane. Al tempo stesso, il consumismo seppellisce i bisogni autentici sotto bisogni fittizi. Raramente l’acquisto di una merce soddisfa una vera mancanza. Procura una soddisfazione momentanea; poi il desiderio che la merce aveva creato si rivolge a un’altra vetrina.

I bisogni autentici, costitutivi del nostro essere, non possono trovare soddisfazione all’interno dell’attuale sistema economico. Ecco perché sono il fermento di movimenti di emancipazione. «Il bisogno è rivoluzionario in nuce», diceva André Gorz (4). La ricerca del suo soddisfacimento porta presto o tardi gli individui a sottoporre a critica il sistema.

I bisogni qualitativi evolvono storicamente. Viaggiare, per esempio, permette all’individuo di arricchire le proprie conoscenze e aprirsi all’alterità. Fino alla metà del XX secolo, viaggiavano solo le élite. Adesso è una pratica resa democratica. Si potrebbe definire il progresso sociale con la comparsa di bisogni sempre più arricchenti e sofisticati, e accessibili ai più.

Ma ecco gli aspetti nefasti. Il trasporto aereo proposto da compagnie low cost contribuisce certo a rendere il viaggio accessibile alle classi popolari, ma emette anche enormi quantità-di gas serra, e distrugge le zone dove i turisti corrono in massa... a guardare altri turisti che stanno guardando quel che c’è da guardare. Viaggiare è diventato un bisogno autentico; ma occorrerà inventare nuovi modi di spostarsi, adatti al mondo di domani.

Se il progresso sociale provoca talvolta effetti perversi, certi bisogni nefasti all’origine possono, al contrario, diventare sostenibili con il tempo. Oggi il possesso di uno smartphone è un bisogno egoista. Questi telefoni contengono «minerali di sangue» – tungsteno, tantalio, stagno e oro –, la cui estrazione provoca conflitti armati e gravi danni ambientali. Ma il problema non è l’apparecchio in sé. Se nascerà uno smartphone «equo» – il Fairphone sembra prefigurarlo (5) –, non c’è ragione perché questo oggetto sia bandito nelle società future. Tanto più che ha portato a forme di socialità nuove, con il continuo accesso alle reti sociali, e grazie al suo utilizzo fotografico. Che incoraggi il narcisismo o produca nevrosi negli utenti non è certo inevitabile. In questo senso, non si può escludere che lo smartphone, attraverso alcuni suoi utilizzi, si trasformi progressivamente in bisogno qualitativo, come è già avvenuto per il viaggio.

Secondo André Gorz, il motto della società capitalista è: « Quello che è buono per tutti non vale nulla. Sei rispettabile solo se hai “meglio” degli altri» (6). Gli si può contrapporre un motto ecologista: « È degno di te solo quello che è buono per tutti. Merita di essere prodotto solo ciò che non privilegia né avvilisce nessuno». Agli occhi di Gorz, la particolarità di un bisogno qualitativo è quella di non lasciare spazio alla «distinzione». Nel regime capitalista, il consumo ha in effetti una dimensione di ostentazione.

Acquistare l’ultimo modello di automobile equivale a esibire uno status sociale (reale o presunto). Un bel giorno, tuttavia, il modello passa di moda e il suo potere distintivo viene meno, provocando il bisogno di un altro acquisto. Questa fuga in avanti insita nell’economia di mercato costringe le imprese che si fanno concorrenza a produrre merci sempre nuove.

Come farla finita con questa logica di distinzione produttivistica? Per esempio, allungando la durata di vita degli oggetti. Una petizione lanciata da Amis de la Terre (Amici della Terra) chiede che si porti da due a dieci anni la garanzia per le merci un obbligo sancito da leggi europee (7).

Oltre l’80% degli oggetti in garanzia viene riparato; la percentuale scende a meno del 40% una volta scaduta la garanzia. Morale: più la garanzia è lunga, più gli oggetti durano, e la quantità di merci vendute e dunque prodotte diminuisce, limitando in tal modo le logiche di distinzione che spesso si basano sull’effetto novità. La garanzia è la lotta di classe applicata alla durata di vita degli oggetti.

Chi determina il carattere legittimo o no di un bisogno? Qui c’è un pericolo, che Ágnes Heller chiama la «dittatura dei bisogni» (8), analoga a quella che vigeva nell’Urss. Se è una burocrazia di esperti autoproclamati a decidere quali sono i bisogni «autentici», e di conseguenza le scelte di produzione e di consumo, queste hanno poche possibilità di essere giudiziose e legittime.

Affinché la popolazione accetti la transizione ecologica, le decisioni che la sottendono devono ottenere l’adesione generale. Stabilire una lista di bisogni autentici non ha nulla di facile e presuppone una continua deliberazione collettiva. Si tratta dunque di mettere in essere un meccanismo che parta dal basso, in grado di identificare democraticamente i bisogni ragionevoli.

È difficile immaginare questo meccanismo. Tracciarne i contorni è un compito urgente del nostro tempo; da questo dipende la costruzione di una società giusta e sostenibile. Il potere pubblico ha certamente un ruolo da giocare, per esempio tassando i bisogni futili per democratizzare i bisogni autentici, regolando le scelte dei consumatori. Ma si tratta di convincere della futilità di diversi bisogni; e per questo, occorre un meccanismo posto il più vicino possibile alle persone. Occorre sottrarre il consumatore al suo testa a testa con la merce e riorientare la libido consumandi verso altri desideri.

La transizione ecologica ci invita a fondare una democrazia diretta, più deliberativa che rappresentativa. L’adattamento delle società alla crisi ambientale presuppone una riorganizzazione da cima a fondo della vita quotidiana delle popolazioni. Ma questo non può avvenire senza mobilitarle, senza far leva sulle loro conoscenze e sul loro saper fare, e senza trasformare in un simile movimento le soggettività consumatrici. Dobbiamo dunque arrivare a una nuova «critica della vita quotidiana»; una critica elaborata in maniera collettiva.

(1) Association négaWatt, Manifeste négaWatt. en route pour la transition énergétique! ,Actes Sud, coll. «Babel Essai», Arles, 2015 (1 ed.: 2012).

(2) André Gorz, Stratégie ouvrière et néocapitalisme, Seuil, Parigi, 1964, e Á gnes Heller, La teoria dei bisogni in Marx , Feltrinelli, Milano, 1980.

(3 ) C fr. Marc Lettau, Face à la pollution lumineuse en Suisse, les adeptes de l’obscurité réagissent, Revue suisse, Berne, ottobre 2016.

(4) André Gorz, La Morale della storia, Il Saggiatore, Milano 1963 .

(5) Si legga Emmanuel Raoul, È possibile fabbricare un telefono equo?, Le Monde diplomatique/ il manifesto, marzo 2016.

(6) Si leggano André Gorz, La loro ecologia la nostra, Le Monde diplomatique/ il manifesto,aprile 2010, e Antony Burlaud,André Gorz, verso l' emancipazione, Le Monde diplomatique/ il manifesto, dicembre 2016.

(7) «Signez la pétition Garantie 10 ans maintenant», 24 ottobre 2016, www.amisdelaterre.org

(8) C fr. Ferenc Fehér, Ágnes Heller e György Má rkus, Dictatorship Over Needs, St. Martin’s Press, New Y ork, 1983 .

(Traduzione di Marianna De Dominicis)

le Monde diplomatique

il manifesto

n. 2, anno XXIV, febbraio 2017 s

«Alla Bbc il primo cittadino del villaggio di Asotthalom: "Qui siamo tutti bianchi, europei e cristiani, vogliamo mantenere questa situazione e non vogliamo immigrati o omosessuali"».

la Repubblica , 17 febbraio 2017, con postilla

Molti in Europa criticano il popolare premier ungherese Viktor Orbàn, pochi sanno con quali sfide dell'ultradestra egli fa i conti a casa. Un esempio, come narrato dalla britannica e ripreso ieri dall'agenzia italiana Dire, è ad Asotthalom, la graziosa cittadina a un passo dalla frontiera ungherese-serba e dalla barriera che la chiude per arginare la grande migrazione.

Il sindaco locale, Laszlo Toroczkai, membro di Jobbik (il partito di destra radicale che contesta nello Orszaghàz, il Parlamento nazionale, la maggioranza nazionalconservatrice della Fidesz di Orbàn, membro dei Popolari europei) ha varato dure leggi contro la residenza in loco dei musulmani, e anche severe restrizioni contro l'amore e le coppie omosessuali. Provvedimenti che appaiono contrari alle leggi ungheresi e alle stesse direttive del governo di maggioranza nazionalconservatore liberamente eletto (2010) e rieletto (2014).

Per ordinanza del giovane sindaco, è vietato ad Asotthalom indossare abiti strettamente musulmani, è vietato a qualsiasi muezzin lanciare appelli alla preghiera, è vietato anche costruire moschee. Sebbene i musulmani residenti siano appena due, e descritti come integrati e pacifici dagli abitanti intervistati dalla .

«Siamo tutti bianchi, europei, cristiani, vogliamo mantenere questa tradizione», ha detto il sindaco all'emittente britannica, aggiungendo di ritenere che è in corso una "guerra contro la cultura musulmana». E ancora: «Vogliamo dire benvenuto prima di tutto a gente dall'Europa occidentale che non vuole vivere in una società multiculturale, non vorremmo attirare musulmani nella nostra città, per la quale è molto importante preservare le proprie tradizioni; se un gran numero di musulmani arrivasse qui sarebbe incapace di integrarsi nella comunità cristiana».

Sempre secondo il resoconto della Bbc, il sindaco ha spiegato: «Vediamo che esistono in Europa occidentale vaste comunità di musulmani che si sono mostrate incapaci di integrarsi, e non vogliamo vivere la stessa esperienza qui... Vorrei che l'Europa appartenga agli europei, l'Asia agli asiatici e l'Africa agli africani».

Asotthalom, una deliziosa tipica cittadina agricola ungherese, con le strade ad angolo retto come a Torino, ampi giardini, case decorose in vecchio stile magiaro-asburgico, fu investita dalla grande ondata migratoria nel 2015, quando il premier Orbàn decise di reagire blindando il confine. La maggioranza dei migranti, profughi, immigrati illegali che vi passarono tentarono poi di proseguire verso altrove (Austria, Germania, Svezia) o furono poi radunati in centri di raccolta ungheresi, oppure espulsi perché ritenuti non in regola.

La nuova legislazione cittadina vieta di indossare lo hijab e altri indumenti musulmani o islamisti, vieta la preghiera e l'appello alla preghiera del muezzin, e anche la manifestazione pubblica di amore tra coppie omosessuali. Quest'ultima disposizione in particolare è in contrasto con la prassi della vita quotidiana nella vivace, giovanile capitale di tendenza Budapest, e di altre città del paese. E il governo di Orbàn non ha mai adottato simili misure. Il sindaco si è anche premurato di prevenire la costruzione di moschee. Chi le costruirebbe, quando ad Asotthalom vivono appena due musulmani, non è chiaro.

D'altra parte, dal 2015 gli abitanti di Asotthalom (cittadina con pochissima polizia) si sono sentiti spaventati e insicuri davanti alla massa di migranti in arrivo prima della costruzione della barriera di filo spinato lungo il confine a pochi chilometri a sud.

