loader
menu
© 2024 Eddyburg

Business insider Italia online, 25 dicembre 2016

La popolazione dell’Africa sta esplodendo.

Secondo la stima delle Nazioni Unite, il continente vedrà la sua popolazione attuale di 1,2 miliardi raddoppiare entro l’anno 2050. Significa una crescita media di 42 milioni di persone – praticamente una nuova Argentina – ogni anno.
Guarda anche: la Cina ha un problema, invecchia
Una serie di importanti progetti di infrastrutture, incluso reti ferroviarie, dighe e soluzioni per l’energia pulita come pannelli solari, sono in costruzione, o in progetto, per “creare spazio” per tutte queste persone e per risolvere i problemi di spazio, traffico e igiene, per nominarne solo alcuni, che questa esplosione demografica comporta.
Ecco alcuni dei più grandi progetti che arriveranno in Africa nei prossimi decenni
1. Il corridoio Nord-Sud

Ernst & Young
Nel 2009 il Mercato Comune per l’Africa Orientale e Meridionale ha iniziato a lavorare sul Corridoio Nord-Sud, una serie di autostrade e reti ferroviarie che attraversano sette paesi per quasi 10 mila km. Il suo costo totale è di circa un miliardo di dollari.
2. Il porto di Bagamoyo (Tanzania)

REUTERS/China Daily
Il porto di Bagamoyo diventerà il porto più grande d’Africa, in grado di gestire 20 milioni di container ogni anno. Con un costo stimato di 11 miliardi di dollari una società di costruzioni pubblica cinese dovrebbe completare il porto entro il 2045.
3. Modderfontein New City (Sudafrica)

Shanghai Zendai
Nel 2013 la società di sviluppo cinese Zendai Property Limited ha annunciato che stava costruendo una città da 8 miliardi di dollari fuori Johannesburg, chiamata Modderfontein New City. Diventerà un centro direzionale per le imprese cinesi che stanno investendo in infrastrutture per l’Africa.
4. Konza Technology City (Kenya)

Konza City
Per non essere da meno, il Kenya avrà Konza Technology City, un centro per lo sviluppo di software da 14,5 miliardi di dollari appena fuori Nairobi. Il governo lo definisce “dove comincia la Savana di Silicio africana ”.
5. Collegamento Rabat-Salé (Marocco)

Jean Nouvel
Nel 2013 il Marocco ha lanciato un progetto di sviluppo urbano da 420 milioni di dollari nella Valle del Bouregreg. Costruendo in quell’area si creerà un collegamento tra Rabat e Salé, due delle città marocchine più vivaci e attualmente divise dalla valle.
6. Ferrovia Lagos-Calabar (Nigeria)

CCECC
All’inizio di luglio, Cina e Nigeria hanno firmato un contratto da 11 miliardi di dollari per costruire la linea ferroviaria costiera Lagos-Calabar. Si estenderà per 1.400 km e la sua apertura è attesa per il 2018.
7. Diga Gran Ethiopian Renaissence (Etiopia)

Ethiopian Herald
Al costo di 4,8 miliardi di dollari la Diga Gran Ethiopian Renaissence provvederà energia idroelettrica all’Etiopia e ai paesi limitrofi.
Ci sono state polemiche, tuttavia, sul fatto che la diga costringerà al trasferimento forzato di circa 20 mila persone.
8. Diga Grand Inga (Repubblica democratica del Congo)

Encyclopedia Britannica
Con una potenza di circa 39 mila MW all’anno la Diga Grand Inga sul fiume Congo, diventerà uno dei siti di produzione elettrica più grandi del mondo. Il costo totale per il suo sviluppo è stato stimato attorno ai 100 miliardi di dollari. I costruttori pensano di terminare il progetto per il 2025.
9. Parco solare Jasper (Sudafrica)

SR
Aperto in Sudafrica nel 2014, il parco solare Jasper produce circa 180 mila megawatt orari all’anno, in grado di alimentare 80 mila case. E’ il progetto di produzione di energia solare più grande del continente.
10. Nuovo Canale di Suez (Egitto)

Wikimedia Commons
Nel 2014 sono iniziati i lavori su un’estensione dell’esistente Canale di Suez. Il “Nuovo Canale di Suez” aggiunge 35 km in una nuova corsia per navi agli originali 164 km di canale e ci si aspetta che raddoppi il guadagno annuale grazie allo spazio maggiore per le navi.
11. Cemento (15 Paesi)

GE AFRICA/YouTube
Dangote Cement, il più grande produttore di cemento d’Africa, ha firmato nel 2015 un accordo da 4,3 miliardi di dollari con una società di ingegneria cinese per aumentare la sua capacità fino a 100 milioni di tonnellate in 15 Paesi entro il 2020. L’accordo renderà possibile la costruzione di molti altri progetti in tutto il continente.
Riferimenti

Vedi su eddyburg Gli sfrattati dello sviluppo

«È il momento culminante di un capitalismo che, avendo la propria egemonia in crisi, deve adoperarsi in ogni modo per favorire il consenso, per fare sì che l’odio e l’amore delle masse siano indirizzati, dove i signori del mondialismo hanno deciso debbano essere indirizzati». Il Fatto Quotidiano, il blog di Diego Fusaro, 20 dicembre 2016 (c.m.c.)

Ed è subito terrore. Ancora una volta. Secondo modalità che ritornano sempre invariate, sempre le stesse. Quasi come se si trattasse di un copione già scritto, un orrendo copione da mettere in scena a cadenza regolare. Questa volta è stato il turno di Berlino. Permettetemi, allora, di svolgere alcune considerazioni generalissime sul terrorismo e sulla sua funzione nel quadro storico post 1989.
1) Gli attentati si abbattono sempre e solo sulle masse subalterne, precarizzate, sottopagate e supersfruttate. L’ira delirante dei terroristi non si abbatte mai, curiosamente, sui luoghi reali del potere occidentale: banche, centri della finanza, ecc. I signori mondialisti non vengono mai nemmeno sfiorati. I terroristi avrebbero dichiarato guerra e poi attaccherebbero solo le masse schiavizzate, rendendo – guarda caso – un buon servizio ai signori mondialisti della finanza sradicata: i quali vedono il loro nemico di classe (le masse sottoproletarie, precarizzate e pauperizzate) letteralmente bombardato e fatto esplodere da agenzie terze;

2) Il terrorismo produce un grandioso spostamento dello sguardo dalla contraddizione principale, il nesso di forza classista finanziarizzato. A reti unificate ci fanno credere che il nostro nemico sia l’Islam e non il terrorismo quotidiano del capitalismo finanziario (guerre imperialistiche, ecatombi di lavoratori, suicidi di piccoli imprenditori, popoli mandati in rovina);

3) Ci fanno ora credere che il nemico, per il giovane disoccupato cristiano, sia il giovane disoccupato islamico e non il delocalizzatore, il magnate della finanza, l’apolide e sradicato signore del mondialismo che sta egualizzando il pianeta nella disuguaglianza del libero mercato. Per questa via, il conflitto servo-signore è, ancora una volta, frammentato alla base. Si ha l’ennesima guerra tra poveri, della quale a beneficiare sono coloro che poveri non sono. Il terrorismo frammenta il conflitto di classe e mette i servi in lotta tra loro (islamici vs cristiani, orientali vs occidentali);

4) Il terrorismo permette l’attivazione di quel paradigma securitario che, ancora una volta, giova unicamente al signore globalista e finanziario. Si attiva il modello Patriot Act Usa: per garantire sicurezza, si toglie libertà. Meno libertà di protesta, meno libertà di organizzazione, più controlli, più ispezioni, più limitazioni. La massa terrorizzata accetta ciò che in condizioni normali mai accetterebbe: la perdita della libertà in nome della sicurezza;

5) Si prepara il terreno – prepariamoci – per nuove guerre: guerre terroristiche e criminali contro i crimini del terrorismo. Come accadde in Afghanistan (2001) e recentemente in Siria. Il terrorismo legittima l’imperialismo occidentale, l’interventismo umanitario, il bombardamento etico, le guerre giuste, e mille altre pratiche orwelliane che, chiamate col loro nome, rientrerebbero esse stesse nella categoria del terrorismo. L’imperialismo occidentale coessenziale al regime capitalistico viene legittimato e fatto accettare alle masse terrorizzate e subalterne.

A differenza di Pasolini, io non so i nomi. Credo, tuttavia, di sapere che cos’è davvero il terrorismo. È la fase suprema del capitalismo. È il momento culminante di un capitalismo che, avendo la propria egemonia in crisi (per dirla con Gramsci), deve adoperarsi in ogni modo (letteralmente: in ogni modo) per favorire il consenso, per riallineare le masse, per disarticolare il dissenso, per sincronizzare le coscienze, per fare sì che l’odio e l’amore delle masse siano indirizzati, secondo le debite dosi, dove i signori del mondialismo hanno deciso debbano essere indirizzati.

». il manifesto, 9 dicembre 2016 (c.m.c.)

Le notizie sulla crescita delle ineguaglianze e degi impoveriti nel mondo sono diventate un ritornello cerimoniale. In Italia la raffica dei dati sulla devastazione sociale in corso è stata molto nutrita in questi ultimi giorni di «bilanci annuali». Mi riferisco al rapporto o dell’Istat («Condizioni di vita e reddito 2015») e al rapporto 2016 di Save the Children «Sconfiggere la povertà educativa. Fino all’ultimo bambino», diffusi entrambi all’inizio di questa settimana.

Il 28,7% delle le persone residenti in Italia è in stato di povertà o esclusione sociale, in aumento rispetto al 2014. Mica poco per il settimo paese più ricco del pianeta.

La quota delle persone impoverite sale al 48,3% (da 39,4%) se si tratta di coppie con tre o più figli e raggiunge il 51,2% (da 42,8%) nelle famiglie con tre o più minori; i livelli d’impoverimento sono superiori alla media nazionale in tutte le regioni del Mezzogiorno, con valori più elevati in Sicilia (55,4%), Puglia (47,8%) e Campania (46,1%). Quattro individui su dieci sono impoveriti in Sicilia, tre su dieci in Campania, Calabria, Puglia e Basilicata. Se nei paesi dell’Unione europea (più Islanda e Norvegia) oltre 26 milioni di bambini sono in stato d’impoverimento, in Italia, la percentuale tocca il 32% (contro il 28% in Ue). Alla radice dell’impoverimento e dell’esclusione sociale,ricorda Save the Children per l’ennesima volta, c’è la disuguaglianza. «Il 10% delle famiglie più ricche in Europa attualmente guadagna il 31% del reddito totale e possiede più del 50% della ricchezza totale, e il divario tra ricchi e poveri sta aumentando».

Si tratta di processi strutturali, non contingenti. Ebbene quali e dove sono le classi dirigenti europee che hanno dato e danno realmente la priorità alla strategia dello sradicamento dei fattori strutturali dell’impoverimento e dell’esclusione sociale?

Per cecità legata ai loro dogmatismi ideologici e per chiaro obiettivo di difesa dei loro interessi di classe, i dirigenti del mondo del business e della finanza, della tecnocrazia e del mondo della politica continuano con pervicacia ad applicare scelte e ad adottare misure il cui effetto principale, risultato indiscusso negli ultimi quaranta anni, è stato quello di alimentare e rafforzare la crescita delle ineguaglianza di reddito e dell’esclusione.

La loro formula trita e ritrita non è cambiata: meno tasse sui ceti medio-bassi e incentivi fiscali per i ceti medio-alti, più investimenti in infrastrutture (informatiche, energetiche, trasporti…), più libertà alle imprese (riduzione dei vincoli, autocertificazione, liberalizzazione del commercio e degli investimenti…), piccole porzioni di «redistribuzione» di reddito, ad hoc, di tipo assistenziale, sovente di natura elettoralistica. Il tutto allo scopo prioritario di favorire la crescita economica, la competitività internazionale e l’uso efficace ed efficiente delle risorse del pianeta.

In termini di rendimento finanziario, la riduzione delle tasse, anche quando ha indotto un modesto aumento dei consumi stimolando così la crescita della produzione e degli investimenti, si è tradotta nella capacità dei detentori di capitale di appropriarsi della parte più grande e consistente della ricchezza prodotta, contribuendo cosi all’aumento della forbice tra redditi da lavoro e redditi da capitale.

Allo stesso risultato si è giunti con le misure in favore degli investimenti nelle infrastrutture produttive e commerciali in supporto delle attività delle imprese private e privatizzabili, anziché nelle infrastrutture per il benessere socioeconomico di tutti, quali scuole, ospedali, asili infantil e servizi alle persone d’interesse generale pubblico. La ricchezza da essi creata è andata utlerioremente a remunerare il capitale dei gruppi sociali a reddito medioalto. Inoltre, le politiche di austerità, poste sotto il controllo di banche centrali come la Bce (politicamente indipendenti dai poteri pubblici eletti) e valutate da agenzie finanziarie private mondiali (le agenzie di rating), hanno considerevolmente avvantaggiato le classi più ricche.

Ciò è stato inevitabile in un contesto in cui, da un lato, l’imposizione dell’equilibrio di bilancio ha fatto si che spese pubbliche e sociali siano contabilizzate e quindi «da ridurre» (quelle militari ne sono escluse) e, dall’altro lato, la legalizzazione dell’evasione fiscale (paradisi fiscali, segreto bancario…) e l’esaltazione della finanza speculativa (si pensi alla finanza algoritmica, al millesimo di secondo) hanno condotto a un massiccio trasferimento di reddito nelle mani dei già ricchi. In confronto, le bricioline redistributive (80, 100 euro una tantum o le carte alimentari…) in favore dei più «bisognosi» costituiscono una forma vergognosa di assistenza caritatevole.

Non è un caso che il nuovo segretario al tesoro degli Usa, Steven Mnuchin, scelto da Trump, ha reso noto i tre punti chiavi del suo programma per ridare forza e fiducia all’economia: meno tasse, più investimenti in infrastrutture, più libertà alla finanza. E non a caso, gli Usa continueranno a figurare al primo posto della classifica nell’indice d’ineguaglianza sociale fra i paesi più ricchi al mondo. La verità è che le disuguaglianze non saranno ridotte dalla crescita del Pil perché il Pil che cresce secondo i canoni dell’economia dominante è, invece, il fattore strutturale chiave della creazione delle disuguaglianze.

Così è del tutto irresponsabile da parte di Vincenzo Boccia, presidente della Confindustria, affermare che per gli imprenditori gli obiettivi della crescita e della competitività restano centrali (Corriere della Sera del 6 dicembre). Altro che riforma dell’Italia. Business as usual. Che cecità.

paesi europei della Nato dovranno addossarsi una spesa militare molto maggiore.». il manifesto, 6 dicembre 2016 (c.m.c.)

La maggioranza degli italiani, sfidando i poteri forti schierati con Renzi, ha sventato il suo piano di riforma anticostituzionale. Ma perché ciò possa aprire una nuova via al paese, occorre un altro fondamentale No: quello alla «riforma» bellicista che ha scardinato l’Articolo 11, uno dei pilastri basilari della nostra Costituzione.

Le scelte economiche e politiche interne, tipo quelle del governo Renzi bocciate dalla maggioranza degli italiani, sono infatti indissolubilmente legate a quelle di politica estera e militare. Le une sono funzionali alle altre. Quando giustamente ci si propone di aumentare la spesa sociale, non si può ignorare che l’Italia brucia nella spesa militare 55 milioni di euro al giorno (cifra fornita dalla Nato, in realtà più alta).

Quando giustamente si chiede che i cittadini abbiano voce nella politica interna, non si può ignorare che essi non hanno alcuna voce nella politica estera, che continua ad essere orientata verso la guerra. Mentre era in corso la campagna referendaria, è passato sotto quasi totale silenzio l’annuncio fatto agli inizi di novembre dall’ammiraglio Backer della U.S. Navy: «La stazione terrestre del Muos a Niscemi, che copre gran parte dell’Europa e dell’Africa, è operativa».

Realizzata dalla General Dymanics – gigante Usa dell’industria bellica, con fatturato annuo di 30 miliardi di dollari – quella di Niscemi è una delle quattro stazioni terrestri Muos (le altre sono in Virginia, nelle Hawaii e in Australia). Tramite i satelliti della Lockheed Martin – altro gigante Usa dell’industria bellica con 45 miliardi di fatturato – il Muos collega alla rete di comando del Pentagono sottomarini e navi da guerra, cacciabombardieri e droni, veicoli militari e reparti terrestri in movimento, in qualsiasi parte del mondo si trovino.

L’entrata in operatività della stazione Muos di Niscemi potenzia la funzione dell’Italia quale trampolino di lancio delle operazioni militari Usa/Nato verso Sud e verso Est, nel momento in cui gli Usa si preparano a installare sul nostro territorio le nuove bombe nucleari B61-12.

Passato sotto quasi totale silenzio, durante la campagna referendaria, anche il «piano per la difesa europea» presentato da Federica Mogherini: esso prevede l’impiego di gruppi di battaglia, dispiegabili entro dieci giorni fino a 6 mila km dall’Europa. Il maggiore, di cui l’Italia è «nazione guida», ha effettuato, nella seconda metà di novembre, l’esercitazione «European Wind 2016» in provincia di Udine. Vi hanno partecipato 1500 soldati di Italia, Austria, Croazia, Slovenia e Ungheria, con un centinaio di mezzi blindati e molti elicotteri. Il gruppo di battaglia a guida italiana, di cui è stata certificata la piena capacità operativa, è pronto ad essere dispiegato già da gennaio in «aree di crisi» soprattutto nell’Europa orientale.

A scanso di equivoci con Washington, la Mogherini ha precisato che ciò «non significa creare un esercito europeo, ma avere più cooperazione per una difesa più efficace in piena complementarietà con la Nato», in altre parole che la Ue vuole accrescere la sua forza militare restando sotto comando Usa nella Nato (di cui sono membri 22 dei 28 paesi dell’Unione).

Intanto, il segretario generale della Nato Stoltenberg ringrazia il neo-eletto presidente Trump per «aver sollevato la questione della spesa per la difesa», precisando che «nonostante i progressi compiuti nella ripartizione del carico, c’è ancora molto da fare». In altre parole, i paesi europei della Nato dovranno addossarsi una spesa militare molto maggiore. I 55 milioni di euro, che paghiamo ogni giorno per il militare, presto aumenteranno. Ma su questo non c’è referendum.

Le Monde Diplomatique» novembre 2003 (ripreso da www.disinformazione.it)

Dirigenti delle multinazionali, governanti dei paesi ricchi e sostenitori del liberismo economico hanno rapidamente compreso che dovevano agire di concerto se volevano imporre la propria visione del mondo. Nel luglio 1973, in mondo allora bipolare, David Rockefeller lancia la Commissione trilaterale, che segnerà il punto di partenza della guerra ideologica moderna. Meno mediatizzata del forum di Davos, la Trilaterale è molto attiva, attraverso una rete di influenze dalle molteplici ramificazioni.

Trent’anni fa, nel luglio 1973, su iniziativa di David Rockefeller, figura di spicco del capitalismo americano, nasceva la Commissione trilaterale. Cenacolo dell’élite politica ed economica internazionale, questo circolo chiusissimo e sempre attivo formato da alti dirigenti ha suscitato, soprattutto ai suoi inizi, molte controversie (1). All’epoca, la Commissione si prefiggeva di diventare un organo privato di concertazione e orientamento della politica internazionale dei paesi della triade (Stati uniti, Europa, Giappone). L’atto costitutivo spiega: «Basata sull’analisi delle più rilevanti questioni con cui si confrontano l’America e il Giappone, la Commissione si sforza di sviluppare proposte pratiche per un’azione congiunta. I membri della Commissione comprendono più di 200 insigni cittadini impegnati in settori diversi e provenienti dalle tre regioni». (2)

La creazione di questa organizzazione opaca in cui a porte chiuse e al riparo da qualsiasi intromissione mediatica si ritrovano fianco a fianco dirigenti di multinazionali, banchieri, uomini politici, esperti di politica internazionale e universitari, coincideva all’epoca con un periodo di incertezza e turbolenza della politica mondiale. La direzione dell’economia internazionale sembrava sfuggire alle élite dei paesi ricchi, le forze di sinistra apparivano potenti, soprattutto in Europa, e la crescente interdipendenza delle questioni economiche chiamava le grandi potenze a una cooperazione più stretta. Rapidamente, la Commissione trilaterale si impone come uno dei principali strumenti di questa concertazione, attenta al tempo stesso a proteggere gli interessi delle multinazionali e a «chiarire» attraverso le proprie analisi le decisioni dei dirigenti politici. (3)

Come i re filosofi della città platonica, che contemplavano il mondo delle idee per infondere la loro trascendente saggezza nella gestione degli affari terrestri, l’élite che si riunisce all’interno di questa istituzione molto poco democratica si adopera nel definire i criteri di un «buon governo» internazionale.
Veicola un ideale platonico di ordine e controllo, assicurato da una classe privilegiata di tecnocrati che mette la propria competenza e la propria esperienza al di sopra delle profane rivendicazioni dei semplici cittadini: «La cittadella trilaterale è un luogo protetto dove la techné è legge – commenta Gilbert Larochelle. E dove sentinelle dalle torri di guardia vegliano e sorvegliano. Ricorrere alla competenza non è affatto un lusso, ma offre la possibilità di mettere la società di fronte a se stessa. Il maggio benessere deriva solo dai migliori che, nella loro ispirata superiorità, elaborano criteri per poi inviarli verso il basso». (4)

All’interno di questa oligarchia della politica internazionale, le cui riunioni annuale si svolgono in varie città della triade, i temi vengono dibattuti in una discrezione che nessun media sembra più voler disturbare. Essi sono oggetto di rapporti annuali (The Trialogue) e di lavori tematici (Triangle Papers) realizzati da équipes di esperti americani, europei e giapponesi scelti molto accuratamente. Questi documenti pubblici, regolarmente pubblicati da circa trent’anni, mostrano l’attenzione che la trilaterale rivolge ai problemi globali che trascendono le sovranità nazionali, come la globalizzazione dei mercati, l’ambiente, la finanza internazionale, la liberalizzazione delle economie, la regionalizzazione degli scambi, i rapporti Est- Ovest (all’inizio), il debito dei paesi poveri.

Contro «gli eccessi della democrazia»
Gli interventi ruotano intorno ad alcune idee fondanti, ampiamente riprese dalla politica. La prima è la necessità di un «nuovo ordine internazionale». Il quadro sarebbe troppo angusto per trattare grandi questioni mondiali la cui «complessità» e «interdipendenza» vengono continuamente riaffermate. Un’analisi del genere giustifica e legittima le attività della Commissione che è sia un osservatorio privilegiato sia il capomastro di questa nuova architettura internazionale
.
In tal senso gli attentati dell’11 settembre hanno fornito una nuova occasione di ricordare, durante l’incontro di Washington nell’aprile del 2002, la necessità di un «ordine internazionale» e di una «risposta globale» a cui sono esortati a partecipare i più importanti dirigenti del pianeta sotto l’egidia statunitense. Alla già citata riunione annuale della trilaterale erano presenti Colin Powell (segretario americano) Donald Rumsfeld (segretario alla difesa) Richard Cheney (vicepresidente) e Alan Greenspan (presidente della Federal Reserve). (5)

La seconda idea fondante, che trae origine dalla prima, è il ruolo tutelare della triade, in particolare degli Stati uniti, nella riforma del sistema internazionale. I paesi ricchi sono invitati ad esprimersi con una sola voce e a unire i propri sforzi in una missione destinata a promuovere la «stabilità» del pianeta grazie alla diffusione del modello economico dominante. Le democrazie liberali sono il «centro vitale» dell’economia, della finanza e della tecnologia. Un centro che gli altri paesi dovranno integrare accettando l’ordine che esso si è dato.

L’unilateralismo americano sembra tuttavia aver messo a dura prova la coesione dei paesi della triade, i cui dissidenti si esprimono nei dibattiti della Commissione. Nel suo discorso del 6 aprile 2002, durante la già citata riunione, Colin Powell ha quindi difeso la posizione americana sui principali punti di disaccordo con il resto del mondo, ovvero rifiuto di firmare gli accordi di Kyoto, opposizione alla creazione di una Corte penale internazionale, analisi dell’«asse del male», intervento americano in Iraq, appoggio alla politica israeliana, e via dicendo.

L’egemonia delle democrazie liberali rafforza la fede nelle virtù della globalizzazione e della liberalizzazione delle economie espressa dal pensiero della trilaterale. La globalizzazione finanziaria e lo sviluppo degli scambi internazionali sarebbero al servizio del progresso e del miglioramento delle condizioni di vita di un gran numero di persone. Ma esse presuppongono la rimessa in causa delle sovranità nazionali e la soppressione delle misure protezioniste.

Questo credo neoliberista è dunque spesso centro dei dibattiti.
Durante l’incontro annuale dell’aprile 2003 a Seul è stata trattata in particolare la questione dell’integrazione economica dei paesi del Sud-Est asiatico e della partecipazione della Cina alle dinamiche della globalizzazione. Le riunioni dei due anni precedenti avevano dato occasione al direttore generale dell’Organizzazione mondiale per il commercio (Wto) Mike Moore di professare devotamente le virtù del libero scambio. Moore, dopo aver ricoperto di improperi il movimento anti-globalizzazione, aveva dichiarato che era «imperativo tenere a mente ancora e sempre quelle prove schiaccianti che dimostrano che il commercio internazionale rafforza la crescita economica». (6)

La tirata del direttore del Wto contro i gruppi che reclamano una globalizzazione diversa – chiamati «e-hippies» - sottolinea la terza caratteristica fondante della trilaterale: l’avversione per i movimenti popolari, che si era espressa nel celebre rapporto della Commissione sul governo delle democrazie redatto da Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki (7).

Questo rapporto, del 1975, denunciava gli «eccessi della democrazia», espressi secondo gli autori dalle manifestazioni di contestazione dell’epoca. Manifestazioni che, un po’ come oggi, mettevano in causa la politica estera degli Stati uniti (ruolo della Cia nel golpe cileno, guerra del Vietnam) ed esigevano il riconoscimento di nuovi diritti sociali. Il rapporto provocò all’epoca molti commenti indignati che si scatenarono contro l’amministrazione democratica del presidente James Carter, essendo stato egli stesso un membro della trilaterale (come più tardi il presidente Clinton). (8)

Dall’inizio degli anni ’80, l’attenzione della stampa per questo tipo di istituzioni sembra essersi rivolta più che altro su incontri meno chiusi e soprattutto più divulgabili tramiti i media, come il Forum di Davos. L’importanza delle questioni dibattute nell’ambito della trilaterale e il livello di coloro che in questi ultimi anni hanno partecipato alle sue riunioni sottolineano però la sua persistente influenza. (9)

Note:

(1) Le Monde diplomatique ha dedicato molti articoli all’argomento nel corso degli anni ’70.
(2) Il numero dei «distinti cittadini» ammessi alla Commissione è stato in seguito allargato e oggi comprende più di 300 membri.
(3) Sulle reti di «coloro che decidono» si legga «Tous pouvoirs confundus», Epo, 2003
(4) Gilbert Larochelle, «L’imaginaire technocratique» Montreal, 1990, p.279
(5) I discorsi di questi interventi sono accessibili al sito ufficiale della Commissione: www.trilateral.org
(6) Mike Moore, «The Multilateral Trading Regime Is a Force for Good: Defend It, Improbe It». Riunione della Commissione trilaterale del’11 marzo 2001
(7) Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki, «The Crisis of Democracy: Report on the Governability of Democracies to the Trilateral Commission», New York University Press, 1975
(8) Zbigniew Brezinski era stato uno dei grandi architetti di questa organizzazione prima di diventare il principale consigliere del presidente Carter sulle questioni di sicurezza nazionale
(9) David Rockefeller, Georges Berthoin e Takeshi Watanabe (1978) Prefazione a «Task Force Reports»: 9-14, New York University Press, p IX

La Stampa, 24 ottobre 2016, con postilla

Da tempo l’Italia sollecita solidarietà in Europa per condividere l’onere dell’immigrazione. La richiesta, senza successo, è motivata da comunanza d’interessi di fronte a violenza e povertà in Africa. In effetti, l’esodo attraverso il Mediterraneo non è solo il risultato di miserie attuali. È conseguenza del più grande crimine nella storia dell’umanità: un delitto perpetrato a Londra, Parigi e Bruxelles – e che ora continua con il concorso di Pechino. Un crimine che ha causato, dice l’ex-capo Onu Kofi Annan, oltre 250 milioni di morti (neri): per farsi un’idea, il doppio dei morti (bianchi) nelle due guerre mondiali. Storia e giustizia motivano la richiesta italiana, non solo solidarietà.

Una parola sintetizza la tragedia africana: sfruttamento. La razzia incessante delle risorse -- umane, minerarie, agricole -- inizia nel XV secolo, quando i portoghesi mappano coste e sviluppano affari. Poi Spagna, Inghilterra e Francia trafficano spezie e, in maniera crescente, esseri umani. Per tre secoli gli europei non penetrano all’interno del continente: contano sugli arabi che assalgono i villaggi e organizzano interminabili carovane di prigionieri fino al mare – trasportati a oriente verso il Golfo e l’Asia, e a occidente verso le Americhe.

Schiavi tre su quattro

Nel ‘600 tre africani su quattro sono intrappolati in una qualche forma di servitù. Inglesi e francesi si distinguono per un lucroso commercio triangolare: trasportano cargo umano nelle Americhe, dove usano le acque fredde del Nord per disinfettare navi purulente di sangue e infestazioni. Poi caricano zucchero, cotone e caffè che trasportano in Europa (a Liverpool e Nantes). Quindi riempiono le stive di manufatti, alcool, armi e polvere da sparo che barattano in Africa con altre vittime. La razzia accelera quando, come risultato della guerra di successione spagnola (i trattati di Utrecht del 1713), Londra ottiene il quasi monopolio del traffico di schiavi attraverso l’Atlantico. Il picco è raggiunto alla fine del ‘700 per un totale di 100 milioni di vittime (stima incerta, ma realistica).

All’inizio del ‘800 due mutamenti storici convergono. Dopo decenni di lotta, il movimento anti-schiavista prevale: nel 1807 il Regno Unito decreta la fine del traffico internazionale di esseri umani; l’anno successivo aderiscono gli Usa. (Non e’ la fine della schiavitù, ma la fine del trasporto nell’Atlantico). Al contempo, e per recuperare reddito, inizia l’esplorazione del cuore dell’Africa: David Livingstone, H.M. Stanley e più avanti Richard Burton, mappano i fiumi del Congo, scoprono i grandi laghi e trovano le sorgenti del Nilo. Lo spirito d’avventura anima gli esploratori. La ricchezza delle risorse africane motiva i loro governi, afflitti da problemi economici: una lunga depressione in Francia e Germania (1873-96), un continuo disavanzo commerciale in Inghilterra. L’Africa è ritenuta la soluzione della crisi, grazie alle sue grandiose risorse: rame, diamanti, oro, stagno nel sottosuolo; cotone, gomma, tè e cocco in superficie.

L'occupazione

Entrano anche in gioco interessi individuali – anzi, personali. L’inglese Cecil Rhodes chiama Rhodesia (oggi Zimbabwe) il Paese del quale s’impossessa. Il re del Belgio Leopoldo II dichiara il Congo proprietà personale e passa dal furto delle risorse umane all’esproprio di quelle naturali. «Quando, dopo 200 anni, traffici umani, mutilazioni e mattanze terminano, inizia la razzia di avorio e caucciù», scrive Stephen Hoschchild, biografo di Leopoldo. In una storia di avidità e terrore, l’African Company (di proprietà del re) causa 10 milioni di morti ed espropria risorse per decine di miliardi attuali. Venti-trentamila elefanti sono abbattuti annualmente. E il Belgio emerge come il Paese più ricco in Europa.

Inevitabilmente la corsa a derubare l’Africa diventa ragione di scontro tra le potenze coloniali. Intimorito, il Kaiser Guglielmo II convoca la conferenza di Berlino (1884), durante la quale le potenze europee si spartiscono il continente: un accordo che dura fino al 1914. La demarcazione dei confini coloniali decisa a Berlino violenta le realtà africane: racchiude etnie, religioni e lingue in confini artificiali, al solo fine di perpetuare il saccheggio delle risorse. In breve, i confini tracciati dagli europei allora pongono le basi per la violenza e la povertà di ora.

La II guerra mondiale

Dopo la seconda guerra mondiale l’Africa diventa indipendente, con risultati non meno devastanti. In vari Paesi il potere passa nelle mani della maggiore etnia, che raramente coincide con la maggioranza della gente: chi è fuori dal clan è oppresso, spesso fisicamente. Imitando gli oppressori coloniali, i nuovi despoti gestiscono le risorse come proprietà personale. Rubano quanto possibile. Il resto finisce nelle tasche di amministratori corrotti, finanzia milizie a sostegno del potere e, soprattutto, compra la correità degli investitori esteri – inglesi, francesi e belgi. Nel primo mezzo secolo d’indipendenza africana gli interessi economico-finanziari europei (a volte americani) mantengono al potere dittatori sanguinari in nazioni artificiali. Rivolte e fame hanno un costo umanitario drammatico.

Una seconda liberazione si delinea dopo il 1990. Grandi despoti scompaiono, e con essi gli immensi patrimoni da loro saccheggiati. Il comunista Mengistu fugge dall’Etiopia, Mobutu muore in Congo, il nigeriano Abacha spira nelle braccia di una prostituta: questi due ultimi accusati di aver rubato almeno 5 miliardi di dollari a testa. Soldi impossibili da recuperare: all’Onu ho identificato parte dei fondi di Abacha in banche anglo-svizzere, che gli avvocati dei figli del dittatore hanno subito congelato. Inevitabilmente le risorse rubate ai cittadini africani finiscono con l’arricchire le banche di New York, Londra e Lussemburgo.

La situazione oggi

Oggigiorno, a distanza di un quarto di secolo, furti e violenza continuano, dal Sudan di Al-Bashir (2 milioni tra morti e rifugiati), al Congo di Kabila (6 milioni di morti); da Zimbabwe di Mugabe, al Sud Africa di Zuma. In Guinea equatoriale il presidente Obiang, al potere da 35 anni, nomina vice-presidente il figlio Mangue – un vizioso che colleziona auto di lusso, tra esse una Bugatti da 350 mila dollari che raggiunge i 300km/h in 12 sec. Il settimanale inglese The Economist elenca 7 Paesi africani su 48 come liberi e democratici: tra essi Botswana, Namibia, Senegal, Gambia e Benin. Altrove gli autocrati perpetuano il potere modificando la costituzione (in 18 Paesi), oppure ignorandola (Congo). Il vincitore «piglia tutto», dice Paul Collier di Oxford: ruba per ripartire le spoglie con quanti l’aiutano a preservare il potere. Nulla sfugge al suo controllo: parlamento, banca centrale, commissione elettorale e media.

A tutt’oggi, i Paesi europei che erigono muri e fili spinati contro gli immigrati africani continuano a depredare le materie prime dell’Africa. Non solo oro e petrolio, disponibili altrove. Sono soprattutto i minerali rari che interessano: uranio, coltano, niobium, tantalum e casserite, necessari nell’elettronica dei cellulari e in missilistica. Allo sfruttamento ora partecipa attivamente anche la Cina, prediletta dai despoti africani perché non condiziona prestiti e investimenti a clausole per proteggere democrazia e ambiente. Insomma, una catena d’interessi stranieri mantiene il continente nella disperazione: parlamenti e amministrazioni sono corrotti; strade, energia elettrica e ferrovie inesistenti.

Fuga verso l'Occidente [sic]

A questo punto la gente africana ha una misera scelta: morire di violenza e povertà in patria, oppure rischiare la vita nel Mediterraneo, in un esodo dalle dimensioni bibliche – decine di migliaia di persone negli ultimi mesi, decine di milioni negli anni a venire. Papa Francesco parla di carità. Il governo italiano di solidarietà. Certamente. Soprattutto il mondo riconosca che Londra, Parigi e Bruxelles hanno causato il dramma africano, derubando dignità e risorse a gente già povera. È tempo di risarcimento – com’è avvenuto dopo la prima guerra mondiale, dopo l’olocausto, e a seguito di disastri naturali. Risarcimento in termini di assistenza allo sviluppo (per fermare la migrazione) e in termini d’integrazione (per assistere gli immigrati). L’Italia, con le sue minime colpe coloniali, ha poco da risarcire e tanto da insegnare ai Paesi che ora erigono barriere contro le vittime della violenza europea.

postilla

Troppa benevolenza per l'Italia nell'articolo della Stampa. Bastano pochissimi nomi per ricordare la partecipazione dell'Italia d'oggi allo sfruttamento dell'Africa: Eni, Salini, Impregilo, Danieli, Enel Green Power. Lo ricorda, del resto, l'icona che abbiamo scelto per questo articolo

Il Canada e l’Ue non potranno firmare il 27 ottobre come previsto il Ceta (Comprehensive Economic and Trade Agreement), il trattato di libero scambio considerato il più avanzato ed equilibrato dell’era della globalizzazione. La ministra canadese del commercio Chrystia Freeland, che si era precipitata in Belgio per evitare il disastro, è ripartita sbattendo la porta e pronunciando parole di fuoco. «Mi sembra evidente, e sembra evidente al Canada, che l’Unione europea non è in grado di stipulare un accordo internazionale, neppure con un Paese così gentile, paziente e che ha valori così europei come il Canada». La più gigantesca figuraccia diplomatica che la Ue sia riuscita a fare in tanti anni di esistenza e di negoziati commerciali porta la firma del parlamento regionale della Vallonia, la zona francofona del sud del Belgio con una popolazione inferiore a quella della Toscana. La settimana scorsa l’assemblea regionale vallona ha bocciato, con 46 voti favorevoli, 16 contrari e un’astensione, la ratifica del trattato. Senza il suo via libera, insieme a quello di altri 37 parlamenti e parlamentini nazionali e regionali, l’accordo non può essere sottoscritto dall’Ue, che lo aveva negoziato con il Canada per 7 anni.

Si arriva così al paradosso che la regione forse più europeista di tutta l’Europa, una delle pochissime dove i partiti populisti e anti Ue sono praticamente inesistenti, ha inferto alla Ue un colpo durissimo e un danno, sostanziale e di immagine, che neppure i più feroci euroscettici sarebbero riusciti a infliggere.

L’inghippo nasce dalla decisione, adottata sotto pressione dei governi francese e tedesco che si trovano in fase pre-elettorale, di considerare il Ceta un trattato “misto”. Ciò significa che, pur essendo stato negoziato solo dalla Commissione a nome di tutti i Ventotto, poiché i suoi effetti non solo solo commerciali ma hanno ripercussioni anche su altre normative, avrebbe dovuto essere sottoposto alla ratifica di tutti i Parlamenti nazionali. Una idea contro cui si era strenuamente ma inutilmente battuta l’Italia, secondo cui la politica commerciale di una superpotenza economica di 500 milioni di cittadini, qual è l’Europa, non può essere tenuta in ostaggio dalle pretese di questo o quel parlamento nazionale o regionale.

Infatti, poiché alcuni Stati hanno una struttura federale, le ratifiche necessarie ad approvare il Ceta sono balzate da 28, quanti sono i parlamenti nazionali, a ben 38. Da questo punto di vista il Paese più frammentato è certamente il Belgio, che, con soli 10 milioni di abitanti, conta ben sette parlamenti sovrani: le assemblee delle tre comunità linguistiche (fiamminga, francofona e germanofona), i parlamenti delle 3 regioni federali (Fiandre Vallonia e Regione di Bruxelles), oltre al Parlamento nazionale.

Dopo la bocciatura della settimana scorsa, nelle istituzioni europee è scattato l’allarme. Il capo del governo regionale vallone, Paul Magnette, è stato messo sotto pressione non solo dal suo rivale politico alla guida del governo federale belga, Charles Michel, ma anche dalla cancelliera Merkel, dal presidente Hollande e alla fine da tutti i Ventotto capi di governo riuniti a Bruxelles. Ma è rimasto irremovibile. La ministra canadese, precipitatasi per cercare di salvare l’accordo, ha fatto concessioni dell’ultima ora. Ma lo zelo no-global di Magnette non è stato intaccato. Ora che la cerimonia della firma, prevista per il 27 ottobre, è stata annullata, e che la ministra canadese è ripartita, c’è ancora chi, in Commissione, spera di far cambiare opinione a Magnette e ai suoi 46 deputati. Forse ci riusciranno. Ma intanto la clamorosa dimostrazione di impotenza europea avrà fatto il giro del mondo.

comune-info.net, 20 ottobre 2016 (p.d.)


La fame, uno.


Ci ho ripensato leggendo l’ultimo libro dell’argentino Martín Caparrós El hambre, la fame, pubblicato nel 2015 in Spagna, ora disponibile nella traduzione italiana. Frutto di alcuni anni di lavoro in giro per il mondo, racconta il lato osceno del capitalismo, quello che fa commercio del primo dei bisogni umani, mangiare. Mangiare molto spesso solo per sopravvivere, non per vivere una vita che consenta l’espressione di altri bisogni e desideri. Lato osceno anche dell’aiuto umanitario, della carità offerta sotto vesti laiche dalle organizzazioni non governative, dagli stati che dedicano una parte (sempre più scarsa!) dei loro PIL agli affamati e, in forma religioso-soccorrevole, dalle diverse chiese.

Nel raccontare la fame, quella che si prova come stato permanente e non quella che si sente per naturale necessità quotidiana (“pasar” hambre, non é “tener” hambre), è di neoliberismo che parla il testo. Neoliberismo come volto odierno del capitalismo. Gli effetti concretamente oggettivi di un’ideologia sui corpi di intere popolazioni, ma anche gli effetti riscontrabili in ambiti apparentemente astratti, che non metabolizzano proteine e carboidrati, ma pensieri, conoscenze, saperi. Apparentemente, perché è il nesso mente-corpo, il legame fra pensieri e modalità del vivere ad essere sistemico, suggerisce Caparrós. L’ideologia neoliberista non abbina, compone, in una micidiale unità superiore, i due ambiti.

Inciso.

La scuola occupa un posto centrale come luogo di elaborazione della complessa strategia neoliberista. La riforma della scuola operata con l’emanazione della Legge 13 luglio 2015 n.107 costituisce una misura di accompagnamento sovrastrutturale a un più vasto progetto di ingegneria sociale, la cui intenzione è disegnare un nuovo soggetto umano e dunque politico.

La crisi del 2007/2008 non ha ridotto in ginocchio il sistema-mondo idealmente unificato dopo la caduta del Muro, semmai lo ha rivitalizzato, mettendo in moto energie auto-generative, soprattutto di ordine culturale. Infatti, se il prefisso neo rimanda a una ridefinizione del capitalismo del libero mercato, nato ben prima delle teorizzazioni di Smith, la missione del nuovo mercato ha bisogno di un processo di naturalizzazione delle pratiche economiche. Per sostenere un’ideologia economica capace di modificare in profondità mentalità, aspirazioni, stili di vita, l’idea di uomo e di consorzio umano, bisogna mettere mano ai luoghi e alle forme della trasmissione culturale. I modelli di buona vita diffusi dai media agiscono in modo trasversale, implicito, quelli propri delle istituzioni deputate all’educazione e alla formazione lo fanno esplicitamente, direttamente operando sulle coscienze giovanili. Concetti come merito, meritocrazia, competenza in competizione, pari opportunità, velocità, ottimismo giovanilistico, ibridati dal gergo economico e sportivo, vengono diffusi attraverso l’informazione mediatica e costituiscono l’innervazione ideologica della nuova buona scuola.