«Avevamo paura delle masse di migranti che camminavano attraverso la nostra cittadina, ho passato lungo tempo chiusa a casa da sola con i miei figli, avevo paura», ha detto alla la signora Eniko Undreiner. I gay fanno meno paura, sempre secondo le interviste volanti dei residenti raccolte dall'emittente britannica. Una citazione: «Alcuni gay vivono da noi, ci capita di parlare, sono molto gentili, poi ciò che fanno a casa loro non ci riguarda, siamo tutti esseri umani». Budapest metropoli globale è comunque lontana, negli animi ogni paese ha una sua capitale diversa dalla provincia profonda.

postilla

Il livello di barbarie raggiunto in Europa è tale da dover suscitare una riflessione profondamente autocritica per chiunque abbia partecipato con qualche responsabilità alla vita pubblica negli ultimi decenni. Come è mai stato possibile che la formazione del pensiero che si manifesta oggi nelle teste degli europei sia stata così straordinariamente povera da non aver fatto comprendere che il contributo dato dalle civiltà del mondo musulmano è stato così grande e fondativo quanto è stato? Se lo sapessero, gli europei non potrebbero essere così autolesionisti da voler tagliare una importante radice della loro stessa civiltà. Qualche colpa in questa tragedia va certamente attribuita all'orgoglioso eurocentrismo che ha dominato nel mondo "occidentale."

«La riflessione e la stessa azione politica non possono essere amputate della dimensione della progettazione, che molto ha sofferto in questi anni per una sua impropria identificazione con l’abbandono delle ideologie».

la Repubblica, 12 febbraio 2017 (c.m.c.)

«Siate realisti: chiedete l’impossibile». Questo ammonimento, che Albert Camus affida a Caligola, dovrebbe rappresentare un costante criterio di riferimento per tutti coloro che pensano e agiscono politicamente - e comunque identificano la politica con il cambiamento. Il rischio concreto, altrimenti, è quello di una sorta di tirannia dei fatti che, se considerati come un riferimento da accettare senza alcuna valutazione critica, come l’unica misura e regola del possibile, ben possono trasformarsi in una trappola, o una prigione. Una questione di evidente rilievo culturale e che, se trasferita sul terreno politico, può aprire una strada verso finalità sostanzialmente conservatrici.

È quel che sta accadendo in molti casi, con una scelta che non può essere considerata inconsapevole o innocente. L’attribuire ai nudi fatti la competenza a dettare le regole della vita sociale e politica dà origine ad una sorta di naturalismo che sconfigge la necessaria e consapevole artificialità della regola giuridica e della decisione politica. E che, nella sostanza, trasferisce il potere di scelta dalle procedure democratiche alle dinamiche di mercato. È così nato un nuovo diritto naturale, al quale viene attribuita una specifica legittimazione grazie al riferimento ad un mondo globale dove non sarebbe possibile ritrovare soggetti che abbiano la competenza per governarlo.

Conclusione che trascura il passaggio da una concentrazione ad una moltiplicazione dei soggetti e dei luoghi delle decisioni, sì che il problema è piuttosto quello di creare le condizioni istituzionali per la democraticità di questi processi per quanto riguarda partecipazione e controllo. In questa prospettiva non muta soltanto la dimensione spaziale, con la globalizzazione, ma pure quella temporale, con la rilevanza assunta dall’insieme delle dinamiche che determinano e accompagnano nel tempo l’azione di una molteplicità di attori.

L’attuale discorso pubblico mette in evidenza, quasi in ogni momento, la necessità di spingere lo sguardo oltre gli specifici fatti che la realtà quotidiana concretamente propone, di ragionare considerando anche la prospettiva di lungo periodo. Compaiono con insistenza parole che invitano, spesso in maniera perentoria, a riflettere e ad agire seguendo vie che portano, si potrebbe dire, ad incorporare il futuro nel presente. Si insiste sull’utopia, fin dal titolo dei libri, e si accenna addirittura alla profezia. Si riscopre l’«utopia concreta» di Marc Bloch, sull’utopia dialogano Paolo Prodi e Massimo Cacciari.

Il senso di questi riferimenti, fino a ieri inusuali nella discussione corrente, è evidente. La riflessione e la stessa azione politica non possono essere amputate della dimensione della progettazione, che molto ha sofferto in questi anni per una sua impropria identificazione con l’abbandono delle ideologie. Nel momento in cui si torna a sottolineare l’impossibilità di trascurare la discussione sulle idee, non dovrebbe essere troppo tardi per acquisire piena consapevolezza del fatto che la cattiva politica è sempre figlia della cattiva cultura.

Ma non sempre nella discussione pubblica si può cogliere questa consapevolezza. Sta accadendo per la questione del reddito, che gioca un ruolo sempre più rilevante per la costruzione di una agenda politica adeguata al tempo che stiamo vivendo. Tema che davvero può essere collocato tra le questioni “impossibili” di Camus, poiché esclude la possibilità di distogliere lo sguardo da una realtà sempre più chiaramente caratterizzata da una rilevanza nuova del rapporto tra esistenza e risorse finanziarie.

In Francia nel programma proposto da Benoit Hamon per la sua candidatura alle elezioni presidenziali il riferimento ad un reddito universale ha una evidenza particolare e sollecita la discussione sul fatto che siamo di fronte appunto ad una utopia concreta. Da anni, in Italia, Luigi Ciotti parla di un reddito di dignità, sottolineando così proprio l’impossibilità di eludere una questione che riguarda l’antropologia stessa della persona. E non si tratta di discussioni astratte. Il ceto politico italiano — qui distratto, come in troppi altri casi — dovrebbe sapere che, soprattutto grazie alle provvide iniziative di Giuseppe Bronzini nell’ambito delle attività della Rete italiana per il reddito di base, è nata una cultura che non solo ha reso possibile una impegnativa discussione sui rapporti tra il reddito e l’esistenza stessa della persona, ma ha consentito ad un centinaio di associazioni di mettere a punto una proposta di legge d’iniziativa popolare che le Camere farebbero bene a prendere seriamente in considerazione.

Così la realtà “impossibile” può trovare la via per incontrare le sue effettive e molteplici possibilità, che danno concretezza al cambiamento e possono tradursi in istituti diversi per rispondere alle diverse richieste determinate da una molteplicità di condizioni materiali. Qui si colloca quello che ormai possiamo, anzi dobbiamo, definire come un vero e proprio «diritto all’esistenza»: unico nel suo riconoscimento, articolato per consentirne l’effettiva attuazione. Questo spiega la ragione per cui il riferimento al reddito è quasi sempre accompagnato da specificazioni che possono riguardare la sua misura (da minimo a universale) o un particolare contesto (familiare) — un insieme di variazioni esaminate nel bel libro di Elena Granaglia e Magda Bolzoni, che mostra come si tratti di un tema che è parte integrante della questione della democrazia “possibile”, e nello scritto di Stefano Toso dedicato proprio a reddito di cittadinanza e reddito minimo.

Un tema tanto significativo per la costruzione dell’agenda politica non può essere separato da tutti gli altri ai quali si vuole attribuire rilevanza. E la dialettica tra possibilità e impossibilità esige l’individuazione dei principi e dei criteri che devono guidarla, dove la possibilità diventa ovviamente anche quella legata alla realizzazione di una politica costituzionale.

È una ovvietà il sottolineare che si debbono prendere le mosse dal lavoro, indicato fin dal primo articolo come il fondamento stesso della Repubblica e più avanti, nell’articolo 36, come la condizione sociale necessaria per una esistenza libera e dignitosa. E, poiché non si possono certo ignorare le situazioni di disoccupazione o sottoccupazione, è ben comprensibile che, accanto all’attenzione diretta per il lavoro, compaia quella sempre più intensamente rivolta ad altri strumenti, che possono comunque mettere le persone nelle condizioni materiali inseparabili appunto dall’effettiva condizione di libertà e dignità del vivere.

Una esistenza che, come sottolineava già la costituzione tedesca del 1919, non può essere identificata con la semplice sopravvivenza, ma deve concretamente manifestarsi come esistenza «degna dell’uomo», «dignitosa». Una novità non soltanto linguistica. Un impegnativo riferimento — appunto la dignità — compare oggi in apertura della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, affiancando in maniera particolarmente significativa gli storici principi della libertà, dell’eguaglianza, della solidarietà.

Nella storia degli ultimi decenni, anzi, proprio l’evocazione della dignità è divenuta addirittura più intensa di ogni altra e costituisce ormai un dato che unisce gli ammonimenti di Papa Bergoglio alla richieste dei nuovi «dannati della terra», come i braccianti della piana di Rosarno. Questo sguardo più approfondito e consapevole arricchisce nel loro complesso gli obiettivi costituzionali, porta con sé un chiarimento del potere dei cittadini e un rafforzamento dei loro diritti, e rende più evidenti e ineludibili le responsabilità della politica.

bilanciamoci online, 27 gennaio 2017 (c.m.c.)

Il BES e la misurazione del benessere in Italia

Nel marzo del 2013, un giorno dopo la presentazione in pompa magna (a Roma presso l’Aula del Palazzo dei Gruppi Parlamentari, in presenza delle più alte cariche dello Stato) del primo rapporto ISTAT sul Benessere Equo e Sostenibile (BES), il Corriere della Sera sottotitolava la notizia relativa a tale evento con le seguenti parole “Istat: nel 2013 il Pil è già calato dell’1%”. Sarebbe come dare la notizia della vittoria di Donald Trump alle Presidenziali statunitensi sottolineando che Bernie Sanders è in rimonta nei sondaggi: inutile e fuori bersaglio.

Il fatto che uno dei principali quotidiani nazionali ponesse l’accento sull’andamento del Pil proprio mentre veniva presentato un progetto volto al superamento di simili misure mette in evidenza due questioni importanti. In aggiunta alle evidenti responsabilità dei media mainstream italiani, sulle cui competenza e affidabilità non ci soffermeremo oltre, è necessario riconoscere una seconda plausibile causa dell’infelice scelta, ovvero la scarsa fruibilità di BES e indicatori analoghi.

Il BES si presenta infatti come un sistema di 130 indicatori suddivisi in 12 macro aree, che puntano a catturare pienamente la complessità che caratterizza il concetto stesso di benessere. L’abbondanza di indicatori inclusi ogni anno nel rapporto BES è figlia del principio di inclusività secondo cui la definizione stessa di benessere deve risultare da un processo di deliberazione tra rappresentanti di istituzioni, società civile e parti sociali. Nonostante un simile approccio democratico abbia garantito al BES il supporto trasversale dei diversi attori in campo, ha al contempo pesato duramente sulla sua fruibilità e applicabilità dal punto di vista pratico.

Se è vero che il BES e simili misure, comunemente definite “dashboard”, vantano una grande universalità di contenuti – non esistono vincoli materiali al numero di indicatori inseriti –, allo stesso tempo tendono a generare confusione e smarrimento. Infatti, non è difficile immaginare che tanto il decisore quanto il cittadino affrontino la cascata di 130 indicatori con la perplessità di chi si domanda “e quindi?”.

Per quanto volgare e frutto di un dogmatismo anti-intellettuale che in questa epoca storica non necessita di ulteriori tutele, tale domanda è legittima e ci impone non tanto di mettere in dubbio la reale efficacia del BES, quanto di vagliare le sue possibili criticità. Al fine di valutare le effettive qualità dell’approccio dashboard e delle sue alternative, prima di tutto è necessario prendere in considerazione ognuna di esse separatamente.

Approcci alternativi al Pil

Nel corso degli ultimi 50 anni, ovvero dagli albori della ricerca di strumenti da sostituire agli approcci tradizionali di valutazione del benessere e del progresso socio-economico, quattro sono state le principali metodologie adottate o considerate su grande scala: le misure correttive di carattere monetario, le misure soggettive di benessere, gli indicatori compositi, e i dashboard di indicatori.

Le misure correttive di carattere monetario – utilizzando un neologismo potremmo definirle “post-Pil” – hanno rappresentato storicamente il primo passo verso il superamento del Pil: esse partono dal presupposto che la produzione e il consumo di beni e servizi di un determinato Paese riflettano in maniera molto approssimativa il suo benessere economico. Al fine di sopperire a questa imprecisione di fondo, gli indicatori post-Pil correggono il dato relativo al prodotto interno lordo attraverso la considerazione di parametri ritenuti importanti nella determinazione del benessere e che nonostante ciò rimangono al di fuori dalle statistiche conteggiate nel Pil.

I parametri in questione, il cui valore è prima quantificato in termini monetari e in seguito sottratto o aggiunto a quello del Pil, includono le esternalità dei sistemi diproduzione, tra cui l’inquinamento, le disuguaglianze e l’esaurimento delle risorse, ma anche elementi positivi come il valore dei servizi forniti in maniera informale, oppure a livello domestico. In buona sostanza gli indicatori post-Pil, pur impiegando una importante innovazione di contenuto, sono caratterizzati dal presupposto secondo cui il Pil non è di per sé uno strumento scorretto, bensì meramente incompleto, e si prefiggono di rimediare a tale carenza piuttosto che abolirlo del tutto.

Diametralmente opposto è il presupposto ideologico che sta all’origine delle misure soggettive di benessere. Questo tipo di approccio, le cui basi scientifiche si collocano nel campo della psicologia positiva, risponde alla volontà di andare oltre all’equivalenza “prosperità economica = benessere”, e racchiude gli sforzi messi in campo nel tentativo di quantificare il benessere come concetto definito e percepito dal punto di vista della persona. Le misure soggettive di benessere si costruiscono partendo dai risultati di studi basati su indagini di tipo sociologico-psicologico (principalmente questionari auto-valutativi), il cui obiettivo è quello di determinare il livello soddisfazione della persona per il tipo di vita che sta vivendo.

Un approccio alternativo che negli ultimi anni ha suscitato un crescente interesse in ambito istituzionale, sia a livello nazionale sia internazionale, è esattamente quello sopracitato dei dashboard di indicatori. La parola dashboard si può in questo caso tradurre come “cruscotto” o “quadro strumenti”, ovvero la parte dell’automobile sulla quale si trovano i segnalatori relativi a velocità, numero di giri del motore, stato del serbatoio di benzina, eccetera. Come si può intuire, questo tipo di indicatori ha precisamente il funzionamento di un quadro-strumenti: fornisce dati di varia natura (non omogeneizzati né aggregati) relativi alle diverse variabili che si reputano necessarie alla valutazione del benessere.

L’ultima categoria, quella degli indicatori compositi, rappresenta un passo in avanti – quantomeno potenziale – rispetto alla categoria dashboard. Pur mantenendo la concezione di benessere come fenomeno oggettivo determinato da una pluralità di aspetti, gli indicatori compositi sono così chiamati perché presuppongo l’aggregazione dei dati relativi alle singole variabili in un unico valore numerico. Negli indicatori compositi, una volta raccolti i dati relativi ad ogni variabile, questi vengono prima normalizzati – ovvero trasposti su una scala comune che permette di confrontare dimensioni altrimenti incomparabili (basti pensare all’aggregazione di dati relativi all’aspettativa di vita con dati relativi alla qualità dell’aria) – e in seguito accorpati tenendo in considerazione il “peso”, ovvero l’importanza relativa assegnata a ogni dimensione.

Misure alternative a confronto

All’inizio di questo articolo è stato presentato il problema del BES e delle misure dashboard rispetto alla difficoltà con cui essi vengono recepiti tanto dalle istituzioni e dai decisori quanto dai cittadini. Nonostante sia un elemento importante per la valutazione di un indicatore, la fruibilità non è l’unica caratteristica da tenere in considerazione: altre caratteristiche delle misure di benessere includono l’affidabilità (quanto attendibile è il dato prodotto), la rilevanza (quanto accuratamente si considera il benessere in quanto tale) e la democraticità (quanto condivisibili sono la metodologia e le variabili adottate).

In termini di democraticità nessuna delle misure alternative qui considerate presenta criticità degne di nota, in quanto ognuna di esse permette almeno in linea teorica di sviluppare un dibattito di tipo deliberativo volto a garantire l’espressione democratica degli interessi di ogni parte coinvolta.

Diverso è invece il quadro riguardante l’affidabilità e la rilevanza delle misure. In termini di affidabilità il Pil, che si basa su statistiche ufficiali e consolidate, è chiaramente superiore a tutti gli approcci alternativi, che arrancano notevolmente su questo fronte – prime fra tutti le misure soggettive di benessere. Nella valutazione di quest’ultime, infatti, è importante considerare il problema insito nel loro carattere soggettivo: domandare alle persone quanto siano soddisfatte della propria vita, o quale sia il livello di benessere che percepiscono, tende a generare risposte la cui attendibilità risente dell’influenza di elementi emotivi e cognitivi.

Basti pensare alla tendenza della persona ad adattarsi alla propria condizione e alla maniera in cui essa percepisce il cambiamento: immaginiamo un individuo abituato a vivere in condizioni di estrema indigenza e che improvvisamente vede il proprio reddito aumentare in misura tale da permettergli finalmente di consumare due pasti completi al giorno invece di uno. Ora immaginiamo un secondo individuo che, abituato a una vita agiata tra ville e auto di lusso, vede improvvisamente le proprie disponibilità economiche ridursi fino al punto di potersi permettere solamente di consumare due pasti completi al giorno.

Sebbene i due individui siano dal punto di vista oggettivo nella stessa condizione di benessere, è plausibile immaginare che il secondo tenderà a riportare una percezione di benessere nettamente inferiore rispetto al primo. Simili caratteristiche della natura umana, e nonostante i progressi metodologici che hanno portato a un netto miglioramento delle misure soggettive di benessere, fanno sì che quest’ultime non godano dell’attendibilità necessaria a gettare le basi di politiche pubbliche efficaci.

L’affidabilità è del resto un problema che riguarda non solo le misure soggettive, ma anche quelle oggettive, come ad esempio gli indicatori compositi. Sebbene dal punto di vista teorico questo tipo di indicatori non presenti criticità rilevanti, sotto il profilo metodologico gli indicatori compositi faticano a mantenersi su standard adeguati.

Infatti, pur guidate da metodi matematico-statistici sempre più affidabili, sia la procedura di normalizzazione dei dati sia quella di assegnazione dei pesi risentono dell’inevitabile arbitrarietà che guida la scelta dei parametri dai quali dipendono. Tuttavia, sebbene gli indicatori compositi non siano scevri da vincoli metodologici considerevoli, essi rappresentano una notevole opportunità di avanzamento nell’ambito della rilevanza. Infatti, come anche gli indicatori dashboard, grazie alla libertà di scegliere le variabili da tenere in considerazione, gli indicatori compositi permettono di adattarsi a qualsiasi definizione di benessere venga proposta, senza dipendere da precise espressioni culturali e ideologiche come nel caso delle misure soggettive e quelle post-Pil.

Pur equiparabili alle misure dashboard in termini di rilevanza, gli indicatori compositi sono notevolmente più immediatie fruibili. Diversamente da misure quali ad esempio il BES, gli indicatori compositi hanno il vantaggio di fornire una valutazione chiara attraverso un dato sintetico, che seppur non significativo in sé, attraverso la comparazione su scala temporale permette di valutare il progresso (o regresso) di una comunità su più dimensioni contemporaneamente. Sebbene altre misure di benessere siano equiparabili agli indicatori compositi in termini di fruibilità, pare evidente che essi abbiano un significativo vantaggio sul piano della rilevanza.

Lo stato attuale della ricerca nell’ambito della misurazione del benessere presenta dunque un quadro complesso all’interno del quale, pur in presenza di vantaggi comparati di una misura sull’altra, non esiste un candidato chiaramente superiore agli altri. Tutto ciò, purtroppo, contribuisce all’impasse della comunità “” di fronte alla scelta di un’alternativa chiara al Pil.

Al fine di superare le attuali difficoltà è necessario abbandonare la visione idealistica che ha prevalso fino a ora, in virtù di un approccio più pragmatico e orientato alla realizzazione di un obiettivo preciso. Se tale obiettivo, sul quale ormai da tempo sembra esserci consenso, è quello di superare il Pil e sostituirlo con una misura alternativa di benessere, allora la strategia vincente deve considerare le possibilità di successo di tale misura.

Questo implica la necessità di valutare non solo le caratteristiche puramente scientifiche di ogni indicatore, ma anche il suo impatto in termini politici. Per quanto il BES rimanga un importante esperimento di assoluta avanguardia, fino a quando si scommetterà su simili misure – scientificamente affidabili, ma di scarso impatto – l’effettivo superamento del male peggiore, ovvero il Pil, rimarrà con ogni probabilità un’utopia.

Memoria. Bifo ha scritto quello che avremmo voluto scrivere noi. Perché nel giorno della memoria non si ricordano, oltre alla Shoah, anche gli altri gravi stermini della storia: quello dei pellerossa, degli aborigeni austrialiani, dei popoli africani durante il colonialismo, del Ruanda, della Cambogia, della Bosnia, dell’Armenia e quello in corso dei palestinesi?

Comune.info, 27 gennaio 2017 (i.b.)

Dopo la guerra che Israele scatenò contro la popolazione di Gaza nel 2008, Stefano Nahmad (la cui famiglia subì le persecuzioni naziste) scrisse queste parole: «Hai fatto una strage di bambini e hai dato la colpa ai loro genitori dicendo che li hanno usati come scudi. Non so pensare a nulla di più infame […] li hai chiusi ermeticamente in un territorio, e hai iniziato ad ammazzarli con le armi più sofisticate, carri armati indistruttibili, elicotteri avveniristici, rischiarando di notte il cielo come se fosse giorno, per colpirli meglio. Ma 688 morti palestinesi e 4 israeliani non sono una vittoria, sono una sconfitta per te e per l’umanità intera».

La guerra che Israele conduce contro il popolo palestinese non è finita, non finisce mai. Continua ogni giorno, e ogni giorno uccide, distrugge, depreda. Negli ultimi mesi è esplosa una povera Intifada, chiamata l’Intifada dei coltelli. Si manifesta con azioni suicidarie compiute da uomini donne, anziani e giovani che il razzismo quotidiano del gruppo dirigente di Israele ha reso a tal punto disperati da cercare la morte per strada, nel tentativo generalmente fallimentare di accoltellare uno dei superarmati agenti dell’esercito di Israele.

Come ogni anno si avvicina il giorno della Memoria, e come ogni anno mi preparo a parlarne con gli studenti della scuola in cui insegno. Insegno in una scuola serale per lavoratori, in gran parte stranieri. È un ottimo osservatorio per capire quel che accade nel mondo. Qualche anno fa, in occasione di questa ricorrenza, leggemmo brani dal libro Se questo è un uomo di Primo Levi. Avevamo parlato molto della questione ebraica, e della storia del popolo ebreo dalle epoche lontane al ventesimo secolo. Proposi che tutti scrivessero un breve testo sugli argomenti di cui avevamo parlato. Claude D, un ragazzo senegalese di circa venti anni, piuttosto pigro ma dotato di vivacissima intelligenza concluse il suo lavoro con queste parole: «Ogni anno si fanno delle cerimonie per ricordare lo sterminio degli ebrei, ma gli ebrei non sono i soli che hanno subito violenza. Perché ogni anno dobbiamo stare lì a sentire i loro pianti quando altri popoli sono stati ammazzati ugualmente e nessuno se ne preoccupa?». Questa frase mi colpì, e decisi di proporla alla discussione della classe, in cui oltre Claude c’erano cinque italiani due marocchini un peruviano una brasiliana, un somalo, due ragazze romene una ucraina e due russi. L’opinione di Claude era quella di tutti.

Sia ben chiaro: nessuno mise in dubbio la verità storica dell’Olocausto, neppure Yassin, un ragazzo marocchino appassionato alla causa palestinese e sempre pronto a criticare con durezza Israele. Tutti avevano seguito con attenzione e partecipazione la lettura delle pagine di Primo Levi. Però tutti mi chiedevano: perché non si fanno cerimonie pubbliche dedicate allo sterminio dei rom, dei pellerossa, o allo sterminio in corso dei palestinesi? Claude a un certo punto uscì fuori con una frase che non potevo contestare: perché nessuno ha pensato a un giorno della memoria dedicato all’olocausto africano? Pensai ai milioni di suoi antenati deportati dagli schiavisti, pensai all’irreparabile danno che questo ha prodotto nella vita dei popoli del golfo d’Africa occidentale, e conclusi il discorso in maniera che a tutti apparve risolutiva (vorrei quasi dire salomonica): «Nel giorno della memoria si ricorda l’Olocausto ebraico perché attraverso questo sacrificio si ricordano tutti gli Olocausti sofferti dai popoli di tutta la terra».