Non so quanto sia diffusa fra i docenti e fra i responsabili della funzione genitoriale la consapevolezza del profondo legame tra la cornice neoliberista e il processo di riforma in atto nella scuola. L’analisi dei cambiamenti intervenuti in modo subdolo e contraddittorio dal 1999, il ruolo di perno dell’autonomia scolastica nella progressiva esplicitazione di questo disegno, tanto da essersi mantenuta intatta in tutte le legislature susseguitesi dalla sua emanazione, rimane spesso priva di rilievo. Tra l’altro, vige la convinzione che, malgrado tutto, i mutamenti in atto siano ancora governabili, che ci sia spazio per una sorta di indipendenza della scuola dalla deriva complessiva.

La fame, due.

Il libro di Martín Caparrós ha il merito – come ho detto – di affrontare in modo sistemico il problema dei 2.000 milioni di persone che soffrono di “insicurezza alimentare” (locuzione tranquillizzante rispetto a denutrizione), delle 10 che muoiono ogni 30 secondi. Non tralascia mai di ricordare che la fame di cibo provoca anemia del pensiero in chi la soffre e un profondo senso di impotenza-indifferenza in chi non la conosce se non come dato, insieme di dati. Ci rammenta come risulti addirittura funzionale al sistema economico-sociale che la produce, una sorta di malthusiano equilibrio fra risorse e popolazione, un modo per depotenziare le menti.

Il libro dello scrittore e saggista argentino proprio per la vastità e la profondità dell’analisi è un libro difficile, direi estenuante. Il fenomeno-fame è affrontato in cinque momenti, per altrettanti punti di vista su effetti e cause, con un angustiante viaggio nell’Altro Mondo (non terzo, non quarto, semplicemente “otro mundo”). Africa Nera, India, Bangladesh, Madagascar. Non sorprendentemente, l’Argentina e gli Stati Uniti, i cui poveri, con i white trash, la spazzatura bianca formatisi dopo la crisi economica, ammontano a 50 milioni di persone, il 16 per cento dell’intera popolazione. Certo, dice Caparrós, morire di inedia in Sudan sembra diverso dal nutrirsi di scarti alimentari, di immondizia, a Buenos Aires, ma le cause di fondo restano le stesse, ben radicate nella ferocia dello sfruttamento neoliberista.

Caparrós non è un economista, è uno che racconta storie, storie dentro la Storia, come già faceva prima della dittatura e dell’esilio con lo scrittore desaparecido Rodolfo Walsh, per la rivista di sinistra Noticias. Il suo è un lavoro quanti-qualitativo, come dovrebbe essere ogni buona ricerca in ambito sociale, e per questo appare assai convincente. Sono le vicende personali di donne, di uomini, di bambini a tessere il testo. Soprattutto donne, perché anche la fame è di genere, colpisce di più la popolazione femminile, in culture dove questo dato sembra una nemesi, visto che le donne sono deputate alla preparazione del cibo in modo pressoché esclusivo. Negli intermezzi intitolati Palabras de la Tribu l’autore raccoglie, come il controcanto di un coro greco, le nostre viziate convinzioni su come va il mondo, i nostri pregiudizi, le nostre autodifese, la nostra profonda ignoranza e incapacità di capire in quale sistema-mondo viviamo, tutti, ma proprio tutti, non solo gli affamati, non solo i poveri.

Caparrós non risparmia i colpi bassi alla nostra ipocrisia, e alla sua: sono “un canalla” perché scrivo questo libro per confessarmi e assolvermi, sono una canaglia perché per scriverlo ho usato i fondi di una agenzia di aiuti alla cooperazione che lavora nel modo che critico, sostenendo il modello, mettendoci le pezze. Non risparmia neanche i guru della microeconomia e del microcredito, gli “ecololò” dell’ecologismo “suntuario”, i teorici alla Vandana Shiva che, in fondo, predicano un capitalismo laborioso e bonario.

Ma, si domanda Caparrós, se questi “hambrientos”, se i nuovi poveri americani e africani ad un certo punto decidessero che basta, che bisogna far saltare le leve del manovratore? Se il terrorismo, l’ISIS, fossero solo un assaggio di quello che potrebbe accadere? Ma, si risponde, l’Altro Mondo non è la Parigi del 1789, nemmeno la Vandea contadina, è l’altrove dalla speranza, e l’altro dall’utopia. La povertà estrema, la perdita della propria dignità di lavoratore e di cittadino, la fame come condizione perenne del corpo e della mente, oggi sembrano assumere il compito di strumenti per la rassegnazione, per l’autopunizione (se sono povero è colpa mia), per il fatalismo (così vuole Allah, così vuole el Todopoderoso, l’Onnipotente).

Caparrós è affascinato e terrorizzato dalla mole di dati che si possono raccogliere e analizzare sul fenomeno dell’impoverimento di milioni di persone. Numeri in tabelle, statistiche, rapporti la cui fonte è talvolta ufficiale, governativa, altre volte ufficiosa, di nicchia. Grandi numeri che si contraddicono, si smentiscono e smentiscono troppo spesso la loro presunta oggettività. Ciò che sta alla base di tutto questo profluvio di numeri ha dei nomi: cambio climatico, desertificazione, urbanizzazione forzata, trattati di libero commercio (si veda alle attualissime voci TTP e TTIP…traffici geopolitici!), prodotti agroalimentari quotati in borsa, corruzione, distrazione di fondi dedicati: non c’entra la tiranna Natura, è il capitalismo, bellezza!

Ed è lo sconcerto intorno alla cifre che spinge Caparrós a raccontare storie di vita, perché il resoconto su una giornata in una “villamiseria”, uno slum, in Bangladesh, o fra i raccoglitori di immondizie alla periferia di Buenos Aires, controbilanciano la neutralità del numero, lo rendono vivo, lo piegano verso un’immagine da cui vorremmo scostare lo sguardo. In certi momenti, dice Caparrós, avrebbe voluto poterlo fare anche lui, si rammarica per chi legge, perché questo libro parla di cose schifose, di bruttezza, di malattia, di fluidi organici, di decomposizione. Che lo si voglia o no, questo è il corpo che noi siamo, quello che nelle province floride del capitalismo occultiamo con buone pietanze, sane digestioni, discrete eliminazioni, complete igienizzazioni. Ciò che parla da questo libro è il corpo sfatto, prostrato, disumanizzato. È il musulmano di Primo Levi, chino sulla crosta di pane.

Il musulmano che sta scomparendo, secondo altri analisti, quelli interni al sistema. Anche loro contro la felice e facile ecologia, contro gli astrattismi dei buoni alla Shiva, leggono e interpretano i dati per far quadrare i conti, da cui si ricava che la fame nel mondo ha dimezzato la sua cifra negli ultimi vent’anni grazie al progresso in campo scientifico. Basta leggere le contorsioni ideologiche dell’analista politico Marco Ponti in un acuminato elzeviro dal titolo: “I compagni felce e mirtillo che servono ai protezionisti”, pubblicato su Il fatto quotidiano del 12 ottobre scorso. Dài tempo al tempo, il capitalismo nella sua forma neo, informatizzata, numerica, geneticamente modificata, ci salverà ancora una volta. Caparrós non si accontenta della indignazione e non si aspetta nulla dal riformismo post-socialdemocratico. Chiede di trasformare un sentimento “elegante e controllato” di resilienza in qualcosa che “non si neghi all’azione, che denunci e che sollevi, che passi all’attacco”.

Certo, conclude il suo poderoso lavoro, “siamo in un momento privo di progetto… un’epoca difficile, orfana”, ma proprio per questo dobbiamo continuare a cercare, non possiamo accontentarci di stanare le malefatte del nemico di classe (e sì, ancora!), dobbiamo studiare e lottare, lottare per poter studiare. Stare in cerca è angustiante ed è affascinante, e abbiamo poco tempo.

Cercare. Occorrono menti critiche, occorrono strumenti di analisi non convenzionali, occorre un pensiero non conformista, non conforme. Occorre abbattere il muro dell’ignoranza, della rassegnazione, della induzione alla fame morale, politica.

Non c’è posto per la scuola in tutto questo?

Pubblicato su lacittafutura.it con il titolo originale completo Cibo per il corpo, cibo per la mente: i gironi del neoliberismo. L'autrice è stata dirigente scolastica per la scuola primaria Pietro Maffi di Roma.

Il manifesto, 20 ottobre 2016 (p.d.)
Quasi dieci anni fa scoppiava la crisi dei mutui subprime negli Usa. Il re era nudo, il ruolo nefasto della finanza ormai evidente, gli stipendi dei manager diventati improvvisamente intollerabili e scandalosi. Nel 2007, l’anno della crisi e del crollo della Borsa di Wall Street, la remunerazione dei bancari delle quattro principali banche statunitensi era aumentata del 9% arrivando a 66 miliardi di dollari, mentre le rispettive banche perdevano 50 miliardi di capitalizzazione in Borsa. I dipendenti venivano pagati in media 350 mila dollari a testa per bruciare ognuno 274mila dollari. Con centinaia di milioni di dollari per ciascun banchiere al momento della liquidazione.
Stan O’Neal, Ceo della Merill Lynch licenziato nell’autunno del 2007 in seguito al crollo in borsa della società, ricevette una liquidazione di 161 milioni di dollari. Charles Prince capo della potente City Group costretto alle dimissioni dopo aver portato la società vicina al fallimento, ricevette una liquidazione di 140 milioni di dollari.

Molti di noi hanno pensato che con il crollo delle Borse, con il licenziamento in massa degli operatori finanziari (150mila solo a New York), con gli evidenti effetti collaterali sull’economia reale, il sistema capitalistico mondiale dovesse cambiare rotta. Invece dopo 10 anni osserviamo che la capitalizzazione nelle principali Borse del mondo è tornata a livelli superiori al 2007, il debito pubblico e privato (Stato, famiglie e imprese) è arrivato al 265% del Pil mondiale (con un incremento del 35%) ed in particolare cresce il debito statale, impropriamente chiamato “sovrano”, di oltre 20 mila miliardi di dollari. Insomma, tutto è tornato come prima e peggio di prima nel mondo della finanza.

Come è ormai evidente questa crisi non è paragonabile a quelle precedenti: ha provocato una accelerazione nella diseguale distribuzione di redditi, patrimoni, potere; ha impoverito una buona parte della popolazione mondiale, compresi i paesi occidentali industrializzati che hanno visto per la prima volta una forte riduzione dei ceti medi.

Conosciamo gli effetti nefasti sull’occupazione, sulla crescita del disagio sociale, sul taglio dei servizi pubblici, sul crollo degli investimenti, ma non abbiamo ancora preso atto dei segni profondi che questa crisi ha lasciato, «segni invisibili» che le statistiche non registrano, ma che possiamo cogliere nei mutamenti culturali, nelle visioni del mondo, nell’agire quotidiano. Ha ragione Roberto Esposito quando afferma che «la crisi economica degli ultimi anni è diventata biopolitica nel senso che impatta fortemente con la vita delle persone».

Come docente universitario ho vissuto sia nel contatto con i miei studenti, sia attraverso delle ricerche sul campo, il dramma della inoccupazione giovanile, dei Neet (Not employement, education, training) ed ho percepito come prima cosa che i giovani laureati, ed anche “masterizzati” o “dottorati”, abbassavano di anno in anno le loro aspettative. Anche a livello nazionale, in alcune ricerche sulla condizione giovanile, emerge come i giovani (dai 18 ai 35 anni) tendano ad accontentarsi quando riescono ad avere un lavoro, magari malpagato, e che alcuni si sentono dei fortunati e privilegiati solo perché sono riusciti a vincere un concorso pubblico, magari per una mansione dequalificante e con uno stipendio, che in una grande città, ti consente appena di sopravvivere. In questo senso si può dire che la crisi economico-finanziaria ha avuto un carattere “disciplinante” nell’accezione di Foucault, ha abbassato le aspettative e quindi ha permesso di ridurre i diritti sociali senza che ci fossero delle grandi rivolte popolari (eccetto che in Francia, dove questi diritti erano storicamente più radicati). Chi viene sfruttato e maltrattato sul luogo di lavoro si lamenta, ma poi aggiunge «meglio di niente: almeno io un lavoro ce l’ho».

Ho visto una condizione simile, per la prima volta in vita mia, nel Cile di Pinochet nel 1986, quando ero in quel paese. Una sera un taxista che mi accompagnava a casa di compagni cileni mi raccontò il fallimento della azienda dove lavorava: «Ero un lavoratore superfluo ed ho dovuto trovarmi un altro lavoro e per fortuna ho trovato un padrone che mi affitta il suo taxi». Mi è rimasto impresso il suo senso di colpa, si era convinto che il licenziamento fosse giusto, che lui fosse il colpevole, come nelle culture premoderne lo erano (e lo sono ancora in alcune aree del mondo) le persone disabili che vivevano l’handicap come l’espiazione per un peccato commesso.

I «segni invisibili» della crisi li possiamo cogliere anche in una maggiore indifferenza verso i migranti e le guerre. E’ quella «indifferenza globalizzata» denunciata da papa Francesco. Cammina nei discorsi sul treno, al bar, o al ristorante, tra persone estranee quanto tra gli amici più cari. E’ il frutto di un profondo senso di impotenza che questa crisi ha rafforzato. Dalla finanza è transitata all’economia reale, segnando paradossalmente il trionfo del pensiero unico: il mercato è l’unica salvezza; non è possibile modificare questo modello di sviluppo capitalistico; i paesi del socialismo reale sono crollati e i comunisti cinesi e vietnamiti si sono salvati dal crollo e dalla perdita del potere convertendosi al turbo capitalismo.

Aldilà di una possibile ripresa economica (piuttosto improbabile) i segni della crisi resteranno per molto tempo, a segnare la forza del neoliberismo trionfante. Non è tanto e solo la concorrenza che ha scatenato tra lavoratori sempre più precarizzati, tra disoccupati ed immigrati, è il processo di interiorizzazione e di colpevolizzazione. L’idea che abbiamo vissuto per troppo tempo al di là delle nostre possibilità, che abbiamo esagerato nel welfare, nella spesa pubblica, nello Stato sprecone (vedi la necessità strombazzata di una spending review). Pertanto il debito insostenibile dello Stato - che è cresciuto iperbolicamente per salvare le grandi banche - è colpa nostra, la perdita di competitività delle nostre imprese è colpa nostra, dei lacci e lacciuoli che le leggi impongono (come lo Statuto dei lavoratori).

Chi vuole costruire un’alternativa economica e politica, non può non fare i conti con «i segni invisibili» della crisi penetrati nelle nuove generazioni, insieme alla paura del futuro. Una visione del mondo che è antitetica all’idea di progresso sociale, alla inevitabile evoluzione sociale positiva dell’umanità, che ha accompagnato il pensiero socialista, marxista, anarchico per due secoli.

Il modello è quello del TTIP. La Vallonia non è d'accordo , e frena l'intesa dei Grandi. . Noi stiamo con Davide. Agenzia ANSA, 18 ottobre 2016
"Non svendete la democrazia - #Stop CETA". E' il messaggio che compare su uno striscione di oltre 70 metri quadrati che quattordici attivisti di Greenpeace hanno aperto sul centro congressi europeo di Lussemburgo, dove i ministri per il Commercio dei paesi Ue si stanno per incontrare in occasione del Consiglio Trade. Greenpeace e altre organizzazioni della società civile, spiega l'organizzazione ambientalista in una nota, si oppongono alla ratifica del CETA, accordo commerciale tra Ue e Canada, perché "si tratta di una minaccia per la democrazia, per le politiche ambientali europee e i servizi pubblici".

"Il messaggio per il governo italiano e l'Unione europea è molto chiaro: il CETA va fermato", dichiara Federica Ferrario, responsabile campagna agricoltura e progetti speciali di Greenpeace Italia. "Se oggi i ministri dovessero firmare l'accordo - aggiunge - compierebbero un gesto contrario al volere della maggioranza dell'opinione pubblica europea. Le relazioni commerciali tra l'Ue e gli altri Paesi dovrebbero seguire i basilari principi democratici e contribuire a tutelare clima, ambiente, politiche sociali, oltre che raggiungere obiettivi di carattere economico. Il CETA invece, così com'è, antepone gli interessi delle multinazionali a quelli delle persone e del Pianeta".

Un punto di particolare preoccupazione, sottolinea Greenpeace, consiste nell'inclusione nel CETA dell'ICS - un sistema per la protezione degli investimenti - "che dà agli investitori stranieri particolari privilegi. Ogni multinazionale con sede o filiale in Canada potrà utilizzare questo sistema per sfidare leggi e standard dell'Ue". "Qualsiasi accordo che metta a rischio standard ambientali, di salute pubblica e del lavoro, per concedere poteri privilegiati alle multinazionali, servirà invece ad alimentare le disuguaglianze a scapito dei cittadini", conclude Ferrario

Riferimenti

Vedi su eddyburg gli articoli di Giorgio Lunghini e di Giovanna Ricoveri e l'intervista a Colin Crouch a proposito del Transatlantic Trade Treaty

La Repubblica, 2 ottobre 2016

Sulle rovine di Aleppo si decide la riscossa di Bashar al Assad o la tenuta del sedicente Stato Islamico. Ma ormai la devastazione di uno fra gli insediamenti umani più antichi della Storia è totale: mancano cibo, acqua e medicine. Ieri al centro dei bombardamenti — di caccia russi o siriani governativi — c’è stato il principale ospedale nella zona in mano ai ribelli, danneggiato in modo pesante, a seconda delle fonti si dice da bombe a grappolo o da barrel bombs.

Ma che il martirio sia nutrito di tecnologie moderne o di brutalità rudimentale, il risultato non cambia: per i civili di Aleppo restano strumenti di atrocità.

CLUSTER BOMB
Le cluster bomb (bombe a grappolo) sono costituite da un contenitore e numerose sub-munizioni, cilindretti grandi poco meno della lattina di una bibita: quando la bomba principale viene sganciata, le bombette vengono disperse in modo casuale. Non essendo la loro posizione controllabile, non sono registrate in una mappa e la bonifica è molto difficile.

Ad Aleppo bombe cluster “Rbk-500 Shoab 0,5” sarebbero state sganciate dall’artiglieria e dall’aviazione russa o da quella di Damasco: Mosca non aderisce alla convenzione che mette al bando le cluster, ma ha firmato l’impegno delle Convenzioni di Ginevra a non colpire indiscriminatamente i civili. Organizzazioni umanitarie segnalano che le cluster sono utilizzate dai caccia Su-24, Su-25 e Su-34 schierati nella base russa di Shagol e in quella siriana di Hmeymim, il Cremlino nega.

BUNKER-BUSTER
Secondo testimonianze filmate, i caccia da attacco al suolo Su-25 “Frogfoot” di Mosca hanno sbriciolato interi isolati di Aleppo utilizzando bombe “Betab-500”, in grado di penetrare attraverso strati di cemento prima della detonazione. Sono le equivalenti delle americane “bunker-buster”, destinate a distruggere rifugi sotterranei e arsenali di munizioni. Sarebbero già state usate contro installazioni dello Stato Islamico, ma fino ad ora mai adoperate in un contesto urbano.

BARREL BOMB
Economiche e facili da assemblare, sono l’equivalente per l’aviazione degli ordigni improvvisati IED. Si costruiscono con un contenitore cilindrico, come un bidone da petrolio, riempito di rottami metallici o da prodotti chimici aggressivi, come il cloro, assieme a una grande quantità di esplosivo, fino a una tonnellata. Vengono lanciate anche da elicotteri, provocando danni molto gravi perché i frammenti di metallo si spargono per un’area vasta. Secondo la Rete siriana per i diritti umani, nella prima metà dell’anno ne sarebbero state sganciate su Aleppo oltre seimila. Secondo Human Rights Watch, le bombe-barile hanno preso il posto delle armi chimiche per spargere paura fra la popolazione. Nel febbraio 2014 il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha chiesto alle parti nella risoluzione 2139 di non farne utilizzo. Ma secondo Amnesty quell’anno le persone uccise ad Aleppo dalle bombe-barili sono state oltre tremila.

AUTO-BOMBA
Sono lo strumento del terrore preferito per attacchi a obiettivi statici: ad Aleppo sono state usate (con un guidatore kamikaze) contro le caserme militari. Basate su automobili cariche di esplosivo, a volte fatte esplodere da lontano con un telecomando, sono un mezzo privilegiato per i miliziani del sedicente Stato islamico.

BOMBE AL FOSFORO
Il fosforo bianco è un materiale altamente infiammabile, usato per munizioni incendiarie o destinate a produrre fumo per nascondere le manovre. Le munizioni al fosforo possono essere lanciate dall’aviazione, ma anche dall’artiglieria leggera in dotazione alle truppe di terra. Le persone colpite lamentano ustioni gravi fino alla morte, soffocamento, danni all’apparato digerente e respiratorio.

ARMI CHIMICHE

Già nel 2013 razzi contenenti gas nervino Sarin sono stati usati contro la popolazione della zona di Khan al Assal, ad Aleppo. Governo siriano e miliziani dello Stato islamico si rinfacciano la responsabilità dell’attacco, in cui sono morte 26 persone. Il Sarin in possesso del governo siriano verrebbero da depositi sfuggiti ai controlli internazionali, quello in mano agli integralisti, secondo diverse testimonianze sarebbe stato fornito dall’Arabia Saudita. Il gas nervino ha l’effetto di paralizzare il sistema nervoso, fermando anche la respirazione e provocando la morte delle persone colpite. Nell’agosto scorso Dandanya, nella zona di Aleppo, controllata dalle Forze siriane democratiche (curde) è stata colpita con razzi che hanno diffuso gas irritante, probabilmente iprite: se respirato, può provocare il soffocamento. I curdi accusano del bombardamento le forze armate della Turchia.
La morte di Abd Elsalam Ahmed Eldanf, operaio della ditta di logistica Gls ucciso da un camion della stessa azienda durante un picchetto, dovrebbe far emergere definitivamente la questione di un modello produttivo pensato al massimo ribasso dei diritti. Sebbene la notizia sia ormai stata derubricata dai giornali e la procura di Piacenza abbia imposto sull’accaduto una ricostruzione di dubbia credibilità, i fatti ci riportano a considerazioni più generali.