Ammesso che la parola «identità» significhi qualcosa, e non lo credo, per me l’identità non è definita dal sangue e dalla terra, blut und boden come dicono i romantici tedeschi, ma dalle nostre letture, dalla formazione culturale e dalle nostre mutevoli scelte. Perciò io affermo di essere ebreo. Non solo perché ho sempre avuto un interesse fortissimo per le questioni storiche e filosofiche poste dall’ebraismo della diaspora, non solo perché ho letto con passione Isaac Basheevis Singer e Abraham Yehoshua, Amos Oz, Gershom Scholem e Daniel Lindenberg, ma soprattutto perché mi sono sempre identificato profondamente con ciò che definisce l’essenza culturale dell’ebraismo diasporico.

Nell’epoca moderna gli ebrei sono stati perseguitati perché portatori della Ragione senza appartenenza. Essi sono l’archetipo della figura moderna dell’intellettuale. Intellettuale è colui che non compie scelte per ragioni di appartenenza, ma per ragioni universali. Gli ebrei, proprio perché la storia ha fatto di loro degli apatridi, hanno avuto un ruolo fondamentale nella costruzione della figura moderna dell’intellettuale e hanno avuto un ruolo fondamentale nella formazione dell’Illuminismo e della laicità, e anche dell’internazionalismo socialista.

Come scrive Singer nelle ultime pagine del suo Meshugah, «la libertà di scelta è strettamente individuale. Due persone insieme hanno meno libertà di scelta di quanto ne abbia una sola, le masse non hanno virtualmente nessuna possibilità di scelta». Per questo io sono ebreo, perché non credo che la libertà stia nell’appartenenza, ma solamente nella singolarità. So bene che nel ventesimo secolo gli ebrei sono stati condotti dalla forza della catastrofe che li ha colpiti, a identificarsi come popolo, a cercare una terra nella quale costituirsi come stato: stato ebraico. È il paradosso dell’identificazione. I nazisti costrinsero un popolo che aveva fatto della libertà individuale il valore supremo ad accettare l’identificazione, la logica di appartenenza e perfino a costruire uno stato confessionale che contraddice le premesse ideologiche che proprio il contributo dell’ebraismo diasporico ha introdotto nella cultura europea.

In Storia di amore e di tenebra scrive Amos Oz: «Mio zio era un europeo consapevole, in un’epoca in cui nessuno in Europa si sentiva ancora europeo a parte i membri della mia famiglia e altri ebrei come loro. Tutti gli altri erano panslavi, pangermanici, o semplicemente patrioti lituani, bulgari, irlandesi slovacchi. Gli unici europei di tutta l’Europa, negli anni venti e trenta, erano gli ebrei. In Jugoslavia c’erano i serbi i croati e i montenegrini, ma anche lì vive una manciata di jugoslavi smaccati, e persino con Stalin ci sono russi e ucraini e uzbeki e ceceni, ma fra tutti vivono anche dei nostri fratelli, membri del popolo sovietico».

Il mio punto di vista sulla questione mediorientale è sempre stato lontano da quello dei nazionalisti arabi. Avrei mai potuto sposare una visione nutrita di autoritarismo e di fascismo? E oggi potrei forse sposare il punto di vista dell’integralismo religioso che pervade la rabbia dei popoli arabi e purtroppo ha infettato anche il popolo palestinese nonostante la sua tradizione di laicismo? Proprio perché non ho mai creduto nel principio identitario non ho mai provato particolare affezione per l’idea di uno stato palestinese. I palestinesi sono stati costretti all’identificazione nazionale dall’aggressione israeliana che dal 1948 in poi si è manifestata in maniera brutale come espulsione fisica degli abitanti delle città, come cacciata delle famiglie dalle loro abitazioni, come espropriazione delle loro terre, come distruzione della loro cultura e dei loro affetti. «Due popoli due stati» é una formula che sancisce una disfatta culturale ed etica, perché contraddice l’idea – profondamente ebraica – secondo cui non esistono popoli, ma individui che scelgono di associarsi. E soprattutto contraddice il principio secondo cui gli stati non possono essere fondati sull’identità, sul sangue e sulla terra, ma debbono essere fondati sulla costituzione, sulla volontà di una maggioranza mutevole, cioè sulla democrazia.

Pur avendo un interesse intenso per l’intreccio di questioni che la storia ebraica passata e recente pone al pensiero, non ho mai scritto su questo argomento neppure quando l’assedio di Betlemme o il massacro di Jenin o l’orribile violenza simbolica compiuta da Sharon nel settembre del 2000 o i bombardamenti criminali dell’estate 2006 provocavano in me la stessa ribellione e lo stesso orrore che provocavano gli attentati islamici di Gerusalemme o di Netanya o gli omicidi casuali di cittadini israeliani provocati dal lancio di razzi Qassam.

Non ho mai scritto nulla (mi dispiace doverlo dire), perché avevo paura. Come ho paura adesso, non lo nascondo. Paura di essere accusato di una colpa che considero ripugnante – l’antisemitismo. So di poter essere accusato di antisemitismo a causa della convinzione, maturata attraverso la lettura dei testi di Avi Shlaim, e di cento altri studiosi in gran parte ebrei, che il sionismo, discutibile nelle sue scelte originarie, si è evoluto come una mostruosità politica. Pur avendo paura non posso però più tacere dopo aver discusso con lo studente Claude.

Per quanto io sappia che il sionismo va compreso nel contesto della persecuzione di cui gli ebrei sono stati vittime per secoli, non posso ignorare che l’ideologia sionista si è evoluta come nazionalismo colonialista, è causa di infinite ingiustizie e sofferenze per il popolo palestinese, e rischia, nel lungo periodo, di rivelarsi un pericolo mortale per lo stesso popolo ebraico.

La violenza sistematica che lo stato di Israele ha scatenato negli ultimi sessant’anni alimenta la bestia antisemita che sta diventando maggioritaria nel subconscio collettivo. Poiché non si può affermare che il nazionalismo sionista è una politica sbagliata che produce effetti criminali senza essere accusati di antisemitismo, molti non lo dicono, ma non possono impedirsi di pensarlo. Dato che non è possibile affermare a viso aperto che uno stato che si definisce ebraico e discrimina i cittadini sulla base dell’appartenenza religiosa è uno stato integralista, allora molti lo tacciono ma non possono impedirsi di pensarlo.

Aprendo la discussione sulle parole dello studente Claude, ho scoperto che gli altri studenti, italiani e marocchini, romeni e peruviani, che pure nel loro svolgimento avevano trattato la questione secondo gli stilemi politicamente corretti, costretti ad approfondire il ragionamento e a far emergere il loro vero sentimento, finivano per identificare il governo colonialista di Israele con il popolo ebraico e quindi a ripercorrere la strada che conduce verso l’antisemitismo. Considerando criminale e arrogante il comportamento dello stato di Israele, identificandosi spontaneamente con il popolo palestinese vittimizzato, finivano inconsapevolmente per riattivare l’antico riflesso anti-ebraico. Proprio la rimozione e il conformismo che si coltivano nel giorno della memoria stanno producendo nel subconscio collettivo un profondo antisemitismo che non si confessa e non si esprime. Perciò credo che occorra liberarsi della rimozione e denunciare il pericolo che il sionismo aggressivo rappresenta soprattutto per il popolo ebraico.

Si avvicina il 27 gennaio, che sarà anche quest’anno il giorno della memoria. Come potrò parlarne agli studenti della mia scuola? Non c’è più Claude, ma ci sono altri ragazzi africani e arabi e slavi ai quali non potrò parlare dell’immane violenza che colpì il popolo ebraico negli anni Quaranta senza riferirmi all’immane violenza che colpisce oggi il popolo palestinese. Se tacessi questo riferimento apparirei loro un ipocrita, perché sanno quel che sta accadendo. E come potrò tacere le analogie tra l’assedio di Gaza e l’assedio del Ghetto di Varsavia? È vero che gli ebrei uccisi nel ghetto di Varsavia nel 1943 furono 58.000 mentre i morti palestinesi sono per il momento solo poche migliaia. Ma come dice Woody Allen i record sono fatti per essere battuti. La logica che ha preparato la ghettizzazione di Gaza (che un cardinale cattolico ha definito «campo di concentramento») non è forse simile a quella che guidò la ghettizzazione degli ebrei di Varsavia? Non vennero forse gli ebrei di Varsavia costretti ad ammassarsi in uno spazio ristretto che divenne in poco tempo un formicaio? Non venne forse costruito intorno a loro un muro di cinta della lunghezza di 17 chilometri di tre metri di altezza esattamente come quello che Israele ha costruito per rinchiudere i palestinesi? Non venne agli ebrei polacchi impedito di uscire dai valichi che erano controllati da posti di blocco militari?

Per motivare la loro aggressione che uccide quotidianamente centinaia di bambini e di donne, i dirigenti politici israeliani denunciano i missili Qassam che in un decennio hanno causato dieci morti (tanti quanti l’aviazione israeliana uccide in mezz’ora). È vero: è terribile, è inaccettabile che il terrorismo di Hamas colpisca la popolazione civile di Israele. Ma questo giustifica forse lo sterminio di un popolo? Giustifica il terrore indiscriminato, la distruzione di una città? Anche gli ebrei di Varsavia usarono pistole, bombe a mano, bottiglie molotov e perfino un mitra per opporsi agli invasori. Armi del tutto inadeguate, come lo sono i razzi Qassam o i coltelli da cucina. Eppure nessuno può condannare la difesa disperata degli ebrei di Varsavia.

Cosa posso dire, dunque, nel giorno della memoria? Dirò che occorre ricordare tutte le vittime del razzismo, quelle di ieri e quelle di oggi. O questo può valermi l’accusa di antisemitismo?

Se qualcuno vuole accusarmi a questo punto non mi fa più paura. Sono stanco di impedirmi di parlare e quasi perfino di pensare ciò che appare ogni giorno più evidente: che il sionismo aggressivo, oltre ad aver portato la guerra e la morte e la devastazione al popolo palestinese, ha stravolto la stessa memoria ebraica fino al punto che nelle caserme israeliane sono state trovate delle svastiche, e fino al punto che cittadini israeliani bellicisti hanno recentemente insultato cittadini israeliani pacifisti con le parole «con voi Hitler avrebbe dovuto finire il suo lavoro».

Proprio dal punto di vista del popolo ebraico il sionismo aggressivo del gruppo dirigente di Israele è un pericolo mortale. La violenza degli insediamenti, la violenza dell’operazione Piombo Fuso del 2008 e dei bombardamenti su Beirut del 2006 è segno di demenza suicida. Israele ha vinto tutte le guerre dei passati sessant’anni e può vincere anche la prossima guerra contro una popolazione disarmata. Ma la lezione che ne ricavano centinaia di milioni di giovani islamici che assistono ogni sera allo sterminio dei palestinesi fa nascere in loro un odio che oggi si manifesta nelle forme del terrorismo islamista. Israele può sconfiggere militarmente Hamas. Può vincere un’altra guerra come ha vinto quelle del 1948 del 1967 e del 1973. Può vincere due guerre tre guerre dieci guerre. Ma ogni sua vittoria estende il fronte dei disperati, il fronte dei terrorizzati che divengono terroristi perché non hanno alcuna alternativa. Ogni sua vittoria approfondisce il solco che separa il popolo ebraico da un miliardo e mezzo di islamici. E siccome nessuna potenza militare può mantenere in eterno la supremazia della forza, i dirigenti sionisti aggressivi dovrebbero sapere che un giorno o l’altro l’odio accumulato può dotarsi di una forza militare superiore, e può scatenarla senza pietà, come senza pietà da anni si manifesta l’odio israeliano contro la popolazione indifesa di Gaza.