Le cause di questa morte vanno rintracciate in un conflitto che vive in un nuovo modello dell’organizzazione industriale e della sua filiera, dalla produzione al consumo. Provare a mettere in ordine questi argomenti è un esercizio che conduce alla complessità delle dinamiche sociali.

In un’economia funzionale al consumo e all’ibridazione tra consumo e produzione, la logistica ha un ruolo semplice: è interpretata come mero tassello utile alla fruizione del consumo stesso, che va assicurato a ogni costo. Ordino un prodotto online, deve arrivarmi il prima possibile.

L’unica cosa che conta

Nel processo produttivo – quello che va dalla produzione fisica alla vendita al dettaglio – la logistica è quel settore intermedio che consente il passaggio dei beni dai magazzini al negozio oppure, ormai sempre più di frequente, direttamente nelle nostre case. Nell’epoca dei feedback, della tracciabilità e delle promozioni sui costi di spedizione, è necessario che tutto sia puntuale, che la merce giunga a destinazione in modo efficiente, così da rendere il cliente soddisfatto delle sue scelte di acquisto. Questo vuole l’azienda che vende; perché questo massimizzerà la fiducia dei clienti permettendo di aumentare nel tempo le vendite, quindi gli utili.

L’unica cosa che conta sono i risultati, non come questi siano stati raggiunti. Si definisce così una netta separazione tra l’individuo consumatore e la società. Il consumatore vuole consumare e risparmiare: l’acquisto in tre click e il fattorino che bussa alla porta di casa. Il processo che intercorre tra questi due momenti è appunto utile alla soddisfazione privata.

Non è un caso che risulti secondario, se non del tutto indifferente, per il consumatore, in che modo i piccoli venditori e i grandi colossi del commercio siano in grado di praticare costi di spedizione minimi o addirittura nulli. Raramente si entra in contatto con un operatore della logistica, che sia un facchino, un magazziniere o un autotrasportatore.

Sotto la retorica della modernità edonistica, del “direttamente sul tuo divano”, si rafforza l’alleanza tra logica del consumo e progressivo impoverimento dei lavoratori. Scompare qualsiasi traccia che colleghi il momento della produzione con quello del consumo, cioè da una parte, il facchino che vende la sua forza lavoro per un tempo illimitato e, dall’altra parte, il consumatore che ne beneficia in un tempo brevissimo. Una rottura che chiude la possibilità della solidarietà e apre le porte alla pura estraneità: così funziona il capitalismo oggi.

Si assiste quindi a una rimozione forzata ma necessaria, in cui le miserie della sottoccupazione, del lavoro che ritorna anche a una dimensione schiavistica, sono assunte come inevitabili per conservare intatte le forme di consumo. Consumare si configura come l’unica fonte di identità. Le fabbriche di Dhaka, il lavoro minorile in Turchia, i facchini di Piacenza invece diventano strumentali al diritto-dovere del consumo, che per vivere e prosperare deve alimentarsi di una guerra tra poveri.

Allargando la lente, il settore della logistica emerge in tutta la sua ampiezza all’interno dell’organizzazione della produzione. Basta tener presente che già nel 2012 il volume d’affari di questo settore era stimato, tra i paesi dell’Unione europea, in 878 miliardi di euro, secondo uno studio riportato dalla Commissione europea.

Non stupisce se si considera che la logistica garantisce lo stoccaggio e la gestione dei magazzini delle catene commerciali, dei centri commerciali, dei magazzini e delle consegne delle piattaforme di e-commerce, della distribuzione sul territorio nazionale dei beni acquistati in appalti centralizzati dalle pubbliche amministrazioni.

Condizioni di semischiavitù

Dentro la catena della produzione la logistica occupa un ruolo centrale e non più residuale. La globalizzazione e l’aumento degli scambi al livello internazionale hanno reso necessario un ampliamento del settore legato al trasporto e l’immagazzinamento delle merci: oggi è più facile acquistare un prodotto dalla Romania e riceverlo in pochi giorni a casa, così come è normale produrre in Bangladesh e vendere in un qualsiasi negozio di una piccola città di (quasi) ogni paese.

Per renderlo possibile, le diverse fasi del processo produttivo hanno dovuto subire una netta trasformazione: dalla fabbrica che tiene insieme tutte le fasi della produzione alla frammentazione e all’esternalizzazione delle diverse funzioni che caratterizzano l’intero processo.

È avvenuta così la terziarizzazione dell’economia: le imprese produttrici hanno scoperto che gestire da sole la distribuzione dei loro prodotti implicava costi troppo elevati, soprattutto in un mercato globale. Altre imprese avrebbero potuto gestire l’immagazzinamento e il trasporto delle merci di più aziende, riducendo il costo unitario di ogni singolo prodotto trasportato. All’interno di questo schema, la logistica rappresenta allora il polo nevralgico su cui scaricare i costi del processo di accumulazione dei profitti.

La logistica, come settore di servizio, nasce e si consolida con l’obiettivo di minimizzare i costi tra il momento della produzione e quello della vendita: minori costi garantirebbero in teoria prezzi al consumo più contenuti, competitivi. Ma le aziende del settore logistico hanno anch’esse ovviamente l’obiettivo del profitto, al di là da quel che succede a monte e a valle della filiera.

Così il passaggio successivo è comprimere i costi, robotizzando alcune fasi e/o agendo sul costo del lavoro. Entrambi i meccanismi – frammentazione ed esternalizzazione da una parte, e robotizzazione dall’altra – producono un aumento del reddito dell’impresa e spesso non si escludono l’uno con l’altro. Al contrario, laddove non è possibile robotizzare, è con l’intensificazione dei ritmi di lavoro che si estrae ciò che un tempo sarebbe stato comunemente definito plusvalore.

Nel modello italiano, ma non solo, l’uso intensivo della forza lavoro è indipendente dalla dimensione delle aziende coinvolte. Al contrario, ad accomunare grandi colossi e medie imprese, nel tentativo di ridurre al massimo il costo del lavoro, c’è l’uso delle cooperative, che sono spesso cooperative di comodo. Il risultato è: condizioni di lavoro, dal salario all’orario di lavoro, sempre peggiori, in alcuni casi vicine alla semischiavitù.

La rappresentazione giornalistica delle morti sul lavoro ha spesso facilitato una sorta di scissione tra le cause scatenanti la tragedia e l’evento tragico in sé. I fatti raccontati con la puntualità della cronaca giornalistica hanno alimentato nell’opinione pubblica un sentimento di indignazione verso le tragedie consumate sui luoghi di lavoro, spostando però l’attenzione sulla dimensione emotiva e tralasciando più o meno volontariamente i fattori all’origine della tragedia.

Un’ombra copre l’analisi dei meccanismi che generano le morti bianche, privando l’opinione pubblica di un piano complessivo di osservazione. Questa tendenza del racconto giornalistico assume particolare interesse quando le morti sul lavoro investono un settore considerato ai margini del processo produttivo, come la logistica. In questo caso, infatti, la tendenza a identificare l’incidente sul lavoro come un’eccezione assume un portata ancora più vasta.

La negazione del conflitto

La logistica, infatti, è considerata come un processo periferico nell’ambito della produzione capitalistica. Le attività di stoccaggio, trasporto merci e gestione delle scorte rappresentano fasi “rimosse” di un processo produttivo che invece si compie e si materializza nell’esercizio del consumo.

Ma sotto il velo della versione del capitale, in cui il consumo assolve i tratti di una funzione liberatoria in grado di soddisfare l’appetito del consumatore, c’è la materialità di rapporti di produzione basati sulla messa a valore di ogni aspetto della vita umana. L’intensificazione dello sfruttamento nel settore della logistica diventa quindi il paradigma della trasformazione dei processi di accumulazione del capitale: e non si tratta solo della messa a valore della forza lavoro, ma riguarda anche la sfera della riproduzione sociale, ossia della nostra vita.

L’intensificazione dei tempi di lavoro, che è un tratto tipico dell’organizzazione del lavoro nel settore logistico, mette in soffitta qualsiasi distinzione temporale tra il piano dell’accumulazione dei profitti nella sfera produttiva (il tempo del lavoro) e quella riproduttiva (il tempo libero). Gli operatori della logistica sperimentano nel quotidiano della loro attività la totale privazione di un tempo di vita libero, rappresentando un esempio concreto dei meccanismi di funzionamento alla base del sistema capitalistico.

Gli orari di lavoro che si spingono fino alle dodici ore consecutive sono il tratto evidente del controllo esercitato dal nuovo modello di produzione e consumo. Inoltre, la separazione tra chi produce e chi consuma maschera anche l’impoverimento generalizzato dei lavoratori.

Un’elevata percentuale di chi lavora nella logistica è composta da immigrati a cui non è riconosciuta quella sfera riproduttiva, quel tempo libero, di cui invece gode, magari fittiziamente, il precariato italiano.

Anche in altre sfere produttive, in particolare nell’ambito del terziario (servizi, ristorazione, cura) e del lavoro cognitivo, il modo più semplice per fare profitti è il prolungamento dei tempi di lavoro. Ma da periferia del modello produttivo ad avanguardia delle nuove forme di sfruttamento, è proprio il settore della logistica che coinvolge sempre più persone, si espande, e diventa una chiave di lettura utile per riconoscere le contraddizioni di fondo del progetto neoliberista.

Le difficoltà del sindacato

Dall’introduzione del rapporto di lavoro interinale istituito dall’ex ministro del lavoro Tiziano Treu alla legge numero 276 del 2003 (legge Biagi) che introduce nel nostro ordinamento il lavoro in somministrazione, il settore della logistica è al centro di un processo progressivo di precarizzazione.

La competizione internazionale, basata sulla compressione dei costi, e la tendenza crescente del sistema delle imprese a esternalizzare alcune fasi della produzione, hanno coinciso con una serie di leggi che hanno lasciato ampio margine per frazionare l’organizzazione del lavoro. A fare le spese di questo processo è il settore della logistica, in cui si fa sempre più ricorso al subappalto di manodopera, spesso affidato a cooperative “spurie”, prive di quei connotati mutualistici riconosciuti dalla nostra costituzione.

E qui arrivano le difficoltà per i sindacati. Frammentare la produzione e l’organizzazione del lavoro ha alimentato una crescente difficoltà per le organizzazioni sindacali di costruire lotte unitarie. Si sono così create nel tempo delle divisioni nell’ambito del movimento sindacale, arrivando a una scissione di fatto tra sindacati di base, più vicini alle rivendicazioni dei lavoratori del settore, e sindacati confederali più attenti a salvaguardare un piano di mediazione generale con il sistema dell’impresa.

I sindacati non hanno saputo interpretare i tratti salienti della nuova divisione del lavoro

Questa separazione ha determinato la vera difficoltà nel cercare di ottenere contratti collettivi che possano tutelare l’intero comparto produttivo e i diritti dei lavoratori coinvolti. La marginalità della logistica e la sua espulsione progressiva da un piano di regole costituzionali ha accelerato quel processo di precarizzazione dei rapporti di lavoro, che sono all’origine delle tragiche notizie di cronaca.

Seppur con le dovute eccezioni, le grandi organizzazioni sindacali hanno registrato un limite evidente nella sottovalutazione delle nuove forme di organizzazione del lavoro funzionali agli obiettivi dell’accumulazione capitalistica. In particolare, non hanno saputo interpretare i tratti salienti della nuova divisione del lavoro, mancando di una visione complessiva sul funzionamento della macchina capitalistica. Hanno pensato di tamponare una slavina.

Si è accettato che produzione e consumo siano due dimensioni scisse, distanti, che non hanno a che fare l’una con l’altra. E la supremazia del diritto del consumatore all’acquisto della merce, come la distinzione gerarchica tra chi consuma e chi produce, hanno allontanato il sindacato dalla vera posta in gioco, che resta la messa in discussione dell’intero modello di sviluppo.

Da questa tendenza difensiva che privilegia la conservazione di una posizione di rendita per i sindacati, deriva l’incapacità di spostare la dimensione del conflitto verso l’insieme dell’organizzazione del lavoro per incidere invece su tutto il processo: produzione, logistica, vendita, consumo.

La Repubblica, 19 settembre 2016 (m.p.r.)

Il Grande fratello dei semi si prepara a ridisegnare il futuro dell’agricoltura mondiale. Il suo mantra ideologico - basta leggere i siti dei colossi del settore - è sempre lo stesso. «Una persona su otto va a letto affamata - recita quello della Dupont - . Se vogliamo garantire cibo a tutti nel 2050 dobbiamo aiutare i contadini a rendere più produttivi i campi». Come è sotto gli occhi di tutti: le 7mila aziende sementiere attive nel 1981 sono quasi sparite. Un’ondata di fusioni e acquisizioni ha concentrato il 63% del mercato nelle mani di tre colossi (Dow-Dupont, ChemChina- Syngenta e Bayer-Monsanto). Le stesse società - guarda caso - che controllano il 75% del business di pesticidi e diserbanti in un groviglio di conflitti d’interessi in cui «l’industria è costretta a vendere i semi assieme ai prodotti agrochimici per non fare harakiri», come accusa Vincenzo Vizioli, presidente dell’Associazione italiana agricoltura biologia. Ultimo e più famoso esempio: il discusso ed efficacissimo glifosato (unico neo, è un sospetto cancerogeno) promosso in rigorosa abbinata con i semi hi-tech modificati per resistere ai suoi effetti.

L’era del seme unico - dicono i critici - ha già avuto effetti devastanti: la Fao ha certificato che nel ventesimo secolo, a forza di specializzare le colture, abbiamo perso il 75% della biodiversità e che un altro terzo se ne andrà entro il 2050. Uno scotto da pagare, dice l’industria: sviluppare un seme super efficiente (e spesso transgenico) può costare 136 milioni di dollari, un nuovo pesticida può arrivare a 250 milioni. «Solo le imprese di grandi dimensioni hanno i soldi per la ricerca necessaria alle sfide del futuro - spiega Lorenzo Faregna, direttore di Agrifarma, l’organizzazione degli imprenditori di settore - E la fanno con controlli rigidissimi. In Italia, per dire, siamo monitorati da tre ministeri: Ambiente, Salute e Agricoltura».
I risultati, assicura la European seed association, la potentissima lobby di settore, si vedono: incroci e selezioni usciti dai laboratori dei big dei semi «contano per il 74% degli aumenti di produttività in campo agricolo e hanno garantito carboidrati, proteine e oli vegetali per 100-200 milioni di persone aggiungendo 7mila euro di reddito agli agricoltori».
Chi lavora davvero la terra la pensa in un altro modo: «Stiamo creando un oligopolio pericoloso per contadini e consumatori - dice Roberto Moncalvo, presidente Coldiretti - . Il modello proposto dai big del settore, semi standardizzati e omologati assieme ai fitofarmaci, non funziona più. Le grandi aziende controllano i prezzi, ovviamente a loro uso e consumo. E vanno controcorrente in un mondo dove le coltivazioni Ogm stanno calando e dove la tendenza è rilanciare la biodiversità e ridurre, come si fa con successo in Italia, l’uso di pesticidi e diserbanti».
La natura, in effetti, ha imparato a difendersi dall’assalto della chimica di sintesi. Il 98% delle coltivazioni di soia e il 92% di quelle di mais negli Usa sono seminati con Ogm. Ma le erbe infestanti sono riuscite in poche stagioni a sviluppare resistenza ai fitosanitari con cui vengono trattate. E molti contadini a stelle e strisce - complice pure il crollo dei prezzi delle materie prime - iniziano a dubitare che il gioco (vale a dire il prezzo altissimo di sementi e agrochimica hi-tech) valga la candela.
La “triade” del seme, ovviamente, non ha nessuna intenzione di cedere le armi facilmente. Il modello delle sementi ereditarie - quello che funziona da millenni e prevede la conservazione di parte di un raccolto per piantarlo l’anno successivo - è un pericolo per i profitti. E un paio di pionieri dell’Ogm hanno già brevettato “Terminator” (il nome dice tutto) un seme autosterile, che genera frutti e semi che non sono in grado di riprodursi, obbligando il contadino a rifornirsi da loro a ogni stagione. L’arma finale cui nessuno - per fortuna - ha dato ancora l’autorizzazione al commercio.
L’ingegnerizzazione e la privatizzazione delle piante segue però anche altre strade. Come quella, più tortuosa ma più efficace, del brevetto. L’industria ha depositato all’Ufficio europeo brevetti 1.400 richieste di autorizzazione per usare in esclusiva varietà di piante selezionate con metodi naturali, come fanno da millenni contadini e natura senza accampare diritti monetari. E 180 sono stati approvati come il Broccolo Monsanto (Ep1597965), una pianta normalissima il cui fusto è stato indebolito naturalmente solo per favorire la raccolta meccanica.
Il risiko dei semi del resto, assicurano i guru della finanza, è solo l’inizio e tra poco darà il via all’integrazione verticale tra i ricchissimi produttori di macchine (come Deere e Cnh) e i big nati dalle fusioni degli ultimi mesi. Con nel mirino le meraviglie dell’agricoltura hi-tech a base di droni e satelliti. Sarà davvero il modo per dare da mangiare a tutti? «Tutt’altro - conclude Moncalvo - . La strada è un’altra. Già oggi un terzo di quello che viene prodotto in campagna viene sprecato e non consumato. Basterebbe recuperarlo e già oggi ci sarebbe cibo per tutti i 10 miliardi di persone che abiteranno il pianeta nel 2050».

». Comune.info, 19 settembre 2016 (c.m.c.)

I nuovi colossi accrescono il loro potere nei mercati chiave e si aprono la strada per un incontrollabile aumento dei prezzi dei mezzi di produzione. Avranno inoltre più facilmente le leggi e i regolamenti necessari alla loro guerra contro la sovranità alimentare e l’agricoltura contadina. L’enorme concentrazione in corso non mira tuttavia al solo controllo dei mercati, vuole quello digitale e satellitare dell’intera agricoltura del pianeta. L’offensiva dei colossi dell’agro-business va fermata con ogni mezzo possibile .

Mercoledì 14 settembre, infine, Monsanto ha accettato la terza offerta di acquisto della Bayer. Oltre ad essere una delle maggiori aziende farmaceutiche, adesso Bayer sarà la più grande impresa mondiale nella produzione di sementi e agrotossici. Malgrado abbia grandi dimensioni e conseguenze di ampia portata, questa è solo una delle fusioni recenti tra le imprese transnazionali dell’agro-business. Ci sono movimenti anche tra le imprese di fertilizzanti, tra quelle che producono macchinari e tra quelle che possiedono banche dati che influiscono nei processi agricoli. E’ una battaglia per il controllo non solo dei mercati ma anche delle nuove tecnologie, per il controllo digitale e satellitare dell’agricoltura.

Diversi fattori influiscono nell’accelerazione dei processi di fusione cominciati nel 2014. Uno di essi è che le coltivazioni transgeniche si stanno imbattendo in molti problemi, cosa che spinge i giganti dei transgenici a cercare posizioni più solide di fronte a ciò che sembra essere una fonte di vulnerabilità crescente. E’ significativo che un giornale conservatore come The Wall Street Journal riconosca che il mercato è stato debilitato dai “dubbi” degli agricoltori degli Stati Uniti sulle coltivazioni transgeniche, visto che, dopo 20 anni nel mercato, esse mostrano ancora numerosi svantaggi: “erbe super-infestanti” resistenti agli agro-tossici, rendimenti che non si equiparano agli alti costi dei semi transgenici, né al costo dell’applicazione di agrotossici in maggior quantità e concentrazione per uccidere erbe infestanti e parassiti resistenti, né all’aumento del lavoro per controllare le erbe. Il crollo dei prezzi delle commodity agricole ha accelerato il malessere facendo sì che gli agricoltori che seminavano transgenici tornassero a cercare sementi non transgeniche, più convenienti e con maggior rendimento. (The Wall Street Journal, 14/9/16).

Se verrà autorizzata la fusione con Monsanto, Bayer passerà a controllare circa un terzo del commercio globale di agrotossici e di sementi commerciali. L’operazione fa seguito a quella di Syngenta-Chem-China e DuPont-Dow, in un vertiginoso processo di fusioni e aquisizioni nell’industria sementifera-agrochimica. Monsanto, Syngenta, DuPont, Dow, Bayer e Basf insieme controllano il cento per cento del mercato dei semi transgenici, che adesso resterebbe nelle mani di tre sole imprese. Queste fusioni sono sottoposte al vaglio di varie agenzie anti-monopolistiche, visto che costituiscono blocchi che avranno enorme potere nei mercati chiave e produrranno certamente un aumento dei prezzi dei mezzi di produzione. Forzeranno, inoltre, le leggi e regolamenti a loro favore, contro la sovranità alimentare e le sementi contadine. Soltanto il fatto che tre imprese controlleranno tutte le sementi transgeniche dovrebbe essere argomento sufficiente a qualasiasi paese per rifiutare queste coltivazioni, a causa dell’inaccettabile dipendenza che comportano.

Però il contesto delle operazioni nella catena agroalimentare è più complesso, e include pure gli anelli vicini della catena, così come spiega in modo dettagliato il Gruppo ETC nella sua nalisi della fusione Bayer-Monsanto Sebbene il consolidamento del settore dei semi e degli agrotossici esiste da decenni e sta toccando il suo apice, questi due settori hanno una vendita molto inferiore a quella delle imprese che producono fetilizzanti e macchinari, gruppi che da alcuni anni hanno cominciato a fare incursioni nel mercato dei primi, stabilendo alleanze strategiche. Anche quelle industrie, inoltre, sono in un processo di consolidamento. Poco prima dell’accordo tra Monsanto e Bayer, due delle maggiori imprese di fertilizzanti, Agrium e Potash Corp. haanno deciso di fondersi trasformandosi nella maggiore impresa di fertilizzanti a livello mondiale. Cosa che, secondo gli analisti dell’industria, ha spinto Bayer ad aumentare l’offerta per Monsanto.

Contemporaneamente, nel settore delle macchine rurali – non si tratta solo di trattori e mietitrebbiatrici, ma anche di droni, robot e sistemi Gps che permettono di raccogliere i dati della campagna con i satelliti – è andato sviluppando alleanze con tutti i giganti dei transgenici, che comprendono l’accesso alle banche dati agricole, del suolo, del clima, delle malattie, eccetera. Nel 2015, John Deere, con la maggior impresa di macchine al mondo, si era accordato con Monsanto per comprarle la succursale Precision Planting LLD, azienda di dati agricoli, l’acquisto è stato però sottoposto al Dipartimento della Giustizia, che ha sospeso la vendita perché John Deere sarebbe andato a “dominare il mercato dei sistemi di coltivazione di precisione e avrebbe potuto alzare i prezzi e rallentare l’innovazione, a spese degli agricoltori statunitensi che dipendono da quei sistemi”, giacché Precision Planting LLD e Deere sarebbero passati a controllare l’85 per cento del mercato delle coltivazioni di precisione.(Departamento de Justicia de Estados Unidos, 31/8/16, http://tinyurl.com/j9x6am9).

Siccome questo accordo non è stato concluso, la succursale continua ad essere proprietà di Monsanto e quindi all’interno del pacchetto della nuova fusione, cosa che potrebbe favorire un nuovo ruolo della Bayer nel tema del controllo digitale e muovere tutti pezzi della scacchiera. Ancora una volta, il trattamento dei dati sul suolo, il clima, l’acqua, la genomica delle coltivazioni, le erbe e gli insetti relazionati, sarà ciò che decide chi controlla tutti i primi passi della catena agroalimentare industriale. In questo schema, gli agricoltori sono solo un semplice strumento nella corsa delle imprese per produrre guadagni – non alimenti – cosa che condiziona gravemente la sovranità dei paesi, e non solo quella alimentare.

Jacobin e e tradotta da Francesca Conti. La città invisibile online, 6 settembre 2016, con postilla

11 anni fa David Harvey pubblicò il libro “Breve storia del Neoliberismo”, che è diventato uno dei libri di riferimento sul tema. Da allora abbiamo visto nuove crisi economiche e finanziarie, ma anche nuove ondate di resistenza, che nelle loro critiche alla società contemporanea spesso hanno come obiettivo il neoliberismo.
Cornel West parla del movimento Black Lives Matter come di un “J’accuse” al potere neoliberista; Hugo Chaves chiamava il neoliberismo una “strada per l’inferno”; e i leader dei sindacati stanno sempre più utilizzando il termine per descrivere l’ambiente più grande nel quale si svolgono le lotte su posto di lavoro. Anche la stampa mainstream ha ripreso ad utilizzare il termine, anche se solo per sostenere che il neoliberismo non esiste.

Ma di cosa stiamo parlando esattamente quando parliamo di neoliberismo? E com’è cambiato dalla sua genesi alla fine del 20esimo secolo?

Bjarke Skaerlund Risager, ricercatore presso il Dipartimento di Filosofia e Storia delle Idee dell’Università di Aarhus, ha fatto una lunga disussione con David Harvey sulla natura politica del neoliberismo, come ha trasformato le modalità di resistenza, e perchè la Sinistra deve ancora prendere sul serio la fine del capitalismo.

Neoliberismo è un termine ampiamente utilizzato oggi. In ogni caso, spesso non è chiaro a cosa si riferiscano le persone quando lo utilizzano. Può essere riferito ad una teoria, una serie di idee, una strategia politica, o ad un periodo storico. Potresti cominciare con lo spiegare come tu interpreti il neoliberismo?

Ho sempre affrontato il neoliberismo come un progetto politico portato avanti dalla calsse capitalista quando si è sentita fortemente minacciata sia politicamente che economicamente verso la fine degli anni 60 e negli anni 70. Volevano disperatamente lanciare un progetto politico che fosse capace di mettere un freno al potere della classe lavoratrice.
Sotto molti aspetti era un progetto controrivoluzionario. Avrebbe stroncato sul nascere quelli che a quel tempo erano i movimenti rivoluzionari nella maggior parte del mondo in via di sviluppo – Angola, Mozambico, Cina, etc.. – ma anche quella marea crescente di influenze comuniste in paesi come l’Italia, la Francia e , pur in maniera minore, la minaccia di un loro ravvivarsi in Spagna.
Anche negli Stati Uniti i sindacati produssero un Congresso Democratico che, nelle intenzioni, era piuttosto radicale. Nei primi anni 70, i sindacati insieme ad altri movimenti sociali forzarono un mucchio di riforme e di iniziative riformiste che erano anti- aziende: nacquero l’ Agenzia di protezione dell’ambiente (Environmental Protection Agency), la Direzione per la sicurezza e salute occupaizionale (Occupational Safety and Health Administration), le varie forme di protezione dei consumatori, e una serie di provvedimenti per rafforzare la classe lavoratrice come non era mai accaduto in passato.

In questa situazione esisteva in effetti una minaccia globale alla forza della classe capitalista e allora la domanda era “Che fare?”.
La classe dominante pur non essendo onniscente riconosceva che c’erano diversi fronti sui quali c’era da combattere: il fronte ideologico, quello politico e soprattutto c’era da combattere per sconfiggere la classe lavoratrice in qualsiasi modo possibile. Da tutto questo emerse un progetto politico che chiamerei neoliberismo.

Puoi parlare un po’ degli aspetti ideologico e politico e dell’attacco ai lavoratori?
L’aspetto ideologico risale al consiglio di un tale che si chiamava Lewis Powell. Powell scrisse un memorandum in cui diceva che le cose erano andate troppo in là e che il capitale aveva bisogno di un progetto collettivo. Il memorandum aiutò a mobilitare le Camera del Commercio e il Business Roudtable.
Anche le idee erano importanti sul fronte ideologico.
L’opinione all’epoca era che le università fossero impossibili da organizzare perchè il movimento studentesco era troppo forte e le facoltà troppo progressiste, così fondarono tutti questi think-thank come il Manhattan Institute, l’Heritage Foundation, la Ohlin Foundation. Questi think-thank portavanono con sé le idee di Freidrich Hayek e Milton Friedman e la teoria economica dell’offerta.

L’idea era quella che questi think-thank facessero ricerche serie, e alcuni di loro le fecero, – per esempio il National Bureau of Economic Research era una istituzione privata che fece ottime e accurate ricerche. Queste ricerche sarebbero poi state pubblicate in maniera indipendente e avrebbero influenzato la stampa e passo dopo passo avrebbero accerchiato e infiltrato le università.
Questo processo ebbe bisogno di un lungo periodo di tempo. Io credo che adesso abbiamo raggiunto il punto in cui non c’è più bisogno di una realtà come la Heritage Foundation. I progetti neoliberisti si sono ormai impossessati delle università.

Rispetto ai lavoratori, la sfida era rendere la classe lavoratrice locale competittiva con quella globale. Una strada era aprire all’immigrazione. Negli anni 60 per esempio i tedeschi importavano lavoratori dalla Turchia, la Francia dal Maghreb, il Regno Unito dalle ex-colonie. Ma tutto questo creò molto malcontento e insoddisfazione.

Allora scelsero l’altra strada, quella di portare il capitale dove c’era forza lavoro a basso costo. Ma affinchè la globalizzazione funzioni devi ridurre le tasse relative alle esportazioni e rafforzare il capitale finanziario perchè il capitale finanziario è la forma di capitale più mobile. Così il capitale finanziario e cose come le fluttuazioni della moneta divennero fondamentali per mettere un freno alla classe lavoratrice.

Allo stesso tempo i progetti ideologici di privatizzare e e deregulare crearono disoccupazione. Così disoccupazione a casa, delocalizzazione del lavoro ed un terzo componente: un cambiamento tecnologico, una deindustrializzazione attraverso l’automazione e la robotizzazione. Fu questa la strategia per stroncare i lavoratori.

Questo fu un assalto ideologico ma anche economico. Per me il neoliberismo è questo: è un progetto politico e io credo che la borghesia e i capitalisti l’abbiano messo in atto a poco a poco.
Non credo che abbiano iniziato leggendo le teorie di Hayek o qualcosa del genere, credo che semplicemente in maniera intuitiva abbiano detto ”Dobbiamo sconfiggere i lavoratori, come facciamo?”. E poi hanno scoperto che esisteva una teoria che giustificava tutto questo, che l’avrebbe supportato.

Dalla pubblicazione di “Breve storia del capitalismo” nel 2005 è stato versato molto inchiostro su tutto questo. Sembrano esserci due fronti principali: gli accademici che sono più interessati nell storia intellettuale del neoliberismo e persone la cui preoccupazione sta nel “neoliberismo attualmente esistente”. Dove ti posizioni?

C’è una tendenza nelle scienze sociali, alla quale tendo a resistere, di cercare la “teoria del proiettile-singolo” di qualcosa. Ci sono alcune persone che dicono che il neoliberismo è un’ideologia e così scrivono una storia ideologica di questo.

Una versione di questo è il tema della governamentalità di Foucault che vede le tendenze neoliberiste già presenti nel 18esimo secolo. Ma se si tratta il neoliberismo solo come un’idea o una serie di pratiche limitate di governamentalità, si troveranno moltissimi precursori.

Ciò che manca qui è il modo in cui la classe capitalista ha organizzato i propri sforzi durante gli anni 70 e i primi anni 80. Io credo che sarebbe giusto dire che al tempo – nel mondo anglosassone – la classe capitalista divenne molto unita.

Erano d’accordo su molte cose, come il bisogno di una forza politica che li rappresentasse davvero. Così si comprendono la presa del partito repubblicano e il tentativo di sottomettere, almeno in parte, il partito democratico.

A partire dagli anni 70 la corte suprema prese diverse decisioni che permettevano alla classe capitalista di comprare le elezioni più facilmente di quanto non avesse potuto fare in passato.

Per fare un esempio, si può guardare alle riforme sul finanziamento delle campagne elettorali che hanno trattato i contributi elettorali come una forma di libertà di espressione. Negli Stati Uniti c’è una lunga tradizione di capitalisti che comprano le elezioni ma adesso è stato legalizzato ciò che prima era fatto sottobanco come corruzione.

Soprattutto io penso che questo periodo sia stato definito da ampi movimenti che attraversavano diversi fronti ideologici e politici. E il solo modo per spiegare l’ampiezza di questo movimento è riconoscendo l’alto livello di solidarietà all’interno della classe capitalista. Il capitale riorganizzò il suo potere in un tentativo disperato di recuperare la sua ricchezza economica e la sua influenza, che era stata seriamente erosa tra la fine degli anni 60 e durante i 70.

Ci sono state numerose crisi dal 2007. In che modo la storia e il concetto del neoliberismo ci aiuta a capirle?

Ci sono state molte poche crisi tra il 1945 e il 1973; ci sono stati momenti difficili ma non grandi crisi. La svolta verso politiche neoliberiste avvenne in bel mezzo della crisi degli anni 70 e l’intero sistema ha subito una serie di crisi da allora. E naturalmente le crisi producono le condizioni delle future crisi.

Nel 1982 -85 ci fu una crisi del debito in Messico, Brasile, Ecuador, fondamentalmente in tutti i paesi in via di sviluppo, inclusa la Polonia. Nel 1987-88 ci sono state grosse crisi negli Stati Uniti delle istituzioni creditizie. Ci fu una ampia crisi in Svezia nel 1990, e tutte le banche dovettero essere nazionalizzate.

In seguito ci furono l’Indonesia e il Sud Est Asiatico nel 1997-98, e poi la crisi si spostò in Russia, in Brasile ed infine colpì l’Argentina nel 2001-2.

Ci furono problemi negli Stati Uniti nel 2001 che furono risolti spostando il denaro dal mercato azionario a quello immobiliare. Ma nel 2007-8 il mercato immobiliare implose, e così avemmo la crisi anche qui.

Se guardi una mappa del mondo puoi vedere le tendenze delle crisi muoversi in giro per i vari paesi. Pensando al neoliberismo è utile comprendere queste tendenze.

Una delle grandi manovre di neoliberalizzazione fu espellere tutti i keynesiani dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale nel 1982 – una pulizia totale di tutti i consiglieri economici che abbracciavano una visione keynesiana.

Furono rimpiazzati da economisti classici fedeli alla teoria dell’offerta e la prima cosa che fecero fu di decidere che da quel momento il FMI avrebbe dovuto seguire una politica di aggiustamento strutturale ogni qual volta e ovunque ci fosse stata una crisi.

Nel 1982, come già accennato, ci fu una crisi del debito in Messico. Il FMI disse “Vi salveremo”. In realtà ciò che stavano facendo era salvare le banche d’investimento di New York e implementare una politica di austerità.

La popolazione messicana soffrì una perdita del 25% del suo standard di vita nei 4 anni successivi al 1982 come risultato delle politiche di aggiustamento strutturale del FMI.

Da allora il Messico ha subito circa quattro aggiustamenti strutturali. Molti altri paesi ne hanno subiti più di uno. Questa è diventata una pratica standard.

Cosa stanno facendo alla Grecia adesso? E’ quasi una copia di quello che fecero al messico nel 1982, soltanto che lo fanno in maniera più scaltra. Ma questo è quello che accadde negli sStati Uniti nel 2007-8. Salvarono le banche e fecero pagare la popolazione attraverso politiche di austerità.

C’è qualcosa riguardo le crisi recenti e i modi in cui sono state gestite dalla classe dominante che ti ha fatto ripensare la tua teoria sul neoliberismo?

Intanto, non credo che la solidarietà all’interno della classe capitalista sia quella che era. Da un punto di vista geopolitico, gli Stati Uniti non sono in una posizione di prendere iniziative globali come lo erano negli anni 70.
Io penso che stiamo vedendo una regionalizzazione delle strutture del potere globale all’interno del potere statale – egemonie regionali come la Germania in Europa, il Brasile in America Latina, la Cina in Asia.
Ovviamente, gli Stati Uniti hanno ancora una posizione globale, ma i tempi sono cambiati. Obama può andare al G20 e dire “Dovremmo fare questo”, e Angela Merkel può dire “Noi non lo faremo”. Questo non sarebbe accaduto negli anni 70.
Così la situazione geopolitica è diventata più regionalizzata, c’è maggiore autonomia. Io credo che questo in parte sia un risultato della fine della Guerra Fredda. Paesi come la Germania non si affidano più agli Stati Uniti per essere protetti.
Inoltre, quella che è stata chiamata “la nuova classe capitalista” formata da Bill Gates, Amazon, e della Silicon Valley ha una politica differente da quella rispetto a quella tradizionale legata al petrolio e all’energia.
Come risultato tendono ad andare ognuno nella propria direzione, perciò c’è molta rivalità tra diversi settori, per dire, energia e finanzia, e energia e la Silicon Valley e così proseguendo. Ci sono serie divisioni che sono evidenti su una cosa tipo il cambiamento climatico, per esempio.

L’altra cosa che io reputo cruciale è che l’offensiva neoliberista non passò senza una forte resistenza. Ci fu una resistenza di massa da parte della classe lavoratrice, dai partiti comunisti in Europa, e così via.
Ma potrei dire che all’inizio degli anni 80 la battaglia era stata persa. Così, nella misura in cui la resistenza era scomparsa, la classe lavoratrice non aveva più il potere che aveva avuto prima, la solidarietà all’interno della classe dominante non era più necessaria.
Non devono più unirsi e fare qualcosa contro le battaglie dal basso perchè non c’è più alcuna minaccia. La classe dominante sta facendo molto bene e quindi non ha bisogno di cambiare niente.

Eppure, mentre la classe capitalista sta facendo molto bene, il capitalismo sta facendo molto male. I tassi di profitto hanno recuperato, ma i tassi di reinvestimento sono tremendamente bassi, così una sacco di denaro non sta tornando indietro nella produzione e sta fluendo nell’appropriazione di terre e nell’acquisizione di asset.

Parliamo di resistenza. Nel tuo lavoro, mostri quell’apparente paradosso che il violento attacco neoliberista ha proceduto in parallelo con un declino della lotta di classe – perlomeno nel Nord del mondo – a favore di “nuovi movimenti sociali” per la libertà individuale. Potresti chiarirci come secondo te il neoliberismo ha favorito l’ascesa di certe forme di resistenza?

Questa è una frase su cui pensare a lungo. Cosa succede se ogni modello di produzione dominante, con la sua particolare configurazione politica, crea un modello di opposizione come una sua immagine allo specchio.

Durante l’era dell’organizzazione fordista del processo produttivo, l’immagine specchio erano i grandi movimenti sindacali centralizzati e i partiti politici democraticamente centralisti.

La riorganizzazione del processo di produzione e la svolta verso l’accumulazione flessibile durante il periodo neoliberale ha prodotto una sinistra che è, in molti modi, il suo specchio: che fa rete, decentralizzata, non gerarchizzata. Penso che sia molto interessante.

E in una certa misura l’immagine allo specchio conferma quello che invece sta provando a distruggere. Alla fine penso che i sindacati sostennero il fordismo.

Io credo che molta della sinistra oggi, essendo molto autonoma ed anarchica, stia rafforzando la fase finale del neoliberismo. A molte di persone nella sinistra non piace sentirlo.

Ma ovviamente nasce una questione: c’è un modo di organizzarsi che non sia un’immagine allo specchio? Possiamo rompere quello specchio e trovare altro, che non sia giocare in mano al neoliberismo?

La resistenza al neoliberismo può avvenire in molti modi differenti. Nel mio lavoro io metto sempre l’accento sul fatto che il punto in cui il valore si realizza è anche un punto di tensione. Il valore si produce nel processo di lavoro, e questo è un aspetto molto importante della lotta di classe. Ma il valore è realizzato nel mercato tramite la vendita, e c’è molta politica in questo.

Molta resistenza all’accumulazione capitalista avviene non solo nel processo di produzione ma anche tramite il consumo e la consapevolezza di quel valore.

Prendete una fabbrica di auto: le grandi fabbriche impiegavano circa 25.000 persone; oggi ne impiegano 5.000 perché la tecnologia ha ridotto il bisogno di lavoratori. Perciò più lavoratori vengono rimossi dalla sfera delle produzione, sempre di più ne vengono spinti nella vita urbana.

Il punto principale di scontento nella dinamica capitalista si sta spostando in maniera crescente dalle lotte sulla realizzazione del valore – verso la politica della vita quotidiana in città.

I lavoratori ovviamente contano e ci sono molte questioni che sono cruciali. Se siamo a Shenzhen in Cina le lotte sul processo lavorativo sono dominanti. E negli USA dovremmo aver supportato lo sciopero a Verizon, ad esempio.

Ma in molte parti del mondo le lotte sulla qualità della vita quotidiana sono dominanti. Guardate alle grandi lotte negli ultimi dieci-quindici anni: una cosa come Gezi Park a Istanbul non è stata una lotta dei lavoratori, è stato lo scontento verso la politica della vita quotidiana e la mancanza di democrazia e di processi decisionali; nelle rivolte nelle città brasiliane nel 2013 c’era ancora una volta il malcontento verso la politica della vita quotidiana: trasporti, possibilità e lo spendere così tanto denaro in grandi stadi mentre non si sta spendendo nulla nel costruire scuole, ospedali e case a buon mercato. Le rivolte che abbiamo visto a Londra, Parigi e Stoccolma non riguardano il processo lavorativo, ma la politica della vita quotidiana.

Questa politica è parecchio differente dalla politica che esiste nel processo di produzione. Nel processo di produzione c’è il capitale contro il lavoro. Le lotte sulla qualità della vita urbana sono meno chiare nella loro configurazione di classe.

Chiare politiche di classe, che di solito vengono da una comprensione del processo di produzione, divengono teoricamente confuse quando si fanno più realistiche. È una questione di classe ma non nel senso classico.

Pensi che parliamo troppo del neoliberismo e troppo poco del capitalismo? Quando è appropriato usare l’uno o l’altro termine, e quali sono i rischi che si corrono nel sovrapporli?

Molti liberal dicono che il neoliberismo è andato troppo in là in termini di diseguaglianza di reddito, ed anche con le privatizzazioni, che ci sono un sacco di beni comuni di cui dovremmo prenderci cura, come l’ambiente.

C’è una gran varietà di modi per parlare del capitalismo, come la sharing economy, che si è rivelata altamente capitalizzata e molto sfruttatrice.

C’è la nozione di capitalismo etico, che si è rivelato essere semplicemente un modo ragionevole di essere onesti invece che di rubare. Perciò c’è la possibilità nella testa di alcune persone di un qualche tipo di riforma del neoliberismo in qualche altra forma di capitalismo.

Io penso che sia possibile fare un capitalismo migliore di quello che esiste adesso. Ma non molto.

I problemi fondamentali sono oggi talmente profondi che non c’è modo di andare avanti senza un forte movimento anticapitalista. Perciò vorrei porre la questione in termini anticapitalisti invece che in termini anti–neoliberisti.

E credo che il pericolo sia, quando ascolto le persone parlare di anti-neoliberismo, che non ci sia la percezione che è proprio il capitalismo stesso, in qualsiasi forma si presenti, il problema.