«È davvero paradossale che un Paese che ha tra le maggiori preoccupazioni per la propria tenuta da un lato la fecondità ridotta, dall’altro la presenza crescente di stranieri portatori di culture diverse, getti via, per un calcolo politico di breve periodo, una opportunità per affrontarle entrambe seriamente».

la Repubblica, 25 gennaio 2017 (c.m.c.)

Sacrificati sull’altare di un possibile compromesso sulla legge elettorale e della rincorsa populistica, ancora una volta i bambini e ragazzi figli di migranti nati e cresciuti in Italia devono rinunciare a poter acquisire la cittadinanza italiana senza dover attendere il compimento della maggiore età.

Il progetto di legge già approvato alla Camera oltre un anno fa sembra definitivamente insabbiato al Senato. Rimandato nei lunghi mesi della campagna referendaria, fermo alla Commissione Affari costituzionali per l’opposizione di Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia, nel disinteresse dei Cinquestelle, ora sembra diventato, merce di scambio per l’accordo sulla legge elettorale.

Renzi, che da segretario del Pd e presidente del Consiglio aveva, all’inizio del mandato e prima di entrare nel girone infernale della riforma costituzionale, ne aveva fatto uno dei fiori all’occhiello del suo programma, non solo lo ha lasciato al suo destino, non si oppone (per non pensare il peggio) che venga scambiato per ciò che ora gli sta più a cuore: arrivare alle elezioni il più presto possibile, a costo di rimandare sine die una legge di civiltà. Con grande felicità della Lega, che in questo modo coglie due piccioni con una fava - elezioni subito e contrasto duro ai migranti, inclusi quelli che migranti non sono perché nati e cresciuti qui. Un successo che saranno la Lega e gli altri partiti di destra a sbandierare nelle elezioni prossime-future come difesa dell’italianità rispetto all’odiato straniero.

E l’intero iter legislativo dovrà ricominciare da capo, rendendo inutile il lungo processo di mediazione e i molti compromessi restrittivi che avevano portato alla legge approvata alla Camera. Nel frattempo, i ragazzi nati e cresciuti qui, o arrivati da piccoli e andati a scuola qui, dovranno continuare a vivere da stranieri nel Paese che conoscono meglio, in cui vanno a scuola e di cui parlano la lingua a volte meglio di quella del Paese dei loro genitori. Stranieri in casa propria, verrebbe da dire, in bilico tra due mondi cui per motivi diversi non sono pienamente appartenenti: l’Italia, perché rifiuta di riconoscerli come propri cittadini, il Paese d’origine, perché lo conoscono solo in via mediata.

Esclusi dall’appartenenza, dovranno anche stare attenti a non fare passi falsi nella lunga attesa della maggiore età. Se i genitori, come sta capitando in questi anni di crisi, li mandano temporaneamente a vivere con i nonni nel Paese d’origine, rischieranno di perdere il diritto ad accedere a una corsia privilegiata per ottenere la cittadinanza una volta divenuti maggiorenni. A differenza dei loro coetanei italiani, non potranno partecipare a scambi culturali che prevedono mesi all’estero, perché ciò potrebbe inficiare il requisito della residenza ininterrotta in Italia. Se non in possesso di un documento di identità del Paese d’origine (cosa difficile per i rifugiati, ma anche per molti migranti economici), non potranno recarsi all’estero con la loro classe.

È davvero paradossale che un Paese che ha tra le maggiori preoccupazioni per la propria tenuta da un lato la fecondità ridotta, dall’altro la presenza crescente di stranieri portatori di culture diverse, getti via, per un calcolo politico di breve periodo, una opportunità per affrontarle entrambe seriamente. Deludendo sistematicamente le attese legittime di una giovane generazione di stranieri e dichiarandone implicitamente ed esplicitamente l’irrilevanza, si aliena la fiducia di chi potrebbe concorrere sia agli equilibri demografici, sia alla costruzione di una società più integrata e meno divisa in gruppi non comunicanti.

L’unico modo che hanno il Pd e il suo segretario di smentire i sospetti di un patto scellerato è che tutti i suoi senatori chiedano l’immediata calendarizzazione del provvedimento, assumendosi la responsabilità di argomentarne le buone ragioni anche al proprio interno, verso i propri alleati di governo e verso il proprio elettorato, senza farsi ricattare dalle minacce di Calderoli di seppellirli di emendamenti. Altrimenti, oltre al sospetto di cinismo, si avallerà anche quello che il Pd voglia non già affrontare le questioni che, in assenza di attenzione e risposte credibili, alimentano i populismi, bensì cercare di competere su quel terreno con le stesse armi e argomenti di chi ci sta da anni e ne ha fatto la propria cifra.

La sospensione dei diritti degli stranieri e dei migranti (si pensi al progetto di rivitalizzare i Cie o di ridurre le possibilità di appellarsi a decisioni di rigetto della domanda di asilo) come carta da giocare nella competizione politica. Una scelta suicida, perché il terreno è già occupato da giocatori più esperti e spregiudicati.

«L’identificazione tra cultura umanistica, creatività e mercato nega e soppianta la vera funzione della vera cultura umanistica: che è l’esercizio della critica, la ricerca della verità, la conoscenza della storia».

la Repubblica, 23 gennaio 2017 (c.m.c.)

Insieme agli altri decreti attuativi della cosiddetta Buona scuola, è appena arrivato alla Camera anche quello «sulla promozione della cultura umanistica, sulla valorizzazione del patrimonio e delle produzioni culturali e sul sostegno della creatività».

Per la redazione di questo testo, la ministra senza laurea né maturità Valeria Fedeli si è avvalsa della collaborazione dell’ex ministro, ex rettore, professore emerito e plurilaureato ad honorem Luigi Berlinguer: e il risultato dimostra che il punto critico non è il possesso di un titolo di studio.

Sul piano pratico, la principale obiezione al decreto (che tra 60 giorni sarà legge) è che si tratta di un provvedimento a costo zero (art. 17, comma 1): e dunque anche a probabile efficacia zero. Ma, una volta che se ne considerino i contenuti, c’è da rallegrarsene. L’articolo 1 chiarisce i principi e le finalità del provvedimento: «il sapere artistico è garantito agli alunni e agli studenti come espressione della cultura umanistica… Per assicurare l’acquisizione delle competenze relative alla conoscenza del patrimonio culturale e del valore del Made in Italy, le istituzioni scolastiche sostengono lo sviluppo della creatività».
Cultura umanistica, creatività e Made in Italy (in inglese) sarebbero dunque sinonimi: per conoscere il patrimonio culturale, la Ferrari e il parmigiano (tutto sullo stesso piano) bisogna essere creativi.

Si stenterebbe a credere alla consacrazione scolastica di questo “modello Briatore” se la relazione illustrativa del decreto non fosse ancora più chiara: «Occorre rafforzare… il fare arte, anche quale strumento di coesione e di aggregazione studentesca, che possa contribuire alla scoperta delle radici culturali italiane e del Made in Italy, e alla individuazione delle eccellenze già a partire dalla prima infanzia». Insomma: fin da bambini bisogna saper riconoscere (e, inevitabilmente, desiderare) una giacca di Armani o una Maserati. E visto che si raccomanda «la pratica della scrittura creativa», la via maestra sarebbe fare il copywriter per gli spot, o scrivere concept per reality show, per rimanere alla lingua elettiva del Miur.

Ora, anche ammesso che tra la nostra storia dell’arte e il «Made in Italy» esista un rapporto genetico, ciò non si traduce in un’equivalenza culturale, e tantomeno in un orizzonte formativo. E non è solo un problema di confusione concettuale: la domanda più urgente riguarda il tipo di società prefigurata da questa idea di scuola. Una società in cui non si riesca nemmeno più a distinguere la conoscenza critica dall’intrattenimento, l’essere cittadino dall’essere cliente, il valore delle persone e dei princìpi dal valore delle «eccellenze» commerciali.

Una società dello spettacolo a tempo pieno, un enorme reality popolato da «creativi» prigionieri di un eterno presente, senza passato e senza futuro. Già, perché la creatività ha preso il posto della storia dell’arte, che continua a non essere reintrodotta tra le materie curricolari da cui la Gelmini l’aveva espulsa in vari ordini di scuole.Più in generale, l’identificazione tra cultura umanistica, creatività e mercato nega e soppianta la vera funzione della vera cultura umanistica: che è l’esercizio della critica, la ricerca della verità, la conoscenza della storia.

«Il fine delle discipline umanistiche sembra essere qualcosa come la saggezza», scrisse Erwin Panofsky nel 1944. Negli stessi mesi Marc Bloch scriveva, nell’Apologia della storia: «nella nostra epoca, più che mai esposta alle tossine della menzogna e della falsa diceria, che vergogna che il metodo critico della storia non figuri sia pure nel più piccolo cantuccio dei programmi d’insegnamento! ». Di fronte al nazismo e all’Olocausto la cultura umanistica sembrava ancora più necessaria: Bloch — fucilato dalla Gestapo perché membro della Resistenza — la definisce «una nuova via verso il vero e, perciò, verso il giusto».

È su questo fondamento che, nel dopoguerra, sono state ricostruite le democrazie europee. È per questo che la nostra Costituzione impone alla Repubblica di promuovere «lo sviluppo della cultura e la ricerca». La necessaria scommessa di un umanesimo di massa è infatti quella di riuscire a praticare tutti, anche se in dosi omeopatiche, le qualità della ricerca: precisione, desiderio di conoscere e diffondere la verità, onestà intellettuale, apertura mentale. Per secoli si è creduto, a ragione, che queste virtù non servissero solo a sapere più cose, ma anche a diventare più umani: e che dunque non servissero solo agli umanisti, ma a tutti. E oggi sono il presupposto necessario perché le democrazie abbiano un futuro.

Essere umani — ha scritto David Foster Wallace nel 2005 — «richiede attenzione, consapevolezza, disciplina, impegno e la capacità di tenere davvero agli altri... Questa è la vera libertà. Questo è imparare a pensare. L’alternativa è l’inconsapevolezza, la modalità predefinita, la corsa sfrenata al successo». Formare gli italiani del futuro al marketing del «Made in Italy»; indurli a coltivare la scrittura creativa e non la lettura critica di un testo; levar loro di mano i mezzi culturali per distinguere la verità dallo storytelling, o per smontare le bufale che galleggiano in Internet; annegare la conoscenza storica in un mare di dolciastra retorica della bellezza: tutto questo significa scommettere proprio sull’inconsapevolezza, sulla modalità predefinita, sulla corsa sfrenata al successo.

La cultura umanistica è un’altra cosa: è la capacità di elaborare una critica del presente, di avere una visione del futuro e di forgiarsi gli strumenti per costruirlo. Siamo sicuri di non averne più bisogno?

«Non facciamoci confondere dal gioco linguistico di Giovanardi che lo etichettò come tossicodipendente, anoressico… Un gioco per allontanarlo da tutti noi. Per farci pensare che a noi e alla gente che frequentiamo non succedono quelle cose lì».

comune info newsletter 20 gennaio 2017

Stefano Cucchi viveva nella mia borgata, quella dove sono nato e vivo ancora. È stato arrestato all’Appio Claudio dove porto i bambini a fare i giri in bicicletta, nel quartiere dove è cresciuto mio padre, dove c’è il mercato coperto e una vecchia che vendeva la frutta strillava “mandarini!” con una voce che sembrava uscire da un enorme imbuto di ferro. Ma pure la pizza bianca c’era, quella rossa e quella con la mortadella. Io volevo quella con la mortadella da ragazzino.

“Quando si muore si muore soli” cantava De André mezzo secolo fa. E Stefano è morto solo. Se accanto a lui c’era qualcuno è molto probabile che non l’abbia aiutato. Almeno non l’ha aiutato a vivere.

Lo so che non conta molto che io e Stefano ci siamo incontrati al bar e ignorati ognuno davanti al proprio caffè, che abbiamo comprato il pane allo stesso banco del mercato coperto o abbiamo attraversato la stessa strada nella stessa giornata. Lo so e tantomeno conta pensare che oggi avremmo quasi la stessa età. Ma prendetelo come un gioco. Invece di allontanarle da noi, cerchiamo di avvicinarcele queste storie. Cominciamo a pensare che al posto di Stefano potevo starci io. Io al posto di Aldo Bianzino e mio figlio al posto di Federico Aldrovandi. Io al posto di Giuseppe Uva e mio padre al posto di Michele Ferulli. Eccetera. Non facciamoci confondere dal gioco linguistico di Giovanardi che lo etichettò come tossicodipendente, anoressico… Un gioco per allontanarlo da tutti noi. Per farci pensare che a noi e alla gente che frequentiamo non succedono quelle cose lì. E che, forse, quella gente se le va a cercare certe rogne.

No. Un esercizio di civiltà è sentirsi come lui. Pensarsi dove lui passava le giornate. Lui e tutti gli altri che vengono raccontati come “strani”, “diversi”, “mostri”. Anche io mi ci sento un po’ strano e pure diverso. Ma poi ho tutta una vita da condividere con gli altri e non ce la faccio a pensare che la morte di Stefano riguardi solo lui. Questo è un gioco sporco che facevano i nazisti quando chiamavano “pezzi” gli internati nei campi. Lo hanno fatto gli hutu che in Rwanda hanno massacrato un milione di tutsi: li chiamavano scarafaggi. Non sarebbero stati in grado di uccidere un milione di persone come loro, ma pensarli come un milione di scarafaggi li ha aiutati!

Qui ci sarebbe da aprire un discorso complicato: come è possibile che degli esseri umani come Stefano, come me, come tutti noi lo abbiano abbandonato e fatto morire? Dentro questo discorso ci dovremmo mettere i processi, la disciplina e le regole (scritte e non scritte) delle persone in divisa e degli uomini che prendono decisioni importanti nei tribunali, l’antropologia… Un discorso troppo complicato per me e forse anche per un blog che dopodomani non leggerà più nessuno.

Ma un fiammifero per Stefano vorrei accenderlo, una proposta. A partire dalla sua storia (e dalla titanica lotta della sorella Ilaria) facciamo lo sforzo di pensarci accanto a lui e a loro. Lungo la stessa strada, con le stesse possibilità, la stessa gioia e gli stessi errori. Nello stesso destino.

«Un’anticipazione dal volume

Tre lezioni sull’uomo (Ponte alle Grazie). Da David Hume a Galileo, un volume che raccoglie le ultime riflessioni del linguista statunitense. La facile acquisizione dei neonati umani della "rigogliosa e ronzante confusione!" delle parole». il manifesto, 17 gennaio 2017
Esistono ragioni ancor più essenziali per cercare di determinare con chiarezza che cos’è il linguaggio, ragioni direttamente collegate alla questione di che genere di creature siamo. Charles Darwin non fu il primo a pervenire alla conclusione che «gli animali inferiori differiscono dall’uomo solo per il potere infinitamente maggiore che l’uomo ha di associare i suoni alle idee più diverse»; «infinitamente» è un’espressione tradizionale che oggi va interpretata alla lettera. Tuttavia Darwin fu il primo a esprimere questo concetto tradizionale nel quadro di un incipiente racconto dell’evoluzione umana.

Ian Tattersall, uno dei maggiori specialisti dell’evoluzione umana, ne ha fornito una versione contemporanea. In una recente rassegna delle prove scientifiche di cui disponiamo attualmente, Tattersall osserva che un tempo si credeva che l’evoluzione avesse prodotto «i primi precursori del nostro io successivo. La realtà però è un’altra: l’acquisizione della singolare sensibilità moderna è avvenuta all’improvviso e molto di recente. L’espressione di questa nuova sensibilità è stata quasi certamente favorita dalla cruciale invenzione di quella che è la caratteristica più notevole del nostro io moderno: il linguaggio».

Se le cose stanno così, allora una risposta all’interrogativo «che cos’è il linguaggio?» è importantissima per chiunque sia interessato alla comprensione del nostro io moderno.

Tattersall colloca quell’evento brusco e repentino in un ristrettissimo arco temporale probabilmente compreso tra 50.000 e 100.000 anni fa. Le date esatte non sono chiare, e non sono rilevanti per quello che ci interessa in questa sede, tuttavia lo è la repentinità della comparsa.

Se l’ipotesi di Tattersall è sostanzialmente precisa, come indicano le prove empiriche assai limitate di cui disponiamo, in quel breve arco di tempo comparve la capacità infinita di «associare i suoni alle idee più diverse», secondo le parole di Darwin.

Questa capacità infinita risiede evidentemente in un cervello finito. La nozione di sistemi finiti dotati di capacità infinita è stata intesa appieno a metà del Novecento, il che ha reso possibile formulare con chiarezza quella che secondo me dovrebbe essere riconosciuta come la proprietà più fondamentale del linguaggio, che chiamerò semplicemente «Proprietà fondamentale»: ogni lingua offre una serie illimitata di espressioni strutturate in maniera gerarchica le cui interpretazioni danno luogo a due interfacce, sensomotoria per l’espressione e concettuale-intenzionale per i processi mentali. Ciò consente una concreta formulazione dell’infinita capacità di Darwin o, risalendo molto più indietro, della classica affermazione di Aristotele secondo cui il linguaggio è suono dotato di senso, anche se le ricerche recenti mostrano che «suono» è troppo limitato.

Allorché, sessant’anni fa, si fecero i primissimi tentativi di costruzione di esplicite grammatiche generative, si scoprirono molti fenomeni sconcertanti che non erano stati osservati finché non si era formulata e affrontata in maniera chiara la «Proprietà fondamentale» e la sintassi era ancora considerata l’«uso delle parole» determinato dalla convenzione e dall’analogia. (…)

Uno degli enigmi relativi al linguaggio che venne alla luce sessant’anni fa e resta vivo ancora oggi, secondo me assai significativo nella sua portata, ha a che fare con un dato semplice ma curioso. Prendiamo la frase «istintivamente le aquile che volano nuotano». L’avverbio «istintivamente» è associato a un verbo, che è però nuotano, non volano. L’idea che le aquile che istintivamente volano nuotino non pone alcun problema, tuttavia non si può esprimere in questo modo. Analogamente la domanda «possono nuotare le aquile che volano?» riguarda la capacità di nuotare, non quella di volare.

La cosa sconcertante è che l’associazione degli elementi iniziali della proposizione, «istintivamente » o «possono», al verbo avviene a distanza ed è basata su proprietà strutturali; non avviene dunque per prossimità né è basata su proprietà lineari, operazione computazionale molto più semplice che sarebbe ottimale nell’elaborazione del linguaggio. Quest’ultimo fa uso di una proprietà di minima distanza strutturale, non adoperando mai la ben più semplice operazione della minima distanza lineare; in questo e in numerosi altri casi, nell’architettura del linguaggio si ignora la facilità di elaborazione.

In termini tecnici, le regole sono invariabilmente dipendenti dalla struttura e ignorano l’ordine lineare. L’enigma sta nel perché deve essere così, non solo in inglese ma in ogni lingua, e non soltanto per le costruzioni come quelle del nostro esempio ma anche per tutte le altre, in una vasta gamma.

Esiste una spiegazione tanto semplice quanto plausibile riguardo al fatto che in casi come questo il bambino conosce automaticamente la risposta giusta, anche se le prove sono scarse o inesistenti; l’ordine lineare semplicemente non esiste per chi apprende una lingua ed è messo di fronte a esempi del genere: questi è guidato da un principio fondamentale che ne restringe la ricerca alla minima distanza strutturale e gli impedisce la ben più semplice operazione della minima distanza lineare. Non conosco altre spiegazioni. E naturalmente questa ipotesi esige ulteriori spiegazioni: perché è così? Cos’ha di speciale il carattere geneticamente determinato del linguaggio che impone questa particolare condizione?

Il principio della distanza minima è largamente impiegato nell’architettura del linguaggio e si può supporre che si inscriva in un principio più generale, che chiameremo «Computazione minima», il quale a sua volta è presumibilmente un esempio di una ben più generale proprietà del mondo organico, o persino del mondo nella sua totalità. Deve comunque esistere una proprietà speciale dell’architettura del linguaggio che limita la «Computazione minima» alla distanza strutturale, invece che a quella lineare, malgrado la maggiore semplicità di quest’ultima nella computazione e nell’elaborazione.

Secondo una tesi più generale, in quelle zone essenziali del linguaggio in cui si applicano la sintassi e la semantica, l’ordine lineare non è mai tenuto in conto dalla computazione. Pertanto l’ordine lineare è una dimensione periferica del linguaggio, un riflesso delle proprietà del sistema sensomotorio, che lo richiede: non siamo in grado di parlare in parallelo o di produrre strutture, ma soltanto sequenze di parole. Nei suoi aspetti fondamentali, il sistema sensomotorio non è specificamente adattato al linguaggio: sembra che le componenti essenziali per l’espressione e la percezione fossero presenti già molto prima della comparsa del linguaggio.

È provato che il sistema uditivo degli scimpanzé potrebbe essere discretamente adatto al linguaggio umano, malgrado le scimmie non possano compiere nemmeno il primo passo verso l’acquisizione del linguaggio, estraendo dati relativi al linguaggio dalla «rigogliosa e ronzante confusione» che le circonda, mentre i neonati umani lo fanno di colpo, automaticamente, impresa tutt’altro che da poco. E anche se pare che la capacità di controllare il tratto vocale per parlare sia specifica degli esseri umani, non si può dare troppo peso a questa circostanza, dal momento che la produzione del linguaggio umano è indipendente dalle modalità in cui avviene, come hanno stabilito le recenti ricerche sulla lingua dei segni, e sono pochi i motivi per dubitare che le scimmie dispongano di adeguate capacità gestuali. È dunque evidente che nell’acquisizione e nell’architettura del linguaggio entrano in gioco proprietà cognitive assai più profonde.

Benchè la questione non sia risolta non sia risolta, prove considerevoli indicano che la tesi più generale è di fatto corretta: l’architettura fondamentale del linguaggio ignora l’ordine e altre disposizioni esterne. In particolare, nei casi essenziali l’interpretazione semantica dipende dalla gerarchia, non dall’ordine che si rinviene nelle forme espresse. Se le cose stanno così, la «Proprietà fondamentale» non è esattamente come l’ho formulata prima, né come è formulata nella produzione scientifica recente, compresi i miei articoli. Piuttosto, la «Proprietà fondamentale» è la generazione di una serie illimitata di espressioni gerarchicamente strutturate che corrispondono all’interfaccia concettuale-intenzionale, che costituiscono una sorta di «linguaggio del pensiero», molto probabilmente unico nel suo genere.

Molto interesse, nei giornali di oggi, per la scuola. Ma i

columnist più gettonati, e i giornali più letti, aiutano a scendere sempre più in basso. Articoli di Ernesto Galli della Loggia, Gian Antonio Stella, Francesca Barbieri. Corriere della Sera, Il Sole 24 Ore, 16 gennaio 2016, con postilla

Corriere della Sera
LA GRANDE CRISI DELLA SCUOLA
di Ernesto Galli della Loggia

Quali sono le ragioni profonde della crisi radicale che in Italia ha colpito l’istruzione, la sua organizzazione e si direbbe la stessa dimensione educativa? Le opinioni differiscono parecchio ma per capire davvero credo sia necessario fare ciò che solitamente non si fa: riprendere il discorso dall’inizio, riandare alla storia.