La maggior parte degli anti- neoliberisti fallisce nel far fronte ai macro-problemi della crescita composta infinita – i problemi ecologici, politici ed economici. Perciò preferirei parlare di anticapitalismo che di anti-neoliberismo.

postilla

L'analisi critica di David Harvey al neoliberismo (declinazione italiana di ciò che nel mondo anglosassone si definisce "neoliberalism") è un classico, soprattutto per chi si occupa di città e territorio. Lo studioso, che è uno dei più interessanti utilizzatori del pensiero di Gramsci, si è occupato nei suoi numerosi scritti dei rapporti tra trasformazioni del sistema economico sociale e condizioni della città e del territorio. A proposito di questa intervista, (il testo originale è raggiungibile a questo link) vogliamo esprimere un piccolo stupore e due forti sottolineature.

Lo stupore è per il fatto che, nell'illustrare il percorso di formazione della strategia neoliberista, Harvey non faccia riferimento all'attore del suo inizio: la Mont Pèlerin Society. Rinviamo, a questo proposito, a uno scritto di Luciano Gallino.
La prima sottolineatura riguarda l'attenzione di Harvey al fatto che la resistenza alla marcia trionfale del neoliberismo sia oggi espressa più dalle tensioni che nascono dal disagio sofferto dalle persone per le condizioni della città e del territorio che dalle condizioni del lavoro: più dalla città che dalla fabbrica.
La seconda sottolineatura è dell'ultima frase dell'intervista: dove ricorda che l'avversario non è il neoliberalismo, ma il capitalismo, il Proteo di cui il neoliberalismo è l'attuale incarnazione.

. Il manifesto, 28 agosto 2016

Ho avuto un déjà-vu. Lo speciale di Rai1 sul terremoto ha preso nettamente le distanze dal copione consolidato di tv del dolore che, vampirescamente, cerca di estrarre audience dall’esibizione oscena della sofferenza dei morti, dei feriti, dei superstiti. Lo speciale era declinato in tutt’altra chiave.

Un Bruno Vespa, carico e vitale, dirigeva il dibattito alternando didattica ed ottimismo. Il succo di tutto era il terremoto come opportunità. Opportunità economica di ricostruzione, volano dell’economia, possibile incremento del Pil. Così come quella guerra che gli economisti raccomandano, in casi di crisi deflazionistica come l’attuale, come unica soluzione per la ripresa economica.

La disgrazia è, in sé, un’opportunità. Sempre. Perché, in una crisi di consumi dovuta alla svalutazione dei salari, sposta la produzione dal voluttuario al necessario. Dove c’è guerra o morti ci sono consumi coatti: armamenti, ricostruzione edilizia. Ma anche casse da morto, ospitalità e catering degli sfollati, edilizia pubblica.

Una per tutte. La scuola antisismica di Amatrice, la cui messa in sicurezza aveva già rappresentato risorse per l’edilizia è nuovamente crollata per creare, bontà sua, nuovi posti di lavoro. Ed infatti, anche l’interlocutore di Vespa, il ministro Delrio, sembrava consapevole di quanto un governo in crisi debba essere grato alle catastrofi che possono cancellare, in nome della solidarietà, il conflitto sociale e capovolgere, con lo sfruttamento delle industrie della morte, la morte dell’economia.

Tutto questo era un déjà-vu, perché mi ricordava il cinismo di una commedia all’italiana d’epoca, tutta costruita sul personaggio poliedrico di Alberto Sordi, «Finché c’è guerra c’è speranza» in cui, un trafficante d’armi, trae dalla guerra le sue opportunità. C’è però una differenza. Il film era la denuncia del cinismo di un singolo. Qui il ministro Delrio ha dato all’equazione terremoto = opportunità il suo imprinting istituzionale dichiarando: «Oggi l’Aquila è il più grande cantiere d’Europa». E a ben vendere, in un’Italia che ha da tempo privatizzato le sue industrie pesanti, l’unica industria statale produttiva è stata, negli anni scorsi, la Protezione Civile di Bertolaso.

Le reazioni alla trasmissione si possono dividere in due gruppi.

Da un lato lo sdegno della rete che ha bollato Vespa di sciacallaggio. Dall’altro la reazione misurata della stampa che, se non ha ignorato l’evento, si è domandata invece dove risieda lo scandalo.

Vespa ha rivelato verità che qualsiasi economista potrebbe sottoscrivere. Anche Keynes. In una realtà economica ingessata da vincoli di bilancio sulla spesa pubblica, la spesa coatta che scaturisce dal terremoto, rappresenta comunque un’opportunità di lavoro.

Qual è la mia opinione in proposito? Non mi riconosco né nell’una, né nell’altra reazione.

Vespa non è cinico, è cinico il sistema che la trasmissione ha portato alla luce. La riprova è la difesa d’ufficio della stampa nei confronti di Vespa in quanto dice la verità. La verità è sempre legata ad una visione del mondo, un’episteme, uno spirito del tempo.

Rivelando le aspettative del potere in crisi, Vespa non è altro che il fanciullo che denuncia la nudità dell’imperatore, nella famosa favola. E lo fa strizzandogli l’occhio per dire «anch’io ho capito tutto».

Siamo di fronte all’ennesimo caso in cui l’opinione pubblica si spacca perché si muove sulla base di visioni del mondo diverse. La massa risponde ancora a quell’empatia che fa sì che ogni essere vivente, condivida con i suoi neuroni specchio le sofferenze del prossimo. Le élite rivelano invece uno spirito centrato sul bene supremo dell’economia.

Ci sono catastrofi che sacrificando il singolo, giovano alla comunità. Anche Bush, dopo l’11 settembre, ha parlato di opportunità. Ma sono queste le opportunità che vogliamo?

Da tempo abbiamo identificato la casta con chi spende e spande, con chi gira in auto blu e fa la cresta sui pranzi ufficiali.

Il senso è che viviamo nel migliore dei mondi possibili e che, se questo mondo non funziona è per lo spreco e la corruzione.

E se invece cominciassimo a pensare che un mondo che sacrifica i cittadini per il bene dell’economia, non è il migliore dei mondi possibili perché offende i principi primari di solidarietà e altruismo?

Foucault ci ha insegnato che il potere non è altro che l’applicazione di una forma di sapere. Ha sottoposto a critica il potere che gli era contemporaneo denunciando la biopolitica, la politica sociale, impegnata a mantenere la vita del cittadino ad ogni costo, come una forma di assoggettamento e controllo.

Ma non è forse peggio un sapere che non privilegia la vita di fronte all’esigenze superiori dell’economia?

Vespa da portavoce del sistema ha il pregio di esprimere sempre lo spirito del tempo nella sua nuda realtà. Ed è in grado di farlo perché ha da tempo accantonato l’ipocrisia di chi vuol compiacere le masse.

Ma le masse hanno a loro volta la colpa di essersi adagiate sul pensiero unico. Di fronte ad eventi che squarciano la coltre di retorica di cui il pensiero unico si ammanta per sopravvivere, ci sono due possibili reazioni. O invochiamo censura e repressione nei confronti dell’oscenità del reale, per continuare a vivere con la testa conficcata nella sabbia. O decidiamo che questo non è il migliore dei mondi possibili e nemmeno l’unico mondo possibile, e cominciamo a pensare ad un’alternativa.

«Intervista a Achille Mbembe docente di Storia e Politica all’Università Witwaterstand di Johannesburg (Sudafrica). Il suo primo libro pubblicato in castigliano è stato Necropolitica». Comune.info, 14 agosto 2016 (c.m.c.)

Stiamo vivendo un cambiamento epocale: si trasformano le antiche nozioni di tempo e velocità e il mondo si è contratto nello spazio, forse nessun angolo della terra è più sconosciuto. Mentre invecchiano le società del nord e ringiovaniscono l’Asia e l’Africa, assieme a enormi ondate migratorie che ricordano i primi tempi della colonizzazione, cresce una grande segregazione sociale, una specie di gigantesco apartheid. La violenza economica non si esprime più nello sfruttamento del lavoratore, ma nel rendere superflua una parte importante della popolazione mondiale.

Achille Mbembe, storico camerunense e docente all’università sudafricana di Johannesburg, uno degli studiosi più brillanti nell’interpretazione non eurocentrica del cambiamento in corso, rileva però – dal suo interessante punto di osservazione – che c’è anche un emergere di piccole insurrezioni in risposta alla “necropolitica” e alla brutalizzazione del corpo e del sistema nervoso tipica del capitalismo contemporaneo. Nascono nuove forme di resistenza legate alla riabilitazione degli affetti, delle emozioni e delle passioni. In una gran bella conversazione con il nostro amico Amador Fernández-Savater, Mbembe la chiama “la politica della visceralità”.

Crítica de la razón negra. Ensayo sobre el racismo contemporáneo (Critica della ragione nera. Saggio sul razzismo contemporaneo) di Achille Mbembe, pubblicato da Ned Ediciones e Futuro Anterior, è un trattato della portata di Orientalismo di Edward Said. Si tratta, anzitutto, di un’archeologia dell’enunciato eurocentrico che ha costruito un’idea dell’Africa come continente cannibale e barbaro, come quel territorio che poteva solamente fornire al capitalismo (ancora lo fa) uomini-cosa-merce, il suo volto oscuro.

In secondo luogo, il libro è un esercizio (etico, estetico, poetico) che, nella stessa tradizione di Said e degli studi culturali, si propone di pensarsi, conoscersi e dis-conoscersi “al margine” di questo sguardo imperiale europeo. Vale a dire di ri-costruire una memoria “dal basso” che sani e de-vittimizzi – è lo stesso – capace di progettare un futuro comune. Mbembe riscatta qui la letteratura dell’altra ragione negra, i poeti e i romanzieri, Fanon e Césaire, in un lavoro serio e delizioso, potente ed estremo, doloroso e foriero di speranze.

In questo libro analizza, infine, la vigenza delle pratiche coloniali/imperiali che oggi “inselvatichiscono” il mondo. Ciò che l’autore chiama e invita a pensare come «il divenire nero del mondo». Questo momento storico in cui, come dice in questa stessa intervista, «la distinzione tra l’essere umano, la cosa e la merce tende a sparire e a essere cancellata, senza che nessuno – neri, bianchi, donne, uomini – ne possa sfuggire».

Achille Mbembe è nato in Camerun nel 1957. È docente di Storia e Politica all’Università Witwaterstand di Johannesburg (Sudafrica). Il suo primo libro pubblicato in castigliano è stato Necropolitica, dove analizza le politiche di adeguamento e di espulsione che sono state sperimentate, per prime, nel continente africano negli anni 90 e che oggi si diffondono dappertutto. Gli abbiamo rivolto alcune domande.

Lei parla di “cambiamento epocale”, sulla base di cosa? Quali fattori lo indicano?

In effetti, credo che viviamo un cambio di epoca. Da un lato, il mondo si è rimpicciolito, si è contratto nello spazio, abbiamo, in qualche modo, toccato i suoi limiti fisici, fino al punto in cui, probabilmente, nessun angolo della terra è sconosciuto, è disabitato o non è sfruttato. Allo stesso tempo, la storia umana attraversa una fase caratterizzata da quello che chiamo la ripopolazione del pianeta, che demograficamente si traduce in un invecchiamento delle società del nord e in un ringiovanimento del continente africano e asiatico in particolare.

Per quanto riguarda la struttura delle popolazioni, stiamo assistendo alla crescita di una grande segregazione sociale, una specie di gigantesco apartheid, assieme a enormi ondate migratorie su scala planetaria, che ricordano i primi tempi della colonizzazione. E, riguardo alle trasformazioni tecnologiche, una delle loro principali conseguenze è la trasformazione delle nostre antiche nozioni di tempo e di velocità.

Politicamente, stiamo entrando in un mondo nuovo, caratterizzato purtroppo dalla proliferazione di frontiere e di zone esclusivamente militari. Questo mondo si rafforza grazie al «fantasma del nemico», di cui parlo nel mio ultimo libro, e all’emergenza di uno Stato globale securitario che cerca di normalizzare uno stato di eccezione a scala mondiale, dove i concetti di Diritto e di libertà, che erano inseparabili dal progetto della modernità, rimangono sospesi.

Ci sono, pertanto, molti fattori che indicano che stiamo entrando in mondo diverso, altamente digitalizzato e finanziarizzato, dove la violenza economica non si esprime più nello sfruttamento del lavoratore, ma nel rendere superflua una parte importante della popolazione mondiale. Un mondo che mette radicalmente in discussione il progetto democratico ereditato dall’Illuminismo.

Necropolitica: politiche di morte

Come descriverebbe la violenza del capitale in questo cambio epocale? Nel suo ultimo libro, lei ha definito il neoliberalismo come un «divenire negro del mondo»: potrebbe soffermarsi su questo?
Diciamo che nei miei libri voglio far convergere due tradizioni del pensiero critico che da un po’ di tempo sembravano divergere: da un lato, la tradizione del pensiero critico relativo alla formazione e alla lotta di classe; dall’altro lato, la tradizione del pensiero critico che cerca di capire la formazione delle razze. Queste due tradizioni sono state spesso contrapposte, quando questo, già solo in termini storici, è insostenibile.

Se studiamo attentamente la storia del capitalismo, ci rendiamo subito conto che, per funzionare, fin dai suoi inizi ha avuto la necessità di produrre ciò che chiamo «sussidi razziali». Il capitalismo ha come funzione genetica la produzione di razze che, allo stesso tempo, sono classi. La razza non è solamente un’aggiunta del capitalismo, ma qualcosa di inscritto nel suo sviluppo genetico. Nel periodo primitivo del capitalismo, quello che va dal XV secolo fino alla Rivoluzione Industriale, la riduzione in schiavitù dei neri ha costituito il più grande esempio della connessione tra la classe e la razza. I miei lavori si sono incentrati in particolare su quel momento storico e sulle sue figure.

La tesi che sviluppo nel mio nuovo libro è che, nelle condizioni attuali, il modo in cui i neri sono stati trattati in quel primo periodo si è esteso al di là dei neri stessi. Il «divenire nero del mondo» è quel momento in cui la distinzione tra l’essere umano, la cosa e la merce tende a sparire, a essere cancellata, senza che nessuno – neri, bianchi, donne, uomini – vi possa sfuggire.

Questo ci porta al suo concetto di “necropolitica” (o politica della morte); come lo spiegherebbe?
Sono due cose. La “necropolitica” è connessa al concetto di “necroeconomia”. Parliamo di necroeconomia nel senso che una delle funzioni del capitalismo attuale è produrre su vasta scala una popolazione superflua. Una popolazione che il capitalismo non ha più necessità di sfruttare, che però va gestita in qualche modo. Un modo di disporre di questa eccedenza di popolazione è quella di esporla a ogni sorta di pericoli e rischi, spesso mortali. Un’altra tecnica consiste nell’isolarla e rinchiuderla in zone di controllo. È la pratica della “zonificazione”.

È significativo constatare che, nel corso degli ultimi 25 anni, la popolazione carceraria non ha smesso di crescere negli Stati Uniti, in Cina, in Francia, ecc . In alcuni paesi del nord, la combinazione tra le tecniche di incarcerazione e la ricerca del profitto, ha raggiunto un enorme sviluppo. C’è tutta un’economia della carcerazione, un’economia a scala mondiale, che si nutre della “securizzazione”, quell’ordine che esige che ci sia una parte del mondo rinchiusa. La necropolitica sarebbe, quindi, l’esatta rappresentazione politica di questa forma di violenza del capitalismo contemporaneo.

A proposito di questo, vorremmo chiedere la sua opinione sull’attuale «crisi dei rifugiati»: a suo giudizio, qual è stato il ruolo dei governi? Cosa ne pensa della risposta della cittadinanza europea?
È proprio a partire dalla necropolitica e dalla necroeconomia che si può comprendere la «crisi dei rifugiati». Questa crisi è il diretto risultato di due tipi di catastrofi: le guerre e le devastazioni ecologiche, che si sostengono reciprocamente. Le guerre sono fattori di crisi ecologiche e una delle conseguenze delle crisi ecologiche è il fomentare guerre.

La «crisi dei rifugiati» ha anche a che vedere con quello che prima ho chiamato il «ripopolamento del mondo», nella misura in cui le società del nord invecchiano, aumenta la loro necessità di ripopolarsi, e la migrazione illegale è una parte essenziale di questo processo, che sicuramente si accentuerà nel corso dei prossimi anni. A questo proposito, la reazione dell’Europa è schizofrenica: alza muri attorno al continente, però ha bisogno dell’immigrazione per non invecchiare.

Associato al concetto di “necropolitica” ne appare nei suoi lavori un altro impotante, quello di «governo privato indiretto». Cosa ci può dire al riguardo?
Quel concetto è stato elaborato negli anni Novanta, in un’epoca in cui il continente africano era completamente sotto il potere del FMI e della Banca Mondiale. Era un periodo di grandi aggiustamenti strutturali che hanno colpito duramente l’economia africana, in modo simile all’attuale caso greco: un indebitamento al di fuori di qualsiasi norma, la sospensione della sovranità nazionale, la delega di tutto il potere sovrano a istanze non-democratiche, la privatizzazione di tutto, in particolare del settore pubblico, ecc. L’idea di governo privato indiretto indica una forma di governo del debito che sviluppa, al di fuori di qualsiasi quadro istituzionale, una tecnologia dell’espropriazione in paesi economicamente dipendenti, privatizzando il “comune” e scaricando sugli individui la responsabilità di ogni male (“è stata colpa vostra”).

Questo concetto, elaborato nel contesto del continente africano negli anni Novanta, può spiegare le attuali tendenze globali e si può applicare in altre parti del pianeta? In Messico, ad esempio, molta gente segue attentamene i suoi lavori per la forte risonanza delle sue analisi con quanto accade lì.
Penso che oggi, a scala globale, sia possibile continuare a pensare questo concetto. Il governo privato indiretto a livello mondiale è un movimento storico delle élite che aspira, in definitiva, ad abolire il politico. Distruggere ogni spazio e ogni risorsa – simbolica e materiale – dove sia possibile pensare e immaginare cosa fare del legame che ci unisce agli altri e alle generazioni che verranno. Per questo, si procede attraverso logiche di isolamento – separazione tra paesi, tra classi e tra individui – e di concentrazione del capitale laddove si può sfuggire a ogni controllo democratico – trasferimento di ricchezze e di capitali verso paradisi fiscali non regolamentati, ecc. Per assicurarsi il successo, questo movimento non può prescindere dal potere militare: la protezione della proprietà privata e la militarizzazione sono oggi correlativi, vanno intesi come due ambiti di uno stesso fenomeno.

Fin dagli anni Settanta, la trasformazione del capitalismo ha favorito sempre più la comparsa di uno Stato privato, dove il potere pubblico nel senso classico, quello che non appartiene a nessuno perché appartiene a tutti, è stato progressivamente sequestrato a beneficio di poteri privati. Oggi risulta possibile comprare uno Stato senza che ci sia un grande scandalo e gli Stati Uniti sono un buon esempio: le leggi si comprano immettendo capitali nel meccanismo legislativo, i seggi del congresso si vendono, ecc.

Questa legittimazione della corruzione all’interno degli Stati occidentali svuota il senso dello Stato di Diritto e legittima il crimine all’interno delle stesse istituzioni. Non parliamo più di corruzione come di una malattia dello Stato: la corruzione è lo Stato stesso e, in questo senso, non c’è più un al di fuori della legge. Il deterioramento dello Stato di Diritto produce esclusivamente politiche predatorie, che invalidano ogni distinzione tra il crimine e le istituzioni.

Resistenza viscerale

Dall’idea foucaultiana del potere come “relazione”, nel suo saggio sulla necropolitica si avverte la mancanza di maggiori riferimenti alle resistenze, alle pratiche di vita della gente de abajo. Si può descrivere il potere senza descrivere le resistenze?
No, naturalmente. Non si può fare questo tipo di descrizione senza pensare alle forme di resistenza che sono correlative a qualsiasi potere. I miei primi lavori, che purtroppo non sono ancora stati tradotti, erano incentrati proprio sulle resistenze verso il potere e anche sui loro limiti.

Cosa dire delle attuali forme di resistenza alla necropolitica e alla necroeconomia? Certamente sono molto variegate, dipendono dalle situazioni locali e dai contesti. Prenderò come esempio il caso sudafricano. Mi interessa molto il modo in cui in questo paese le resistenze si organizzano a partire dall’occupazione degli spazi, in una ricerca di visibilità là dove il potere vuole relegarci e allontanarci. Le forme di resistenza che si stanno sviluppando in quel paese hanno a che vedere con la lotta dei corpi per farsi presenti (corporalmente, fisicamente, visibilmente) di fronte alla produzione di assenza e di silenzio da parte del potere. Sono forme esemplari di resistenza perché oggi il potere funziona producendo assenza: invisibilità, silenzio, oblio.

Durante gli ultimi anni abbiamo assistito in Sudafrica a un grande movimento chiamato la decolonizzazione, una decolonizzazione simbolica che ha operato, ad esempio, chiamando a distruggere le statue del colonialismo, ma anche lottando per trasformare il contenuto del sapere e delle forme di produzione del sapere; riattivando la memoria e resistendo all’oblio, ecc. In Sudafrica, le resistenze passano attraverso la riabilitazione della voce, per l’espressione artistica e simbolica, sfidano il tentativo del potere di ridurre al silenzio le voci che non vuole ascoltare. In quella regione del mondo stiamo vivendo un ciclo di lotte che io chiamo le politiche della visceralità.

In cosa consistono queste «lotte della visceralità»?
C’è un emergere di piccole insurrezioni. Queste micro-insurrezioni assumono una forma viscerale, in risposta alla brutalizzazione del sistema nervoso tipica del capitalismo contemporaneo. Una delle forme di violenza del capitalismo contemporaneo consiste nel brutalizzare i nervi. E, come risposta, emergono nuove forme di resistenza legate alla riabilitazione degli affetti, delle emozioni, delle passioni e che convergono in tutto ciò che io definisco la «politica della visceralità».