La scuola che noi conosciamo, la scuola pubblica (una qualifica, va sottolineato, che significa non solo aperta a tutti, ma anche volta a un fine collettivo, a un interesse pubblico, appunto) non nasce da una decisione di tipo culturale o educativo. Nasce da una decisione politica. Quando cioè nel corso del XIX secolo, per sottrarre la formazione dei giovani all’egemonia fin lì esercitata dalla religione e in particolare dalla Chiesa cattolica, le élite politiche protagoniste delle rivoluzioni liberali decisero che doveva essere il loro nuovo Stato in prima persona, e attraverso un proprio personale, ad occuparsi dell’istruzione.

Allo scopo precipuo non già di assicurare la trasmissione e la diffusione del sapere (c’era anche questo ovviamente, ma non era l’essenziale), bensì di formare i cittadini dei tempi nuovi. Di formare le loro coscienze e con esse quindi lo spirito pubblico del Paese: promuovendo un minimo di autonomia individuale per tutti con l’insegnare a leggere, scrivere e far di conto; e per i giovani della futura classe dirigente avvalendosi dello strumento reputato il più adatto a inculcare i valori della «civiltà moderna» che quelle élite intendevano rappresentare.

Vale a dire un’educazione di tipo laico-umanistico con fortissime radici nella classicità, sia pure allargata a un consistente nucleo di sapere scientifico. Da questa decisione tutta politica è nata la nostra scuola: non a caso, sono i Paesi di tradizione cattolica quelli dove ancora oggi si registra la statalizzazione più piena e ideologicamente convinta di tutti i gradi dell’istruzione.

È superfluo chiedersi se tutto ciò sia stato un bene o un male. Le cose non potevano che andare così. È assai più importante, credo, essere consapevoli che nella specifica realtà storica dell’Italia otto-novecentesca quella scelta si è mostrata quanto mai pagante. Sul medio-lungo periodo, infatti, essa è servita a formare una coscienza dell’identità nazionale sufficientemente ampia, a dare vita a una classe dirigente più o meno culturalmente omogenea, nonché a costituire un ethos dell’appartenenza statale e dei suoi obblighi capace di mettere qualche radice. Ma non solo, se si pensa che un Paese inizialmente sommerso dall’analfabetismo e dalla povertà delle attrezzature, quale era il nostro, riuscì in un secolo a raggiungere traguardi non proprio spregevoli anche da un punto di vista strettamente culturale e nell’ambito della ricerca scientifica.

Tutto ciò, ripeto - dalla nascita dello Stato italiano fino a un dipresso al 1960 - è accaduto per l’impulso e sotto la direzione della politica. Rappresentata istituzionalmente da un ministro con il pieno potere di decidere l’articolazione dei vari ordini di studio e, salvo che per l’università, di stabilirne i programmi; di fissare i requisiti necessari per potervi insegnare nonché di organizzare le modalità per accertare i medesimi requisiti; dotato infine del potere disciplinare e di controllo su tutto l’insieme attraverso la rete dei provveditorati a lui facenti capo. Se qualcuno pensa che tale ministro fosse una specie di khan tartaro, sbaglia. Nell’età liberale e poi nella democrazia repubblicana è stato semplicemente un ministro che come tutti i ministri traeva il proprio potere da una maggioranza elettorale e rispondeva politicamente al Parlamento di ciò che faceva.

È questo edificio che ha iniziato a sbriciolarsi negli anni Sessanta-Settanta per poi scomparire del tutto nel nuovo millennio. In ragione di una causa semplice e insieme complessissima: l’irruzione nel nostro Paese della democrazia di massa. Destinata in questo caso a prendere due forme. Da un lato l’esplosione di un fortissimo investimento collettivo, tanto ideologico che simbolico, sull’ambito dell’istruzione: con l’erompere di un esteso e profondo desiderio di ascesa sociale (vedi l’impennata delle iscrizioni scolastiche o «le 150 ore»), con il sogno egualitario che sempre è alimentato dalla democrazia (vedi parole d’ordine come il «6 politico», il no alla «selezione» o alla «scuola di classe» ecc.), infine con le aule divenute culla di una fraternità giovanile potenzialmente ostile a ogni autorità, vogliosa di essere «libera» e di «contare».

Dall’altro lato, l’irrompente democrazia di massa prese la forma di un’inedita mobilitazione politica di larghi settori di ceto medio, nel nostro caso i docenti della scuola pubblica. Dei quali la parte migliore (e minore) si mosse alla ricerca di un riconoscimento di ruolo e di gratificazioni professionali nuove in armonia con i dettami culturali dei tempi; la parte maggiore, invece, conscia dei possibili vantaggi offerti dalla situazione creatasi, si limitò a essere supinamente consenziente. Tutti furono in realtà lo strumento del solo potere che da lì in poi avrebbe dominato la scuola italiana: il sindacato.

A partire comunque dalla metà dei Sessanta, in ognuno di questi modi la scuola e l’istruzione divennero per anni e anni il luogo del più aspro e violento conflitto sociale, perfino la palestra per ambigui esercizi di sapore eversivo. Per la politica dunque un terreno minato: di cui essa cominciò ad avere paura, sempre più paura. L’incubo di ogni governo, e in specie di ogni ministro con sede a viale Trastevere, divenne quello di avere scuole e università occupate e studenti e professori in piazza: con esiti sempre incerti e spesso drammatici. Unico risultato per lui certo l’impopolarità.

Fu così che alla lunga cominciò a profilarsi la svolta. La politica decise che era meglio sgomberare il campo. Nella grande crisi della politica che a partire dagli anni Ottanta ha annunciato e poi accompagnato massicciamente la globalizzazione - con la conseguente ritirata della politica stessa e dello Stato dalla società - l’istruzione è stata la prima trincea ad essere abbandonata. La prima non a caso. L’abbandono segnalava che stavano ormai venendo meno partiti e culture politiche nutrite di idee e di valori forti. In grado di esprimere in qualche modo un progetto complessivo di società, di credere realmente in un tale progetto, e su tale base addirittura di assumersi il compito di trasfonderne il senso nella formazione delle nuove generazioni, dirigendo contenuti e modi di questa attraverso la scuola. Tutto ciò doveva ormai essere considerato impossibile.

Specialmente in Italia, dove in quel fine secolo gli attori politici e la sfera stessa della politica erano sottoposti a un massiccio processo di delegittimazione che si sarebbe sempre più accentuato. E dove gli effetti dell’avanzata della modernità - quella modernità capace per sua natura di «sciogliere tutto ciò che è solido», secondo la profezia di Marx - erano resi ancor più dirompenti dal non trovare alcun ostacolo in una società dall’antico carattere «gelatinoso», priva di una radicata tradizione cultural-nazionale sul modello francese della quale le istituzioni si considerassero tutrici.

Priva di qualunque fiducia non solo nelle proprie capacità direttive, ma anche nel senso storico che poteva ancora avere una tale direzione, la politica italiana da allora in poi ha abbandonato dunque la scuola. Lo ha fatto consegnandone velocemente e progressivamente tutti gli spazi a due «dispositivi», che poi non erano che altrettanti feticci della modernità: la «tecnica» e l’«autonomia».

La tecnica nelle sue più varie forme e accezioni: dal vastissimo campionario delle prescrizioni circa le modalità presunte «scientifiche» d’insegnamento e di accertamento dei risultati degli studenti, alle procedure di reclutamento e di selezione del personale sempre più dominate dall’impersonalità efficientistica del questionario, del test, ovvero da sistemi preformati di autovalutazione, per finire con la panoplia di strumentazione telematica (lavagne elettroniche, computer, e quant’altro) somministrata in dosi tanto massicce quanto dagli esiti didatticamente e culturalmente quasi sempre nulli.

Dall’altro canto l’autonomia: da quella degli insegnanti a quella degli istituti. La quale autonomia, al di là delle virtuose chiacchiere democratiche, in realtà ha corrisposto a null’altro che al desiderio da parte del centro politico-ministeriale di spogliarsi - complice il più sciagurato dei regionalismi - di ogni responsabilità, in certa misura perfino finanziaria, riguardo l’intero insieme dell’istruzione. Che così ne è uscito inevitabilmente frantumato, segmentato per linee di divisione geografica e sociale nonché di capacità economiche, drammaticamente diviso tra Nord e Sud, in balia delle più casuali e incontrollate capacità (o incapacità) di questo o di quello. Privata della bussola di una direzione politica unitaria la nostra scuola si presenta oggi, così, come una mirabile accozzaglia di progetti, iniziative, corsi, attività, offerte formative che con i più vari obiettivi spaziano sui più vari ambiti.

A logico completamento del tutto, la sostanziale abdicazione della politica pure in merito alla stesura dei programmi, lasciati da tempo alla pressoché unica responsabilità «tecnica» di un manipolo di «esperti», assertori ovviamente del carattere esclusivamente «scientifico» delle proprie scelte. Le quali, inutile dirlo, neutrali però non lo sono per niente. In realtà, infatti, il nucleo delle materie non scientifiche che oggi si insegnano nelle nostre scuole è stato radicalmente depurato di qualsivoglia narrazione connessa non dico a una «tradizione», ma assai spesso neppure a un canone o a un percorso di tipo «nazionale» e caso mai «occidentale».

Così come è stata cancellata da quei programmi ogni potenziale valenza eticamente o spiritualmente formativa che non sia ispirata al politicamente corretto dominante e al più vacuo cosmopolitismo. Dovunque, poi, una ingenua tendenza a formalizzare secondo stereotipi dal sapore strutturalista, e l’allusione velleitariamente colta. Questo è l’orientamento prevalente della scuola italiana attuale, ormai interamente nelle mani degli «esperti». I tentativi in direzione timidamente contraria osati da qualche ministro della Destra ha costituito una minuscola eccezione: che ha confermato la regola ma non ha cambiato realmente nulla.

Alla fine, la cancellazione dell’aggettivo «pubblica» apposto al sostantivo «istruzione» - che fino a qualche tempo fa, ma ora non più, caratterizzava la denominazione ufficiale del dicastero preposto per l’appunto a quell’ambito - si rivela l’adeguata esplicitazione lessicale del congedo della politica dall’istruzione stessa.

È in tale congedo che sta il cuore autentico della crisi della scuola italiana (simile ma non eguale a quella di molti altri sistemi scolastici dell’area euro-occidentale). Esso ha voluto dire la perdita di qualsiasi orizzonte generale, la rinuncia a rendere l’istruzione il momento centrale della riproduzione sociale in senso alto, al tentativo - si può immaginare quanto temerario: ma forse proprio per questo degno di essere perseguito - di fare di essa la matrice del carattere e della personalità.

La scuola attuale, invece, è sempre più giudicata insignificante a cominciare dai suoi stessi alunni e dai loro genitori, perché essa per prima, illudendosi di guadagnarne chissà quale libertà, ha rinunciato al suo massimo significato, ha accettato il proprio declassamento a una dimensione puramente tecnico-operativa, quando va bene a dispensatrice di saperi anziché di cultura. Ha acconsentito, sta acconsentendo, alla tendenziale sostituzione di un docente con un computer.

Mentre ormai, quasi come in un fatale gioco di specchi, la politica partecipa pur essa a questo inabissamento nel negativo: con il vicepresidente del Senato e presidente del Consiglio in pectore in caso di vittoria grillina, l’onorevole Di Maio, il quale, riferiscono le cronache, tra uno «spiano» e uno «spiassero» si affanna a indovinare come diavolo faccia la terza persona plurale del congiuntivo presente del verbo «spiare», ma non ci riesce nemmeno al terzo tentativo

Corriere della Sera
UN ALUNNO SU DUE CAMBIA PROF DI SOSTEGNO
di Gian Antonio Stella

Vengono prima i diritti degli alunni disabili o gli interessi dei docenti fuori piazza? Domanda ustionante. Ma va fatta: è accettabile che il 43% degli scolari più fragili sia scosso dal trasloco dell’insegnante di «sostegno»? Che i quindici bimbi autistici o down d’una scuola d’infanzia laziale vedano ruotare in tre mesi 27 supplenti? O che 18 su 18 dei maestri e professori «specializzati» nominati in un altro istituto «diano buca» obbligando il dirigente a prendere supplenti magari volenterosi ma ignari della materia?