È interessante vedere come in molti luoghi, tanto nelle lotte della popolazione nera in Sudafrica come negli Stati Uniti, i nuovi immaginari di lotta cercano principalmente la riabilitazione del corpo. Negli Stati Uniti, il corpo nero si trova al centro degli attacchi del potere, da ciò che è simbolico – il suo disonore, la sua animalità – fino alla normalizzazione dell’assassinio. Il corpo nero è un corpo di animale, non un corpo di essere umano. Lì, la polizia uccide neri quasi ogni settimana, senza che quasi esistano statistiche che ne diano conto. La generalizzazione dell’assassinio è inscritta nella prassi della polizia. L’amministrazione della pena di morte si è svincolata dall’ambito del Diritto per diventare una pratica puramente poliziesca. Quei corpi neri sono corpi senza giurisprudenza, qualcosa più simile a oggetti che il potere deve gestire.

Lei analizza come il lavoro della memoria sia stato per molti popoli un esercizio di cura e di auto-cura al fine di nominarsi in modo autonomo. Tuttavia, fino a che punto queste memorie sono elaborate o scritte dagli “sconfitti”?
La memoria popolare non racconta mai storie nitide, non ci sono memorie pure e trasparenti. Non c’è memoria propria. La memoria è sempre sporca, impura, è sempre un collage. Nella memoria dei popoli colonizzati troviamo numerosi frammenti di ciò che a un certo punto è stato infranto e che non può più essere ricostruito nella sua unità originaria. Di conseguenza, la chiave di tutta la memoria al servizio dell’emancipazione sta nel sapere come vivere ciò che è perduto, con quale livello di perdita possiamo vivere.

Ci sono perdite radicali delle quali non si può recuperare nulla e, tuttavia, la vita continua e dobbiamo trovare dei meccanismi per rendere presente in qualche modo questa perdita. Da una casa incendiata, possiamo recuperare alcuni oggetti e perfino ricostruire la casa, ma ci sono delle cose che non potremo mai sostituire perché sono uniche, perché con esse mantenevamo una relazione unica. Bisogna vivere con questa perdita, con questo debito che non possiamo più pagare. La memoria collettiva dei popoli colonizzati cerca i modi per indicare e vivere quello che non è sopravvissuto all’incendio.

Come ricostruire, in chiave di potenza, la lacerante storia di spoliazione e violenza ed evitare l’auto-rappresentazione di sè come vittime perpetue?
È una questione centrale. La coscienza vittimista è una coscienza pericolosa, perché è una coscienza ammutolita dal risentimento e dal desiderio di vendetta, che cerca sempre di infliggere all’altro – un altro di solito più debole, non necessariamente il colpevole reale – la quantità di violenza che ha sofferto. Penso che c’è un pericolo in questa forma vittimista di coscienza. Il problema è come la gente che ha subito un trauma storico e reale, come una guerra o un genocidio, può ricordare quanto le è successo e utilizzare la riserva simbolica della catastrofe storica per progettare un futuro che rompa con la ripetizione delle violenze sofferte. È un cammino che si potrebbe quasi dire di ascesi. Una ricerca di “purificazione”, di identificazione degli elementi della tragedia per non ripeterla.

C’è chi parla di un “uso strategico dell’essenzialismo”, di un uso tattico dell’identità come leva nella costruzione di un soggetto politico. Lei, come si pone in questi dibattiti sull’identità?
Diciamo che, se riguardiamo la storia delle lotte contro la discriminazione razziale, c’è spesso un momento in cui la resistenza si costruisce attraverso una certa essenzializzazione della razza. Si è visto, per esempio, negli Stati Uniti con Marcus Garvey, o in Francia nel «movimento della negritudine» dove si trattava proprio di rivalorizzare la condizione nera. Sono movimenti che cercano di emanciparsi dalla condizione di oggetto, ritraducendo in modo positivo quegli attributi che ci condannano a essere oggetti – la negritudine – in un segno umano. Questo è il ruolo strategico della funzione essenzialista.

Il problema si verifica quando l’essenzialismo ci impedisce di continuare il cammino che persone come Fanon consideravano l’orizzonte delle nostre lotte. Qual è questo orizzonte? Quello che apre la strada verso una nuova condizione, dove la razza non ha più importanza, dove la differenza non conta più, perché tutti siamo diventati semplicemente esseri umani: il passaggio dall’indifferenza alla differenza. In questo senso, mi considero “fanonista”, anche se capisco che, in determinate circostanze, ci siano dei movimenti che utilizzano strategicamente l’essenzialismo come un modo per rafforzare un’identità collettiva.

Per concludere, il capitalismo si è rinnovato, aggiornando e rendendo sofisticate le violenze necropolitiche del colonialismo. Lo hanno fatto anche quelli che gli resistono? Abbiamo rinnovato la nostra immaginazione politica per rispondere con forme di azione efficaci alla necropolitica del capitalismo contemporaneo?
Se riflettiamo sull’esempio africano, il XX secolo può essere suddiviso in due cicli di lotta. Dall’inizio del XX secolo fino agli anni Trenta, abbiamo vissuto una forma di lotta che chiamerei acefala, legata al locale, alle condizioni di riproduzione della vita quotidiana. Dopo la seconda guerra mondiale, entriamo in un ciclo di lotta verticale, rappresentata dai sindacati e dai partiti politici. Adesso sembra che siamo ritornati alle forme acefale della lotta, lotte locali, lotte più o meno orizzontali, che insistono sul recupero della capacità di interruzione della normalità, della narrazione che ordina la normalità, che ci fa pensare che quanto accade sia normale quando non lo è.

Nel caso del sud dell’Africa, la domanda ora è come trasformare questa rottura della normalità, questa de-normalizzazione, in una nuova forma di istituzionalizzazione. Ho l’impressione che le nuove lotte acefale non riescano ad apportare risposte plausibili ed efficaci a questa domanda: come dare forma a un nuova istituzionalità, aperta e democratica, che abbia tratto lezione dai problemi causati dal verticalismo. Non penso che si possa avere democrazia senza istituzionalizzazione né rappresentanza. Sappiamo che ovunque c’è una crisi della rappresentanza, ma non credo che la risposta sia dissolverla in quanto tale, dissolvere ogni idea di rappresentanza.

In definitiva, le nostre vecchie ricette (i partiti politici, per esempio) stanno manifestando difficoltà strutturali nel preservare e nel difendere il “comune” all’interno delle attuali istituzioni e continuerà ad essere così fintanto che non ci saranno delle comunità forti che possano democratizzare la politica dal basso. I movimenti degli ultimi anni si muovono in questa direzione, anche se sono ancora legati tra di loro in modo fragile. Penso che da queste diverse resistenze acefale sorgeranno nuove proposte di istituzioni, magari non per rovesciare lo Stato, bensì per costringerlo a trasformarsi nuovamente in un organo di difesa del bene comune.

World Social Forum di Montreal dell'Oxfam. Se il mondo non cambia il suo giro aumenta sempre più l'area della povertà: eplosivo che si accumula per una deflagrazione che ci spazzerà via tutti, oppure serbatoio di speranze e asioni per un futuro diverso? Non dipende dal fatp. Il manifesto, 13 agosto 2016

Un pianeta sempre più squilibrato moltiplica le diseguaglianze fra generazioni. E scava il solco della povertà per i giovani sempre più disoccupati, sempre meno sicuri dell’accesso ai servizi.

Sono 500 milioni, nella fascia d’età compresa fra i 15 e i 24 anni, costretti a sopravvivere con meno di due dollari al giorno. È il dato più eclatante del report che Oxfam ha pubblicato in occasione dell’International Youth Day all’apertura del World Social Forum in Canada.

Il mondo è una sorta di flipper impazzito fra demografia ed economia. Le statistiche indicano che con 1,8 miliardi di giovani si è raggiunto il punto più alto della «gioventù» nella storia planetaria. Tuttavia, al massimo rinnovamento anagrafico corrisponde il più eclatante tonfo nell’indigenza proprio per i più giovani. Impoveriti globalmente, esclusi dalla “stanza dei bottoni”, primi a pagare le conseguenze della crisi, sempre più sprovvisti dell’accesso ai servizi essenziali e in futuro con livelli di Welfare evanescenti.

Oxfam lo conferma nel rapporto «I giovani e la disuguaglianza: è tempo di rendere le nuove generazioni protagoniste del proprio futuro», lanciato nel quadro della campagna «Sfida l’ingiustizia». Dimostra come siano proprio i giovani i più colpiti dagli effetti della crisi economica internazionale iniziata nel 2008: il 43% della forza lavoro giovanile a livello globale è disoccupata o vittima di retribuzioni inadeguate.

Un dato mondiale che non risparmia l’Italia. Anzi. È più che preoccupante il tasso di disoccupazione giovanile (sempre nella fascia d’età compresa tra i 15 e 24 anni): a giugno l’Istat certificava quota 36,5%. E lo scenario mondiale è tutt’altro che incoraggiante. Secondo Oxfam, anche se nel biennio 2013-2014 è aumentato del 50% il numero di governi che hanno adottato Piani nazionali per le politiche giovanili, i “nuovi abitanti” del pianeta restano penalizzati.

«Con questo nostro report – sottolinea la direttrice delle campagne di Oxfam Italia, Elisa Bacciotti – lanciamo un appello ai leader mondiali affinché rendano i giovani veri attori e motore di un cambiamento da cui tutti possano trarre beneficio».

E aggiunge: «Lavoriamo ogni giorno con migliaia di giovani e sappiamo come molti di loro siano impegnati nella costruzione di un mondo più giusto e libero dall’incubo della povertà, che colpisce tantissimi di loro, soprattutto nei paesi poveri».

Di conseguenza, urge una svolta proprio in funzione delle nuove generazioni, cioè del futuro stesso del pianeta. «Governi e società civile devono lavorare insieme ai giovani di tutto il mondo perché il peso dell’estrema disuguaglianza economica e socialenon schiacci le nuove generazioni in termini di accesso a servizi e diritti essenziali come l’istruzione, la sanità e il lavoro».

Nel mondo, quasi 126 milioni di giovani, soprattutto nei paesi poveri, sono vittime dell’analfabetismo. E in alcuni paesi le ragazze hanno una maggiore probabilità di morire di parto che di finire gli studi. Un contesto globale che richiede, quindi, una riflessione che parta proprio dai giovani per trovare nuove e diverse soluzioni.

Ecco perché Oxfam proprio in occasione del World Social Forum di Montreal ha promosso lo «Youth Summit on Inequality», incontro che a partire dai temi proposti dal report porterà giovani attivisti di Oxfam da tutto il mondo a confrontarsi per trovare possibili soluzioni e proposte, che saranno raccolte in un vero e proprio Manifesto, sottoposto al vaglio dei partecipanti al World Social Forum di Montreal.


L'Oxfam è è una delle più importanti confederazioni internazionali specializzata in aiuto umanitario e progetti di sviluppo, composta da 17 organizzazioni di Paesi diversi che collaborano con quasi 3.000 partner locali in oltre 90 paesi per individuare soluzioni durature alla povertà e all'ingiustizia

Il manifesto, 5 luglio 2016 (p.d.)

Confindustria affila le armi in vista del referendum costituzionale di ottobre e, dopo la dichiarazione di sostegno alla riforma, pubblica le ricadute negative di una possibile vittoria del No sull’economia.
Nessun riferimento a uno studio che le sostenga, numeri un po’ a casaccio verrebbe da dire.

A leggere le slide (sic) del Centro Studi di Confindustria, la vittoria del no provocherebbe in tre anni: una riduzione del Pil dell’ 1,7%, un crollo degli investimenti del 12,1%, un aumento di 430 mila poveri e un calo degli occupati di 289mila unità. Una presa di posizione che pare contraddire un primo principio di realtà: il Jobs Act, il pareggio di bilancio, le politiche fiscali a sostegno delle imprese sono state perseguite dentro un quadro istituzionale, quello attuale, che improvvisamente diviene un intoppo per il consolidamento dei benefici, legati alle suddette riforme. Dalle stime di Confindustria non è chiaro quali siano non tanto i nessi causali, impossibili da determinare ex ante, quanto le associazioni tra le variabili studiate.

I numeri presentati esulano da qualsiasi valenza «scientifica» a tal punto che non è neppure chiaro se tali effetti siano dovuti al calo di fiducia delle famiglie oppure alla evocata fuga di capitali supposta in caso di vittoria del No oppure alla somma tra i due effetti. Sarebbe utile capire in che misura l’abolizione del senato elettivo, la riduzione dei tempi di discussione parlamentare, l’accentramento delle competenze statali e la conseguente perdita di autonomia delle regioni possano incidere sulla crescita del paese. Interrogativi che non trovano una risposta nelle stime catastrofiste che l’associazione degli industriali consegna al dibattito pubblico.

E, in mancanza di un’indicazione di merito, il sospetto che l’obiettivo di Confindustria non sia quello di approfondire i contenuti della riforma, ma di confondere le acque e inquinare la discussione per difendere un rapporto organico con l’esecutivo appare tutt’altro che infondato.

D’altronde il primato dell’esecutivo sul legislativo, la predominanza del governo sul Parlamento, rispondono ad una torsione «governista» del sistema istituzionale, che renderebbe più semplice al blocco industriale rendere immediatamente «esecutive» le proprie direttive. L’accento sugli effetti negativi del No sulla stabilità del sistema politico italiano alludono ad una concezione ancillare delle istituzioni democratiche rispetto alle esigenze dei mercati.

A carte scoperte Confindustria ribadisce che l’utilità delle riforme va letta in funzione degli interessi che essa rappresenta. Inoltre, l’organizzazione padronale palesa anche la propria posizione a tutela delle prerogative di un «capitalismo straccione», come ebbe a definirlo Gramsci. Si nota infatti che in nessun discorso si punta sulla rilevanza degli investimenti ai fini di una maggiore crescita, né quali investimenti, se non per dire che diminuiranno.

Ma gli investimenti privati diminuiscono ormai da altre un decennio e le riforme strutturali tanto agognate hanno solo mosso qualche micro decimale, a dimostrazione che il tessuto imprenditoriale italiano non ne è interessato.

L’allarmismo dei Confindustriali si presenta più come una minaccia, tutta politica, che come meccanismo economico. Inoltre, il richiamo alla stabilità del quadro istituzionale è in sé ambigua, se non collegata agli esiti che pone sull’azione di governo e sulla qualità della discussione politica. Avere un esecutivo più forte e meno vincolato alla dialettica parlamentare può avere effetti negativi sull’azione di governo, indebolendo la discussione politica, il confronto e il conflitto nel merito delle proposte. Non è affatto detto che avere un esecutivo forte garantisca un percorso di crescita economico.

E sorprende la disinvoltura con cui Confindustria associ l’effetto Brexit al voto referendario, proponendo una correlazione sistemica tra due fenomeni che non hanno alcuna relazione politica. Votare no al referendum costituzionale significa semplicemente conservare l’attuale quadro istituzionale e nulla ha a che fare con la permanenza del nostro Paese nell’Unione Europea.

Se il Centro Studi volesse prendersi poi la briga di guardare da vicino le ragioni che hanno spinto la Gran Bretagna fuori dall’Ue noterebbe che è proprio dentro un sistema politico fondato sul primato del governo, e sulla rispondenza dei governi laburisti e conservatori ai principi tecnocratici, che si è consumata la Brexit.

Nessuno certo vieta a Confindustria di assumere posizioni politiche, l’unica avvertenza è di fornire alle proprie valutazioni quel briciolo di rigore metodologico, che consente di distinguere un punto di vista parziale dalla mera civetteria ideologica.

La Repubblica, 2 luglio 2016 (p.d.)

«Più che un voto contro l’Europa, la Brexit esprime soprattutto un segnale contro l’immigrazione e la globalizzazione». Grazie ai suoi studi sulla storia del debito e delle disuguaglianze, Thomas Piketty inquadra il nuovo terremoto che ha scosso l’Unione europea in un contesto più ampio di disaffezione per l’ideologia della libera circolazione e un sintomo della crisi del capitalismo. «Una tendenza internazionale nella quale però l’Europa ha le sue responsabilità» spiega l’economista francese, autore de “Il Capitale del XXI secolo”.

La Brexit rappresenta anche la fine di un ciclo della globalizzazione?
Si avverte sempre di più la necessità di una regolamentazione del capitalismo. Abbiamo bisogno di istituzioni democratiche forti che possano limitare la crescita delle disuguaglianze, e rovesciare il rapporto di forza. La potenza del Mercato e dell’innovazione economica deve essere messa al servizio dell’interesse generale. E’ sbagliato pensare che tutto si risolve in modo naturale. Lo abbiamo visto in passato.

Quando?
Nel primo ciclo della globalizzazione, tra l’Ottocento e il 1914, quando la fede cieca nell’autoregolazione dei mercati ha provocato disuguaglianze, tensioni sociali, crescita dei nazionalismi, fino alla guerra mondiale. Dopo, c’è stata una fase storica nella quale le élite occidentali hanno avviato riforme sociali, fiscali, mettendo un freno alle disparità. A partire dagli anni Ottanta, siamo entrati in una nuova fase di deregulation legata a diversi fattori, tra cui le rivoluzioni conservatrici anglosassoni, la caduta dell’Urss.

Non vede nessun segnale di autocritica?
Purtroppo la crisi del 2008 non ha prodotto alcun cambio sostanziale. Resta la fede nell’autoregolazione dei mercati e nella “sacra” libera concorrenza, nonostante le disuguaglianze provocate. Se non si riuscirà a dare una risposta con politiche progressiste resterà la tentazione di trovare dei capri espiatori: il polacco nel Regno Unito o il messicano negli Stati Uniti. Ci saranno sempre responsabili politici che cavalcheranno questi sentimenti.

Come Donald Trump o Marine Le Pen?
Molti dei leader populisti e xenofobi appartengono a categorie di privilegiati che spiegano alle classi popolari bianche che i loro nemici non sono i miliardari bianchi, bensì altre classi popolari nere, immigrate, musulmane. E’ un modo di distorcere l’attenzione dai problemi del sistema capitalistico.

Cosa fare contro il ritorno dei nazionalismi?
Il quadro in Europa non è così nero. Rispetto agli Stati Uniti o alla Cina, continuiamo ad avere un modello sociale di sviluppo molto più soddisfacente. Al tempo stesso, l’Europa soffre di una frammentazione politica, con Stati-nazione ancora in competizione gli uni con gli altri. All’interno dell’Ue c’è un dumping sociale, fiscale. L’esempio più evidente è la mancata volontà di unificare l’imposta sulle società. Le classi medie hanno l’impressione che i più privilegiati pagano meno di loro. Queste disuguaglianze alimentano i populismi di destra e la nascita di movimenti come Podemos o Syriza.

Perché ha accettato di lavorare come consigliere di Podemos?
Pablo Iglesias o Alexis Tsipras non sono perfetti ma sono molto meno pericolosi dei nazionalisti polacchi o ungheresi. Basta vedere gli sforzi che la Grecia fa per accogliere i rifugiati. Nel caso della Spagna ci vorrebbe un atto di coraggio, ovvero una moratoria sul debito pubblico, per invertire tendenza su crescita e disoccupazione. Solo così Psoe e Podemos potrebbero formare un governo. E ci sarebbe un cambio di maggioranza politica nell’Unione. La Francia, l’Italia e la Spagna rappresentano insieme il 50% del Pil rispetto al 27% per la Germania.

Perché ha interrotto la collaborazione con il leader laburista Jeremy Corbyn?
Non avevo tempo di partecipare alle riunioni. Nessun legame con la campagna sulla Brexit. In sei mesi, non sono mai riuscito ad andare agli incontri del Labour. Nel caso di Podemos, sono stato invece più volte a Madrid. Pablo Iglesias è anche venuto a Parigi.

Ha contatti con partiti italiani? Potrebbe collaborare con il Movimento 5 Stelle?
No, francamente non credo proprio. Ho invece parlato con alcuni collaboratori di Matteo Renzi, soprattutto per esprimere il mio scetticismo. Sulla riforma dell’eurozona, speravo che Renzi fosse più ambizioso. Invece si è accontentato di qualche aggiustamento marginale.

Forse perché la Germania è inflessibile su certi punti?
Se l’Italia, la Francia e la Spagna mettessero sul tavolo un proposta di unione politica e finanziaria con un parlamento dell’eurozona competente sul livello di deficit e sulla ristrutturazione dei debiti sovrani, allora la Germania non potrebbe mettere i bastoni tra le ruote. Invece la Francia non ha fatto niente per l’Europa del Sud, assecondando la Germania per avere gli stessi tassi d’interessi. Mentre Berlino continua ad avere un atteggiamento insopportabile.

A quale atteggiamento si riferisce?
Avere l’8% del Pil di eccedenza nella bilancia commerciale non serve a niente. La Germania deve investire nel paese e aumentare i salari. Già durante la prima fase globalizzazione la Francia e il Regno Unito avevano accumulato per decenni eccedenze commerciali. Un’aberrazione. L’unico motivo, più o meno esplicito, è una volontà di dominazione su altri paesi. E’ una patologia della globalizzazione che purtroppo si ripete adesso.

Il Fatto quotidiano, 10 giugno 2016

Reti, recinti e fili spinati. C’è chi fa affari d’oro con la serrata anti-immigrati messa in atto da diversi paesi del Vecchio continente: è la European Security Fencing (Esf), del GruppoMora Salazar (nato nel 1975), con sede a Malaga, sulla Costa del Sol.

Dall’Ungheria alla Grecia, dalla Serbia alla Macedonia, dallaPolonia alla Romania, dal Marocco alla Turchia, passando per Ceuta e Melilla, i fili spinati sul territorio europeo hanno tutti un unico commissionario, l’Esf. Sul sito web la stessa ditta spagnola si definisce l’unica in grado di costruire fili di lamine di acciaio inox in tutta Europa. Le cosiddette concertinas.

“Specialisti nella fabbricazione di elementi di alta sicurezza passiva”, è il motto che campeggia sulla home page del sito. E gli affari sono andati così bene che di recente hanno pure aperto una filiale a Berlino. La società offre i suoi servizi a oltre 20 Paesi, europei e non. Tra i suoi clienti ci sono i ministeri degli Interni e della Difesa iberici, la compagnia petrolifera Repsol ma anche laNato. Capaci di fabbricare 10 chilometri al giorno, propongono ogni tipo di rete metallica: “Una vasta gamma di elementi di sicurezza passiva composti da fili spinati a lamina, recinzioni elettrificate, dispiegamento di barriere, dissuasori anti arrampicata e accessori per l’installazione”.
Pubblicità

La speranza per migliaia di profughi di superare i confini ungheresi, ad esempio, s’è infranta davanti a un filo spinato spagnolo commissionato dal presidente Viktor Orbán: 175 chilometri di rete metallica dispiegati lungo la frontiera con la Serbia.

non spine, ma lamine d'acciaio. Particolare dal sito della ESF

Un grande affare per la ditta che, proprio mentre i camion dall’Andalusia partivano alla volta dell’Europa dell’Est, aveva diffuso un festoso tweet: “Da qui al resto d’Europa! Il 100 per cento del filo spinato in Europa proviene dalla nostra fabbrica”. Allora sui social piovvero una valanga di insulti e la ditta fu costretta a chiudere tutti i suoi account. Il modello dentato scelto per la frontiera ungherese è stato lo stesso che tutt’ora s’innalza sul confine iberico di Ceuta e Melilla per impedire il passaggio degli immigrati del Nord Africa, il modello 22. Non è il peggiore delle dieci tipologie che la ditta può offrire ai suoi clienti, ma è classificato per “livelli di sicurezza medio alti”.
Le lame, in questo caso, circa 22 millimetri di lunghezza per 15 di larghezza, sono all’origine della polemica con molte organizzazioni internazionali, compresa l’agenzia Onu per i rifugiati, sulla loro pericolosità per le persone.

L’ultima morte attestata per diretta conseguenza delle lame Esf è stata nel 2009, quando un senegalese è morto dissanguato lungo la linea di confine di Ceuta. Oggi difficilmente la ditta andalusa si sbottona. Il business continua a crescere senza sosta, ma dopo le ultime critiche preferiscono non parlare. Entro l’estate la Bulgariaposerà 146 chilometri di filo spinato lungo il confine con la Turchia, con lo scopo di prevenire l’ingresso illegale di migranti. Lo ha annunciato il ministro degli Interni, Rumyana Bachvarova, a fine maggio.

Probabile che anche questa recinzione arriverà dalla Spagna, ma la risposta dell’azienda iberica è a dir poco laconica: “Per politica di riservatezza non possiamo fornire le informazioni richieste. I nostri clienti fanno gli ordini, ma non sappiamo il loro uso finale”

La Repubblica, 31 maggio 2016 (m.p.r.)

«Fanno il deserto e lo chiamano pace» è una citazione latina che andrebbe rivisitata in: «Fanno il deserto e lo chiamano mercato». Questo è successo a quel pezzo di agricoltura italiana che ha perso di vista il senso del proprio operare. L’agricoltura deve produrre cibo. Ma il mercato non sa che farsene del cibo.

Il mercato vuole merce, perché la merce produce più profitto. Così fare latte in Italia ha smesso di essere un mestiere per diventare una produzione qualsiasi. E le produzioni devono crescere. Si è lavorato sulla genetica, sulle premedicalizzazioni, sulle porzioni bilanciate, su qualunque cosa potesse servire a fare almeno il doppio dei litri di latte che una vacca produrrebbe seguendo i ritmi dei pascoli, della sua razza, delle sue gravidanze. Un mestiere perde ogni logica, un paesaggio si devasta di capannoni, un’alimentazione si svuota di gusto e di nutrienti. Non importa, i profitti crescono.

Ma arriva il momento in cui il deserto si manifesta. E chiede il conto. Quando chiude una stalla non è come quando chiude una discoteca. Quando chiude una stalla un intero territorio si disconnette, si svuota di saperi, di ritmi, di piccole e grandi economie locali, di progetti per il futuro. L’agricoltura è un tessuto fitto, se si fa un buco si strappano tantissimi fili.
Riannodiamo i fili, ripartiamo dall’abc: a) Il latte non esiste. Esistono tanti latti quanti sono i modi di fare un mestiere antico e solenne come quello dell’allevatore. b) Il latte non si fa nelle aziende di pastorizzazione e confezionamento. Si fa in territori che hanno un nome e un profilo culturale, e i cittadini hanno diritto a sapere da quale territorio e da quale agricoltura viene il latte che acquistano. c) Il latte, quello vero, esiste ancora e va pagato fior di quattrini. Lo fanno tanti giovani e non giovani allevatori che si stanno preparando a salire in montagna per l’estate.
Ai nostri politici che in Europa dovranno lavorare sul tema dell’origine degli alimenti e a quelli che dovranno occuparsi del prezzo del latte chiedo un gesto di formazione professionale: accompagnateli in montagna, anche solo per un giorno. Toccate quegli animali, guardate in faccia i loro padroni. Poi ditemi se riuscite a tornare a Bruxelles a dire che il latte è tutto uguale, che l’origine non importa e 28 centesimi al litro possono bastare.

Mimesis. Il nichilismo di un mondo che fa della crescita infinita la sua religione. Il libro sarà presentato oggi al polo universitario Roma3. Il manifesto, 18 maggio 2016 (p.d.)

Si può narrare di tempi lontani e insieme parlare dello spazio e degli spazi che ci circondano? Si possono narrare le gesta concettuali di grandi pensatori del passato e scrivere un testo denso di implicazioni politiche, etiche ed ecologiche che investono profondamente il presente? Si può, oggi, fare filosofia pratica? Se una cosa ha insegnato il pensiero (non solo) francese del XX secolo è che non esiste un pensiero puro, privo di effetti nel presente; che ogni teoria è al contempo una pratica concreta che definisce limiti e contorni di visibilità e di azione, al di là delle buone intenzioni di chi produce pensiero.

Pensare significa produrre degli effetti e il presente è il suo spazio d’azione, il suo campo da gioco con i suoi pericoli e i suoi contrasti. E il libro di Stefano Righetti, Etica dello spazio. Per una critica ecologica al principio della temporalità nella produzione occidentale (Mimesis, pp. 112, euro 18), è la narrazione di un pericoloso gioco di contrasti e dei suoi effetti nel nostro modo di percepire, di vivere e di rapportarci al nostro presente, alla nostra spazialità, ai nostri habitat e alle nostre storie. Il volume sarà presentato oggi all’università di Roma 3 da Ubaldo Fadini, Manlio Iofrida, Giacomo Marramao (ore 13).

La narrazione di un paradosso

Come ogni narrazione, anche questa ha dei personaggi. Il principale ha il nome di Occidente. Già il suo nome è un paradosso: è una definizione spaziale che, tuttavia, indica un destino temporale. Forse, la grande rivelazione dell’epoca globale consiste in questo: occidente ha perso qualsiasi riferimento spaziale, invadendo terre lontane, inglobando nel palcoscenico della Storia attori molteplici e differenti. La Storia (d’Occidente) non è affatto finita, prosegue, al contrario, ostentando una presunzione d’illimitato, spingendosi sempre oltre, nell’idiosincrasia della crescita infinita. Il personaggio di cui ci parla Righetti,Occidente, è ossessionato dall’invisibile, dal non ancora, dall’irraggiungibile e al contempo intimorito dal mutabile, dalla molteplicità, da ciò che sfugge ai suoi valori, alle sue fobie, ai suoi isterismi.

Righetti si muove all’interno di questa narrazione (che è, poi, la narrazione che il Logos fa di se stesso) con un intento, quanto meno, duplice e complementare. Da un lato, egli usa come filo conduttore la storicizzazione dello spazio (o degli spazi: urbani, visivi, naturali) legata ad una nevrotica necessità d’infinito che l’insonnia del pensiero alimenta dentro di sé: la combinazione mortifera di accumulo capitalistico e devastazione ambientale. Questo è il filo principale, l’obbiettivo positivamente determinato. Tuttavia, dall’altro lato, sembra voler lasciare la sensazione al lettore che quella non sia l’unica strada possibile, che non ci sia solo la Storia, quella fatta con la S maiuscola, dei grandi eventi e delle grandi opere; che nelle grandi trasformazioni, nelle rivoluzioni (politiche, sociali, tecnologiche, scientifiche) si aprano sempre spiragli e linee di fuga che fan sì che non esista solo la storia; che forse la geografia – e con essa gli spazi – sia possibile al di là del desiderio di conquista; che, nonostante la «Grande Storia», sia possibile costruire artigianalmente piccole storie minori, fatte di spazi di manovra, spazi d’azione, spazi di gioco che siano al di qua del tempo tiranno, che si ritrovino immerse nello spazio visibile, senza bisogno di un principio esterno che ne giustifichi l’esistenza (leggi eterne, della fisica come del padre). Sotto il tempo delle rivoluzioni perpetue (industriali, borghesi, civilizzatrici), si annidano spazi visibili. Bisogna però imparare a guardare.

Geografia del visibile

Pensare significa, dunque, produrre spazi di visibilità e di discernimento; pensare è un’azione concreta nel mondo e fa sì che si modifichi il modo in cui noi lo vediamo (con gli occhi del corpo e della mente). Ecco, allora, che il filo critico principale non è autoreferenziale, non basta a se stesso, non si accontenta di mostrare che ci sono stati degli errori di valutazione, ma ci invita, prima di tutto, a guardare il mondo in modo differente, a riappropriarci della nostra dimensione di soggetti corporei, di carne sangue e nervi che, in quanto tali, si muovono, agiscono e producono nello (e dello) spazio.
La temporalizzazione, nella sua visione dell’eterno progresso e della crescita infinita (a pieno discapito di rapporti improntati sulla reciprocità con la natura), ha fatto della produzione l’azione (di creazione e trasformazione della natura) di soggetti alienati dai propri spazi, esistenziali e di vita, nella perpetua volontà del lontano, dell’assenza, del mai-qui. Ma la produzione non è esente da luoghi e mondi (naturali e culturali) che sono sempre qui e ora. Ma questi essere qui ed ora non sono immediati, bisogna imparare a riconoscerli e a cercarli. Ed è proprio qui che il pensiero smette di essere critico, impegnandosi in un preciso compito etico-ecologico, in un gioco di produzione che non sia meramente economico-materialistico di sfruttamento delle nature (umane e non), ma di spazi di discernimento, di margini d’azione, di visibilità in una Storia che è sempre, prima di tutto e al di là di risvolti ideologicamente orientati, una geografia del visibile; in un apparire che basti a se stesso senza attendere l’instaurazione di regimi di senso trascendenti per acquisire il proprio valore, valore che si trova sempre al di qua di un principio di scambio o di uso, ma che investe i soggetti (umani e non) nel regime complesso della vita e dell’esistenza.

La critica ecologica del sottotitolo significa, in ultima istanza, scoprire e produrre quella gloria del visibile che non risiede nell’alto dei cieli, né nella pura teleologia della storia, ma è, al contrario, tutta da produrre a partire dal nostro presente e dalla nostra carne; per scoprire che la Storia non finirà tanto facilmente, ma, lontani dal pessimismo nichilistico del postmoderno, è ancora possibile immaginare che siamo, in fondo, più forti del nostro passato e che il futuro è sempre un’orizzonte del nostro presente.

Il futuro, allora, è possibile (nel bene, come nel male) soltanto a partire dalla nostra inerenza pratica e fattuale con il presente, che è sempre presenza – anche se, alle volte, è presenza dell’assenza.

Il manifesto, 14 maggio 2016

Nel corso del Novecento gran parte dell’attenzione degli studiosi era rivolta alla tendenziale distruzione delle economie precapitaliste, incorporandole nelle relazioni capitaliste della produzione. Il periodo post-1980 rende visibile un’altra variante di questa appropriazione attraverso l’incorporazione. È la distruzione non delle modalità pre-capitaliste, bensì di varie strutture capitaliste keynesiane con lo scopo di favorire l’affermarmazione di una nuova specie di capitalismo avanzato, che possiamo definire «estrattivo».

La crescente importanza dell’estrazione nel XXI secolo ha sostituito il consumo di massa come logica dominante di gran parte del XX secolo. Il consumo di massa mantiene la sua importanza, ma non è più un fenomeno capace di creare nuovi ordini sistemici, come è successo in gran parte del XX secolo, come testimonia la costruzione di vasti insediamenti residenziali suburbani, dove ogni famiglia acquistava di tutto e di più anche se, ad esempio, si poteva tosare l’erba solo una volta alla settimana.

Solo oggi, all’inizio del XXI secolo, questa logica organizzativa post-keynesiana affermatasi negli anni 1980 ha reso perfettamente leggibile la sua forma. In un mio volume precedente, The Global City (Le città globali, Utet) avevo documentato il fatto che stesse emergendo una nuova dinamica capitalista; e che una delle sue caratteristiche fosse l’indebolimento di quelle che all’epoca erano classi medie ancora prospere e in crescita. Sostenevo, cioè, che nelle grandi città (globali) stesse emergendo un nuovo ordine nella stratificazione sociale caratterizzato dalla crescita di classi medie ben pagate e, all’altro estremo, di una classe media impoverita.

Rispetto a quel periodo, il nuovo sistema economico ha favorito una forte polarizzazione alle estremità dello spettro sociale e un conseguente riduzione del «centro», elemento questo che ridotto enormemente la mobilità delle classi lavoratrici verso l’alto. All’epoca le mie conclusioni sono state respinte da molti studiosi: molti di coloro che analizzavano il capitalismo preferivano concentrarsi su una dimensione nazionale, mentre io vedevo nelle «città globali» come l’avanguardia di una nuova logica sistemica.

La stagione del debito

Questa emergente logica sistemica comporta, in termini drammatici, l’espulsione delle persone dai luoghi dove sono nati e la distruzione del capitalismo tradizionale allo scopo di soddisfare i bisogni, anche qui sistemici, dell’alta finanza e l’accesso delle imprese alle risorse naturali. Da sottolineare il fatto che le logiche tradizionali o familiari nell’estrazione di risorse per soddisfare i bisogni nazionali potrebbero comunque preparare il terreno per l’intensificazione sistemica del capitalismo «estrattivo».

Una possibile interpretazione del passaggio dal modello keynesiano a quello attuale è dunque concepirlo come il passaggio dal consumo di massa all’estrazione. Per gran parte degli anni Ottanta e Novanta i paesi poveri indebitati sono stati chiamati a versare una quota degli utili derivanti dalle esportazioni per risanare il debito contratto con organismi sovranazionali (il Fondo monetario internazionale) o imprese finanziarie. Questa quota era intorno al 20%: una percentuale molto più alta di quella richiesta in altri casi. Ad esempio, nel 1953 gli Alleati cancellarono l’80% dei debiti di guerra della Germania e pretesero solo il versamento del 3-5% degli utili derivanti dalle esportazioni per risanare il debito. E negli anni 1990, dopo la caduta dei loro regimi comunisti, chiesero solo l’8% ai paesi dell’Europa Centrale.

Esodi planetari


In contrasto con il progetto di sviluppo economico nell’Europa uscita dalla Seconda Guerra Mondiale, dagli anni 1980 l’obiettivo per quanto riguarda i paesi del Sud Globale era invece simile a un regime disciplinare volto all’estrazione delle ricchezza e delle risorse naturali anziché allo sviluppo. La dinamica riguardante il Sud globale aveva un primo momento, dove i paesi coinvolti erano costretti ad accettare i programmi di ristrutturazione e dei finanziamenti provenienti dal sistema internazionale, nonché, forse l’aspetto più importante, l’apertura delle loro economie alle imprese straniere per quanto riguarda le risorse naturali e la produzione di merci destinate al consumo locale. Una apertura che ha favorito lo sgretolamento dei settori nazionali del consumo in America Latina, Africa sub-sahariana e alcune parti dell’Asia.

Trascorsi 20 anni, è apparso chiaro come questo regime non abbia rispettato le componenti fondamentali necessarie per un sano sviluppo economico. Il risanamento del debito era infatti una priorità rispetto lo sviluppo di infrastrutture, sistema sanitario, formazione, tutti elementi necessari per il benessere della popolazione. Il predominio di questa logica «estrattiva» ha consolidato un un meccanismo teso a una trasformazione sistemica di quei paesi che andava ben oltre il pagamento del debito, dato che è stato un fattore chiave nella devastazione di vasti settori delle economie tradizionali, come la produzione su piccola scala, della distruzione di buona parte della borghesia nazionale e della piccola borghesia, del grave impoverimento della popolazione e, in molti casi, della diffusione della corruzione nell’amministrazione statale.

Accanto a ciò abbiamo assistito al fatto che i paesi dell’Opec (cioè i paesi produttori ed esportatori di petrolio) hanno deciso sin dagli anni Settanta di trasferire l’improvvisa ricchezza accumulata alle grandi banche occidentali: un fattore che ha costituito la condizione per promuovere i finanziamenti ai paesi del Sud Globale.

Le élites predatrici


Tra pagamento degli interessi e aggiustamenti strutturali questi paesi hanno ripagato più volte il loro debito, senza mai riuscire veramente a rimborsarlo, provocando il collasso di governi usciti dalle lotte per la liberazione nazionale degli anni Sessanta e Settanta. Il risanamento del debito è divenuto infatti uno degli strumenti chiave per spingere molti di questi governi verso un approccio neoliberale: diventare importatori e consumatori, anziché produttori. Nell’insieme, la massiccia espansione del settore minerario e di altri settori estrattivi e, in particolare, l’espropriazione dei terreni per l’agricoltura e, più recentemente, l’espropriazione delle acque per aziende come Nestlé e Coca Cola hanno prodotto «zone speciali» per l’estrazione e governi dominati da élite predatrici.

I piani di austerità attuati in gran parte del Nord Globale sono una sorta di equivalente sistemico di ciò che è accaduto al Sud. Alcuni esempi sono i tagli dei servizi pubblici, delle pensioni per i lavoratori, del sostegno ai poveri e i tagli, o l’aumento, dei prezzi in una serie di altri servizi pubblici. Assistiamo inoltre a innovazioni che mirano a estrarre tutto quanto possibile dal settore pubblico e dalle famiglie, comprese quelle povere. Un caso è la crisi dei mutui sub-prime iniziata nei primi anni 2000 ed esplosa nel 2007. Secondo la Federal Reserve statunitense, alla fine del 2014 avevano perso la casa oltre 14 milioni di famiglie, pari ad almeno 30 milioni di individui.

Possiamo quindi individuare una relazione tra capitalismo avanzato e tradizionale caratterizzata da dinamiche predatorie anziché da evoluzione, sviluppo o progresso. I modelli attuali qui brevemente descritti possono comportare l’impoverimento e l’espulsione di un numero sempre più alto di persone che cessano di costituire un «valore» come lavoratori e consumatori. Ma significa anche che le piccole borghesie tradizionali e le borghesie nazionali tradizionali cessano di avere un «valore».

Trafficanti di organi

I processi di trasformazione che rafforzano la base dell’attuale capitalismo avanzato sono quindi concentrati su «logiche estrattive» anziché sul consumo di massa. Il consumo di massa è ovviamente ancora importante, ma non è più la logica dominante, il che contribuisce anche a spiegare l’impoverimento delle classi medie e lavoratrici: il loro consumo conta molto meno per i settori dominanti di oggi. Di particolare importanza sono inoltre gli insiemi di particolari processi, istituzioni e logiche che vengono mobilitati in questa trasformazione/espansione/consolidamento sistemico.

Un modo per interpretare questi cambiamenti è vederli come l’espansione di una sorta di spazio operativo per il capitalismo avanzato che espelle le persone sia nel Sud che nel Nord globale incorporando territori per attività minerarie, l’espropriazione dei terreni e delle acque, la costruzione di nuove città.

Le economie devastate del Sud globale, vittime di un decennio di risanamento del debito, vengono ora incorporate nei circuiti del capitalismo avanzato attraverso l’acquisizione accelerata di milioni di ettari di terreno da parte d’investitori esteri per coltivare cibo ed estrarre acqua e minerali per i paesi che investono. Poco viene fatto per sviluppare le infrastrutture utili alla sopravvivenza delle popolazioni povere e a basso reddito. È un po’ come volere solo il corno del rinoceronte e gettare via il resto dell’animale, svalutarlo, indipendentemente dai vari utilizzi possibili. Oppure usare il corpo umano per coltivare determinati organi e non riconoscere alcun valore agli altri organi, per non parlare dell’intero essere umano, che può essere interamente eliminato.

Questo cambiamento sistemico segnala che il marcato aumento delle persone emarginate, povere, uccise da malattie curabili fa parte di questa nuova fase. Le caratteristiche fondamentali dell’accumulo primitivo ci sono, ma per vederle è essenziale andare oltre le logiche dell’estrazione e riconoscere la trasformazione sistemica come un fatto, con procedure e progetti in grado di cambiare il sistema – l’espulsione delle persone che ritrasforma lo spazio in territorio, con le sue varie potenzialità.

Si è aperto il cinque maggio il BergamoFestival «Fare la pace», che aveva come tema portante «Muri che si alzano, confini che si dissolvono». Pensata come un insieme nomade di incontri, l’iniziativa è scandita da discussioni sullo stato del mondo, ma anche di come i muri alzati possano coinvolgere non solo le frontiere nazionali, ma anche la realtà sociale. Il sei maggio la filosofa ungherese Agnes Heller ha parlato del «paradosso dello Stato-nazione europeo e dello straniero». Il 10, invece il padre gesuita francese Gaël Giraud è intervenuto su «La grande scommessa- Dare regole alla finanza per salvare il mondo». Oggi sarà la volta di Saskia Sassen, della quale pubblichiamo brani della sua relazione» che parlerà di «La solitudine dei numeri primi. La vita sulla terra ai tempi della globalizzazione». Colin Crouch interverrà invece su «Chi governa il mondo. La democrazia dopo la democrazia». Per tutte le informazioni:

© 2024 Eddyburg