Il nuovo dossier di Tuttoscuola.com da oggi online è ancora più duro di quello sulla folle giostra di docenti anticipato dal Corriere la settimana scorsa. Perché quel tourbillon destabilizzante di oltre 250 mila insegnanti (il triplo del solito) per due milioni e mezzo di bimbi, adolescenti e ragazzi colpiti da qualche sostituzione, era perfino meno grave, pare impossibile, di quanto è denunciato nell’ultimo rapporto. Che parla di «tsunami».

Dicono i numeri, elaborati dalla rivista di Giovanni Vinciguerra, che nelle scuole italiane di ogni ordine e grado ci sono oggi 233 mila alunni disabili che sulla carta possono contare, tra stabili (96.480) e in deroga (41.021: una enormità che andrebbe sanata), su 137.501 docenti di sostegno che costano oltre 5 miliardi l’anno di soli stipendi.

Un investimento vitale. Per capirci: sono più numerosi dei carabinieri e il doppio dei medici. Bene: 60 mila di quei docenti negli ultimi tre mesi hanno cambiato posto e in automatico oltre 100 mila di quei 233 mila alunni, con effetti spesso traumatici, hanno perso il loro punto di riferimento.

Potrebbero essere, quei docenti, il fiore all’occhiello della nostra scuola, che spesso arranca in ritardo sugli altri ma in questo caso fu tra le prime al mondo a capire, nel ‘77 quando le «differenziali» furono abolite, l’importanza dell’integrazione. Potrebbero, se troppo spesso il «sostegno» non fosse visto come uno dei comparti del «postificio» scolastico. Delegato a erogare buste-paga (sia pur modeste e precarie) più che a crescere i cittadini di domani.

Lo conferma una tabella del dossier Tuttoscuola. Dove si spiega che gli alunni con disabilità al Mezzogiorno sono 89.412 contro i 96.163 del Nord ma possono contare su oltre 11 mila docenti di sostegno in più. Ed è già una ripartizione più equilibrata di un tempo, quando nel Mezzogiorno era concentrata, come nel 2007, quasi la metà (il 47%) di tutto il personale di sostegno. Contro una quota di disabili otto punti più bassa. Per carità, quello squilibrio va anche a supplire altre carenze. Però...

Certo è che l’equivoco sul senso del «sostegno», ha pesato in modo esorbitante anche questa volta. Ricorda infatti il dossier che, come sanno tutti i genitori toccati dall’handicap, «i danni della discontinuità didattica sono elevati all’ennesima potenza per gli alunni con disabilità: se l’interruzione della relazione con il docente è in generale negativa, per un alunno disabile, che ha un grado di dipendenza dal docente molto maggiore (specie nel caso di disabilità intellettiva), può essere devastante. Anche perché, nel suo caso, è molto più complesso e lungo stabilire la relazione educativa con l’insegnante a lui dedicato, che richiede una reciproca conoscenza e competenze specifiche del docente, e quindi più deleterio interromperla». Quando arriverà un nuovo docente, «spesso dopo un periodo in cui l’alunno con disabilità è rimasto senza una figura di riferimento, tutto dovrà necessariamente ripartire dall’inizio. Incontro, attese, emozioni, aspettative, paura, rischio di abbandono...».

Può essere un calvario, sferza il dossier, «trovare il supplente annuale da nominare, in una sequenza di supplenti temporanei che si avvicendano, a volte per mesi, in attesa dell’arrivo dell’“avente diritto”, come lo definisce l’ineffabile terminologia burocratica (che non si sofferma sul vero “avente diritto”, la persona disabile che ha il diritto di studiare nelle migliori condizioni possibili». Qui è la differenza, sottolineava l’altra sera a «Zapping» Sergio Govi, già dirigente scolastico ed esperto di problematiche educative: «Mentre maestri e professori hanno (legittimi) “interessi” da difendere, gli studenti hanno “diritto” a una scuola migliore». E il conflitto tra questi «legittimi interessi» di chi insegna e i diritti di chi studia pesa. Come un macigno.

Tanto più se la giostra di docenti riguarda, accusa il rapporto, i disabili: «Per capire gli effetti di questa girandola diabolica, occorre tenere presente che i docenti di sostegno che aspirano a una supplenza sono iscritti sia in una graduatoria provinciale (per le supplenze annuali) sia in diverse graduatorie di istituto (per le supplenze brevi). Un docente nominato su supplenza d’istituto può essere chiamato altrove per supplenza annuale; il supplente che lo sostituisce può essere chiamato a sua volta per supplenza annuale in un altro istituto, e così via, in un gioco dei quattro cantoni che a volte dura due o tre mesi prima di stabilizzarsi. Ma al peggio non c’è mai fine: la ricerca del docente di sostegno supplente che avrà il posto fino alla fine dell’anno scolastico, che può durare mesi, ha sempre esito positivo? Purtroppo no: e allora, sembra un paradosso, l’alunno disabile viene affidato a un docente non specializzato». Cosa piuttosto frequente.

Basti ricordare, appunto, i due casi citati. Il primo lo racconta Manuela Scandurra, dirigente scolastica della scuola «Karol Wojtyla» di Palestrina, e riguarda alunni fra i tre e i sei anni: nell’infernale girotondo «i miei 15 bambini con disabilità (parliamo di disabilità motorie, intellettive, sindrome di Down, sindromi autistiche di diverso grado) tornati in classe dopo le vacanze estive, hanno visto in pochi mesi 27 volti nuovi, senza contare i nove docenti di sostegno dell’anno scorso, per i bambini che erano già nella nostra scuola». Totale: trentasei docenti in pochi mesi.

Antonella Arnaboldi, dirigente dell’Istituto «San Nilo» di Zagarolo, conferma: «Quest’anno abbiamo nominato 18 docenti di sostegno attraverso la “chiamata diretta” ma nessuno di loro ha lavorato con continuità perché hanno ottenuto tutti e 18 l’assegnazione provvisoria nella loro provincia». Tutti. «Siamo dovuti ricorrere a supplenti senza specializzazione nel sostegno». Evviva la «continuità didattica»… Ma l’anno prossimo, almeno, andrà meglio? No, risponde lo studio. Salvo miracoli no.

Il Sole 24 Ore
SCUOLA-LAVORO, AUMENTA LA DISTANZA
Francesca Barbieri

Oltre 400mila giovani «overeducated»: sono il 18% dei diplomati e il 26% dei laureati

Due record negativi che fanno un paradosso. Da un lato, siamo fanalino di coda in Europa per numero di laureati: solo il 25,3% degli italiani fra i 30 e i 34 anni, secondo Eurostat, ha un titolo accademico in tasca, rispetto alla media del 38 per cento. Dall’altro, i pochi che riescono a raggiungere il traguardo faticano a trovare un lavoro o lo ottengono non in linea con il proprio curriculum: appena il 53,9% è occupato a tre anni dal titolo (rispetto all’82% della Ue) e i laureati rappresentano la fetta maggiore dei giovani “overeducated”, quelli cioè troppo istruiti rispetto alle competenze necessarie per svolgere le mansioni assegnate.

Dal report realizzato dal centro studi Datagiovani per Il Sole 24 Ore risulta che i “sovraistruiti”, almeno nei primi anni successivi al conseguimento del titolo, sono più di 400mila su una platea di 1,8 milioni di lavoratori, considerando 1,1 milioni di laureati tra i 25 e i 34 anni e 700mila diplomati tra i 20 e i 24. Tra i primi si riscontra la maggior diffusione della “overeducation”, con un lavoratore su quattro in questa condizione (per un totale di quasi 300mila giovani), mentre si scende abbondantemente al di sotto del 20% per i diplomati (117mila).

Dai numeri emerge che il legame con la crisi economica è stretto: il tasso di disoccupazione è salito per i diplomati dal 17,9% del 2008 al 29,8% del 2016 e per i laureati dal 9,4% al 14,1 per cento.
Per gli occupati l’iperqualificazione è passata dal 13,9% al 17,6% per i diplomati e dal 23,7 al 25,6% per i laureati: un fenomeno più frequente al Nord, dove si concentrano le maggiori chance di lavoro e dove dunque si hanno più possibilità di “adattarsi”, per scelta o necessità, a lavori non allineati al proprio bagaglio di conoscenza.

E a livello di genere si registra una maggior quota di “overeducated” maschi tra i diplomati; situazione opposta tra i laureati, dove sono le donne che faticano di più a mettere a frutto i propri studi.

Non tutti gli indirizzi poi “soffrono” con la stessa intensità del fenomeno: la maggiore eterogeneità si riscontra nelle lauree, dove tra il massimo del 42% di “overeducated” tra i laureati in discipline umanistiche e il minimo del 9% di ingegneri e architetti si passa per il 12% dei medici e il 32% di coloro che hanno conseguito un titolo terziario nel campo delle scienze sociali.

Una quota leggermente più bassa degli “overeducated” laureati (22%, pari a 220mila lavoratori) risente inoltre di un disallineamento tra la posizione occupata e il percorso di studi (per esempio, l’archeologo che si occupa di vendite): anche in questo caso il gap maggiore si riscontra tra i laureati in materie umanistiche (46%), mentre per farmacisti, medici e infermieri l’abbinamento studi–lavoro è quasi perfetto (appena l’8% di mismatch).

Il gap tra tipologia di laurea e professione svolta è poi certificato dal consorzio interuniversitario AlmaLaurea: secondo l’ultimo rapporto sulla condizione occupazionale dei laureati, solo per il 38% la laurea è richiesta per il lavoro svolto, la metà dei giovani occupati a cinque anni dal conseguimento del titolo utilizza in misura ridotta o per nulla le conoscenze acquisite nel percorso di studi (con punte di oltre il 60% tra i laureati in materie umanistiche).

«Paese paradossale il nostro - commenta Ivano Dionigi, presidente di AlmaLaurea -, che soffre di una duplice e opposta patologia: di “undereducation” e al contempo di “overeducation”. Anche nei settori strategici di innovazione, internazionalizzazione e managerialità la percentuale di laureati è di poco superiore al 17%, rispetto alla media europea del 24,2%». Secondo Dionigi, sono tre gli attori in causa: «Le università, chiamate a formulare corsi parametrati sulla domanda e non sull’offerta e a innovare i corsi contaminando humanities e tecnologie secondo le specificità della cultura del Paese; le imprese, chiamate ad assumere e valorizzare i laureati; la politica, chiamata a favorire l’occupazione e a riconoscere il merito».

postilla
Non è male che la stampa si occupi della scuola. Difendere il ruolo formativo dell'istituzione scolastica è essenziale in una società in cui la formazione dei cervelli è svolta da quella vasta macchina demolitrice delle intelligenze che va dai "persuasori occulti" dalla Renault o del Mulino bianco agli imbonitori tipo Vanna Marchi o Matteo Renzi.
Il disastro (e il tradimento) si manifestano quando di scopre che gli intellettuali ospitati dalla grande stampa non si pongono il quesito fondamentale: l'istituzione scolastica ha il compito di formare le menti necessarie per lubrificare le rotelle arrugginite di questo sistema economico sociale che ci sta portando alla rovina, oppure quello di formare menti capaci di uscire dalla palude ed orientare le loro accresciute capacità a cambiare questo sistema? Siamo orgogliosi di aver pubblicato (insieme al
manifesto) l'unico rilevante articolo che affronti il problema dall'angolatura che a noi sembra giusta, e utile: Piero Bevilacqua, Contro l'alternanza scuola-lavoro

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